Monday, September 23, 2024

GRICE ITALO A/Z L L2

 

 

Grice e Licenzio: la ragione conversazionale e il filosofo poeta – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – A pupil of Agostino. He achieves a reputation of a poet. Licenzio.

 

Grice e Limenanti – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. La dialettica come materia di studio trapassa DA ROMA a BOLOGNA nel Medio Evo. Gli scritti tratteggiati di Marciano Capella, di BOEZIO (si veda), di Cassiodoro, e in parte anche di Agostino e del Pseudo-Agostino, son le fonti esclusive che offrirono allora il materiale per lo studio della logica a BOLOGNA, la prima scuola d’Europa. Li tutt’i luoghi dove, in connessione con il (Rifondersi del Cristianesimo, o sorsero numerosi centri di cultura del tutto nuovi, o anche fu talvolta possibile riattaccarsi ad istituti antichi, troviamo co¬ munemente adottato il corso di studi, più o meno compiuto, del TRIVIO – grammatica filosofica, dialettica, e retorica -- e del Quadrivio – arimmetica, geometria, astronomia, e musica. E sebbene il quadrivio non e coltivato dovunque alla stessa maniera, regna tuttavia per lo più una certa uniformità nello studio del trivio, in quanto che non c’e scuola dove queste tre arti mancano. Non è frase o esagerazione il giudizio che pronunziamo relativamente alla dialettica, che cioè l’intiera ITALIA, per tutta la estensione in cui in generale la filosofia nella sua graduale diffusione è venuta a contatto con esso, è stato addottrinato dalla tradizione dei filosofi, testé nominati, della tarda ROMANITÀ, che cioè in ITALIA si venne effettivamente a conoscenza di un certo materiale di teorie logiche, e anzi soltanto, in modo esclusivo, sul fondamento di quella tradizione. Appunto per questo riguardo, tuttavia, sembra che la storia della dialettica non deve già esorbitare dal campo che le spetta. Si dà cioè il caso che da notizie isolate sopra istituzioni scolastiche, o da cataloghi di biblioteche, e via dicendo, non risulti assolutamente nient’altro, se non che in questo o quel luogo o era semplicemente conservato, o in una qualunque scuola claustrale era anche soltanto letto uno saggio di dialettica, opera di Marciano Capella o di BOEZIO (si veda) ecc., ovvero che c’ è stato chi si è coltivato la mente con questa lettura, o l’ha raccomandata ad altri, e così via. Orbene, queste notizie, per quanto preziose ci possano apparire, proprio a cagione della loro sporadicità, noi dobbiamo lasciarle alla storia generale della filosofia o alla storia della universita di BOLOGNA; poiché per la storia della dialettica basta in generale il fatto di un diffuso esercizio delle sette così dette arti liberali, quale generico fondamento per entrar a parlare del Medio Evo, e su questa base dobbiamo poi andare qui in traccia di ciò che e prodotto da ima personale, per quanto ristretta, attività, di singoli filosofi, e che perciò presenta elementi, i quali hanno contribuito al progresso della filosofia nel corso della sua storia. Inoltre, simili dati, anche se per essi non si oltrepassi la cerchia del materiale apparentemente insignificante, conterranno poi bene in sè a lor volta qualche elemento, che permetta di trarre induzioni relativamente a ciò che dicevamo dianzi, che cioè accanto all’attività individuale isolata, ha da esserci stata una operosità collettiva, rimasta attaccata semplicemente al testo della tradizione dei libri scolastici. Si diffonde nelle scuole la dialettica della tarda LATINITÀ. Ma ima osservazione sola, riguardo a questo materiale scolastico, bisogna premetterla subito qui, in tutto il suo rigore e in tutta la sua estensione. Dobbiamo cioè fin dal principio tener fisso lo sguardo sopra l’assoluta esclusività del materiale stesso, cioè in primo luogo sopra il fatto che questi prodotti filosofici LATINI sono incondizionatamente i soli che si trovassero in circolazione, e che pertanto l’ITALIA non conosce nè poteva adoperare in generale, per la dialettica, nessun’ altra fonte, all’ infuori da Marciano Capella, BOEZIO (si veda), Cassiodoro e l’autentico o lo spurio Agostino. A questo periodo del Medio Evo e possibile, intorno alle opere che stanno a fondamento della dialettica, solamente quella conoscenza di seconda mano, che puo esser attinta appunto a questi filosofi; e particolarmente gli scritti del LIZIO (anzi in generale addirittura anche il nome soltanto di Aristotele) sono conosciuti esclusivamente in quella sola forma, in cui li aveva trasmessi BOEZIO. Quando in documenti si trovano menzionati saggi del LIZIO, non si può pensare a nient’altro assolutamente, se non appunto a queste traduzioni di BOEZIO. Così p. es., quando ') Per Tintento presente debbo pertanto lasciar da parte un materiale di fonti, non scarso e che sono riuscito a raccogliere non senza fatica, un materiale che o si gonfierebbe sino a formare una storia di BOLOGNA, oppure, anche a volersi limitare (cosa del resto non facile a farsi), a una scelta di passi, strappati dal contesto e solo attinenti alla dialettica filosofica, comprenderebbe pur sempre soltanto la documentazione di un fatto, anche senza di ciò universalmente noto, che cioè il contenuto della scienza scolastica e formato da quelli filosofi nominati più sopra.]  tra i libri della Biblioteca di York viene nominato anche un « aoer ArisBobeles » 2 ), o quando troviamo ricordate a Tegemsee le Categorie di Aristotele. Certamente, che simili passi sieno tutti da spiegare soltanto a questa maniera, e perfettamente chiarito al lettore, grazie, per così dire, alla sua personale esperienza, soltanto da ciò che si dirà appresso, come pure dal trapasso a quel periodo, in cui venne a conoscenza del Medio Evo il testo del LIZIO. Ma si è ritenuto non superfluo delimitare esattamente fin da questo momento il campo visivo. Naturalmente una eccezione soltanto apparente è data dalla tradizione di un Bulgaro, un certo Simone, che avrebbe studiato a Costantinopoli la sillogistica di Aristotele. Poiché, che nell’IMPERO ROMANO di Oriente i greci si occupassero di tale materia, si è ba- [La biblioteca fondata a York da Alberto è descritta dallo scolaro di lui, Alcuino, nel suo poema De Pontificibus et Sanctis ecclesiae Eborucensis, Aixuini Opera, ed. Frobenius. Ivi si legge, [Fersus de Sanctis Euboricensis Ecclesiae: cfr. MGH, Poetile latini nevi Carolini, ed. Dùmmler]: Qiute Victor inus script ere BOEZIO alque, Historici velerei, Pompeius, PLINIO, ipse Acer Aristoteles, rhetor quoque TuUius CICERONE ingens [P!L]) Un monaco di Tegernsee scrive in una lettera (riferita dal Pez, Thesaurus Anecdotorum Novissimus,  [Codex diplomatico- historico-epistolaris di Pez e Hueber): stultam fecit Deus sapientiam mundi huius (queste son parole di S. Paolo, ad Corinth.), poslquam exsiccayit fluvios Ethan. Prae dulcitudine enim decem chordurum Davidis.... paene oblitus sum totidem culegoriarum Aristotelis.Posso qui rinviare fino da ora per il momento al noto eccellente lavoro di Jourdain, Recherches critiques sur Page et l’origine des traductions latines (TAristote, Parigi, sia pure riservandomi di doverlo in più luoghi correggere e integrare. Liutprandi Antapodosis Pertz, MGH: hunc etenim Simeonem emiargon, id est semigraecum, esse idebunt, eo quod a puericiu Bizantii Demostenis rhetoricam Aristotelisque silogismos didicerit [PL]. Ma c’ è una notizia isolata, e una soltanto, che potrebbe sembrare in contraddizione con il giudizio da noi pronunziato. Cioè, Papa Paolo I manda a Pipino il Breve, vari scritti, citando egli stesso tra questi, nella lettera relativa, anche libri del LIZIO; tuttavia il documento, se è genuino, e della sua autenticità non sembra esserci ragione di dubitare, parla assai più a favore che non contro la nostra tesi, poiché manifestamente questo esemplare, unico allora in quella regione, di mi testo del LIZIO, rimane sepolto presso la corte di Francia, oppure anda perduto, non riscontrandosi almeno in alcun luogo la minima traccia di uso che ne sia stato fatto. Inoltre, per quei paesi, la prima sicura notizia di traduzioni dal LIZIO, cade anzi in generale soltanto all epoca di Carlo Magno, e appresso verniero ancora i lavori dello Scoto Eriugena (traduzione del Pseudo-Dionigi. La lettera è stampata da Cajetanus Cenni, Monumenta dominationis pontificiae, si ve Codex Carolinus (Roma), dove figura il passo. Direximus edam excellentiae vestrae et libros, quantos reperire potuimus, id est, Antiphonale, et Responsale, in simul artem grammaticam, Aristotelis, Dionysii Ariopagitae libros (nel Cenni si legge, senza segno di divisione, artem Grammaticam Aristotelis), Geomelricam, Orthographiam, Grammaticam, omnes Graeco eloquio scriptores. La frase “graeco eloquio’, il cui significato nel linguaggio dell’epoca è fissato con piena sicurezza, si rifere certo esclusivamente ai libri su nominati, soltanto a incominciare da Aristotele, perchè 1’ Antiphonale e il Responsale sono naturalmente in latino, e così pure probabilmente la prima grammatica, mentre la seconda e in greco. Del resto non si trova questa notizia utilizzata in Jourdain. P. es. nel Chronieon Saxoniae et vicini orbis Arcloj di David Chttraeus (Lipsia  [ed. di Rostock): Instiluit autem Carolus Osnabrugae, ut in collegio [BOLOGNA] assidui lectores Latinae linguae essent. Vidi enim cxerulli um literarum fundationis, ut vocant, quas ecclesiae Osnabrugensi Carolus dedit. E così in molti luoghi, ma sempre con riferimento alla nota ambasceria della Imperatrice Irene e alle relazioni diplomatiche, che ne furono determinate. La tradizione della dialettica scolastica, nei riguardi delle traduzioni di BOEZIO, è limitata e s’ignorano le principali opere logiche di Aristotele. In secondo luogo, tuttavia, anche quel materiale di fonti IN LATINO è, a sua volta, proprio nella parte essenziale, limitato. Mentre cioè gli scritti del LIZIO avrebbero potuto esser letti tutti quanti nelle traduzioni di BOEZIO, che sono per tale oggetto LA UNICA FONTE, proprio qui si presenta ima rigorosa delimitazione; poiché della su citata produzione letteraria di BOEZIO, si adoperano in modo esclusivo soltanto quelle traduzioni, eli egli stesso illustra con commenti e apprestate per uso scolastico A BOLOGNA, cioè, oltre alla doppia ri-elaborazione dell’ “Isagoge” di Porfirio, soltanto la traduzione delle Categorie e le due edizioni del libro de interpretatione [cf. “the only two things on which I lectured with J. L. Austin at Oxford” – H. P. Grice], a cui si aggiungono poi a poco a poco ancora i compendi che son opera dello stesso BOEZIO. All’ incontro, le versioni dei due Analitici, come poire della Topica aristotelica e dei Sophistici elenchi, tutte opere che BOEZIO lascia LATINIZZATA si senza commento, rimaneno, appunto per questo motivo, escluse dalla considerazione, e si sottrassero pertanto alla conoscenza, a tal punto che per lungo tempo non si sa in generale nemmeno più che esistesno. Sicché, quando a poco a poco incominciarono a rendersi note quelle opere principali del LIZIO, e questo un momento decisivo per lo sviluppo della dialettica. E mentre L, ritene fallaci tutt’ i tentativi di dividere in periodi, per motivi interni, la così detta « filosofia » medievale, mi sembra resa possibile per 1 intiero Medio Evo una parti¬ zione in singoli periodi, esclusivamente dal punto di vista della quantità del materiale, di volta in volta esistente o novamente apportato. Così potrei anche nettamente qualificare la differenza, rilevando elle prevale qui una conoscenza frammentaria di BOEZIO, mentre nella Sezione prossima si manifesta un influsso chiaramente visibile, così della conoscenza, che a poco a poco si acquista, DELL’INTIERO BOEZIO, come pure dell’ apprestamento di traduzioni nuove delle opere non utilizzate finora; a ciò si aggiungono in sèguito per le Sezioni successive analoghi arricchimenti di materiale. La dimostrazione di queste 1 mie idee e presentata, come ben s’intende, qui appresso. In poche parole, dunque — per ripetere la delimitazione così recisamente e chiaramente quant’ è possibile — , il materiale tradizionale della dialettica, per questa prima sezione del Medio Evo, è costituito esclusivamente da quanto segue: Marciano Capella, Agostino, pseudo- Agostino. Cassiodoro, e BOEZIO. E, precisamente, di BOEZIO: ad Porphyrium a VITTORINO translatum, ad Porphy - rium a se translatum, ad Aristotelis Categorias, ad Aristotelis DE INTERPRETATIONE, ad CICERONE Topica, Introductio ad categoricos syllogismos, De syllogismo categorico, De syllogismo hypothetico. De divisione, De defninone, De differentiis topicis. Manca invece in questo primo periodo la conoscenza dei due Analitici, della Topica e dei Sophistici elenchi di Aristotele. E limitandosi lo studio della filosofia in modo esclusivo alla DIALETTICA, mentre altri rami, come ■s p. es. la PSCIOLOGIA RAZIONALE e l’ETICA, sono sistematicamente intrecciati con la teologia morale, anche per la filosofia in generale i suddetti filosofi formano il materiale quasi esclusivo; poiché vi si aggiunge ancora solamente, riguardo alla COSMOLOGIA, la traduzione del Timeo piatonico, opera di Calcidio: come pure, d’altra parte, per la così detta questione della teodicea, un materiale spesso sfruttato era fornito dal De consolatione philosophiae di Boezio. Ma duplice e l’attività personale, esercitata da insegnanti o da filosofi di tutto questo periodo, sopra siffatto materiale esclusivo della tradizione scolastica. Vale a dire, o si tratta di aggiustare compendi, per lo più dominati da un affastellamento di svariate fonti, accozzate a casaccio (in maniera del tutto simile a quel che abbiamo dovuto rilevare particolarmente a proposito dello scritto di Cassiodoro [De artibus ac disciplinis liberalium littcrarum ]), oppure ci si occupa di un più o meno minuto COMMENTO dei libri già in uso, tra i quali si fanno avanti in prima linea la Isagoge e le Categorie nella redazione (traduzione e commento) di BOEZIO. Ma inoltre, alla discussione dei problemi della dialettica s’intrecciavano questioni di teologia GIUDEO-CRITSTIANA – non romana --, come pure le controversie della logica fanno risentire il loro possente influsso sopra le contese della dommatica, e anzi in generale domina da principio, per questo riguardo, una situazione molto caratteristica, che non si può lasciar esclusa dalla nostra considerazione. Atteggiamento della ortodossia rispetto alla logica. La dottrina GIUDEO-CRISTIANA, cioè, in se stessa — fatta del tutto astrazione dal processo di formazione delle idee GIUDEO-CRISTIANE in generale — e in verità, nel suo primo manifestarsi, informata ad assoluta semplicità e immediatezza, e parla all’ animo suscettibile di emozione religiosa. Ma nello stesso tempo si trova determinata, nel corso della sua ulteriore propagazione, a operare su di una popolazione, la quale in parte possede una cultura, formata per opera delle scuole che funzionavano nella tarda antichità, e che puo cosi cougiungere al contenuto nuovo di dottrma giudeo-cristiana e di Anta cristiana, un aspetto formale del mondo antico. Come da questa mescolanza d’immediatezza religiosa e di addottrinata capacità didattica, si svolgesse rapidamente l’antitesi fra LAICATO e clero, si formasse cioè una ecclesia docens, e come la Chiesa, per il fatto eh era docens, affatto naturalmente ponesse le mani sopra le istituzioni scolastiche, e così facendo si appoggiasse, formalmente, a quel che già esiste, sou cose che non c’interessano punto qui, nè più nè meno che le lotte, condotte con le armi della dialettica, e attraverso le quali si veniva compiendo la formazione del dogma. Invece è di grande interesse per noi la circostanza, che venne a manifestarsi da un lato una valutazione positiva, e dall’altro lato un disdegno della logica, come già si è appunto veduto per due eminenti rappresentanti della teologia giudeo-cristiana, cioè Girolamo e Agostino, che abbiamo dovuti ricordare più sopra, e dei quali particolarmente il secondo mostra molto chiaramente il presentarsi di quelle due tendenze, una accanto all altra. Ma quanto più energicamente e accentuato in tale contrasto il punto di vista specificamente giudeo-cristiano, tanto maggior importanza dove essere riconosciuta a quella intima immediatezza, che Agostino denomina lux interior: e non soltanto è cosa che si spiega facilmente, ma addirittura risponde a una esigenza teorica, che proprio i più rigidi fra i primi teologi giudeo-cristiani, mentre conduceno la polemica obbligatoria contro il contenuto dell’antica filosofia, hanno un atteggiamento molto riservato anche verso le forme di quella filosofia, da'l quale la fede non soltanto non può essere sostituita, ma resta anche sovente turbata. Fatto sta che così si forma anzitutto un’avversione sistematica contro la logica o dialettica, e se riflettiamo che nelle lotte per la formazione dei dogmi, proprio gl’Ariani e i Pelagiani hanno una effettiva superiorità per cultura e ABILITA DIALETTICA, ci riesce facile spiegarci come quell’avversione si sia sviluppata sino a diventare animosa ostilità. Non soltanto da Ireneo e Tertulliano, ma particolarmente nell’epoca culminante della contesa intorno ai dogmi, da Basilio il Grande, Gregorio Nazianzeno, Epifanio, Hieronymue Presbyter [Stridonensis: S. Girolamo], Faustino, Mansueto, Eusebio, Socrate, Teodoreto e altri, può citarsi una stragrande quantità di passi, nei quali LA DIALETTICA è tacciata di superfluità, o è denominata un ozioso operare, che distrugge se medesimo, e un’artificiosa filastrocca senza scopo, la quale per il suo carattere mondanamente versipelle non può profittare alla semplice pura verità, e in generale è ANTI-cri- [Basilo Magni adversus Eunomium (Opp ., ed. di Parigi): ij xòrv \ApioxoxéXo'JS 5vxwj xal Xpoaduioo auXÀoY'.sp&v éìei rcpòp xà |iaOetv Sxi 6 iYÉvvrjxo; où YSY^vrjxat ;  [PG « mira vere Aristotelis aut Chrysippi syllogismis opus nobis erat, ut disccrcmus eum qui ingenitus est, (neque a seipso, neque ab altero) genitum fuisse. Tertulliani de praescriptione haereticorum, Opp., ed. di Venezia): Miserum Aristotelem! qui illis dialecticam instituit, artificem struendi et destruendi, versipellem in sententiis, coaclam in coniecturis, duram in argumentis, operariam contentionum, molestarli etiam sibi ipsi, omnia relractantem, ne quid omnino tractaverit [PL], Grixohii Nazi.anzeni Oratio 26 (Opera, ed. di Colonia): oOx ol5s Xóy“ v o-potfà(, faas xe ooyibv xa l atviy|iaxa, xal xà; nóppcovo? ivaxàosig, f; è:pééeij, f) àvxiO-éosif, xal xù>v Xpualintou auXXoYiaptùv xàp éiaXùast?, ■?, xiòv 'ApioxoxéÀoog xsxvùv x^v xaxoxexvlav. Oratio: yaipovxsg xalj pspVjXoi; xsvo^òiviatf, xal àvxtOéaect xfjg (tsuìiovòpou Y v( ' ,aso) f’ xa i? eig oòSèv xpL ( at|iov cpepoùaaij XoY 0 l ia X^ al » [PG: Oratio nec verborura flexus et captiones novit, nec sapientoni dieta et aenigmata, nec Pyrrhonis instantias, aut assensus retentiones, aut oppositiones, nec syllogismoruin Chrysippi solutiones, aut pravorn artium Aristotelis artificiuin. PG Oratio quique inanibus verbis, et contentionibus falso nominatae seientiae, ac disputationum pugnis, quae nullam utilitatcm afferunt, obleetantur Epiphanii adversus haereses Opera, ed. Petavius, Colonia): Ssivóxrjxt gàXXov iaoxoùg ÈxSsStiixaaiv, èvSuaà|ievot ’ApiaxoxsXrjv xs xal xoòj SXXoog xoO xóo|iou StaXexxi- xoùs, iùv xal xo'jf xaprcoùg iiexlaat, |n;8Éva xapnòv 8ixaiooóvi){ eiSóxsf. lbid.. Ili, praef. (p. 809): èx ouXXoYiapffiv y àp xal ’Apiaxo-] -stiana. Epperò tutta la sillogistica, come deve venir meno dinanzi alle semplici parole degli Apostoli, serve dal canto suo ancor mia volta soltanto a contra- xsXixcòv xal Y Et0 ]iSTptxà>v xòv S-sòv Ttaptoxàv jìoóXovxai- Ibid., Ili, 76, 20 (p. 964): xaòxa Ss dxpatpstxai itàaav ooD xùv Xóyiov ouXXo- yumxijv nuÀoXoytav. Kal oì)x èv&èxt'tat ^{*^6 rcpoipé^aatf-ai jiath^ràs Yevéa&ai ’Apia'coxéXoos toD ao5 éicioxdtou»... Où Y a «° * v Xif(p aoXXoYtaxixip r/ [ìaa'.Xs'.a xcòv o&pavù>v, xal èv Xó^iji X 0 |iJta:mx, àXX" èv Suvct|isi xal àXYiO-stqc (v. nota 20). Ibid., 76, 24 (p. 9il): xpooèXaps xò 0-stov, ibg xaxà xòv aiv Xoyov, si; xr ( v auxoO xiaxiv xijv ouXXoYiaxtx^v xaùxnjv aou x^v xsxvoXoyiav. 1PG, calliditatem potius amplexi sunt, seque et ad Aristotelem ac caeteros mundi huius DIALECTICOS accommodare maluerunt: quorum fructus ita consectantur, nullam ut justitiae frugem proferant. PCI, quippe syllogismis quibusdam Aristotelicis ac geometrici Dei naturato explicare studeut. PG atque haec omnia tuam illam argumentorum fabulam circumscribunt. Neque id hortatione ulla pcrficere potes, ut Aristotelis praeceptoris lui discipuli esse velimus. Non enim in syllogismis argumentisve regnum cadeste positura est, neque IN ARROGANTI INFLATOQUE SERMONE, sed in virtute ac ventate ». PG, Deus, ut asse rere videris, tuum illud DIALECTICAE SVBTILITATIS ARTIFICIVM, velut quandam lidei euae accessioncm adjecit. Inoltre proprio in Epifanio si presenta con la massima frequenza affermazioni di questo genere. Cfr. Hieronvmi de perpetua virginitale B. Mariae adversus Helvidium (i Opp ed. di Parigi: Non campimi rhetorici desideramus eloquii, non dialecticorum tendiculus nec Aristotelis spineto conquirimus: ipsa Scripturarum verbo ponendo sunt [PL. Faustini de Trinitate adversus site de Fide contrai Arianos, Bibliolheca Veterum Patrum, cura Andreae Gallando, Venezia, VIE. Noli injelix adversus Christum Dominimi tolius creuturae, Aristotelis artificiosa argomenta colligere, qui te Christiunum qualitercumque profileris, quasi ex disciplina terrenae supputationis circumscriptor advenias [P.L. Theodoreti sermo de natura hominis (Opp., ed. Sirmond, Parigi) [ed. Festa] : fjpslg 8è aòxffiv xf ( v ipjtXrjgiav òXo^upò|isi>a 8xi 8»; ópùvxsg gapfapocpwvoog àvOpui- xoug xtjv 'EXXtjvtxTgv eÒYXtoxxlav vevixrjxóxag, xal xoòg xsxop'jis’Jiié- vo'Jg pùS-ODg xavxÉX&g ijsXtjXapivous, xal xoùg àXiEuxixoog ooXoixp opob? xoùg ’Axxixoùg xaxaXeXoxóxag E'jXXoyi3|ioù? [PG Graecarum affectionum curatio ): trad. Festa: Ma noi compiangiamo la stupidità dei derisori. Vedono' pure che uomini di barbara favella hanno vinta la facondia ellenica, hanno spazzato via. le loro ben composte favole, vedono che i solecismi dei pescatori hanno dissolto i sillogismi attici. Quest’allusione alla semplice parlata dei pescatori si trova pure altrove ancora piuttosto di frequente.] stare e falsificare la fede, come in particolare si vede nel caso degl’ariani, e così via dicendo. Ma se per tal modo LA DIALETTICA, della quale per lo pj£i g]*£} latto responsabile Aristotele, e precisamente in particolare a cagion della sofistica contenuta nelle Categorie, era quasi diventata oggetto di orrore, insorge tuttavia in pari tempo da se stesso il senso della necessità di potersi difendere ad armi uguali contro i nemici della dottrina ortodossa, ed è naturale che finisce con il prevalere questo motivo, che cioè LA DIALETTICA è UTILE per la lotta contro gli eretici. Quel che ora importa, e dunque lo spirito e la intenzione, con cui si coltiva lo studio della DIALETTICA, e a questa maniera si [Irenaei adversus contro haereses, Opp., ed. di Venezia): minutiloquium miteni et sublimitatem circa quaestiones, cum sit Aristotelicum, injerre fidei collant II r [cfr. PO, — Eusf.bii historia ecclesiastica, Opp., ed. di Parigi: Christum ignorarli, sed quaenam syllogismi figura ad suoni impietalem confimiaridaiti reperilur, studiose indagarunt; quod si quisquam forte illis aliquod divini eloquii testimonium pròjerat, quaerunt, ulriim CONIVNCTAM VN DISIVNCTAM syllogismi figuram possit efficere sollerti impiorum astutia et subtilitate simplicem ac sinceroni divinarum scripturarum fidem adulterant [cfr. PC, e Griechische Chrisùiche Schriftsteller traduzione latina di Rufinus, Hieronymi. adversus [Diulogus contrai Luciferianos, Ariana haeresis magis cum sapientiu seculi facit, et argumentationum rivos de Arislotelis fontibus mutuatur [PL) Socratis Historia ecclesiastica, ed. Valesii, Torino: siiOòc o&v èjjsvo?cóva: (intendi Aezio) xoòg èvxUYXà- vovxag. ToOxo 8è Ijxoìei, ta:j xaxrjYOpEcus’ApiaxoxéXoos zioxsóiov gt- jìXEov Ss oilxojf ixxlv èmYSYpa|i|isvov a 5 x(j> - ig aòxàìv xs SiaXsYÓpsvog [xal] iauxijì allaga 7xotv ’ApioxoxéXoos.] puo persino menar vanto delle proprie conoscenze in materia di DIALETTICA ; ma con ciò puo benissimo rimaner legata la idea, che proprio soltanto per ragioni estrinseche la teologia dommatica ha, servendosi della dialettica, messo il piede nel campo di un verbalismo affatto esteriore, e pertanto non ci fa meraviglia trovare più oltre ripetutamente un’aperta ostilità contro qualunque dialettica in generale. La Isagoge di Porfirio. Ma in ogni caso, come si è detto, la ecclesia docens e per questa via, pervenuta ad accogliere nell’ambito della propria attività una certa somma di teorie logiche, e una volta che, per uso dei chierici, sono adottati compendi quali si vogliano, — se pure con le debite riserve per quel che riguardava lo spirito informatore e la intenzione —-, puo e dove bene presentarsi inevita- ouXÀoytO|ix é>S àXy,9-eiav èxrtaiSeùovxa, àXX’oif; gjtXa x-ij« àXr^slaj xaxà xoù 4>eó8oo£ Y‘T vé l 1 ® va 82 > 1189 ‘ Aristotelis syllogismos, et Platonis facundiam aurium adjumentis e cieco didicit Didymus, non quasi veritatem ista doceant, sed quod arma sin! veritatis contra mendacium. Cyrilli Alexandrini Thesaurus de Trinitate, 11 ( Opp, ed. Auberl, Parigi: Ex pa8-vjpàxtov r,|nv xiòv'Apiaxoxé- Xoug ipiuópevot, xal xj Seivóxr ( xt xi)£ Ev x6o|i(p aotplag àTioxsxpxinivoi, xxóxoug èystpcuat ^'rjp.àxtov XEVtòv, oòx e18óxs£ 8 xi xal tipEg xaóxtjv àpaiHB? 8/ovxej èXsYX s ' 1 Ì 30VTal ' S-aupiaai 5 vxwj àxiXooS-ov. 6 xi 8V) xàv iispl xoa |isi^ovo£ xal xoO EXàxxovog Esexàsovxsf Xéyov, i-l xòv Ttspl xoO 6|ic£o’J xal àvopolou |iexar:sTCX(óxaotv, oOx eISóxe; 6 xt, xaxà xr/V ’ApiaxoxéXouj xiyyrp, 4 tp* % pàXiaxa |iEYaXo:ppovEtv Etónlaaiv aòxol, oùx et; xaùxòv xaxaxàxxExat. Y* V °S 33 1:5 6 l i0l0v xal xè àvópoiov. ó)( xal xò pst^ov xal xò IXaxxov [PG. Ea Aristotelica disciplina nobis insultantes, et mundanae sapientiae fastu turgidi, inanes verborum crepitus excitant, parum sibi persuadente se Aristotelicae disciplinae ignaros ostendi posse. Miran- dum enim est quod, rum rationeni majoris et minoris excutiant, ad sermonem de simili et dissimili prolabantur, nescientes, juxta Aristotelis placita quo ipsi plurimum sese jactitant, simile et dissimile non in eodem genere collocari, in quo maius et minus.] bilmente anche il caso di filosofi isolati, i quali, di quel materiale che dove altrimenti servire quale mezzo ordinato al fine, fanno oggetto speciale e indipendente del loro studio. E furono, per questo riguardo, prima di tutto le Categorie, che, in dipendenza dalla tradizione scolastica della tarda età classica, trovarono largo impiego nelle fondamentali questioni teologiche non pagane ma giudeo-cristiane, e soprattutto, precisamente, proprio in Agostino (relativamente alla Trinità e ai così detti attributi del divino. Anzi è persino possibile che già abbastanza anticamente si ritene autentico lo scritto pseudo-agostiniano sopra le Categorie, e ci si sente così francheggiati, nello studio di quest’oggetto, dall’AUTORITA dello stesso Agostino. Ma se le Categorie avevano in ogni caso un valore rilevante per la teologia pagana o romana e giudeo-cristiana, si ha in verità nello scritto di Porfirio, cioè nelle Quinque voces – genus, species, proprium, accidens, differentia -- una introduzione alle Categorie, ritenuta indispensabile nella scuola, e ben e’ intende come, sia per l’insegnamento sia per lo studio, si prende sempre principio dall’ “Isagoge”, che da uno dei commentatori e stata anzi persino indicata come condizione preliminare della beatitudine eterna. Ma tutti due, sia cioè il libro delle Categorie sia anche lo scrittarello di Porfirio, sono accessibili, per la Chiesa latina, nella traduzione di BOEZIO, e inoltre corredati anche di note illustrative, e così diventarono i principali testi scolastici medievali di dialettica. [Miseria del pensiero medievale]. Il corso della storia ci mostra come, esclusivamente dallo stu- [L’argomentazione e di questo tenore. Chi non studia l’ “Isagoge”, non intende le Categorie, e chi non intende le Categorie, non intende il resto dell’Organon. Ma chi non intende l’Organon, non sa pensare rettamente, e chi non pensa rettamente, non sa AGIRE rettamente. Ma a un tale uomo non può toccare la beatitudine eterna.] -dio ininterrotto di Porfirio e di BOEZIO prende origine quella contesa intorno al valore dei così detti ‘universali’, che, secondo si è finora comunemente ammesso, si  presenta come antitesi di due termini soltanto, realismo e NOMINALISMO, ma in verità fa venire in luce una variopinta moltitudine di opinioni, caratteristiche di altrettanti numerosissimi indirizzi. Queste battaglie sul terreno della dialettica non sono già suscitate da una filosofia personale, segnato della impronta di una individualità autonoma, di mi uomo eminente. E bensì una materia tradizionale, sono pensieri ereditariamente trasmessi per via scolastica dall’antichità, e ora non si fa che prenderli a poco a poco in considerazione alquanto più rigorosamente, nè altra che questa e la occasione al formarsi di determinati atteggiamenti, caratteristici delle varie tendenze, e le cui radici sono di già riposte nella tradizione stessa. Di creazione, intimamente indipendente, di un motivo nuovo, non è il caso di parlare, nemmeno nello Scoto Eriugena, e neanche in Abelardo. E im’epoca che sta ancora attaccata tutta quanta nel modo più assoluto alla pura tradizione, e così puo tutt’al più, con uno studio assiduo, pieno di abnegazione, forse anche minuzioso, appesantirsi più ostinatamente, entro gl’angusti limiti che le sono dati, sopra singoli punti, ma non mai dominare liberamente la materia. Giustamente colpisce gli scolastici non la taccia di confidente avventatezza o di tumida vacuità, che li porta forse a scaraventare nel mondo sistemi belli e fatti, nè ci fan rabbia con la loro verbosità. Ma ben piuttosto ci prende un senso di compassione, quando vediamo, con un campo visivo estremamente ristretto, sfruttate fedelissimamente sino all’esaurimento, con una solerzia senz’ombra di genialità, le vedute unilaterali possibili entro quel campo 6 tesso, o quando a questa maniera si sprecano secoli intieri nel vano sforzo d’introdurre metodo nella insensatezza. Simili pensieri malinconici sopra tanto tempo perduto, si destano in noi per lo più proprio là dove con maggior violenza si fan guerra, relativamente agl’universali, le diverse opinioni, svolte sino alle ultime conseguenze, mentre il primo sorgere della contesa ci può pur sempre apparire in parte come principio di un’azione fecondatrice e stimolatrice. Per il progresso di quella scienza che si denomina propriamente filosofia, bisogna considerare questo periodo come un millennio assolutamente perduto, poiché ci si dove, per mezzo del Rinascimento, riattaccare proprio a quel punto, a cui ci si e trovati. [La questione degli universali determina un CONTRASTO DI TENDENZE NEL CAMPO DELLA DIALETTICA: PREVALENZA DI UN REALISMO platonico]. Se riflettiamo che la “Isagoge” di Porfirio e il testo scolastico più universalmente diffuso, il quale e ritenuto condizione preliminare per aver adito allo studio della dialettica, certamente si riesce a spiegare che in tutte le scuole il filosofo della materia, nell’interesse suo e de’ suoi scolari, dovesse indugiarsi alquanto più a lungo sovra UN PASSO d’importanza decisiva, che si trova subito in principio del libriccino (si sa bene che da principio si va avanti volentieri più minuziosamente e più lentamente), cioè sopra quel passo, che nella traduzione di BOEZIO è di questo tenore: essere cioè prima quaestio  se gl’universali hnno realtà obbiettiva come esseri IN-CORPOREI, o sieno solamente finzioni nella sfera dell’intelletto umano. E se ora la risposta più precisa a questa domanda, che riguarda nel modo più chiaro l’antitesi di platonismo e aristotelismo, viene evitata da Porfirio-BOEZIO, perchè altioris ne gotti, proprio da ciò i filosofi piu provetti sono determinati a decidersi per uno o l'altro dei due indirizzi. Vero è ora che il neo-platonico Porfirio dice espressamente in quel luogo, che egli si attene alla tesi della natura obbiettiva degl’universali. Ma in pari tempo ha aggiunto eh’ egli  ha svolto la propria trattazione, per lo più secondo l’indirizzo del LIZIO anche BOEZIO, dal canto suo, dichiara, nella forma più sbrigativa, che gl’universali esistono in verità, e vengono appresi consideratione animi. Cosi da questo passo, di decisiva importanza, del testo di scuola, e bensì reso possibile che molti con tutta ingenuità credreno fosse loro dato di seguire insieme un modo di pensare platonico dell’ACCADEMIA e uno aristotelico del LIZIO. Cf. H. P. Grice, A. Dodd, IZZING and Hazzing, platonism. Ma proprio per quelli che vuole pensarci su con alquanto maggior precisione, si tratta di un aut aut, e rispetto a quest’ alternativa, dal punto di vista teologico romano e giudeo-cristiano, la risoluzione e propriamente presa di già in antecipo a favore di un realismo platonico. Poiché, quando la dialettica e considerata tutta quanta un vuoto formale strimpellamento verbale, quei che si occupano purtuttavia di questa materia, doveno necessariamente industriarsi di dare a tutto il complesso un fondamento reale, e precisamente, come ben s’intende, non puo in ciò esercitare decisivo influsso alcun’altra realtà, all’infuori da quella che si trova nelle idee giudeo-cristiane. Ed è pur anche possibile che, come per altri riguardi, così anche relativa- [V. Col'SIN, Ouvrages inédits d'Abélard, Parigi: riprodotto con alcune correzioni e aggiunte nei Fragnients de philosophie du moyen-àge, Parigi, ha il grande merito di essere stato il primo a mostrare questa vera fonte del nominalismo e del realismo, e in base alle indicazioni di lui, Havréau, De la philosophie scolastique, Parigi, Hist. de la phil. scol., Parigi, ha tratto dai manoscritti ancora vario materiale prezioso.] -mente alla dialettica, hanno cooperato qual autorità perentoria, sentenze che si trovano nell’epistole paoline. Per lo meno vediamo enunciata da Teodoro Raitliuensis, con riferimento diretto a Paolo, la opinione che si trovi in contraddizione con l’apostolo chi designi lo studio delle Categorie come un eminentissimo pregio del teologo, e così porta la pia disposizione d’animo del giudeo-cristiano a non consister d’altro che di parole o suoni [FLATVS] di parole. E sebbene non vogliamo citare questo passo addirittura come la prima e più antica manifestazione dell’anti-tesi fra nominalismo e realismo, è comunque tanto chiaro tuttavia, che, dalla parte della teologia romana e giudeo-cristiana, dev’esserci, in dialettica, una corrente prevalente, nel senso del platonismo dell’ACCADEMIA, e non del nominalismo o concettualismo del LIZIO. La sostanza indi- [Per es.: ud Corinth., I, 1, 17 : s'ia-;~;s'/JX!i^ba.'. oòx èv ao?!a [evangelizare: non in sapientia verbi]: xal 6 Xóyos poo xal xò xV/pUYPà poi» oòx Iv nsiOotc aocflaj Xifo i?, àXX' èv àjtoSelgs'. nvsùpaxos xal Suvà|isioj, iva Jtlaxif 6p(3v pf/ ^ èv aotplqt àvOptóittov 4XX' èv Sovàpei O-soO [et sermo meus, et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritns, et virtutis: ut fides vestra non sit in sapientia hominuni, sed in virtute Dei] ; ad ThessaL. I, 1, 5: xó «flaYYèXiov ^ptòv oOx è^sv^a-ig 5tpò? 5pàs èv Xóyip póvov, àXXà xai èv Sovdpei xal èv nveùpaxi Stylqt Evangelium nostrum non fuit ad vos in sermone tantum, sed et in virtute, et in Spiritu sancto »] ; ad Timoth., I, 6, 3-4: et xtj éxspoSi- SaaxaXsì..., xsxù?(oxai, pr|5èv émaxàpevog, àXXà voacòv itspi ^TjxVjasts xal Xoyopaxiap Si quis aliter docet superbus est, nihil sciens, sed languens circa quaestiones, et pugnas verborum. Theodori Presbìteri Raithuensis Praeparatio de incarnatione ( Bibl. Patr. Galland.): i-ziiy, 5è 4 Heuijpog cJiiXat; jtpoxaOé^Exai cpfflvalj. èv fr/paoi xs póvotp xal ij/oip T1 ì v sùaéjistav 0noxi8-exaf xalxoiYE xoD àrcoaxóXou XéYOvxop „oò Y“P èv Xiyip ij ga- oiXeta xoS 6so0, dcXX’ èv 5ovàps: xal àXvjOsl:?,, (ad Corinth., I, 4, 20). o5xos 5è xap* a&x(j> Seotjptp xpolxiaxog S-sÌXoyos y vwpijsxat. tì)g àv xàf xaxrjYopiaj 'AptoxoxéXooj. xal xà Xouxà xiòv S?o) cpiXoaó;pci>v xoptjià ■Jjaxrjpévop toyX  ) Orig. II, 23 (p. 29a) [Lindsay]. In his quippe tribù» generibus Philosophiue etium eloquio divina consistunt. Nam aut de natura disputare solent, ut in Genesi et in Ecclesiaste: aut de moribus, ut in Proverbiis et in omnibus sparsim libris: AVT DE LOGICA [DIALETTICA], prò qua nostri Theoreticam [ma Prantl legge tlteolo- giorni sibi vindicant, ut in Cantico canlicorum, et Evangeliis [PL. Per lo meno, quanto al senso, la distinzione coincide perfettamente con quel che si legge nella introduzione allo saggio di VITTORINO da noi conservato, Expositio in CICERONE Rhetoricam (ed. Capperonicr ed. Halm, RHETORES LATINI Minores: Q. Faro Laurentii VITTORINO Explaruitionum in Rhet. M. T. CICERONE, Orig.: Inter arlem et disciplimim Plato non soltanto e possibile tenere staccati come due rami separati il dominio della retorica e quello della speculazione, ma era anche consentito a quest’ultimo di trovare, dal suo lato estrinseco e tecnico, una particolare maniera di trattazione. Compendio di dialettica nelle Origines. Così Isidoro divide tutta la sfera della logica o dialettica, anche tenuto conto della dictio e del sermo, in grammatica, dialettica, e retorica – il trivio, e a quel modo che, rispetto alla distinzione adottata nelle scuole tra questa e quella, si attiene parola per parola a Cassiodoro, così in generale proprio il mostruoso compendio di quest’ ultimo, già da noi più sopra tratteggiato, è quel che Isidoro trasmette, con al¬ cune varianti o aggiunte. Dopo avere cioè compiuto il passaggio dalla PARTIZIONE DELLA FILOSOFIA – psicologia razionale, grammatica razionale -- alla Isagoge in et Aristoteles hanc difjerentiam esse tolueruiit, dicetiles artem esse in his quae se et aliler habere possunt. Disciplina vero est, quae de liis agii quae uliter evenire non possunt. Nam quando veris disputationibus aliquid disseritur, disciplina erit. Quando uliquid verisimile atque opinabile tractatur, nomen artis habebit [PL], e differ. spir. Nunc partes logices exsequamur. Constai autem ex dialectica et rhetorica. DIALECTICA est ratio sive regala disputatali, intellectum mentis acuens, veraque a falsis distinguens. Rhetorica est RATIO DICENDI, jurisperitorum scientia [cf. Grice, the devil of scientism], quam oratores sequuntur. Hac, ut quidam ait, sicut jerrum veneno, sententia armalur eloquio [PL — Orig.]: Logicam, quae rationalis vocatur, Plato subiimxitdividens eam in DIALECTICAM  et Rlictoricam. Dieta autem Logica, i. e. RATIONALIS Aóyoj cnim apud Graecos et SERMONEM significai et rationem [PL — Logici quia in natura et in moribus rationem adiungunt. RATIO enim Graece Xifog dicitur [PL. Dialectica est disciplina ad disserendas rerum causas inventa. Ipsa est FILOSOFIA species, quae Logica dicitur, i. e. rationalis definiendi, quaerendi et disserendi potens. Aristoteles ad regidas quusdam huius doclrinae argumenta perduxit, et Dialecticam nuncupavit, prò eo quod in ea de dictis disputatile. I\'um Xextdv dictio dicitur Ideo autem post Rheloricam disciplinam DIALETTICA sequitur, quia in multis utraque communio existunt [PL] quella «tessa maniera secca, che abbiamo veduta iu Cassiodoro), egli presenta una enumerazione e illustrazione delle quinque voces – genus, species, differentia, proprium, accidens --  dove prende occasione di far risaltare i meriti di Porfirio, di fronte ad Aristotele e CICERONE), e manifestamente non ha fatto che attingere alla traduzione di VITTORINO, commentata da BOEZIO, al quale VITTORINO anzi rinvia egli medesimo). Particolare a lui è, a tal proposito, la pensata sommamente scolastica, di esprimere a mo' d’esempio le cinque voci – genus, species, differentia, proprium, contingents -- in una proposizione. Appresso viene, relativamente alle categorie, una notizia che in principio e in chiusa è ricavata letteralmente da Cassiodoro), ma nella parte centrale è più estesa, e particolarmente più ricca di esempi. Dopo di ciò viene naturalmente de interpr., una Sezione che qui per la prima volta incontriamo con la barbarica – NON-LATINA -- intestazione De Perihermeniis [ Aristoteli s] Le parole introduttive e il nu- [Orig. Cuius disciplinae definitionem plenum existimaverunt Aristoteles et Tulliiis CICERONE ex genere et differentiis consistere. Quidam postea pleniores in docendo eius perfectam substantialem definitionem in quinque V partihus. veluti membris suis, dividerunt [PL]. Boezio, ad Porph. [a Vict. fransi., ed. Brandt  [Opp.], ed. di Basilea [PL]: Isagogas aulem ex Crucco in Latinum transtulil VITTORINO orator, commentumque eius quinque libris BOEZIO edidit [PL]: et est ex omnibus his quinque partihus oratio plenae sententiae, ita, “Homo est animai ralionale, mortale, risibile, boni malique capax” [PL.]. Anche le parole della chiusa del testo d’Isidoro, eh’è guasta, son da leggere secondo il tenore del luogo corrispondente di Cassiodoro. Si ravvisava cioè in Perihermeneias inspi ip |iv)vsia?!. SCRITTO IN UNA SOLA PAROLA, un accusativo plurale, e s’imaginava un corripondente nominativo, “Perihermeneiue”. Invero troviamo nella Storia di S. Gallo di Ii-defons v. Arx, I, p. 262, “die Periemerien » di Aristotele”.] eleo centrale vero e proprio -- la definizione di nomen, verbum, ORATIO (indicativa o enunciativa, imperativa), nuwtiatù, affirmatio, negatio, contradictio) sono copiate parola per parola da Cassiodoro, ma in mezzo ci sono alcune osservazioni più generali, che son prese da BOEZIO, e che, concernendo la relazione tra linguaggio e la psicologia RAZIONALE, vennero ad assumere grande importanza; ma le parole di chiusa segnano il passaggio alla SILLOGISTICA in ima maniera più tollerabile che non sia quella tenuta da Cassiodoro. Segue ora LA SILLOGISTICA  stessa, che, dopo un monito introduttivo a guardarsi dall’abuso sofistico, è presa con la più letterale fedeltà da Cassiodoro. Appresso viene la teoria della definizione, che Isidoro copia da VITTORINO, ragion per cui abbiamo dovuto riferirne il contenuto. Ma dalla definizione si passa alla TOPICA con le stesse parole di Cassiodoro, e anche nella enumerazione dei loci è utilizzato solamente quest’ultimo. Ma anzitutto rimangono qui affatto escluse quelle interpola¬ [[Isidoro riproducel anche il motto su Aristotele: Omnis quippc res, quae una est et uno si^nìficiitur sermone , aut per nomen significatur, aut per verbum: quae dune partes orutionis interpretanlur totum, quidquid conceperit mens ad loquendum. Omnis enim elocutio CONCEPTAE rei mentis interpres est [PL], Particolarmente dobbiamo a questo proposito mettere in rilievo la locuzione concipere, concepito. \Utililas~\ Perihermeniarum haec est, quod ex his INTERPRETAMENTIS syllogismi fumi. Vnde et analytica pertructantur: plurimum lectorem adiuvat ad veritatem investigandam tantum, ut absit ille error decipiendi adversarium per sophismata falsarum conclusionum [PL).] -zioni estranee), e inoltre, omessi i loci retorici, vengono, di quelli dialettici, accolti integralmente soltanto di CICERONE, e tre inoltre di quelli di Temistio. Finalmente la chiusa è data da ima speciale Sezione De opposilis, che senza dubbio qui non sta nella solita connessione con la teoria delle categorie, ma si riattacca ancora al materiale della topica, coni’ è anche di fatto estratta dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE. Altri spunti di teorie logiche. Ma, oltre a questo compendio di dialettica, c’ è in Isidoro qualche cos’ altro ancora, che, grazie all’ autorità da lui goduta esercita influsso sopra la storia. Da un lato cioè si trovano frammenti isolati di teorie logiche in altre sezioni della sua opera enciclopedica. Così, p. es., oltre a ripetere la solita definizione degli omonimi ecc. (nella Sezione intorno alle categorie), Isidoro viene anche nella Grammatica razionale a parlare di quest’oggetto, ma qui egli fa uso delle forme verbali greche. Inoltre, della retorica, è da ri- [fra i loci ivi riferiti di Temistio, troviamo qui soltanto: a loto , a partibiis [PL Invece, in altra forma: Primum genita est contrariorum, quod iuxta CICERONE diversum (leggi AD-versum) vocutur. Secundum genita est relalivorum. Tertium genus est oppositorum -- si osservi la terminologia inesatta -- habitus vel orbatio. Quod genus Cicero privationem vocat. Quartum vero genus ex confirmutione et negatione opponilur. Quod genus quartum apud Dialecticos multimi liabet conflictum, et appellatur ab eis calde oppositum [PL. La fonte di questo vedila in BOEZIO, ad. CICERONE Top.  [PL]; il luogo relativo di Cicerone e citato. Orig. : Synonyma, hoc est PLVRINOMIA. Homonyma [AEQUI-VOX]. hoc est VNINOMIA PL]] - cordare in particolare la Sezione De syLlogismis, perchè, da un lato, fa riconoscere, per l’argomentazioue, un’alto valore all’entimema O IMPLICATURA o raggionamento implicito --, e perchè, dall’altro lato, contiene una, per quanto meschina, notizia della esistenza della IN-duzione. II contenuto di questa teoria del sillogismo non offre, coni’ è naturale, assolutamente NULLA DI NUOVO, bensì è preso da VITTORINO, e attraverso VITTORINO rinvia «ino a CICERONE e ivi par¬ ticolarmente il passo relativo, concernente 1 ’ cnthymemd. D’ altra parte, infine, con alquanti semplici accenni a punti particolari, che in se stessi stanno FUORI DAL CAMPO DELLA LOGICA – ma la prammatica di Grice -- Isidoro — quasi direi senza volere — da occasione a quelli che son venuti dopo, di sollevare questioni, delle quali noi dovremo citare appresso le soluzioni, come elementi del corso della storia. Una delle cose sopra le quali a tal proposito fermiamo l’occhio, è la determinazione di mia DIFFERENZA TRA RAZIONALE E RAGIONABILE [cf. GRICE], che, evidentemente fondata sopra un passo del commento di BOEZIO alla Isagoge, può aver [ Orig.: Syllogismus Graece, Latine ARGVMENTATIO – RATIONAMENTVM -- appellatur. Syllogismorum apud rhetores principulia genera duo sunt: inductio et RATIOCINATIO [PL. Sebbene dunque possa far maraviglia al lettore che di tali cose io faccia menzione qui, risulteranno più sotto sufficentemente i motivi, per cui è bisognato che, dello straricco tesoro di scienza scolastica isidorea, io facessi risaltare proprio questi, e anzi esclusivamente questi due elementi particolari. Si tratta in generale di rendersi conto dell’assoluta intima MANCANZA D’INDEPENDENZA dei ‘filosofi’ di questo periodo. De difjer. spirit.,  [PL] GRICE: INTER RATIONABILE ET RATIONALE hoc interesse sapiens quidam [Agostino, De ordine, PL, dixit RATIONALE est, quod rationis utitur intellectu – ut: “homo.” RATIONABILE vero, quod ratione dicium vel factum est. Lo stesso, quasi alla lettera,’ Differ. PL. Porfirio aveva cioè, nell’indicare quel eh’è comune al yivoc e alla Staqsopà, adoperato come esempio il Xoy ixóv, in un passo che nella traduzione di BOEZIO (p. 95 [In Porph. a se avuto per conseguenza che in seguito si facessero oggetto di ancor più accurata ponderazione le parole del passo. Invece l’altra cosa consiste nell’ affermazione, connessa alla creazione dal nulla, che LE TENEBRE *NON* sono sostanza, e di ciò non tarderemo a trovare appresso ima conseguenza ulteriore. Alcuino: sua compilazione di un compendio di dialettica. Lo stesso punto di vista d’Isidoro, così riguardo al valore della dialettica, come anche nella bislacca compilazione di un compendio, prevale pure in Alcuino: coni’è noto, dell’insegnamento, da lui impartito, della logica allora in voga, profitta lo stesso Carlo Magno. Non soltanto troviamo in Alcuino la partizione delle scienze secondo transl.: ed. Brandt, suona cosi: Cumque sit differentia RATIONALIS praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione ufi, non solum aulem de eo quod est RATIONALE, sed etiam de his qttae sunt sub rationali speciebus praedicabitur ratione uti [PL]. Ora nel commento di queste parole BOEZIO dice (p. 96 [ ittici ., ed. Brandt): de RATIONALI duae differentiae dicuntur. Quod enini RATIONALE est, utitur ratione nel habet rationem. Aliud est aulem. uti ratione, aliud habere rationem.... ergo ipsius RATIONABILITATIS quaedam differentia est ratione uti, sed sub RATIONABILITATE homo positus est [PL, Sentent. : Materia ex qua coelum terraque formata est, ideo informis vocata est, quia nondum ea formata erant, quae formari restabant, verum ipsa materia ex nihilo facta erat: Non ex hoc substantiam habere credetulae sunt TENEBRAE, quia dicit dominus per prophetam. Ego Dominus formans lucem, et creans tenebras [Eisa.] ; sed quia angelica natura, quae non est praevaricata, lux dicitur. Illa autern quae praevaricata est, tenebrarum nomine nuncupatur [PL) Einhahdi Vita Karoli lmperatoris [Pertz, MOH: audivit in discendis caeteris disciplinis Albinum cognomento Alcoinum apud quem et rethoricae et dialecticae ediscendae plurimum et temporis et laboris impertivit [PL. Poeta Saxo, Annalium de gestis Caroli Magni Imperatoris, nel Pertz, MGIT, I, p. 271: Artis rethoricae, seu cui diulectica nomen. Sumpsit ab Alquini dogmute noticium [PL]] uno schema che si conforma a quello d’Isidoro, ma egli inoltre ripete letteralmente, attingendo a quest’ultimo, la su riferita concezione teologica romana o giudeo-cristiana della logica. Nello svolgere questi pensieri, mostra dappertutto di apprezzare altamente LA FILOSOFIA, non la TEOLOGIA, e mentre spesso a tale apprezzamento associa lamentele per la ignoranza largamente diffusa, si leva a sentenziare che le arti liberali son le sette colonne della sapienza, e così, nelle principali questioni teologiche romane e giudeo-cristiane sopra il concetto del divino fa largo uso, rimandando ad Agostino, della tradizionale filosofìa scolastica, cioè della teoria delle categorie. Ma che lo stesso Alcuino scrive intorno a tutte sette le arti, è ima credenza già da gran tempo confutata, essendo stato dimostrato che passa per essere opera di Alcuino mi compendio del De artibus di Cassiodoro, molto letto. È bensì vero invece eh’ egli coltivò la grammatica, la retorica e la dialettica, e che inoltre accompagnò 1’ invio a Carlo Magno del libro pseudo-agostiniano sopra le Categorie con mi prologo metrico dove nel modo d’in- [Ai.cuini Operu, ed. Frobenius, Ratisbona PL e Dialectìca, P. cs., E pisi. Epist. 68 (p. 94), E piu. ed. Diinimler, MGH, Epist. Grammatica PL: Sapicntia liberalium litlerurum septem columnis confirmatur; nec alitar ad perfectam quemlibet deducit scienliarn, itisi bis septem columnis vel etiam grndibus exaltetur. De Fide S. Trinitatis ed Epistola nun- eupatorio: ed. Diinimler, Epist.], Quaestiones de Trin. , Epist., Epist. ed. Dummler, Epist. Dal Frobenius, nella Praef., PL Tale prologo è del seguente tenore ed. Dummler, MGH Continet iste decem naturile verbo libellus, Quae iam verbo tenenl remm ratìone stupenda Omne quod in nostrum poterit decurrere sensum. Qui legit ingenium veterum mirabile laudet, Atque suum studeat tali exercere labore, Exomans titulis vitae data tempora honestis. Rune Augustino placuit transferre matender le categorie è implicito il punto di vista di BOEZIO. Lo stesso compendio di dialettica, che reca parimente in cima mi simile INSIGNIFICANTE prologo, è scritto in forma dialogica. LE DOMANDE SONO SEMPRE FATTE DA CARLO MAGNO.  Ma Alcuino dà le risposte. In questo compendio, da principio TUTTO E LETTERALMENTE preso da Isidoro, anche la divisione della logica in retorica e dialettica. Ma al contenuto vero e proprio si passa con una partizione, in sommo grado scolastica, della dialettica in cinque specie, La prima Sezione, cioè, coni’ è naturale, la Isagoge, è COPIATA PAROLA PER PAROLA da Isidoro, e neanche manca quell’unica proposizione esemplificativa. Fa seguito una minuziosa notizia, intorno alle categorie, che è interamente estratta dal compendio pseudo-agostiniano, con trascrizione BARBARICA delle parole greche che vi s’incontrano. Di nuovo c’è aggiunta una cosa soltanto, che cioè anche per le categorie viene ora formala qui una frase unica, presentata come esempio [Ma mentre nel pseudo-Agoslino dopo la decima categoria dell’habere viene la solita trattazione degli op- gislro De veterum guzis Graecorum clave latino. Quem libi rex, magnus sophiae sectator, umator, Munere qui tali gaudes, modo mitto legendum [PL, K. Quot sunt species dilecticae? A. Quinque principales; isagoge, categoriae, syllogismorum. formulae, diffinitiones, topica, periermeniae. In veri là una disposizione mostruosa, che mal si accorda inoltre con il numero di cinque, che si chiude con le seguenti parole: tlaec commentario sermone de isagogis Porphyrii dieta sufficiant. Pinne ardo postulat ad Aristotelis categorias nos transire. K. Ex his omnibus decerti praedicamentis unam mihi conjunge orationem. A. Piena enim oratio de his ita conjungi potesti Augustinus magnus orator, filius illius, stans in tempio, hodie infulatus, disputando fatigatur.] posti, per tale argomento Alcuino disdegna questa fonte, limitandosi a COPIARE ORA PAROLA PER PAROLA, con la intestazione De contrariis vel oppositis, la Sezione corrispondente in Isidoro. Invece immediatamente dopo, per i così detti Postpraedicamenta (prius e simul), fa ancora un salto per ritornare al Pseudo-Agostino, omettendo tuttavia affatto, di quest’ultimo testo, il cap. sull’immutatio. Viene poi, con la intestazione De argumentis, prima di tutto un riassunto estremamente sommario di quell’ estratto della teoria del giudizio, che BOEZIO incorpora al suo scritto De differentiis topicis, e poi, in quanto che proprio lì si viene a parlare anche dell’argomentazione, ima meschina scelta di alcuni esempi di sillogismi ipotetici, svolti da BOEZIO in quello stesso scritto. Ma a ciò si attaccano ancora subito i quattro primi modi dei sillogismi categorici, che son tratti da Isidoro. La teoria della [Con la sola differenza che negl’esempi i nomi propri o il contenuto degli esempi stessi sono trasportati ■iella sfera morale-teologica romana e giudeo-cristiana. Nè al principio di questi postpraedicamenta nè in chiusa, è stato segnato un qualsiasi trapasso, che li riconnettesse alle trattazioni precedenti. Dopo ch ! è stato determinato che cosa sia urgumentum (rei dubiae affirmatio) e che cosa sia oralio (veruni  Dial. Particolarmente si trova anche fatta qui novamente menzione di concetti imaginari, p. es.: HIRCOCERVVS quod graece trngelaphus dicitur. PL. K. Num et Ulne aline species quatuor (non enunciativa, ma, cioè interrogativa, imperativa, deprecativa, e vocativa) ad dialecticos non pertinenl? — A. Non pertinenl ad dialecticos sed ad grammaticos.] zione, ma adduce inoltre alquanti esempi attinenti alla sfera delle fallacie sofistiche, servendogli qui da fonte Aulo GELLIO (si veda)[ Fredegiso da Tours]. Se questi due compendi che abbiamo sinora considerati, ci presentano esclusivamente la forma di opere a centone, nella compilazione delle quali non si fa neanche sentire più il bisogno astrattamente logico di un qualsiasi ordine di successione che tenesse unito il complesso, certamente, al paragone di tali prodotti scolastici, ravvisiamo già un progresso, quando vediamo questo o quello filosofo sentirsi per lo meno stimolato, dal materiale divenuto tradizionale, a proporre questioni, alle quali tenta di dar tale o talaltra risposta. Ma non possiamo pretendere gran che da siffatti primi tentativi: e nient’ altro che un documento di assoluta mancanza di chiarezza, in quelle questioni che non tarderanno a determinare dissidi di tendenze, ci è dato dalla maniera in cui Fredegiso, scolaro di Alcuino, abate di Tours, in una Epistola de nihilo et tenebris, indirizzata ai teologi della corte di Carlo Magno, viene alle prese con i concetti di « nulla » e di « tenebre », dei Dialogus de Rhetorica et Virtutibus PL: Si dicis, non idem ego et tu; et ego homo, consequens est, ut tu homo non sis. Sed quot syllabas habet homo? — Duas. — Nunquid tu dune itine syllubae es? Ne- quaquam. Sed quorsum ista? Ut sophislicam intelligas versutiam. Cfr. La [Stampata nella Steph. Baluzii Miscellanea, ed. Dom. Mansi, Lucca, e di là riprodotta nella PL: ma la edizione migliore, fondata sopra una nuova comparazione dei manoscritti, si trova curata da Ahner, Fredegis von fours, Lipsia. Le parole introduttive son di questo tenore. Omnibus fidelibus et domini nostri serenissimi principis mjt ' J acro eius F tdntio consistentibus Fredegysus Diaconus [IL, quali, secoudo la maniera usata, vuol parlare così ratione, cioè logicamente, come anche auctoritate, cioè conforme alla teologia ortodossa, romana e giudeo-cristiana. La occasione a tutto il dibattito è data certamente, in generale, dal passo già citato di Isidoro, ma il modo d’intendere le questioni, a prescindere dal generale punto di vista teologico romano e giudeo-cristiano, è, per riguardo alla dialettica, cosi rozzo o così ingenuo, che di fatto non troviamo un termine per qualificarlo. Poiché, dove non si presenta neanche la più tenue traccia di riflessione sopra i così detti ‘universali’, ci è impossibile parlare di realismo o di nominalismo. Insomma si tratta di ima mostruosità tale, da non potersi neanche designarla come un primo passo verso idee venute fuori in epoca più tarda. Non soltanto cioè si afferma, in termini secchi, che, insieme con l’ESPRESSIONE (EXPLICATVRA) verbale, noi intendiamo immediatamente la cosa, ma vengono inoltre assunte senz’altro come identiche la signi- [Chl j. m,ue Studichi senza prevenzione, consentirà che questo dualismo di ratio e auctoritas. il quale si manifesta dappertutto rondo li • nd,e de ' le Par ° 1 ! '' * Fredegiso. Queste, sei rondo la piu antica lezione riportata dal Baluze i suonano come segue: huic responsioni oblia,uhm est primari'. Ubet’ sedrZT ‘‘"'T' rfe,We betoniate, non q ua- . , ’ r "' ,0 ’ ,r ‘ dumtaxat, quae sola auctoritas est salame immola " f 7 urd / NeS6Uno infaUi si Presterà ad accreditare derZi^ ). Ma poi, anche nello scritto De institutione clericorum, Hrabano viene a parlare delle sette arti liberali: e dopo che ivi egli lia già in generale ammonito i teologi a guardarsi dall’abuso dell’arte di disputare, questo atteggiamento circospetto è quel che predomina in lui, anche là dove, seguendo l’ordine solito di successione, viene propriamente a trattare de DIALETTICA dopo avere parlato della grammatica filosofica e della retorica. Ripete cioè, per prima cosa. Opera, ed. Colvener, Colonia) Hrabani Mauri) De universo: Logica autem dividitur in duus species, hoc est DIALECTICAM et Rhetoricam. De instit. cler.: Sed disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum. quae in litteris sanciis sant penetranda et dissolvendo, plurimum valet; tantum ibi colenda est Pl 'ioTTo I ^ PUenl ' S  e I’815 "or 10 fra r887 « r890) abbia esercitato in . en era e Ti r r ” rì,,i “ ) ’ “ ,,ra « t:: 1 ,: è noto; ma può darsi che a noi ~z:: e t abbia T imes ° qn6to s. decisiv ° -*• - °° ICa >■ ^iche, relativamente al punto il 122» voT ddla Patralógii TeWiomtP-"- ,«/; F , t0SS ’ e toTm * ferisco qui nelle citazioni. Ma a nurlli J"*' 18j ? ’ al qua,e n,i ri ‘ opera dell’ Hauréau il Commentairede le % 3ggl £ n . t0 ■'"Cora ,,, r lionus Cupella (nelle Nolices et Extraitì T ^ Ér,gène sur Mar. 2, Parigi 1862 [p. 1 ss.]) Extraits dea Manuscrits, non r’imér^no r qui*'ì!’a 1 nno ' ^ròv^to un rifl'’ 8 *" 0 C °" lo Soot ° letteratura, avendo Nicola Mofli ™T ,nten f° anche "ella und seme Irrthiimer OC S F ,• tLEB preso posizione (J. S. E tro Fr. Am. Staudr™*™ U sT 1844) con Ze« 1«G. S. E. e la sci. nl,, ,1 1 . • dle Wissenschuft seiner te 1834), e contro il Saint-Rtné TaiTi.andifr I>1, Gotha 1860), nè da V Kin. ' m"” C dottrina System des J. S E r« TI Jl. » Naulicm (Dos speculatil e, negli Atti 3,'ll ó è ™ s Peeulativo di G. S. E » IP™!), nè da Gio v. Hubeh (/. slVf  ili vista logico, che lo Scoto si trova ad avere assunto, non sembra comunque essersi pronunziato ancora un giudizio esauriente, quando ci si limita a qualificarlo come realismo, o magari anche come realismo stravagante. Vero è invece che con l’atteggiamento realistico, che in generale è fondato sopra la concezione biblico-teologica romana e giudeo-cristiana, e che naturalmente a nessuno può passare per il capo di negare allo Scoto, si unisce qui, in maniera sommamente caratteristica, un motivo dialettico, al quale ci sembra di dover attribuire somma importanza, perchè in esso ravvisiamo i primi lineamenti del nominalismo scolastico. La prima cosa che certo si manifesta con la massima evidenza a qualsiasi lettore dello Scoto, è la forma rigorosamente sillogistica, nella quale si volge questo filosofo, mettendo con ciò in mostra nello stesso tempo, per così dire, le sue conoscenze scolastiche di logica. È questa ima cosa, della quale per se stessa non faremmo già particolare menzione, non essendo qui compito nostro di registrare per avventura tutti quanti gli scritti di tutti quanti i Padri della Chiesa o filosofi medievali, nei quali si riveli un addestramento logico. Tuttavia nel caso presente sussiste, a quanto ci pare, una stretta connessione fra tale cultura scolastica estrinseca e l’intima struttura dell’ordine d’idee professato dal filosofo. Lo Scoto Eriugena manifestamente, nella persuasione che la sillogistica, proprio nella sua forma rigorosamente scolastica, abbia un valore filosofico, trae partito da tutte le cose consimili. Così ne’ suoi scritti, — a prescindere dalla frequente larga trattazione delle categorie in senso teologico romano o giudeo-cristiano, si presenta, p. es., della teoria del giudizio, la divi- [Des ]. E. Stellung zur mittelalterlichen Scholastik und Mystik f« La posizione di G. E. rispetto alla scolastica e alla mistica medievale], Rostock), nè da Lod. Noack (Weber Leben und Schriften des ] J. S. E.: [die Wissenschaft und Bildung seiner Zeit, Della vita e degli scritti di G. S. E.: la scienza c la cultura del tempo suo »), Lipsia.] aione in giudizi affermativi e giudizi negativi, e anzi con fa terminologia affirmativus e abdicativus, o la indicazione delle varie specie di opposti, tra i quali inol- tre viene sovente messo in particolare rilievo il cosi detto opposto CONTRADITTORIO: come pure viene fatta menzione delle relazioni anti-tetiche sussistenti fra il possibile e 1 impossibile. Si trova anche presa in considevolia ilio Scoto (de dlctóone a^°I'^ 1 p una Cap. delle Categorie pseudo-azostini»,,» - r W3j 111 C0 P‘ are *1 10° sario,  -“j! ch è neces ' de div. nat., I, 14, p. 462: Et hoc Ir i • i’ ^“ 8nto a * giudizio, v. p. es. ^soXoyla iKo^onix-rj del Pseudo Dioniei ° r£ “ ; xaxcreaTtxrj e la damus exempio. Essentia tZaZf A reopag,ta) brevi conci,,. coda : « supe’ressetZTLT ** ^ terminologia che ricorre ancor più volte nelIoVom 6 * 0 ''""' alla confusione che abbiamo trovata di eb n r ’ Va r / 1 f 0n ® chiaro dalla spieoare Pian, ad duplum... ; am per negat’ionZ Z Z SÌnt ’ ut s, ' m ‘ propter) qualitates naturales per abZntiam’m°h “*\ °“*^ ( , leggi AVT SECVNDVM PRIVATIONEM, ut mors etvUa- L n tenebrae sanitas et imbecillitas. Su questo numi „ s , u contrarl “m, ut desuma fonte che Isidoro (v. sopri la „mwn? aU ' n, ° alla , ne ' cavato malamente dalle parole di 11 *.. : s °hanto che ha ri- e absentia. 1 ' BOEZIO ° una distinzione tra PRIVATIO [De praedestinatione, 5 , 8 n ì"». i,„ , , i oluntate posset simul dici « libera est iihe quomodo de eadem CONTRADICTORIE dicuna,r, quia simul fieri n “ l>; haec enim nat.: comradictoZnJZ r p0ssunt - ~ De divis. erit veruni, alterimi falsimi Non !«' 9'"a fient, et necessario unum ”r l htsa calidario ZloaZ 7e sZZ versahter sint, sive particulariter fi, : subjecto eodem, sive unidelia terminologia di BOEZIO (clntradZ ** Vede ’ C è '"escolanza nota 113) con quella di M^ianoTl n ). Copella (proloquium) De divis. nat., II, 29 n 597- Pn*.n,ir in numero rerum computi impossibile dicet.... De quibus quisquis alene T . pl,lloso P lum tium conira- Owi-E, hi JZ’Z,u,‘Z,ZZ": hoc p Z£L~ illt razione la solita enumerazione delle varie specie di definizione. Ma principalmente sono messe in rilievo dallo Scoto, tanto frequentemente, proprio dal punto di vista formale, le forme dell’argomentazione: e non soltanto troviamo in lui, in molti luoghi, intrecciati nel testo, sillogismi formulati assolutamente secondo la regola delle scuole, bensì ancora egli molto si compiace di menzionare, con i loro nomi tecnici, sillogismi appartenenti alla topica. Ma appunto per quest’ ultimo riguardo ha grande im¬ portanza per noi, che lo Scoto accuratamente distingua il procedimento dialettico propriamente detto, cioè il sillo¬ gismo in generale, dalla rimanente sfera puramente retorica, e per la dimostrazione dia importanza decisiva alla sopito dispulutum est. È ben facile capire cbe questo è tutto preso da BOEZIO. Quamvisque multae definitionum species quibusdam esse videuntur, sola ac vera ipsa dicenda est definitio, quae a Graecis oòaubSr jj, a nostris vero essentialis rocari consuevit. Aline siquidem aut connumerationes intelligibilium partium oùatag, ai il argumentationes quaedam extrinsecus per accidentiu, aut qua- liscunque sententiarum species sunt. Sola vero oòauóSrjs id solum recipit ad definiendum, quod perjectionem nuturue, quam definit, complet ac perjicit. Questo può essere ricavato da Alcuino o da Isidoro (v. sopra le note 38 s.) o da BOEZIO. Tali passi non si discostano da quella terminologia ch’è usuale in Boezio; così, p. es., affirmativus, negativus, termini, diulectica proposito, jormula syllogismi condilionulis, e così pure connexio (v. la Sez. XII, nota 141), e persino tropus; inoltre troviamo ancora collectio e reflexio, che son termini propri di Apuleio (v. la Sez. X, note 15 e 19). 81 ) Così, p. es., de praedest., 14, 3, p. 410; ibid., 16, 4, p. 420. — De div. nat., I, 49, p. 491 ; v. anche qui appresso le note 94 ss. 92 ) P. es., de div. nat., I, 27, p. 474: sunt loci diidectici u genere, a specie, a nomine, ab antecedenlibus, u consequeiuibus, a contrariis, ceterique hujusmodi, de quibus nunc disserere longum est. De praedest.: argumentum, quod ub effectibus ad causam sumitur, locus a contrario e locus a similitudine, e similmente più volte. Anche nel Comment. ad Muri. Gap. tres purles syllogismorum, i. e. ab antecedentibusi, a consequentibus, a repugnantibus. Ma la conoscenza di tutti questi loci lo Scoto la poteva ricavare esclusivamente de Cassiodoro. 'orma logica soltanto. Anzitutto cioè viene da lui attribuito già il più eminente valore a quèlla formulazione del sillogismo disgiuntivo, che, da CICERONE in poi, si e conservata nella tradizione come enthymema , e che per tal via aveva avuto accoglimento anche nella Enciclopedia d Isidoro (e ripetuta la stessa cosa, a proposito di Alenino: ed effettivamente Scoto in questa forma del sillogismo ravvisa il punto culminante di tutti gl’argomenta, i quali invero sono ancora pur sempre considerati congiuntamente ai signa i r ra in: anzi la forma dell’entimema ha potere d’in- •'«rio a qualificare l’entimema stesso senz’altro come syllogismus: e in verità in un altro passo, dove dice espressamente di volersi servire deIl’*ico8«i*Tix* le dimostrazioni che seguono, sono appunto presentate esclusivamente in quella forma disgiuntiva; ma nello stesso tempo egli assegna tuttavia decisamente alle forme del cosidetto sillogismo categorico un posto ancor più eie- vato, appun to perchè queste non appartengono al mecca- sumuntur. Qribm tanta ’rii inll [ R - Stu " t contrarietatis loco excellcntwe suae merito a ('rimri^'è'h""'' qt ‘° (ìam privilegio conceptiones rLZ sicJZZ e,,lhymemnt “ dicantur. hoc est, munì est illud, nuoci sumitur * '‘ rsu . met } ,orum omnium forlissi- calium aptissimum est. quo d ducitur "ab end" ° mnU,m . si S"°rum vo- lhid.. m, 1 n 193 . „ \ tU , et >dem conlranetatts loco. — Diulècticisac RhètorZiseZnt"” ^ediyimus. a xaTavTC'fpaat .5 IW 4vtt*p«oi ^ TestZmTi’uZ grnmmaticis ver ° gnorumque verbalium nobilissima v loT^T ar ^ n -n'orum st¬ iri fine, e cfr. poi la nota 189 * qm appresso la nota 96 > concluditur, quodsemperesTn coni nulo °c" "" '' ,,r * umento (ora segue un sillogismo della l'orma Non eZnVn'B* 4 ° “** ergo B non est: v. la Se? Vili t.n i l 1 „ et A est. Idem quoque syllogismiis hnr 'm 1 ' p a • XII, note 13 e 69 ).... cibici. 4 3 n T?J w connectitur (id. c. *.). àitoS.txxtx^ utamur, primufnfadversus ZT"e uTl^’ * C *f" r sillogismi della forma ricordata or ■ ,U f ann ,° S, '* U1| ° due parole, da uomo consapevole della vitro* P °A S ‘ con queste Via igitur regia gradiZdtm, r , ?''' C ° ncIllsum est igitur.... vcrtendum, etc. ’ ° " d d^ternm, nec ad sinislram di- nismo dell’argomentazione retorica, apparentemente più efficace Bli ). Ma che questa preponderanza della forma sillogistica sia stata anche subito sentita come tale dai lettori dello Scoto, ci è confermato dalla ineccepibile testimonianza di un anonimo del IX secolo, il quale dice che Scoto fa consistere la dialettica in un continuo incalzarsi e cacciarsi (fuga et insecutio) delle proposizioni. Scoto, del resto, la conoscenza delle forme sillogistiche da lui usate, la poteva ricavare esclusivamente da 8l! ) Vale a dire, in occasione di una dimostrazione piuttosto lunga, relativa alla immaterialità della sostanza ( de div. nat., I, 47 ss.), troviamo anzitutto, dopo le parole introduttive hus inique paucas de pluribus dialecticas collectiones considera, due sillogi¬ smi categorici secondo il primo modo della prima figura, c appresso segue un'argomentazione in forma dilemmatica; ma dopo questa si trova la seguente transizione: l’t uulem piane cognoscus,... hunc argumentalionis accipe speciem. [Discipulus] Acci piani ; sed prius quondam formulalii praedictae argumentationis fieri necessarium video. Nam praedicta ratiocinatio plus argumentum u contrario videtur esse, quam dialectici syllogismi imago. [Ma¬ gisteri Fiat igilur maxima propositio sic: e ora seguono quattro sil¬ logismi secondo il modo 2° della 1* figura, con le parole conchiusive: huec formula idonea est; ma immediatamente appresso: [D.] Hoc etiam certa dialettica formula imaginari volo. | M. | Fiat itaque for- nuda syllogismi conditionalis ; il che si verifica nella forma : Si A est, lì est, A vero est; e dopo tutto questo si trova, per chiudere in maniera energica, ancora un entimema: Si autem èvtì-upijiiaTOf. hoc est, conceptionis communis animi syllogismum, qui omnium conclu- sionum principatum oblinet, quia ex his, quae simili esse non pos¬ simi, assumitur, audire desideras, accipe hujusmodi formulam. Riferita da V. Cousin, Ouvr. inéd. d’Abél: Secundum vero Joannem Scottum, est dyalectica quaedam fuga et insecutio, ut cum quis dicit « omnis honestus est », et insequitur alius dicendo omnis honestus non est, talis haec disputatio fugae et insecutioni videtur esse consimilis. Se del resto già l’abate Benedetto da Aniane [Francia Merid.], si lamenta di un syllogismus deltisionis iipud modernos scholasticos, maxime apiid Scotos (Baluzii Misceli., ed. Mansi), non è leeito già inferire da ciò, che lo Scoto abbia potuto ricavare la propria abilità dialettica da studi di logica che fossero con larga diffusione coltivati nelle scuole della Scozia: bensì quel lamento si riferisce esclusivamente a un singolo contrasto dommatico (riguardo alla Trinità), il quale può esser de¬ nominato syllogismus nella sua formulazione, nè più nè meno che cento altri simili Isidoro o da Marciano Capella, e non c’èun solo passo che ci costringa ad ammettere eh egli abbia mai conosciuto anche gli Analitici di Aristotele, nella traduzione di BOEZIO os ). [b) posizione dello Scoto, rispetto alla dialettica Ma proprio questi elementi, che per così dire apparten- gono alla prassi logica dello Scoto, ci apron la via per passar a considerare anche la posizione teoretica di lui, nei rispetti della dialettica. Nelle arti liberali in gene- rale, egli ravvisa i prodotti di una naturale attitudine dell amma umana, e pertanto un suo ornamento B8a ), in quanto che esse sono le compagne e le investigatrici della sapienza "); ma nello stesso tempo riconosce che quel che importa qui è la disposizione di spirito, trovando hi par¬ ticolare la dialettica, della quale è facile abusare, il proprio compito essenziale nella lotta contro gli eretici 10 °). ) 1 oicliè questo punto avrà ancora più volte importanza ner noi ho dovuto di proposito fin qua richiamare còsi n inutàumnte rat’ten- zione sopra le fonti della logica dello Scoto. )G ommenl. ad Mari. Cup.  [Artes libe- :tZ ] n, 0la iPSa amma P erci P' umur ’ nec uliunde assi,n,untar sed nalurahier in anima mieli,gannir ; p. 30: Liberales disciplinar ’natu r ali ter insunl in anima, ut aliunde venire non intelligunUir ■ et ideo TCTTìI ~, Cfr - q,,i appresso la noia l78 - (cioè ri.-’ fi • ’’ ’• P- 430: ^ rrorem - saevissimum eorum (cioè de suoi avversari dommaUci) ....e* utilium discinlinarum alias , psa sapienti a suas comites investigatricesque fie^voluTTdr S ira la notai 50), ignorantia credtdenm sumpsisse primordio In un A ìSi " 4 "'“ — » aZerS denTk 77™ Gotes  Uerum- Sez. XII note 84 J ST: Tt ^zrZiiri uctìones ’ sensui subjacet: cirro nnnm ... . • P nr, ‘ l ' s _>'st, nulhque corporeo versuntur. Al si illa incorporea est^nuTtìb' Ziter'vìd t omnia, quae ani ei adhaerent, au, in P « subsistoZ , ' non possimi, incorporea sint 9 ‘slum, et sine ea esse se immutabiles puro mentis contuitn „ t f r ! ale - f* Q h*er res per ' rontl ‘“" perspiaenlur in sua simplicisce anche il concetto di genere in maniera del tutto rea¬ listica 115a ), anzi ripete minutamente la dimostrazione, ricavata dal Pseudo-Dionigi, che essentia e corpus sono totalmente diversi e non possono essere mai scambia¬ lino. In una parola, è un avversario sistematico della sostanza individuale (del xóSe ti) di Aristotele. [e) ontologia e dialettica], Ma dobbiamo riflettere che, per lo Scoto, tutta quanta la sfera del molteplice (dimque infine anche la pluralità delle categorie stesse) viene a cadere in quello stadio in cui la sussistenza concreta è propriamente qualche cosa che non de- v’ essere, perchè la pluralità è provenuta per via di divisione dalla unità, e ha essenzialmente per funzione di essere di nuovo risolta nella unità, e in tale processo proprio il punto mediano dev’ essere quello di massima lontananza, sia dalla unità originaria sia dalla unità finale. Così la formazione delle cose infinitamente molteplici del mondo sensibile è la prima parte del processo, come dire una scissione della Divinità: e Scoto spiega, in accordo con Gregorio da Nissa, il manifestarsi concreto delle cose sensibili e in tute, aliler senati corporeo in ali quii materia ex concursu earum facto compositae. Omnia erìim, quae intellec- tus in rulione universaliter considerai, particulariter per sensum in rerum omnium discretas cognitiones definitionesque partilur (dun¬ que rSpiattxóv delle definizioni speciali viene già a esser più perti¬ nente alla sfera sensibile. Il passo di BOEZIO). ,ls ‘) Comm. ad Alari. Cap„ Genus est multarum formarum substantialis unitas.... Est enim quaedam essentia quae comprehen- dit omnem naturam, cujus participatione consistit omne quod est. Substantia generalis est multorum individuorum substantialis unitas. De div. nat. Sed adversus eoa, qui non aliud esse corpus, et aliud corporis essentiam putant, in tantum seducli, ut ipsam substantiam corpoream esse, visibilemque et traclabilem non dubilent, quaedam breviter dicendo esse arbitrar: f t autem firmius cognoscas, oòalav id est essentiam, incorruptibi- lem esse, lege librum sancti Dionysii Areopagilae de divinis Nomi- nibus eie.: e a ciò fa seguito la dimostrazione estesa. generale la origine della materia, con il fatto che alcune categorie vengono a trovarsi insieme, per modo da poter essere apprese dai sensi) : e nello stesso tempo, in questo generarsi, analogamente che per i filosofi precristiani, opera poi il fuoco, come quello che dà la forma alle cose sensibili. Ma poiché ora, secondo lo Scoto, non in altro che in questa molteplicità del mondo deve, per opera della filosofia, essere scomposta (5iaipruxVj) la unità divina, e da quella deve da capo partire la via da percorrere per il ritorno alla unità (àvaXtmxrj), quel grado intermedio della pluralità acquista una speciale importanza anche per la dialettica, poiché proprio in quella stessa pluralità del sensibile si viene a contessere la favella umana, come mezzo di espressione. A quel modo perciò che nelle cose sensibili le categorie, incor¬ poree in se stesse, sono alla fine diventate corporee (per quanto m maniera enimmatica e mistica), così anche il linguaggio, in quanto è sensibile, afferrerà le categorie soltanto nella forma verbale sensibile-corporea (per quan¬ to parimente con un intrecciarsi di motivi mistici), e appunto lo stadio intermedio della dialettica, vale a dire **? rh ' d ' 34 ’ Quantitàs vero, qualitasque. situs, et habi- fT \ nte \r COeu ’ ltes mater iem.... jungunt, corporeo sensu per - Wcl nU alluTT GregoriusN y s ^-- orti* raHonibu, ita esse ahud dicens matenam esse, nisi aecidentium quondam compositi 0, nem ex mvis.lnlibus causi® ad visibile® materica, prò- cedentem [Lo Scoto cita il Sermo « De Imagine» del NiTsen” ma forse parafrasa I cap^XXHHV del libro « De hominis opificio *] interni 2 ’ 5' 494 S : - Formarum al,l ‘e in oùoia. aline in qualitate uVc" r; j ^ '"°' iOÌa «"*■ "‘bstantùdes speciel generis ti^ 'seu mLtn* 8 ’ °, ‘"T- atque P° XÌ,Ì onem naturali um par - “7 " Ì r r r «d quahtatem referri, formatnque proprie vo- membra e [ l ",T dl ? ìtt . am 1 en ‘ e « forma, bensì all’armonia delle membra e bellezza del colorito] ex qualitate ignea, quae est color FXfrDe i rr tur - Et h r n vocatur a form °’ h ° r - si rai ' d  (v! 1 estus [De I erborimi significata ed. Lindsay, p. 73] s v forma) Udum Sa  rii diffinitione non dissential.... (PL 9 lj,y oj. ): Aristoteli genus, speciem, difjerentiam. pro- pnum et accidens, subsistere denegava (se. Minerva), quae Platani subsistentia persuasa. Aristoteli an Plotoni magis credendum pu- latis. Magna est utriusque aucloritas, quatenus rix audeat quis al- lerum alteri dignitate praeferre [PL]. Cui rei Aristoteles in libro Peri Ermenias congrua bis verbis: Sunt ergo ea quae sunt in voce, earum quae sunt. Altre notizie ancora, appartenenti alla seconda metà o alla fine del secolo X, possiamo citarle soltanto come documento del perpetuarsi della tradizione scolastica; tal è il caso, quando vien riferito che il vescovo \ ol¬ ia n g o a Ratisbona in una disputa teologica trovò maniera di applicare le varie specie in cui può esser diviso Yaccidens (a tal proposito c degno tuttavia di nota, che il metodo dialettico viene denominato carnali^ antidotus), o quando vengono menzionati gli studi di logica, di lAbbone da Orléans, che studia a Fleury e ivi successivamente insegna, e del vescovo Bernward a Hil- in anima passionimi nolae [cfr. BOEZIO, p. 216 e 297; Prima cditio, I 1 ed. Meiser, Pars Prior, p. 36; Secunda edilio, I, 1, ed. Meiser, Pars Posi.; PL, 64, 297 e 410], Omnis nota aUcujus rei nota est. Prius ergo res est quam nota. Res ergo prius ponderando est, quum nota».... Boetius tir eruditissimus in libro Peri Ermenias se- cundae editionis [p. 450; VI, 13, ed. Meiser, Pars Post., p. 4a), Spira pret.. Analitici e Topica, e a proposito di quest’ ultima, d’accordo con BOEZIO (de diff. top.), riconosca che i due campi, dialettico e retorico, sono a contatto uno con l’altro, per accennare da ultimo a Cicerone, rappresentante della retorica vera e propria, in quanto questa non venga a ricadere nella sfera dialettica 206 ). [§ 22. — Gerberto, figura ASSOLUTAMENTE INSIGNIFICANTE: a) materiale degli studi di logica al tempo suo]. J "*) Il 1° Libro (ibid., p. 35) s'intitola: Primus libeUus de studiopoetae, qui et scholasticus, e dopo aver trattato della poesia, fa seguire la filosofìa: Inde ubi maiorum tetigit nos cura cibo- rum, Porphyrius claras nobis reseravit Athenas, Qua multi indige¬ nte librabunt verba sophistae. Cernere erat quondam vidtu pallente puellam. Pructica cui limbum pinxitque theorica peplum, Et licet effigiem macularet parva (leggi: prava) vetustas, Ipsa tamen ternas suspendit ab ubere natas (v. ibid. la tri- partizione della sfera teoretica). Praeslitit haec nobis summi sub- sellia ledi. Et postquam strato licuit discumbere cocco. Proceduta senae turba comitante SORORES (cioè dialettica, retorica, ritmica, matematica, musica, astronomia). Ingenui vultus non absque grave- dine gestus Adducit famulas praestanti corpore quinas (cioè le cinque parti che vengono subito appresso) Omnia sub gemino clau- dens Dialectica puncto (il duplice punto di vista è invenlio e io di¬ cium, v. la Sez. XII, ibid.). Prima quidem (la Isagoge) miles generali nomine pollens Insignita tribus (cioè genus, species, difjerentia) unum selegit amictum. Hanc vice continua sequitur gradiente se- cunda (le Categorie). Tertia (la teoria del giudizio) discredi quid- quid primaeva coegit, Dans operam sane cirros crispare secundae, Quos quartae (sillogistica, cioè Analitici) solido collegit fibula nodo. Inslabilem fucum lulit ultima (la Topica) quinque sororum Dodo quibus geminas decernens Graecia jormas (cioè loci dialettici e retorici) Pinxit « quale » tribus, « quid sit » reperendo duabus (cioè il Quale consiste in persona, tempus, circumstanliae —, e invece il Quid in definitio e descriptio), Ut reboant nobis deliramentu Platonis (questo non riesco a spiegarlo). Inde suam stipai comilem pressura sodalem Rhetoricam du- plicis vestitam flore coloris, Quuc iaciens varias nervo pulsante sagit- tas Monstrat hypothetici nobis spedaicula ludi. Et ioni cornuta sur- gens ad sidera fronte Causarum rivos putido profudit ab ore. Sed postquam illatas pepulit conclusilo lites Ipsaque gravigenas conipe- git pace sophistas. Omnibus asseculum veniente porismate laetis Sub pedibus Eogicae recubabat nexa coaevae, Commissura tibi reliquie rum munia, Tulli. A ciò fanno seguito la ritmica e le altre disci¬ pline nominate più sopra. Anche del famoso Gerberto (Papa Silvestro II) dobbiamo anzi affermare la stessa cosa, che cioè egli, senza originalità, rimase assoluta- mente irretito nella tradizione scolastica: purtuttavia c’è d’ uopo bitrattenerci sopra di lui alquanto più a lungo, appunto perchè a lui e al suo comparire si riconnettono notizie preziosissime riguardo ai limiti ristretti, entro i quali era contenuta in quell’epoca la trattazione della logica). Ci racconta cioè anzitutto un contemporaneo di Gerberto, come questi in gioventù fosse iniziato alla logica da un chierico eminente (probabilmente Giselberto) a Reims, dove poi incominciò subito la sua ope¬ rosità di maestro delle solite discipline scolastiche). Ma, come colui che riferisce la notizia enumera a tal proposito distesamente e compiutamente anche tutto m ) Per notizie sul conto di lui in generale, v. M. Buedincer, Gerbert’s U’issenschaftliche und politische Stellung («Posizione scientifica e politica di G. »), Cassel, e K. Werner, Gerbert !’• Aurillac, die Kirche und Wissenscfiaft seiner Zeit (« G. da A., la Chiesa c la scienza del tempo suo»), Vienna [2* ed.,J. a ®) Richeri Historiarum  (Pertz, :MGH, V, p. 617): luvenis igitur apud pupam relictus, ab eo regi (cioè Ottoni) oblatus est. Qui (vale a dire Gerberto) de urte, sua interrogatus, in mathesi se satis posse, logicae vero scientiam se addiscere velie respondit.... Quo tempore G. Remensium archidiaconus in logica clarissimus ha- bebalur. Qui etium a I.othario Francoricm rege eadem tempestate Ottoni regi Italiae legatus directus est (un arcidiacono di Reims in quel tempo, con il nome incominciante per G, sarebbe Giselberto, presente al Concilio d’ingelhcim: v. Marlot, Metro- polis Remensis historia. Lilla; il Buedincer e 1 Olleris; v. [per la precisa citaz. delPoperg;, ai quali si unisce il Werner, pensano a Garamnus, menzionato [dal Mabillon] negli Acta Sanctorum Ordinis S. Benedicti : Saec. [dove precisamente trovo ricordato il « Signum.... Geranni Archidiaconii »]. Cuius adventu iuvenis exhila- ralus , regem adiit, atque ut G.... o committeretur obtinuit. E G.—o per aliquot tempora haesit , Remosque ab eo deductus est. A quo etiam logicae scientiam accipiens, in brevi admodum profecit, G....S vero cum mathesi operam daret, artis difficultate iictus, a musica reiectus est. Gerbertus interea studiorum nobilitate praedicto metro¬ politano commendatus, eius gratium prue omnibus promeruit. linde et ab eo rogatus, discipidorum turmas artibus instruendas et adhi- buiI [PL il repertorio di scritti di logica, di cui si serviva Gerberto nell’ insegnamento, così veniamo in possesso di un do¬ cumento tanto importante quanto decisivo, per provare che pur alla fine del secolo X restava ancora sempre sco¬ nosciuta la traduzione, dovuta a Boezio, degli Analitici e della Topica di Aristotele: perchè proprio di questi man¬ ca la menzione, mentre vengono citate in fila tutte le altre traduzioni e i lavori originali di Boezio (v. la Sez. XII, note 72 s.); ed è altresi degno di nota che Gerberto facesse venire l’insegnamento della retorica soltanto di seguito a quello della dialettica, come pure che il cro¬ nista nel suo racconto assegnasse ancora la retorica alla logica, trovandosi pertanto a considerarle da quel punto di vista, che abbiamo veduto proprio d’Isidoro, Alcuiuo e Hrabano (note 27, 54 e 79 di questa Sezione) 209 ). Ma ci viene riferito inoltre che Gerberto si occupava di de¬ lineare una figura, nella quale fosse rappresentata in una Tabula logica la distribuzione di tutte le cose; venne tuttavia su questo punto a contesa con Otrico, e con ciò va messa in relazione una disputa filosofica che si svolse =l *l Ibill, (in continuazione) L4-6-8J : Dialecticum ergo ordine librorum percurrens, dilucidis senlentiarum verbis enodavit. In primis enim l’orphyrii ysagogas id est introductiones secunduin Pictorini rhethoris trunslationem, inde etinm easdem secunduin Mani inni explanavit, Cathegoriarum id est pruedieamenlorum librino Aristotelis consequenter enucleans. Periermenius vero, id est de interpretatione librimi, cuius luboris sit, aplissime monstravit. Inde edam topica, id est argumentorum sedes, a Tullio de Graeco in Latinum translata et u Manlio constile sex commenlariorum libris dilucidala, suis auditoribus intimavi!. Necnon et quatuor de topicis differentiis libros, de sillogismis cathegoricis duos, de ypotheticis tres, diffinitionumque librum unum, divisionum aeque unum, utililer legil et expressit. Post quorum laborem cum ad rhethoricam suos provehere velici, id sibi suspectum erat, quoti sine locutiontim mo- dis, qui in poelis discendi sunt, ad oratoriam arlem ante perveniri non queat. Poelas igitur adhibuit quibus ussuefactos, locutioniun- que niodis composilos, ad rhethoricam trunsduxit. Qua instructis sophistum adhibuit: apud quem in controversiis exercerentur, ac sic ex urte agerent, ut praeter arlem agere viderentur, quod oratoris maximum videtur. Sed haec de logica. In mathesi vero. etc. [PL a Ravenna, al cospetto di Ottone II, allora quin¬ dicenne 21 °). Un’ altra più minuziosa narrazione concernente questo colloquio, ci fa chiaramente riconoscere, che sopra l’argomento i contendenti sapevano semplicemente a memoria quel che aveva detto Boezio (nel commento alla Isagoge), e su tal fondamento dibattevano la controversia, se cioè il concetto di RAZIONALE sia più ristretto che quello di Mortale, o non piuttosto, viceversa, si dimostri più ristretto quest’ ultimo Z11 ). ■'") Huconis monachi Virdunensis, abballa Flaviniacensis, Chro- nicon (P'ertz, MGH) : Quo tempore Otrieus apud Saxones insigni* habebatur.... Adalbero Romam cum Gerberto petebat, et Ticini Augustum (cioè Ottonem) cum Ottico reperit, a quo.... duo tus.... Ravennani, et quia anno superiore Otrieus Gerberti se vepre- hensorem in quudam figura cum mulliplici diversarum rerum distri¬ buitone (presa da Boezio, p. 25 (in l’orph. a Vict. transl.: ed. Brandt; PL) monstraverut, iussu Augusti omnes pnlatii sapientes intra pululium colletti sunt, tirchie piscopus quoque cum Adsone abbate Dervensi et scolastico- rum numerus non parvus; et coeptu disputatone , cum iam pitene lotum diem consumpsissent. Augusti nulu finis impositus est. È in¬ concepibile che il Werner, abbia potuto, con accento di biasimo, rinfacciarmi di aver antccipato la data della disputa, riportandola all'anno 870, perchè nella prima ediz. di questo vo¬ lume (pag. 54) si poteva pur leggere chiaramente il numero 970; senza poi contare che non è lecno ritenermi capace di far parte¬ cipare a un dibattito nell' 870, un uomo che io stesso dò come morto nel 1003. "“) Richerj op. cit., e. 60 e 65, p. 620 s.: Otrieus.... a il: «Quo- niam pliilosophiae partes uliquol hreviter uttigisti, ad plenum oportet ut et dividas, et divisionem enodes...... Tunc quoque Gerbertus: 4 ....secundum Vitruvii (leggi Victorini ) atque Boctii divisionem dicere non pigebit. Est enim philosophia genus; cuius species sunt. predice, et theorelice: praclices vero species dico, dispensativam, di- stribulivam, civilem. Sub theoretice vero non incongrue intelligun- lur, phisica naturalis, mathematica intelligibilis, or theologia intvl- lectbilis. La fonte è BOEZIO. Tunc ve- hementius Otrieus admirans I versa circa la distinzione tra l’octu.s necessaria, l'actus non neces- sanus, il quale ultimo ha origine a palesiate ovvero a subsistendo. e analmente la pura e semplice potenzialità. Gerberto mette questa partizione in forma di tabella: ma in ciò può ben ravvisarsi sol¬ tanto un modesto titolo di merito, poiché, ch’egli non abbia nean¬ che un solo pensiero suo personale. Io dimostriamo, qui come ap- P m?’/ IC ? 1 no\emotiva di Monaco (C.od. lui. 14272), contiene questa lettera. tuisce l’oggetto di giocherelli sillogistici: dopo averla rap¬ presentata cioè in modo assoluto come una disutilaccia, a Adalberone viene in mente di saggiare logicamente la validità universale di questo giudizio riprovativo, e pro¬ cede ora a una disquisizione in forma dialogica, per so¬ stenere che il giudizio è singolare, che c’è un opposto contraddittorio del giudizio stesso, e via dicendo: viene appresso l’invito a fornire a regola d’ arte la dimostra¬ zione della inutilità di quell’animale 2S0 ) ; ciò si fa per¬ correndo nel dialogo, in forma antitetica, l’intiero elenco dei giudizi ipotetici 233 ), e a ciò si trovano anche fram- , hc riempie una pagina e mezzo in folio (fol. 182 tO. Pare elle il titolo riferito più sopra sia stato semplicemente combinato dal Pez. FUilco). Denique haec mula.... non esset universaliter, seri polius aut particulariler aut indefinite, quae paene unum suiti, inu- tilis proponendo.... Igitur quae particulariter quoquo modo utilis est, omnimodis universaliter inutilis non est. — A(dalbero). Si hanc iauliiem atque inhonestam indefinite vituperarem, veruni a falso non diseernerem, nam huius mulae inutilitas, si universaliter esset dedi¬ catila. particulariler esset abdicatila (cioè sarebbero allora predi¬ cati nello stesso tempo concetti contraddittori). Sed haec viluperatio ncque universaliter ncque particulariter est determinata.... igitur quia singularis est, neutrum horum est. — F. Singulare dedicativum nonne suum hubet abdicativum?... Putasne, universale propositio universali, purticularis particolari, indefinita indefinitae sicut siagli- lares contrudictorie opponuntur? A. Piane opponuntur: si sub- stantia fuerit, erit praedicativa, sive sit sive non sit. F. Putasne. si accidens? A. Eodem modo opponuntur, si illud fuit inseparabile. F. Omne inseparabile contrudictorie opponitur? A. Non. _F. Illud tanlummodo cui aliquid possit uccidere, et illud dicitur substuntiale. Sed nunc ex arte, non de arte, nostris affirmalionibus cum luis repugnantiis hanc mulani esse inulilem atque inhonestam ■ onci nei profiteberis. Qui sono mescolate insieme la teoria di Boe¬ zio (fin Ar. de interpr.. ed. seconda, II, 7 e III, 10: ed. Meiser, p. 117 ss. e 255 ss.; PL, e la terminologia di Alareiano Capella (ibid.. nota 66). 31 ) A. Mula haec si claudicai, male ambulai; atqui claudicai : igitur male ambulai. F. Mula haec si claudicai, mule ambulai: utqiii non claudicai; igitur non male ambulai . A. Mula haec non. si claudicai, male non ambulai; atqui claudicat: igitur male ambulai. F. Mula haec non. si non male ambidat, claudicai : atqui non male ambulai; igitur non claudicat. A. Si valida non est. debilis est; atqui valida non est; igitur debilis est, e via dicendo. 106 mischiate enunciazioni di regole logiche)  ma l’insieme, clf è preso tutto quanto da BOEZIO, si chiude con l’accenno a lma causalità demoniaca della inutilità della mula, una spiegazione, questa, che dovrebbe, a quel che sembra, sodisfare ambedue le parti contendenti. Scolaro di Gerberto e pa- nmente Fulberto, vescovo di Chartres (dove nel 990 aveva aperto una scuola, e vi resse la sede vescovile dal 100/ [o 1006] sino alla morte,che godette di grande reputazione come conoscitore della dialettica 234 ), sì che persino gli f u conferito il sopran¬ nome di Socrate dei Franchi). Ma, mentre assoluta- mente nulla di preciso ci è noto, in ordine alla sua teoria F e' A ' et negalio semper est in pruediculis — nota 119) adhibetur, vind/cat sibi vini contradictionis et modus in- 1 A Hon et eodZTn em P °"" P , r “ cA ' c ""' s Sminati» subiectis. 4 7>liL f'i  nominali appresso da Trite- nuo, sono d. contenuto puramente teologico). erio iì““S . Ji Bereii- m’SLST logica 23B ), dobbiamo in ogni caso tenerlo in gran conto quale maestro di Berengario da Tours, sebbene sia lecito argomentare che da Fulberto le conoscenze e l'abilità, relative alla dialettica, erano ancora tenute del tutto lon¬ tane dal campo teologieo-dogmatico, poiché per quest’ul¬ timo riguardo egli esortava i suoi scolari alla più rigo¬ rosa ortodossia 237 ). Ma possiamo, in generale, scorgere un segno di più intensa operosità, relativamente alle condizioni di quel¬ l’epoca, già nel fatto che di nuovo si procedeva ad ap¬ prestare compendi o si elaborava con commenti conti¬ nuativi il materiale esistente a uso delle scuole, poiché, quantunque in ciò non donimi ancora una energia crea¬ tiva ùltimamente personale, purtuttavia si torna a ravvi¬ sare nella conservazione o nell’ incremento del sapere logico il vero e proprio fine: l’attività si volge cioè alla teoria come tale, sebbene senza originalità. [§ 25. — Anonimo rifacimento metrico della Isa¬ goge e delle Categorie: colorito nominalistico]. Cosi un A il o n i ni o  Ila ri¬ fuso in esametri la Isagoge e le Categorie), per impri¬ mersi nella memoria, con questo primo suo lavoro, come dice egli stesso nella introduzione in prosa, indirizzata a un certo Belinone, il contenuto di quei libri 239 ). Inco- ■ 3, l La notizia, che Fulberto abbia mandato la Isagoge allo « scholaslicus » di un chiostro (v. Fui.berti Opera, ed. Villiers, Pa¬ rigi 1608, Ep. 79, fol. 76 b [PL: Ep.) è priva d'im¬ portanza. I Adelmanno, loc. cit., p. 3 [§ 6-8): obtestans per secreta ilio.... [colloquiai..., et obsecrans per lacrymas,... ut illue omni studio properemus, viam regioni directim gradientes, sunctorum Patrum vestigiis obsenantissime inhaerentes, ut nullum prorsus in diverti- culum. milioni in novam et fallacem semitoni desiliamus etc. f PL. loc. cit. or ora, nella nota 2351. Il lavoro è riprodotto a stampa, di su un codice di St. Ger- main (n. 1095), dal Cousin, Ouvr. inéd. d’Abél., p. 657-669. ) Chi sia stato o dove sia vissuto quel tal Bennone, non può mincia con il prendere da Boezio la divisione (Sex. XII, nota 77) dell’ Organon aristotelico, e pensa a tal proposito che la faccenda sia andata cosi: che cioè Aristotele abbia incominciato con lo scrivere i primi Analitici, e poi, siccome questi erano riusciti incomprensibili, abbia scritto appresso gli Analitici secondi, ai quali per lo stesso motivo ha dovuto far seguito la Topica, come pure poscia il De interpr., e quindi ancora le Categorie; ma non avendo voluto Aristotele scendere, per farsi capire, a un livello ancor più basso, e avendo perciò passato sotto silenzio le quinque voces, è intervenuta qui per for¬ tuna, a compier V opera, l’attività di Porfirio. II contenuto della Isagoge viene poi spicciato molto somma¬ riamente con la semplice indicazione della definizione delle quinque voces 241 ), e indi fanno seguito le Catego- ricavarsi dalla introduzione, che si tiene affatto sulle generali. Del ■no stesso lavoro dice ivi l'Autore: Quoniam complurium mci ordinis scholusticorum, praesul venerande, oblatus tibi litteras omni gradarum idacritate saepius te audio suscepisse,... tuue con- fisus.... pietati uliqua et ego offerre litterarum jocularia praesumo tliae maiestati. Feri animus, Dei aspirante grada, quum puueissimis oratione metrica absolvere, quod Porphyrii Isagoge et Aristotelis Calegoriae videntur in se continere. Quod batic ob causam maxime decreta agere, ut, quae illi latius difjudere, breviter collecta per me tenaci diligentius crederem memoriae. Nomina quoque grueca quae- doni interposui, ubi lege metri constrictus latina non potili.... Id mihi ne duculur litio, primum abs te, pater piissime, cui hoc litterarum munere ingenii mei primitias immolo, deinde ab omnibus veniam /tostalo. ) lbid„ p. 658: Doctor Aristoliles, cui nomen ipsa dedit res, Ingenio pollens miro praecelluit omnes. Hic, natis post se diulectica ne latuisset, Primos componens Analilicos studiose. De syllogismis ratio perpenditur in quis, Credidit ut sapiens hos planos omnibus esse. Sed cum nullus eis intellectu capiendis Sufficeret, rursus tentai prof erre secundos : Quos ncque posse capi cum sensit. Topica scripsit ; Hinc Perihermenias, postremo Cathegorias : Post quas finitas. descen¬ dere noluit infra. Hic genus ac speciem, proprium, distantia, striti- gens, Simbebicos edam quid sint omnino tacebat. Porphyrius tan¬ dem cernens, nisi cognita quinque Haec sint, bis quinus nesciri ca¬ thegorias, Cuique smini finem signavit convenientem. (Cfr. anche Bokzio, p. 113 rio Ar. prued.. I; PL, 64, 160 s.] ; Sez. XII, nota 841. t Jbid. Dopo la definizione delle cinque voces, si legge: Ni nimis est longutn. communio dicier horuni (vale a dire ciò di cui rie. Dice espressamente l’autore, a proposito di queste, sin dal principio, che si tratta lì non già delle cose per se stesse, ma soltanto delle voces signativae delle cose 242 1, si che troviamo qui una ripetizione di quel punto di vista nominalistico, considerato più sopra (note 149 ss. e 159); ma hi ciò consiste anche tutto quel che di più importante dobbiamo rilevare in questo compendio; poi¬ ché nel rimanente esso si tiene cosi strettamente attaccato allo scritto pseudo-agostiniano intorno alle categorie (Sez. Xll, note 43-50), che di l'atto lo si può denominare, in una parola, una versificazione dello scritto stesso; tut- fai più si può osservare inoltre, che i numerosi termini greci, i quali vi figurano barbaramente trascritti, deri¬ vano ugualmente da quella medesima fonte, dove pure si trovano abbastanza spesso intercalati, restando con ciò molto semplicemente eliminata ogni ipotesi che even¬ tualmente sorgesse, relativamente a studi che fin d’al- lora si facessero sopra l’originale greco 243 ). appreso viene a trattare Porfirio: v. la Sez. XI, note 49 ss.), Non nos barrerei : sed malumus ergo lucere. Ne generelur in his libi nausea discutiendis. :l: ) lbid., p. 658 s. : Post haec, bis quinus pandamus cuthegorias. In quis rir doclus non ex ipsis quasi rebus, Sed signativis de rerum vocibus orans. SuiniI ab omonymis tractandi synonymisque Prin- cipium eie. ***) Poiché tutto questo scrino è semplicemente una ripetizione metrica di quello del Pseudo-Agostino, appare superfluo fare cita¬ zioni particolari. Ma per quel che riguarda i termini greci, spiegati per lo più in latino con glosse interlineari, può ricordarsi: usya, sim- bebicos e simbebicota, enarithnui (àvdpiitpa : Sez. XII, nota 43), epi- phania (a proposito della quantità) T6601, poi, a proposito delia re¬ lazione, Pesametro 1662): Thesin, diuthesin, episthemin, estesili, exin (cioè èiuaxrjprjv, aloDijoiv, IJ'.v e similmente [ il). | Dicilum ornile quod est, rei eneria dinamite (cioè évspysJa e Suvàpzi), come pure, a proposito della qualità 16631: Exis, diathesis, phisices di¬ ttamis poelesque (rcoiÓTrjg Passibilis, potius seu pathos, scemala morphue (axtipaTa popcff,c), nella Sezione che tratta degli opposti 1667 \habitus sleresisque atépr,oi; , e, a proposito del postpraedi- camentum del moto [668-9] : Auxesis, megesis, genesis, florus, aliu- sis. Et Itala ton joras, metabeles associato (cioè aB(;l}Olg, |ia£o)atg, YÉvEatg, àXÀoùasig, xatà xòv tónov, pexagoXtJ). no  [§26. — Intensa attività della Scuola di S. Gallo. Notker Labeo: a) un Tractatus insignificante ].Ma principalmente a S. Gallo noi troviamo, intorno a quell’epoca, una più estesa rielaborazione del materiale logico in uso nelle scuole, e per tale riguardo spetta in ogni caso al famoso NotkerLabeo il merito di aver dato P impulso e diretto la esecuzione, sebbene non tutt’ i lavori dei quali qui si tratta, sieno venuti fuori proprio dalle sue mani 24 *). Non c’è dubbio che qui pure il fondamento è dato solamente dal materiale tradizionale, e non c’ è da aspettarsi propriamente novità 245 ): ma questo materiale tradizionalmente tra¬ smesso è in parte trattato tuttavia in maniera più libera, mostrandosi in ogni caso un interesse, che si volge con abbandono all’ oggetto della trattazione per se medesimo. J4 *) Mentre cioè J. Gbimm («Gott. Gel. Anz. », 1835, N. 921 è (li opinionr che Notker sia l'autore unico di tutti quegli scritti, e a questa opinione aderisce incondizionatamente anche H. Hattemer iDenkmiiler des Mitteltdters « Monumenti del M. Evo », III [S. Gallo, p. 3 ss.), ci sembra invece più giusto, tenuto conto della diversità intrinseca di quei lavori, ammettere con W. Wacker- NACEL I Orse il ichte dir deulschen Lilteralur «Storia della letteratura tedesca », p. 80 s. 12* ed., Basilea 18791 : v. di lui anche la orazione accademica sopra le benemerenze degli Svizzeri verso la lettera¬ tura tedesca, Basilea 1833) che le opere recanti il nome di Notker sieno state composte da vari autori, semplicemente sotto la dire¬ zione di lui: rfr. inoltre appresso la nota 262. FI1 Franti non cita Die Schriften Natkers und seiner Scinde (« (ili scritti di Notker e della sua scuola») editi da P. Piper, Voi. I (Scritti di argomento filosofico). Frihurgo-Tubinga, 1882], ' 45 l Cose straordinarie si posson leggere invero nella Geschiehte Din St. Gallai («Storia di S. Gallo») di Ild. v. Arx. Nella Dialettica, ch’essi dividevano in Logica, Peripatetica, Stoica e Sofica [sic/l, furono loro maestri Aristotele, Platone, Porfirio e BOEZIO: eran loro ben note le dieci categorie e le Periemerie del primo tra essi, le cinque Isagogi di Porfirio e il metodo d’insegnamento di Socrate. Ma nientr’ è facile scorgere subito che tutta questa notizia può fondarsi solamente sopra la più crassa ignoranza dell'autore, si dovrebbe supporre tuttavia ch’esso abbia ricavato da mi qualche manoscritto la informazione che dà, relativamente alla partizione della dialettica; tuttavia anche su questo punto sono -tato messo tranquillo dal mio amico e collega Hofmann, il (piale, in occasione di sue ricerche personali, fece a S. Gallo Tra questi scritti il più insignificante è un « Tractatus inter magistrum et discipulum de artìbus »: l’autore in¬ fatti si è limitato qui a riassumere il Compendio di Al¬ enino (v. sopra le note 48 ss.), conservandone la forma dialogica, e ha inoltre utilizzato in compendio anche BOEZIO, ma epiest ultimo soltanto da principio, cioè a proposito della Isagoge e della categoria della quantità 24 °). [§ b) rifacimento delle Categorie]. — Invece un più diligente studio delle opere di BOEZIO e una rielaborazione alquanto più libera del materiale che vi si trova, sono manifesti in altri due scritti, notoriamente di som¬ ma importanza anche per la storia della lingua tedesca, cioè nel rifacimento delle KaTTjyopi'at, e nel rifacimento del libro IlepUppTjvelas 247 ). Il primo di questi scritti si attiene in complesso rigorosamente, quanto al testo, alla anche nel mio interesse una verifica relativamente alle opere di logica, ma non potè trovare assolutamente nient’altro, all’ infuori da quali t’è stato di già pubblicato, o per lo meno accennato dal (iraff. dal Wackernagel e dallo Hattemer; v. anche appresso nota 271. ’ / bsisle manoscritto alla Biblioteca Governativa di Monaco (Coti. lat..), di dove lo Hattemer ( Denkm. d. Mitlelalt.. [già Cil.l, III, p. 532 ss.) trasse per pubblicarle le sole intestazioni dei capitoli. La partizione della filosofia e della logica è quasi letteral¬ mente presa da Alcuino, ma dove si tratta delle quinque voces, la ' numerazione delle diverse loro sottospecie e gli esempi illustrativi -ono ricavali da Boezio; la Sezione che tratta delle categorie è da principio un riassunto da Alcuino, con omissione degli homony- ni" ecc.; e dopo che di nuovo è stato utilizzato Boezio, solamente riguardo alla categoria della quantità, si viene in seguito a parlari- delie rimanenti categorie, attingendo parola per parola ad Alenino, ma soltanto fino alla categoria dell’/iufiere: e da quell" unica pro¬ posizione esemplificativa (v. qui sopra la nota 57) si passa subito, con la intestazione Quid su,il formulile syllogismorum, alle notizie !" -Alcuino intorno all argomentazione, le quali sono altrettanto '"eraunente riassunte, quanto le seguenti che riguardano Biffi■ niil( *\ topica e Periermertine. .. 1 F ;^ P 7 Ìo 24S ). ma frammezzo al testo, periodo traduzione di Boezio t n te per periodo, vi è intrecciata una spiegazione, contendi , S ua volta la parte più importante del commento dello «Z Boezio, e a BOEZIO una volta Fautore espressa- niente si richiama: molto spesso la dimostrazione queste spiegazioni viene articolata ne suoi e 1 maniera perspicua, mediante cenni sommari del conte unto o altre intestazioni, anzi anche con la indicazione Propositi io, Asmmptio, Conclusi o«): e gh esempi espli¬ cativi sono in alcuni luoghi personalmente escogitati da Notker; si può osservare ancora che Fautore, con ma¬ nifesta predilezione per la geometria, s indugia piu a lungo e con maggiore originalità su quei passi, che con- tengono un accenno a tale disciplina • re) rifacimento del De mlerpretalione). - Il rif"'" menlo del II.pt nlliene «—« 1»"- • a 1 ™r«n «tesso della storia della logica, lo ho pre- alcun influsso nel torso , - zwe i altesten Compendien srwfttiSX* gj d r p ,l l8™“ ,b ‘ di logica in tedesco»), Monaco, , ^ aria ’ zion ;. ta ,l V olta sono ab- brevT.zSi od Soni ^ - — * — dere, e via dicendo. a pedo mule [el disposino ist PÌP -; €o S t 4 p. lC eTaT4 a n9 le s Quesfulti.na terminologia è presa da Hoizio. de syll. hyp.\ v. la nota a • intu itiva «) A questa maniera non soltanto lp. WZ ss. « u5 mediante disegni "jò^l'^niTesaurita la trattazione della *- „ .... diseano diverso che in Roezio. to al testo, parola per parola alla traduzione di BOEZIO, e i commenti che si trovano alla stessa maniera intrec¬ ciati anche qui, si fondano parimente sopra il commento di Boezio, del quale l’autore, come accenna egli stesso, ha utilizzato ambedue l’edizioni ***). Ma ha importanza la introduzione, eh’ è premessa all’ insieme, in quanto che novamente c’ imbattiamo qui pure nel punto di vista nominalistico, che ravvisa nel significato delle parole l'oggetto delle Categorie; ivi inoltre, notizie, ed espres¬ sioni tecniche, tratte da Marciano Capella, vengono intrecciate in maniera caratteristica con quelle osservazioni die riguardano l’ordine ili successione dei libri dell’ Or¬ ganon, e che sono ricavate da BOEZIO: e appunto rispetto a queste ultime notizie, ci è consentito ancora di ricavare dagl’ ingenui equivoci dell’autore la conchiusione sicura eh’ egli conosceva gli Analitici e la Topica di Aristotele, proprio soltanto per sentito dire, da quel passo di BOEZIO, Hattemer, p. 474 a [ ed. Piper, p. 511: rifacimento del De interpr., Lili. I, 111: Est hoc \tractare 1 nlterius negotii. Taz isl anders uuur zelerenne, samoso er chade, lis mine metaphisicu (v. BOEZIO, p. 230 [ in de interpr., Prima editio: ediz. Meiser, I, 5, p. 74; PL, 64, 3151), dar lero ili tih iz. Ahere boetius saget iz fure in, in secunda editione etc. (cioè Boezio, p. 326 I ih., Seeunda edi¬ tio: ediz. Meiser, II, 5, p. 101; PL. [Est hoc alterius nego- lii. Ciò dev’essere insegnato in altro luogo; così disse egli: «leggi la mia Metafisica; li te lo insegno». Ma BOEZIO lo dice apertamente in secunda editione ete. (Della traduzione, di questo, come dei segg. passi di N. L., debbo esser grato alla dottrina, tanto cortese quanto sicura, del rh.mo collega BATTISTI (si veda). Neanche mancano qui quelle figure, con le quali BOEZIO rende intuitiva la teorica del giudizio, e anzi per esse l’autore rinunzia a servirsi del tedesco. “’) ìhid.. p. 465: Aristotiles sreib cathegorias, chunl zcluenne, uutiz einluzziu uuori pezeichenen (cfr. più sopra le. note 149 ss., 159 c 242, e subito appresso la nota 256); nu lutile er samo chunt ketuon in periermeniis, uuaz zesumine gelogitiu bezeichenen, an dien veruni linde falsum fernomen uuirdet; tiu latine heizent proloquia; an dien aher neuueder uernomen neuuirdet, tilt eloquio heizent (la fonte di questa terminologia, vedila in Marciano Capella, Sez. XII, nota 51, e in Agostino, ibid., nota 33); tero uersuiget er an disamo buoclie. I nandù ouh proloquia geskeiden sint, unde einiu heizent 8. il «De parlibue loicae»; nominalismo]. Un altro scrittarello, intitolato « D e partibus loicae»™) si presenta come una compilazione compendiosa per uso delle scuole, essendovi anzitutto enumerate le sei parti* della logica, compresa la prima, che fu aggiunta da Porfi¬ rio alle cinque aristoteliche) : alla enumerazione fa poi Simplicio, dar eia uerbum ist, ut homo uiuit, andenu duplicia, dar zuei ucrba sint, ut homo si uiuit spirat, so leret er hier simplicia, in topicis leret er duplicia. Fone simplicibus uuerdent predicatoli syllogismi, jone duplicibus uuerdent conditionules syllogismi (la fonte di questa distinzione, in BOEZIO: A ah periermeniis sol man lesen prima analitica, tur er beidero syllogi- smorum kemeina regida syllogislicam heizet: taranah sol man leseti secunda analitica, lar er sull Arrigo leret predicutinos syllo- gismos, tie er heizet upodiclicam (anche chi avesse dato appena una occhiata superficiale agli Analitici stessi, non si potrebb espri¬ mere a questa maniera); zc iungisl sol man lesen topica, un diener oidi sunderigo leret conditionales, tie er heizet dialecticam. Jiu purtes heizenl samenl logica. Nu uernim uuio er dih ielle zuo dien proloquiis (anche nel commento stesso, accanto alla terminologia di BOEZIO, vediamo sovente figurare proloquium). [Aristotele scrive le Categorie, per indicare che cosa significhino le parole isolate. Invece nelle Periermeniae egli stesso dichiarerà quello che signifi¬ cano le combinazioni di parole, con cui viene enunciato il verum e il falsimi, e che in latino soli dette proloquia ; se invece non viene enunciata nessuna delle due cose, «on dette eloquio. Ala su ciò egli tace in questo libro. Inoltre anche nei proloquia si può fare una distinzione, e taluni, p. es. « homo viviti, in cui c è un verbo solo, vengon detti « simplicia », altri, in cui ci sono due verbi, p. es. « homo si vivit spirat», vengon detti « duplicia». Dei simplicia egli ragiona qui, dei duplicia nei Topica. Dai proloquia semplici si fanno i predicativi syllogismi. dai duplici i conditiona- les syllogismi. Dopo le Periermeniae, si leggeranno i primi Anali¬ tici, dove si chiama sillogistica la regola comune agli uni e agli altri sillogismi; dopo di che si leggeranno i secondi Analitici, dov’egli insegna separatamente i sillogismi predicativi, la cui regola chiama apodittica; per ultimo si leggeranno i Topica, dove insegna sepa¬ ratamente i sillogismi condizionali, la cui regola egli chiama dia¬ lettica. Queste parti complessivamente portano il nome di logica. Ed ora apprendi coni’ egli ti guida ai proloquia (ed. Piper, p. 499, op. ull. cit., « Praefatiuncula »)]. 251 ) Edito, di su un manoscritto zurighese, dal XX ackernacel negli Altdeiilsche Bliitter (« Fogli Altotedeschi ») di FIaupt e Hoffmann, II, p. 133 ss., e dallo Hattemer, op. cit., p. 537-540. *“) Hattemer, p. 537: Quot sunt partes logicue? Quinque secun- dum Aristolelem, sextum partem addidit aristotelicus Porphirius; quae sunt: isagoge, calhegoriae, periermeniae, prima analitica, se¬ cunda analitica, topica. seguito una più o meno lunga indicazione del contenuto delle parti stesse. Dopo che cioè della Isagoge sono state citate soltanto, nella traduzione di Boezio, le definizioni delle quinque voces, viene brevemente illustrata mia sola delle categorie, la sostanza, senza che sieno neanche no¬ minate le altre nove, ma in tale occasione viene enun¬ ciata 2o6 ) la concezione nominalistica, ancor più netta¬ mente di quel che s’è veduto or ora, alla nota 253; segue poi, riguardo ai giudizi, la semplice enumerazione delle quattro specie (universale affermativo, universale nega¬ tivo, particolare affermativo, particolare negativo), tratta da Marciano Capella e con la terminologia di lui 2r ‘ 7 ). Ma ciò che viene detto poi intorno agli Analitici primi e secondi, ha ugualmente per fondamento quello stesso passo di Boezio, dove questi espone 1’ ordine delle parti dell’ Organon, e certo neanche qui è fatto uso della tra¬ duzione da lui curata degli Analitici 23S ). Infine si tratta minutamente della Topica, e anzi in piena conformità con Isidoro (v. sopra la nota 39), aggiungendo qui 1* au¬ tore proverbi tedeschi come esempi dei singoli loci 259 ). fe) scritto De syllogismis, e sua importanza ]. Ma il più importante fra tutti questi scritti, provenuti da : “ 8 ) Ibid., p. 538 a: Quid tractutiir in cathegoriis? Prima rerum significano et quid singulae dictiones significent, utrum substantiam an accidens etc. sn )Ibid.: Quid narratile in periermeniis ? Quid consideratile in primis analiticis? SILLOGISTICA quae est communis regula omnium sillogismorum, necessariorum et probabilium, cathegoricorum et ippolhelicorum, item praedicativo- rum et condilionalium (raddoppiamento insulso, risultante daH’aver tirato dentro la terminologia di Marciano Capella. Quid traclatur in secundis analiticis? Apodictica id est demonslraliva quae demonstral veritatem, id est necessarios siilo- gismos. w ) È parimente copiato da Isidoro (nota 27) quanto lo Hattemer (ibid., p. 530 s.) riporta, da un altro luogo dello stesso manoscritto, intorno alla differenza tra dialettica e retorica. S. Gallo, è la monografia De syllogismis 2G0 ) ; poiché, sebbene si fondi parimente ancli’essa sopra una compilazione di materiale svariato, il suo autore, con un maggior corredo di letture, mette mano qui anche sopra cose, per cui non bastava una conoscenza puramente superficiale dei compendi scolastici d’Isidoro o di Alcuino; inoltre egli conserva una notevole indipendenza, in quanto che mostra la tendenza verso una interna, uni¬ taria finalità della logica: con la esposizione di tale fina¬ lità si chiude la monografia. Prima viene enunciata ) la definizione del SILLOGISMO, presa da Marciano Capella, con l’aggiunta di alcune parole della Retorica d Isidoro, — e qui già un considerevole numero di esempi in tedesco serve a chia¬ rire la trattazione: poscia 1 autore, facendo uso di una terminologia mista, presa sia da Marciano sia da Boe¬ zio, adduce la divisione dei sillogismi in categorici e ipotetici 2 ' 12 ); presenta quindi, attingendo a Marciano (Sez. XII, note 63 e 67), le parti costitutive del sillo¬ gismo categorico e del giudizio categorico), per far poi seguire a ciò la esposizione integrale dei diciannove modi del sillogismo, la quale è tratta da Apuleio (Sez. X, 1 Integralmente riprodotto a stampa nello IIattf.mer; in forma di estratti, nel Deutsches Lesebuch [« Anto¬ logia tedesca»] di Gucl. Wackfrnacel, I, p. Ili ss. ) C. 1, ibid., p. 541 a: Quid sii syllogismus. Syllogismus graece, lutine dicitur ratiocinatio.... quuedam indissolubilis oralio .... quae~ dam orutionis catena et inficia ratio. Et ex iis videntur quidam esse qui latine dicuntur praedicativi, alii autem qui dicuntur conditionales.... (p. >12 b) Constai autem omnis syllogismus proloquiis i. e. propo- silionibus. Dalle parole che vengono appresso — proloquia dicumus cruezeda, similiter proposiliones cruezeda [ incroci, combinazioni di voci CI, itera proposiliones pietunga O Bietungen », offerte, trad. lett. di proposiliones 3, alii diami pemeinunga [« Bemeinungen », enun¬ ciazioni) risulta altresì che in ogni caso erano in parecchi a occuparsi di simili rifacimenti della logica Od. Piper: r r hti minori, attinenti a Boezio, lì : «/le Syllogismis », 1], Cioè sumpta, illatio, subiectivum, declaralivum.n-ote 18 ss.), e chiarita con esempi tedeschi, che son opera dello stesso compilatore 2M ). Si passa quindi ai sillogismi ipotetici, e anzi per prima cosa viene presentato, alquanto liberamente elaborato e con intercalati termini di Boezio, quel che su tale argo¬ mento si ritrova in Marciano: solamente appresso trova posto la indicazione compiuta dei sette modi sillogistici enumerati da Cicerone (Sez. Vili, nota 60), e illustrati qui con una minuta spiegazione, che l’autore trae dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE, e correda parimente di esempi in tedesco 20 °). Ma ora c’ era pur iuoltre in Isidoro un syllogismus rhelo- rum (v. sopra la nota 43), e in connessione con quanto da lui era stato detto, viene colta qui la occasione di passar a considerare più minutamente la teoria retorica, il¬ lustrandosi, con esplicito rinvio a CICERONE (de Inventione, v. la Sez. Vili, nota 59), l’argomentazione retorica, e facendosi uso perciò di un esempio che si trova in Cicerone stesso 2B7 ). Ma subito 1’ autore s’in¬ dustria di ricondurre al sillogismo categorico tale specie di sillogismo, in quanto che questo è adeguato all’ esi¬ genze formali della riprova della verità, — accennando di nuovo sulle orme di Boezio agli elementi semplici dei sillogismi in generale 2B8 ), e a ciò unendo spiegazioni re- C. 3-8, p. 543-47. ) C. 9—12, p. 548 s. L’espressioni usate «la Marciano vengono qui intese come specifica terminologia, cioè: pro/Htsitio, assumptio, conclusio. **) C. 13, p. 55(4—553. Qui LA FONTE è BOEZIO, ad CICERONE Top., V, p. 831 [PL, 64, 1142] ss. I C. 14, p. 553 a: Transeunt vero syllogismi et nd rlietores iam latiores et diffusiores factì.... Ilorum esempla sunt upud Ciceronem in libri* Rhetoricorum. L’esempio ciceroniano del governo del- I universo (de Invcntione , I, 34, 59), elle del resto figura anche in BOEZIO, de cons. phil., I, p. 958 [PL, , viene poi svolto parimente in tedesco. l Ibid., p. 554 a: Praedicntivus est ille syllogismus nut condi lative al giudizio 269 ). E dopo che a ciò hanno fatto se¬ guito disquisizioni etimologiche sopra alcuni concetti, affini per significato al syllogismus — disquisizioni che sono tratte o direttamente da Isidoro, o dal così detto Glossario di Salomone (v. sopra la nota 185), e in parte anche da BOEZIO 27 °) — vien approfondita, in base alla Topica ciceroniana, la differenza tra dialettica e apodit¬ tica 2T1 ) ; tale differenza coincide con quella tra sillogismi ipotetici e categorici, ma proprio per questo, nel fine unico della scoperta del vero, si risolve in ima superiore unità, poiché con il magistero del ragionare si apprende ogni verità umana, mentre il divino trascendente s’in¬ tende senza tale arte 272 ). tionulis?.... Piane ergo praedicativus est.... nam et omnes purtes syllogismorum, sire propositio sive approbalio sive sumptum sive illatio sive conclusio sive ut alii dìcunt complexio (v. la Sez. Vili, nota 59) aut confectio, communi nomine enuntialio vocantur (v. ibid. la nota 45). La fonte di questa riduzione alla proposizione semplice è Boezio, ad Cic. Top., V, p. 823 [PL, 64, 1129]: cfr. anche la Sez. XII, note 131 e 140. "’) lbid.: Est autem enuntialio oratio verum aut falsum signi- ficans.... huius species sunl affirmatio et negatio (Sez. XII, nota 111): successivamente si vien a trattare, in lingua tedesca, di assumptio, illatio, conclusio. OT ) C. 15, p. 555 a: Cioè sopra ratiocinari, disputare, iudicare, experimentum ; e inoltre: argumentum dicitur, ut BOEZIO (ad CICERONE Top., I, p. 763 [PL, 64, 1048]) placet, quod rem arguii i. e. probat. '”) C. 16, p. 556 a: Quuerendum autem magnopere est, quare CICERONE dialecticam in ypolhelicis tantum conslituerit syllogismis.... Est enim medius inter Arislolelem et Stoicos (forse che quella tale notizia, accennata più sopra, nota 245, I. v. Arx l’ha attinta di qua?).... Proplerea Boetius Arislolilem in thopicis dialecticam et in secundis analiticis apodicticam docuisse testalur, cioè il complesso è preso da BOEZIO, ad Cic. Top., I, p. 760 LPL, 64, 1045] g., dove si trova uno svolgimento ulteriore del punto di vista ricordato. De potentia disputandi, i. e. Fone dero muhte des uuissprachonis. Si ergo satis intellectum est, omnem apodicticam constare in decem et novem modis syllogismorum et dialecticam in septem modis syllogismorum, non sit dubitandum, totam earum utilitatem esse in invenienda veritate. Ube niunzen sloz apodicticae unde sibeitiii dialccticae muda gelirnet sin, so uuizin man dormite, duz sie nuzze sint, alla uuarheit mit in zeeruarenne [Quando si sono bene appresi i 19 sillogismi apodittici e i 7 dialettici, con ciò Così l’autore, la cui concezione già con questo ci rammenta, in maniera tanto chiara quanto consolante, 10 Scoto Eriugena (note 111-120), può, per la sfera della umana aspirazione alla verità nel mondo di qua, enun¬ ciare una definizione unitaria della logica, nella quale ha la propria essenza la dialettica «ovvero» apodittica: e quel ch’egli trovava detto già da Boezio (Sez. XII, nota 76), prende da lui mia espressione più precisa ed energica, là dove dice, analogamente allo Scoto, che la logica è la scienza del giudicare o disputare 273 ) : perchè 11 potere della forma, che si manifesta nei sillogismi di qualunque specie, è per lui quel che decide, è il termi¬ ne, nel quale vengono a confluire tutte le differenze che si manifestano entro la sfera della logica 274 ); la reto- stesso apprendiamo che essi giovano a riconoscere ogni sorta di veritàl. Omnia enim his Constant, quae in humanam cadunt ratio- nem. Al daz menniskin irratin mugin, taz uuirdit hinnan guuissot [Quanto gli uomini arrivano a intendere, tutto viene saputo con questo mezzo]. Divina excedunt humanam rationem, intcllectu enim capiunlur. Tiu gotelichin ding uuerdent keistlicho uernomen ane disa meistrrskaft ILe cose divine vengono apprese con l’intelletto, senza questa maestria (nel ragionare) (ed. Piper. Quid sit dialectica vel apodictica. Ergo diffinienda est dialectica sire apodictica, possunt enim unam et eandem suscipere diffinitionem in hunc modum.. Dialectica est sive apodictica iudicandi peritia vel ut olii dicunt disputandi scientia (proprio questo già si trova anche nello Scoto, v. sopra la nota 112). Meisterskafl chiesennes linde rachonnis, taz ist dialectica, taz ist ouh apodictica [La maestria nel giudicare e nel disputare, è la dialettica o l'apodittica (ed. Piper, ed. Piper, ibid.] : l'rius diximus. quia ratio est quae ostendit rem. Reda skeinit uuaz iz ist. Pi dero redo sol man chiesen. ube iz uusen nuige.... Taranah mag er [Il discorso dimo¬ stra quel che una cosa è; con questo discorso si ricercherà se una cossa possa sussistere. In seguito egli potrà] rachon i. disputare, ioh [e anche] uuarrachon. i. ratiocinari.... Ter uuarrachot. ter mit redo sterchit. linde ze uuare bringel. taz er chosot. Reda errihtet unsih allis tes man stritet. Ter dia chan uinden. (p. 621) der ist [Ragiona colui che con il suo discorso rafforza e dimostra quanto ha ricer¬ cato.... Il discorso c’istruisce in tutto ciò su cui si viene a contesa. Chi può trovare questo, è un] index, ter ist raliocinator. ter ist disputator. Ter ist argumentator. ter ist dialecticus. der ist apodicti- cus et sillogisticus. rica invece, la quale serve soltanto alla verisimigliauza ma non già alla verità, è perciò situata su di un altro campo, mentre quel che c’è di comune e di più vera¬ mente omnicomprensivo è la espressione verbale (ver- bum), nella quale deve spaziare così il sermo filosofico come anche la diclio retorica. Ma proprio per que¬ sta ragione il punto di vista che è per l’autore assoluta- mente ovvio e naturale, è quel punto di vista nominali¬ stico, che abbiamo trovato nello Scoto, poiché la diffe¬ renza tra vero e falso, cioè l’oggetto di ogni atto giudi¬ cativo o di ogni disputa nella sfera della logica, può manifestarsi solamente nella forma di giudizi umani, e anche i praedicamenta non sono appunto nient’altro che enunciazioni 276 ). Comunque, è una cosa che ci fa veramente piacere, esserci qui imbattuti in un autore, che sa quel che si vuole, e per noi questo scritto è infinitamente superiore ai giocherelli pedanteschi e senza costrutto di un Ger- berto o di un Anseimo; è anche ben difficile imaginare che si sarebbe venuti a presentar le « prove della esi- ) C. 19, p. 558 b [ed. Piper]: Nec panini hoc alten- dendum est. quantum intellectu quaedam distata, quae simili modo solent interpretati, ut sunti verbum, sermo, dictio.... Qiuie si unum significatela, nequaquam sermo daretur philosophis, dictio vero rhe- toribus; ut auctores docenl (cioè Isidoro: v. sopra la nota 27); nani et Aristotiles dialecticum, quae interprelatur de dictione, ad rhetores traxil et voluit eam esse in argumentìs rhetoricis, i. probabilibus, quae ille iudicavit esse (nel manoscritto: rum esse) discernenda a necessariis argumentìs, de quibus fiunt ypothetici syllogismi et tota dialecticu, ut Cicero docuit (v. Boezio, cit. nella prered. nota 271).... Dignior est namque sermo et gravior, ut sapientes decet, dictio humilior est et plus communis data rheloribus. Verbutn autem om¬ nium est. ■ ''> IbidEt in interpretando proprie sermo (cfr. la nota 321[?]) saga diritur. sic et enuntinlio, quae similiter philosophis tradita est. et disputantibus necessaria est. quia inest ei semper veruni aut fcdsum.... Praedicare autem est, inquit Doetius To non forse 124? ad Ar. pracd., I; PL, 64, 1761), aliquid de aliquo dicere, i. eteuuaz sagen fone etcuuiu. linde et praedicnmenlum dicitur et praedicatio, einis tingis kesprocheni fone demo undermo [Tesser una rosa detta di un’altra cosa]. stenza di Dio », se in generale si fosse conservata quel¬ l’avvedutezza, di esercitare cioè belisi in tutte le dire¬ zioni la maestria deH’argoinentare, iiell’ànibito della realtà da noi percettibile, ma di lasciare invece al pio sentimento dei credenti la rivelazione del Divino nella sua immediatezza. Del resto, dobbiamo pure qui far ugualmente rile¬ vare che l’autore di questa monografia non può aver conosciuto la traduzione degl’analitici curata da BOEZIO, perchè altrimenti, se gli fosse stata accessibile la sillogistica stessa di Aristotele, egli, che pur mostra in generale un corredo di letture maggiore di quello degli altri, non sarebbe certamente andato già a prendere i diciannove modi da Apuleio, nè, con la sua aspirazione alla unità interiore della logica, si sarebbe riattaccato esclusivamente a quegli stessi passi, che a ciascuno erano noti, dalle traduzioni e dai commenti più diffusi di BOEZIO. Ma in quello studio esteso della logica, quale ci si presenta a quest’epoca in S. Gallo, potremmo ben anche ravvisare un fenomeno piuttosto isolato, sempre che non sia determinato solamente da mancanza di notizie il giudizio che pronunciamo, quando diciamo che nella prima metà del secolo XI in generale ha prevalso una mancanza di attività, per quel che con¬ cerne il dibattito delle questioni di logica, o persino la *") In siffatti casi sembra che l'argumentum ex silentio sia asso¬ lutamente calzante, e elle pertanto si aggiunga, come una convali¬ dazione mollo precisa, alla circostanza generale, vale a dire non esserci, in tutta questa letteratura, un solo indizio positivo che sia stato fatto uso di quegli scritti aristotelici. TSoggiugerò qui che lo scritto del Prantl. da lui citato più sopra, comparso negli Atti della Regia Accademia Bavarese delle Scienze (Clas¬ se I, voi. "Vili, Scz. I), riguarda non gli scritti logici di Notker L., bensì due compendi dovuti uno a Ortholph Fuchsperger, l’altro a Volfango Biitner, e rispettivamente stampati ad Augusta e a Lipsia. compilazione di compendi. Nel corso della nostra inda¬ gine, dobbiamo invero a ogni passo tener presente la pos¬ sibilità clic una parte del materiale die esisteva, sia stata sottratta totalmente alla nostra conoscenza, sebbene si sia portati ad ammettere che difficilmente le manifesta¬ zioni di una certa importanza sarebbero dileguate senza lasciar alcuna traccia, e che un silenzio assoluto di tutte le fonti non sarebbe pensabile, se realmente lo studio della logica fosse stato più largamente diffuso. [§ 27. — Altri documenti relativi allo studio DELLA LOGICA NEL SECOLO XI: FrANCONE A LlEGI, OtLOH a Ratisbona, Pier Damiani], Dalla metà circa del secolo XI ci giunge la notizia che un tal Francone, scholasticus a Liegi (intorno al 1047), compose, sopra la quadratura del circolo (v. le note 191 e 251 di questa Sezione), ima monografia che si riattacca al relativo passo di Boezio 278 ) : e forse della stessa epoca possiamo citare almeno l’espressioni, con le quali un monaco di St. Emmeram, Otloh, morto a Ratisbona [dove appunto sorgeva il chiostro di St. Emmeram] , vien a ri¬ conoscere che ci sono alcuni dialectici ita simplices, che applicano il canone dialettico a tutte le parole della Sa¬ cra Scrittura, e credono a Boezio più che alla Bibbia stessa 278 ). Ma da quest’ultima doglianza bisogna con- *") Sicebekti Gemblancensis Chronica ad unnum 1047 (Pertz, MiGH, : Franco scolaslicus Leodicensium et scìentia litterarum et morum probitate claret; qui ad Herimannum archie- piscopum scripsit librum de quadratura circuii, de qua re Arislolelcs (com’è riferito da Boezio I in Ar. praed., II; PL, 64, 230], p. 165) ait: Circuii quadratura, si est scibile, scìentia quidem non est, illud vero scibile est |PL, 160, 209]. ”°) Oti.ohni Dialogus de tribus Quaestionibus (riprodotto dal Pez, Thesaur. Anecdot., HI, 2, p. 143 ss.), p. 144-5: Peritos autem dico magis illos, qui in Sacra Scriptura, quarti qui in Dialectica sunt instructi. Nani dialecticos quosdam ita simplices inveni, ut chiudere che il su riferito monito di Fulberto (nota 237) non fu disdegnato solamente da un Berengario, ma che da varie parti fu designata la dialettica come pietra di paragone in questioni teoretico-dommatiche ). La maggioranza invece, com’è ben facile intendere, rima¬ neva fedele al punto di vista originario del Medio Evo cristiano, e può perciò, poiché stiamo ormai per entrare in un’epoca di contese, ricordarsi soltanto a mo’ d’esempio come Pier Damiani, assegnasse alla dialettica il compito di starsene quale pia ancella al servizio della Chiesa, e di tener dietro umilmente pedisequa alla sua padrona 2S1 ), senza che in verità la divota anima del Damiani abbia ancora il minimo presentimento che anche questa do¬ mestica possa licenziarsi e fondarsi un proprio foco¬ lare. omnia Sacrae Scriplurue dieta juxta dialecticae auctoritatem con- stringendo esse decernerent: mugisque Boèlio quam Sanctis Scrip- toribus in plurimis dictis crederent. Linde et eundern Boètium secuti, me reprehendebant, quod personae nomen, (dicui, nisi sub- stimtiae rationali, adscriberem etc. [PL], W. Scheber, Leben VTilliram’s Ables von Ebersberg [« Vita «li Williram, abate di Ebers- berg »] (nei Rendiconti dell’Accademia imperiale, Classe filosofico- storica, voi. 53, Vienna, 1866), p. 289, riferisce queste allusioni a scolari di Lanfranco; cfr. appresso la nota 299. '*') Poiché, a prescindere dal fatto che nei vari scritti teologici di Otloli non si parla in maniera particolare della questione della Santa Cena, e pertanto è difficile che la sua polemica contro i dia¬ lettici si riferisca a Berengario, nel passo sopra citato si tratta pro¬ prio di casi personali, che Otloh designa come conseguenza di un indirizzo generale dell’epoca. *“) Petri Damiani Opera, ed. Cajetano, Parigi,De. divina omnipolentia, V; PL, 145, 603]: Haec piane, quae ex dialecticorum vel rhetorum prodeunt argumentis, non fa¬ cile divinai- virtutis sunl optando mysteriis; et quae ad hoc inventa sunt, ut in syllogismorum instrumenta proficiant, vel clausulas dictionum, absit ut sacris legibus se pertinaciter inferant et divinae virluti conclusiotiis suae necessitates opponant. Quae tamen artis humanae peritia, si quando tractandis sacris eloquiis adhibetur, non debet jus magisterii sibimet arroganler arripere; sed velut ancilla dominue quodam famulatus obsequio subservire, ne, si praecedit, oberrel eie. Movimento più vivace nella seconda metà del SECOLO XI: la scienza giuridica. — Ma proprio nella seconda metà del secolo XI si manifestò nella sto¬ ria della cultura l’azione di fattori, i quali portarono, entro la tradizione della logica delle scuole che si con¬ servava uguale a se medesima, un movimento più vivace, e anche un violento rinnovarsi di vecchi contrasti fra le varie tendenze. Da due lati diversi si risente un influsso sopra la logica, ma in varia maniera e in molto vario grado, perchè di questi lati uno possiamo scorgerlo qui dapprima soltanto in tenui inizi, per poi novamente riattaccarci a questo punto, quando lo stesso fattore si manifesterà più tardi con maggiore intensità, mentre l'altro lato sùbito si leva su con tutta la sua forza, e per molto tempo determina le condizioni in cui la evoluzione compie il suo corso. Ma questi due lati cor¬ rispondono alla giurisprudenza e alla teologia dominatica. Se cioè l’amministrazione della giustizia già per se stessa in generale implica un richiamo alla prassi dialettico-retorica, è facile spiegare come, in un’epoca in cui in Italia s’iniziava un rinnovamento della scienza giuridica e incominciavano a sorgere scuole di diritto), si desse ora maggior peso alla logica pratica, cioè a ima logica, la quale veramente mal si distingue dalla retorica, ma nella teorica dell’argomentazione e nella topica rimane pure conforme al solito materiale ch’era in uso nelle scuole di logica. Come noi stessi per il no¬ stro presente intento abbiamo potuto già da prima (Sez. Vili, note 52 e 68) trovare la nostra fonte in passi che prendevamo dalle Pandette, così sembra d’altra parte ■ fL ) Vedi Savigny, GESCHICHTE DER ROMISCHEN RECHTS IN MITTELALTER Geschichte dea Ròmischen Rcchts im MiUel- alter [Storia del diritto romano nel Medio Evo],. [trad. it., Torino,  J , e Giesebrecht, De lìti, attui, ap. Itiilos, Berlino, 1845, in -4° [ir. it. Pascal, già cit.]. che IN ITALIA lo studio della grammatica filosofica e della retorica abbia conservato una connessione ininterrotta con le materie giuridiche del DIRITTO ROMANO ) : e sebbene noi preferiamo lasciar da parte l’aneddoto letterario, secondo il quale tutto quanto lo studio del DIRITTO ROMANO a BOLOGNA avrebbe preso principio da una spiegazione grammaticale della parola « As » 2S ) Ibid., Aristotelica didicimus disciplina duarurn spe- cierum commistione lertiam gigni minime. Rerum etiam naturam puli nomino non posse, duo contraria simili in eodem esse vel, quod trovava nel commento (li Hoezio alle C-utegorioo. Ma questa medesima questione fu anche oggetto di una disputa che Anseimo sostenne a Magonza, e della quale diede minuta relazione in una lettera al suo maestro Droone. Ecco il nòcciolo della questione: Quando sussiste un’alternativa (p. es. tra lode e bia¬ simo), si può creder di cogliere il giusto mezzo, non facendo nè una cosa nè l’altra; ma si obbietta in contrario, die il giusto mezzo è la unione degli opposti (come p. es. il rosso è la unione di nero e bianco), dunque bi¬ sogna pure scegliere per conseguenza una delle due cose, qualora non si voglia farle tutte due al tempo stesso. Ma a ciò da capo si obbietta che il mezzo è propria¬ mente la negazione dei due opposti (dunque p. es. è impossibilius, eandem essentium procreare. Quod veruni sit necne, quaerimus f Hbetorim., iib. I]. M ° c ) Laudare enim vel vituperare necesse est. «Non lau- dabo, inquid, nec vituperabo, cuoi medium faciam, quod nec laus est nec viluperatio. Est igilur possibile utrum non lucere, ubi ali- quod neutrum est invenire. Si medium, inquam, ut dicitis, fece- rilis, lune et utrumque. Constai enim medium ex utrisque, ut ex albo et nigro rubrum, et ideo medium. Sicque in faciendo neutrum facietis utrumque. Utrum ergo facere necesse est, quoniam in utro vel ulroque utrum non lacere possibile non est». « Medium, inquid, ut dicitis, non ex utrisque, sed ex nega!ione confìcitur utrorumque, ut non quod et album et nigrum illud rubrum, set quod est neu¬ trum, illud dicimus rubrum, sicque omne medium. Utrum ergo lacere necesse non est, quia in meo neutro utrum vel utrumque possibile non est ». « Si ex negatione utrorumque. medium con- fectum est, quod, ut dicitis, neutrum est, non magis utrorumque quarti omnium rerum neutrum est. Quod bene perspectum nichil est. Non enim magis ex albi et nigri negatione confìcitur rubrum, quam cucii et lerrae ceterarumque rerum. Quia sicut est veritas ut, quod nec album nec nigrum est, illud rubrum existat, sic quod nec caelum nec terra nec celerà, illud esse rubrum a veritale non [58] discrepat, Quod aulem omnibus rebus negatis nichil illarum est, illud res praedicari inpossibile est. Rcs vero, quod non est illud, nichil esse necessario consequens est. Sicque in faciendo (diquid facietis nichil. Utrum ergo facere necesse est, utrumque enim vel neutrum impossibile vel nichil est. Epistola Anseimi ad Droconem (sic) mugistrum et condiscipulos de logica disputatione in Gallia habitat. rosso, quel che non è nè bianco nè nero); ma questa obiezione viene respinta, perchè una tale negazione va di là dall’alternativa data (perchè allora si potrebbe dire altrettanto bene, che è rosso, quel che non è nè cielo nè terra), e metterebbe capo infine a una nega¬ zione di tutti gli opposti, cioè dunque a un nulla. Il risultato è, per conseguenza, che nella presente alterna¬ tiva bisogna pure scegliere proprio un solo dei due termini. Abbiamo una prova ulteriore di come la scienza del diritto entrasse in giuoco nello sviluppo della logica, quando in due uommi eminenti di quell’epoca, Lan¬ franco e Irnerio, vediamo presentarcisi, per così dire, ima unione personale di quei domìni. È infatti incontestabile che Lanfranco dedica ampiamente e con buon successo la prima metà della sua operosità, prima che scoppiasse la contesa intorno alla Santa Cena, princi¬ palmente allo studio del diritto 291 ), sebbene non si possa, per ragioni cronologiche, pensare a una relazione diret¬ ta, quale persino gli è stata attribuita con lo stesso Imerio); ma in ogni modo, come risulta dalle testimo- "9 Milonis Crispini Vita Beati Lanfranci, c. 11 , riprodotta dal Mabillon, Acia Bened. [Sacc. VI, P. II], Tom. IX, p. 639 [PL, Ab annis puerilibus eruditus est in scholis libe- ralium nrtium, et legum saecidarium ad siate morern patriae. Ado- lescens orulor veteranos adversantes in uctionibus causarum frequentar revicit, torrente facundine accurate dicendo. In ipsa aetale sententias depromere sapuit, quas gratnnter Jurisperiti aul Judices vel Praetores civitatis acceptabanl. Meminit horum Papiu (cioè PAVIA sua patria). At cum in exsilio philosopharetur, accendit ani- mum ejus divinai ignis, et illuxit cordi ejus amor venie sapientiae. Notizie varie, specificamente giuridiche, vedile nel Merkel, op. cit., p. 14 e 46 s. [12 s. e 35 ss. della cit. trad. it.??J. 5 ") Roderti De Monte Auctarium ad chronicam Sigeberti Gem- blacensis ad anntan 1032 (Pertz, MGII): Lanfrancai Papiensis et Garnerius socius eius, repertis upud APVD BONONIAM LEGIBVS ROMANIS quas Iustinianus.... emendaverat, Itis, inquarn, repertis, 9. — C. Prantl, Storia della logica in Occidente, II, manze, quella medesima abilità dialettica, della quale fanno fede le battaglie da lui più tardi sostenute con¬ tro i suoi avversari teologici, lo ha assistito di già fin d’allora. Ma Imerio, e cbe con la sua comparsa segnò, com’è noto, per LA SCUOLA O LO STUDIO DI BOLOGNA, il passaggio dal pruno’ periodo embrionale a una più ricca espansione, viene, nelle glosse di Odofredo, designato espressamente come «logico»; e la circostanza ch’egli sia stato antecedentemente maestro delle arti liberali, spiega quella esagerata sottigliezza cb’è venuta a trovarsi nelle sue glosse-’ Avendo d'altra parte lrnerio composto anche un Formularium, a questo fatto dobbiamo connettere una osservazione preliminare, essersi cioè venuta a creare una particolare ed estesa letteratura, la quale serviva all’arte e alla prassi del notariato, e che valse a mante- ner viva per l’avvenire la relazione tra la retorica in uso nelle scuole, e la materia del diritto. Questi « F o r m u - operam dederant eas legere et aliis exponere; sed Garncrius in hoc « vero disciplinas liberales et litteras divi, tuis m Galli,s multo* edoccns, tandem Beccum verni, et ibi mona, ehm facili* est [PL], Forse tuttavia la obiezione croTolo- gira sollevata dal Savigny [p. 25-6 della trad. it |) e m generale fuor di luogo, se, dove si dice « socius », non pen¬ siamo a relazione personale, ma piuttosto a un comune atteggia- spirituale nei riguardi della concezione del diritto. minorameli Uge 1 ldtima de in "tegrum resti,utione "l" , . 2, 22); Or, segnar,, plura non essent dicendo super lege ista Dom.nus lumen } rnenus, quia loicus fui,, et mogister fui. In c rifate istu in arti bus, antequum docerel in legibm, fecit imam g ssam sopitisticun ?, quae est obscurior , quam sii textus. — E (Co- Ìi% l , n /r^ miCa  M,and. Urstis, Francoforte, 1585, p. 433 [Pebtz, >MGH, XX, 376]): l’etrus iste (se. Abailardus).... habuit.... primo praeceptorem Rozelinum quondam, qui  primus noslris temporibus in logica sen- tenti am vocum instiluil, et post ad gravissimos viros Anshelmum Laudunenscm, GwUhelmum Campellensem Catalauni episcopum migrans, ipsorumque dictorum pondus, tanquam sublilitatis acu- mine vacuum iudieans, non diu sustinuit. Inde magistrum induens Furisius venit (v. la Sez. seguente, nota 258). "') [Johannes Turmair detto] Aventinus, Atinales Ducum Boia- riae, VI, 3 (ed. Riezler. Hisee quoque temporibus fuisse reperto Rucelinum Brilanum, magistrum Petri A belar di, novi lycaei conditorem, qui primus scienliam (leggi sententinm) vocum sive dictionum insliluit, novam philosophandi ciani invertii. Eo namque authore duo Arislolelicorum, Peripateticorumque genera esse coeperunt, unum illud vetus, locuples in rebus procreandis, quod scientiam rerum sibi vendicai, qttamobrem reales vocantur, allerum noviim, quod eam distrahit, nominales ideo nuncupali, quod avari rerum, prodigi nominum atque notionum, verborum vi- dentar esse adsertores. "") Joannis Saresbehiensis Metalogicon, (Opera, ed. Gi¬ lè?, V, p. 00 [ed. Webh. Naturata lamen tmiversalium hic omnes expediunt, et allissimum negotium et maioris inquisitio-[Le notizie sul conto di Roscelino rivelano Vastio degli avversari]. — Ma poiché Anselmo 31B ), che nella sua ortodossomania, inventò la squisita espressione di « eretici della dialettica » e la usò a carico di Roscelino, dice, per cieca passionalità o maligna esagerazione, che secondo quella opinione le sostanze universali non sono nient’altro che un flatus vocis, — sarà bene che noi acco¬ gliamo non senza cautela anche le altre notizie comuni¬ cate da quello zelatore del realismo, — tanto più che, come vedremo, se si sta ai prodotti originali della sua dia¬ lettica, non si può ritener che fosse capace di giudicare sopra questioni di logica; così pure egli non fa invero che dar espressione al più intransigente odio partigiano, quando rampogna i seguaci di Roscelino, perchè danno nis contro menlern auctoris esplicare nituntur. Alius ergo consistit in vocibus; licei haec opinio curii Rocelino suo fere omnino iam evanuerit. Alius sermones (v. sotto la noia 324) inluetur et ad illos detorquet quicquid alicubi de universalibus meminit scriptum; in bue autem opinione deprehensus est Peripateticus Palalinus Abae- lardus noster, qui multos reliquit et adhuc quidem aliquos habet professioni huius sectatores.... [iPL, 199, 874], — Così anche nel Polycruticus (Opp., IV, p. 127 [ed. Webb, U, p. 142; PL, 199, 6651): Fuerunt et qui voces ipsus genera dicerenl esse et spe- cies ; sed eorum inni explosa sententia est et facile cum auclore suo evanuil (v. la nota 325). "*) Ansfxmi de fide Trin., c. 2 (ed. Gerberon, p. 42 s. [PL, 158, 265J): llli utique nostri tempori dialeclici (imo dialeclicae haeretici, qui non nii flatum voci putant esse universales sub- stantias, et qui colorem non aliud queunt inielligere quam corpus, nec sapienliam hominis aliud quam animami prorsus a spiritualium quaestionum disputatione sunt exsufflandi. In eorum quippe ani- mabus ratio, quae et princeps et judex omnium debel esse quae sunt in /tornine, sic est in imaginationibus corporulibus obvoluta, ut ex eis se non possit evolvere, nec ab ipsis ea, quae ipsa sola et pura contemplari debel, valcat discernere. Qui enim nondum intei - ligit, quomodo plures homines in specie sint uniis homo, qualiter in illa secretissima et altissima natura comprehendet, quomodo plures personae.... sint uiius Deus? Et cujus meris obscura est ad discemendum inter equum sinim et colorem ejus, qualiter discernet inter unum Deum et plures relationes ejus? Denique qui non potest intelligere aliquid esse hominem, nisi individuum, nullalenus in- telliget hominem, nisi humanam personam. Omnis enim individuus homo, persona est. Quomodo ergo iste intelliget hominem assumptum esse a Verbo eie. la ragione in balia corporalibus imaginationibus : e in verità è lecito sperare, tutt’al contrario, che proprio nulla ci faccia assurgere così alto al disopra dell accidentalità sensibile, come il penetrare a fondo nell uni¬ versale contenuto concettuale delle parole, e che soltanto a questa maniera ci sia aperta la via a un sapere effettivo, conquistato da noi stessi, mentre a una onto¬ logia soprannaturalistica è spesso indispensabile ima ima¬ ginazione irretita nella sensibilità. E possiamo lasciar stare il rimprovero ridicolo, mosso a Roscelino, ossia di non intendere come la pluralità degl’individui nel con¬ cetto della specie sia una unità poiché anzi proprio questo è riuscito invece a intendere Roscelino, che cioè la unità risiede nella parola enimciatrice del concetto. Do¬ vremo ora piuttosto rimettere, come si conviene, le que¬ stioni nei loro veri termini, per quanto concerne le altre osservazioni mosse contro Roscelino: vale a dire ch’e¬ gli fa confusione tra il colore di una cosa e la cosa stessa, e tra le proprietà e i loro substrati, e parimente ch’egli non si rende conto, come altro sia « Uomo », e altro il singolo uomo. Infatti la prima osservazione può significare solamente che, secondo la opinione di Ro¬ scelino, il concetto di una qualità, in quanto concetto, contiene altrettanta universalità quanta ne contiene il concetto di una sostanza, in quanto concetto. L’altra os¬ servazione poi comprende, se la sfrondiamo di quella in- terpetrazione odiosa che le dà il relatore, il semplice prin¬ cipio fondamentale del nominalismo, che cioè obbietti¬ vamente, nell’essere concreto, esiste dappertutto soltanto l’individuale, mentre i concetti della specie e del genere si trovano soltanto subbiettivamente nelle parole del¬ l’uomo, che insomma obbiettivamente gli universali non hanno esistenza separata dall’individuale. Che per con¬ seguenza la Trinità, come obbiettiva essenza di Dio, debba parimente consistere di tre individui), è implicito in una tale veduta logica, coerentemente svolta: e così fu che, analogamente a quanto era accaduto con Berengario, la teologia venne a essere coinvolta nella lotta fra le tendenze che si dividevano il campo della logica. Ma sembra che Roscelino in generale abbia molto conseguentemente svolto sino in fondo da tutt i lati il suo punto di vista, perchè altrimenti sarebbe difficile spiegare, come mai nelle scarse informazioni che ci sono pervenute sul conto di lui, ci sia ancora una volta un certo punto isolato, che ci rhuanda in pieno a quel medesimo principio: si tratta cioè del concetto di parte, che Boezio aveva preso a considerare in vari luoghi, e riguardo al quale, così per Roscelino come per l’Anonimo già ricordato (nota 171 g), il momento subbiettivo è ugualmente il momento decisivo; poiché la notizia, relativa al punto in questione 321 ), va intesa nel senso seguente: Se p. es. il tetto dev’essere considerato come parte della casa, si ha da riflettere che obbiettivamente, in “>) Ibid., Epist. n, 41, p. 357 [PL quia Roscelinus clericus dicil, in Deo tres personas esse tres ab invicem separatns, sicut sunt tres angeli, ita tamen ut una sit voluntas et poteslas: aut Pulrem et Spiritum sanctum esse incarnatum, et tres deos vere posse dici, si usus admilteret. *») Abaelardi [Dialectica, P. V*. liber] divisionum et defin., p. 471 (ed. Cousin): Fuit aulem, memini, magislri nostri Roscellim tam insana sentenlia, ut nullam rem purtibus constare velici, sed sicut solis vocibus species, ila et partes adscribebat. Si quis aulem rem illam, quae domus est, rebus aliis, pariele scilicet et fonda¬ mento, constare diceret (è questo il solito esempio di divisione del tutto in parti, usato da Boezio, p. es. a p. 52 s. [in Porph. a se trami., I, 8; ed. Brandt, p. 154, 156; PL, 64, 80 s.] e a p. 646 [de divisione ; PL, 64, 888]), tali ipsum urgumentatione impugnabili: si res illa quae est puries, rei illius quae domus est, pars sit, cum ipsa domus nihil aliud sit quam ipse paries et tectum et funda- mentum, profecto paries sui ipsius et caeterorum pars erit. At vero quomodo sui ipsius pars fuerit? Amplius, omnis [pars] naturaliter prior est loto suo : quomodo aulem paries prior se et aliis dicelur, cum se nullo modo prior sit? quanto è una cosa, il tetto è una entità perfettamente indipendente, poiché, nel riguardo della obbiettività o dell’essere reale, quel che ci può essere, è appunto sol¬ tanto un tetto di ca6a, e parimente soltanto una casa fornita di tetto (dato cioè che debba essere realmente una casa); perciò, se il tetto fosse oggettivamente una parte della casa, verrebbe a essere ima parte di quella che è ima totalità obbiettivamente indivisibile, e pertanto, in seguito a tale indivisibilità, finirebbe con l’essere anche una parte di se stesso: vale a dire che il con¬ cetto di parte, dal punto di vista obbiettivo o dell’essere reale, conduce a contraddizioni, e la couchiusione giusta è che il tetto viene caratterizzato come parte esclusivamente dalle nostre parole, racchiudenti in sé i con¬ cetti, sicché dunque il concetto di parte, come tale, si trova essere di spettanza della espressione verbale sub- biettiva. Lo stesso può ripetersi, anche relativamente alla priorità della parte di fronte al tutto, poiché dal punto di vista obbiettivo, in quanto è cosa, non è pos¬ sibile che il tetto sia antecedente alla unione obbietti¬ vamente inscindibile di se stesso con qualche cos’altro, poiché allora alla stessa maniera, a cagione della inscin¬ dibilità, risulterebbe che il tetto sarebbe prima di se medesimo : sicché bisogna conchiudere che anche la prio¬ rità del concetto di parte ha luogo solamente nel pen¬ siero subbiettivo. Ma, come anche questa idea di Ro- scelino fu malignamente deformata da’ suoi avversari), così egli stesso l’applicò spiritosamente contro il ra ) Abaelardi Epist. (Opera, ed. Amboes. [ed. Cousin; PL (Epist., Hic sicut pseudo-Dialecticus, ita et pseudo-Christianus, cum in Dialeclica sua nullam rem, sed solam vocem partes habere astruat, ita divinam paginam impudenter perverlit, ut eo loco quo dicitur Dominus parlem piscis assi comedisse, partem huius vocis, quae est piscis assi, non purtem rei intelligere cogatur. Che questa lettera [indirizzata a Gilberto vescovo di Parigi] sia stata scritta da Abelardo, o, com’è opinione del Du Boulay, da un altro intorno al 1095, è, per quel che ri-mutilato Abelardo, da ciò prendendo occasione per assegnare, coerentemente, all’atto intellettuale subiettivo anche il concetto di totalità, poiché, modificandosi la consistenza obbiettiva di una unione inscindibile, deve essere subito sostituita con una denominazione diversa la denominazione che si conformava al suo concetto, e che allora non è più in grado di tener saldo il pen¬ siero soggettivo di una totalità" ')- [c) conchiusione sopra Roscelino ]. — Che del resto il punto di vista di Roscelino non fosse, in sostanza, affatto nuovo, risulta manifesto dal confronto con quel che siamo venuti dicendo più sopra; soltanto che, dopo la com¬ parsa di Berengario, la idea che, nella questione degli universali e della formazion dei concetti, si tratti sola¬ mente di parole, e dell’uso che ne fa l’uomo, aveva prò- vocato ima maggiore circospezione e una più aspra osti¬ lità per parte della ortodossia. C è invece un punto solamente, e forse anzi il più importante, che, in seguito alla mancanza di fonti, ci rimane assolutamente oscuro; nel passo sopraccitato di Giovanni da Salisbury, è fatta cioè una netta distinzione tra coloro che riponevano gli universali nella « vox », e quelli che li riferivano ai « sermones », e si soggiunge che Abelardo era di questi ultimi. Ora, tenuto conto del valore gram- guarda questo passo, indifferente; del resto quanto è stato detto più sopra, nota 314, sembra avvalorarne l’attribuzione [oggi infatti non contestata] ad Abelardo). [Il passo citato, in Lue., XXIV, 421. ra ) Roscelini Epist. [ed. Remerà, p. ol I. S,,J forte Petrum te appellavi posse ex consuetudine mentiens. Cer- tus sum aulem, quod masculini generis nomea, si a suo genere deciderit, rem solitam significare recusabit - Solent emm nomina propriam signìficationem ami tte r e, cum eorum signi¬ ficata contigerit a sua perfeclione recedere. /Veglie emm ablalo tecto vel pariete domus, sed imperfecla domus vocabilur. Sublata igitur parte quae hominem facit, non Petrus, sed imperfectus Petrus appellandus es. maticale delle parole vox e serrno, e antecipatamente riferendoci a quel che prenderemo a considerare più sotto (Sez. seguente, note 308 ss.) a proposito di Abelardo, dobbiamo senz’alcun dubbio congetturare che Ro- scelino, con veduta unilaterale, abbia tenuto presente soltanto il concetto isolato, e pertanto, senz’avere ri¬ guardo alla connessione della proposizione, abbia consi¬ derato le parole come concetti compiuti 324 ); ma non sappiamo invece determinare se la teoria del giudizio sia stata da lui semplicemente trascurala, o se forse egli non abbia contestato anche direttamente il valore del giudizio, o quale procedimento abbia seguito, nel portare così il nominalismo alle ultime sue conseguenze). Raimberto a Lilla, e la logica « vecchia » di Ottone da CambraiJ. Ma proprio per l’epoca, nella quale aveva fatto la sua comparsa Roscelino, pos¬ sediamo una notizia sommamente caratteristica, relati¬ vamente alla lotta delle tendenze sul terreno della lo- ***) [Cfr., su questo punto, Ueberwec-Gf.yer]. Tra i più vecchi nominalisti potrebbero pertanto essere riawicinati a Roscelino, per aver dato un più unilaterale rilievo alla vox, quel tale Pseudo-Hrabano, Jcpa, l’Anonimo, l’Anonimo del Cousin (nota 242), e l’Anonimo di S. Gallo, che ha rifuso il libro De in- terpr., come pure in parte anche lo Scoto Eriugena; sarebbero invece più affini ad Abelardo, per aver tenuto eonto del serrno e del rapporto predicativo, Erico, l’Anonimo di S. Gallo, autore della monografia De syllogismis, e Berengario. Sarebbe possibile, qualora Roseclino avesse re alm ente av¬ valorato con argomenti questa orientazione unilaterale del nomi¬ nalismo, prender alla lettera la succitata espressione di Ottone (primus.... sententiam vocum instituit ); ma risulta comunque da Giovanni da Salisbury, che i seguaci del nomi¬ nalismo non tardarono ad abbandonare questo punto di vista an¬ gusto; soltanto non ci si può, come ha pur fatto già qualcheduno, esprimer nel senso che Giovanni da Salisbury abbia dichiarato il nominalismo in generale ormai spento; v. la Sez. seguente, note 76 ss. 150  gica 326 ). C’era cioè a Lilla un certo Raiinberto, che insegnava la dialettica, al pari di « moltissimi altri », se- **) Hekmajvni Narratio Heslaurulionis Abbuliae Sancii Martini Tornacensis, riferita dal D’Acheby, Spicilegium, ed. De la Barre, PL, 180, 41 ss.; MGH, XTV, p. 274-5]: Iam vero, si scolae appropiares, cernercs magistrum Odonem nunc quidem Feripulelicorum more cura discipulis dovendo deambulan- lem, nunc vero Stoicorum instar residentem, et diversus quaestio- nes solventem.... Sed cum omnium septem libcruliurn artium esset peritus, praecipue tamen in dialeclicu eminebat, et prò ipsa maxime clericorum frequenlia eum expetebat. Scripsit etiam de ea duos libellos, quorum priorem, ad cognoscendu devitandaque sophismala valde utilem, inlitulavit « Sopliistem », alterum vero appellavit li- bruiti « Complexionum »; tcrcium quoque «De re et ente » com- posuit; in quo sol vii, si unum idemque sit res et ens. In his tribus libellis.... non se Odonem, sed, sicut lune ab omnibus vocabatur, nominubat Odardum. Sciendum tamen de eodem magistro, quod eandem dialecticam non juxta quondam modernos (è questo, qua¬ lora non si vogliano per caso invocare le parole citate il testo più antico dove si trovano designati i nomi¬ nalisti come moderni) in voce, sed more Boetii antiquorumque doctorum in re discipulis legebat (dunque, in opposizione alla pretesa innovazione, Boezio e Por¬ firio, in quanto realisti, vengon chiamati antiqui. Unde et magister Baimbertus, qui eodem tempore in oppido Insulensi dialecticam clericis suis in voce legebat, sed et alii quam plures magistri ei non parum invidebant, et delrahebanl, suasque lectiones ipsius meliores esse dicebant; quam ob rem non¬ nulli. ex clericis conturbali, cui magis crederent, haesitabant, quo- niam et magistrum Odardum ub antiquorum doctrina non discre¬ pare videbant, et tamen aliqui ex eis, more Alheniensium aut discere aut audire aliquid novi semper humana curiositate studentes, alios potius laudabant, maxime quia eorum lectiones ad exercilium di- sputandi, vel eloquentiae, immo loquacilatis et facundiae, plus va¬ lere dicebant (Alcuni dunque desideravano di poter congiungere tuttavia all’ortodosso realismo il virtuosismo formale dei loici propriamente detti, cioè dei nominalisti). Unus itaque ex eiusdem ecclesiae canonicis, nomine Gualberlus.... tanta sentenliarum erran- tiumque clericorum varietate permolus, quendam pbitonicum (cioè un indovino rpyt/ion/cum]), surdum et mutum, sed in eadem urbe divinandi famosissimum, secreto adiit, et, cui magistrorum magis esset credendum, digilorum signis et nutibus inquirere coepit. Protinus ille (mirabile dictu!) quaestionem illius intellexit, dexteram- que manum per sinistrae pulmam instar aratri terram scindentis perlrahens, digitumque versus magistri Odonis scholam protendens, signifkabat, doctrinam eius esse rectissimam ; rursus vero digìlum contro Insulense oppidum protendens, manuque ori admota exsuf- flans, innuebat, magistri Raimberti lectionem nonnisi ventosam esse loquacitatem. Haec dixerim, non quo pbitonicos consulendos.... arbitrer..., sed ad redarguendum quorundam superborum nimiam coudo le « moderne » idee nominalistiche (in voce), e costoro, insieme con i loro seguaci, apertamente si at¬ teggiavano ad accanita rivalità contro Oddone, vescovo di Camhrai, il quale aveva ricostituito il chiostro di S. Martino a i ournai, e ivi insegnava logica secondo lo stile « vecchio », cioè secondo l’indirizzo realistico (in re). Ora, poiché ci sono diversi che dal fascino della novità si sentivano attratti verso Raimberto, ma poiché nello stesso tempo, bilanciando tra loro i pregi delle due scuole, non sem¬ brava si potesse ottenere im risultato ben determinato, uno dei canonici di Touruai si rivolse a un indovino che godeva allora di gran fama. Questi, SEBBENE SORDOMUTO, intese subito la questione che gli era rivolta, e con il linguaggio dei gesti si pronunciò incondizionatamente — nè altro ci si poteva aspettare — nel senso di riconoscere come giusta ed eccellente la tendenza rappresentata dalla scuola realistica di Oddone. Se del resto chi ci riferisce questa storia (l’abate Ermanno, vivente a Tournai nella prima metà del secolo XII), il quale del pari, da buon ortodosso, si professa natural¬ mente nemico della ventosa loquacità del nominalismo, ricorda nello stesso tempo scritti di logica, composti da Oddone, dobbiam certo deplorare ch’essi sieno andati perduti; puramente si può congetturare che forse il « Liber complexionum » fosse semplicemente tolto di peso da Boezio (de syll. categ.: v. la Sez. XII, note 131 ss.), e così pure che il « Sophistes » sia stato puta¬ caso in relazione più stretta con le polemiche teologi¬ che, o che, com’è possibile, si limitasse anche a ripetere le nozioni esposte da Cassiodoro (Sez. XII, nota 182); praesumptionem, qui nihil aliud quarentes nisi ut dicantur sapien- tes, in 1‘orphirii Aristolelisque libris magis volimi legi suarn adin- ventitiam novitatem, quam Boetii caetcrorumque antiquorum expo- silionem. maggiore importanza può invece aver avuta lo ecritto « De re et ente », poiché la questione, se res ed ens sien lo stesso, era ivi risolta certamente in senso realistico, quantunque sia da presumere — come la cosa più veri¬ simile — che tutto il complesso semplicemente si limi¬ tasse a richiamarsi a un passo isolato di Boezio (Sez. XII, note 89 s.). — Comunque, si potrebbe ammettere tut¬ tavia che il nominalismo rosceliniano di allora sia stato rappresentato in un numero di scritti, più considere¬ vole di quel che le nostre fonti non ci diano a divedere; poiché, per siffatte notizie letterarie occasionali, siamo invero quasi esclusivamente rimandati ad autori teolo¬ gici, mal disposti sin da principio, quali avversari di una minoranza ch’era loro sospetta, a parlare lunga¬ mente di questa, e invece più propensi ad accordarsi con un Fulberto (nota 237) o un Lanfranco (nota 309) nella condanna della dialettica in generale. Anselmo d’AOSTA (si veda): a) Vargomento ontologico Se pertanto ci volgiamo a considerare) F inventore del concetto di haerelicus dialecticae e dunque il rappresentante attendibile di una logica corret¬ tamente ortodossa, cioè Anseimo [d’AOSTA, arcivescovo] di Canterbury, per prima cosa c’interessa soprattutto quel così detto argomento ontologico, al quale egli deve la sua •") Così dice p. es. Ildeberto da Lavardin, arcivescovo di Tours, Sermo (Opera, ed. Beaugendre [PL Quidum enim in philosophi- cis jacultatibus qiumulam subtilitalem inutilem vel inutilitatem subtilem quaerentes, quibusdam minutiis verborum in cavillatione respondenles utunlur, quibus in disputatione uli, ossa Christi est incinerare.... Ktsi enim deus convertii nos, arlium liberalium phanlusmatibus uli, si in hac Scriptum voluerimus similiter sophi- stice incedere, odibiles Deo erimus, strepitum ranarum Aegypti in terram Gessen traducere molientes. ra ) Quel che nella prima edizione costituiva il contenuto delle note 328-333, è stato qui soppresso. pretesa gloria imperitura 33i ), e che, quanto al suo con¬ tenuto teologico o speculativo, viene a cader fuori dai limiti che qui ci sono imposti, dovendo fermarsi la nostra attenzione puramente sopra il suo aspetto formale. Che in generale l’assunto di voler dimostrare la esistenza obbiettiva di Dio, sia tutto quanto una pazzia (perciò anche lo Hegel, proprio solamente nella sua qualità di neoplatonico ha ripreso per suo conto l’ar¬ gomento ontologico), è cosa ammessa da chiunque non sia filosoficamente già prevenuto, a quel modo stesso che sicuramente si riterrebbe un controsenso l’assunto di dimostrare per sillogismi la esistenza di un mondo obbiettivo; ma che in quell’epoca antifilosofica e senza idee chiare potesse venir fuori un tale tentativo, si spiega benissimo, soprattutto perchè c’era allora, come sostitutivo della filosofia, solamente ima sfera culturale, limitata alla teologia dommatica e ad un’abilità tradizio¬ nale nella logica delle scuole; tostochè, per effetto delle controversie teologiche, ci si era dunque fatta l’abitudine di unire tra loro questi due elementi, in tal ma¬ niera che si tentava di dare un fondamento logico anche a singole frammentarie parti del domma (v. sopra la nota 303), era semplicemente questione di coerenza, che a tale formulazione si procedesse, incominciando su¬ bito da quello che, nella professione di fede obbiettivamente dommatica, è il punto supremo. Ma era perciò naturalmente da porre, quale condizione essenziale, che la posizione dell’Autore si presentasse come un realismo logico, poiché a un nominalista, che avesse informato il [La esposizione esaurientemente particolareggiata che del pensiero di Anselmo è stata pubblicata da Hasse ( Anselm von Canterbury, Lipsia), è informata a una costante sopravvalutazione della importanza di lui. Cfr. del resto anche G. Runze, Der ontologische Gottesbeweis, kritische Darstel- lung seiner Geschichte [« La prova ontologica della esistenza di Dio: esposizione critica della 6ua storia»]. Halle.  proprio pensiero a una certa coerenza, non sarebbe ve¬ nuto mai in niente di dimostrare con parole subbicttiva- mente umane la esistenza obbiettiva di Dio (abbiamo veduto più sopra, nota 272, per questo rispetto, un esem¬ pio molto onorevole di circospezione); e questa connes¬ sione con il modo di vedere realistico, è anche il solo motivo, che c’induce a menzionare questi tentativi di dimostrazione, al loro primo comparire (cfr. anche la Sez. seguente, nota 94 a); perciò siamo anche ben con¬ tenti di rinunziare — per tutt’i successivi sviluppi, nei quali vien meno il punto di vista della logica formale, con la relativa distinzione di contrastanti tendenze — a ricordar le diverse trasformazioni, per le quali è pas¬ sato l’argomento ontologico (p. es. nella filosofìa di Car¬ tesio, Leibniz, Wolff, Mendelssolm, ilaumgarten, Kant). Anseimo si atteneva, nè altro c’è da aspettarsi da un discepolo di Lanfranco, al punto di vista, secondo il quale il sapere ha, nella fede cristiana, la propria con¬ dizione e il proprio limite) ; per conseguenza, egli trova, di fronte al pensiero, una realtà incondizionata¬ mente obbiettiva, nel riguardo intellettuale già bell’e compiuta, sì che a questa realtà obbiettiva il pensiero può semplicemente o partecipare o non partecipare: Anseimo, cioè, com’è di per sè chiaro, in logica è un rea¬ lista. E il singolare desiderio di costringere irrevoca¬ bilmente il nostro pensiero a questa partecipazione in senso obbiettivo, cioè d’imporre per forza di dimostrazione il punto di vista realistico al pensiero umano, è il motivo fondamentale dell’argomento ontologico 336 ) : ar- ’“) Epist., Il, 41 (Opera, cd. Gcrberon, Parigi, 1675), p. 357: Chrisliunus per fidem debet ad intellectum proficere, non per in- telleclum ad fulem accedere, aul, si intelligere non valel, a fide recedere. Sed cum ad intellectum valel perlingere, deleclalur, cum vero nequit, quod capere non potest, veneralur [PL], ”*) Broslogion, c. 2, p. 30 [te6to curato dal Daniels: Beitrage del Baumker, voi. "Vili, fase. I-IIJ : Convincitur ergo etiam insipiens gomento clie ci offre lo spettacolo della massima con¬ traddittorietà, dovendo invero per esso 1 obbietlivismo sistematico più rigoroso, ricevere, come tale, proprio un fondamento subbiettivo. il controsenso di questa intra¬ presa consiste dunque nel proposito stesso del realista, il quale, mentre a priori riconosce l'ideale solamente come obbiettivo, vuole dimostrarne la esistenza obbiet¬ tiva ancor soltanto con mezzi subbiettivi; ora un tale controsenso fu scorto cou perfetta esattezza da G a u- nilone (monaco nell’abbazia di Marmoutier [Tours]), come dimostra la sua aff ermazione che l’argomento var¬ rebbe altrettanto bene anche per provare la esistenza di un’isola incondizionatamente perfetta 337 ), poiché, di fatto, con la medesima formula il realismo avrebbe po¬ esie vel in inlellectu aliquid quo nihil maius cogitari palesi, quia hoc, cum audii, intelligil; et quicquid inlelligitur, in inlellectu est. Et certe id quo maius cogitari nequit non palesi esse in solo intei- leclu. Si enim vel in solo inlellectu est, potest cogitari esse et in re, quod maius est. Si ergo id quo maius cogitari non potest est in solo inlelleclu, id ipsum quo maius cogitari non potest est quo maius cogitari potest. Sed certe hoc esse non potest. Existit ergo procul dubio aliquid, quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re [PL, 158, 228J. — Liber apologeticus contro Gaunilonem [testo c. s.J : Ego dico: si vel cogitari potest esse, necesse est illud esse. Nani quo maius cogitari nequit, non potest cogitari esse nisi sine initio. Quicquid uutem potest cogitari esse et non est, per initium potest cogitari esse. Non ergo quo maius cogitari nequit, cogitari potest esse et non est. Si ergo cogitari potest esse, ex necessitate est, e via dicendo, con grossolana continua confu¬ sione tra cogitari ed esse [PL, 158, 2491. U! ) Liber prò insipiente, c. 6 (Anselmi Opp., p. 36 [testo c. s.]): aiunt quidam ulicubi oceani esse insulam, quam ex difficultale vel potius impossibilitate inveniendi quod non est cognominanl aliqui perditam, quamquam jabulanlur.... universis aliis.... usquequaque praestare. Hoc ita esse dicat mihi quispiam.... At si lune vel ut con- sequenter adiungat ac dicat: non potes ultra dubitare insulam illam lerris omnibus praestantiorem vere esse alicubì in re, quam et in intellectu tuo non ambigis esse, et quia praestantius est, non in intellectu solo sed eliarn esse in re, ideo sic eam necesse est esse, quia nisi fuerit, quaecunque alia in re est terra, praeslantior illa erit; ac sic ipsa iam a le praestantior intellecta praestantior non erit —, si inquam per hacc ille mihi velil astruere de insula illa, quod vere sit, etc, etc. [PL]. — Più minute notizie sopra Gaunilone son date da B. Hauréau, Singularités historiques et lit- téraires, Parigi tuto dimostrare anche la esistenza reale di tutte quante le idee platoniche. Ma quando a ciò Anseimo replica ch’egli non ha parlato già della esistenza del concreto, bensì ha parlato proprio soltanto dell’ Incondiziona¬ to 338 ), si lascia necessariamente prendere al suo stesso laccio; poiché si trova costretto a ricorrer ora tuttavia a un’ascesa per gradi successivi, onde soltanto a poco a poco ci eleviamo dal minore condizionato, mentalmente, sino al pensiero del superlativo incondizionato 339 ) ; per conseguenza, come essere reale, questo Incondizionato non può naturalmente avere se non una realtà che sia posta dal pensiero; ma, da capo, con questa conchiu- sione molto male si armonizza invece quel che dice d’al¬ tra parte lo stesso Anseimo, quando in ciascun pensiero, e anzi espressamente anche nel pensiero drizzato verso cose concrete, distingue mi aspetto puramente nomi¬ nale (vox signìfìcans) e un intendere reale (id ipsiirn quod res est), in maniera tale, che in quest’ultimo sia già implicita la esistenza, ma nel primo sia possibile ogni assurdità 340 ); e infatti, stando così le cose, non c’è *“) Apoi. c. Gaun., c. 3, p. 38: Sed tale est, inquis, ac si aliquis insulam oceani etc . Fidens loquor; quia si quis invenerit mihi [ aliquid] aut re ipsa aut sola cogitatione existens praeter quo[d] maius cogitari non possit, cui optare valeat connexionem huius meae argumenlationis, inveniam et dabo illi perditam insulam amplius non perdendam [PL]. “*) Ibid., c. 8, p. 39: Quoniam namque omne minus bonum in tantum est simile maiori bono in quantum est bonum, patel cuilibel rationabili menti quia de bonis minoribus ad maiora conscendendo ex bis quibus aliquid maius cogitari potest multum possumus coni- cere illud quo nihil potest maius cogituri,... Est igitur linde possit conici quo maius cogitari nequeat | PL. M0 ) Prosi., c. 4, p. 31: Aliter enim cogitatur res cum vox eam significans cogitatur, aliter cum id ipsum quod res est intelligitur. Ilio ilaque modo potest cogitari Deus non esse, isto vero minime. [Nella ed. Gerberon: Nullus quippe intelligens id quod sunt ignis et aqua palesi cogitare ignem esse aquam secundum rem ; licet hoc possit secundum voces, ita igitur nemo intelligens id quod Deus est....] IS'ullus quippe intelligens id quod Deus est potest cogitare quia Deus non est, licet haec verbo dicat in corde aut sine ulta aut cum aliqun estranea significatione [PL bisogno, in generale, nè di ima prova della esistenza, nè di un’ascesa all’Incondizionato, bensì non c è allora nient’altro da fare, che pensare appunto ciascuna cosa dal suo lato obbiettivo reale. Con molta accortezza perciò Anseimo non si adden¬ tra con una sola parola neanche nella più calzante obiezione di Gaunilone; quest’ultimo rappresenta un no¬ minalismo molto ragionevole, quando dice eh è bensì vero che la vox da sola, come semplice vox, cioè pura¬ mente come suono di lettere (dell’alfabeto), non con¬ tiene verità di sorta, ma che nella Bfera della esperienza, dove il significato intelligibile della parola viene con¬ nesso con cose note e commisurato a queste, si pensa ef¬ fettivamente nelle parole l’essere obbiettivamente reale, dovendosi dunque, per quella sfera che trascende ogni esperienza, star contenti alla significano perccptae vocis, che non implica in sè la esistenza obbiettivamente reale della cosa significata 341 ). Dice cioè Gaunilone: nelle no- *“) L. prò insip., c. 4, p. 36[testo c. s.] : Neque enim aut rem ipsam [girne deus est] novi aut ex alia possum conicere simili, quandoquidem et tu talcm asseris illam ut esse non possil simile quicquam. Nam si de homine aliquo mihi prorsus ignoto, quem etiam esse nescirem, dici lamen aliquid audirem, per illam specia- lem generalemve notiliam, qua quid sit homo vel homines novi, de ilio quoque secundum rem ipsam quae est homo cogitare pos- sem. Et tamen fieri posset ut, mentiente ilio qui diccret, ipse quem cogitarem homo non esset; cum tamen ego de ilio secundum veram nihilominus rem, non quae esset ille homo sed quae est homo qui- libet, cogitarem. Nec sic igitur ut haberem fulsum istud in cogi- tatione vel in intellectu, habere possum istud, cum audio dici « Deus » aut « aliquid omnibus maius », cum, quando illud (cioè quell'uomo) secundum rem veram mihique notum cogitare possem, istud (cioè Dio) omnino nequeam nisi tantum secundum vocem, secundum quam solam aut vix aut nunquam potesl ullum cogitaci verum. Siquidem cum ila cogitatur, non tam vox ipsa quae res est utique vera, hoc est litterarum sonus vel syllabarum, quam vocis auditae significatio cogilelur, sed non ita ut ab ilio qui novit quid ea soleat voce significavi, a quo scilicet cogitatur secundum rem vel in sola cogilatione veram : verum ut ab eo qui illud non novit et solummodo cogitat secundum animi molum illius auditu vocis effeclum significationemque perceptae vocis conanlem effin- gere sibi. Quod miruin est si unquam rei peritate potuerit. Ita ergo. stre parole abbiamo la esperienza concreta convertita in concetti, e nelle parole possediamo anche la forza di trascender la immediata realtà; ma tostochè questo accada, ci troviamo esclusivamente nella sfera del pen¬ siero, ed è fatica sprecata voler fare venir fuori da que¬ sto, in quanto puramente subbiettivo, la esistenza ob¬ biettiva del pensato, perchè, proprio quando ci si volge al cogitavi, si rende manifesto che esse e non esse ap¬ partengono alla sfera obbiettiva, sicché la prova onto¬ logica non prova niente, perchè va di là dal proprio campo, e così prova troppo. [b) realismo anselmino, privo di fondamento scien¬ tifico, nel Dialogus de veritate]. — Se dunque l’argo¬ mento ontologico è nato solamente perchè Anseimo non era riuscito a venire logicamente in chiaro neanche del suo proprio punto di vista realistico, questa medesima debolezza si mostra anche in quella professione di fede realistica, cli’è contenuta nel « Dialogus de veritale s >. Già più sopra (nota 319), nel passo indirizzato contro Roscelino, abbiamo veduto la espressione schiettamente realistica «substantiae universales » ; ma proprio un tal modo d’intendere impedisce naturalmente ad Anseimo qualsiasi comprensione di quel che significhi la forma del giudizio logico: poiché, potendo egli sin dal prin¬ cipio considerare la enuntiatio solamente come rical¬ cata sopra l’essere o il non-essere obbiettivo, nemmeno in tale forma assegna alla enuntiatio stessa la verità, ma questa trasferisce in modo esclusivo nella sfera obbiet¬ tiva, la quale, lungi dall’esser vera nel suo presentarsi come oggetto del giudizio, contiene invece solamente la nec prorsus al iter. adirne in intellectu nuo constai illud haberi, cum audio intelligoque dicentem esse aliquid maius omnibus quae valeanl cogitari. — Haec de eo quod somma illa natura iam esse dicitur in intellectu meo [PL]. causa della verità del giudizio 342 ) ; Anselmo auzi espres¬ samente irride alla forma del giudizio: questo infatti — com'egli si esprime — anche quando è in contraddi¬ zione con lo stato di fatto oggettivo, continua pur sem¬ pre a essere un giudizio giusto, per quanto si attiene puramente all’enunciare e al significare, mentre la vera giustezza, cioè la stessa verità, risiede appimto solamente in quella obbiettività, a raggiunger la quale, in senso obbiettivo, s’ha da tender con uno sforzo, ch’è designato quasi come dovere morale 343 ) : poiché, dato che tutte le cose ricevono Tesser loro solamente dalla suprema Verità 344 ), Tessere stesso prende infine la forma di un *°) Dialogus de ventate, Magister. Quando est numi intuì vera? — Discipulus. Quando est, quod enuntiat si ve affermando sive negando; dico enim esse quod enuntiat, eliam quando negai esse quod tuta est; quia sic enuntiat, quemadmodum res est. — XI. An ergo libi videtur, quod res enunliata sit veritas enunlialionis? -— D. Non. — XI. Quare? — D. Quia nihil est veruni, itisi participando verilatem: et ideo veri veritas in ipso vero est; res vero enunliata non est in enuntialione vera, unde non ejus ve¬ ritas, sed causa veritatis ejus dicendo est [PL. "*’) Ibid., p. 110: XI. Ergo non est illi [se. enuntiationi\ aliud veritas [?], quam reclitudo.... — D. Video quod dicis: sed doce me, quid respotulere possim, si quis dicat, quod ctiam cum [ojratio significai esse quod non est, significai quod dehet: ttariler namque accepit significare esse et quod est et quod non est. Nam si non accepisset significare esse eliam quod non est, non id significarci. Quare eliam cum significai esse quod non est, significai quod debet. Al si, quod debet significando, recto et vera est, sicut ostendisti, vera est oralio, edam cum enuntiat esse quod non est. — XI. Vera quidem non solet dici, cum significai esse quod non est; veritatem tamen et rectitudinem habet, quia jacil quod debet. Sed cum si¬ gnificai esse quod est, dupliciter jacil quod debet: quoniam signi¬ ficai et quod accepit significare, et [adì quod facta est. Sed secun- dum hanc rectitudinem et veritatem, qua significai esse quod est, usu recto et vera dicitur enuntiatio, non secundum illam, qua signi¬ ficai esse eliam quod non est.... Alia igitur est rectitudo et veritas enuntiationis, quia significai ad quod significandurn facta est: alia vero quia significai quod accepit significare. Quippe ista immuta- bilis est ipsi oralioni: illa vero, mutabilis [ PL, p. 111-2: An putas aliquid esse aliquando, autalicubi, quod non sit in stimma ventate, et quod inde non accepcril quod est inquantum est: aut quod possil aliud esse, quam quod ibi est? [PL], Dovere S4B ). Per conseguenza risulta sì un fondamento unitario, semplicemente obbiettivo, della verità 346 ), ma con quanto maggior energia vien dato rilievo all’ ap¬ prendimento esclusivamente spiritualistico di quello), tanto meno si riesce a capire, come mai rimanga an¬ cora una qualsiasi funzione di principio alla forma lo¬ gica del giudizio. [c) punto di vista compassionevolmente basso, nel Dialogus de grammatico]. — Ma quanto poco accurata¬ mente elaborata sia stata in generale nell’opera di An¬ seimo la concezione della logica, appare manifesto con la massima chiarezza dallo scritto intitolato « Dialogus de grammatico » 34S ). È vero che si tratta semplicemente *“) : In rerum quoque exislemia, est simililer vera vel falsa significano ; quoniam eo ipso quia est, dicil se debere esse [PL], Con quest’affermazione è connessa anche la totale identilicazione che Anseimo stabilisce tra il Non-essere reale, ovvero il Nulla che è, da una parte, e, dall’altra, il Male ( Epist., II, 8, p. 343 s. [PL), onde, confrontato con lo Scoto Eriugena (note 133 ss.), egli fa una più risoluta professione di rea¬ lismo platonico. '“) Ibid., c. 13, p. 115: Si recliludo non est in rebus illis, quae debent rectiludinem, nisi cum sunt secundum quod debenl, et hoc solum est illis rectas esse, manifestum est, earum omnium unam solam esse rectiludinem.... Quoniam illa (se. veritasj non in ipsis rebus, aut ex ipsis, aul per ipsas, in quibus esse dicitur, habet suum esse; sed cum res ipsae secundum illam sunt, quae semper praesto est his, quae sunt sicut debent, tunc dicitur hujus vel illius rei veritas IPL,Nempe nec plus nec minus continet isla diffinitio veritatis, quam expediat, quoniam nomen reclitudinis di¬ vidii eam ab ornili re, quae rectitudo non vocatur. Quod vero sola mente percipi dicitur, sepurat eam a reclitudine visibili [PL]. **) Dice lo stesso Anseimo (Prologus ad dial. de ver., p. 109 [PL): [edidi tractatum ] non inulilem, ut puto, inlrodu- cendis ad dialecticam, cujus initium est « De grammatico»: e da un passo di SiciBKftTO da Gsmbloux (de scriptoribus ecclesiaslicis, c. 168), dov’è ripetuta questa notizia (vedilo riprodotto dal Fabri- cius nella Dibl. eccl., p. 114 [PL, 160, 586] : scripsit.... alium li- brum inlroducendis ad dialecticam admodum utilem, cujus initium est « De grammatico »), ha avuto origine la opinione erronea, ch’egli abbia scritto una particolare « Introducilo in dialecticam ».di un esercizio scolastico, composto da Anseimo, come dice egli stesso, soltanto in considerazione delle solite numerose trattazioni analoghe 3 '* 9 ) ; ma mentre ci è ignoto se quegli altri scritti consimili sieno mai stati migliori, scorgiamo in ogni caso che questo di Anseimo si tiene a un punto di vista compassionevolmente basso. Poiché è un continuo insulso giocare con proposizioni ricavate da Boezio, e apprese macchinalmente, senza trarsi fuori dalla tediosa fatica di scovare in un primo tempo difficoltà, là dove un uomo ragionevole non ne saprebbe trovare, e poi da capo presentarne la soluzione adeguata; — insomma è il prodotto di una erudizione scolastica estremamente limitata, tanto meschino quanto lo scritto ricordato più sopra di Gerberto; e di un qual¬ che impulso che sia da esso derivato allo studio della dialettica, si può tanto meno parlare, in quanto che, persino relativamente alla questione che divideva il campo della logica in contrarie tendenze, si presenta estremamente ottuso e scolorito. Tutta la trattazione si volge intorno alla questione, se « grammaticus » sia sostanza o sia qualità, dato che ima e l’altra alternativa debbano entrambe esser ammesse, ma non sia possibile che sieno in pari tempo tutt’e due vere 35 °). Ma alla risposta ragionevole, che **) Diulogus de grammatico, Tamen quoniam scis, quantum noslris temporibus diulectici certent de quaestione a te proposila, nolo le sic his quae diximus inhaerere, ut ea perlinaciter teneas, si quis validioribus argumentis haec destruere et diversa valuerit astruere: quod si conti gerii, saltem ad exercitationem di- sputandi nobis haec profecisse non negabis [PL, . B °) lbid., c. 1, p. 143: De grammatico peto ut me cerlum jacias, utrum sit substantia an qualitas, ut, hoc cognito, quid de aliis quae similiier denominative dicuntur, sentire debeam, agnoscam. La questione ha la propria fonte in Boezio (p. 121 [in Ar. praed., I; PL, 64, 171-2]), il quale, dove nelle Categorie vien citato gramma¬ ticus come denominalivum da grammatica, nomina nel commento Aristarco quale esempio di grammaticus, — e inoltre, nel trattare della categoria della sostanza (p 134 [ibid.; PL, 64, 189]), espres¬ samente riconduce grammaticus su su ad animai, mentre è da ag¬ li. cioè son pur vere tutte due le alternative, ci si arriva per via indiretta nel modo più artificioso 351 ). Alla opi¬ nione di chi ammette che « grammaticus » è sostanza, perchè invero il grammatico è un uomo, ma l’uomo è sostanza, si contrappone cioè anzitutto un sillogismo de¬ forme, il quale ha per conchiusione che nessun gram¬ matico è uomo 352 ) : conchiusione, che per prima cosa viene confutata con l’argomento, che alla stessa maniera potrebbe anche dimostrarsi che nessun uomo è un es¬ sere vivente 353 ) ; ora soltanto a tale argomento vien dis¬ giungere che (p. 185 s. [i6., HI; PL, 64, 256-7J) per la categoria delia qualità, grammuticus era diventato l’esempio stereotipato. Perciò Anselmo pone ora una accanto all'altra come reciprocamente contraddittorie le seguenti espressioni: Ut quidem grammaticus prò - betur esse substantia, sufficit quia omnis grammaticus homo, et om- nis homo substantia (cfr. Boezio [ad Porph. a se fransi.], p. 63 s. [probabilmente si deve leggere 36 6.: lib. H, c. 11; ed. Brandt, p. 103-4; PL, 64, 57]).... Quod vero grammaticus sit qualitas, aperte jatentur philosophi, qui de hoc re tructaverunt, quorum auclorita- lem de his rebus est impudenlia improbare. Item quoniam necesse est, ut grammaticus sit aut substantia aul qualitas.... Cum ergo alte- rum horum verum sit, alterum jalsum, rogo ut julsìtatem detegens, aperius mihi veritatem [PL, 158, 561]. K1 ) Ibid„ c. 2: Argumenla, quae ex utraque parte posuisti, ne¬ cessaria sunt; nisi quod dicis, si alterum est, alterum esse non posse. Quare non debes a me exigere, ut alteram partem esse falsam osten- dam, quod ab ulto fieri non potesti sed quomodo sibi invicem non repugnent, aperiam, si a me fieri polest. Sed vellem ego prius a te ipso audire, quid his probalionibus tuis oblici posse opineris \ib., 561-2]. K ‘) Ibid.: Ulani quidem propositionem quae dicit, grammaticum esse hominem, hoc modo repelli existimo : quia nullus grommati• cus potest intelligi sine grammatica, et omnis homo polest intelligi sine grammatica. Item, omnis grammaticus suscipit magis et minus (questo è ricavato da BOEZIO, p. 186 [in Ar. Praed., Ili; PL, 64, 257]), et nullus homo suscipit magis et minus: ex qua utraque con- textione binarum propositionum conficitur una conclusio, id est, nullus grammaticus est homo [PL, 158, 562]. * sl ) C- 3, p. 143 s. : Non sequitur.... Contexe igitur tu ipse qua- tuor.... propositiones.... in duos syllogismos:... « Orane animai polest intelligi praeler rationalitatem; nullus vero homo potest intelligi praeter rationalitatem>. Item: que multipliciter appellatur.... Et communis est multiplex appellatio, edam in his nominibus, quae veluti genera de speciebus dicuntur;e (p. 183 [ibid., PL): Grammatici enim a Grammatica nomìnantur, atque hoc est in pluribus, ut posilo nomine, si quid secundum ipsas qualitales, quale dicilur, ex his ipsis qualilatibus appellatio derivetur. Etc . distinctis qualitatum vocabulis appellantur.... Così neanche Anseimo oltrepassa dunque assolutamente la limitata sfera delle fonti sin qui note, e se si fosse già fin d’allora conosciuta la traduzione degli Analitici, è da credere che in generale tali disquisizioni sarebbero state impossibili. Anseimo tuttavia non ci consente ancora di gustare su¬ bito la sua concezione realistica, bensì ancora per qual¬ che tempo ci mena strascicando attraverso uno sciocco gingillar con le parole. Se cioè si obietta che « gram¬ matico » e « uomo » vengono per conseguenza a essere ugualmente predicati significativi, e che pertanto il pri¬ mo abbraccia del pari in una unità reale il concetto di uomo e il concetto di grammatica — tale obiezione dev’essere ora confutata con la considerazione, che al¬ lora « grammatica » non sarebbe accidente, ma diffe¬ renza sostanziale, il che dovrebb’essere altrettanto vero di tutte le qualità simili: e così pure ne risulterebbe la illazione che un non-uomo, il quale fosse grammatico, dovrebbe allora proprio perciò essere nello stesso tempo uomo 364 ) ; inoltre bisogna ben riflettere appunto sopra la forma di aggettivo che ha la parola gramma- ticus, poiché se « uomo » fosse già per sè contenuto in « grammatico », potrebbe darsi che, con la sostituzione, si dovesse continuar a ripetere all’infinito la parola « uomo », e in generale si sconvolgerebbe il punto di vista proprio degli appellativi derivati, perchè allora p. es. anche hodiemus dovrebb’essere un verbo 363 ). J C. 13, p. 14 ì: Sicut enim homo constai ex ammali et rationa- litate et morlalitale, et idcirco homo significai liaec trio, ila gram¬ matici^ constai ex homine et grammatica; et ideo nomen hoc signi¬ ficai utrumque.... — M. Si ergo itti est, ut tu dicis, diffinitio et esse grammatici est « homo sciens grammalicam ».... Non est igitur gram¬ matica accidens, sed substantialis differentia; et homo est genus, et grammaticus species: nec dissimilis est ratio de albedine, et simi- libus accidentibus: quod falsum esse totius artis traclatus ostendit ((BOEZIO fin Porph. a se transl., IV, 1: ed. Brandi, p. 239 ss.; PL, 64, 115 ss.], p. 79 ss.).... Ponamus, quod sit animai aliquod rationale, non tamen homo, quod ita sciai grammalicam sicut homo ... Est igitur aliquis non homo sciens grammaticam.... At omne sciens gram¬ malicam est grammaticum.... Est igitur quidam non homo gramma¬ ticus.... Sed tu dicis in grammatico intelligi hominem.... Quidam ergo non homo est homo quod falsum est [PL, 158, 571-2], ) Jbid. : Si homo est in grammatico, non praedicatur cum eo simul de aliquo...; non enim apte dicitur, quod Socrates est homo animai (Boezio [loc. ult. cit., II, 6: ed. Brandt, p. 192; PL Dopo che si dà così per dimostrato che grammatica* non chiude in sè unitariamente la sostanzialità dell’uo¬ mo, bensì vale soltanto quale significazione adeguata della grammatica, deve adesso chiarirsi ancora tuttavia in qual modo grammaticus sia puramente un appella¬ tivo mediato dell’uomo; e ciò si fa, con il più balordo scambio di concetti attributivi, mediante questo esem¬ pio, che cioè, se ci sono, uno accanto all’altro, un ca¬ vallo bianco e un bove nero, dicendosi senz’altro  S, qUoJ 7. homo solus, i. e. sine grammatica, est gromma - auinno f b ‘ m °' l,S ,ntell W POtest: uno vero, altero falso. Homo quippe (questo e il verni modus) solus, i. e. absque grammatica est qiTnecToh Ter habe ^ ^ m maticam: grammatica nam- que, nec sola nec cum honune. habet grammaticum. Sed homo so - irammn ' grammat,ca - ««* grammatici; quia, absente grammatica, nullus esse grammatici potest (il falsus modus consi alerebbe cioè ne 1 intender quella proposizione nel senso che non per^ r „a n n e ted a n> ^amniotica alla sostanza 7 ». stante dell uomo): sicut qui praecedendo ducit alium, et so - . 1 praevius, quia qui sequitur non est praevius,... et solus non lvL pr i5T l 5m l, !cr n T f qui T‘ evius esse non P° test la prima delle due alternative viene utilizzata per la pro¬ fessione di fede realistica, e qui Anselmo aderisce, con l’accento di chi si rassegna di mala voglia, alle idee dei dialettici aristotelici, per salvare almeno quel che po¬ teva essere salvato, poiché, visto che le Categorie gode- van pure di ima così grande autorità, da non poter es¬ sere del tutto rigettate, bisognava far il tentativo d’inter- petrarle in senso realistico. Dice Anselmo cioè, che de¬ signare il grammatico esclusivamente come qualità, è giusto soltanto dal punto di vista delle Categorie ari¬ stoteliche, poiché in quest’opera si tratta in verità non dell’essere reale delle cose stesse, e neanche della desi¬ gnazione puramente appellativa mediante parole, bensì delle voces significativae (v. sopra la nota 363), in quanto che queste significano immediatamente l’essere sostan¬ ziale in se stesso: e perciò è giusto che tra i dialettici sia rimasto in uso di tenersi puramente nell’orbita di questa significazione sostanziale, cioè di servirsi del grammatico, soltanto com’esempio di qualità 3T0 ) ; peroc- ”“) C. 16: Cum vero dicitur, quod grammaticus est qualilas, non recte, nisi secundum tractatum Aristotelis de categoriis, dicitur. C. 17: D. An aliud habet ille tractatus quam « omne quod est, aut est substantia, aut quantitas, aut qualilas, etc. » (BOEZIO [in Ar. Praed., I; PL).... — M. Non tamen fuit princi- palis intentio Aristotelis, hoc in ilio libro ostendere, sed quoniam omne nomen vel verbum atiquid horum significai; non enim inten- debal ostendere, quid sint singulae res, nec qiiarum rerum sint ap- pellalivae singulae voces, sed quorum significativae sint. Sed quo¬ niam roces non significant nisi res, dicendo quid sit quod voces significant, necesse fuit dicere quid sint res.... De qua significatione videtur libi dicere, de illa qua per se significant ipsae voces, et quae illis est subslantiulis, an de altera, quae per aliud est, et acciden- talis? — D. Non nisi de ipsa, quam idem ipse eisdem vocibus esse, diffiniendo nomen et verbum (Boezio [in de interpr., ed. Becunda, I, 1: rdiz. Meiser, Pare Post., p. 13 ss. ; PL, 64, 398-9], p. 293 s.), assignuvil, quae per se significant. — M. An pulas.... aliquem eorum, qui eum sequentes de dialectica scripserunt, aliter sentire voluisse de hac re, quam sentii ipse? — D. Nullo modo eorum scripta hoc aliquem opinari permilliinl: quia nusquam invenitur aliquis eorum posuisse aliquam vocem ad ostendendum aliquid quod significet per aliud, sed semper ad hoc quod per se signifi¬ cai [PL, chè, in questo senso realistico, il grammatico, per ri¬ spetto alle categorie, è, parimente dal punto di vista del linguaggio come nella realtà, una qualità — laddove, fatta astrazione da questa considerazione dialettica, la quale tuttavia deve pertanto contenere Tessere essenzialmente sostanziale, ciò che rimane è solamente il campo della comune maniera di parlare appellativa, nella quale il grammatico è chiamato «uomo»: non diversamente p. es., nel considerare le forme grammaticali, è giusto chiamare maschile il sasso, mentre, nell’uso comune del linguaggio, non c’è nessuno che designi il sasso come mi essere mascolino 3n ). Dunque Anseimo scorge bensì nelle categorie un pò- tere formale, ma lo riferisce esclusivamente alla Tabula logica, già obbiettivamente data, dell’Essere sostanziale. Ma quanto rozzamente ciò da lui sia stato inteso, ap- pare manifesto dalla concliiusione dello scritto, dove si discute ancora la questione, se una sola cosa possa ca¬ dere sotto più categorie; poiché, quando p. es. si dice c ìe armatus può anche rientrare nella categoria della sostanza, perchè l’armato ha in sè una sostanza, vale a In C ' 18, U s .- : Si crgo proposila divisione oraefata (cioè L!X n 7 e ;' leCÌ categorie), quaero a te, q uid sii grammaticm secundum hanc divisionem, et secundum eos. qui illuni scribendo D P™lT2Z qUUn,Ur t: qU,d QUaer0 ’ ° Ut QUÌd mihi rospondebi? - _ -A " ÌUC P ° test quaeri ’ nisi de voce aut de re quam significati quare, qu ia constai grammaticum non significare respondebo^i '"'“'"'T hominem sed grammaticum, Incuneiamo Tve^oauàerlde de - V ° Ce ' quu ) vox significans quali totem, si vero quaens de re, q uia est q ualitas.... Quare si ve quaeralur de yZZlil Ve J e ,lf’ CUm quuer,tur quid sit gr animai-ras secundum A ri- stoici s tractatum et secundum sequaces ejus. recte respóndZr -Mila' "t t * men s f cundum oppellationem vere est subslanliu. scribuntd emm V Vere " OS debet ' quod d ulectici ahler utùmur InLc J bUt S0C ‘ ,ndum quod sunt significativae, ,diter eis dèi Idi //T '" secun dum qiwd sunt appellativae: si et gromma- tic ahud dietim secundum formam vocum. aliud secundum reium naturam. Dicunt quippe lapidem esse mascolini generis.... cum tu rno dicat lapidem esse masculum [PL, dire le armi, cou ciò si tocca veramente il colmo della incomprensione della logica; e a noi piace chiudere con la sentenza che Anselmo pronuncia su tale argomento, essere difficile cioè (— poiché non vuole affermare nean¬ che questo con assoluta certezza —) che una cosa, la quale eia un tutto uno, possa cadere sotto più categorie, laddove invece una parola, includente più significati, può ben essere considerata, come non unitaria, dal punto di vista di più categorie: tal è p. es. il caso di albus, ch’e di pertinenza così della categoria della qua¬ lità, come anche di quella dell’avere 372 ). Cosi quest’ottuso realismo s’inviluppava, per la sua propria impotenza, in difficoltà, che in generale, per chi consideri le questioni secondo un criterio realmente lo¬ gico, sono inesistenti, e tutto l’atteggiamento di Anseimo ci appare soltanto come un documento di una congenita disgraziata disposizione, dalla quale è affetto, in ordine alle questioni di logica, l’oggettivismo realistico. [§ 35. — Grado ancor basso di sviluppo del con¬ trasto FRA LE TENDENZE. ONORIO DA AUTUN. Ma ili generale sembra in quel tempo, cioè al limite fra l’XI e il XII secolo, essersi manifestato, quale risultato di più Nam, si grammaticus est qualilus, quia significai qualitatem, non video cur armalus non sit substantia,... quia significai habentem substantiam, i. e. arma:... sic grammaticus signi¬ ficai habere, quia significai habentem disciplinam. — M. Nullale- nus.... negare possum, aut armatum esse substantiam aut gromma- ticum [esse] habere.... Rem quidem unam et eamdem non puto sub diversis apiari posse praedicamentis, licet in quibusdam dubitari possit: quod majori et altiori disputationi indigere existimo (sa¬ remmo stati in verità smaniosi (li leggerla, questa altior disputatio).... Unam aulem vocem plura significamela non ut unum, non video quid prohibeat pluribus uliqucndo supponi praedicamentis, ut si albus dicitur qualitas, et habere [PL], Successivamente si prende ancor in esame il concetto di albus, per sostenere ch’esso non è unitario, ma risulta appunto da qualitas e habere appiccicati insieme. e meno recenti controversie logiche e teologiche, un contrasto, ancora dichiaratosi in maniera anzichenò gros¬ solana, tra nominalisti e realisti: si era cioè incapaci, all’infuori da questi due punti di vista, di prenderne in’ considerazione alcun altro, come pure si enunciava cia¬ scuno di quei due unilateralmente, ancora in forma estrema e per così dire grezza. Uno svolgimento di gran lunga più ricco e meglio disciplinato, ce lo presente¬ ranno di già subito i prossimi decenni, e più che mai 1 epoca ulteriore, che per il momento preferiamo tuttavia passar del tutto sotto silenzio. La usata logica delle scuole poteva anzi esser al¬ lora intesa da alcuni singoli scrittori in maniera tale, che rimanesse ancor affatto immune da qualsiasi in¬ flusso del contrasto fra le tendenze, e qual esempio di assoluta ingenuità, così per questo rispetto come relativamente alla logica in generale, possiamo, per chiudere questa Sezione, citare ancora, del principio del secolo XII, alcune amene osservazioni di Onorio da Autun, il quale rappresenta le sette arti liberali come altrettante sedi dell’anima: ed ecco tutto ciò che, a tal proposito, egli sa metter avanti, relativamente alla dialettica: per cin¬ que porte (le quinquc voces) si entra nella vera e pro¬ pria fortezza (cioè le dieci categorie), dove stan pronti due campioni, vale a dire il sillogismo categorico © quello ipotetico, che Aristotele ha armati nella Topica e ha portati poi, nel libro de interpr., sul campo di bat- taglia, sicché ci si può qui metodicamente addestrare nella lotta contro gli eretici S7S ). TO ) Honorii Aucustodunensis de Animae Exsilio et Patria, c. 4, riprod. dal Pez, Thesaur. Tenia civilus est Dialet¬ tica, multis quaestionum propugnando munita.... Uaec per quinque portas adventantes recipit, scilicet per genus, per species, per diffe- rens, per proprium, per accidens; unde et Isagogae introductiones dicuntur, quia per has repatriantes introducuntur. Arx hujus urbis est substantia; turres circumslantes novem sunt accidentia. In hoc duo pugiles sunt et litigantes certa ratione dirimunt: Calhegorico et hypothetico Syllogismo quasi praeclaris armis viantes muniunt. Quos Aristoteles in Topica recipit, argumenlis instruit, in Periher- meniis ad lalum campum syllogismorum educit. In hac urbe docen- tur itineranles haereticis, et aliis hostibus armis rationis resistere eie. [PL PROGRESSO GRADUALE VERSO LA CONOSCENZA COMPIUTA DELLA LOGICA ARISTOTELICA Si colmano le lacune del materiale degli STUDI DI LOGICA, CON LA CONOSCENZA DEI DUE ANALITICI e della Topica, oltre che degli Elenchi Sofistici]. Dopo aver detto più sopra che c’è un solo motivo di dividere in periodi la storia della logica me¬ dievale, motivo che consiste per me nella misura estrin¬ seca della conoscenza, più limitata o più estesa, che si aveva degli scritti aristotelici, e che la differenza di contenuto fra la precedente e la presente Sezione si ri¬ duce in ultima analisi al fatto che sino al principio del sec. XII non erano noti nè utilizzati i due Analitici e la Topica, insieme con gli Elenchi Sofistici, mentre in se¬ guito, a poco a poco, anche questi libri furon tratti entro la sfera dei dibattiti sopra le questioni di logica, — m’incombe ora qui per prima cosa il dovere di fissare anzitutto precisamente quei dati di storia letteraria, che stanno a fondamento della separazione. Per tutta que¬ sta Sezione, con la quale entriamo nell’agitata epoca di Abelardo e procediamo sino al termine del XII se¬ colo, bisogna cioè in primo luogo metter sott’occliio l’àmbito del materiale di cui disponevano gli studiosi di logica, e dal quale scaturirono le numerose controversie di questo periodo, vale a dire bisogna mostrare che, e in qual modo, a poco a poco, per un verso si pervenne alla conoscenza di tutta quanta la produzione letteraria di Boezio, che aveva appunto tradotto l’Organon per intiero, e per l’altro verso si apprestarono traduzioni nuove dei libri suddetti: perchè, solamente dopo fatto ciò, potremo riferire quale attività si sia svolta nel frat¬ tempo sopra questo terreno gradatamente ampliato. Che quella suindicata limitazione sia effettivamente sussistita fino al principio del secolo XII, si può forse darlo ora per dimostrato, sia dalle notizie positive, ad¬ dotte nella Sezione precedente, sia anche dall’asso¬ luta mancanza di qualsiasi accenno in contrario. Ma ap¬ punto, quanto più per questo periodo antecedente invo¬ chiamo in nostro favore la forza dell 'argumentum ex silentio ’), tanto più diligentemente abbiamo preso in considerazione anche le tracce isolate e per così dire cancellate, di manifestazioni, dalle quali quel silenzio viene rotto, a partire da un dato momento. Il punto critico si ha cioè, quando viene presa conoscenza degli Analitici e della Topica, oltre che degli Elenchi Sofi¬ stici*), e per quanto ciò sia accaduto soltanto insensi- Certo non deve perciò negarsi la possibilità di nuove sco¬ perte in qualche Biblioteca, dalle quali vengano messe in luce notizie, contrastanti con questa nostra veduta; ma tuttavia si tratte¬ rebbe sempre soltanto di casi isolati, senz’alcun indosso sopra lo svolgimento generale della logica in quel tempo, perchè a ricono¬ scere l’andamento della logica in generale, sembrano sufficienti le fonti sinora accessibili, ") Jourdain nelle sue Rechcrches critiques si era invero pro¬ posto solamente il compito di ricercare le traduzioni nuove, venute fuori nel Medio Evo, e poteva escludere dunque dalla propria con¬ siderazione questa rivoluzione, in quanto essa concerne la cono¬ scenza di Boezio: ma gli sono sfuggiti testi d'importanza decisiva anche per quel suo intento particolare bilmente e a poco a poco, ci si può bene aspettare che una conoscenza, sia pur ancora frammentaria, di queste principali opere aristoteliche non sarà senza connes¬ sione con lo studio della logica, fattosi ora più ricco e variato. Giacomo da VENEZIA (si veda). Già una notizia che c del seguente tenore: un tale Giacomo da Venezia [SI VEDA] tradusse dal greco i due Analitici, la Topica e gli Elenchi Sofistici, e nello stesso tempo li corredò di un commento, sebbene degli stessi libri ci sia stata una traduzione più antica » *), — riguar¬ da, come si vede, proprio quelle opere, che il periodo precedente non aveva nè conosciute nè utilizzate: e, com’è da rilevare da un lato, che l’informatore, appartenente egli pure al secolo XII, era edotto della esistenza della traduzione, curata da BOEZIO, di quei libri, — poiché dove si parla di una traduzione « più antica », non può alludersi se non a quella —, è parimente chiaro, d’altra parte, che quel tale Giacomo di VENEZIA (si veda) ignorava che la traduzione stessa esistesse, e proprio da ciò era stato indotto a curar egli stesso la sua propria versione di quei libri. Ma il paese, al quale siffatte circostanze vanno ambe¬ due riferite, è L’ITALIA. Prima ancora che si disponga del testo DEI LIBRI ARISTOTELICI SU RICORDATI, TRAPELANO D’ALTRA FONTE NOTIZIE SPORADICHE. Si DIMOSTRA CIÒ CON ARGO- *) In nota a un passo di Roberto da Mont-St.-Michel (Roberti de Monte Cronica, riprod. dal Pertz, MGH, Vili, p. 489), un continuatore (cioè « alia manus », ma, come afferma il Pertz [rectiiu: L. C. Bethmann]) osserva quanto segue: Iacobus Clericus de VENEZIA (si veda) transtulit de Graeco in Latinum quosdam libros Aristolilis, et commen¬ tatili est; scilicet Topica, Anal. priores et posteriores, et Elencos; quamvis anliquior translatio super eosdem libros haberetur fPIL MENTI TRATTI dagli scritti di AbelardoJ. Questa im- portante notizia, la quale contiene dunque elementi re¬ lativi alla conoscenza di quelle opere, e inoltre nello stesso tempo elementi relativi alla non-conoscenza delle opere stesse, non sta tuttavia così isolata, come si ere- deva 4). Una conoscenza di quei libri sembrerebbe cioè, ben è vero, rimaner esclusa a prima vista da dichiara- zioni di Abelardo, affatto categoriche e di amplissima portata. Fatta astrazione dal lamento ch’egli leva, e che qui non c’interessa, per la mancanza di una traduzione della Fisica e della Metafisica di Aristotele 5 ) — Abelardo c’indica egli stesso espressamente le fonti della sua lo¬ gica, e dice che la letteratura in lingua latina, riguar¬ dante la logica, ha per fondamento sette scritti, ripartiti fra tre autori: di Aristotele cioè si conoscono soltanto le Categorie e il de interpr., di Porfirio la Isagoge, ma di BOEZIO sono in uso i trattati de divisione, de differenti™ topicis, de syllogismo categ., de syllogismo hy- poth. b ); inoltre, anche una osservazione, tratta dagli , ora ’ ®“P ra Giacomo da V., anche Ueberwec-Geyer, p. 146] .11I Cousin (Ouvr. inédits d’Abélard, p. L ss, e anche Fragni. de pini, du moyen àge Parigi) è assolutamente in errore, e dai passi di Abelardo che dovremo citare subito appresso, trae conchiusioni, solamente in base al tenore delle parole, estrinse¬ camente considerate, senza por mente al contenuto delle dispute intorno ai problemi della logica. . “I Abaelardi Dialectica, negli Ouvr. inéd. (ed. Cousin), p. 200: in l hysicis [et].... in his libris, quos Metaphysica vocat, exequitur (se. Aristoteles). Quae quidem opera ipsius nullus adhuc translator latinae linguue aptavit. Confido.... non pauciora vel minora me praesti- turum cloquentiae peripateticae munimenta, quam illi praestiterunt, quos latinorum celebrat studiosa doclrina.... Sunt autem tres, quo¬ rum septem codicibus omnis in hac arte eloquenza latina armalur. Aristotelis enim duos tantum, Praedicamentorum scilicel et l J eri ermenias libros usus adhuc latinorum cognovil; Porphyrii vero unum, qui videlicet de Quinque vocibus conscriptus, genere scilicet, specie, differentia, proprio et accidente, introductionem ad ipsa praeparal praedicamenta; BOEZIO autem qualuor in consuetudinem duximus libros, videlicet Divisionum et [2291 Topicorum cum Syllogismis tam Categoricis quam Hypotheticis. Quorum omnium summam no- Elenchi Sofistici, Abelardo la cita una volta, soltanto di seconda mano, espressamente riferendosi a BOEZIO, come a propria fonte 7 ). Mentre dunque Abelardo, com’è di per sè chiaro, da quei passi di BOEZIO già più volte menzionati, do¬ veva aver appreso esattamente quali sieno i libri scritti da Aristotele, si direbbe ch’egli riconosca con le parole ora riferite, in modo assolutamente inequivocabile, che non gli era possibile far "uso delle traduzioni degli Ana¬ litici, della Topica e degli Elenchi Sofistici. Ma tutto quel che ci è lecito conchiudere anche da questo ricono¬ scimento, si è che Abelardo non aveva a disposizione quelle opere principali di Aristotele, perchè queste in generale non si trovavano tra gli scritti entrati nell’uso (si ponga mente all’espressioni « usus.... cognovit » e «in consuetudinem duximus »); vediamo cioè che allora in Francia, in tutti quei luoghi, per i quali Abelardo si andò aggirando o dove in generale ci si occupava di lo¬ gica, non si possedeva un esemplare del testo genuino di quei libri; poiché 6e se ne fosse posseduti, con l’ar¬ dore per gli studi di logica, caratteristico di quell’e¬ strae dialecticae textus pienissime concludet etc. Che per Topica qui non sia da intendere nient’altro che lo scritto de diff. top., è dimostrato, oltre che dalla esposizione che di questo ramo della dialettica si trova nello stesso Abelardo, anche da una quantità di passi, dov’egli cita punti singoli 'del de di/}, top. come « Topica» di BOEZIO, tout court: così, p. es., lntrod. ad thcol. [ed. Amboes.], II, 12, p. 1078 [ed. Cousin, II, 93; PL, 178, 1065] (si riferisce al de diff. top., I, p. 858 s. [corrisponde a PL), Theol. Christ. [ed. Martène], IU, p. 1281 [ed. Cousin, II, p. 488: PL] (si riferisce c. s.). Sic et Non, c. 9, p. 41 della ediz. Henke e LindenkohI [PL (de diff. top., II, p. 866 [PL, ]), ibid., c. 43, p. 105 [PL, 178, 1405] (de diff. top., III, p. 873 [PL, 64, 1197]), ibid.. c. 144, p. 397 [PL] (de diff. top., II, p. 867 [PL]). ') Dialect., ed. Cousin, p. 258: Sex autem sophismatum genera Aristotelem in Sophisticis Elenchis suis posuisse, Boethius in se¬ cando editione Peri ermenias commemorai (BOEZIO, p. 337 s. [in de inlerpr., Secunda editio, II, 6: ed. Meiser, Pars Post., p. 133-4; PL, 64, 460 s.]). poca, li si sarebbe certamente messi in piena luce. Non rimane invece esclusa in tali circostanze la possibilità che qualche elemento di quegli scritti sia tuttavia ve¬ nuto altrimenti a conoscenza del pubblico dei dotti: e sol che si trovasse anche una unica notizia soltanto, della quale si riuscisse a dimostrare che non possa essere stata ricavata da uessun’altra fonte se non da uno di quei libri, sarebbe fornita la prova che in qualche maniera, da qualche altra parte, dati isolati ricavati dagli Analitici e dalla Topica sono filtrati nell’atmosfera degli studiosi francesi di logica. Ma dimostrare per opera di quali uomini e in quale maniera ciò sia accaduto, non è com¬ pito da assegnare a noi; è impossibile fornir tale prova, anzi nemmeno possiamo designare la fonte locale. Che cioè al tempo di Abelardo si fosse venuti a co¬ noscenza di elementi staccati, tratti da quegli scritti ari¬ stotelici che fin allora non erano ancora stati messi a profitto, è cosa della quale possiamo trarre le prove precisamente da Abelardo stesso, e anzi riferendoci non a un pimto soltanto, ma a parecchi. Abelardo osserva una volta, a proposito della definizione del genus 8 ), che in determinate circostanze anche l’individuo può fare da predicato, come p. es. nella proposizione « hoc al¬ bum est Socrates», oppure «/tic veniens est Socrates » : — una considerazione questa, che sarebbe vano ricercare in tutta la serie dei commenti di BOEZIO, ma che si trova bensì negli Analitici Primi, con letterale coinci¬ denza di quelle proposizioni esemplificative; e proprio di là questa notizia dev’essere venuta anche a cono- [Glossae in Porph., ibid., p. 560: videtur esse falsum, quod individua de uno solo praedicenlur, cum hoc individuum Socrates de pluribus habeat praedicari, ut « hoc album est Socrates », « hic veniens est Socrates». Il luogo aristotelico corrispondente si trova negli Anal. pr., I, 27 (nella traduzione di BOEZIO PL. scenza di vari altri cultori della logica 9 ). Abelardo rife¬ risce inoltre che ci son « molti » che traspongono la es¬ senza della definizione esclusivamente nella indicazione delle qualità 10 ) : e non sarebbe il caso di dire che que¬ sta opinione è soltanto una conseguenza estrema rica¬ vata da un passo [delle Categorie] già da gran tempo conosciuto [nella traduzione di Boezio] ll ), perchè un contemporaneo di Abelardo formula quella opinione stessa in termini tali da ricondurci alla vera sua fonte, che troviamo soltanto nella Topica di Aristotele 12 ). Abelardo poi, a proposito della controversia intorno agli universali, usa inoltre una maniera di esprimersi (cioè universalia « appellant in se »), spiegabile soltanto ove si ammetta che la idea fondamentale di quei passi degli Analitici secondi, dove Aristotele tratta di xaxà •) Che la cosa abbia dato occasione a una controversia di moda nelle scuole, ai desume da Joh. Saresb., Metalog., II, 20 (p. 110, ed. Giles d. Webb; PL]) : Hoc enim ex opinione quoTundam sensisse visus est Aristotiles in Ancdeticis dicens (segue quel passo medesimo [cit. nella nota precedente]). ’”) Dialect., p. 492: Unde multi, cum significationem substantiae hitjus nominis quod est « homo » agnoscant, nec qualitates ipsius satis ex ipso percipiant, tantum propter qualitatum demonstrationem diffinitionem requirunt. “) Abistotele, Cut., 5 ; in BOEZIO, PL. L’autore dello scritto De generibus et speciebus, dal Cousin attribuito a torto ad Abelardo (v. sotto le note 49 e 148), dice a p. 541 9.: Concedunt omnes, species ex differentiis constare.... Dicunl, omnes differentias esse in qualitate etc. In tale forma accentuata, quest’ultima affermazione poteva esser ricavata solamente da Ari- stotele. Top. (cioè dalla trattazione, che ivi si trova, della definizione, con la quale si accordano poi altri passi), e ha dovuto in tal maniera appartenere al novero di quelle notizie spo¬ radiche, che ora contribuivano a moltiplicare, le controversie scola¬ stiche; l’autore del De gen. et spec. fa poi sforzatamente risalire la idea ora citata a un altro passo di BOEZIO, p. 62 (ad Porph. [a se transl., II, 5: cd. Brandt, p. 186; PL, 64, 93-4]), e dunque è certo che possedeva come fonti solamente i testi universalmente diffusi. Invece Joh. Saresb., loc. cit., p. 100 [edL Webb, p. 103; PL, 199, 880] mette già in connessione con tale questione anche Sopii. El., 22, 178 b 36. 7tavTÓ£ e di xn pr,ma  d °° Magalo! bi >]U,S cairn istas concedei ; « nllLl , Secunda figura coni,agii m > oni oe justum possibile est ! lum Possibile est esse bo - zs‘?r, • *■*» : ìt . ’z *• vZ’-£z iz"tr;« ,ur Zssrzzzr 6 “" ■ *5 (ibid., nota 5721 _ E-.-, . 41 jnstani esse». Sic et ..._ 6u * veraciter componi. ÉZpus enT n Td Syllog,smi  Ibid., c. 27, p. 183 [ed. Webb, p. 193; PL]: Cete- rum conira eos qui veterum favore potiores AristotiUs libros exclu- dunt Boetio fere solo contenti, possent plurima allcgari. ■) Ibid., c. 6, ip. 162 s. [ed. Webb, p. 170-1; PL, 199, 919-20]: rosteriorum vero Analeticorum subtilis quidem scientia est et paucis Ma come da questa lamentanza risulta naturalmente manifesto che quei libri eran conosciuti, così d’altra parte viene riferito ancora che la Topica aristotelica, da gran tempo trascurata, proprio allora è stata, per così dire, richiamata da morte a vita 2S ) : e alla infor¬ mazione, secondo la quale questa idea di tirar fuori la Topica ha anche trovato a sua volta i suoi oppositori, si collega anche l’altra notizia, concernente un certo D r o g o n e , che non ci è ulteriormente noto, e che a Troyes manifestamente lavorò attorno alla topica, se¬ condo il modello di quella di Aristotele 2B ). [| 7. — Nuove traduzioni dell’Organon, nella Bassa Italia e nell’Impero Bizantino]. — Ma per quanto concerne ora in particolare il venire in luce di traduzioni nuove, si ricava in verità assai poco da una lettera di Giovanni, che da Costanza richiede copie ingeniis pervia.... Deinde huec ulenlium raritate iam fere in desue- tudinem abiil, eo quod demonstralionis usus vix apud solos malhe- malicos est.... Ad haec, liber quo demonslrativa trudilur disciplina (cfr. la nota 25), ceteris longe lurbutior est, et transposilione sermo- num, traiectione litterarum, desuetudine exemplorum, quae a di- versis disciplinìs mutuata sunt, et postremo, quod non conlingil auctorem, adeo scriplorum depravatiti est vitio, ut fere quot capita, tot obstacula hubeul. Et bene quidem ubi non sunt obstacula capi- tibus pluru. Unde a plerisque in interpretem difficultalis culpa re- junditur, asserenti bus librum ad nos non vede translulum | perve¬ nisse]. A qual traduttore si fa qui allusione, a Boezio o a un altro? B ) Ibid., Ili, 5, p. 135 [ed. Webb, p. 140] : Cum itaque tam evidens sii utilitas Topicorum, miror quare cum aliis a maioribus tam diu intermissus sit Aristotilis liber, ut omnino aul fere in desue- tudinem abierit, quando aetate nostra, diligentis ingenii pulsante studio, quasi a morte vel a somno excitalus est, ut revocarvi er¬ rante* et i iam veritalis quaerenlibus aperiret [PL]. “) Ibid., IV, 24, p. 181 [ed. Webb, p. 191: e v. ivi la nota]: Salis ergo mirari non possum quid mentis habeant (si quid tamen hubent) qui haec Aristotilis opera carpunt.... Magisler Theodoricus, ut memini. Topica non Aristotilis, sed Trecasini Drogonis irridebat; eadem tamen quandoque docuil. Quidam auditores magistri Rodberti de Meliduno (v. appresso le note 453 e.) librum hunc fere inutilem esse calumnianlur [PL I di Jibn aristotelici in generale, e prega inoltre che ven¬ gano anche aggiunte annotazioni, data la possibilità che non ci sia da fidarsi del traduttore 3 °). È invece di grande importanza veder da lui citato un medesimo passo, sia nella traduzione di Boezio, sia anche, e contemporanea- mente, nella versione « nuova >«); e come quest’ultima si distingue per essere più letterale, così in generale Gio- vanni si era fatta una opinione abbastanza precisa in latto di traduzioni (soltanto cioè quando queste aderì- scono, quanto strettamente è possibile, secondo una re- gola rigorosa, all’originale, è dato ottenere una con,- prensione, garentita contro qualsiasi pericolo di unila- teralna da una « ratio indifferentiae »); egli dice che una tale opinione ha trovato allora conferma e appog¬ gio in un Greco da Severinum (cioè da Szoreny in Un- gliena), versato in entrambe le lingue 32 ). Ora quella I Epist. 211 (II, p. 54 s ed. Giles 1PL 19Q oacn ri. > ■ stotehs, quos habelis, mihi facialis exscribi ) \. M,ro . s Ar " supplicatione, quatinus in operibus Aristoteìis ubiZitr 'T "7"“ haaonetn: cicadàtionès enimJùntJ -IL ^ rPL 199 io A m ct ' 11 .’ Sl sunt > menu ad rutionem Sei HI° IT ^ ÌPÌat ° n T dÌ ArÌS, ° , • A’sitcaftratio indifferentiae per se stessa non c’interessa per il momento qui, bensì la si vedrà intrecciarsi alla nostra esposizione della logica di Giovanni da Salisbury (note 574 ss.); ma è ben cosa che c’interessa lino da ora, che, in connessione con quella, egli ricordi inoltre anche un secondo traduttore (parimente, è vero, senza riferirne il nome), del quale aveva l'atto la conoscenza nelle Pu¬ glie 33 ). Ma se, coni’ è attestato da questi importanti passi, il comparire di traduzioni nuove, ebbe impulso nell’ Impero tuzantino, e, per opera di Greci, nell’ Ita¬ lia meridionale, e se di ciò ebbero notizia gli studiosi di logica a Parigi o in Inghilterra, si avrebbe qui una prima traccia, sebbene passeggierà, di un influsso del¬ l’epoca di Anna Comncna (v. qui appresso le note 219 e 370, come pure altre notizie nella prossima Sezione, note 1-5 ss.). — Finalmente può ricordarsi ancora, per così dire ad abundantiam, che negli scritti di Giovanni, accanto a citazioni coincidenti in modo assolutamente letterale con la traduzione di Boezio, se ne trovano anche di quelle, che bisogna chiamare per lo meno inesatte, semprechè non sieno state originariamente attinte ad altra fonte 34 ). manga, aU’infuori da quel Severinum che si trova in Ungheria [Webb: / orsan e civitate Sanctae Severinae in Calabria (Santa Se- verina, prov. di Catanzaro)]. ") Ibid., I, 15, p. 40 [ed. Webb, p. 37; PL, 199, 843] : non pigebit re/erre, nec forte audire displicebit quod a Graeco interprete et qui Latinum linguam commode noverai, durn in Apulia morarer, ac- cepi eie. M ) Tra le prime vanno annoverate: Metal., II, 15, p. 86 [ed. Webb, p. 88; PL, 199, 872] (Top., I, 11: nella traduzione di Boezio, p. 667 [I, 9: PL, 64, 916]) — e II, 20, p. 110 [ed. Webb. p. 113; PL, 199, 887] (Anal. pr., I, 27: p. 490 della traduzione di Boezio [I, 28: PL, 64, 669]). — Tra le seconde vanno annoverate: Metal., II, 9, p. 76 [ed. Webb, p. 75-6; PL, 199, 866] (Top., I, 11: p. 667 della traduzione di Boezio |I, 9; PL, 64, 917]) -— II, 20, p. 100 [ed. Webb, p. 103; PL, 199, 880] (De sophisticis Elenchis, cap. 22: nella traduzione di Boezio, p. 750 [II, 3; PL, 64, 1032]) — III, 3, p. 126 [ed. Webb, p. 131; PL, 199, 897] (Top., I, 9: p. 666 della traduzione di Boezio [I, 7; PL, 64, 915. Invece lo Webb rinvia a Cat., 4, 1 b 25 ss.]). CARLO PRANTL f§ - S’iIVTENSIFlCA LO STimm np, , . —A LOGICA C„„ la " tT Cm ' BEL Pseudo-BoezioJ. — Ora ch’è f , Tr filate strato a sufficienza come antece 1 , C °“ C1 ° dÌmo " letteraria di Abelardo ^ “ f 1 ^ 6 aI1 ’ atti vità studio della logica fos’se stataT^à arrfccWt^ T ^ sovra punti particolari e „ P arricchita, abneno piersi a poco a dopo 1 , ^ Ve “ Uta P OÌ a c °®- Jisbury (di questo sr T°i 3 temP ° ^ Giovanni da Sa- ranno ancora “ ale « ; 0m P Ìme «‘o « si presente- - ci è reso noto cosìVfattor T’- * ?8 ’ 219 allora derivare un birre T t™™: ^ qUale doveva nell’attività svolti 1 • "V™ ° ' lntensità e di estensione si SDie^a t rapporto scambievole die ben SJ spiega, una forza cooperante era do, . . . dalla teologia donunatica: e ciò nere! ' “ a f Uardo ' die Sia di fronte allo Scoto EringLt a ortodossia, ,„„l le ta Materi , * * " ' “ «“*“'»«. ’• stata all’erta così • . q e tloni mgJche, era resse, ora che la diale1 1 ^'^ ViSta dtd n,e(lesin '° inte- si» «.loro. z:::~ * r**r « lotte, si tiraron fuori a Ài * propria vita d intime incularlo teologico affinclo" ordeea> dall’arma- eon,tastanti J '*— Sci. era 'L SS ““ •“'« 1o»n« eliic’ mischiati anche elementi di ^ ^ ,rapassassero fra m- ■fera dogmatica p ri » L :,tr;i%r P a a'rr;“ ì r te: - *■* * * valere, ma ora inZiT' . T *°' * “* P Ur fatta mettersi in più inten ^ d " C ^ pOSltlvamente a nitro- logica messa in condizioTeTdot ““ !" 8t ° rÌa deUa ~ no'opera di grazie a una certa formulazione di principii logico-onto¬ logici, potè esercitare azione cooperatrice nelle contro¬ versie dei dialettici. Si tratta del de Trinitene del Peeu- do • B o e z i o, e a tal proposito non mancò natural¬ mente di manifestar il proprio influsso il fatto che fosse ritenuto suo autore proprio Boezio, il rappresentante di tutta la logica S5 ). Appunto in quell’epoca cioè, ossia a K ) Da Fr. Nitzsch (Dos System des Boethius und die ihm zu- geschriebenen theologischen Schrijten [«Il sistema di Boezio, e gli scritti teologici a lui attribuiti »]), Berlino, 1860, furono svolte le più valide ragioni elle si oppongono alla tesi [oggi invece generalmente accettata] che sia Boezio l’autore dei trattati teologici a lui attri¬ buiti. E se poi Hermann Usener, Anecdoton Holderi [ : ein Bei- Irug zur Geschichte Roms in Ostgotischer Zeit (« Testo inedito co¬ municato all’Usener da Alfred Holder: contributo alla storia di Roma nel periodo ostrogotico »). Festschrift zur Begriissung dcr XXXII. Versammlung deutscher Philologen und Schulmiinner in Wiesbaden], Lipsia [rectius : Bonn] ha pubblicato di su un manoscritto di Reichenau del secolo X un passo di un sunto di uno scritto di Cassiodoro finora sconosciuto (— il passo Tp. 4] suona così: « Boethius dignitatibus summit excelluit. ulraque lingua peritissima orator fuit.... scripsit librimi de sanciti trinitate et capita quaedam dogmatica et librum contro Nestorium. condidit et carmen bucali- cum. sed in opere artis logicae id est dialecticae transferendo ac mathematicis disciplinis talis fuit ut antiquos auctores aut uequi- peraret aut vinceret » —) e a ciò è unito un tentativo di dimostra¬ zione dell’autenticità di quei trattati, — non direi che gli sia riu¬ scitoconciòdiconfutareffettivamente la opinione, rappresentata dal Nitzsch e ripetutamente suffragata dai competenti specialisti. Poiché rimane senza soluzione la contraddizione innegabile, che cioè un uomo, il quale si mantiene assolutamente entro la sfera della filosofia della tarda antichità e non fa mai il nome di Cristo, nè dice mai una parola intorno alla consolazione della idea cristiana dell’opera di redenzione, si sia occupato minutamente di sottili questioni di doinmatica cristiana. Se l’Usener (p. 50) dice che si devono appunto tener separate le due personalità, dell’uomo e dello scrittore appartenente alla storia della letteratura, questa è cosa che non sembra possibile in tal maniera per l’autore della Consolatio philosophiae, il quale anzi si trova direttamente in presenza della questione della teodicea, questione appartenente all’orbita della religione. Ma poiché in quel manoscritto di Reichenau neanrhe abbiamo un testo che sia dovuto allo stesso Cassiodoro, bensì sola¬ mente l’opera di un epitomatore, che, come ammette l’Usener (p. 28), riassume tutto il lavoro originale frettolosamente, e attri¬ buisce a Boezio fra l’altro anche un Carmen bucolicurn , rimane co¬ munque possibile che l’epitomatore stesso, stando sul terreno della tradizione ch'era in circolazione dal tempo di Alcuino, abbia fatto partir da Abelardo 36 ), si accumulano le citazioni tratte da quei quattro libri intorno alla Trinità, e Gilbert de la Porrée li accompagnò con un ampio commento, sì che non era più possibile lasciarli da parte, nel trattar delle questioni relative. ,. Ma ’ 111 ordine a un influsso esercitato sopra la logica, c interessano qui essenzialmente quegli assiomi, che l’Au¬ tore in principio del 3» Libro [cioè del libro «Quo- modo substantia, in eo quod sint, bonae sint, cum non sint smistanti alia bona »] mette in testa a tutto, per poi ri arsi da essi, quando costruisce nel corso ulteriore dei- opera l’edifizio delle sue prove. Premessa una defini¬ zione della communis conceptio, gli assiomi stessi”) si riferiscono alla differenza, invalsa nella teologia, tra es¬ senza Oòcfa) ed esistenza (òrtóaraai?), in quanto che a quest ultima deve ancora aggiungersi la forma dell’Es- sere, e per essa lia pertanto luogo una partecipazione, come pure risulta la possibilità di un avere-in-sc, il che poi conduce alla distinzione di sostanza e accidente, e serve di fondamento a distinguere due modi di essere di quella partecipazione; ma, a tale proposito, viene ato rilievo anche alla unità, in cui sono congiunte negli esseri semplici, a differenza dai composti, la essenza e la es.stenza, e da ultimo viene messa in vista mia na- turale affinità di essenza in seno alla diversità esplicata. “Tp* * di Parigi, traua r]af uth ’ ’ !•’ P ' ? 039 ’ Amho ™- [ed. di d’Anjboisel W.Co^II.mTpI.iS 10Mr ,Ser,,ti ^ Fra " S ° ÌS ZtaontZb no,a tìSu/ti£'Za rÌ39Ue etiam d “ ci,jlinis:Pr ° pOSUÌ «EQuesti prineipii, dei quali non ci concerne qui 1 uso che se ne faccia nel campo teologieo-dommatico, non tar¬ darono a essere citati, anche da cultori della dialettica, come « regulae », insieme con altre « auctoritates », e e da ritenere che vari studiosi di logica sin da principio, su questioni ontologiche, si guardassero daH’andar con¬ tro questi assiomi, perchè poteva inoltre esserci la mi¬ naccia di conseguenze pericolose, relativamente alla Tri¬ nità. Così ne venne, che si ebbe qui non già soltanto una più larga applicazione della logica alla teologia, ma an¬ che un diretto influsso di elementi dominatici sopra il movimento di elaborazione della logica nel suo aspetto ontologico. [§ 9. — Contrasto fra logica e dogma]. — Senza dubbio, con questa mescolanza viene a verificarsi una situazione caratteristica, ed è cosa notevole che in quel¬ l’epoca, naturalmente incapace di una chiara e medi¬ tata separazione dei due campi (nel senso in cui 1 hanno intesa p. es. Cristiano Thomasius o Pietro Bayle), venga enunciata tuttavia la incommensurabilità delle due ve¬ rità, teologica e logica, mentre si continuava a svol¬ gere nello stesso tempo i due punti di vista inconcilia¬ bili. Anzi proprio Abelardo stesso, il Peripateticus Pw- latinus, ne dà la più eloquente testimonianza, quando 2) Diversum est esse, et id quod est. Ipsum enim esse nondum est. At vero quod est, accepta essendi forma, est alque consistit. 3) Quod est, participare aliquo potest. Sed ipsum esse nullo modo aliquo participat.... 4) Id quod est. Iutiere aliquid praeterquam quod ipsum est, potest, ipsum vero esse nihil aliud praeler se, habet admistum. 5) Diversum est.... esse aliquid, et esse aliquid in eo quod est: illic enim uccidens, hic substantia significalur. 6) Omne quod est, parli■ cipat eo quo est esse, ut sit, ulio vero participat, ut aliquid sit.... 7) Omne simplex esse suum, et id quod est. unum habet. 8) Omni composito aliud est esse, aliud ipsum est. 9) Omnis diversitas est discors, similitudo vero quaedam appetendo est. Et quod appetii aliud, tale ipsum esse naluraliter ostenditur, quale est illud ipsum, quod appetit fFL, dice che ai cultori della logica, ovvero Peripatetici, Dio rimane ignoto, perchè da quelli tutto viene sussunto a una o l’altra delle dieci categorie, laddove Dio non può cadere sotto alcuna di queste 38 ) : e mentre ciò potreb- b’eseere ancora interpetrato come il punto di vista ge¬ nerale, venuto in uso fra i teologi da Agosthio in poi (efr. lo Scoto Eriugena, Sez. precedente, note 120 s.), Abelardo, proprio relativamente alla dottrina della Tri¬ nità, si pronuncia con la massima chiarezza, nel senso che quella ha i suoi nemici più pericolosi nei dialettici o peripatetici 39 ), argomentando costoro, dal punto di vista della logica, la unità individuale dalla unità di essenza delle tre Persone, e, viceversa, dalla diversità delle tre Persone la diversità della loro essenza 40 ). E non ténTI D B nRANn D VP e0/ ' Chrht " V- 1271 (ne,la di Mar- tene e Uuram) Thesaurus novus Anccdotorum, Parigi, 1717, voi V) ed- t-ousin, II, p. 478]: Quod autem illi quoque doctore's nostri UT intendimi Logieae. ill„ m summam majestatem, quam in n . L eUm eSSe ' ,rofì "; nt ", r - omnino ausi non sunt attingere, aut Cum e Z oZ ? COm P rehender *’ ex ipsorum scriptis liquidum est. Cum erum omnem rem aut substantiae aut alieni aliorum genera- lissimorum sub],ciani: inique et Deum, si inter res ipsum eom- dZnnZT ’ aut ? ubstantiis ’ quanti tali bus, aut ceterorum prue- dicamentorum rebus connumerarent, quod nihil omnino esse ex ipsis convmcitur (p. 1273) [480].... qui tamen omnem rem aut siibstantiae aut alieni aliorum praedicamenlorum applicanti palei leni 1 ■’ ruCU,lu h .enpalelicorum illuni summam [481] majesla- tem omnino esse exclusam [PL], ' Christi'^tion / C 1 ’, P ‘ 1242 C44 , 8] j S " Pr " univers °> s autem inimicos sani-lue TriniZZZ*’ J,,daeo \ sive Oenliles, subtilius fide,,, essores d el Perquuunt. e , ucutius arguendo contendimi prò- fessores dialecticae, seu import,mitas sophistarum. quos verborum agrume atque sermoni,m inundatione bentos esse Plato irridendo apZtzl mm T dem ’ ° ^ nane dZeZeos [PL^l 78, ]2 lT™ UUaS ^ maXlmM haere *es.... esse repressas eie. eillinl "'Z'f 'I' P ' 1266 r472,: in loco Kravissimae et diffi¬ cili,mae Dialecticorum quaestiones occurrunt. Hi quippe ex unitale duZsTtn, n " ,tuU ' m Pecsonarum impugnanti ac cursus ex [473] rìnZn , Pf ‘ rSO " an,m ldentlt !' u ‘ m essentiae oppugnare laborant. rPL T?8 A C, TH Z'T"r P onamus ' r>°'« a dissolvamus di A . r '° A, "dfd fa ora seguire una enumerazione , ' f P t nl, . tre *«■, ‘•«""•o 'a Trinità, ricavate dalla logica, per confutarle poi teologicamente. 1  è facile (lifatti metter d’accordo il concetto aristotelico della sostanza individuale con il domina della Trinità, sicché a rigore tutt’i cultori della logica, che seguivano Aristotele, si trovavano inevitabilmente esposti alla tac¬ cia di eresia. [ § io. — Pietro Lombardo. Bernardo da Ciiiara- valle]. — Così si riesce a spiegare come Pietro Lombardo (morto nel 1164 [1160.'']), mentre sta ad attestare la connessione tra la controversia intorno alla Trinità, e la scissione delle tendenze sul terreno della logica, respinga nello stesso tempo qualsiasi applica¬ zione della logica a quella fondamentale questione della teologia 41 ). Anzi egli stesso è esclusivamente puro teo¬ logo in così alto grado, che per lui la questione degli universali in generale non è neanche oggetto di con¬ tesa; e mentre più tardi (particolarmente nella Sez. XIX) avremo a sazietà occasione di ravvisare nei nume¬ rosi commenti ai « Sententiarum libri quatuor » del Lom¬ bardo (ch’eran divenuti, com’è noto, il fondamento di tutta quanta la letteratura teologica) un principale tea¬ tro della guerra intorno agli universali, il Lombardo “) Petri Lomhardi Sententiarum 1, 19, 9 (/. 27, ed. dl Ira, 1516 fdi Quaracclii: S. Bonaventurae Opera omnia l,p. ifUj): Videlur tamen mihi ita posse accipi. Cum alt (se- AugustinusJ « substantia est commune, et hypostasis est particulare » ; non ita haec accepit, cum de Pro dicantur, ut aecipiuntur m phtlosophtca disciplina, sed per similitudinem eorum quae a philosophis dicun- tur. locutus est; ut sicu/ ibi commune vel universale dicitur quod praedicatur de pluribus. particulare vero vel individuimi quod d uno solo; ita hic essentia divina dieta est universale, quia de omni¬ bus personis simili et de singulis separutim dicitur, particulare vero singula quaelibet personarum, quia nec de alus hoc de aliqua aliarum singulariler praedicatur. I ropter similitudinem ergo pruedicalionis substantiam Pei dixit universale, et P^ s °nas particularia vel individua.... (e. 101 Dicuntur enim ^ d^erre numero, quando ita difjerunt. ut hoc non sit tUud.... dl b ferunt Socrates et Pialo et huiusmodi, quae apud philosophos di- cuntur individua vel particularia; iuxta quemi modum non possunt dici tres personae differre numero. Etc. [PI-, 192, 57 1 (I, 1, 14 e 1 )]. non si è in alcun luogo immischiato egli medesimo in questa controversia, bensì solamente, con l’uso di de¬ terminate innocenti parole, ha offerto a’ suoi conunen- tatori motivo occasionale di dare, nella lotta già divani- pata, libero corso al loro infiammato zelo. E come ciò si è verificato nella più larga misura per le parole testé mentovate del Lombardo, così il lettore delle « Sente*- tiae » non può, a proposito di moltissimi luoghi, avere neanche il piu lontano sentore della caterva di discus- «oni, attinenti a, problemi logici, che vi si sarebbe più tardi riattaccata la). De] resto ^ p.^ riproducono anche le sofistiche quistioni, più sopra (Sez. precedente, nota 303) citate, dibattute dalla teolo¬ gia medievale « ■»). Nello stesso senso può ricordarsi che anche un altro celebre contemporaneo, cioè Bernardo da Chi ara valle (nato nel 1091, morto nel 53) apertamente si professa nemico della dialettica «). simplex, i. e.'indivisibìlh et inmateliaÙs^pluna’ Es " cn, j a restie! f r ia ’ te r de •h 1-2)1. O similmente L^L^ T-'T^ Qua «u,r'rÌ’ V 49 ’ r 61 ‘ 5 f?) ’ n, 17, i m ; ’ 19 ’ 1 fed ' logia trovò e aÌche°i dd in — -Ha teo- tenga esclusivamente alla letteratura tcXrir° 0013 478) ’ appar " libro di Fr. Protois Pierri* tomi ì ■ .° 0f!ter m veniendam neces- cst logica causa elLuenZZ N P™ Slma «»'*•» omnium inventa disciplinas investigarmi et ’unireM Tert'’ ^ prn ! !tl ' ct , as Principales tractare, et disserro de UlZc Zà veracl ™’ honestius dlas cius per dialecticum, honestius ner rhoZ ** ^ (,mmati c«m, vera- cundiae rectitudinem veritatem heU, rtcam. Logica namque fa- ^asi testualmente nel mZZ’X"‘TZ ad ^ nitt ^ U s,esso - 809]); cfr. ibid.. I r „ ) ì 2 Vn 7 m’ TI ; P - 39 fPL > 17 6, 745, 752, 765], P ' ’ 2 (l >- 7); III, 1 (p . i 5) tPL> 176 . 1 Lhdasc., I, 12 (Opp., HI, p . fj) mj j 7fi 7 . q| . repertae fuerant; sed necesse luitloZ ’ * . ' • Ceterae pnus nemo de rebus con veniente J PljZ quoque invemn ; quoniam quandi rationem agnoverii. — / 6 ,u"vi TmÓ' iqf IpZZZm ^ Istae tres usu prirnae lucrimi to/ i * * 176, 8091: venta est logica Ouae cum dt i p ? stca P r °Pter eloquentiam in- debet in doctrina - Fr, J ‘, -''"'T' Ul " ma ' prima tamen Excerpt. pnor., loc. ciL, c. 23: In designa la logica come « sermocionalis », perché tratta « de vocibus » 47 ), e la divide ora in una maniera che ci ricorda molto da vicino lo Scoto Eriugena (Sez. prece¬ dente, nota 105), dimodoché, appartenendo alla logica, secondo la più vasta accezione della parola Àóyoc, ogni manifestazione della facoltà di parlare, la logica stessa si divide così in grammatica e logica rarìonalis: que- st’ultima, corrispondente all’accezione più ristretta della parola Àóyo;, viene poi ulteriormente suddivisa nella maniera ordinaria, tenuti presenti i passi ovunque divulgati di BOEZIO. Movimento più intenso: grande estensio¬ ne, E IN PARI TEMPO CARATTERE UNILATERALE, DELLA LETTERATURA ATTINENTE ALLA LOGICA]. — Ben è vero che sa¬ rebbe stato certo più comodo lasciare sin da principio legendis urtibus talis est orda servandus. Prima omnium compa¬ rando est eloquentia, et ideo expetenda logica, deinde etc. [PL, 177, 202], ■") Didasc., II, 2 (p. 7) [PL Philosophia dividitur in theoricam, practicam, mechanicam, et logicum. Hae quatuor omnem continenl scientiam.... Logica sennotionalis, quia de vocibus tractat.... Hanc divisionem Boetius fucit uliis verbis.... (segue il passo citato più sopra, Sez. XII, nota 76). *) Ibid., I, 12 (p. 6): Logica dicitur a Graeco vocabulo Àóyog, quod nomen geminam habet interpretationem. Dicitur enim Xiyog sermo sive ratio (v. Isidoro, Sez. precedente, nota 27): et inde logica sermotionalis sive rationalis scientia dici polesl. Logica ralionalis, quae discretiva dicitur, continet dialecticam et rhetoricam. Logica sermotionulis genus est ad grammaticum, dialecticam atque rheto¬ ricam: et continet sub se disertivam. Et haec est logica sermotionalis, quam quartam post theoricam, practicam et mechanicam annume¬ rami^ [PL, 176, 749-501. — Excerpt. prior. TI1, c. 22 (p. 339): Logica dividitur in grammaticum, et rationem disserendi. Ratio disserendi dividitur in probabilem, necessariam. et sophisticam. Pro- babilis dividitur in dialecticam et rhetoricam. Necessaria pertinet ad philosophos, sophistica ad sophistas (v. BOEZIO). Grammatica filosofica est scientia RECTO loquendi. Dialeclica dispulalio acuta, verum a falso distinguens. Rhelorica est disciplina ad persuudendum quaeque idonea [PL, 177, 201-21. — Didasc., Il, 29 (p. 14): Logica dividitur in grammaticam. et in rationem disserendi. Grammatica razionale,... est litteralis scientia.... Ratio disserendi agii de vocibus secundum intellectus fPL, 176, 7631. — Ibid-, 31 (p. 15): Ratio disserendi esaurirsi tutta quauta la logica in un simile cliché tradi¬ zionale, e a questo modo anche le idee platonico-cristiane, del pari che la dommatica teologica, avrebbero po¬ tuto continuare, senz’essere turbate nella loro ingenuità, la innaturale loro alleanza con avanzi di aristotelismo atrofici e contorti. Tuttavia l’intimo impulso ch’è peculiare alla dialettica, era pur anche rimasto vivo, già fino a questo momento, in seno alla stessa ecclesia docens, e poiché ora, come s’è visto, da due lati si faceva strada una più energica spinta (da due lati: vale a dire, da un lato, proprio per effetto della controversia dommatica intorno alla Trinità, e dall’altro, per effetto della cono¬ scenza sporadica, la quale gradualmente veniva com¬ piendosi, dei libri aristotelici fin allora ignoti), si levò ora, nel tempo stesso, sul terreno della logica, accanto alla scuola di S. Vittore, con tutto il suo misticismo, un ricco movimento, diviso in molteplici diramazioni : e qui la stona della logica, dovendosi stare alle fonti esistenti, entra in un periodo di difficoltà estrema. La difficoltà consiste cioè per prima cosa in questa circostanza, che le informazioni a noi accessibili discendono bensì con abbondanza di notizie sino al minuto particolare, ma in¬ tanto, con la loro forma semplicemente frammentaria, ci lasciano all’oscuro, riguardo a tutt’i fili di collegamento: a ciò si aggiunge ancora il carattere indeterminato della usuale espressione « quidam » ch’era in uso [per designare i rappresentanti di una data tendenza], o della integrale* * partes habet, inventionem et judicium (v. più sopra Boe- [XII, nota 76): divisivas vero demonstrationem, probabilem, sopluslicam■ Demonstratio est in necessariis argnmentis, et pertinet ail philosophos. Probubilis pertinet ad dialecticos et ad rhetores. Sophistica ad sopliistas et caviliutores. Probubilis dividitur in dia- lecticam et rhetoricam, quorum utraque integrales partes habet in- venhonem et judicium [PL, 176, 764], Parimente ibid.. Ili, 1 • i i * k’ 176, 765], Le stesse notizie ritornano in una € Epitome iti philosophiam » «li Ugo, edita dall’ Hauréau (Hugues de Saint-Vi- ctor: nouvel examen de l’èdition de ses oeuvres, Parigi indicazione del nome di im cultore della logica, con la semplice lettera iniziale; e così in generale (particolar¬ mente p. es. riguardo a quel frammento, al quale il Cousin diede il titolo « De generibus et speciebus ») 4 "), la ricerca, che comunque sarebbe di già malagevole, viene attraversata inoltre da molteplici difficoltà lette¬ rarie; per di più fra i relatori ce n’è parecchi che in se medesimi son poco degni di fede, e c’imbattiamo in contraddizioni, che non possiamo, per mancanza di al¬ tre fonti, risolvere in maniera adeguata. Ma se poi si domanda ancora come questo materiale slegato e lacunoso debba venir elaborato per la pre¬ sente esposizione, ecco quel che debbo limitarmi a ri¬ spondere: data la impossibilità di svolgere il pensiero dei singoli autori (per la maggior parte non meglio conosciuti) secondo Cordine della successione storica, io sono riuscito a trovare, dopo molta riflessione, soltanto l’espediente di presentare l’epoca di Abelardo in blocco, e precisamente in tal modo che, analogamente a quel che ho fatto nella Sezione XI, vengano messe sott’oc- cbio le numerose controversie, secondo l’ordine di suc¬ cessione di quei gruppi che, negli studi di logica di quel¬ l’epoca, prevalgono per importanza, quanto al conte¬ nuto; a tal riguardo è da notare che le varie opinioni intorno alla Isagoge, cioè la disputa intorno agli Uni- «) Non poteva non esser «ausa di grave confusione, l’errore degli eruditi francesi, i quali con il Cousin hanno ritenuto che questo frammento sia opera di Abelardo; sopra tale punto ha più rettamente giudicato H. Ritter (sebbene non sia per noi accetta» bile la sua congettura, riguardo l’autore di quello scritto: v. ap¬ presso la nota 146); invece — a prescindere dal Rousselot, che non poteva ancora avere sott* occhio, quando compose la sua opera [Études sur la philosophie dans le Moyen a Parigi, 1840-21, il VII 0 volume del Ritter — anche il RÉMUSAT e persino I’Haureau han fatto le. viste di non conoscer affatto la opinione del Ritter,. e, aderendo al Cousin, si sono fondati sopra quello scritto per costruire argomentazioni, che dovevano nuocere alla esatta esposizione della controversia intorno agli universali. CABLO PRANTL versali, offrono un materiale più vasto che non i dibat¬ titi sopra le rimanenti parti della logica. Ma mentre degli autori più eminenti e meglio conosciuti si viene così a parlare, in connessione con questi motivi atti¬ nenti al contenuto, bisognava senza dubbio che io facessi una eccezione, proprio per Abelardo: le vedute di lui intorno agli universali potranno pine a loro volta esser fatte oggetto di sufficiente disamina solamente più tardi, quando si tratterà di esporre la caratteristica di tutta quanta la sua Dialettica, poiché egli è invero il solo, del quale possediamo uno scritto, che abbracci quasi in¬ tiera la sfera della logica. Tuttavia mi è sembrato che un tale smembramento della esposizione delle contro¬ versie, per quanto si riferiscono agli universali, fosse qui proprio il minore degl’inevitabili inconvenienti. Ad Abelardo potremo poi far seguire, allo stesso modo, principalmente Gilbert de la Porrée e Giovanni da Sa- lisbury. Per effetto delle ragioni suindicate, lo studio della logica, a prescinder dalla sua universale diffusione in tutt’i paesi, decisamente progredì, quanto alla inten¬ sità, in rigore e precisione, e per quanta era la esten¬ sione del materiale allora accessibile ai cultori della logica, ci si abituò, con la maggior esattezza possibile, a ponderar e lumeggiare da vari lati tutte le particolari tesi o controversie: certo con questo lavoro, mancando in modo assoluto una base propriamente filosofica, po¬ teva venir fuori soltanto una sottigliezza contraddistinta da unilaterale formalismo, e die per un verso doveva condurre al massimo sminuzzamento nella formazione di contrastanti indirizzi, mentre per l’altro verso fu, a sua volta, parimente alimentata e rafforzata da quello: e il numero dei magiatri, che in tal maniera, per lo più risolvendo polemicamente i contrasti di opinioni, esplo¬ rarono con cura tutto il campo della logica, non può forse, nella sola Francia, essere rimasto molto al di sotto del centinaio. Non farà meraviglia che in un tale movi¬ mento quelli che non avevano a priori, per ragioni teo¬ logiche, un sacro orrore della logica, si trovassero spesso imbrogliati, al primo momento che ne intraprendevano lo studio 50 ) ; anche a noi vengon pure quasi le verti¬ gini, quando dai particolari frammentari risaliamo a una conchiusione concernente quella totalità, alla quale essi avevano appartenuto. È una grande illusione, a pro¬ posito del movimento di quell’epoca nel campo della logica, creder di potersela cavare con i due termini di « nominalismo » e « realismo », tutt’al più aggiungen¬ done ancora un terzo, cioè « concettualismo », poiché in primo luogo, come apparirà manifesto, la divisione in tendenze contrastanti è ben più molteplice, e questa, in secondo luogo, costituisce soltanto una parte dell’at¬ tività complessiva spiegata nello studio della logica.  Le vicende dello studio della logica, NEL RACCONTO CIIE NE FA GIOVANNI DA SALISBURY. Se ci possiamo interamente fidare di Giovanni da Sali-sbury, il quale spesso in verità si è limitato a metter giù impressioni generiche, e in buona parte puramente a memoria (v. appresso la nota 536), in quei decenni il corso seguito dalla logica nel suo svolgimento, in quanto essa fu rielaborata in compendi (artes) o in com¬ menti o semplicemente in glosse 51 ), sarebbe 6tato in complesso il seguente. Giovanni parla cioè di un awer- M ) Abael. Dialect., ediz. Cousin, p. 436: Sed quia labor hujus doclrinae diuturna*.... jatigat Icctores, et multorum studia et aelates sublilitas nimia inaniter consumit, multi.... de ea diffidentes, ad ejus angustissimas fores non audenl accedere; plurimi vero ejus subtili- tate confusi, ab ipso aditu pedem referunt. 51 ) Joh. Sakesb. Metal., ITI, Prol., p. 113 (ed. Giles, voi. V [ed. Wclib, p. 117; PL): Nec in transitu vel semel dialecti- corum attigi scripta, quae vel in arlibus vel in commentariis aul glosematibus scienliam pariunt aut retinent aut reformanl. 14. — C. Pbantl, Storia delta logica in Occidente. II sario della sua concezione della logica, da lui simboli¬ camente denominato Cornificio (v. appresso le note 528 se.), e in tale occasione dice 52 ) che quel modo di fare, venuto in voga, di chi, senza uno studio metodico e faticoso, vuol diventare filosofo, ma riesce in realtà a diventare solamente un sofista e a addestrare gli altri nella pura sofistica, proviene da quella scuola, nella quale ) Ibid., I, 1, p. 13 [ed. Webb, p. 8]: Cornificius non ter, stu- diorum eloquenliae imperilus et improbus impugnatoti. (2, p. 14 [ed. Webb, p. 9]): populum qui sibi credat habet; et.... ei.... turba insipientiurn adquiescit. lllorum tnmen maxime, qui.... videri quam esse appelunt sapientes.... 3, p. 15 ss. 110J: sine arlis beneficio.... faciet eloquentes et tramite compendioso sine labore philosophos.... Eo autem tempore ista Cornificius didicit quae nunc docenda re- servut,... quando in liberalibus disciplinis Intera nichil erat et ubique spiritus quuerebutur, qui (ut aiunt) latet in littera. Ylum esse ab Hercule, validum scilicel argurncnlum a forti et robusto argumen- tutore..., et in hunc modum docere omnia, sludium illius aetatis erat. Insolubilis in illa philosophantiurn scola lune temporis quae¬ stio habebatur, an porcus, qui ad renalicium agilur, ab homine an a funiculo teneatur. Item, an capucium emerit qui cuppam integram comparava. Inconveniens prorsus erat oratio, in qua haec verbo, «conveniens » et « inconveniens », « argumentum » et « ratio» non perslrepebant, multiplicatis particulis negativis, et traiectis per « esse » et « non esse », ita ut calculo opus esset, quotiens fuerat di- sputandum.... [11] Sufficiebat ad victorium verbosus clamor; et qui undecumque aliquid inferebat, ad propositi perveniebat metam. Eoe- tae, liisloriographi habebanliir infames, et si quis incumbebat labo¬ ri bus anliquorum (cioè degli autori dell’antichità, Porfirio, Boezio), .... omnibus erat in risum. Suis enirn atit magistri sui quisque incum- bebat inventis. l\ec hoc tamen diu licitum, curn ipsi auditores.... urgerentur , ut et ipsi, spretis bis quae a doctoribus suis audierant, cuderent et conderent novas scctas. Fiebant ergo summi repente phi- losophi; nani qui illiteratus accesserat, fere non morabatur in scolis ulterius quam eo curriculo temporis, quo avium pulii plumescunl. Jtaque recentes magistri e scholis ... pari tempore.... avolabanl.... [12] Bcce nova fiebant omnia; innovabatur gramalica, immutabatur dialectica, contemnebatur rethorica; et novas totius quadruvii vias, evacuatis priorum regulis, de ipsis philosophiae aditis proferebant. Solam « convenientiam » sive « rationem » loquebantur, « argumen¬ tum » sonabat in ore omnium, et.... nominare.... aliquid opertim naturar instar criminis erat aut ineptum nimis aut rude et a phi- losopho alienum. Impossibile credebatur « convenienter » et ad rationis » normam dicere quicquam, aut facere, nisi « convenien- tis» et « rationist mentio cxpressim esset inserta. Sed nec argu¬ mentum fieri licitum, nisi praemisso nomine argumenti [PL ci si voleva mostrar geniali di suo, con l’occuparsi, sen¬ z’altro fondamento che l’attitudine logica innata, di con¬ troversie del genere più balordo (p. es., se un maiale, portato al mercato, è tenuto dalla fune o dall’uomo, e simili), sempre tuttavia sputando con arrogante alba¬ gìa alquanti termini tecnici della logica, — un indirizzo, questo, tanto intollerante nei riguardi di qualsiasi altra scienza e studio, quanto destinato, con la sua mania del nuovo e il rapido trapasso dall’apprendere all’insegnare, a frantumarsi subito nella più confusa varietà di vedute individuali. Questo anfanare senza ima direzione, ha avuto ora per conseguenza 53 ), che ialini, persuasi della vanità di siffatte cose, in preda a un pessimismo uni¬ versale, si son rifugiati nei monasteri, altri han posto mano, a Salerno e a Montpellier, allo studio della me¬ dicina, per coltivare ora questa scienza con lo stesso spirito cavilloso che prima mettevano nello studio della logica : ma altri a lor volta cercavano di campare alle corti dei ricchi e dei potenti, e altri infine, a nulla pensando fuorché a guadagnare quattrini, si son dedi¬ cati alle sfere più basse di attività (v. appresso la nota 530): insomma, con tutta questa genia, la logica e la scienza in generale son cadute nel massimo dispregio. In seguito tuttavia — continua Giovanni ) — per opera ") Ibid., c. 4, p. 18 ss. [ini. Webb, p. 12; PL,  Alii namque monuchorum aul clericorum claustrum ingressi sunt.... de- prehendentes in se et aliis praedicantes quia quicquid didicerant vanitus vanitatum est.... [13] Alii autem.... Salernum vel ad Montem Pessulanum projecli, facti sunt clientuli medicorum, et repente, quales fuerant pliilosophi, tales in momento medici eruperunt...Alii.... se nugis curiulibus mancipaverunt ut, magnorum virorum patrocinio jreli, possent ad divitias aspirare.... Alii autem.... ad vulgi profession.es easque profanas relapsi sunt; parum curante* quid philosophia doceat.... dummodo rem faciant  f 11 » 6 > P- 138 [ed. Webb, p. 143; PL, 199, 904]: Non... inanem reputem operam modernorum, qui equidem nascentes et convalescentes ab Aristotile, inventis eius nudlas adiciunt rationes et regalas prioribus aeque firmas..Habemus graliam.... Peri¬ patetico Palatino, et alus praeceptoribus nostris, qui nobis proficere studuerunt vel in explanatìone veterum vel in inventione novorum. ) Epist. 181 (voi. I, p. 298, ed. Giles) [PL, 199, 179]: Sludiis tuis cangratulor, quem agnosco ex signis perspicuis in urbe garrula et ventosa, ut pace scholarium dictum sit, non tam inutilium argu- mentationum locos inquirere, quam virlutum. Tuttavia è anche pos¬ sibile, poiché non sappiamo nient’allro sul conto del Maestro Ra- «E*» N,CER ' destinatario dt questa lettera, che per urbs ventosa debba intendersi Avignone, essendo passato in proverbio: « Avenio ventosa, stne vento venenosa, cum vento fastidiosa » fluiva col non sapere nemmeno più quale fosse la opi¬ nione sua propria S8 ) : e intanto poi, per amor di gloria personale, si disprezzavano anche gli autori antichi, e si metteva da parte quell’ordine, al quale la logica sco¬ lastica si soleva attenere 5B ). E infine vien fatta ora inol¬ tre espressamente la osservazione, che questo enorme e stupido dispendio di tempo e di energie aveva per suo principale obbietto la Isagoge, e che questa veniva com¬ mentata, assumendosi a compito esclusivo e supremo la contesa intorno agli universali 60 ), sicché da ultimo nella *') Melai., II, 6, p. 72 [od. Webb, p. 71]: Indignantur.... puri philosophi et qui omnia praeter logicam dedignantur, aeque gram- maticae ut phisicae experles et ethicae.... c. 7, p. 73 [72] : qui da- mant in compilis et in triviis docent, et in ea, quam solam profi- tentUT, non decennium aut vicennium, sed lolam consumpserunt aelatem.... Fiunt itaque in pile rili bus Achadcmici senes, omnem dictorum aut scriplorum excutiunt sillabam, immo et litleram; dubi- lanles ad omnia, quaerentes semper, sed numquam ad scientiam pervenientes; et tandem convertuntur ad [73] vaniloquium, nescien¬ te* quid loquantur aut de quibus asserant, errores condunt novos, et antiquorum (cioè degli autori dell’antichità, come più sopra, nota 52) aut nesciunt aut dedignantur sententias imitari. Compilant omnium opiniones, et ea quae eliam a vilissimis dieta vel scripta sunt, ab inopia iudicii scribunt et referunl.... Tanta est opinionum oppositionumque congeries, ut vix suo nota esse possit auctori [PL], — lbid-, c. 18, p. 93 [96; PL] : De magistris ani nullus aut rarus est qui doctoris sui velit inhaerere vesligiis. Ut sibi faeiat nomea, quisque proprium cudit errorem. — Polycr., VII, 12, p. 126 [cd. Webb, li, p. 141] : Veterem.... quaestionem in qua lobo- rans mundus iam senuit, in qua plus temporis consumptum est quam in adquirendo et regendo orbis imperio consumpserit Coesa- rea domus.... Haec enim tam diu multos tenuit ut, cum hoc unum in tota vita quaererent, tandem nec istud nec aliud invenirent [PL, 199, 664]. V. inoltre appresso, nota 540. “1 Enthetìcus, v. 41 ss.: Si sapis auctores, veterum si scripta recenses , Ut staluas, si quid forte probare velis, Undique clamabunt « i ctus hic quo tendit asellus? Cur veterum nobis dieta vel acta refert? A nobis sapimus, docuit se nostra juventus, Non recipit ve¬ terum dogmata nostra cohors. Non onus accipimus, ut eorum verbo sequamur, Quos habet auctores Graecia, ROMA colit.... » (v. 59) « Temporibus pioniere suis veterum bene dieta. Temporibus nostris jam nova sola placent ».... Haec schola non curat, quid sit modus, ordove quid sit, Quam teneanl doctor discipulusque viam [PL Metal., II, 16, p. 89 [ed Webb, p. 901: Sed quia ad hunc elementarem librum (cioè le Categorie) magis elementarem quodam- STORIA DELLA LOGICA IN OCCIDENTE disamina dello scritto di Porfirio si finiva con il cac¬ ciar dentro tutta la filosofia, offrendosi in tal modo un campo alla sodisfazione della vanità personale, e ugual¬ mente recandosi danno all’insegnamento La polemica intorno agli universali: si PUÒ DIMOSTRARE CHE ALMENO TREDICI ERANO LE CORRENTI, NELLE QUALI SI DIVIDEVANO LE OPINIONI SU QUESTO PROBLEMA. Così le notizie, di carattere più generale, trasmesseci da Giovanni da Salisbury, ci portano natu¬ ralmente a prender in esame le controversie intorno agli universali, e da quel che abbiamo veduto sinora, ci è lecito concliiudere legittimamente, che la contesa di¬ vampò, in quella maniera unilaterale e sofistica, nei primi decenni del secolo XII, sicché qui si presenta ma¬ nifesta la connessione storica con la comparsa di Ro- scelino e con le lotte insorgenti in quell’epoca (v. la Sez. precedente, note 312 ss., e particolarmente 326). Ci sono anzi ragioni interne, militanti a favore della opi- modo scripsit Porphirius, eum ante Aristotilem esse credidit anti- quilas praelegendum. Recte quidem, si recte doceatur; id est ut tenebras non inducat [91] erudiendis nec consumat aetatem.... c. 17, p. 90: Naturam tamen universtdium hic omnes expediunt, et altissi- munì negotium et maioris ìnquisitionis contro menlem auctoris expli- care [92] nituntur. — Ibid., Ili, 5, p. 136 [141]: qui in Porphirio aut Categoria explanandis singuli volumina multa et magna con- scribunt [PL, 199: 873-4, 903]. Ciò trova conferma in una espres¬ sione di Abelardo: v. appresso la nota 104. I Ibid., I], 20, p. 113 [ed. Webb] : Nec fideliter cum / or ph trio nec utiliter cum introducendis versantur qui omnium de generibus et speciebus recensent opiniones, omnibus obviant, ut tan¬ dem suae inientionis erigant titulum. — Ibid., Ili, 1, p. 117 [ c d. Webb, p. 121]: Austerus nimis et durus magister cst'lollens quod positura non est et metens quod non est seminatum, qui Porphirium cogit solvere quod omnes pbilosophi acceperunt; cui salisjactum non est, nisi libellus [122] doceat quicquid alicubi scriptum inve- nitur. — Polycr., VII, 12, p. 129 [ed. Webb, II, p. 144]: Qui ergo Porpniriolum omnibus philosophiae partibus replent, introducendo- rum obtundunt ingenia, memoriam lurbant | PL, 199: 888, 891, 666], Vedi inoltre il passo di Guglielmo da Conches, che si tro¬ verà citato appresso, ne, secondo la quale, a partir da quel momento, nelle controversie concernenti gli universali, sarebbe stata piuttosto prevalente, in un primo tempo, la concezione nominalistica : non soltanto infatti è indizio di una tale prevalenza la circostanza, che quei cultori della logica, a quanto riferisce Giovanni, assumevano un contegno esclusivistico e intollerante contro qualsiasi scienza reale (note 52 e 58), ma riesce anche facile argomen¬ tare che gli scrittori citati da Giovanni, come beneme¬ riti del risveglio degli studi di logica, tutti quanti alieni da un nominalismo estremo, o anche in parte avanzati sino ai limiti estremi del realismo, hanno provocato o promosso in ogni caso una rivoluzione, la quale deter¬ minò il passaggio dai principii nominalistici verso dif¬ ferenti cammini. Ma da una più esatta e approfondita ispezione delle fonti a noi accessibili, risulta chiaro che, per tale ri¬ guardo, come abbiamo già detto, il dissidio delle opi¬ nioni non si aggirava soltanto entro i limiti di un con¬ trasto dicotomico o tricotomico, bensì si manifestava di¬ stinto in una serie di graduazioni più numerose. La più precisa notizia ce la dà ancor una volta Giovanni da Salisbury, e, stando a quella, la diversità di opinioni relativamente agli universali, ha preso la forma seguente: 1) la opinione di Roscelino, che gli universali sieno voces 6J ) : — v. le note 76 ss. di questa Sezione; 2) quella di Abelardo e de’ suoi seguaci, che cioè gli universali vadano ridotti a sermones, non potendo K ) Metal., Il, 17, p. 90 [ed. Webb, p. 92; PL, 199, 874], dove alle parole testé citate (nota 60) fa seguito immediatamente quel passo intorno a Roscelino, che abbiamo veduto alla nota 318 della Sezione precedente. mai il predicato di una cosa esser esso stesso una cosa 03 ): — v. appresso le note 283 ss.; 3) la tesi, che intellectus o nono, nel senso attri¬ buito a questi termini da Cicerone (cioè dagli Stoici), sia ciò che si chiama « universale » M ) : — v. appresso le note 581 se. Da costoro Giovanni distingue poi quelli che si ten¬ gono attaccati alle cose ( « rebus inhaerent »), ma a lor volta si scindono in varie tendenze, e dunque: 4) la opinione che fu poi subito ancora abbando¬ nata, di Gualtiero da Mortagne, secondo la quale gli uni- e! ) lbid.: Alius sermones intuetur et ad illos detorquel quicquid alicubi de universalibus meminil scriptum ; in hoc attieni opinione deprehensus est Peripateticus Palatinus Abaelardus nosler, qui mul- tos reliquit et adhuc quidem aliquos habet professionis huius seda- tores et testes. Amici mei sunt ; licet ita plerumque captivatam de- torqueant litleram ut vel durior animus miseratione illius movetur. Rem de re praedicari monslrum dicunt; licet Aristotiles monstruo- sitatis huius auctor sit, et rem de re saepissime asseral praedicari; quod palam est, nisi dissimulent, familiaribus eius. **) lbid. (in continuazione): Alius versatur in intellectibus, et eos dumtaxat genera dicit esse et species. Sumunt enim occasionem a Cicerone et Boetio, qui Aristotilem laudani auclorem, quod haec credi et dici dcbeant noliones. « Est autem », ut aiunt, « notio ex ante perceplu forma cuiusque rei cognitio enodatione indigens » (cosi effettivamente Cicerone, nel passo citato alla nota 37 della Sez. Vili, passo che mostra tuttavia nello stesso tempo com’egli si riferisse non già ad Aristotele, bensì a « Graeci », cioè agli Stoici). Et alibi; « Nodo est quidam intellectus et simplex animi concepito » (così Boezio, ad Cic. top. [Ili], p. 805 [PL, 64, 1106], dove si com¬ menta quel passo di Cicerone: solo [che in Boezio si legge r, " ltUr - ea in Versoi r "“°" e singularibus specialissima gene- lerce 1 aque ™nstuml. Sunt qui more mathematicorum « fornuis » 142] rifinì AW'/ 1  lddquid de univLalibus lert.l.,,1 referunl. Alu discutiunt « tntellectus » (3) et eos uni- iZ “ U uomimbus censeri confirmanl. Fuerunt et qui «voces» (lt ìm*h. UùJZ U L S "'“ *•-»» «M,,c qui r l JVella ediz. Cousin degli Outr. inéd. d’Abélard p 513- n P genertbus et speciebus diversi diversa sentiunt. Alii namqul voces rebus Zo a n?hil P ho PS «dngularcs esse affirmant, in rebus vero mìni horum assignant. Alti vero res generales et spe- ciales universales et singulares esse dicunt; sed et ipsi interne cieTe» 0 * , ' ntlUnt P'"d« m enim dicunt singularia individua esse spe- cies et genera subalterna et generalissima, alio et alio modo alterna mento la distinzione tra coloro che qualificano gli uni¬ versali come vox [voces], e quelli che li considerano come res, ma della posizione di questi ultimi vengono nominate soltanto due sottospecie, cioè 10) la così detta ratio indifferentiae (v. appresso le note 132 ss.) e 11) il punto di vista di Guglielmo da Champeaux, — v. le note 102 ss. Di queste varietà di opinioni parla inoltre una volta anche Abelardo 7S ), ricordando, in seno al realismo, pri- (lo stesso autore indica questa opinione come « sentendo de indif- ferendo »: v. appresso la nota 133). Atti vero quasdam essendas universales fingimi, quas in singulis individuis totas essentialiter esse credunt (che qucst'ultima sia la opinione di Guglielmo, risulterà chiaramente appresso). ™) iE cioè nelle Glossulae super Porphyrium, già più sopra (nota 13) ricordate, e riferite dal Rémusat, op. cit., p. 96 (neanche qui purtroppo ci vicn fatto conoscere il testo originale): La grande queslion que PorphyTe indique en débutant.... arrète Abélard, et il est presque obligé de la traiter seulement pour la poser. Toules les opinions sur les universaux se prévalent, diuil, de grundes auto- rités [testo originale, ed. Geyer: «De generibus et s pe¬ ci eh us quaestiones enodarc compeUiinur, quas (nec ipse Por- pkyrius ausus est solvere, cum cas tamen tangendo ad earum inquisitionem accenda! lectorem ». E, dopo aver accennato alla va¬ rietà delle soluzioni proposte : «tamen unusquisque lue- tur se aurtorilate i u d i c e » (p. 512)] (già qui la traduzione del Rémusat è sbagliata, poiché nella nota egli riproduce le parole dell'originale, « unus quisque se tuetur auctoritale iudice », e queste voglion dire che ciascuno avvalora la propria opinione con l’auto¬ rità tradizionale, cioè Aristotele).... p. 97 : Le premier syslème est celiti de l’existence des choses universelles. lì est plusieurs manie- res de Vétablir. Suivant l’une eie. [Geyer, p. 515: .... primam (se. sententiam de universalihus) quae de rebus est, primi- tus exequamur. De qua etiam sunt plurcs opiniones, cum alii aliter res universales esse affirmant. Nominili cnim....] (ora viene la opinione di Guglielmo da Champeaux: v. appresso la nota 105)... p. 99: «La seconde manière» ecc. [Geyer,  ma di tutto le due tesi dottrinali anche testé ricordate, ma poi 12) una concezione, secondo la quale la differenza ra genere e individuo risiede soltanto in un modo par- ticolare (propalasi) di esistere, in quanto che 1W versale può presentarsi così in parecchie cose insieme come anche in esseri singoli. Invece nel De intellectibus del Pseudo-Ahelardo (v appresso le note 416 ss.) si trova soltanto espressa, in amerà ^determinata e generica, la distinzione tra rea- sii, nominalisti, e opinione di Abelardo u ). l'ZL'mZp mTtó, appreso pou r soutenir que les universali sonldesdoses VoulZT "T^ la communauté, l’on dii ai,'entri- l„ Voulant expliquer singtdière est une diffide TlrtruTl et l * cho.se a etre universelle, la proprietà ani Inni' " ,> . ropne, ' i ( l ul consiste mal, le corps est nniZZl et Zel " ? ^ • bt ****- L'ani- et quelque corps ; mais dire  un étre qui aliter re, universales esse videninV affi “ " n® r , u m a 1 i i , nitatem assignnntes dicunt rem .,t;„ • ® ,rniare * Hj re bns comrmi- id est alterins proprietatis (il C uru . ver . 6a ^ em > aliam singularem, inéd., p. 522 IDe Zen et s Jc \ « V “ CoVSIN ’ Ou.tr esse ex hoc quod est onivTsai et ^ V ” EAV ’ V, 313) Iaris. Ut animai est universale et mm!!""* h ° C q ” od est sin SB- vel aliquod corpus. Tale est enini ^ ’ j CC t ? men al| quod animai mal esse universale, ne si dieatnr- ni. Undum ,lanc sen tentiam ani- animal est, et tale est hoc animai " a s “ nl quorum unumquodque dieatnr: una sola rea«J°hoc d T , 8ol °» ac - espressa in forma indeterminata la r „ n l . na]ment ^ (P- 106) segue, voces [cfr. Geyer, p. 522 - 31 . ’ oncezione degli universali come ^à-VtoZ^ 63 : Philosophie sco - Quidam enim volimi omnZloZ f * diversa -^ntiunt. dam nullas ^ro folti snnt (mane. Il lo,., ”ha "“(til T :zh r p- * T„,-irr rato vel albo Zane cana l VOCabul °' !" ^pus ipsum a colo-altri invece, e certamente i più sconsiderati e più radi¬ cali, come p. es. un tal magister « \ . si appigliavano unicamente al « significare », sì che per e6si in ciascuno dei predicati assegnati a una cosa qualunque, si trova insieme già significata la cosa stessa: e degno di nota è che costoro si appoggino per tal riguardo alla gram¬ matica, secondo la quale ogni nome significa così una sostanza, come anche, al tempo stesso, una qualità 83 ). Dovevan essere nominalisti di quest’ultima specie anche coloro che, forse seguendo in maniera unilaterale le vedute di Rosceliuo (Sez. precedente, nota 321), si spin¬ sero sino ad affermare che la semplice dictio (vale a dire la parola singola, in opposizione con il giudizio) non porta in generale affatto in sè parti dell’atto intel¬ lettivo, vale a dire neanche parti simultanee, bensì come un punto, comprende in uniLà indifferenziata tutto quel che cade entro l’accezione della parola 84 ). — Alcune particolari conseguenze del nominalismo, in ordme alla teoria delle categorie, vedile appresso, alle note 196 s. e 199. M J lbid.: ....Hi vero, qui onirtem vocum impositionem in signi- ficutionem deducunt, auctorilatem protendimi, ut eu quoque signi¬ ficati dicant a voce, quibuscumque ipsa est imposila, ut ipsum quo¬ que hominem ab animali, t ei Socratem ab homine, vel subjectum corpus ab albo vel colorato; nec solum ex arte, verum edam ex auctoritate grammalicae id  conantur ostendere. Cum enim tradat grammatica, omne nomen substantium cum qualitate signi¬ ficare, album quoque, quod subjcctam nominat substantium, et qua- litqlem determinai circa eam, utrumque dicitur significare (dunque, secondo il Cousin, questo dovrebb’essere il modo di vedere proprio del realista Guglielmo da Cbampeaux!). M ) Pseudo-Auael. de ititeli-, loc. cit-, p. 472: Sunt iluque intei- lectus conjunctarum ve! divisatimi rerum, dictionum tantum; coti- jungentes vero vel dividentes intellectus, oralionum tantum sunt. liti quippp simplices sunt, isti compositi (Tale la opinione del- 1 Autore). Sunt plerique fortassis (cioè nominalisti), qui intellectus simplices nullas ninnino purtes habere concedant, ncque scilicet per sticcessionem nequc simili (vale a dire parti non-simultanee, o suc¬ cessive, ne ba in generale soltanto il giudizio, ma non mai la parola singola). Qui enim, inquilini, plura simul intelligit, una simplici actione omnia simul attendit [Arali.. Opera, ed. Cousin, La teoria che gli universali sono « ma- neries » : Ucuccione]. — Ma era certo una ramifica- zione del nominalismo la tesi sostenuta relativamente alla « manerics » (v. sopra la nota 69); poiché è vero che Giovanni da Salisbury l’annovera tra le opinioni realistiche; ma, d’altra parte, non soltanto suscita in noi gravi dubbi quel passo di lui, riferito più sopra (nota 70), dov’egli già finisce con il qualificare tutto quanto come realismo, bensì dobbiamo anche tener conto di un’altra fonte d’informazioni: infatti, secondo quel che viene altrove perentoriamente riferito, erano i nominalisti che, a sostegno della loro opinione, se- condo la quale generi e specie sono soltanto le parole, piu universali o più particolari, enunciate nel soggetto o nel predicato, senz’altro denominavano, nei rispettivi passi di Boezio e di Aristotele, la « res » « vox » e il « ge¬ misi « maneries » *>). La parola « maneries » per "se stessa non e, parimente, nè così mostruosa nè così rara, come Giovanni mostra di ritenere nella notizia più sopra’ riferita: non soltanto infatti la s’incontra, con accezione generica, in Bernardo da Cliiaravalle 8S ), ma, addirittura in senso specificamente logico, in un altro au- ) De gen et spec., loc. cit., p. 522: Ntmc illam sementiam quue toces solas genera et species unìversales et partici,lares prae- subjectas asserii et non res, insistamus.... ( p 523 ) Boe- thius, ira commentano super Categorias ([L. I], p . 114 rp[, 64 162n dici « quoniam rerum decem genera sunt prima, necessefuUdSem suhilrH i eSS \ S,m f. llces voces > dune de simplicibus fin Boezio- subtectis J rebus d,perenti,r ». Hi tamen exponunt: « genera id est Z"Z1* S L r : 0 r dam ™ Aerili 1 S f 7 Jm - rme p aS ,raduzi0ne di BOEZIO [Prima Ldino, 1 , 7. ed. Meiser, Pars Pnor, p. 82; PL, 64, 318], p 233)- «rerum alme sani unìversales, aline sunt singulares». Hi tamen rUatibic Lo r onTì; ,d T ■° C " m HU "“ tem tnm «PertM aucto- mentili aut e n‘ l ir"* " ,lentes ’ aut di ™nt «udori,a,es TncTdunt. P labor «utes, quia excoriare nesciunt, pellem . Epi y- 402 S° pera ’ , d - Martène, Venezia, 1765, 1 , p. 156)- m"614] 1 wn ' s pro * ,f!lll ° sU - dilla ad mommi non erat [PL, tore dei primi del Duecento, cioè nel canonista Uguc- cione (morto nel 1212), il quale nel suo scritto lessi¬ cale definisce « species » come « rerum maneries » 87 ). E a quel modo che questa parola (il francese « manière »), se stiamo alla sua precisa etimologia, ci riporla da ul¬ timo al significato di « maneggio » o « modo di trat¬ tare » [« Behandlungsweise » da « Hand », come «ma¬ neries » da « manus »] S8 ), cosi, nel suo uso logico, ha do¬ vuto anzitutto significare il modo d’intendere subbiet- tivo, e pertanto raccostarsi alla concezione nominali¬ stica, o a quel tale « colligere » che abbiamo veduto alla nota 68; invece, soltanto allorché «maneries» dall’ac¬ cezione « maniera, guisa », a poco a poco fu volta a si¬ gnificare una « sorta », fu possibile prenderla, come ter¬ mine della logica, in senso oggettivo, per tal modo che potè entrare in giuoco la questione dello « status » (nota 65), sebbene, anche trattandosi di « sorta », venisse an¬ cor fatto abbastanza facilmente di pensare all’ « assor¬tire » (cioè colligere).  I Platonici: a) Bernardo da Cliartres Gli avversari unilaterali degli unilaterali nominalisti fu¬ rono comunque i veri e propri platonici, tra i quali ci si presenta per primo, come principale rappre¬ sentante, Bernardo da Cbartres, soprannomi- *0 Uguccione, autore di una Stimma Decrelorum e di altri scritti canonistici (sul conto di lui, notizie più precise nel Sarti, de claris- simis Arcbigymnasii tìononiensis projessoribus, I, p. 296 ss., c nella Prefazione del Du Cange al suo Glossario,Ugutionis vocabularium »]), aveva scritto un vocabolario (liber derivationum), ricavato in parte da quello su ricordato (Sez. precedente, note 286 ss.) di Papias, e conservatoci in numerosi manoscritti. Da esso il Du Cange j. v . «Maneries » riferisce le seguenti parole: Species dicitur rerum Maneries, secundum quod dicitur « Herba huius speciei, id est, Maneriei, crescit in borio meo ». “) Vedi Diez, Etymtdogisches Wórlerbuch der romanischen Sprachen, p. 216 [s. v. «Maniero», p. 203 della 5" ediz.j. Parola del tutto diversa è maneria, derivante da maneo e affine a mansio, con il significato di « soggiorno » (v. il Du Cance, s. v. « Maneria »).nato Sìlvester (viveva intorno al 1160). [Oggi dai P,U . 81 r,t, ° '' dell, pera idea platonica, laddove il “tLÀTSH”' fica iniziarsi della mescolanza co „ "*”>■ ■la olitolo l’aggettivo {album) è ritenuto e , •’ m °“ lre contaminazione insanabile della idea coó 1 T"' '* orna Pertanto ci didicUe del".;.7b ‘ “"T sieno state rese ne.» . «eptorare che non ci * —i .™.,r,:;LT H ~ ri ,e nere)], _ PmtaLtt',2ri tu’in  893hVr"“ a o f C 2;;.™* idem 120 [ed i Wcbb ’ “■ 124; PL AÌebai a R et q “ Ìbus dominamtur den °- a ~r, 2 ?»SSS. tn ffi emm il/ud , ‘ x culiàs^ l qùod^vJ r b 1 ui^ l lg > ' ,t ^ nem ,/ >v. nelle Opere del Venerabile Beda (ediz. di Colonia, 1688, li. p. 206 ss. [PL, 90, 1127 ss.]). Ma proprio questa medesima parte della Phi¬ losophia detta minor la si ritrova da capo, non soltanto ristampata nella Maxima Bibliotheca Patrum [di Lione], voi. XX, p. 995 [PL, 172, 40 ss.], dov’è indicato come suo autore Onorio da Autun (Sez. precedente, nota 373) [Honorii Augustodunensis De Philo¬ sophia Mundi 11 IVI. bensì ancora in un libro che sta a sè, con il titolo: Philosophicarum et astronomicarum institutionum Gui- lei mi, Hirsaugiensis olim abbatis , libri tres, Basilea, 1531, in -4°. (Questo abate Guglielmo da Hirschau, nato nel 1026, morì nel 1091: v. Pertz, MGH, VII, p. 281; XII, p. 54 e p. 64 ss.; XIV, p. 209 ss.). Se ora 1’ Hauréau ( Singularilés hist. et litlér., p. 240) a favore dell’attribuzione di quello scritto a Guglielmo da Conches può richiamarsi a un manoscritto di Parigi, e nello stesso tempo allega la testimonianza di Guglielmo da S. Thierry, un avversario contemporanco, io ritengo senza dubbio questi argomenti conte de¬ cisivi, ma è da richiamare in ogni caso l’attenzione sopra il fatto che nella stampa nominata per ultima (fatta astrazione da frequenti piccole modificazioni della espressione letterale) è menzionato in più luoghi per nome l’autore arabo Costantino Cartaginese, e del pari è nominato una volta anche Johannitius, cioè Hunain Ibn Tshàk, mentre nelle altre edizioni a stampa, in luogo di questi nomi figurano soltanto le espressioni indeterminate « philosophus » o « philosophì », sicché questa variante richiede forse ancora una ri¬ cerca più approfondita. Le glosse di Guglielmo da Conche* al De consol. phil. di Boezio ei sono state fatte conoscere da Ch. Jour- DAIN (nelle Notices et Extraìls des manose., voi. XX, p. 21. Ma se, come vuole 1’ Hauréau ( op. ull. cit ., p. 242 s.ì sia da attribuirai al nostro Guglielmo anche il commento al Timeo, che il Cousin (Ouvr. inéd. d’Abél., p. 644 ss. r648-157]) ha pubblicato in estratti, attribuendolo a Onorio da Autun, sarebbe cosa da lasciar in dubbio. Senza contestazione sono invece di Guglielmo quei frammenti [della secunda e tertia philosophia (Antropologia e Cosmologia)], che il Cousin ha pubblicati ibid.. p. 669 ss. r670-7. — 1 ,’Ott AVMNO ha curato la pubblieaz. di Un brano inedito della « Philosophia » di G. di C., Napoli, 1935, illustrando nella Prefazione lo stato attuale delle questioni relative]. glielmo »^) svolge, secondo I ‘ P l8tIca ~ che G u . grafìa, psicologia e fisica 9 ‘ c ). ben sì ^p 21 ™ 16 di co »nio- f, oens! ci limiteremo a quel Bcda, p. 207 r (PL. e 9o" 112820l ■ per mundi ère, ,iohoc foctus est aLmT ** ° ngel,,s “-/"'deus \ f To nnifice ; (irlif( , x mundutn creanti )T°’  r,i ^ v„i. 75 ( 'i873! R ;.1;rs. dc,rArcatlt ' mi; d 'Vie.;:  poco clic c’è ila rammentare, in ordine alle questioni di logica vere e proprie. Guglielmo, che sul terreno della gnoseologia si pone dal punto di vista platonico, di un idealismo che pro¬ cede verso l’alto er ’), e anche espressamente sentenzia che tra i filosofi pagani egli dà la palma a Platone " 6 ), di¬ stingue si una quadruplice maniera di considerare tutte quante le cose, cioè dialettica, sofìstica, retorica, filoso¬ fica 87 ), ma relativamente alle prime due (quanto alle due ultime, è per lui cosa che già s’intende da sè) si schiera risolutamente dalla parte dei realisti, combat¬ tendo coloro che volevano escludere qualsiasi realtà, o infine da ultimo neanche volevano ammettere più i nomi delle cose, bensì, in generale, alquante parole solamente (che sarebbero poi le quinque voces) 9S ). Ma, analoga¬ mente allo Scoto Eriugena, egli almeno riconosce tut¬ tavia, richiamandosi a Boezio, che appartiene allo spi¬ rito umano la funzione d’imporre alle cose che hanno “) V. i frammenti riprodotti dal Cousin, op. cit., c special- mente p. 673 s. M ) Nella edizione già ricordata del Gratarolus, p. 13: Si gen¬ tili* adducenda est opinio, malo Plalonis quam alterius inducalur; plus numque cum nostra fide concordai. ”) Ibid., p. 4: De eodem numque dialectice, sophistice, rhelo- rìce, vel philosophice disserere possumus. Considerare numque de ali quo, an sit singultire un universale, est dialeclicum; probare, ip- sum esse quod non est vel non esse quoti est, sophisticum est: pro¬ bure, ipsum esse dignum proemio vel poena, rhetoricum: sed de natura ipsiusque moribus et officiis disserere, est pbilosophicum. Dialecticus ergo, sophistn, oralor, philosophus, de eudem re diversa considerunles et intendentes disputare possimi. ”) Ibid., p. 5: Quod intelligentes quidam res omnes a dialec- lica et sophisticu di sputulione exter minar erunt , nomina lamen ea- rum receperunt, eaque sola esse universalia vel singulttria prae- dicaverunt; deinde supervenit stultior aetas, quue et res et earum nomina exclusit alque omnium disputationem ad qualuor fere no¬ mina reduxit; ulraqiie tamen seda, quia non erat ex deo, per se defecit. Quei qualuor nomina non posson essere altro elle le quinque voces, escluso forse il proprium : in antitesi ron una siffatta ridu¬ zione di numero, incontreremo in compenso anche sex voces: v. la nota 278. mulo franti. ^r^roi 1 zj ,,on'» - Se Be 'ZlTcZ, “‘“T* O—»»]. 8rao platonico, princiml mamfe8tava J ano reali- lenm affermazioni idealistiche"' 6 . e8prÌBlendo8Ì con so- ficanti, era in ogni caso imn ° 3 am P lificazi om edi- t0ria *”**• d i prender oranti JT ° ^ meri * relazione debba pensarsi che L ,]i “ 8lderare “ quale esistenti, stiano con gl’individuf.- U1 "r erSah> come eose c7° C ° nSÌ8te Ia ^portanza 2*^J, * ten * C h ani P e a ux (morto nel 119 !) ; U ^ llel «o da ! ma lo 8Ìeo, nel realismo di hii n ’ U pnnto * Imea, rispetto al pimto di ’ P “” ancora m seconda varsi tuttavia, fin da principio i ^ De ™ rile- Guglielmo da Champeaux siàm^l "‘T" 0 * Ue idee di C081 minutamente informati , ^ ,lmgi dall’essere 8in ; di ahri,. pe re h è rir; r r^ ioj,e dei c - assolutamente andar oltre il n na non Possiamo notizie, a noi accessibili, che ,mnT° * ^ ghw - ono le a equivoci «»*). “ lascino per nulla adito w ) Ibid., p. 29 - o, • i Hit 12’un°A OCUlÌS muìlT 1 constituto tr :~«4 ^.rr »" stolrfe in prìmam T? “‘T"' sub °P™£ dicati?’s "’ m istn Stendi . aliai,,,,,,} * secun dam dividitur ■ ali,, ‘H*’ un & e "b Ari - \ T ° P° S! "*sio. ’ allf P‘»ndo ... actus b . 199, 8321 ’ SARESB - I, s, p . 2 , S li r . led - ^cbl», p. 16-7; PL Della produzione letteraria di Guglielmo, non ab¬ biamo sotto mano nulla, cbe riguardi oggetti di perti¬ nenza della logica 103 ) : siamo così ridotti a servirci prin¬ cipalmente di una notizia di Abelardo, il quale mena vanto di avere combattuto con felice successo le idee di Guglielmo intorno agli universali, di guisa che quest’ul¬ timo le modificò in misura notevole: ma con questo il suo insegnamento ci scapitò, per autorità e per concorso di uditori, a tal punto che finirono con il passare for- glielmo da Champeaux tutte quante quelle abbreviazioni (« magi- ster V. », « magister noster V. ») che si trovano nel manoscritto, nè più nè meno che quei passi, dove si trova « If illelmus » ; anzi ha persino fatto lo stesso in un certo luogo, dove (de gerì, et spec., p. 509) con le parole « Vel uliter secundum magistrum G. », è indi¬ cata in modo abbastanza chiaro una posizione antitetica a quella del mngister Willclmus antecedentemente (p. 507) nominalo, E co¬ me ora è francamente segno di leggerezza trovare ugualmente in quel magister G. un'allusione al nostro Guglielmo, cosi non è detto cbe in compenso abbiamo un punto di appoggio nell’abbreviatura € V. », tanto più che questa lettera stessa parla in senso contrario. Poiché Abelardo, prima di recarsi presso Guglielmo da Cliam- peaux, aveva cercato d’istruirsi presso tutti i dialettici eminenti ( Epist ., I, c. I, p. 4, Amboes. Ted. Quercetanus di Parigi 16161, [ed. Cousin, I, p. 4; PL, 178, 115]: Proinde diversas disputando perambulans provincias, ubicunque huius arlis vigere studium au- dieram, peripaielicorum uemulalor fuctus sum), come « magister no¬ ster » egli può indicare una quantità di uomini, dei quali ci è ignoto il nome, c dobbiamo guardarci daU’argomentare, senza suf¬ ficiente ponderazione, che si alluda a persone determinate, per evitar di andare fuor di strada (v. per es. più sopra la nota 82 ). Ma alle deduzioni del Cousin aderirono il Rousselot, l’Hauréau, e anche H. Rittcr. lra ) L’Hauréau (De la phil. scoi., I, p. 223 [cfr. Ili ut. de la phil. scol^, I, 322]) riferisce che il Ravaisson ha trovato, nella Biblioteca di Troyes, 42 frammenti di Guglielmo; e con la pubblicazione di questi frammenti, E. Michaud, nel suo scritto Guillaume de Cham- peaux et les écoles de Paris au Xll.e siede (2’ ediz., Parigi, 1868), si sarebbe potuto acquistare una benemerenza. In base a quel ch’è stato detto più sopra (nota precedente), non si può argomentare che Guglielmo da Champeaux abbia scritto «Glossulae super Pe- riermeneias », perchè il passo relativo nella Dialectica di Abelardo (p. 225) attribuisce uno scritto così intitolato semplicemente a un « magister noster V. ». [Ma ora son da vedere i 47 frammenti « Guillelmi Campellensis Sententiae vel Quaestiones XLVII » puhbl. da G. Lefèvrk. Les variations de Guillaume de Champeaux et la question des Universaux, Lilla, 1898, pp. 19 ss.]. malmente tutti alla opinione di Abelardo 104 ). Guglielmo cioè avrebbe affermato ili primo luogo che gli univer¬ sali, in quanto sono, nella loro unità, cose uguali, ineri¬ scono nello stesso tempo essentialiter, in indivisa tota¬ lità, a tutti cpianti gl’individui che cadono nella loro estensione, e pertanto fra gl’individui non sussiste dif¬ ferenza di essenza, bensì le differenze hanno fondamento soltanto nella molteplicità di determinazioni acciden¬ tali. E come ciò trova letterale conferma nel passo del De gen. et spec., citato più sopra (nota 72), ivi appunto ci viene data una spiegazione più precisa-la quale persino ci riporta a un passo, affatto isolato, di Boezio, e ci dà così maniera di veder bene addentro come il daf¬ fare che si davano a quel tempo con le controversie tra opposti indirizzi, avesse fondamento in minuzzaglie di erudizione scolastica, piuttosto che in contrasti intimi fra modi di vedere teoretici. IM ) Abaf.l. Epist., 1, c. 2, p. 4 [ed. Consinl : Perveni tandem ransius, uh, jam maxime disciplina liaec florere consueverat, ad \rUiUclmum scilicet Campellensem praeceptorem meum in hoc lune magisleno re et fama pruecipuum: cum quo aliquanlulum moratus primo et acceptus, poslmodum gravissimiis extiti, cum nonnuttas scuicet ejus sententias refellere conarer, et ratiocinari conira eum sae- pius aggrederer, et nonnunquam superior in disputando viderer tp. a) lum ego ad eum reversus, ut ab ipso rhetoricam audirem. mler caetera disputationum nostrarum conamina, antiquam ejus de uni versali bus sententiam patentissimis argiimentorum dispulationi- hus ipstim commutare, imo destruere compiili. Erat autem in ea senlenlia de commentiate universalium, ut eamdem essentialiter rem imam simul smgulis suis inesse astenerci individuisi quorum quidem nulla esset m essenti!, diversitas, sed sola multitudine accidentium va- netas. ile autem tstam lune suam correxil sententiam, ut deinceps rem eamdem non essentialiter. sed individualiter (la variante « indil- ferenter » [accolta dal Comuni, che la ed. d’Ambois segna in mar- gme Si trovava anche in vari manoscritti; vedi I’Hauréau, op. cit, 1, p. 236 ( H,st. de la ph. scoi., I. p. 3381), dicere,. Et.... quum hanc "le correxisset, imo coactus dimisisset sententiam, in tanlam lectio ejus devoluta est negligentiam, ut jam ad dialecticae lectionem vix admitteretur: quasi in huc scilicet de universalibus senlenlia tota hiijiis artis consisterei summit (cfr. la nota 60). Ilinc tantum roboris et auctontatis nostra suscepit disciplina, ut ii, qui antea vehemen- j nogutro tilt nostro adhaerebant. et maxime nostram infestabant aoctnnam. ad nostras convolarent scholas fPL Affermava cioè Guglielmo che in quel quid di acci¬ dentalmente superaddito (adveniens) son da ravvisare le forme individuali, le quali improntano la materia, consistente nel concetto del genere (malcriam infor¬ marli), in tal maniera, che con ciò la essenza univer¬ sale ne risente una individualizzazione secundum totam sitarti quanlitatem : e lo stesso può ripetersi poi, a que¬ sta maniera, per tutta quanta la scala, dal genere, attra¬ verso la specie, sin giù giù airindividuo 103 ). Inoltre, co¬ me riferisce altrove Ahelardo, Guglielmo, incomin¬ ciando dalle dieci categorie, svolgeva a fondo questo pro¬ cesso d'informazione giù giù sino agl’individui, e poteva allora, poiché quelle stesse forme più individuali diffe- renzianti rimandano da capo agli universali, spiegare la predicahilità degli universali con il fatto che questi spet¬ tano agl'individui, o essenzialmente o adiettivamente iadjacenter) 10 °). Ma proprio in ciò consiste decisamente Ite gen. et sper., p. 513 s. : Uomo quaedam species est, res una essenti ali ter, cui adveniunt forntae quaedam et efficiunt Socra- lem: Ulani eamdetn essentiuliter eodem modo informata formae fa- cientes Platonern et caetera indiridua hominis ; nec aliquìd est in So¬ crate, praeler illas jormas informanles il latti malcriam ad fuciendum Socratem, quia iìlud idem eodem tempore in Platone informatimi sit formis Plalonis. Et hoc intelligunt de singulis spcciebus ad individua et de generi bus ad species.... Ubi enim Socrates est, et homo univer- salis ibi est, secundum totani suoni quantitatem informatus Socratitate (riguardo al concetto di Socratitas, v. la concezione corrispondente di I orfirio e Boezio: Sez. XI, nota 43). Quicquid enim res universalis suscipit, tota sui quantitate retinet.... Quicquid suscipit, tota sui quoti- filale suscipit. Ma anche questo' è proprio ricavato da Boezio, che dice, a proposito della differenza {ad Porph. a se transl., p. 87 tEd. Brandt, IV, 9, p. 263; PL, 64, 1261): Aeque enim sicnt in corpore so¬ ler. esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potcst; getius enim per se consideratimi partes non habet, itisi ad species referalur. Quicquid igitur habet, non purtibus, sed tota sui magnitudine reti- nebit. Cosi, dove si tratta di storia della filosofia medievale, spesso 1 apparenza [della originalità, o della novità! viene a ridursi | grazie alla indicazione delle fonti antiche] a quella ch’è la vera sua portata: “ r - H U ' a PP r re riprod. XTTe"^"'^: dÌ  ( ?* differentiam et secundum IdZtiZ^eZd^^' ^ Secundum intUfferentiam l> , e J ll *dem prorsus essentiae. — - n hZ£ s : adem -=£t2; nrtlSTò ifhix Sfe isrF"’ SS ff *7 rs s »;s£*Atas pure appartiene infine alla tradizione la notizia isolata, che, riguardo alla topica, egli portava la essenza della inventio a consistere nella scoperta di un termine me¬ dio 110 ). [§ 21. — Le difficoltà e i gradi del realismo]. — È probabile che proprio le difficoltà, alle quali si trova esposta la opinione di Guglielmo da Champeaux, ab¬ biano dato ai realisti — mentre in generale essi pote¬ vano approvare il punto di vista di lui — motivo di scindersi essi medesimi a lor volta fra loro, a forza di tentativi di correggere quella opinione, o di darle nuovo fondamento: si è così formata una quantità d’indirizzi divergenti, ai quali — anche passando affatto sotto si¬ lenzio il nome dei loro rappresentanti — non ci è più possibile tener dietro, considerando minutamente il de¬ terminarsi delle loro particolari differenze. A parte le difficoltà teologiche die si sollevavano, sia che si assumessero gli universali quali prodotti di una creazione, sia che li si assumesse quali entità eterne, tanto più che alcuni effettivamente designavano per tal modo come « cose » tutt’i singoli attributi di Dio nl ), — positìonem ejusdem parti* sequatur pars illius. Sequitur enim bi- punctalem lineam pars ejus, i. e. punclum., non tamen ad punctum pars ejus sequitur, quia indiani habet. u ") Joh. Saresb. Metal. Ili, 9, p. 115 [ed. Webb, p. 152] : Versa- tur in his (se. in Topici*) incentionis muteria, quam hilaris memoriae fVillelmus de Cam pelli*.... diffinivil, etsi non perfecte, esse scienliam reperiendi medium terminimi et inde eliciendi argumentum [PL, 199, 9091. m ) De gen. et spec., p. 517 : Genera et species aut creator sunt aut creatura. Si creatura sunt, ante juit suus creator quam ipsa crea¬ tura. Ila ante juit Deus quam justitia et jortitudo.... Itaque ante juit Deus quam esset justus vel fortis. Sunt auleta qui.... illam divisio- nem.... sic jaciendam esse dicunt: quicquid est, aut genitum est aut ingenitum. Universalia autem ingenita dicuntur et ideo coaeterna, et sic secundum eos qui hoc dicunt,... [noni Deus aliquorum jactor est. — Abael. Inlrod. ud theol., II, 8, p. 1067 ( Amboes. [ed. Cousin, II, p. 85; PL, 178, 1057]): Terlius vero praediclorum (se. magistro- rum divinae paginae, cioè un magister in pago Andegavensi ) non so- ciò che dal punto di vista ontologico si voleva evitare era proprio quel vicendevole invilupparsi di tutti eli universali. 6 Perciò alcuni si appigliarono all’espediente, certo grossolano di assumere quel «sovraggiungersi» (che abbiamo veduto piu sopra, alla nota 105) delle diffe¬ renze specifiche, come qualche cosa di puramente pas¬ seggierò, per salvare così la indipendenza del genere »*) Altri invece tiraron fuori un modo di vedere, ch’era proprio di Aristotele, considerando il genere come la materia che nella sua essenza rimane identica, e che viene diversamente formata nelle specie: ma, proprio per quella identità di essenza, vennero a trovarsi in con- lutto con la teoria degli opposti 11S ). Onde a ccadde, da un lato, che, relativamente a questo «i™ isssrwtsar ir-" -s™ ~~~ hujusmodi, quae iuxta fiumani * erlcor( i‘ ,im , tram et caelera gnificantur, res quasdam et amil i lonls , c ? nsuetu di nem in Deo si- t ig jfer res diversas conslituat. ' aicumur, tot in Deo dicunt quidam , quia differentiÌe "quldmn m "J° rU . slm P l icitatis, quod genere non fondanti* U%kVt generi ’ sed in subjectum. per se d,c,tur e- sia inasprita, e ahL ►ia n* 1 « a anZ * C ^ C c * uesta diffìcile controversia si « gran somaro », non essendo C cT alu U " C " t0 ^ r Z ° sco,astico del passo del De gen. et spec u ( man,era . dl comprendere il quod scilicet incoteMens eduttl „ ° PPOSlta - «*• in codem, sententiam tenenl perchè non *" • n { >oss n nt > qui grandis asini :±,rr"° év-J quale n.n fl 1ZS  processo, con il quale alla materia si dà la forma, venne fuori da capo la questione, se cioè la differenza speci¬ fica sia solamente il mezzo per formare le specie, o se essa invece, insieme con il genere, trapassi nello stesso tempo nella essenza della specie medesima, — e alcuni (evidentemente tenendosi più vicini a Guglielmo da Champeaux) si son pure effettivamente decisi a favore della seconda soluzione 114 ) —: e così, d’altra parte, per i concetti di genere e di specie, veniva in luce una diffi¬ coltà, anche per il fatto degli opposti che (almeno nella loro esistenza individualizzata) si trovano in imo e me¬ desimo soggetto: ciò ha per conseguenza che, qualora un uomo sia bensì casto ma in pari tempo sia avaro, dovrebbe in lui coincidere l’universale del bene con quello del male; ora, taluni se la cavavano con una di¬ stinzione tra i generi superiori da un lato, e dall’altro lato le specie degli opposti, nella loro specializzazione, escludendo almeno queste ultime dalla possibilità d’in¬ contrarsi [in un medesimo soggetto], laddove altri esten¬ devano persino ad esse la pericolosa concessione 115 ). 1H ) Abael. Dial., p. 477 : RATIONALITAS enim et mortalitas, adve- niente* subtantiae animulis, eam in speciem creunt. quae est homo. Nec cum ipsae generis substuntium in speciem reddunt, ipsae quoque in essentiam speciei simul transeunt, sed sola genera vel subjecta specificantur.... non quidem cum differentiis, sed per differentias.... Si enim differentiae in speciem transferrentur cum genere,.... sicul quorumdam sententia tenet,... profecto cogeremur jateri, et dijjeren- tias ipsas cum genere aeque in essentia speciei convenire ; linde et ipsas de substanlia rei esse, et in partem maleriae venire contingcrel. m ) Ihid.. p. 390: Sunt uutem quidam qui contraria genera in eodem esse non abhorrent, sed contrarias species in eodem esse im¬ possibile confitentur. Dicunt enim quod cum omnia accidenlia per individua in subjecta veniant, et ipsa contraria genera per individua sua subjeclis contingunt . ut virtus et vitium, quae in hoc homine per hanc castitatem et hanc avaritiam recipiunliir, quae individua sunt caslitatis et avaritiae, quae invicem species non sunt contrarine.... Verum species contrarias esse in eodem per aliquu sua individua, illud prohibet, quod nec ipsarum individua in eodem possunt esse, quorum sunt tota substantia ea quae sunt contraria, utpote species.... Sunt autem et qui species contrarias in eodem posse consistere non denegant. adol e , T ^ C1 " aUrÌ 3UCOra « indotti a adottare 1 esperte radicale, di affermare cioè che la .uizmne della differenza specifica in generale ha luogo tu ta quanta solamente nella categoria della sostanza laddove, quando si tratta delle qualità, le così dette sue’ eie o sottospecie son propriamente da considerare sen z altro come formazione d’individui, sicché n es h' e nero sarebbero due essenze diverse a cuci 1 h che son tali due individui umani ”)’ " ^ 816880 farina, non c’è nane » , . 3 ,10n c e * c e pane », dovendo prima la ~7 n p, *“’ ” c,,e - “ cb - '»a»c»„r;.jr ,o " awo cì **•£ [§ 22. Controversie intorno alla definizione- INTORNO al CONCETTO DI PARTE | E cakie»j. — M a controversie ) De gerì, et spec. d ?4i. c tmnsubnantiae differentiis haberTdilZTe?™ Solum P^edicamen- tn duas proximas species. dicunt illaT'nn l cllm . J ff uaht ^ dividati,r aliquas differenti,: »ed et in micas converti tur linde nèn • sc, i ,c el furinam esse deserit non sit , panis desit. Eie. equicquam concedila ut, si farina di questo genere, che venivano per lo più agitate, con grande sfoggio di passi di Boezio, sfiorando già, come si vede, il confine della stupidità, venivano altresì dibat¬ tute, secondo il modello della logica in uso nelle scuole, anche nell arringo affine della teoria della divisione (v. sopra la nota 75) e della definizione. Ben è vero che i realisti si trovavano tutti d’accordo nel preferire, in ar¬ monia con il modo di pensare di Boezio (Sez. XII, nota 98), o piuttosto di Porfirio (Sez. XI, note 41 ss.: cfr. la Sez. Ili, note 78 ss.), il procedimento platonico di ima continua dicotomia 118 ); ma subito a proposito della di¬ visione del genere, necessaria per la definizione, doveva già ripresentarsi la questione del come vadan le cose con le parti della essenza, distinguibili nel concetto del ge¬ nere: e mentre da taluni si affermava che tali parti sono unite per mescolanza, press’a poco a quel modo che an¬ che dalla mescolanza di bianco e nero si genera un terzo colore differente 119 ), altri facevano osservare che tutte le parti della essenza del genere posson pure, anche singolarmente, esser enunciate come predicati de¬ gl’individui, appartenenti al genere stesso 120 ); per con- ) Ibid., p. 458: Si aulem genus seni per nel in proximas species t ei in proximas differenlias dìvideretur, omnis divisio generis, sicut Boethio (de divis p. 643 [PL, 64, 8831) placuit, bimembris essel.,.. Hoc autem ad eam philosophicam sententiam respicil , girne res ipsus, non tantum voces, genera et species esse confitetur. ) Oilberti 1 orretae in l. 1 . Boethii de S . Trinitele commenta • ria_ (Bokth. Opera, eri. [costantemente cit. dal Franti] di Basilea, 1570), p. 1144 [PL, 64, 12721 : Butani quidam imperiti.... quod non sit vera dictio. si quis dical « homo est corpus », non addens et ani¬ ma »: uut si dicat « homo est anima », non addens c et corpus ». Opi - nantes quod, ex quo diversa, ut unum componant, conjuncta sunt. esse utriusque adeo sit ex illa conjunctione confusimi, ut sicut cum album et nigrum permìscentur, quod ex illis fit, nec album nec ni- grum dicilur, sed ciijusdam alterius coloris ex illa permixtione pro¬ venienti».... 1 Ibid., p. 1143:.... corporalitàs, non modo de hominis illa parte I qua e corpus e.st], verum etiarn de homine praedicetur. Et.... ratio- nalitas.... non modo de hominis illa parte, quae spiritus est, sed etiam de homine praedicatur.... (p. 1144).... quicquid de parte nuturaliter, idem et de composito affirmandum [PL, 64, 1272-3]. irò, anche questo fu da capo contestato da alcuni, per- che quelle parti della essenza sono predicati, soltanto in quanto sono concetti più generali, fatta cioè astrazione dalla loro connessione con altre note essenziali; dellW mo, p. es„ viene affermata cioè, come predicato, non -dà la corporeità specificamente umana, ma proprio in gè- neraie la corporeità nella sua accezione universale, e tosi parimente anche la spiritualità 121 ). Un’altra controversia manifestamente comiessa con quel che precede, concerneva la seguente questione se ' fr J “ dMÌ *"• ^ il 7o,Z f dilTereuza -pacifica si riferisca «oltau.o alla .peci. O anche, nello stesso tempo, al genere che st r , ’ mento della specie 122 ! Y , 3 fonda - ia specie ). Via via che si separava più net. amente a t ìlferenza dal genere (note 112, 114) g j po z::i re p t n r pit °  lbid., p . H44 f PL 6 , ,, 'illuni rationalitatem guani Uhm quuè est A,"” al ‘ qU ‘ d ‘ cere 8esti unl, d‘ci. et simUiter scienti,, a liam et alUmr ‘ T™"*' de homine human, corporis est. ’ 1 sparai,totem quam quae notila. PaSS ° re,atÌV ° è ri P r « d »« integralmente più sopra> • ^ Abael. Dialect. n 402 • \f 1 * * noe hujus nominis quod est « homo » 'nen™ s,gn, fi cat ‘t»iem substan- s , at ±' f* x P so percipiant , tantum nronlèr nT 7?’ nec ^ ualitat ^ ipsius diffinitionem requirunt. P P r qualitatum demonstrntionem il suo significalo concettuale, fosse stata accolta, in sen¬ so realistico, quest’ultima soluzione, sicché la proprietà sarebbe definita come un quid, formato da un universale (p. es. [il «bianco» è un] formatum albedine), si poteva da capo domandare se questa sia la definizione della proprietà stessa ( albedo ), o del sostrato qualifi¬ cato (album); e se poi ci si atteneva alla seconda alter¬ nativa, dato che la prima conduce a mia reduplicazione priva di senso, sorgeva il dubbio, se con ciò sia definito ciascun singolo di siffatti sostrati, o non forse invece tutti quanti insieme: e necessariamente ambedue le ipo¬ tesi si mostravan da capo insostenibili, poiché da un lato non si tratta di definire le cose stesse, bensì soltanto ima proprietà, nè d’altra parte le cose, per una sola proprietà che abbian comune, sono identiche nella loro essenza 121 ). Ma a quel modo che tutta questa discussione si at- Ibid., p. 495: Ai vero in fiis diffinitionibus quae sumplorum (con questo termine Abelardo suole indicar gli aggettivi: v. appresso la nota 321) sunl vocabulorum, magna, memini, quaestio solet esse ub his, qui in rebus universalia primo loco ponunt....; duplex enim ho- rum nominum quae sumpta sunt, significatio dicitur, altera.... prin- cipalis, quae est de forma, altera vero secundaria, quae est de for¬ malo. Sic enim « album », et albedinem, quam circa corpus subjec¬ tum determinai, primo loco significare dicitur, et secundo ipsius subjectum, quod nominai. Cum ilaque album hoc modo diffinimus « formatum albedine », quueri solet. ulrum haec diffinitio sii tantum hujus vocis, quae est « album », an alicujus siine significationis. Al vero cum vocem non secundum essenliam suam, sed significulionem diffiniamus, videlur haec diffinitio recte ac primo loco illius esse. Restat ergo quaerere, sive illius significationis sit, quae prima est, i. e. albedinis, sit e cjus, quae seconda est. quae est « subjectum idbe- dinis ». At vero si haec diffinitio albedinis sit, praedicalur de ipsa, et de quocumque albedo dicitur, et ipsa diffinitio prucdicatur. At vero quis vel albedinem vel hanc albedinem formuri albedine conce¬ dei?... Si vero diffinitio supraposita ejus rei, quam « album » nomi- nani, esse dicatur,... quaerilur, utrum uniuscujusque sit per se, quod albedinem susci pi unt.... | il Cousin corregge: suscipiat], sive omnium simul acceptorum. Quod si uniuscujusque sit illa diffinitio, utique et margaritae. Vnde de quocumque illa diffinitio dicitur, et margarita praedicatur, quod omnino falsum est. Si vero omnium simul accep¬ torum esse concedatur, oporlebit ut, de quocumque diffinitio illa enuntiatur, omnia simid praedicenlur. quod iterum falsum est. tiene ancora di regola a quello stesso basso punto di vi- sta, che abbiamo trovato più sopra (Se*, precedente, note 350 ss.), dove si trattava del realista Anseimo, cosi anche le dispute sopra il secondo metodo di divisione, cioè sopra la partizione della o alita ne suoi elementi, recano in sè una ben grave uni- lateraLta. I oiche la questione di stabilire che cosa s’in- tenda per parte originaria (pars principalis), fu forzata a prendere la forma di un’alternativa, in quanto che cioè gli uni denonimavano originarie quelle parti le quali, mentre costituiscono la essenza della totalità, non sono piu a lor volta parti di una parte (p. es„ nell’uomo, anima e corpo), e invece gli altri consideravano come ori- gmane quelle parti costitutive ultime, distrutte le quali viene distrutto il tutto (p. es. la testa o il cuore) -»)• ma a questa maniera, in seguito al realismo ontologico, adot- andosi la prima soluzione, tutto questo punto di vista della divisione rimaneva falsato, e surrettiziamente scam¬ biato con il terreno proprio della definizione, laddove, se »! adottava la seconda soluzione, sconsideratamente « trasponeva la funzione subiettiva dell’intelletto urna- “’ !• q S ° la . Crea ÌJ COncetto di P«le, nella realtà ZTl ì C0MCeZ1One "«usa, della quale già si era li- noi ^ 9 ! “T m ° r ° 8CelÌniauo (Sez. precedente, note 321 s.). Mentre gli uni intendevano la divisione ab «finito come obbiettivamente materiale, ed esclude- no cosi dalla considerazione l’attività formale [die gè- cundarias'^àrtès ZocaH^TnTat^alf 0 ’ o- crates. destructa ungula, remanet Socrates et ila quod prius non erat Socrates, fìt Socrates. O, similmente, ibid., p. 512: Haec.... sen-La teoria dello « status », come tentativo di conciliazione: Gualtiero da Mortacne]. — Se a questa maniera il realismo offriva in realtà molteplici documenti di quella cattiva sorte, che nelle questioni di logica propriamente dette, deve rimanere insepara. . Je da esso ’ non fa maraviglia che da vari lati si sieno battute vie nuove per rendersi conto degli universali, r csidcrandosi co 8I di sfuggire alle difficoltà del reali- amo non meno che alla unilateralità del nominalismo. mbra doversi interpetrare quale forma di passaggio prima di tutto quella concezione, che potrebbe, dal suo termine tecnico caratteristico, denominarsi «teoria e lo status »: e parimente sembra (cfr. la nota “ e *f a 813 8tata originata dalle obiezioni sorte contro le affermazioni di Guglielmo da Champeaux. Se cioè la essenza universale del genere deve, per tutta quanta la sua estensione, venire specializzata mediante lorme individuali (v. sopra la nota 105), è difficile veder bene addentro, come stiano le cose, riguardo a quelle «proprietà superaddite » (advenicntia), che, in seno a IimiT’ ° T Ìan ° ° 80U0 S ° lamente P asse ggiere. Ora alctmi si appigliarmi qui all’espediente di ammettere che ! universale e bensì modificato da siffatte qualità, ma non tuttavia proprio in quanto è un universale: e una faeffe 1 ir e - a arriVatÌ dn ° 3 qUeSt ° P unto ’ 8i rendeva acile la effettiva trasformazione degli miiversali, i quali dai realisti erano stati tenuti b, conto di cose (res) in daT >: i CÌOè ° ra ne »a serie graduale che va dal genere all individuo, non fu più tenuto conto del- 1 Universale, bensì dello .status universali*»: ima con- cezione questa, che era così abbastanza facilmente sug- gerita dal motivo usuale di ma Tabula logica, come an- lentia medium digiti naturam unam esse nonni , creaturam esse merito dubitat. Aut er J Zò , 'che poteva, dal canto suo, trovare parimente appoggio in un passo di Boezio 129 ). Un rappresentante di questo modo di vedere fu Gualtiero da Mortagne [de Mauretania] (inse¬ gnante a Parigi al tempo di Abelardo, e morto, vescovo di Laon, nel 1174) : egli dedicò, è vero, con preponde¬ rante ardore, la propria attività alle controversie dom- maticlie ), ma fece sentire, per incidenza, il suo in¬ flusso anche nel campo della dialettica. Cercò cioè di conciliare la unità numerale deH’universale con la con¬ nessione essenziale, in cui esso sta con le cose singole. > Ibid., p. 514 s.: Amplius sanitas et lunguor in corpore ani- mahs fundalur; albedo et nigredo simpliciter in corpore. (Juod si animai totum existens in Socrate languore afficilur, et totum, quia quicquid suscipit. Iota sui quantitale suscipit, eodem et momento nusquam est sine lang[u)ore; est autem in Platone totum illud idem; ergo edam ibi languerel; sed ibi non languet. Idem de albe¬ dine et nigredine circa corpus. Ad haec enim non rejugiant, ut di- cani etc.... Addurli: animai universale languet, sed non in quantum est universale. L tinum se videant !... Si ad status se transfer ani , di - centes I animai in quantum est universale non languet in univer¬ sali statu », ■ respondcant, de quo velint agere per has voces $ in stata universali ». Ma di questo concetto di « status universalis » scorgeremo a buon diritto la fonte in Boezio, là dov’egli dice, a pro¬ posito della qualità (ad Ar. praed. [I. 11IJ, p. 180 |PL, 64. 250J): Nihil impedit, secundum aliam scilicet ulque aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi spedai suae supponere, ut Socrates in eo quod pater est, ad aliquid dicitur, in eo quod homo, substan¬ tia est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis secundum ea videtur esse dispositus, in disposinone numerula sunt, perchè quel rhc qui deride, è lu espressione « in eo quod » : e rosi pure in un al¬ tro passo ancor più chiaro (ibid., p. 189 [PL, 64, 2611): Si secun¬ dum aliam atque aliam rem duobus generibus eadem res.... supponu- tur, nihil inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines, in eo quod alicuius rei habitudines sunt, in relutione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliqui dicuntur, in quotitele numerantur. Quare nihil est inconveniens, unam atque eamdem rem, secundum dnersas naturae suae potenlias (proprio questo son gli univer¬ sali),... pluribus adnumerare generibus. Le euc lettere (stampate nello Spicil. del D’Achery, ed. De la Barre, Parigi, 1723, III, p. 520 ss.) sono soltanto di contenuto dommatico, e non hanno menomamente rhe fare con la storia della filosofia. [Ora è da vedere il trattato sopra la teoria della indifferenza, attribuito a Gualtiero da Mortagne e pubblicato dall’Hau- rcau (1892), poi dal Willner procedendo a questa maniera, vale a dire con il distin¬ guere nell’individuo, uno per uno, come status diffe¬ renti, la individualità, e il concetto della specie, e così pure il concetto del genere, fino su su al sommo gene¬ re 1SI ). Comunque, sebbene ci manchino del tutto notizie più precise sopra un tal modo di vedere, c’è questo di notevole in esso, che cioè da un lato l’universale è rac¬ costato alle cose singole, e dall’altro lato, per quel te¬ nere distinti i diversi « stati », la operazione intellet¬ tuale subbiettiva si fa più avanti nel primo piano. Per¬ ciò neanche appare indegna di fede quella notizia (v. sopra la nota 69), secondo la quale sembra che taluni, dalla tesi nominalistica della « maneries » sieno passati alla questione dello status (v. la nota 88). [§ 24. — La teoria dell’iindifferenza. Ma la evoluzione interna degli studi di logica ci conduce con ciò spontaneamente alla teoria della indiffe¬ renza, la quale in particolare occupa ima posizione di mediatrice tra le varie tendenze. A suo fondamento sta il principio, che una medesima cosa è, nello stesso tempo, universale e singolare, nel senso non già che si dia un universale essenzialmente inerente alle cose, bensì semplicemente che in queste, in quanto sieno più cose e simili per natura, si presenti alcunché, che esse hanno indifferenziatamente ( indiff&renter ) in comune; per con¬ seguenza, ciò che più cose hanno d’indifferente o intrin¬ secamente simile (indifferens o consimile), è dunque indicato nella definizione come « genere », e, per l’uni¬ versale così inteso, è salva la possibilità della predica¬ zione (praedicari de pluribus ), laddove il realismo ha sempre corso pericolo di dover, di una cosa, predicare ima cosa (v. appr. la nota 287): e quest’ultimo aspetto suhbiettivamente logico poteva ora caso mai venir pure M1 ) Il passo in appoggio, vedilo più sopra, alla noia  unilo anche con il concetto di status, di modo die cia¬ scuna cosa avrebbe in sè uno « stato » d’individualità e nello stesso tempo uno « stato » di universalità 132 ); ma si tratta nonpertanto di un punto di vista, tutto diverso da quello di Gualtiero. Mentre là, cioè, si tiene ancor ferma la esistenza del- u ‘) Abael. Glossulae sup. l’orph., riferite dal Rémusat (v. le note 13 e 73), p. 99 s. : La seconde manière de soutenir l’universalilé des choses, c’est de prétendre que la ménte chose est universelle et particulière; ce n’est plus essentiellement, mais indifféremment que la chose commune est en divers.... Ce qui est dans Platon et dans Socrate, c’est un indifférent, un semblablc, « indifferens vel consi¬ mile ». Il est de certaines choses qui conviennenl ou s’accordent entre elles, c esl-à-dire qui sont scmblables en nature, par exemple en tanl que corps, en lant qu’animaux ; elles sont aitisi universelles et particulières, universelles en ce qu’elles sont plusieurs en coni- munaulé d attributs essenliels, particulières, en ce que chacune est disimele des autres. La définition du genre (« praedicari de piu- ribus »....) ne s’applique alors aux choses qu’elle concerne qu’en tanl qu’elles sont semblables, et non pus en lant qu’elles sont indi- viduelles. Ainsi les mèmes choses ont deux états, leur étal de genre, leur état d’individus, et, suivant leur étal, elles comportenl ou ne comportenl pas une définition differente. [Vedasi ora il testo ori¬ ginale, ediz. Geyer, p. 518: Sunt a lii in rebus unii-er salitatela assignantes, qui eandem rem universalem et parlicularem esse astruunl. Hi namque eandem rem in diversis in differente r, non essentialiter inferioribus affirmunt. Veluti cum dicunt idem esse in Socrate et Plutone, « idem » prò indifferenti, idest consimili, intelligunt. Et cum dicunt idem de pluribus praedicari vel inesse aliquibus, tale est, ac si aperte diceretur: quaedam in aliqua con¬ venire natura, idest similiu esse, ut in eo quod corpora sunt vel ammalia. Et iuxta hanc.... senlentium eandem rem universalem et parti- cularem esse concedunt, diversis tamen respeclibus; universalem quidem in eo quod cum pluribus communitutem habet, particularem secundum hoc quod a ceteris rebus diversa est. Dicunt enim singu- las substunlius ita in propriae suae essentiae discretione diversas esse, ut nullo modo haec substantia sii eadem cum illa, etiamsi substantiae materia penitus formis carerei, quod tale secundum illos praedicari de pluribus, ac si dicatur: aliquis status est, participatione ctiius multae sunt convenientes, praedicari de uno solo, uc si dicatur: aliquis status est, parlici patione cuius mul¬ tae sunt non convenientes 1 . Se il Rémusat abbia effettivamente trovato qui [come (v. s.) effettivamente ha trovato] nel manoscritto il termine « status » — cosi almeno sembra che sia — o se si tratti di un’aggiunta, fondata solamente sopra il suo personale modo di vedere, io non lo so. l’universale, e proprio a quest’ultimo vengono atmbu «stati» differenti, per i sostenitori della tesi della indif¬ ferenza viene avanti in prima linea, con tutto il suo ri¬ gore, la idea, appartenente al nominalismo (note 77 ».), vale a dire che in generale null’altro esiste, all infuori dai soli individui, e apprendendosi il pensiero a questi, come a’ suoi propri oggetti, gli universali si generano soltanto per la diversità dell’apprendimento (aliter et aliter attentum), sicché status o natura dell’essere indi¬ viduo o dell’essere specie e via dicendo, sono da consi¬ derare soltanto come modi di vedere soggettivi: e a tal proposito è prima di tutto da considerare il carattere, per così dire, negativo del procedimento che conduce dall’individuo all’universale, in quanto che Ymtellectus gradualmente lascia da parte (non concipit), intenzio¬ nalmente dimentica ( oblitus ), posterga e abbandona ( postponit, relinquit) le differenze individuali, per prò- gredire nell’apprendimento dell’indifferenziato, sino al grado supremo, cioè alla sostanza 1 ). Pertanto anche questo modo di vedere, analogamente «*) De geli, et spec., p. 518: Nane itaque >Uam, quae de indif- ferentia est. sententi,im perquiramus Cujus *«£«**£**£ JJJJ ninnino est nraeter individuimi; sed et illud aliter et aliter atten tum specie* et genus et genertdissimum est (ugualmente nel pas.o ' ùo già opra! nota 72). Itaque Sacrate* in ea natura (m ponga mente al termine « natura », in luogo del quale subno dopo « de Socrate, quod nota, idemj homo » -^CmfPponat Zio- aagsH’S z zzi: zzi::‘oli.. „ . .» —«—» bocr “ m quod notul « substantia », generulissimttm est. agli altri, può richiamarsi a passi isolati di Boezio, quando si tratta di affermare che l’individuo, conside¬ rato come individuo, non reca in sè nulla d indifferen¬ ziato, ch’egli abbia in comune con altri individui, bensì, per così dire, egli è la differenza stessa, laddove, quanto più si considera questo medesimo individuo come specie o come genere, tanto in maggior numero si sco¬ prono in lui momenti indifferenziati comuni, e allora si abbraccia, come concetto del genere o della specie, tutto quel che c’è di elemento comune 134 ) : cosicché con ciò, poiché infine ogni manifestarsi d’individui si può pren¬ derlo anche dal lato (status) del suo genere più univer¬ sale, ci sono in verità tanti generi universalissimi, quanti sono gl’individui: ora questi generi supremi si raggrup¬ pano a lor volta in dieci classi (categorie), soltanto me¬ diante la considerazione di quel che d’indifferenziato hanno in comune, ma d’altra parte tutt’insieme vengono a formare da capo una unità universalissima, consistente m ) Ibid. : Socrates, in quantum est Socrutes, nidlum prorsus indifferens habet, quod in alio inveniatur; sed in quantum est homo, plura habet indifferentia, quae in Platone et in aliis inve- niuntur. Nam et Plato similiter homo est, ut Socrates, quamvis non sit idem homo essentialiter, qui est Socrates. Idem de animali et substantia. Ma per ricondurre questo testo alla sua fonte, bastano i seguenti passi di Boezio, ad Porph. a se trunsl., I, 11, p. 56 [ed. Brandt, p. 166; PL, 61, 85J : Cogitantur vero univcrsalia, nihilque aliud species esse putanda est, nisi cogilatio collecta ex individuo- rum, dissimilium numero, substantiali similitudine: genus vero co¬ gitano collecta ex spoderimi similitudine. Sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis: cum in universalibus, fit intelli- gibilis ; inoltre ibid.. Ili, 9, p. 76 [ed. Brandt, p. 228; PL, 64, 111]: Individuorurn quidem simililudinem species colligunl, spe- cierum vero genera. Similitudo autem nihil est aliud, nisi quaedam unitas qual itati s ; c ibid., TU, 11, p. 78 [ed. Brandt, p. 235; PL, 64, 114]: ea enim sola dividuntur, quae pluribus communio sunt; his enim unum quodque dividitur, quorum est commune, quorum- que naturam ac simililudinem continel. llla vero, in quibus com¬ mune dividitur, communi natura parteciparti, proprietasque com- munis rei his, quibus communis est, convenit. Al vero individuorurn proprietas nulli communis est. Qui cioè è abbastanza chiaramente preannunriato così il simile o commune, come anche il colligere (nota 136). 17. — C. Pbantl, Storia della logica in Occidente, II.CARCO prantl ili ciò che son proprio essi 1 elemento comune e indif¬ ferenziato 135 ). Nella stessa maniera si configura poi anche la rela¬ zione predicativa, poiché, mentre l'individuo è sempre soltanto il suo proprio predicato, quell’aspetto suo, che viene inteso come specie o come genere, può recare con sè un riferimento reciproco ad altri individui: cioè, p. es., Tesser uomo, di Socrate, è predicato (inhaeret) anche per Platone, e viceversa: e questo esser genere, dell’in- dividuo, è concetto collettivo (colligitur), cosi per que¬ sto stesso individuo come anche per gli altri della me¬ desima specie 13 °) — insomma il rapporto dell’universale e del singolare si riduce a un « in quntum », e, non es¬ sendoci nè un puro universale nè un puro individuale, dipende dalla diversità del punto di vista (diversus re- spectus), che l’universale venga considerato come singp- lare, e il singolare come universale 13T ). [§ 25. — Adelardo da Bath: intonazione platonica DA LUI DATA ALLA TEORIA DELLA INDIFFERENZA]. - Ora U5 ) Jbid., p. 519: Solvunt.... illi dicentes: generalissima quidem infinita esse essenlialiter, sed per indifferentiam decem tantum ; quot enim individua substanliae, tot et sunt generulissimae substantiae. Omnia lamen illa generalissima generalissimum unum dicuntur, quia indifferentia sunt. Socrates enim in eo quod est substantia, in- difjerens est cum qualibel substantia in eo statu, quod substantia est. ”“) Ibid.: Sed et hi dicunt: Socrates in nullo slatti aliati inhae¬ ret nisi sibi essenlialiter; sed in statu hominis pluribus dicitur in- haerere, quia olii sibi indifferentes inhaerent; eodem modo in statu animalis.... (p. 520) Dicunt ita: Socrates, in quantum est homo, de se colligitur (si ponga mente a questa espressione) et de Platone caelerisque; unumquodque individuimi, in quantum est homo, de se colligitur. ls, > Ibid., p. 521: Itti tamen non quiescunt, sed dicunt: nullum singulare, in quantum est singulare, est universale, et e converso; et cum universale est, singulare est universale, et e converso. — Ibid., p. 520: Negant hanc consequenliam € si est universale, non est singulare». Nam imposilione suae sententiae habelur: omne universale est singulare, et omne singulare est universale diversis respcctibus. questa dottrina dell’ indifferenza viene tuttavia a sua volta ad armonizzare infine con il principio « Singultire senti tur, universale intelligitur », sicché le era dato di trovare un appoggio anche in Boezio (Sez. XII, nota 91), e comunque si poteva ammettere che per noi quaggiù, in questa valle di lacrime, gli universali soltanto come individui hanno una esistenza percettibile, mentre va riconosciuta a essi in verità una realtà intelligibile: stando così le cose, anche i Platonici, particolarmente per via di quella tendenza dell’ individuale a deviare all’insù, « lasciando » [relinquere] le sue caratteristiche singolarità, potevano prender gusto alla teoria della indifferenza, mentre nello stesso tempo gli Aristo¬ telici erano inclini a por mente in essa alla relazione scambievole tra universale e particolare, come anche al conto in cui quella tiene la operazione suhbiettiva dell’intelletto (di quest’ultimo modo di vedere trove¬ remo un esempio appresso, note 432 s., in imo scolaro di Abelardo). S’intende pertanto come Adelardo da Bat li, il quale compose intorno al 1115 [tra il 1105 e il 1116] imo scritto De eodem et diverso, che aveva per fondamento il platonismo 138 ), credesse di potere, proprio con la dottrina della indifferenza, com¬ porre il contrasto fra Platone e Aristotele. Si lamenta Adelardo dell’aspro contrasto fra opposte tendenze, nel campo della logica, come pure della mania d’innova¬ zioni dominante al tempo suo 13,) ), ma è d’opinione che, lss ) V. sul conto suo maggiori particolari nelle Recherches cri- tiques dello Jourdain (2* ed. 1843, p. 26-7, 97-9 e 258-277), dove si riproducono tradotti, di su un manoscritto parigino, notevoli fram¬ menti di questo libro. [Ma ora del trattato di Adelardo è stato pubblicato integralmente il testo originale, a cura di H. Willner, nei Beitriige del Baunikcr, IV, 1, Miinster, 1903, p. 3-34]. “”) Ibid., p. 262: L'un prétend qu’on doit partir dcs choses sen- sibles , l'autre commence par les choses non sensibles. Celui-là sou-

tient que la Science n'est que dans les premières, cclui-ci qu’elle est. hors des dernières; ils s’inquiètent aitisi mutuellement, à fin qu’aucun d’eux ne s’altire la confiunce.... (p. 263) A qui donc faul-il con il venir bene in chiaro di quel che concerne gli universali, si potrebbe appianare la contesa 140 ). Intorno ai concetti di specie e di genere, egli si esprime qui in perfetto accordo con la teoria della indifferenza, anzi facendo pereino uso quasi degli stessi termini (p. es. diversus respectus, oblivisci, non attendere ecc.), sicché può ritenersi che il nostro informatore su ci¬ tato [v. s. la nota 133] avesse sottocchio lo scritto di Adelardo, non essendoci altra variante, se non che qui non è messo in campo il concetto di status, ed è forse dato un certo maggior peso alla denominazione 141 ). Ma croire d'entre ceux qui tourmenle.nl nos oreilles de leurs innova- tions journalières, qui cheque jour naisscnt pour nous, nouveaux Aristotes et nouveaux Piatomi, qui prometterà également et les choses qu’ils savent, et celles qu’ils ignorent? Ili testo originale, ediz. Willner, p. 6, suona così: « Alius enim a sensibilibus inve- sligundas (se. res) esse censuil, alter ab insensibilibus incepit; alius eus in sensibilibus tantum esse arguii, alter praeter sensibilia etiam. esse divinavit. Sic dum uterque alterum inquietat, neuter fidem adipiscitur.... (p. 7) Cui tandem eorum credendum est, qui cotidia- nis novitatibus aures vexant.” Et assidue quidem etiam nunc cotidie Platones, Aristoleles novi nobis nascuntur, qui aeque ea, quae nc sciant, ut et ea, quae scianl, sine frontis iacluru promittant.... » |. M “> Ibid., p. 267: L’un d’eux (cioè Platone e Aristotele), tran- sporté par l’élévation de son esprit et les uiles qu’il semble s’ètre créés par ses efforts, a entrepris de connuilre les choses par les principes eux-mémes ; a esprime ce qu’ils élaient avant qu’ils ne se reproduisissent dans les corps, et a definì les formes archétypes des choses. L’autre, au conlraire, a commencè par les choses sensibles et composées ; et puisqu’ils se rencontrent dans leur route, doit-on les dire opposés? Si l’un a dit que la Science étuit hors des choses sen¬ sibles, et l’autre, qu'elle était dans ces mémes choses, voici coni¬ mela il jaul les interpréter. [Ed. Willner, p. 11: « Unus eorum meri- lis altitudine clatus pennisque, quas sibi indui obnixe nisus, ab ipsis iniliis res cognoscere aggressus est, et quid essent, antequam in corpora prodirent, expressit, archelypas rerum formas, dum sihi loquilur, definiens. Alter autem.... a sensibilibus et compositis orsus est. Dumque sibi eodem in itinere obviant, contrarii dicendi non sunt.... Quod autem unus ea extra sensibilia, alter in sensibilibus tantum existere dixit, sic accipiendum est. »1. «*) Delle parole ohe ora fanno immediatamente seguito (p. 267-8 del Jourdain), FHauréau (De la philos. scol., I, p. 255 IHistoire de la phil. scol.) riproduce il testo latino origi¬ nale [che qui si riferisce secondo la ediz. Willner] : Genus et species — de his enim senno est — etiam rerum subiectarum nomina sunt. fan poi seguito, secondo lo spirito del platonismo, espres¬ sioni di lamento, perchè agli uomini runiversale si pre¬ senta oscurato dalla indispensabile percezione sensibile, mentre gli universali, nella loro pura semplicità, esi¬ stevano originariamente soltanto nel No0{ divino 11- ); e*a questo si connette subito la strana affermazione, che proprio perciò hanno ragione tutti due, così Aristotele, il quale ha trasportato gli universali in quella sfera, cli’è la sola dove sieno a noi accessibili, come anche Pla¬ tone, che li confina là dov’essi hanno la vera loro realtà, che insomma entrambi, mentre nella maniera di esprimersi sembra si contraddicano, nel merito si trovan d’accordo 143 ). Per arrivare a questa conciliazione, Ade- Nam si res consideres, eidem essentiae et generis et speciei et indi¬ vidui nomina imposita sunt, sed respectu diverso. V olcntes etenim philosophi de rebus agere secundurn Itoc quod sensibus subiectae sunt, secundurn quod a vocibus singularibus notantur et numeraliter diversae sunt, individua vocarunt, se. Socratem, Platonem et celeros. Eosdem autem altius intuente s, videlicet non secundurn quod sen- sualiter diversi sunt, sed in eo quod notantur ab liac voce « homo », speciem vocavertuti. Eosdem item in hoc tantum, quod ab hac voce « animai » notantur, considerantes genus vocaverunt. Nec tamen in consideratione speciali jormas individuales tollunt, sed obliviscuntur, cum a speciali nomine non ponantur, nec in generali speciales oblatas inielligunt, sed incsse non attendunt, vocis genendis significatione contenti. Vox enim haec « animai » in re illa notai substantiam cum animatione et sensibililate ; haec autem « homo » totum illud et in¬ super cum ralionulitale et mortalitate: « Socrates » vero illud idem addila insuper numerali accidentium discrelione [ed. Willner, : Assueti enim rebus . cum speciem in- tueri nituntur, eisdem quodammodo caliginibus implicantur nec ipsam simplicem notam.... contemplari nec [350] ad simplicem spe- cialis vocis positionem ascendere queunl. Inde quidam, cum de universalibus ageretur, sursum inhians « Quis locum earum [se. vocimi] mihi ostendet? », inquit. Adeo rationem imaginatio pertur¬ bai.... Sed id apud mortales. Divinae enim menti.... praesto est muteriam sine formis et jormas sine aliis, immo et omnia cum aliis.... distincte cognoscere. Nani et antequam coniuncta essent, universa quae vide?in ipsa noy simplicia erant [ed. Willner, p. 12]. lbid.: Nunc autem ad propositum redeamus. Quonium igitur illud idem, quod vides, et genus et species et individuimi sit, merito ea Aristoteles non nisi in sensibilibus esse proposuit. Sunt etenim ipsa sensibilia, quamvis acutius considerata. Quoniam vero ea, in- lardo non deve davvero essersi molto stillato il cer¬ vello 144 ). [§ 26. — Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua idea del colligere ]. — Un modo di vedere analogo al principio della teoria della indifferenza, sebbene il metodo seguito fo9«e alquanto diverso, potrebbe ravvi¬ sarsi nella opinione di Gauslenus o Joscelli¬ nus da Soissons (dove fu vescovo dal 1125 [1122] al 1151), il quale ritiene cioè che gli universali non si trovano già negl’individui presi per se stessi, bensì com¬ petono a questi, solamente in quanto l’individuale viene raccolto in una unità (in unum collectis ) 145 ) ; poiché questa è ima tesi che sarebbe perfettamente in armo¬ nia con il principio su riferito (nota 133), vale a dire che esistono esclusivamente individui; soltanto che il formarsi degli universali nel pensiero umano sarebbe ottenuto qui non già con mi lasciar da parte [(re/in- quere ) le differenze individuali], bensì fin da principio con un metter assieme ( colligere ), del quale infine non poteva pur fare a meno neanche la teoria della indiffe¬ renza (nota 136). Ma sopra la opinione di Gauslenus non sappiamo assolutamente nulla di più preciso 14e ) : quantum dicuntur genera et species, nemo sine imaginatione presse pureque intuetur (qua pertanto troviamo veramente «li già la « ignota cosa in sé»), Plato extra sensibilia, scilicet in niente divina, et con- cipi et existere dixit. Sic viri illi, licet verbis contrarii videantur, re lamen idem senserunt [ed. Willner, p. 12], Tanto più che poteva ben essergli accessibile, almeno attra¬ verso Agostino (de civ. Dei, Vili, 6 f?j), il noto passo ciceroniano dello stesso tenore ( Acad. Prior., I, 6 Tv. anche ih., 41, relativa¬ mente ad Antioco [d'Ascalonal). Abbiamo veduto più sopra (nota 66) come anche Bernardo da Chartres si sforzasse di conciliare Pla¬ tone e Aristotele. ’“) Vedi la fonte più sopra, nota 68. “*) Poiché, se H. Bitter, che sopra Gualtiero da Mortagne, Adelardo da Balli ecc. ci dà notizie, in parte prive della necessa¬ ria precisione, in parte addirittura erronee, vuole senz’altro riven¬ dicare a Gauslenus lo scritto De generibus et speciebas, per indurci  e mentre da un lato già molto avanti abbiamo veduto (Sez. prec., nota 175) cbe anche il realista Ottone da Cluny si serviva di una espressione analoga, e anzi an¬ che Giovanni da Salisbury sembra riconoscere in Gau- eleno un realista (il che tuttavia non ha forse grande importanza: v. sopra le note 70 e 85), d’altro lato può darsi che soltanto la separazione degli universali da¬ gl’individui singoli sia per noi il principale motivo che c’induce a raccostare la tesi di Gausleno alla teoria della indifferenza: e a conferma di ciò potrebbe fors’anche valere il fatto, ch’egli ha promosso il passaggio alla teo¬ ria nominalistica della « mancries » (v. sopra la nota 68). Allora avremmo qui una ripetizione di quel che fu già affermato, a proposito dei primi inizi di una formazione di contrastanti tendenze dalla parte dell’indirizzo nomi¬ nalistico liT )Lo scritto anonimo de generibus et specie- bus: punto di vista del suo autore: a) critiche ad al¬ tre soluzioni del problema degli universali], — Ma se, relativamente agli universali, l’ordine al quale dobbia¬ mo dar la preferenza (v. sopra la p. 208), ci porta a prender in esame le vedute di AEelardo, come pure di Gilbert de la Porrée e di Giovanni da Salisbury, sola¬ mente qui appresso, in connessione cioè con la totalità della loro dottrina, — per il momento ci rimane da con¬ ati ammettere quest’attribuzione non basterebbero le poche parole di quel l'unica fonte che possediamo intorno a Gauslenus, neanche qualora esse fossero in armonia con le vedute dell’autore dello scritto Do gen. et spec. Ma che un tale accordo sia molto dubbio, può risultare da quanto dovremo ora subito dire, a proposito di quello scritto anonimo [che invece oggi si tende ad attribuire ap¬ punto a Gauslenus o a un discepolo di lui. Del Ritter v. la 3“ parte della già cit. St. d. fil. cristiana, p. 381-6 (Allei, da Bath) e 397401 (Gualt. da Mortagne)]. Cioè il Pseudo-Rabano (Sez. precedente, nota 153) e quel co,i detto Jepa (ibid., nota 170) si sono espressi, intorno al con¬ cetto di genere, in maniera affatto simile. CABLO PRANTL siderare un unico scrittore ancora, e questi è l’autore sco¬ nosciuto dello scritto «De generibus et specie- bus» liS ), il quale ci mostrerà taluni punti di contatto o di affinità con parecchie delle opinioni menzionate «in¬ ora. In origine il lavoro, nel suo complesso, si presen¬ tava certo come ima monografia «De divisione » (cfr. le note 118-128), assolutamente alla stessa maniera dello scritto omonimo di Abelardo (v. appresso le note 277 e 353 ss.), e, come in principio del testo da noi con¬ servato si tratta ancora della questione delle parti ori¬ ginarie di ima totalità, così anche qui l’Autore, altret¬ tanto colto quanto acuto, ha poi preso occasione, dalla discussione intorno alla divisione del genere, per inter¬ venire nella disputa intorno agli universali, e lumeggiando criticamente le opinioni degli altri, e ancora esponendo le ragioni delle sue proprie vedute 149 ). Per prima cosa combatte alla spiccia il nominalismo, con l’argomento che le parole in generale non hanno un essere, poiché ciò che si genera soltanto per suc¬ cessione temporale, non può costituire un tutto unita¬ rio: ima osservazione, questa, che è volta appunto, per 14 “) Del libro, edito dal Cousin ( Ouvrages inédits d'Abélard, p. 507-550) di su un manoscritto di St. Gerniain, manca il principio; e il titolo, che è invenzione dello «tesso Cousin, si può forse con¬ tinuare a adottarlo, ma certamente fatta eccezione per l’aggiunta «Petti Abelardi » ; poiché, che nel suo complesso non sia un’opera di Abelardo (v. sopra la nota 49), se ne sarebbe dovuto accorgere anche il Cousin; la cosa appare manifesta non soltanto da parti¬ colarità stilistiche (p. es. Fespressioni « Attende » o « Solutio », intercalate dove si tratta di risolvere obiezioni, o ancora, il carat¬ teristico termine « rationabile ingenium », clic l’Autore mostra di prediligere, ecc.), ma anche da intrinseche divergenze che modi¬ ficano la teoria stessa, e si acuiscono persino in forma polemica. Sopra questo punto, a scanso di ripetizioni, mi limito a rinviare alle note seguenti, 150, 167, 168, e particolarmente 171, dove si vedrà addirittura designata come « ridicola » una opinione che è di Abelardo. ’*) Con lo studio accurato di questo scritto, potrebbero forse venir meno del tutto le censure enunciate a suo carico da H. Rrr- ter (VII, p. 363), che lo giudica malcostrutto e oscuro. quanto in essa si attiene alla funzione del pensiero nel giudizio, anche contro le idee di Abelardo (v. appresso la nota 315) 15 °); ma poi la relazione tra materia e for¬ ma, dominante nel passaggio dal genere alla specie, neanche sarebbe già assolutamente possibile esprimerla con parole, poiché mai ima parola è materia di un altra parola 151 ). D’altra parte, l’Autore combatte anche il realismo di Guglielmo da Champeaux, poiché se l’universale, in tutto quanto il suo contenuto, viene individualizzato nell’individuo (nota 105), non soltanto questo mede¬ simo contenuto dovrebbe pur trovarsi da capo nello stesso tempo tutto quanto in un altro individuo 152 ), ma dovrebbero altresì spettare a tutti gl’individui anche le proprietà varianti o transitorie 153 ), e nioltre nel concetto del genere si troverebbero poi simultaneamente anche gli opposti 154 ). E ugualmente egli assume più oltre un atteggiamento m ) Cousin, loc. cit., p. 523: ltem voces nec genera sunt nec species nec universales nec singulares nec praedicatae nec subjectae, quia omnino non sunt. Nani ex his, quae per successionem fiunt, nullum omnino totum constare, ipsi qui hanc sententiam tenent, nobiscum credunt. Quemadmodum statua constai ex aere ma¬ teria, forma autem figura, sic species ex genere materia, forma au- tem differentia (v. la nota 160 s.), quod assignare in vocibus im¬ possibile est. Nam cum animul genus sit hominis, vox vocis nullo modo est altera alterius materia. m ) p. 514: Quod si ita est, quis polest solvere, quin Socrates eodem tempore Romae sii et Athenis? Ubi enim Socrates est, et homo universalis ibi est, secundum totani suam quantitatem infor- matus Socratitate.... Si ergo res universalis, tota Socratitate affecta, eodem tempore et Romae est in Plutone tota, impossibile est, quin ibi etiam eodem tempore sii Socratitas, quae totani Ulani essentiam conlinebat. Ubicumque autem Socratitas est in homine, ibi Socrates est: Socrates enim homo Socraticus est. Ibid. Il passo si trova citato già più sopra, n. 129. ”*) p. 515: Quam statim enim rationalitas illam naluram tangit, se. animai, tam statim species efficitur, et in ea rationalitas funda- tur. llla ergo totum informat animai.... Sed eodem modo irrationa- lilas totum animai informat eodem tempore. Ita duo opposita sunt in eodem secundum idem. polemico contro la teoria della indifferenza, cosi attac¬ candola nel suo principio, cioè in quel tale concetto del « comune » (nota 134) 155 ), come anche contraddicendo sia la opinione, che i sostenitori di quella teoria profes¬ sano, relativamente al concetto collettivo (collidere, nota 136) 15 “), sia del pari la conseguenza, che si ricava, e che consiste nelTobliterarsi della differenza tra univer¬ sale e particolare 157 ). [b) soluzione da lui stesso proposta ]. — La sua pro¬ pria opinione traspare già, in primo luogo, dov’egli tratta della divisione all’infinito (note 126 s.), e rico¬ nosce che una totalità può ancora continuar a sussistere, quand’anche una sua parte perda la propria forma e subisca, quanto alla materia, ima diminuzione 158 ), — e cosi pure particolarmente, in secondo luogo, dov’egli esprime la idea, che due punti non vengono ancora a formare una linea, se non c’è la cooperazione di una energia creatrice unitaria (una creatura ) 15B ). Anche nella p. 519: Ncque enim Socrnles aliquam naturarti, quarti ha- beat, fiatoni communicut, quia neque homo qui Socrales est neque animai, in aliquo extra Socratem est. !M ) p. 520: Socrates.... lumen nullo modo de pluribus colligitur, quia in pluribus non est. Già questo dovrebbe renderci circospetti, nell attribuzione di tale scritto a Gausleno: ma v. appresso la nota 162. 15t ) P- 521: Al vero nec particuluritas nec universalitas in se transenni. Namque universalitas potest praedicari de particularitate, ut animai de Socrate vel Platone, et particularitas suscipit praedi- calionem universalitatis ; sed non ut universalitas sit particularitas, nec quod particolare est, universalitas fiat. [Queste parole fan parte di una eitaz. da Boezio, ad Ar. Praed., I, p. 120; PL, 64, 170]. P- 510: Non sequitur « si hic asser est, et medietas hujus asseris est»; posset enim destrui medietas,.... non quanlum ad to¬ tani ejus massam, sed quanlum ad formam, et tamen remanentibus ejus aliquibus particulis non destrueretur hic asser, quoniam me- dietatis ejus materia, forma tantum pereunte, tota non periret. P- 511 : Si quuelibet duo puncta proxime juncla faciunt bìpunctalem lineam, quue sit una creatura, tunc habebit unum fundamentum; sed una atomits non erit ejus fundamentum; jam  polemica contro un emendamento [proposto per sfuggire alle difficoltà] del realismo, egli risolutamente si attiene alla similitudine derivata da Porfirio (Sez. XI, nota 44), e indi passata nelle teorie di Boezio (Sez. xn, nota 97) : la similitudine, cioè, dell’opera d’arte, sic¬ ché per lui il genere è la materia e la differenza è la forma, ma il prodotto stesso, cioè la specie, nella quale la materia è il sostrato della forma (formarti sustinet ), viene considerato come una unione permanente, e desi¬ gnato anche con il termine « materiatum » 160 ) ; in luogo di questo termine, d’altro canto, trovasi pure, ferma re¬ stando rigorosamente la idea di parte, la caratteristica espressione « diffinitivum totum » J01 ). Ma un più preciso fondamento a questa sua opi¬ nione egli lo dà nella maniera seguente: Nell’individuo una certa «essentia», cli’è la materia, porta in sè ( su¬ stinet ) la forma della individualità, ed è composta con essa, dal che appunto si genera la diversità degl’indi¬ vidui singoli; ora, proprio questa essenza, in quanto la si trova non soltanto in uno o nell’altro individuo, ma nello stesso tempo anche, come materia, in tutti quanti insieme, è la specie, la quale pertanto, per molte che sieno le essenze singole ( essenrìaliter multa), viene tutta¬ via designata come concetto collettivo ( collectio) con le enim esset bipunctaliter linentum.... p. 513 : postarlius dicere quod ipsa bipunctaìis linea fundutur in illis duabus alomis ut in sub- jeclis, non in subjecto. ’*’) p. 516: Sed dico: facta est species ex genere et substanliali differentia, et sicut in statua aes est materia, forma autem figura, similiter genus est materia speciei, forma autem differentia. Materia est, quae suscipit formam. Ita genus in ipsa specie constituta for¬ mimi sustinet. Nani et postquum constituta est, ex materia et forma constai, i. e. ex genere et differentia.... p. 517: ontne materiatum sufficienter constituitur ex sua materia et forma. ’") p. 522: Speciem ex genere et substanliali differentia con¬ stare, ut statua ex aere et figura, alidore Porphyrio (in Boezio, ad Porph. a se trinisi., IV, 11, p. 88 fed. Brandt, p. 268; PL, 64, 128]), constat. Itaque pars est speciei materia et similiter differentia. Ipsa vero species est totum diffinitivum eorum. parole « un universale », ovvero « una natura », press a poco come anche il concetto di «popolo» abbraccia molti individui 162 ); non già viene cioè individualizzata in ciascun individuo singolo la specie tutta quanta, bensì solamente una sua parte, cioè appunto una sola siffatta essenza, la quale non è già identica alla totalità che co¬ stituisce la specie (concollectio), ma ha con essa in co¬ mune soltanto la simile composizione o la simile ener¬ gia creatrice (similis compositio, similis creatio ): onde neanche la similitudine con il popolo o con un eserci- cito calza perfettamente, sussistendo tra l’essenze smgole e la loro totalità, data quella somiglianza nella produ- zione, una maggiore identità di essenza che non tra un soldato e l’esercito; tutta questa relazione si presta in¬ vece meglio a esser paragonata con il caso di una massa di metallo piuttosto grande, la quale in una delle sue parti può esser lavorata in forma di coltello, e nello stesso tempo, in un’altra sua parte, in forma di stile 163 ). '«■-) p. 524; Quid nobis polius lenendum rideatur de his, Deo annuente, amodo ostendemus. Unumquodque individuimi . ex materia et forma compositum est, ut Socrates ex homine materia et Socra- titate forma; sic Plato ex simili materia, se. homine, et forma di¬ versa, se. Platonitale, componitur; sic et singuli homines. Et sicut Socratilas, quae formaliler constituit Socratem, nusquam est extra Socralem, sic illa hominis essentia, quae Socralitatem sustinet in Socrate, nusquam est nisi in Socrate. Ita de singulis. Speciem igitur dico esse non illam esscntiam hominis solum, quae est in Socrate, vel quae est in aliquo alio individuorum, sed tolam illam collectio- nem ex singulis tdiis [5251 hujus naturae conjunc.tam. Quae tota colleclio, quamvis essentialiter multa sit, ab auctoritatibus (cioè da Porfirio e Boezio) tamen una species, unum universale, una natura appellarne, sicut populus (v. la Sez. precedente, nota 153), quamvis ex multis personis collectus sit, unus dicitur. '«) p . 526: Speciem esse dicimus multitudinem essentiarum in- ter se similium. ut hominem.... lllud tantum humanitatis informatur Socratitate. quod in Socrate est. Ipsum autem species non est, sed illud quod ex ipsa et caeteris similibus essentns conficttur. Attende. Materia est omnis species sui individui et ejus formam suscipit, non ita scilicet, quod singulae essentiae illius speciei informentur illa forma sed una tantum, quae tamen.... similis est compositioms, prorsùs cum omnibus aliis ejusdem naturae essenliis.... Neque.... diversum judicaverunt [se. auctores] unam essenJiam illius con- [Ora questa medesima relazioue si ripete per il con¬ cetto di genere, essendo ciascuna delle esscntiae, appar¬ tenenti alla totalità di una specie, composta a sua volta di una materia e di una forma, con questa sola diffe¬ renza, che cioè la forma qui non è più esclusivamente quella sola della individualità, ma involge essa mede¬ sima in sè la pluralità delle differenze specifiche, cioè sostanziali; ma quella materia come tale appare indif¬ ferenziata ( indifferens ) in quelle essenze singole, che, come materia, stanno a fondamento della formazione della specie, e si chiama ora genere la multitudo dell’es- senze, che possono far da sostrato (sustinere, recipere) alle differenze specifiche 164 ). E lo stesso può infine ripetersi anche relativamenteal « primo principio », perchè le essentiae appartenenti a un genere, consistono a lor volta di materia e forma, e sono, quanto alla materia, parimente indifferenziate colleclionis a tota collectione, sed idem, non quod hoc esset illud, sed quia similis creationis in materia et forma hoc eral cum ilio.... Massam aliquam ferream, de qua fuciendi suiti cultellus et Stylus, videntes, dicimus: hoc fulurum materia cultelli et styli, cum tàmen nunquam tota suscipiut formam alterulrius, sed pars styli, pars cultelli.... (p. 527) Major.... identitas alicujus essentiae illius collec- tionis ad totum, quarti alicujus personue ad cxercitum; illud enim idem est cum suo tato, hoc vero diversum. — Inoltre p. 535: Hoc enim habet nostra sententia, quod animai illud genus in parte sui suscipit rationalilalem et in parte irrationalitalem. 1M ) p. 525 : Item unaquaeque essentia hujus collectionis, quae humanitas appellalur, ex muteria et forma constai, se. ex animali materia, forma autem non una, sed pluribus, rationalitate et mor- talitate et bipedalitate, et si quae sunt ei aliue substantiales. Et sicut de homine dictum est, se. quod illud hominis, quod sustinet Socru- titalem, illud essentialiter non sustinet Platonitatem, ita de animali. Nam illud animai, quod formas [Cousin corregge: formami huma. nilatis, quae in me est, sustinet, illud essentialiter alibi non est, sed illi indifferens est in singulis materiis singulorum individuorum animalis. Hanc itaque mullitudincm essentiarum animalis, quae singularum specierum animalis formas sustinet, genus appellandum esse dico: quae in hoc diversa est ab illa multitudine, quae speciem facit. Illa enim ex solis illis essentiis, quae individuorum formas sustinent, collecta est; ista vero, quae genus est, ex his, [quae] diversurum specierum substantiales differentias recipiunt. C (indiff erentes ), mentre recano in sè, come loro forma, le differenze del genere, e così ancor una volta si ar¬ riva a una multiludo di essenze, come al generalissi- mum, del quale infine può ancora dirsi soltanto, che la sua materia è la « mera essentia » o la sostanza stessa, mentre la sua forma è la susceptibilitas contrario- rum 165 ). Così l’Autore, con il suo caratteristico potenziamento o incastramenti della essenza, si accosta tuttavia ancora molto dappresso a Guglielmo da Cliampeaux; pertanto non si può in verità dire di lui che, come Gauelenus, ab¬ bia staccato l’universale dalPiudividilo (v. le note 145 s.), ma nello stesso tempo, mediante i concetti di collectio e d’indifferens, egli viene a contatto con la teoria della indifferenza, mentre quei concetti stessi, hanno certa¬ mente per lui, in grado di gran lunga maggiore, una va¬ lidità obbiettiva. [c) dottrina del giudizio ]. — Ma tanto più caratte¬ ristica è perciò la forma che deve qui assumere la con¬ cezione della funzione logica subbiettiva, cioè del giudi¬ care, nei riguardi degli universali, mentre d’altra parte, soltanto con la enunciazione del modo di vedere dell’Au- ’*) Ibid.: Item, ut usque ad primum principium perducalur, sciendum est, quod singulae essentiae illius multitudinis, quue ani¬ mai genus dicitur, ex materia aliqua essendo corporis et formis substantialibus, animatione et sensibililale, constat, quae, sicut de animali diclum est, nusquam alibi essentialiler sunt; sed illae in¬ differentes jormas susdnent omnium specierum corporis. Et haec taliurn corporis essentiarum multiludo genus dicitur illius naturae, quam ex moltitudine essentiarum animalis confectam diximus. Et singulae corporis, quod genus est, essentiae ex materia, se. aliqua essentia substandae, et forma, corporeitate Constant. Quibus indif- ferentes essentiae incorporeitalem, quae forma est, species, susti- nent ; et illa taliurn essentiarum multiludo substantia generalissimum dicitur, quae tamen nondum est simplex, sed ex materia mera es¬ sentia, ut ita [526] dicam, et susceptìbilitate contrariorum forma constattore sopra questo punto, le idee di lui trovano la loro esplicazione compiuta. Egli si lamenta della mancanza di una definizione della relazione predicativa; poiché intenderla senz’altro come inerenza obbiettiva, è un uso non giustificato, a prescinder dal fatto che la inerenza stessa la si può prendere soltanto nel senso sumdicato di divisione 166 ) : e come ci si deve guardare dalle con¬ seguenze della teoria della indifferenza, è in generale da respingere la identificazione di praedicari e di esse, dal punto di vista del contenuto definitorio della specie 187 ) : — mia osservazione, questa, che certamente è rivolta con¬ tro Abelardo (v. appresso la nota 318), e più che mai assume il carattere di una espressione specificamente polemica, allorquando, prendendosi posizione, come non si può disconoscere, contro una teoria di Abelardo (re¬ lativamente ai « sumpta»: v. appresso la nota 321), si afferma che tutte quante le denominazioni universali, sieno aggettivi eieno sostantivi, si riferiscono indiret¬ tamente a forme obbiettive 166 ). Insomma, il giudizio ) p. 526: Audi et attende; praedicari quidem inhaerere di¬ clini. Usus quidem hoc habet; sed ex auctoritate non imeni ■ con - cedo tamen; inhaerere autem dico humanitatem Socrati, non quod tota consumatili- in Socrate, sed una tantum ejus pars Socratitate mformatur (v. la nota 163). - p. 531: Nasse debes quod nusquam, quid sii praedicari, piane dicit auctoritas. Nani quod solet dici quod praedicari est inhaerere, usus est ex nulla auctoritate procedens. , p ; 21 '■ ltem «pec'es in quid praedicatur de individuo (que¬ st abbreviazione «praedicari in quid» la incontriamo qui per la prima volta - efr. la nota 282: cioè nella traduzione di Boezio [in  p. 527 8.: Sed, dicuril^.. « ralionale » alterius nomen est, prò impositione scilicet animalis, et aliud est quod principaliter significai, se. rationalitas, quam praedicat et subjicit; t homo non asserisce mai che quel dato soggetto e quel dato pre¬ dicato, bensì asserisce solamente che il soggetto va anno¬ verato fra quell’ essenze, che o son costituite da una de¬ terminata materia, o sottostanno a una determinata forma 168 )! pertanto (e ad avvalorar le sue parole 1 Au¬ tore può persino richiamarsi qui a un passo isolato di Boezio) il nome che significa una specie, viene dato ap¬ punto soltanto ai rispettivi individui singoli, ma non mai alla specie stessa 170 ); e per tal riguardo si distin¬ guono i sostantivi e gli aggettivi, in quanto che quelli si riferiscono alla materia e questi alla forma, sicché chi parlasse di un accidentale, cioè di un « adiacens » — ma è proprio ancora Abelardo che fa così : v. ap¬ presso le note 283 s. —, commetterebbe il più grande degli errori m ) ; ma se così stanno le cose per quel che concerne il significato originario dei termini, modi di dire, come p. es. « Uomo è un concetto di specie », sono soltanto espressioni traslate, imposte dalla necessità 17 ). vero nihil aliud vel nominai vel significai, quam illam speciem. Absit hoc; imo, sicut « Tallonale » et « homo», sic et quodlibet aliud universale substantivum alterius nomen est, per impositionem quidem ejus, quod principaliter significai. V. g.: rationale vel al¬ bum imposi timi luit Socrati vel alicui sensilium ad nommundum propler formas, i. e. rationalitalem et albedmem, quas principali- ter significant. . . . ’*) p. 528 : Itaque cimi dicitur « Socrates est homo », lue est sensus «Socrates est unus de materialiter constitulis ab homine».... Sicut cum dicitur « Socrates est ralionalis », non iste est sensus « res subjecta est res praedicata », seti « Socrates est unus de sub- jectis huic jormae, qvae est rationalitas ». ... "») Ibid.: Quod aulem « homo » impositum sit lus, quae ma¬ terialiter consliluiinlur ab homine, i. e. individuis, et non speciei, dicit Boethius, in commentario super Calegonas, his verbis etc. (v. BOEZIO liti ir. praed.. II. p. 129); cfr. la Se-/., precedente, nota 121. m ) Ibid.: Nomina illa tantum dicunlur substantiva, quae im- ponuntur ad nominandum aliquem propter ejus malenam.... vel.... expressam essentiam .; adjectiva vero Ma dicuntur, quae ,mpo- nuntur alicui propler formam, quam principaliter significai.... I\a quod dici solet, adjectivum esse, quod significai accidens, secun- dum quod adjacet, et substantivum, quod significai essentiam, ut essentiam, ridiculum est vel sine inlellectu. '”) p. 529: Sciendum est ergo: vocabula, quae imposita sunl  [d) propensione al platonismo ]. — Già da ciò è ma¬ nifesto che l’Autore (in antitesi con Abelardo) discono¬ sce il valore effettivo della sintesi che ha luogo nel giu¬ dizio, e, secondo lo spirito del platonismo, isola le pa¬ role tutte quante, come imagini subbiettive di esem¬ plari obbiettivi: pensiero che non potrebb’enunciarsi con maggior chiarezza di quel ch’egli stesso fa, quando p. es. dice : « razionale » non è il nome di ciò che, come soggetto, sottostà al predicato della razionalità, bensi è il nome di una entità, che vien costituita dalla « razio¬ nalità » 17S ) ; anzi, a questa maniera, bisogna ch’egli con¬ cepisca il rapporto predicativo in guisa così indetermi¬ natamente generica, ch’esso si trovi in generale a coin¬ cidere con il prodursi del termine « significante », ed es¬ sendo quest’ultimo momento, per il soggetto e per il predicato, il medesimo, la differenza tra uno e l’altro si riduce a essere puramente esteriore e accidentale; ma, a tal proposito, l’Autore si appoggia a un passo di Pri- sciano, dove, in base alla terminologia generalmente adot¬ tata dagli Stoici (v. la Sez. VI, note 112 ss.), le parti- celle vengono denominate « syncategoreumata », dal che si può argomentare che allora tutte le altre parole sono appunto categoreumata, cioè predicati 174 ). rebus propter aliud significandum principaliter circa eas, quando- que transjerunlUT ad agendum de principali signi ficatione ; ut cum.... translative .... dicilur « rationale est differentia » et « album est spe- cies coloris i, nihil aliud intclligo quam « ralionalitas » et « al- bedo ». Sic.... cum dicilur « homo est species ».... Concedimus ita- que, hanc translationem necessitate fieri. *”) p. 547: Rationale enim non est nomen subjecti rationalitatis, sed rei quae a rulionalitale constiluitur, quae non est ipsum animai. m ) p. 531: Mihi autem videlur, quod praedicari est principa¬ liter signi ficari per vocem praedicatam; subjici vero, significavi principaliter per vocem subjectam, et hoc quodammodo videor ha- bere a Prisciano, quod in tractatu orulionis, unte nomen (cioè nel capitolo che precede la trattazione del Nomen), dicit praepositiones et conjunetiones « syncategoreumata », i. e. consignificantia. Scimus autem « syn » apud graecos « cum » praepositionem [532] signifi¬ care, « categorare » autem « praedicuri » ; unde « categoriae » « prne- 1S. — Questi syncategoreumaia die, presi dalla grainma. tica, son qui messi in campo di passata, e che noi in questa Sezione incontreremo ancora qualche volta (note 206, 348, 620), esercitarono più tardi, a partire da Psello (Sez. seguente, note 9 e 92) e da Pietro Ispano (Sez. XVII, nota 256), un influsso estremamente esteso: ma questo è im argomento che, com’è ben naturale, dob¬ biamo riserbare al seguito della presente esposizione. Invece la conseguenza che da ciò ricava qui il nostro anonimo Autore, conduce a un platonismo, che deve farci ricordare da vicino lo Scoto Eriugena. Se cioè « praedicari », a questa maniera, è la stessa cosa che « significari principaliter », la funzione dell’in¬ telletto umano trapassa in quelle forme e maniere di essere obbiettive, che stanno a fondamento degl’indi¬ vidui, poiché il concetto si genera (intellectus consti - tuitur, generante) per mezzo della parola, in vista del- l’universale obbiettivo 1 ”), e anche la inerenza, se con essa si vuole, secondo l’abitudme tradizionale, identi- beare la relazione predicativa, ha tuttavia appunto esclusivamente mi valore obbiettivo nel processo del divenire delle cose ”•). Insomma si tratta soltanto delle irifcantLl d ,"" ur - S .' td . em est «eategoreumata» quoti «si- fótér» Til n d0m p « praedicari » quoti « significar, principa- vol i , S41 s „ ,n SCUN ',°> II, 15 [ed. Hertz, voi I p. 54] suona così: Partes ignur orationis sunt secundum dudecticos dune, uomo,, et verbum, quia hae solae eliam per Te coniunctae plenum facium ortUionem, alias attieni partes « syncate- goremata », hoc est consignificantia, appellabant). WiJJV i" 1 erl * « praedicari. » quoti « si.gnificari princi¬ pali ’ q i SO r‘ m s, Z m J ìc ationem recepit Aristoteles, juxta iUud albani mi significai, msi qualilatem (Cai., 5: v. la Sezione IV nota 476; cosi si storceva qualsiasi testo a favore del proprio perso’ " • m °'!° dl V e dere) : n Cu m enim album «subjectum albedinis » nominando significa, illuni solam significationem notaviI. Aristole- les m qua mtellectus constituitur per vocem.... Sicut ensis et g/a- diuseumdem generant mlcllcelum, ita ilio duo nomina jacerent. ) p. 53.1: Quod si «praedicari» quidem prò « inhaerere » ac- liPl ì q “° d ?* c ° ncedl ™us, ncque enim bonum usimi abo- e lolumus sic dicendum est: omms natura, quae pluribus in¬ olierei indivulins materuiliter, species est. nature » unitarie, che stanno a fondamento delle cose: e, quando il concetto di natura viene ridotto alla similis creatio (v. sopra la nota 163) o rispettiva¬ mente, per mantener la separazione da altre formazioni, alla dissimilis creatio m ), a ciò si connette una teoria platonico-mistica della Creazione, la quale qui non c’in¬ teressa 17S ). Ma è da considerare, a questo proposito, che, da un lato, secondo è stato detto più sopra, vien a essere posta massimamente in rilievo, per la predicazione, la distinzione tra essentia materialis ed essendo forma- lis 17 °), come pure, dall’altro lato, che nel rispetto onto¬ logico viene attribuita una efficienza alla forma soltan¬ to 1S0 ) ; per tali ragioni va combattuta quella opinione — la quale del resto appartiene del pari ad Abelardo (v. appresso la nota 306) — secondo la quale il sommo genere ( genus generalissimom) sarebbe la materia stessa, e pertanto le forme sarebbero le sue specie prossime 181 ); OT ) 1 Ititi. : Hic aulem tantum agitur de naturis. Si uutem quae- ras, quid appellem naturimi, exaudi: naturam dico, quicquid dissi¬ milis crealionis est ab omnibus, quae non sunt vel illud vel de ilio, sive una essentia sii sive plures, ut Socrutes dissimilis crea- tionis ab omnibus, quae non sunt Socrates. Similiter et homo spe- cies est dissimilis creationis ab omnibus rebus, quae non sunt illa species vel aliqua essentia illius speciei. Anche la obiezione relativa alla f enice, la quale esiste soltanto in esemplare unico (v. la Sez. XII, nota 87), viene presa in ronsiderazionc, ma (p. 534) la si rimuove, con la osservazione che la opposizione tra materia e materiatum (v. sopra la nota 160) dev’essere tuttavia mantenuta nella sua uni¬ versalità. ™> p. 538-540. *'") P- 548 s. : Concedo, rationulilatem praedicari de homine in substantia, ut animai, sed illud ut formalem essenliam, aliud [Cou- sin corregge: animali vero ut materialem. Vere attieni assero, imi- Inni simpUcem jormam de alio praedicari substanlialiter, quam de his, quae formaliter constiluit. P- 549: Non est diversus effectus materiarum, imo forma- rum.... Apparvi, quod ille effectus sequitur formas, et non maleriam. m ) p. 546: .... ne concedere cogamur, et muteriam substantiae generalissimum esse genus, et susceptibilitatem contrariorum, et quaslibet simpliccs formas esse species.... Respondendum est, quod in diffinitione generis intelligcndum est, id quod genus est debere 276 e questo perchè, come s’è veduto (nota 165), già nel sommo genere stesso l’Autore ravvisa un prodotto di ma¬ teria e forma, e perciò per queU’ultima materia su¬ prema, cioè per la « mera essenza », altro predicato non gli rimane all’infuori dal puro essere, vale a dire « est » 182 ) ; precisamente alla stessa maniera che anche (v. la nota 170) quella essenza, la quale, come materia, sta a fondamento degl’individui, non ha di già essa stessa un nome che sia dato a lei quale predicalo, per¬ chè invece mi tale nome collettivo viene predicato sola¬ mente dei rispettivi individui 183 ). Ma quest’ultima considerazione viene ora estesa an¬ che alle forme, cioè alle differenze specifiche; in un lungo dibattito, d’intonazione polemica estremamente accentuata, contro la tesi usuale (Sez. XI, nota 44, e Sez. XII, nota 87), si dimostra cioè la impossibilità che la differenza specifica venga a cadere sotto la categoria della qualità, perchè allora la qualità dovrebbe scom¬ porsi in due specie supreme, ciò sono la differenza e la qualità residua, ma ciascuna di esse a sua volta potreb- b’essere costituita solamente mediante mia differenza specifica, e quest’ultima d’altra parte dovrebbe pure ve¬ nir a cadere parimenti sotto la categoria delle qualità, il che non le è possibile in nessuna maniera, cioè nè come genere nè come specie o sottospecie; e così anche, nemmeno in un’altra categoria ci può essere poi ima dif- praedicari de pluribus speciebus proxime sibi supposids, quod, quia deest illi maleriae [Cousin corregge: materia], idcirco non est genus. *) Ibid.: Possumus edam dicere, quia illa mera essendo ad interrogadonem factum per quid convenienler non respondetur.... Si ergo quaeritur «quid est [547] substantia », respondeamus «est». Neque enirn potest responderi per nomen « sub stantia »; namque non est nomen nisi materialorum a substantia, vel ipsiits substan- dae. Per transladonem supervacue responderi manifestum est. “’) p- 534: Opponetur: illa essendo hominis, quae in me est, aliquid est aut nihil.... Respondemus, tali essentiae nullum nomen esse dalum, nec per imposidonem nec per transladonem.ferenza specifica, poiché ciascuna specie della qualità (e a queste la differenza stessa dovrebbe ben appartenere) potrebb’essere soltanto una differenza specifica nell’àm¬ bito della qualità stessa 18, II, p. 98; PL, 199, 640]: Sunt autem dubitubilia sapienti quae.... suis m ulramque parlem nituntur firmamenti. Talia.... sunt, quae quaerunlur.... de materia et motu et principiis corporum. de progressu multttudims et magnitudini sectione an terminos omnino non habeanl (v. sopra le noie 125 ss.). de tempore et loco de numero et mattone, de codoni et diverso, in quo plurima attrilio est, de dividilo et individuo, de substanlia et forma vocis, de statu universalium , de usu et fine orluque virlulum eie. logica, la tendenza propria di quell’epoca; con ciò di¬ remmo di poter in pari tempo rendere compiuta la co¬ noscenza del terreno, sul quale si esercita la operosità tal proposito, anzitutto le Categorie, di fronte alle quali alcuni che ne hanno trattato, hanno assunto invero di Abelardo. [a) sopra le Categorie]. — Per quel che riguarda, a un atteggiamento svalutativo 18 “), già quei concetti pre¬ liminari di aequivocum, univocum e denominativum (v. sopra la nota 93) hanno dato motivo a discrepanze ™°). Ma poi la contrapposizione di sostanza e accidente (Sez. XII, nota 90) fu da taluni contestata, da altri invece o giustificata, limitatamente alle cose naturali concrete, o riferita alla mera relazione predicativa (cfr. la nota 186), o anche, con uno scambio tra forma e accidente, tra¬ sportata nel concetto di totalità costituita da parti m ). *'"l Lo stesso, Metal., IV, 2-1 ( Opp ., V), p. 181 [ed. Velili, p. 191J: Alti detrattimi Catliegoriis IPL, 199, 930J. *) lbid-, III, 2, p. 120 [ed. Wehb, p. 124; PL, 199, 893]: Ex opinione plurima idem principtditer significala denominativa et ca a quibus denominuntur (un’affermazione come questa, può es¬ sere stata fatta esclusivamente da segnaci dell'indirizzo realistico). — Arali. . Dialecl., p. 481 : Alee aequivoca ex sola debent praedU catione judicari ; sed nec unìvoca propler eamdem communionis causarti.... Sani autem nonnulli, qui.... non ad ca, quibus est impo- siturn vocabulum acquivocum et de quibus enuntiatur, respiciunt; imo ad ea, ex quibus est imposilum ; ut « amplector », cum ad eamdem personam, amplectenlem simul et umplexam. acquivocum dicatur, secundum diversarum proprietatum diffinitioncs, uclionis scilicet et passionis, non ad personam commune dicatur, sed ad prò- prietales, quas aeque designat. M Pseudo-Abael. De inlell. (riferito dal CousiN, Fragments piti- losophiques, Parigi, 1840, p. 493 [Abael. Opera, II, p. 753]): Quae- ritur, un linee divisin, leonini qttae sunt, aliud est substantia, uUud est accidens », sit sufficicns. Quod si concedatur, tunc, cum Tulionuli- tas sit, opnrtet esse substantiam vel accidens. Si autem accidens fuerit, potesl adesse et abesse....; quod falsum est.... Quidam dicunt, quod de quocumque veruni est dicere « istud est una res», de eodem ve¬ runi est dicere, esse substantiam vel accidens. Hi tamen non conce¬ duti/, rem imam debere dici, quod per opus hominum liabet exi- slentium, ut domus, nec quod habet pnrtcs disgregalas, sicut popu- Anche la disamina delle singole categorie diede pa¬ recchia materia a controversie, le quali non varcarono tuttavia il limite di quel che si trovava negli scritti di Boezio. Così, per quel che riguarda la relazione, la di- vergenza, che già si era manifestata fra Platone e Ari¬ stotele, rispetto al modo d’intendere questa categoria, si era trasmessa, attraverso i commentatori (Sez. Ili, nota 49; IX, nota 31; XI, nota 71), sino a farsi sentire anche nella discussione che s’incontra in Boezio (Sez. XII, nota 93), e pertanto questo punto controverso torna a com¬ parire anche qui I92 ). Si disputava altresì, se i concetti di somiglianza o di uguaglianza non sieno da ascrivere alla qualità, piuttosto che alla relazione, a quel modo che studiosi isolati assegnavano alla qualità persino la categoria della situazione ( situs) 193 ). Ovvero si metteva hi dubbio che fosse giusto considerare ubi e quando come categorie, dato che son ricavati dai concetti di spazio e di tempo, i quali appartengono alla quantità, e lus.... Alti vero duobus modis dicunl [754] divisionem sufficiente ni esse: praedicatione scilicet, et continentia secundum naluram. Pre¬ dicanone quidem.... v. g.: animalium aliud est rationale, aliud irra- ttonale ; haec divisto est sufficiens praedicatione, quia de quocum- que poterit dici: «istud est animai», de eodem statim consequelur, esse vel rationale vel irrutionale. Continentia.... ut tale sit exem- plum: « domus alia pars paries, alia tectum, alia fundamentum ».... Accidens tamen ibi large accipitur prò forma. ) Abael, Dialect., p. 201 s.: Quae quidem [ diffinitio ] ab alia in eo maxime diversa creditur, quod itane Aristoteles secundum re¬ rumnaluram protulil, illam vero Plato secundum conslruclionein nominum dedit.... Sunt autem qui quemadmodum Platonicam diffi- nilionem nirnis laxum vituperata, ila et Aristolelicam nimis strictam uppellant. ' (kid., p. 204: Sunt tamen, qui « acqualis et inaequalis, simi- hs et dissimilis » inter qualitates contrarias recipianl. — p. 208: Hi vero, qui similitudinem potius inter qualitates enumerant, ut Ma- gislro nostro V. (v. la nota 102) piacili t. (La fonte di questa con¬ troversia è Boezio, p. 157, messa a confronto con p. 187 \in Ar Praed., II e III: PL, 64, 219 e 259]). — Ibid., p. 201: Unus, memini, Magisler noster erat, qui positionis nomea ad qualitates quasdam aequivoce detorqueret. sono pertanto in perfetto parallelismo, p. es., con l’av¬ verbio interrogativo « qualiter » 104 ). O, ancor una volta, si domandava quale fosse la corretta subordinazione dei concetti di « morte », o di « sonno », e simili 1B5 ). Op¬ pure si discuteva sul come vada inteso il magis vel mi- nus che compare sovente nelle Categorie, se cioè la gra¬ duazione concerna puramente il sostrato, o puramente la proprietà, o uno e l’altra al tempo stesso 106 ). Li tali occa¬ sioni poteva anche venir fuori la distinzione tra i diversi indirizzi sopra la questione di principio, in quanto che i nominalisti, p. es., designavano il concetto di « ieri » come un Non-essere 1B7 ), o facevan valere il proprio lw ) Ibid., p. 199: Videntur autem nec generalissima esse « Ubi » vel « Quando », eo quod prima principia non videantur. Quae enim ex alio nascuntur, prima non videntur principia, sed ipsa quoque principia habenl; Ubi autem ex loco. Quando autem ex tempore..,, originem ducimi.... Solel autem a multis in admiratione[m] ac quae- si ione [ ni ! deduci, cur magis ex loci vel temporis udjaccntia praedi- camenta innascantur, quum ex adhaerenlia aliarum specierum sire generum. Tarn enim bene « Qualiter » unius nomiti generalissimi videtur, sicut « Ubi » vel « Quando », cujus quidem species bene vel male dicerentur [Cousin: bona vel mala dicereturl, sicut « Quando » heri vel nudiustertius, vel « Ubi » Romae vel Antiochiae [200] esse. La fonte di questa controversia, — oltre che la Sezione riguardante la quantità, e nella quale anzi locus e tempus hanno avuto una speciale trattazione (Bof.zio, p. 146 [in Ar. praed.. Il: PL, 64, 205]), — è in particolare il commento dello stesso Boezio, p. 190: « quando» et «ubi» esse non polesl, nisi locus ac tempus fuerit [in Ar. praed.. Ili: PL, 64, 262], ”“) Ibid., p. 402: Solel autem de morte et vita quaeri, utrum in privalionem et habilum, un potius in contraria recipiuntur. — p. 406: Si.... f in dormiente ], inquiunt, visio esset..., ridere eum oporleret. Si vero caecitas inesset, nunqunm amplius ipsum ridere contingeret. “*) Gilb. Porret. de sex princ., 8 (puhhl. nella ediz. lat. delle Opere di Aristotele, Venezia, 1552, I, f.34) : Dicitur autem « magis et minus suscipere » tripliciter. Aiunt enim quidam secundum ere- mentum vel diminutionem eorum, quae suscipiunt, subiectorum. Aliter autem et olii, ipsa quidem, quae suscipiuntur, in suscipiente diminuì et crescere, annuntiant. Alii autem secundum ulrumque, am- borum diminutionem et augmentationem [cfr. PL, 188, 1268. e la nota 21 di questa Sez.]. w ) Abael. Dinlect., p. 196: Cum.... « Iteri » rei existentis de- signativum non videatur.... Sed fortasse hi, qui magis in speciebus 282 CABLO PRANTL punto di vista, anche in ordine alla relazione e agli op. posti, mentre allo stesso modo operava, dal canto suo, la corrente realistica 19S ). Ma sembra che, più spesso di tutto, si sia parlato della categoria della quantità, già per il fatto che questa of¬ friva la opportunità di passare di nuovo alle questioni concernenti il concetto di parte (note 125 ss.). Mentre i nominalisti intendevano i concetti numerali in modo perfettamente analogo a tutto il resto [ intendi : dei con¬ cetti], e perciò designavano i singoli numeri come spe¬ cie, il cui genere è il concetto stesso di Numero I99 ), ciò era negato dai loro avversari; secondo costoro infatti, mancava nei numeri quella essenziale unità di natura, eh e necessaria per il concetto di specie o di genere, e per conseguenza i numeri vanno semplicemente qualifi¬ cati come espressioni aggettivali di un procedimento collettivo; quest’ultimo poi si applicava altresì a tutti quanti i momenti della quantità, in quanto che a ima realtà sostanziale posson pretendere soltanto i fonda¬ menti semplici della quantità, vale a dire i concetti di rerum naturimi quarn vocabulorum impositionem attendimi, per * ^ Qunmduiji praesentem (idjacenliam designari volunt. ) lbid., p. 392: Quod qitidem multos in hanc sententiam in- duxtt, ut contrarium nomen tantum universalium, non eliam sitigli- larium confiterentur, albedinis quidem et nigredinis, non hujus albedmis vel hujus nigredinis. Sic quoque et relutivum et « priva- lio et habitus » nomina tantum universalium diclini. Relativa qui¬ dem.... tantum universalìa dicebanl ex relatione construclionis. « Ha¬ bitus» quoque et « prie alio » universalium tantum nomina diclini, eo quod in individuis non possimi servaci. — lbid.. p. 398: Quidam talem eum (se. Boethium ) divisionali invilisse dicunl, quod contra¬ ria alia siint genera, alia specialissima. Specialissima vero sic subdi- viduniur, ut cornili alia sub eodem genere, alia sub diversis con- trariis ponantur. ' ') lbid., p. 190: Hi vero, quibus videtur. in speciulibus uut generalibus vocabulis non solimi ea contineri, quae una sunt natu- raliter, sed magis ea, quae substantialiter ab ipsis nominantur, pos¬ simi forlasse et istu (rior i singoli ronrrtli numerali) species appel¬ lare, quum videlicel magis logicum in impositione vocimi sequuntur, quam physicam in natura rerum investigando.  punto, unità, istante, lettera [dell’alfabeto, come suono elementare], luogo, ma tutto il resto si riduce a pure espressioni collettive 200 ); fu altresì da alcuni fatto cenno della differenza che sussiste, rispetto alla divisibilità, fra il concetto di tempo e quant’altre quantità ci sono, di¬ visibili e continue 201 ). [b) sopra la teoria del giudizio in generale]. — Nella teoria del giudizio sembra essere stato spesso com¬ pendiato tutto quanto il contenuto essenziale della lo¬ gica, entro i limiti in cui di questo si faceva uso, sempli¬ cemente per la istruzione degli scolari più giovani; im¬ perocché si riduceva il libro De interpretatione in forma di compendi, di « Introductiones » o di « sumrna artis », ”») Ibid., p. 188 Numentm autem colleclionem unilatum de¬ terminimi....’ I ndo maxime Magistri nostri sementiti, membri, con- firmabut, binarium, ternarium, caeterosque numeros spectes numeri non esse, nec numerimi genus oorum, cujus videlicet res una natu- r,diter non esset. Hae namquc dime unitates in hoc homine liomae habitante, et in ilio qui est Antiochiae consistimi, atque lume bina- riunì componimi. Quomodo una res in natura diceretur, aut quomodo ipsae spatio tanto disluntes imam simili specialem seti generalem na- turam reci pieni? Linde potius numeri nomen et binarli et ternani et caeterorum a collectionibus imitatimi sumpta dicebant [così il codice: ma il C. legge « (Magister noster) dicebal»]. — Ibid., p. 179 s.: Ilarum autem (se. qu.mtilalum) aline sunl simplices, alme compositae. Simplices vero quinque dicunt: punctum scilicet. uni- totem, instans quod est indivisibile lemporis momentam, dementimi quoti est vox individua, simplicem locum.... Ilas autem tantum, quae simplices sunt, Magistri nostri sementili speciales appellabili natu- ras, eo videlicet quod sint unite nuturaliter, quae partibus careni, quae vero e* bis sunt compositae, composita individua dicebat, nec una naturaliter esse....; mugisque eurum nomina.... sumpta esse a collectionibus quibusdam.... ™) Ibid., p. 186: Cimi autem res singulae sua habeant tempora in se ipsis jundata, sua scilicet momento, suas horus, silos dies, rei menses, vel annos, omnes lumen dies simul existentes, vel menses, vel anni prò uno accipiuntur.... (p. 187) In ttliis.... lotis, lotum po- situm ponil partem, et pars desimela perimit totum.... In tempore vero e converso est, velati in die. Si enim prima est, dies esse dicitur, sed non convertitur.... Al vero si dies non est, prima non est. sed non convertitur.... In his itaque totis, quae per unum tantum partem semper existunt, iUud, quod de inferenlia totius et partis Boethms (de difj. top.. TI, p. 867 [PL, 64, 1188]) docet, non admittunt.  e si mettevano assieme regole sopra le parti e le forme del giudizio, la quantità, qualità ed equipollenza, il con- trano e il contraddittorio, la verità e la falsità, la con versione e la modalità dei giudizi ecc., cercandosi a que - sta maniera di meglio conformare, per così dire, il li. bro aristotelico all’uso scolastico, e di apportarvi in vari mod! compimenti o ampliamenti 202 ). Ma, per quest’ul¬ timo riguardo, nessuna più precisa notizia ci è stata tra¬ mandata: che a tale lavoro si collegassero da capo altre controversie sovra punti particolari, ci risulta invece an- i le t a e ristrette fonti, a noi accessibili. Furon così sol- evale subito difficoltà, già riguardo al concetto di vox significativa (Se*. XII, nota 109), e tali difficoltà, relati¬ vamente alla propagazione del suono, arrivarono a un tale colmo di astruseria, che alcuni finirono con il de- «ignare addirittura l’aria, come ciò che ha la funzione di « significare » *). Non vale molto di più la questione, QuiZ^n 135]: manifestiti* poteril nuilihet , mterpr.), compendiosius et excepla reverenti vZborZL fn ZT’ T° d " quas Introduciiones foconi Vix est Jn," l ‘ b "r rudintentìs > non doceat, adirai* aUis non mtnTn^LlrS^a qmd nomea, ql ,id verbum, quid oratio none Urrunt ,taque quae vires enuntiationom 1 orano, qU ae spectes eius, tate, q U ae determinate verae sunt auUahà^ SOrtÌant “ T aut ( i ,lnlU team, quae consentiant sibi quae dissentine? 11 ™ qu,bus , l ?qu>pol visim, coniunctim praedicenlur alt con? " ’ 9 “ ae P raed,ca ‘“ dU quae sii natura modalium et auae si et quae non >' il em n ni 11171 . /> • * Quae smgularium contradìctio _ Pcriermeniis docet?"o'uis^'liimd? *** quae vel Aristotile* in cairn totius artìs sumZm Zfc, C ° nq “ lslta l « dicit? Omnes Cfr - ! qUÌaPP^’la noU 366. /aC ‘ 7,7 "“ fra, „ b „ n j~ sollevata a proposito della unità della significano, se cioè una parola possa « significare » anche le lettere da cui è costituita 204 ). Poteva invece esercitare più profondo influsso, — sebbene non ci sia stata tramandata notizia di ulteriori conseguenze —, la netta delimitazione che si segnò, a pro¬ posito del nomea, tra significare e nominare, in quanto che di quello è oggetto la universalità, e di questo il singolare 205 ). E così pure, prima di tutto, — in occa¬ sione della controversia, se le preposizioni e le congiun¬ zioni sieno parimente parole « significanti », o non pos¬ sano invece assolutamente esser annoverate tra le parti del discorso — grande importanza potè avere il contatto che si venne a determinare tra i dialettici e i gramma¬ tici: di questi ultimi, taluni si decisero, da un punto di vista unilaterale, per la seconda alternativa, ma altri tennero conto anche degl’interessi della logica, rendendo con ciò effettuabile una conciliazione, in base alla quale si potè almeno preparare a quelle parti del discorso aeres..., ipsis etiam, quos reverberat, consimilem soni formam attri¬ buita illeque fortasse aliis, qui ad aures diversorum perveniunt. — p. 190: Nostri tamen, mcmini, sententia Magislri ipsum tantum aè- rem proprie audiri ac sonare ac significare volebat. Cfr. qui ap¬ presso la nota 499. ) lbid., p. 488: Totum constai ex suis parli bus, vox ex suis non conslituitur significationibus. Et fil quìdem divisio totius in partes, vocis vero [non] in significationes. Nam etsi hoc in quibus- dam vocibus contingat, ut scilicet ex suis jungantur significationi- bus. ut hoc vocabulum quod est xens» ex littcris suis, quas etiam significai, non tamen id ad naturam vocis, sed totius referendum est; in eo enim quod ex eis constai, totum est earum, non eas signi- ficans. Est etiam et alia quorumdam solutio, ut scilicet concedant, nullam vocem conjungi ex signi ficationibus diversis, ad quas videli- cet diversas impositiones secundum aequivocationem habeal. Ncque enim « eris » ad quaelibet plora dicunt aequivocum, sed tantum ad divcrsorum subslantias praedicamenlorum. linde de lilleris, quae in eodem clauduntur praedicamento. aequivoce non dicilur. *“> J°«- Saresb. Metal., II, 20, p. 100 [ed. Webb, p. 104; PL, 199, 881] : Quod fere in omnium ore celebre est, aliud scilicet esse quod appellativa significant et aliud esse quod nominant. Nominan¬ te singularia, sed universalia significantur. (analogamente, si direbbe, al modo tenuto dall’autore del De gen. et spec.: v. «opra la nota 174) il successivo loro ingresso nella logica 20 °). Può essere ugualmente at¬ tribuita a im influsso della grammatica (ed è possi¬ bile sia stato per opera di Bernardo da Cliartres: v. la preced. nota d9) la introduzione di una terminologia, per la quale giudizi, come ad es. «Uomo è un sostantivo», furon denominati « materialiter im posila», ovvero giu¬ dizi « de significante et significato» 207 ). Ma nei dibat¬ titi sopra la questione della essenza deiraffermazione e della negazione, poteva ricomparire il contrasto fra opposti indirizzi, attenendosi alcuni alla forma gramma¬ ticale, altri ai concetti, altri ancora alla realtà obbiet¬ tiva 208 ). ) Abael. Dialect., p. 216: Praepositiones et conjunctiones de rebus corion, quibus apponuntur, quosdum inlellectus facere viden- tur, alque in hoc impericela canon significalo dicilur, quod... ipsu quoque res, de qua inlellectus habetur, in hujusmodi dictionibus non tenelur stetti in nominibus et eerbis, qtute simul et res de- monstrant ac..... I nde certu apud grammaticos de praepositionibus sementili exlitit, ut res quoque eorum, quorum vocabulis apponun- tur , ipsae destgnarent.... Vnde illa quorumdam dialecticorum seti- tentia potior yidetur, qttam grammaticorum opinio, quae omnino a parlibus orationis hujusmodi voces, quas signifieativas esse per se non judicavit, divisti, uc magis ea quucdarn supplemento ac colli- gamenta (v. la Sezione XII, note 43, 60 e 111) partirne orationis esse aicit.... (p. 217) soni etiam nominili, qui omnino a significativi hujusmodi dictiones remorisse diulecticos adstruant. Cfr. appresso le note 349 Reggi: 348] e 620. 1Q0 1J?"- 1 S . AK T B - MetaL ’ jfl,. 5 , P- 137 [ed. Webb, p. 142; PL, JU4J. Interdum tamen dictionem rem esse contingit, cimi idem sermo ad agendum de se assumitur, ut in his quae jtraecepto- res nostri materialiter dicebant imposi la et dicibilia; quale est: «Uomo est nomea », «CurriI est verbum ». — Abael. Dial... p 248- IJitidam tamen trnnsitivam grummaticam in quibusdam propositio- m US esse volimi; qui quidem propositionum alias de consignifi- cantibus vocibus ulias vero de significante et significato fieri diclini, ut soni dlae, quae de ipsis vocibus nomina sua enunciant hoc modo « homo est nomea vcl vox vel disyUabum ». Cfr. la nota 618. ) Abaei.. Dialect., p. 404: Quidam aiitem per « jacere sub af- firmatioae et negatione » finitum et infinitum vocabulum accipiunl.[c) sopra questioni particolari, attinenti alla teoria del giudizio]. — Anche a proposito di vari punti parti¬ colari, che si trovavano dibattuti nel commento di Boe¬ zio, ci si decise senz’altro iu senso contrario all’autorità di lui: così, p. os., riguardo alla unità del giudizio 2UB ), o relativamente alla scomposizione del verbo in due ele¬ menti, la copula e un participio 210 ), o a proposito di cpiei giudizi, nei quali 1 « est » non implica la esistenza effettiva del soggetto 211 ), o a proposito della questione del rapporto quantitativo tra soggetto e predicato 212 ), ut « sedet, non sedetti quidam vero intellectus ab affirmalione et negatione generalos (v. la nota 175): sed nos polius va, quae ab af- firmatione et negatione dicunlur, aceipimus, essentias scilicel rerum, de quibus per affirmulionem et negationem agitar. Ma non si riesce a intender bene Joh. Saie Metal., 11, 11, p. 81 Led. Webb, p. 83; IL, 199, 869]: expedit [ dialeclicu J quaestiones...; quale est: An affirmare sit enuntiare (viceversa, se si potesse leggere « an titilli- tiare sit affirmare », ci sarebbe qualche maggiore possibilità di con- getturare un significato), et: An simili exture possit contradictio. •“) Abael. L)ial., p. 298: Sunt aulem, qui udslruanl, diversa ac- cidentia unam enuntiationem lucere, cum tulio sumuntur, quae ad diversa referuntur, veluti si dicatur : «/ionio citliaroedus bonus» (v. Boezio, p. 419 [in de interpr., ed. secunda, V, 11; cdiz. Meiser, Pars Post., p. 363: PL, 64, 573J). '") lbid., p. 219: Idem dicit « homo ambulata, quunlum prò- ponit «homo est ambulatisi) (Boezio [ ib., V, 12; p. 390: PL, 64, 586], p. 429). Sed ad hoc, memini, magister nosler V. opponete so' let: si, inquit, verbum proprium significationem inhuerere dicit, ve¬ runi autem sii, cam inhuerere, projeclo ipsum verum dicit, ac sen- sum propositionis perfidi. ‘ ) Ibidem, p. 223 s.: Unde quidem, cum dicitur, Homero quo¬ que defuncto, «Homerus est poiitu » (Boezio [//>., V, il; p. 3734: PL, 64, 578], p. 423).... «esse» quoque, quoil inlerponilur, in desi- gnatione non existentium vqlunt accipi.... Nostri vero sementili Ma- Bistri non secundum verbum accidentalem dicebat praedicationem, sed secundum tolius construclionis significaturam, atque impro- priam loculionem.... Sed quaero in ilJu significativa locutione, « Ho¬ merus est poeta», cujus nomea « Homerus» aul « poeta» acci- piatur. At vero, si hominis, falsa est enunciutio, co defuncto ', si vero poemutis.... est.... nova vocis aequivocalio. ' ) lbid., p. 247: In liis autem quae secundum accidens praedi- cunlur nec totani subjecti substantium continent, sed in parte tan¬ tum subjectum attingunt (Boezio [in de interpr., ed. prima, II, 11; ed. Meiser, Pars Prior, p. 159: PL, 64, 358], p. 263).... non est necesse, praedicatum vel majits esse subjecto vel aequale, veluti cum dicitur « animai est homo », vel « quiddam animai est homo alla quale questione potevan riattaccarsi pure sotti¬ gliezze grammaticali 213 ). Anzi le opinioni furono divise, anche in ordine a quei cenni intorno al « giudizio in¬ definito », con i quali Boezio aveva dato il compimento che ci voleva allo scritto aristotelico De interpretatione (Sez. XII, nota 115), essendo stato tale compimento da taluni giustificato, ma da altri respinto, — e fra que¬ sti ultimi ci vien fatta menzione di un Magister « V. », autore di « Glossulae super Periermenias » 214 ). Riguardo ai giudizi modali — v. la Sez. XII, nota 119: il termine tecnico « modalis » appare ora piena¬ mente invalso —•, si deve ravvisare veramente un modo di vedere individuale nell’ atteggiamento di alcuni, i quali deducevano i giudizi stessi dai giudizi non-modali, in tal maniera che dalle parole « possibilmente » o « ne¬ cessariamente » rimanesse modificato non il contenuto di fatto, ma il senso della enunciazione, — ovvero nel¬ l’atteggiamento di altri, i quali dicevano che in tali giu- (cfr. Boezio ( iniroiì. ad cuthegoricos Syll.: PL, 64, 768], p. 562). Quamvis tamen et hic quidam concedunt, animai quod subjicitur non esse majus homine. Diclini cnim, quia animai, quod homo est, ibi subjicitur , quod non est majus homine. “> J° H - Saresb. Metal., n, 20, p. 101 [ed. Webb, p. 105; PL, 199, 881]:.... quia « omnis homo diligit se». Quod si ex relativae dictionis proprietate discutias, incongrue dictum forte causabaris et falsum; siquidem.... sive collcclive sire distributive accipialur quod dicium est « omnis », pronomen relativum « se », quod subiun- gitur, nec universitati singulorum nec alicui omnium veraciter el necesse est, So- cralem non esse equum, possibile est vel necesse esse non equum.... In.... universali bus.... non ita concedunt, ut videlicet tantumdem va- leat « non » ad «esse» praepositum, quantum id [Cousin: ei], quod « esse » copulai compositum. "i Ibid., p. 442: Sunt lamen quidam, qui nec discretionem ul- lam inler categoricam et hypotheticam in disjunclione compositas habenl. sed idem dicunt proponi, cum dicitur « Socrates est vel sa¬ nile vel aeger », et cum dicitur « aut Socrates est sanus aut aeger »; ut scilicet omnis enunliatio, quae disjunctas recipit conjunctiones, hypothetica credatur. Volunt itaque semper in hujus modi catego¬ rici s. quae disjuncliones recipiunl, hypotheticae sensurn intelligi.— veduti cum dicitur «Socrales est sanus vel aeger », tale est ac si dicatur « aut Socrates est sanus aut Socrates est aeger. [d) sopra difficoltà inerenti alla teoria del sillogi¬ smo ]. — Dalla sfera della sillogistica non pos¬ siamo a tutta prima aspettarci ima così fatta letteratura sovra punti controversi, perchè, mentre da un lato i relativi compendi di Boezio, essendo, per così dire, puri formulari scolastici, non porgono occasione a diver¬ genze di opinioni, dall’altro lato, come abbiamo veduto (qui sopra, note 8-34), solamente a poco a poco si venne, appunto in quell’epoca, a conoscenza degli Analitici ari¬ stotelici, i quali inoltre mancavano anche allora di mi apparato esegetico, quale da gran tempo erasi avuto per le rimanenti parti della Logica. Si trova tuttavia, al¬ meno in Giovanni da Salisbury, una notizia, dalla quale sembra potersi argomentare che sia stato preso parti¬ colarmente in considerazione quel tal passo estrema- mente difficile degli Analitici Primi, concernente la con¬ versione dei giudizi modali (Sez. IV, nota 546), in quanto che si trovò necessaria una particolare termino¬ logia ( materia naturalis, contingens, remota), per signi¬ ficare i concetti, che ivi s’incontrano, di quel eh’ è naturalmente determinato [tte^’jxcs], del possibile, e del non-aver-luogo 219 ). Dalla medesima fonte appren¬ diamo altresì, che dei sillogismi, già noti ad Abelardo ") Joh. Sar. Metal., IV, 4, p. 160 [ed. Webb, p. 168; PL, 199, 918], dove in un sommario del contenuto degli Analitici Primi si legge anche quanto segue: quid in loto esse aul non esse , quas prò - positiones ad usum sillogisandi converti contingat et quas non; quidve optinent in his quae modcrnorum (v. la nota 55) usti dicun- tur esse de naturali materia aut contingenti aul remota. Quibtis praemissis, trium figurarum subneclit rationes etc. La eennata tri- partizione poteva essere ricavata da Boezio (Sez. XII, nota 119), il quale dal canto suo aveva attinto ad Ammonio (Sez. XI, nota 157); la terminologia di quest’ultimo passò nel Compendio di Psello (Sez. XV, nota 14), dove il passo corrispondente presenta, nelle tra¬ duzioni latine, le tre espressioni testé ricordate (Sez. XVII, note 38 e 155). Ci troviamo pertanto, anche qui, dinanzi alla possibilità che verso la fine delI’XI secolo si sieno fatti strada nell’Occidente latino sparsi frammenti della letteratura scolastica bizantina.  (nota 17), formati da giudizi modali, fu ora fatto uso frequente, così per parte dei teologi, come pure nelle scuole di dialettica 220 ). Un’argomentazione insidiosa, oc¬ casionalmente menzionata ima volta, e relativa alla pos¬ sibilità del futuro, è d’imitazione ciceroniana 221 ). [e) sopra questioni di Topica ]. — Invece la To¬ pica ebbe a godere ancor una volta di una più vasta e varia attività di studiosi; e ciò risulta già in generale dal¬ l’opera di Abelardo, il quale, a proposito dei singoli loci, si esprime in tal modo da indurci a ritenere ch’egli abbia trovato dappertutto già pronto un numero determinato di « regole » formulate, le quali rappresentavano la reda¬ zione, fatta nelle scuole, delle notizie riferite da Boezio nel suo scritto De diff. top. 222 ); inoltre, a partire dal tempo in cui fu tratta fuori novamente la Topica aristotelica (v. sopra le note 28 s.), ci furono effettivamente alcuni, che tentarono di arricchire questo ramo della dialettica con la invenzione di nuovi loci e di nuove « regole » 223 ), Ibid. : Deinde habila modalium rutione transit ad commix- tiones qitae de necessario sunt aut contingenti rum bis quae sunt de inesse.... Expositores vero divinar paginae rationem modornm pernecessariam esse diclini.... [169] Est enim modus, ut aiunt, quasi quidam medius habitus terminorum (ofr. la Sez. XII, nota 150). Et prafecto, licei nullus modos omnes, linde modales dicuntur, singu¬ ltitivi enumerare sufficiat, quod quidem nec ars exigit (v. ibid., noia 163), lumen mugistri scolarum inde commodissime disputant, Cfr. appresso la nota 623. Lo stesso, Polvcr.. II, 23. p. 125 [ed. Webb. I, p. 132; PL, 199. 455] : Restai libi illius Stoici lui quaestio.... Quaerebat.... enim.... an posses aliquid facete eorum quae minime faclurus es etc. Cfr. la Sez. VI, note 136 e 164. '“) Abael. Dialect., p. es. p. 334 (sunt igitur quatuor hujus in- ferentiae regnine), p. 353 (regulae antecedentis et consequentis), p. 375 (regidae ab interpretatìone), p. 376 (tres autem regidas a ge¬ nere in usum duximus), e cosi via pereorrendo tutta la Topica. ■’l Joh. Sar. Metal., Ili, 9, p. 145 [152]: Non omnes tamen locos buie operi (cioè BOEZIO, de diff. top.) insertos arbitror, quia nec po- tuerunt, cum et a modernis, huiiis praeeunte benefìcio, aeque necessa- rios evidentius cotidie docerì conspiciam. — lbid., 6, p. 138 [1431: ma potè nello stesso tempo diffondersi altresì una idea giusta del posto e della importanza della dialettica ). Trasparivano tuttavia anche qui le differenze di ordine generale tra punti di vista, quando da taluni erano posti unilateralmente in maggior rilievo i concetti isolati, fatta astrazione dalla espressione verbale 225 ), da altri in¬ vece s’insisteva solamente sopra la necessità interna del¬ l’ordine di successione nell’argomentazione 22 “), mentre altri ancora, al contrario, ci tenevano a veder presa in considerazione proprio la probabilità subbiettiva 227 ). Ma c’erano poi varie controversie, che si collegavano anche a singoli loci o a regole particolari 22S ). Non tamen huic operi (cioè alla Topica aristotelica) tantum tribuo, ut inanem reputem operam modernorum, qui equidem nascentes et convnlescentes ab Aristotile, inventis eius multas adiciunt rationes et regulas prioribus aeque jirmus | PL, 199, 909 e 9011. V. appresso la nota 413 a. “) Ibid., 5, p. 134 [ed. Webb, p. 139; PL, 199, 9021:... scienti Topicorum.... ex opinione multorum dialeclico et oratori principu- liter faciat. ™) Abael. Dialect., p. 426: Dieunlur in argumentis ea, quae a propositionibus ipsis significanti^, ipsi quidem intellectus, ut qui- busdam plucet, quorum conceptio, sine eliam vocis prolulione, ad concessionem alterius ipsum cogit dubitanlem. **•) Ibid-, p- 427: Sunt autem, meniini, qui, verbis auctoritatis nimis adhaerentes, ornile necessarium argumentum in se ipso ne- cessarium dici velini. **) Ibid., p. 335: Sunt autem quidam, qui non solum necessa- rias consecutiones, sed quaslibel quoque probabiles verus esse fa- teanlur. Dicunl enirn, verilatem hypotheticue proposilionis modo in necessitale, modo in sola probabilitale consistere; in qua quidem sentenliu Magistrum etiam nostrum deprehensum dolco.... (p. 336) Dicunl tamen, quia omne quod probabile est, verum est, saltem secundum eum, cui est probabile. *“) Così taluni volevano che tra le maximae propositiones (Sez. XII, nota 165) fossero annoverate anche le regole principali del giu¬ dizio categorico (Abael. Dial., p. 339 s.), e c’eran altri che vole¬ vano estenderle anche di più (ibid., p. 366): oppure si trasferi¬ vano l 'antecedere e il consequens nei [intendi: «si allargava l'ap¬ plicazione delle regulae antecedenti et conseguenti, fino a com¬ prendere anche le relazioni tra i »] singoli termini del sillogismo (ibid., p. 353 s.), o si restringeva il locus a praedicalo puramente a giudizi categorico-ipotetici (p. 381), mentre da altri lo si faceva valere soltanto come principio di prova del locus a genere (p. 384);  293 U 29 . — Negli studi di logica, la qualità conti¬ nua A RIMANER MOLTO AL DISOTTO DELLA QUANTITÀ]. - Ma riflettiamo ora come quasi tutta la materia, che ave¬ vamo da presentar sino a questo punto, si sia dovuto ricavarla da due scrittori soltanto, vale a dire Abelardo e Giovanni da Salisbury, dei quali per caso ci sono con¬ servate opere di più lunga lena, cosicché ci sarebbe co¬ munque da imparar ancora ben di più, qualora si dispo¬ nesse di fonti più abbondanti: e riflettiamo così pure, inoltre, che ciascuna delle opinioni sopra citate, relative a punti particolari, ci permette di argomentare, per parte dello scrittore che se ne fa sostenitore, un’opero¬ sità di studioso, estesa a tutta quanta la sfera della lo¬ gica di quell’epoca; se terremo presenti queste conside¬ razioni, ci sarà difficile andar tropp’oltre, nell’ imagi- narei la estensione dell’attività, svolta in quel tempo, so¬ prattutto in Francia, nel campo della logica. Ben è vero che, ad avvalorare, per così dire, una impressione gene¬ rale ben nota, può darsi che, quanto a intensità, le cose andassero diversamente, perchè in nessuna parte ab¬ biamo trovato, non che una concezione filosofica, nean¬ che segni di effettiva originalità. Come in generale il Medio Evo era e rimase dipendente dal materiale di una tradizione, imposto dal difuori, così anche le nu¬ merose controversie attinenti alla logica, non prende¬ vano principio da un intimo impulso, bensì si fondano sopra uno stimolo esterno, dato dal materiale della tra¬ dizione scolastica, e bisognava, a così dire, che aspettas¬ sero questo stimolo, per avere in generale occasione di inoltre, anche sopra questo stesso ultimo /ocus, si dibatteron da rapo varie controversie, disputandosi cioè se esso abbia validità incondizionata (p. 378), o sia da intendere soltanto in senso cau¬ sale (p. 386): e controversie analoghe concernevano il locus ab ef¬ ficiente. con partecipazione anche di motivi teologici (p. 413), o il locus ab interpretatione, trattandosi di decidere fino a qual punto coincida con la etymologia.  manifestarci. Così anche i rappresentanti delle più im¬ portanti opinioni, caratteristiche dei vari indirizzi, ab¬ biamo pur dovuto spogliarli della gloria di essersi aperti da sè la loro strada; poiché certi passi isolati di Boezio, strappali dal contesto, e che sono stati appunto oggetto di studio appassionato, ci si sono rivelati (note 105, 129, 134, 170) come i punti di partenza, in base ai quali, a forza di stiracchiare, è stato poi messo insieme il resto, E se in mani nostre neanche Abelardo si sottrae forse a un simile destino (nota 286), non ne abbiamo colpa noi, ma la ragione ne va rintracciata nella verità storica come tale. [§ 30 . — Abei.ardo : a) suo ingegno: caratteristica ge¬ nerale], — Proprio la considerazione ora esposta, che cioè in quell’epoca, da un lato, una grande moltitudine di maestri si occupavano, discendendo sino ai più mi¬ nuti particolari, del materiale di studi di logica, quale veniva tramandato, e che, dall’altro lato, per l’appunto nella letteratura tradizionale tutto questo genere di pro¬ duzione veniva a trovare le proprie condizioni, derivan¬ done il suo proprio indirizzo — ci doveva già da prin¬ cipio indurre a procedere con circospezione nel nostro giudizio sul conto di Abelardo (nato nel 1079, morto nel 1142): e di fatto, a prender in esame più da presso l’opera sua in connessione con quella dei contem¬ poranei, ci troveremo anche messi in guardia contro ogni esagerazione nell’apprezzamento di lui 22B ). Mentre “) In particolare gli studiosi francesi sembrano propensi a so¬ pravvalutare il loro connazionale, e in ciò, fra i tedeschi, va per lo meno a pari con loro [Federico Cristoforo] Schlossf.r [in un libro del 1807, su Ab. e fra Dolcino]. La vasta opera di Charles de Rémusat, Abélard, Parigi, 1845, in due voli., è, per la parte bio¬ grafica, quanto di meglio possediamo, nella letteratura moderna, sul conto di Abelardo: aH’inoontro, nella esposizione della dottrina, i presupposti storici, consistenti nei movimenti spirituali generali, propri di quell’epoca, son forse lasciati troppo nell’ombra, in con- cioè, riguardo all’etica, ci compiacciamo di ravvisare e riconoscere in Abelardo un eretico del tempo suo, e delle sue benemerenze di teologo 22Ba ) dobbiamo lasciare in- vece che si occupi la storia della teologia, ci apparirà chiaro come, nel campo della logica, egli non abbia esplicato un’attività più originale di forse cento altri suoi contemporanei 23 °). È innegabile la sua grande vi¬ vacità d’intelletto, e prima di tutto la sua straordinaria abilità nella forma retorica di esposizione: anche alla dialettica, come a tutto ciò su cui metteva le mani, si slanciò sopra con appassionato fervore, e si manifestò subito come maestro estremamente suggestivo 231 ) ; la sua attenzione era qui essenzialmente volta all’intento di fronto con le benemerenze personali di Abelardo : a ciò si ag¬ giunge ancora, riguardo alla dialettica, l’inconveniente già più sopra (nota 49, e cfr. la nota 148) rilevato con espressioni di bia¬ simo. w ‘) Su questo argomento, v. la vasta opera di S. Maht. Deutsch, Peter Abàlard: ein kritischer Theologe des 12. Jahrhunderts [P. A.: un teologo critico del XII secolo], Lipsia, 1883. a ") Non s’insisterà mai abbastanza nel ricordare che la nostra indagine si svolge tutta quanta entro i limili segnati esclusivamente dal quantitativo del nostro materiale di fonti. E tra Abelardo c gli altri dialettici dell’epoca sua sussiste qui una differenza sol¬ tanto, che cioè di quello ci sono conservati casualmente moltissimi scritti, si che di lui, per conseguenza, siamo in grado di ricono¬ scere e pienamente svolgere le idee fondamentali, più largamente ricostruite nel loro ordine sistematico, mentre per gli altri non ci è possibile fare altrettanto. Ma dobbiamo guardarci dal convertire in una obbiettiva superiorità di Abelardo, questa circostanza favo¬ revole, che torna a vantaggio della nostra esposizione. m ) Ch’egli sia stato scolaro di Roscelino, ma anche di Gu¬ glielmo da Champeaux, e che inoltre abbia cercato e trovato ispi¬ razione in tutti gli altri eminenti maestri, si vede dalla nota 314 della Sezione precedente, c dalle note 102 e 104 di questa. Del suo presentarsi come maestro fa il racconto egli stesso, Epist., I, c. 2, p. 4 (Amboes.) [ed. Cousin, I, p. 4 c 6] : Perverti tandem Parisius... Factum tandem est ut supra vires aetatis meae de ingenio meo prae- sumens, ad scholarum regimen adolescentulus aspirarem, et locum, in quo id agerem, providerem ; insigne videlicet tunc temporis Me- liduni castrum, et sedem regiurn.... (p. 5) Ab hoc autern scholarum noslrarum lyrocinio [Amboes .: exordio] ita in arte dialeclica no¬ mea meum dilatori coepit, ut non solum condiscipulorum meorum, verum etiam ipsius magistri (cioè Guilelmi Campellensis) fama farsi capire facilmente, adattandosi egli, anche nella scelta del materiale, all’esigenze della scolaresca ), ed è naturale che fosse perciò invitato sovente a esercitare a profitto di altri il suo talento di maestro di logica **). Ma il nomignolo di « Peripateticus Palatimis » [nativo di Palet o Palais] egli lo deve soltanto a questo suo vir¬ tuosismo formale, perchè, da un lato, per i suoi contem¬ poranei « peripatetico » e « cullor della logica » eran espressioni sinonime, nulla conoscendosi in generale di Aristotele aH’infuori dall’Organon, e con quella espres¬ sione volevasi soltanto significare uno che si occupasse molto estesamente o con particolar efficacia di questi scritti aristotelici 2S4 ), senza che con ciò si pensasse già a un pieno esauriente svolgimento del principio aristote¬ lico; ma, d’altro lato, lo stesso Abelardo ha avuto pure contrada paulatim extinguerelur.... (p. 6) [6] 1 unc ego Melidunum reversus, scholas ibi nostras, sicut antea, constitui.... Meliduno l'ari- sius redii . extra civilatem in monte S. Genovejae, scholarum no- slrarum castra positi [PL, 178, 115-7 e 120J. “) Joh. Saresb. Metal., Ili, 1, p. 116 (ed. Giles [cd. Webb, p. 120]): Sic omnem librimi legi oportet, ut quam facillime potasi eorum quae scribuntur hubeatur cognitio. Non enim occasio quae- renda est ingerendue difficultatis, sed ubiqiie facilitas generando. Qttem morem secutum recolo Peripateticum Palatinum. Inde est, ut opinor, quod se ad puerilem de generibus et spedebus, ut pace suorum loquar, inclinavit opinionem: malens instruere et promo¬ vere suos in puerilibus quam in gravitate philosophorum esse obscu- rior. Faciebat enim studiosissime quod in omnibus praecipit fieri Augustinus, i. e., rerum intellecltii serviebut I PL, 199, 890-1J. at ) Abael. Introd. ad llteol., I, Pro!., p. 974 (Amboes. [ed. Con¬ fiti, II, 31): Ad has itaque dissolvendas controversias cum me suf- ficere arbitrarentur, quem quasi ab ipsis eunubitlis [Cousin: inai- nabulis] in Philosophiae studiis ac praecipue Dialecticue, quae om¬ nium mugislra ralionum videtur, conversatimi sciant, atque experi¬ mento, ut aiunt, didicerint, unanimiter postulane, ne talenlum miht a Domino commissum multiplicare differam. — Ep. 1, c. 2, p. 5 [51 : Non multo aiitem interjecto tempore, ex immoderata studii afflic- lione correptus infirmitate, coactus sum repatriare, et per unnos atiquot a Francia quasi remolus. quaerebar ardentius ab iis, quos dialectica sollicitabat doctrina [PL, 178. 979 e 118]. =“) Joh. Saresb., loc. cit., I, 5, p. 21 [171 : Peripateticus Pula- tinus, qui logicue opinionem praeripuit omnibus coetuneis suis, adeo ut solus Aristotilis crederetur usits colloquio [PL una felice idea, a tenor della quale poteva, rifacendosi da un unico passo che si trova in Boezio [v. appr. nota 2861, «connettere ad esso il riconoscimento della giu- "tozza della teoria aristotelica del giudizio; ma invece e;>/., p. 226, Abelardo dice, nel passare da questa prima parte principale alla seconda: Hactenus quidem, Dagoberte frater, de partibus orationis , quas dictiones appeUamus , sermonem texuimus. Quorum tractatum tribus vóluminibus comprehendimus. Primarn nam- que partcm libri Partium ante Praedicamenta posuimus ; dehinc autem Praedicamenta submisimus , denique vero Postpraedicamenta novis¬ sime adjecimus, in quibus Partium textum complevimus. Come ven¬ gano intesi gli Antepraedicamenta , apparirà chiaro appresso; ma intanto nel procedere dai Praedicamenta ai Postpraedicamenta , si dice (p. 209): Evolutus superius textus ad discretionem significano- nis nominum et rerum natura s, quae vocibus designantur , diligenter secundum distinctionem decem praedicamentorum aperuit. Nunc autem ad voces significativas recurrenles , quae solae doctrinae deserviunt , quol sint modi significanti studiose perquiramus ( similmente alla p. 245: Non itaque propositiones res aliquas designant simpliciter quemadmodum nomina): e pertanto, alle p. 209—226, segue non già, come fa ritenere il titolo, arbitrariamente imposto dal Cousin, la Sezione de intcrpretationc , bensì solamente una trattazione delle parti della proposizione. Con questa denominazione e suddivisione della prima parte principale si accordano poi anche le citazioni che Abelardo fa di se stesso, sia che rinvìi alla Sezione complessiva, denominandola Liber partium (p. 377 : sicut in libro Partium do- cuimus , e p. 477: sicut in libro Partium , tractatu speciei , disseruimus ), sia che ricorra proprio a quella denominazione nel menzionar pure le suddivisioni (p. 174: sicut secundus anle-praedicamentorum de differentia continet; — p. 249: Nam« homo mortuus» ....compositura nomen est.... sicut in primo Posl-praedicamentorum ostendimus : e questa citazione, al pari delle due altre dello stesso tenore, alle pa¬ gine 296 e 299, si riferisce alla p. 214; negli altri due rinvìi—p. 204: sicut in Libro Partium ostendimus , e p. 205: in Libro Partium requi - rantur — va certamente letto primo , anziché libro). Dei resto, con tutto questo sistematico rilievo dato alle « parti del discorso », riu¬ sciamo ora a spiegarci come Abelardo potesse effettivamente deno¬ minare « Grammatica » un rifacimento delle Categorie (v. qui sopra la nota 241). 273 ) p. 227: Susta et debita serie textus exigente , post tractatum singularum dictionum occurrit comparano orationum .... Non autem quarumlibet orationum construclionem (anche questa e una esptes- questa Sezione Abelardo diede il nome di « Libcr cale- goricorum » 274 )- Ma quando ha poi da far sèguito la teo¬ ria del giudizio ipotetico, Abelardo, anche a ciò deter¬ minato da Boezio (de diff. top.: v. la Sez. XII, nota 167), fa che la validità di queste forme di giudizio sia con¬ dizionata dai loci (v. la nota 269), e pertanto premette il « Liber topicorum », così che soltanto dopo di esso ven¬ gono lo stesso giudizio ipotetico e i sillogismi fondati so¬ pra di questo 275 ) : a quest'ultima Sezione dà il nome di « Liber hypotheticorum » 27e ). Così Abelardo, secondo il suo modo d’ intendere, ha compiutamente svolto la teoria deirargomentazione, pro¬ cedendo dal semplice, cioè dagli elementi, al complesso: quanto al « Liber divisionum », designato dal Cousin come quinta parte della dialettica, non ha alcun nesso sione di Prisciano; v. sopra la noia 263) exequimur, sed in his tantum opera consumenda est , quae verilatem seu falsitatem continent, in quo¬ rum inquisitione dialecticam maxime desudare meminimus. Undc cum inter propositiones quaedam earum simplices sinl et natura priores , ut categoricae, quaedam vero compositae ac posteriores, ut quae ex ca¬ tegorici jungunlur hypotheticae, has quidem quae simplices sunt prius esse tractandas...., unaque earum syllogismos ex ipsis componendos esse apparet. 274 ) È vero che il manoscritto reca qui il titolo (p. 227) « Abae- lardi.... Analyticorum priorum primus», ma non soltanto si cor¬ regge da se stesso nella seconda suddivisione di questa Sezione, dove a p. 253 si legge questo titolo: « Explicit primus; incipit se- cundus eorundem, hoc est categoricorum », bensì ancora dallo stesso Abelardo questa Sezione è citata come Liber categoricorum (p. 395: Sed de hoc quidem uberius in libro Categoricorum egirnus). 275 ) p. 437 : Congruo.... ordine , post categoricorum syllogismorum traditionem , hypotheticorum quoque, tradamus constitulionem. Sed sicut ante ipsorum categoricorum complexiones categoricas propositiones opor- tuit tractari, ex quibus ipsi materiam pariter et nomea ceperunt, sic et hypotheticorum tractatus prius est in hypotheticis proposìtionibus eadem causa consumendus , de quorum quidem locis ac veritate infe- rentiae , quia in Topicis satis, ut arbitror , disseruimus, non est hic in eisdem immorandum. Sed satis earum divisiones exequi. 27e ) Anche qui si verifica la medesima singolare circostanza, che cioè il manoscritto reca da prima (p. 434) il titolo « Abaelardi.... Analyticorum posteriorum primus », ma poi nel passaggio dalla prima alla seconda suddivisione, la indicazione esatta (p. 446): Explicit primus hypotheticorum , incipit secundus. con quel che precede 2 "), ma è ima monografia che sta a sé, concernendo lo stesso oggetto che lo scritto De getter, et spec.; in questa monografia Abelardo unì immediata¬ mente uno all’altro gli scritti di Boezio, de divisione e de definitione, cosicché, a chi consideri 1’ intima diver¬ sità fra questi due (Sez. XII, nota 103), appare con tutta chiarezza, come in Abelardo l’interesse per la logica si converta in interesse per la retorica. Seguendo noi ora perciò, per la nostra esposizione, il suindicato motivo, do¬ minante nella divisione della materia secondo Abelardo, ci atterremo interamente all’ordine già tenuto per Boe¬ zio, e inseriremo, ancor prima della teoria del giudizio, quel che sarà necessario dire della Sezione de divisione, la quale si riattacca alla teoria del concetto. [li) esposizione della Isagoge (Antepraedicamenta), quale risulta dalle Glossae, e soprattutto dalle Glossulae, super Porphyrium: atteggiamenti polemici sopra la que¬ stione degli universali]. — Quanto alla prima Sezione della prima parte principale, cioè la Isagoge o i così detti Antepraedicamenta, la grave lacuna già ricor¬ data dobbiamo cercar di colmarla attingendo ad altra fonte, e precisamente, in special modo, ai testi riferiti dal Rémusat (nota 238) : ma inoltre ricorreremo anche a tutti quegli altri luoghi, che possano aiutarci a compren¬ dere, con maggior vigore o maggior ampiezza, la posi¬ zione di Abelardo nel contrasto fra i diversi indirizzi, sicché già qui si ha da chiarire, quante possibile com¬ piutamente, le questioni essenziali e di principio, e da ot¬ tenere mia conoscenza esatta e approfondita della logica di Abelardo in generale: resterà poi, relativamente alle altre parti della dialettica, da addurre ancora, su tale ) Neanche si trova, in alcun punto del libro, fatto cenno a un ricollegamento con altre parti della dialettica. fondamento, soltanto i testi relativi a punti più parti¬ colari. Ha in sè qualche cosa di sorprendente il fatto che Abelardo, nelle glosse alla Isagoge, non soltanto parla di « sei parole », aggiungendo alle solite cinque anche « in- dividuum », ma osserva altresì che si tratta, oltre che di queste parole stesse, anche di ciò ch’esse significano — significala eorum — 27S ); tuttavia la prima circostanza si spiega in parte con quel passo di Boezio ch’è la fonte, a cui Abelardo attinge 2T9 ), e in parte con la espressa os¬ servazione [fatta dallo stesso Abelardo], che cioè Por¬ firio non ha avuto bisogno di comprendere, subito da principio, nel novero delle voces il concetto d’individuo, perchè già 1’ individuo vien comunque a rientrare sotto le altre cinque parole, e in se stesso è una denomina¬ zione predicativa di un oggetto, nè più nè meno che i ge¬ neri e le specie 28 °). Ma se ora proprio questo rilievo che 27s ) Glossae in Porph., riferite dal Cousin, p. 553: Intendo Por- phyrii est in hoc opere tractare de sex vocibus, i. e. de genere, e! de specie, et de dijjerentia, el de proprio, et de accidenti, et de individuo et de signijìcatis eorum.... Considerare, nullas voces magis esse necessarias ad Categorias quam istas sex voces, quoniam ex istis sex vocibus con - stituunlur praedicamenta, ideo perelegit tractare de istis sex vocibus. Hujus operis sunt materia istae sex voces el earum significata, finis ipse catcgoriae (il Cousin. con le sue modificazioni e con la interpun¬ zione, ha guastato il giusto significato del manoscritto). Scicntiae inveniendi supponitur iste traclatus ([passo già più sopra cit.,] nota 268), quia hic docemur invenire rationcs sufficienles ad probandas quaslibet quaestiones Jactas de istis sex vocibus et de signijìcatis earum. Cfr. appresso la nota 603. 27 *) Questo numero di sei non ha cioè niente che fare, come si capisce da sè, con quel passo, che si è avuto da citare, ricavandolo dai commentatori greci (Sez. XI, nota 134). ma ha per fondamento il contenuto di quelle notizie, date da Porfirio (ibid., nota 43), che son riferite come segue da Boezio, p. 15 [ad Porph. a Vict. transl. I, 16; ed. Brandt, p. 44: PL, 64, 28]: Eorum, quae. dicuntur, alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia individua, ut est Socrates et hic et illud, alia quae ad mulliludinem, ut sunt genera (et) species et differentiae et propria et accidentia. 280 ) p. 553: Et cum intendat tractare de istis sex vocibus et omne (leggi omnes) tractat, lamen non proponit nisi [Cousin: vocibus, et omne tractare tamen non proponit, nisi....] de quibusdam tantum ; ideo  Abelardo dà alla relazione predicativa, torna a coincider pure con il secondo punto, cioè con la presa in conside¬ razione anche di « quel ck’è significato dalle sei parole », d’altra parte Abelardo sopra tale questione fondamentale non presenta qui spiegazioni più precise: bensì, — per¬ sino a proposito di quel passo di essenziale importanza (prima quaestio), al quale da gran tempo abbiamo ve¬ duto riattaccarsi tutta la questione, che dividea tra loro le tendenze contrastanti — egli presenta esclusivamente una sottile distinzione, insignificante nei riguardi degli universali, tra solus intellectus, nudus intellectus e pu- rus intellectus 2S1 ) : e anche nel rimanente della esposi¬ zione, si tiene aderente al testo della Isagoge, prevalen¬ temente limitandosi a dare spiegazione delle parole 282 ). Invece proprio sopra questo punto che ci rimane qui ancora oscuro, gettano la più vivida luce le altre così dette glosse minori alla Isagoge. Ivi cioè Abelardo, alle notizie che dà sopra le opinioni altrui (e per questo ci è servito più sopra egli stesso quale fonte) collega in primo luogo osservazioni polemiche, per poi svolgere la sua personale concezione degli universali. Contro Gu- non ponit de individuo, quia individuum continetur sub unoquoque, et in significatione et in praedicamentali ordine : nam quemadmodum genera et species proprie ponuntur in praedicamento, eodem modo in¬ dividua ipsorum. Anche questo si trovava nel commento di Boezio al passo citato — dove (p. 16 s. [loc. ult. cit., p. 49: PL, 64, 30]) si legge: Ita individua, quae ad unitatem dicunlur, cunctis superio- ribus (cioè quinque vocibus) supposita sunt.... Individua vero.... ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una sunt. Atque.... « ad unitatem dicunlur». Abelardo cioè ne ricavò che le de¬ nominazioni individuali vengono purtuttavia predicate — dicunlur, praedicantur. 2S1 ) p. 555: Illa dicimus poni in solis intellectibus, quae tantum in- telliguntur et non sunt.... Illa dicimus poni in nudis intellectibus. quae, cum sint, aliter intelliguntur esse, quam sirtt.... Illa dicimus poni in puris inlelleclibus, quae intelliguntur simpliciler ut sunt. a82 ) Si può osservare che anche qui la locuzione abbreviata, ri¬ cordata già più sopra (nota 167) „praedicari in quid “ o ., praedicari in quale “ è comunemente adottata nel senso di „ praedicari in eo quod quid “ o ,, praedicari in eo quod quale". glielmo da Champeaux osserva (v. sopra la noia 106) che, se si ammette una così poco stretta connessione tra le forme individualizzanti e le sostanze universali, tutte le sostanze _non eccettuata neanche la Fenice, che esiste esclusivamente mia volta sola — appunto come sostanze, dehhon finir con l’essere uguali e identiche fra loro, e neanche possono per conseguenza distinguersi dalla so¬ stanza di Dio : e parimente osserva che questa identità di essenza di tutte le sostanze, o la loro indifferenza ri¬ spetto a qualsiasi forma individuale che vengan a pren¬ dere, conduce a dover ammettere anche la coincidenza degli opposti in ima stessa sostanza 283 ). “*) Glossulae s. l’orph ., riferite dal Rémusat, toc. cit., II, p. 97-99: Ce SYStème exige que les jormes aient si peu de rapport avec la malière qui leur seri de sujet, que dès qu'elles disparaissenl, la malière ne diffère plus d'une aulre malière sous aucun rapport, et que tous les sùjets individuels se réduisent n l'unité et à l'identité. Une grave hérésie est au bout de cotte doctrine ; car avec elle, la substance divine, qui est reconnue pour n'admettre aucune forme, est nécessairement identique à toute substance quelconque ou à la substance en generai.... Et non - seulement la substance de Dieu, mais la substance du Phénix (v. la Sez. XII, nota 87), qui est unique, n'est dans ce système que la sub- stance pure et simple, sans accident, sans propriélé, qui, partoul la méme, est ainsi la substance universelle. C'est la mème substance qui est raisonnable et sans raison, absolumenl camme la mème substance est à la Jois bianche et assise ; car étre blanc et ótre assis ne soni que des jormes opposées, comme la rationnalité et son contraire, et puisque les deux premières Jormes peuvent notoirement se trouver dans le méme sujet, pourquoi Ics deux secondes ne s'y trouveraient-elles pas égale- menl ? Est-ce parce que la rationnalité et Virrationnalité soni contrai- res ? Ellcs ne le sont point par l'essence, car elles sont toutes deux de Vessence de qualité ; elles ne le sont.... per adjacentia, car elles sont, par la supposilion, adjacentes à un sujet identique. Du moment que la mème substance convient à toutes les Jormes, la contradiction peut se réaliser dans un seul et mème ótre [ed. Geycr del testo originale, p. 515:... « Quibus hoc obicimus: quod si hanc sententiain concedi convenit, quippe si formas contingeret a subiecta materia discedere, ita scilicct quod subiecta bis penitus rarerent, in nullo pcnitus hir et ille differrent, sed iste et ille omnino idem efiicerentur. Ex quo scilicet pessimain haeresim incurrunt, si hoc ponatur, clini scilicet divinam substantiam, quae ab omnibus formis aliena estidem prorsus oporteat esse cum substantia.... — Ibid., p. 517 :... Nec (propter) deum solum verum est, sed etiam propter alias substantias fortasse, ut est phoenix. — Oportet igilur secundum praedictam Contro la dottrina della indifferenza, egli oppone (v. la nota 132) per prima cosa la definizione del con¬ cetto di genere ( genus est, quod praedicatur de pluri- bus ), dalla quale rimane escluso che ima e medesima cosa possa essere mai al tempo stesso genere e individuo: e poi le oppone anche la relazione predicativa in gene¬ rale, stando alla quale bisogna mantenere la distinzione tra individui e concetti specifici, e deH’universale stesso è impossibile predicare la individualità, — laddove, se si prende l’individuo già nello stesso tempo come specie o come genere, il concetto di genere, in quanto vieu pre¬ dicato, resta privato del proprio soggetto, o, quando si tratta di qualità (cioè di adiacentia ), non può appunto essere più un predicato, valido per diversi soggetti [cfr. il testo originale, ed. Geyer, p. 520: « .... non omni generi convenit, eum omne genus non habeat praedicari in adiacentia »] 2Si ). sententiam substantiam divinam idem esse cubi qualibet substantia, quam constat esse veram et simplicem et ab ni nni proprietate irn- muncm. Praeterea si cadem substantia essentialiter sit in omnibus, ita scilicet (ut) ea quae informata est ralionalitate, sit irrationalitate occupata, quomodo negari potest, quin substantia rationalis sit sub¬ stantia irrationalis ? Quibus obiectis nidlatenus refragari queunt, cum eadem substantia penitus omnibus f'ormis informari ostendatur. Quis enim cum eandem substantiam albedine et nigredine et sessione occupatam viderit, ncgabit substantiam albani esse sedentem ? — Si quis vero dicat insistens rationale esse irrationale, veluti substantia alba est substantia sedens, cum hae oppositae formac contrarrne sint, illae vero non, fallitur, quia nec in essentia magis sunt oppositae istae quam illae, cum eadem essentia qualitatis sit penitus, nec in adiacentia, cum eidem substantiae penitus adiaceant. Sed si quis di- cit formas istas oppositionem habere ex oppositis formis quibus in- formantur, fallitur, cum eadem ratione non possit assignare, onde illae oppositionem trahant »]. 2S1 ) Ibid., p. 100: Muis c’est là ce qui n'esl pus soutenable. La défi- rtition qui veul que le gerire soit ce qui est attribuable à plusieurs, a été donnée à l'exclusion de Vindividu. Ce qu’elle définit ne peut en soi étre à aucun titre , en aucun état, individu. Dire qu'une méme chose tour à tour comporle et ne comporte pas la définition du genre, c'est dire que cette chose est, comme genre, attribuable à plusieurs, mais que, comme genre aussi, elle ne Vest pas, car un individu qui serait attri¬ buable ò plusieurs serait un genre ; par conséquent Vassertion est con- [Finalmente, anche contro quella tesi, a noi non meglio nota, che concerne una proprietas delle cose (v nota 73), rivolge ripetutamente la stessa obiezione tratta dalla definizione del concetto di genere, e denota in generale come la cosa più pericolosa e insostenibile. tradicloire, ou plutòt elle n’a aucun gens. Les auteurs disent que celle nroposition : L’homme se promène, vraie dans le particulier, est fausse de l’espèce (qui tuttavia il Réniusat deve o aver avuto sottocchio un testo scorretto, o aver inteso scorrettamente il testo corretto, poiché lu dottrina ripetutamente enunciata da BOEZIO, a p. 15 [in Porph. a Vici, transl., I, 16: ed. Brandt, p. 45; PL, 64, 27], p. 36 [i6.. II, 10 (« Cicero sedet.... homo sedei»): cd. Brandt, p. 103; PL, 64, 57], ecc., facendo uso dello stesso esempio — Cicero ambulai , homo ambulai — è espressa naturalmente nel senso, che l’accidente è predicato, primitivamente dell’ individuo e derivativamente della specie, ma non che questa seconda predicazione sia falsa). Commenl maintenir cotte dislinction, si une ménte chose est espèce et individu ? (p. 101) V individuai ile résultant de formes accidentelles ne saurait èlre l'attribut essentiel d’une substance susceptible d'universalité ; cc- pendant certe substance, en tant que particulière, distincte de ses som- blables, est esscntiellement individueUe, violation manifeste de la règie de logique qui porte que „dans un mème, Vaffirmalion de l'opposé exclut Vaffirmation de l’autre oppose’'’. Lorsqu'on dit que le genre est atlribuable à plusieurs, on parie ou d'attribution essentielle (praedicari in quid), ou de toute autre ; s’il s’agit d'attribution essentielle, camme on le nie aprìs Vavoir affirmé, elle cesse d’ètre essentielle, ou elle em- porte avec elle son sujet ; s'il s’agit d’attribution accidentelle (in adja- ceutia), la définition n’est plus exacte, elle ne convient plus à tout genre [ed. Geyer, p. 518 ss. : « .... Huic autem sentcntiae o p p o na¬ ni u s . . . . In primis inquirendum iudico, quomodo Porphyrius dicit praedicari de pluribus ad cxclusioncm individuorum, cum illa scilicet praedicentur de pluribus secundum illos. Sed dicunt mihi, quod cum dicitur genus de pluribus praedicari, tale est, ac si dica- tur: genus in quantum est genus, praedicatur de pluribus. quod con¬ stare non potest.... Amplius cum diffinitio generis sit, quod praedicatur etc., oportet eum concedere quod individuimi ex stalli individui sit genus, quia ex ilio quod praedicatur de pluribus, [quod] est animai. Propterea quomodo dicunt « praedicari de pluribus », quod generi convenit, genus ab individuo removcrc, cum idem pror- sus individuo conveniat ?... Amplius quomodo dicit B o e t h iu s super Peri ermenias [Boezio, in libr. de interprete ed. se¬ conda, L. II, c. 6 (ed. Meiser, Pars Post., p. 133: PL, 64, 461), p. 337] quod haec propositio « homo ambulat » de speciali falsa est, de par¬ ticolari vero vera est ? Numquid et de universali similiter vera est, cum idem sit universale et particulare ? Sed fortassis inquies, quod ab hoc universali ambulatio prorsus removeri potest, a particulari vero non, hoc modo: nullum universale ex statu universali ambulat. Sed similiter dici potest, quod nullum particulare ex statu particu- qualsiasi scambio o confusione tra individuo e univer¬ sale 285 ). [i) soluzione proposta da Abelardo : il senno praedi- cabilis]. — Ma secondo il suo personale modo di vedere, egli credeva di aver trovato la via giusta per poter al¬ fine comporre, com’è sua opinione, il contrasto fra Pla¬ tone e Aristotele, vale a dire appigliandosi a quell’unico passo del libro De interpr., dove l’universale è designato come ciò, ch’è « naturalmente fatto per essere predicato laris anilnilationcm habeat. Haec quippe enuntiatio: « in co quod est universale, non ambulata, duobus modÌ9 potest intelligi, sive interpositum sive praepositum. Interpoeituin sic: in eo quod univer¬ sale, non ambulat, ac si diceretur: proprictas universalis non patitur ambulationem, quod omnino falsum est, eum eidem subiecto uni- versalitas et particularitas et ambulatio adiaceant. Quod si praepo- nilur, intelligitur boc modo: non in eo quod est universale, ambu¬ lat, sicut est illud: non in eo quod animai est, habet caput, hoc est: non exigit proprietas universalis, ut ambulet, sicut non exigit natura animalis, quod habeat caput. Sed eodem modo verum crii de particulari, orai proprietas particularis non exigat ambulatio¬ nem ». Ecc. ecc., sino alla p. 521], 286 ) Ibid., p. 102: La difficulté est toujours de faire cadrer ce système avec la définition du genre. Il faut que la propriété d'ètre attribuable à plusieurs séparé Vuniversel de l'individuel ; or, on vieni de dire que de plusieurs choses chacune est individuellement animai ; le nom indiriduel d'animal serait—il donc le nom de plusieurs ? V indie Uhi se- rait-il attribuable à plusieurs ? Cela ne se peut. Mais comme animai ne peut plus se dire de plusieurs, mais de chacun, il n’y a plus de genre, ou plutòt tout est renversé, c'est l’individu ou le non-universel qui prend la place de Vuniversel, c'est ce qui ne peut s'ajfirmer de plusieurs qui s'affirme de plusieurs. et c'est une pluralité où chacun s'affirme de plusieurs que l'on appelle Vindividu [ed. Geyer, p. 521-22 : « Pri- mum quaerendum est.... quomodo secundum hanc sententiam in¬ dividuimi ab universali differat per praedicari de pluribus, cum indi¬ viduimi habeat praedicari de pluribus, id est plura sunt, quorum unumquodque est individuimi. Sed fortasse inquies, quod recte prae¬ dicari de pluribus in diffinitione universalis ponitur ad exclusionem individuorum, cum omne universale praedicari de pluribus habeat, nullum autem individuimi de pluribus praedicetur. Sed eodem modo inter universale et animai differentia potcrit assignari, cum omne universale de pluribus et nullum animai de pluribus... Praeterea secundum banc sententiam concedere oportet, quod non-universale sit universale et res quae non praedicatur de pluribus, praedicetur de pluribus et multos quorum unumquodque de pluribus praedi¬ catur, concedat individuimi appellali»].  di più cose» (quod natura est de pluribus praedicari ); poteva Abelardo con questo, nella maniera già più sopra ricordata (nota 254 1 , far procedere insieme la genesi delle cose qual è data obbiettivamente in natura, e quella pro¬ duzione subbiettivamente umana che è la denominazione, e anzi esprimere questa relazione, persino ricorrendo alla similitudine della statua, la quale è costituita dalla pie¬ tra, che lia esistenza obbiettiva, e dalla forma, ch’è ag¬ giunta dalla mano dell’uomo 286 ). Ma su ciò si fonda ora il vero e proprio sciboleth, che contraddistingue la posizione di Abelardo nel con- 2BC ) liuti., p. 104 s. : Aristote, au dire d'Abélard, parati l'insinuer clairement, qunnd il définit l'universel ce qui est né altribuable à plu~ sieurs, quod de pluribus natum est praedicari. Cest une propriété uree laqtielle il est né, qu’il a d’origine, a nativitate sua. Ór, quelle est la nativité, l'origine des discours ou des noms ? Vinstitution humaine, tandis que l’origine des choses est la création de leurs natures. Celle différence d’origine peut se rencontrer là méme où il s’agit d’une mème essence. Ainsi dans cel exemple : cette pierre et cette statue ne font qu’un, l'étal de pierre ne peut ótre donné à la pierre que par la puissance divine, l’état de statue lui peut ótre donné par la main des hommes. [ed. Geycr, p. 522: «Est alia de universalibus sen¬ te n t i a rationi vieinior, quae nec rebus nec vocibus communi- tatem attribuit; sed serinones sivc singulares sive universales esse disserunt. Quod etiain Aristote¬ le s ... . aperte insinuat, cuin ait: « Universale est, quod est natum praedicari de pluribus », idest a nativitate sua hoc contrahit, ex insti- tutione scilicet.... Hoc enim quod est n o m e u sive s c r m o , ex hominum institutione eontrahit. Vocis vero sive rei nativitas quid aliud est, quam naturar creatio, e uni proprium esse rei sive vocis sola operatione nalurae consistat ? — Itaquc nativitas vocis et sennonis diversitas, etsi penitus in essentia identitas. Quod diligen- tius exemplo declarari potest. Cum idem penitus sit hic lapis et haec imago, alterius tamen opus est iste lapis et a[terius haec imago. Constat enim a divina substantia statura lapidis solummodo posse conferri, statum vero imaginis hominum comparatione posse for- mari»]. Nella traduzione di Boezio, p. 338 [ed. secunda, II, 7: ediz. Meiser. Pars Post., p. 135; PL, 64, 462], il passo aristotelico citato nella Sez. IV. nota 197, è cioè del seguente tenore: Quoniam autem sani haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim ; dico autem universale, quod in pluribus natum est praedicari , gingillare vero, quod non, etc. Qui dunque Abelardo poteva appoggiarsi, per la tesi reali¬ stica, alla parola « natum », e al tempo stesso, per la tesi nominali¬ stica, alla parola « praedicari ». Così in quell’epoca, ch’era incapace di assurgere alla visione dei principii, ma si limitava allo studio  « tra ' Van mdirizzi; ««Perocché, una volta che il predicato venga r, conosciuto come naturalmente determi nato, ne consegue che nè le cose come tali, nè le paroJ ' come tali sono 1 universale, bensì la universalità è ri posta soltanto nello stesso praedicari, e dunque in' quella maniera di esprimersi ch’è il giudizio, insomma el « sermo » : con questo si evita ora la opinione sba ghata e insostenibile, che cioè di una cosa possa ori carsi una cosa, sì che, a questa maniera, mia co a f ugual r e in più - e una cm., ma « per r.ppnnto „„ preJica | 0 ' E, mettendo „ ra Abelardo in eo„„e„i„„ e eon ' conseguenza 1, definizione già riferita del genere ne ‘ espressamente che  nega mo) sia di • universale il predicato (ser- ” 3 3ll ° ra ‘“tersale anche la parola in quanto paro a poiché alla stessa maniera si potrebbe d mLT U Cl,e è “• «. 'ce dell alfabet o; „ deve rnvece, in ,„eli„ definir .. tener rizzi sano statesenz^tmcozUuIt^o^^* 1 !, 0 he dei J ' vcra ' 'odi- lati diversi da uno all’altro scrittore 77'l f°? dame ? to di passi iso¬ lai/ Ctteratura in uso nelle scuole Cfr -Y* !u testi e l‘e formavano ^)Ibid aPPre - S .° k DOta 293 -‘ P1U S ° Pra n ° tC I05 ’ 129 ’ buatte à plufieurs, ni ìefchòses'n'i fet* 1 umversel Pst d'origine altri - c p n est paste mot. la voix. mais le dilriu, T" Car stori du mot, qui est attribuable à divers C e ? t ~ d ~ dire l ' p *prcs- dis mots, ce ne sont pas les mots mais Ù . 9 lw, g “ P ' Ù S ° Pra (nota 63 > "tato, di GiovauTda Salisb^ “ PaSS °’ fisso l’occhio sopra l’oggetto da essa definito, cioè sopra lo stesso genere, e con ciò si rende manifesto che nella parola singola non è già contenuto il genere stesso nella sua totalità, bensì invece la parola ch’esprime il genere, viene, in un giudizio, predicata di diverse cose, insomma che proprio il giudizio è predicabile, — « sermo est prue - dicabilis » —, perchè il pensiero dispone per ordine le pa¬ role, in vista della descrizione delle cose 2SS ). Se per con¬ seguenza la parola è predicata, non secondo la esterio¬ rità del suo effettivo suono, bensì secondo il suo intimo significato, e è dunque il suo significato che ne fa un uni- - ) Ibid., p. 107 s.: Mais Abelard se faii des objeclions. Comment l oraison peni-elle elre un,vergelle, et non pas la voix, quand la des- criplion du genre convieni aussi bien à l’une qu'à Vautre ? Le genre est ce qui se dii de plusieurs qui diffèrent par Vespèce ; ainsi le décrit PorphyTe. Or, la descnption et le décrit doivenl convenir à tout suiel quelconque ; c est une règie de logique, la règie De quocumque, et camme le discours et Ics mots ont le ménte sujet, ce qui est dit du discours est dii des mots. Vane, comme le discours, la voix est le genre. Celle prò- posti,on est incongrue, non congruit; car la lettre étant dans le mot et par consequent s attribuant à plusieurs comme lui, il s'ensuivrait que la lettre est le genre. Cesi que, pour que la description ou définition du genre so,t appi,cable il faut qu'on Vapplique à quelque ckose qui uit en so, la realite du défim, rem definiti; c'est la condilion de l'appli- catwn de la regie De quocumque, et ici catte condition n'existe pus Le mot ne contieni pas tout le défini, il n'en a pas laute la compréhen- s,on et ,1 n est atlnbue a plusieurs, affirmé de plusieurs, pracdicatum de pluniras. qU e parce que le discours est prédicable. est sermo prac- dicabibs, c est-a-d,re parce que la pensée dispose des [si direbbe che Franti intenda come « fosse scritto « Ics »] mots pour décrire toutes choses [ed. Geyer. p. 522-23: «Cui sementine opponi- tur. 1 rimimi enun quaeritur, cur sermones et non voces esse uni- versale? astmant cum descriptio generis tam vocibus quam sermo- mbus conveniate De quocumque enim praedicatur descriptio, et de- scriptum; sed descriptio generis praedicatur de voce, cum vox sit ifiud quod praedicatur de pluribus differentibus specie etc.; vox «ri- tur est genus. — Quod sic s o 1 v i t u r: Huic argumentationi; Cst ' , . , '' ,j US ' ^ mUd q "° d praedicatur ' ( iuia est sermo PaANTL, Storia detta logia, in Occidente, II.versale 289 ), ben può dirsi a questa maniera che il genere e la specie sono una parola (vox), ma non già, viceversa, che la parola è la specie o il genere, perchè la essenza individuale, che è la parola, non può essere predicata di più cose, mentre si può, con una tale concezione, am¬ mettere invece, senza difficoltà, un essere obbiettivamente reale, corrispondente ai generi e alle specie 2D0 ). Generi e 2#s ) Ibid.. p. 108: On peut dotte dire que le discours étanl un gente, et le discours étant un mot, un mot est le genre. Seulement il faul ajouter que c'est ce mot uvee le sens qu’on a entendu lui donner. Ce n'est pus l essence du mot, en tant que mot, qui peut ètre attribuée à plusieurs ; le son vocal qui constitue le mot est toujours actuel et particulier à chaque fois qu’on le prononce, et non pas universel ; mais c'est la si- gnification qu'on y attaché qui est générale [cd. Geyer, p. 523-4:« Cum haec vox sit hic sermo et hic sermo sit genus, quomodo ratiouab ili- ter negari poterit, quin haec vox sit genus ? Quod sic solvitur: Cum dicimus « hic sermo est genus», tale est ac si dicamus: sermo huius institutionis est genus. Sed cum dicimus « haec vox est genus », tale est ac si dicamus: haec essentia vocis est praedicabilis ctc., quod falsum est.... — Concedimus itaque has esse veras: Hoc nomen est genus, hoc nomen est universale. Similiter: Hic sermo « animai» est genus, hoc vocalndum « animai » est genus et universale, et si¬ militer omnes in quihus subicitur vox innuens institi! tionem, non simpliciter essentiam vel prolationem, sed signifìcationem et praedicans eommunitatem, sicut est: genus, universale, sermo, vo- cabulum, dictio, oratio.... »]. *®°) Ibid., p. 108-9: Abélard.... permei qu'on dise que le genre ou l'esp'ece est un mot, est vox, et il rejette les propositions converses ; car si l on disait que le mot est genre, espèce, universel, on attribue- rait une essence individuelle, celle du mot, à plusieurs, ce qui ne se peut. C'est de mème qu'on peul dire: cet animai ( hic status animai) est cette matière, la socratité est Socrate, l’un et l’aulre de ces deux est quelque chose, quoique ces propositions ne puissent ètre renversées [ed. Geyer, p. 524: « Nota tamen, quod haec propositio vera est: genus est vox et species est vox. Tale est enim ac si dicatur: generale vocabulum est vox vel speciale. Convcrsae harum, scilieet: vox est genus vel vox est species, non sunt concedendae, cum per illas com- munitas essentiae ostendatur, quae similiter in omnibus reperitur. Concedimus exiirn propositiones: hic status animai est, haec materia Socratis est Socrates, utrumque istorum est aliquid; conversas vero istarum negamus omnino, scilieet: homo est hic status animai, Socrates est materia Socratis, aliquid ast utrumque istorum»), — Dialect., p. 480: in significationibus suis vocabula saepe nominantur , ut cum ea quoque vel genera vel species vel universalia vel singularia rei substantias vel accidentia nominamus. Nomen autem.... hoc loco accipiendum est quaelibet vox significativa simplex, qua rebus prae- posita vocabula praedicamus. specie, cioè, in quanto sono da noi pensati, si riferiscono bensì a qualche cosa che esiste, e questa cosa afferrano, ina soltanto in senso figurato poteva dirsi che essi esistono quali universali pensati da noi, poiché il senso proprio di tale espressione è solanieute questo, che esiste cioè qual¬ che cosa che dà luogo a questi universali 291 ). 2tfl ) Ibid., p. 109 10: Il décide que. bien que ces concepts (ma chi sa se nell’originale latino ri leggerà in questo punto « conceptus » ? io eongetturo piuttosto che vi si dica « intellectus » : v. appresso le note 313 ss.) ne donneiti pas les choses camme discrètes , L, 64, 121-2], p. 84: rfr. la Sez XI, nota 44), secundum quas ipsa genera, quae ab ipsis di¬ visa sii nt. specificantur.... Nec cum ipsae generis subslantiam in spe¬ derà reildunt, ipsae quoque in essentiam speciei simul transcunt, sed sola "enera vel subjecta specificantur, non qmdem separata a difie- rentiis. sed, nisi ei differentiae adveniunt, ipsa sola non etiam differentiae species efficitur, non quidem cum differentiis, sed per differentias, sicut in libro Partium, tractatu speciei, disseruimus (v la nota 272). Si enim differentiae in speciem transferrentur cum lenere . ipsas de substantia rei esse, et in partem malenae venire rontineeret.... (p. 478) Nihil.... aliud materia jam fannie aclual,ter contunda quam ipsum materiatum, ut nihil aliud est hic annulus aureus quam aurum in rotundilalem duetum.... Stalline.... compostilo, quem Boethius (p. 88) ponit . species non riddar, cum nec materia sit unum, sed operatione hominum, nec substantiae nomen, sed acci- dentis cum statua videtur et a quadam compositione sumptum. z»«) Introd. ad t/no/.. II, 13, p. 1083 [98]: Cum autem species ex genere creaci seti gigni dicantur, non lanieri ideo ri eresse est,genus speries suas tempore, vel per existentiam precedere, ut videlicet ipsum prius esse contigeril quam Mas. Numquam eternai genus nifi per aliquam speciem suam esse contingit, vel ullatenus animai juit, antequam calumale vel irrationale fuerit : et ita quaedam species cum suis generibus simul [99] naturaliter existunt, ut dMlatenus genus sino illis, sicut nec ipsae sine genere esse‘pomerint [PI., 178, lOtuj. praedicatio, la quale può riferirsi ora alla forma, ora alla cosa formata da questa, e via dicendo 29? ). Ma dovendosi, a proposito di questo generarsi delle specie dai generi, toglier di mezzo quella più difficile que- stione riguardante gli opposti (v. sopra le note 113 e ilo s.), ecco qual è su questo punto il modo di vedere di Abelardo: La diversità delle specie può essere determi¬ nata soltanto dal fatto che sussiste ima diversità delle so¬ stanze; ma questa è un prodotto della differenza specifica la quale si chiama sostanziale, proprio perchè realizza entro la sostanza ima separazione di gruppi, e con ciò, al tempo stesso, una unità dei gruppi così separati, eia- scuno dei quali ha una comune natura 888 ); e a quel modo che, per conseguenza, la materia, ch’è il genere, non si presenta più, hi identità di essenza, in tutte quante le specie, cosi dalla differenza specifica vengono esclusiva- mente prodotte soltanto le specie della sostanza stessa; se perciò tutte le altre specie, che non procedono dalla so¬ stanza, si debbono generare senza l’azione esercitata da una differenza sostanziale e debbono pertanto aver il prò- pno fondamento nella sola materia, la unità di quest’ul- tnna va intesa come somiglianza di essenza (consimili- tudo), dalla quale per es„ nonostante la comune essenza ipslls^nriti^t ^ P> 1277 f183]: ^oprie,as ilaque n,aterine ZZ, v/, , secundum quam ex ea materialitcr al,quid fieri habe'. Materiati vero proprietàs est ipsa e converso postcrioritas Pro prietates itaque ipsae impermixtae sunt per praedicMionem licei iosa proprietà.... permixtim de eodem praedicentur. Aliud quippe est prue Ì7{/~\^]. f ° rma,Um ÌPSUm ' h - e - iP sam Jormae subjec- “ ) Dialect., p. 418: Diversitas itaque subslantiae diversitatem quae natura substantiae divina univit operatio.  (lell'esser colori, non rimane esclusa la opposizione con¬ traria del bianco e del nero 2 "). Così Abelardo tiene distinte, da un lato, quelle forme, che son, esse medesime, essenze, e che bisogna pur che entrino nella materia, la quale sta a loro fondamento ( subiectum ), per far di questa qualche cosa, che senza quelle non sarebbe, — e, dall’altro lato, quelle forme, che per se stesse non sono essenze, ma son di già contenute nella materia del genere 300 ) ; naturahnente nelle prime c’è la differenza specifica vera e propria, a quel modo che nelle seconde c’è la così detta nota casuale di differenze accidentali, cioè queU’adiacerma (nota 284), cli’è oggetto della predicazione non-sostanziale 301 ). Ma, con ciò, gli opposti, nelle forme sostanziali, sono derivati soltanto ! ") Uh/., p. 400, dove al passo citato più sopra (nota 113) fa sèguito: Si enim omnium specierum est eadem in essentia materia , tunc albedinis et nigredinis et caeterorum contrariorum, quae omnia.... ejus- dem generis species esse necesse est.... Nostra quoque sententi a te net, solas substantiae species differentiis confici , caeterasque species per solam subsistere materiam, sicut in libro Partium ostendimus. Si ergo eadem prorsus est materia, quae est in ipsis diversitas ? Sed eadem (cioè diversitas in ipsis est), quae est in consimilitudine substantiae, non indeterminatae essentine. Ncque enim ea qualitas, quae est essentia albedinis , essentia est nigredinis , essel enim albedo nigredo, sed con¬ similis in natura generis superioris. Consimilitudo autcm vel sub- stantiae vel jormae contrarietatem non impedit. Riguardo alla consi¬ militudo, e£r. qui appresso la nota 307. 30 °) Pseudo-Abael. de intell., edito dal Cousin, Fragm. phil. (1840), p. 495 s. [Opera, II, p. 755]: Alii autem, qui quasdam formas essentias esse , quasdam minime, perìiibenl. sicut Abaelardus et sui , qui artem dialecticam non obfuscando sed diligentissime perscrutando dilucidante nullas formas essentias esse approbant, nisi quasdam qua- litates, quae sic insunt in subjecto , quod subjectum ad esse earum non sufficit , sicut ad esse quantitatum ipsum subjectum sufficit... et ad esse sessionis necessaria est dispositio partium... Nullam enim for- mam essentiam esse asserunt, cui... poterit assignari... subjectum ad esse illius sujfficere. Theol. Christ., Ili, p. 1280 [487]: sire illa forma sii com- munis differentia, h. e. separabile accidens. ut nasi curvitas, si ve magis propria differentia, i. e. substantialis, sicut est rationalitas, quae sci - licet substantialis differentia non solum facit alterum , i. e. quoquo modo diversum, verum etiam aliud, h. e. substanlialiter atque specie diversum [PL, 178, 1251]. Qui la fonte è Porfirio (Sez. XI, nota 44), cioè Boezio [ad Porph. a se transl., lib. IV], p. 79 ss. dall'attività della differenza specifica e sono senz'altro separati, mentre, trattandosi delle forme non-sostanziali, ci si presentano nella materia del genere, quali possibi¬ lità’' 2 ): e Abelardo, dato che per lui a base di tutte quante le opposizioni puramente qualitative non c’era un substratum sostanziale, mentre un tale substratum andava riconosciuto esclusivamente per quelle opposi¬ zioni che vengono a costituir delle specie, poteva molto facilmente, con il mantenere la non-unificabilità degli opposti, sottrarsi a quella difficoltà che più sopra (nota 115) abbiamo veduta 303 ). ' Ma mentre a questo modo quel processo di creazione, nel quale la differenza specifica opera separando, e le spe¬ cie cosi separate si raccolgono in raggruppamenti unitari (nota 298), si estende, in progrediente graduazione, sino all individuo singolo, il quale è, come tale, essentialiter o entialitcr (non tuttavia secondo la sua sostanza) sepa- rato dal suo simile 3 °fre (B0tZI0 ’ P- ™ nox7Lì h -md ÌS lil l P Ì80 3 r487F-T ^ già , più s °P ra ' aUa mero sun, difierenlia. q uae loia JL ,.,L. Z^ZTentt disTctsum sire solo numero ab inviami disteni , ut Socrate* e, i>LT ’ mente come im nome generale equivoco 305 ), ma invece la « subsiantia », in quanto è questo il concetto del genus generalissimum, dev'essere consideratacome quella su¬ prema ultima materia, sulla quale incomincia a eserci¬ tarsi Fattività della differenza specifica 308 ). Così Abelardo, in quanto è platonico, insegna mia ontologia obbiettiva degli universali, la quale da un lato vantaggiosamente si distingue, per la maggior cura con cui si giova di Boezio, dal più grossolano realismo di Guglielmo da Cbampeaux, ma al tempo stesso, mediante il concetto già sopra menzionato (nota 299) di consimili- tulio, viene, d’altra parte, in certo modo, a mettersi in contatto con l’autore dello scritto De gen. et spec. (no¬ te 163 e 177) o con la teoria (nota 132) della indiffe¬ renza 807 ). [mi ma dallo stesso principio Abelardo trae insieme partito secondo il punto di vista aristotelico ]. — Ma ora, quanto a quell’altro modo di vedere di Abelardo, die si 305 ) Glossae ad Porph. (riferite dal Cousin), p. 568: Ens est aequi- vocimi.... [569] videlicet illam definilionem, quam habel ens in prae- dicamento substantiae, nunquam habebit in praedicamento quantità- tis.... Ens non habet unam substantialem diffinitionem, cum qua prae- dicalur de omnibus generalissimis, cum hac diffinitione praedi- catur ens de substantia : substantia est ens, quod ncque est qualitas nec quantitas etc. — V. la Sez. XII, nota 89. 30li ) Ibid.. p. 565: Substantia est generalissimum, quia est solum genus.... — (p. 566) quemadmodum substantia est genus generalis¬ simum, cum suprema sii, eo quod nullum genus supra eam sit, etc. — Inoltre il passo citato più sopra, nota 298, e Dialect., p. 485: Genus omne naturaliter prius est suis speciebus.... genus [est materia] spe- cierum. 307 ) In una maniera consimile, che ricorda quelle teorie, si espri¬ me Abelardo, Theol. Christ., Ili, p. 1261 [468]: Sed nec Socrates, cum sit a Platone numero diversus, li. e. ex discretione propriae essen- tiae ab ipso alius, litio modo ideo ab ipso aliud dicitur. h. e. substantia- liier differens, cum ambo sinl ejus[dem ] naturae secundum ejusdem speciei convenientiam, in eo scilicet [1262] quod uterque ipsorum homo est. — Ibid., p. 1279 [486]: Idem vero similitudine dicuntur quaelibet discreta essentialiler, quae in aliquo invicem similia sunl, ut specics idem sunt in genere vel individua idem in specie [PL, 178: 1232 e 1250]. accorda con il punto di vista logico di Aristotele, bisogna che tentiamo di metter in chiaro, in qual maniera do¬ vesse, secondo lui, intendersi il concetto già ricordato (note 286 ss.) di « sermo », e com’egli ne determinasse minutamente il fondamento: e qui fin da principio sem¬ bra esser degno di nota ch’egli, rimanendo assolutamente fedele al punto di partenza da cui lì aveva preso le mosse, si attiene a passi contenuti nel libroDe interpr. Se cioè deve tenersi fermo il principio dianzi enun¬ ciato, vale a dire che il praedicari è degli universali, quali sono naturalmente determinati, si ha anzi tutto una sem¬ plice parafrasi dello stesso principio, quando si afferma che la predicazione (sermo) è in rapporto di originaria affinità con le cose 308 ) : tuttavia, com’è naturale, ciò va inteso nel senso che la denominazione (vocum impositio ), venendo dopo, è condizionata e dipendente dalle cose ob¬ biettive che essa significa ( res significala) 30S ), anzi che, in questo senso, anche la significano della parola è ancora quel primum, dal quale soltanto dipende la parola come parola 310 ). Vero è poi che a questa maniera i generi e le specie non sono nient’altro che ciò che da queste parole è significato 3n ), ma quel che da esse è significato. 3 " 8 ) Introd. ad theol., II, 10, p. 1074 [90]: Conslat quìppe , juxta Boethium ac Platonem , cognatos de quibus loquuntur rebus oportere [91] esse semiortes [PL, 178, 1062]. — V. Boezio, ad Ar. de interpr. [ed. seconda, II, 4: ediz. Meiser, Pars Post., p. 93; PL, 64, 440-11, p. 323. J 30 °) Dialect., p. 487: vocem secundum imposilionis suae originem re significata posteriorem liquet esse. — Ibid., p. 350: Si nòminis hujus. quod est « homo », propriam impositionem tenueril, secundum id scilicet, quod substantiae hominis ut existenti ex animali etrationa- litote et mortalitate datum est, ratam omnino conseculionem viderit. — Inoltre il passo ricordato più sopra, nota 255. 31 °) Dialect ., p. 345: neque enim nomina ncque verbo sunt, suis non existentibus significationibus. — Ibid.. p. 482: [propria signifi- catio. illa ] scilicet. de qua inlelleclum proprie vox queal generare. 3iI ) Glossae in Porph.. p. 567: genera et species. id est ipsa signi¬ ficata harum vocum, come pure nel passo riferito più sopra (nota 278) si dice sempre: sex voces et significata eorum. in altro non può consistere, a sua volta, se non nei pro¬ dotti (li quel processo di creazione, onde dal genere si scende giù giù sino all’individuo: e avendo i generi e le specie una esistenza concreta soltanto negl’individui, nella proposizione « Socrate è un uomo » noi parliamo per esempio soltanto di quel che significato da queste pa¬ role, ina non già delle parole stesse, in quanto parole 312 ). Ma proprio poiché i generi e le specie non sono ciò ch’esiste concretamente, l’antico motto « singultire senti- lur, universale intelligitur » conserva il proprio valore: ed essendo, dal concetto intellettivo ( intellectus ), affer¬ rato ciò che non cade sotto i sensi 3113 ), bisogna che — poiché quell’universale che non cade sotto i sensi, è ciò ch'è destinato a esser predicato — 1 esso concetto necessa¬riamente contenga in sé il principio onde si genera la predicazione, e venga alla coscienza, attraverso qualsiasi predicato, come principio del generarsi di questo, ovve- rossia: sermo generalur ab intellectu et generar infelice- tum 314 ). Così il « predicare » (sermo) è il terreno degli 312) Diale et., p. 204: Neque enim substantia specierum diversa est ab essentia individuorum, sicul in Libro (leggi primo: v. la nota 272) rartium ostendimus , nec res ita sicut vocabolo diversas esse con- tingit. Sunt namque diversae vocabulorum in se essentiae specialium et singularium, ut « homo » et « Socrates sed non ita rerum diver¬ sae sunt essentiae. Unde Ulani rem, quae est Socrates. Ulani rem. quae homo est, esse dicimus ; sed non illud vocabulum, quod est « Socrates », illud, quod est « homo», linde quod in re speciali contingit, et in ipsius individuis necesse est contingere, cum videlicet nec ipsae species ha- beanl nisi per individua subsislere, nec in ea, quae informant et ad invicem jaciunt respicere, nisi per individua, venire (cfr. la nota 296). 313) Introd. ad theol., li, 3, p. 1061: Proprie.... de invisibilibus intellectus dicitur, secundum quod quidem intellectuales et risibiles naturar dislinguuntur [PL, 178. 1052: e cfr. PL, 76, 1202], 3U ) Theol. Christ.. I, 4, p. 1162 a. [365]: Licei etiam ipsum no- strae mentis conceptum ipsius sermonis lan i effemini quam causam ponere, in proferente quidem causam. in audiente effeclum, quia et sermo ipse loquenlis ab ejus intellectu proficiscens generalur, ut cum - (leni rursus in auditore generel intellectum. Pro hac itaque maxima sermonum et intellectuum cognatione non indecenler in eorum nominibus mutuas fieri licei translationes : quod in rebus quoque et nominibus pro- pter adjunctionem significationis frequenter contingit [PL, 178, 1130]. alcunché di predicato), bensì soltanto nel fn) ispirazione aristote/im al giudizio (praedicari) I _ jù a m dato ce- intellettivo lin e" ^ 1“' “n- non cade , ,1,,,; e "p *» ■“ ■»“» lenivo. Con Jè U 00 “ en “ U Intel- povalità (cfv. la nota 252) Tv '7 ’ m mon,e n‘o di tem. M»v enunciato, richiede „„ cèrio i'.'mm,!!" per "'ente significante, * non dopo che tnt.e k ,T ' '“'i .teno successi va mente fatte innanzi- e r, ' r„ alicujus exist.it.... fìuod intei cativam dicere, quod unum P de hU*eó"""l ."™‘ 9u, ' ml,bel ’ta signifi- ,V U ! ,a f,,nte è Boezio (ad Ar de ituern l ? tellectus ooncipiatur. Meiser p ars Post ^ ss • PI T, P ‘ Ynf 1 ' 1 seeu “ da - I. 1; ed. Sez. XII, nota 110. - 64 ’ 402 S -L P- 296 s.; V. Ja  siste nella unità di quel pensiero, che esso fa nasce- -re sl8 )- Ma proprio perciò il giudizio, al pari della parola, in quanto questaèelementodelgiudiziostesso, ha essen¬ zialmente due lati a un tempo, uno dei quali consiste nelle cose, delle («de») quali il giudizio tratta {signi¬ ficai io reali*), mentre l’altro riguarda il pensiero, che esso giudizio contiene e genera, ma del quale non tratta (significatio intellectualis ): e c’è pertanto parallelismo tra essere e non-essere, nella realtà obbiettiva, ed esser vero e falso, rispetto al giudizio 317 ). Ben è vero, cioè, 316 ) Ibid., p. 297: ....ut multiplìcem illam dictionem dicamus, quae pluribus imposila est, ex quibus non fit unum, li. e. plura in sentenlia tenet non secundum id, quod ex eis unus procedal intellectus. Sic autem e converso omnis illa una est diclio, quae plurium signi¬ ficativa est. secundum id, quod ex eis unus intellectus procedal. V. Boe¬ zio, p. 335 [o non forse 328? Loc. ult. cit. II. 6. p. 106 ss.: PL, 64, 447-8] (cioè Aristotele: v. la Scz. IV, note 185 ss.). 317 ) Ibid., p. 238: Sunt igitur veruni ac falsum nomina intel- lectuum, voluti cum dicimus „intellectus verus et falsus “, h. e. habi¬ tus de eo, quod in re est vel non est, quos quulem intellectus in animo audientis prolata propositio generai.... Sunt cursus vertim ac falsum no¬ mina proposti 1 onum, ut cum dicimus ,,propositio vera vel falsa" i. e. veruni vel falsum intellectum generane. Significant propositiones idem, quod in re est, vel quod in re non est. Sicut enim nominum et verborum duplex ad rem et ad intellectum significatio. ita etiam propositiones, quae ex ipsis componuntur, duplicem ex ipsis significationem contrahunt, unam quidem de intelleclibus, aliam vero de rebus.... Patet insuper adco, per propositiones de rebus ipsis. non de intellectibus nos agere. — p. 240 s.: Restat itaque, ut de solis rebus, ut dictum est, propositiones agant, sive idem de rebus, quod in re est, enuncient, ut „homo est ani¬ mai, homo non est lapis “, sive id, quod in re non est, proponant, ut „homo non est animai, homo est lapis “, ut etiam de significatione reali propositionis, non tantum de intellectuali, suprapositae [Prautl cor¬ regge: supraposita] propositionis diffinitio (Boezio, p. 291 [? Corri¬ sponde a loc. ult. cit., Prooem., p. 7 ss.: PL, 64, 395-6]) possit exponi sic significane veruni vel falsum, i. e. dicens illud, quod est in re vel quod non est in re“, et in hac quidem significatione veruni et fal¬ sum nomina sunt earum exislentiarum rerum, quas ipsae propositio¬ nes loquuntur. Cum autem eamdem dijfinilionem et de intellectibus ipsis hoc modo exponimus „significanles [Prantl: significane] verum vel falsum, h. e. generane secundum inventionem suam de rebus, de quibus agitur. verum vel falsum intellectum “, lune quidem ipsos nomi- nani [Prantl: nominai] intellectus. Nota autem, sive de intellectibus sive de rerum existentiis exponamus, orationis praemissionem necce-che la parola « praedicari » ha tre significati: vale a dire,ni primo luogo la si usa, in modo affatto estrinseco, per significare la semplice collocazione di un soggetto e di un predicato, imo di seguito all’altro, fatta astrazione da qualsiasi contenuto reale; ma poi quella stessa parola concerne, in doppio senso, la relazione, qual è data effet¬ tivamente nella realtà obbiettiva, in quanto che, riguardo a quel tale processo di creazione (note 294 ss. e 312), il praedicari mette in rapporto con la materia del genere o il formato ( materiatum ) o la forma ; tuttavia, com’è naturale, soltanto tale relazione, espressa dal termine praedicari in queste due ultime sue accezioni, è ciò di cui («de quo») tratta il giudizio: e in tale significalo praedicari vai quanto esse, sicché, — in quanto non pos¬ siamo enunciare giudizi, se non con parole — che im giudizio sia affermativo, o un altro negativo, e via di¬ cendo, queste son distinzioni che ricadon nell’orbita della modalità della espressione 318 ). Inoltre c’è pur coinci¬ denza tra quel duplice riferimento che può esser con¬ tenuto nei giudizi, e l’antica distinzione tra « de subie- soriani esse. Qui la fonte si trova in Boezio, p. 321 [corrisponde a tm iM ' V/ 7 64 ’ 437 ~ 8] -~ Cf "- anche la 347 - ) Unii., p. 366-7 : Tnbus autem modis „praedicari “ sumilur : uno quidem secundum enuntiationem vocabulorum ad se invicem in conslructione ; duobus vero secundum rerum ad se inhaerentiam, aut cum videlicel in essentia cohaeret sicut materia materiato, aut cum alterum alteri secundum adjacentiam adhaeret, ut forma materiae. Ac secundum quidemenuntiationem omnis enunliatio.... praedicatum et sub- jectum li a bere dicitur.... Sed non de his in propositione aeitur. sed de predicanone tantum rerum, illa scilicet solum. quae in essentia, quae verbo subs,antico expnmitur. consista!.... Tantum itaque ..praedi- can illud accipimus, quantum si „hoc Mud esse 1 * diceremus. tantum per ,,removeri'\ quantum per ,,non esse 1 *.... Cum itaque per ..praedi- cari , „esse accipiamus, superflue rei „rere“ vel .. affermative “ appo- nitur: Quod emm est aliquid, vere est illud, affirmative autem enun- tiatioms est determinano, quia tantum in vocibus consisti/ affirmatio sicul et modi vel determinationis oppositio [leggi con il Pronti appo- sitio). Modus emm vel determinano (v. la Sez. XII, nota 119) tantum vocum sunt designatila, quae solae moderanmr vel determinata [Prantl: determinantur] in enuntiatione positae.  c/o» e « in subiccto » (v. la Sez. XII, nota 92), e la h>x praedicamenti ha la propria sfera d’influenza proprio in quelle due accezioni reali del giudizio 31 °). Con ciò ci è resa ora soltanto interamente perspicua la su riferita partizione della dialettica (note 272 ss.) secondo Abelardo. Tutto sta nel sermo, cioè nel giudi¬ zio. Ma è anche vero che gli universali sono i predicati che son nati, che sono stati generati nel processo della creazione, e il pensiero li aff erra, secondo la dottrina di Platone, e, secondo la logica di Aristotele, li enuncia, come universali, nel giudizio: e anzi perciò Abelardo, accanto alle solite quinque voces, ne annoverò ancora mia sesta, cioè anche l’individuo (note 278 ss.), poiché l’individuo, quale prima substantia (Sez. XII, nota 91), ovvero, come qui anche lo si denomina, quale princi- palis substantia, viene designato appunto con quella pa¬ rola (vox), che corrisponde all’ultimo grado del pro¬ cesso della creazione 3l2 °). Ma poi, giacché Abelardo con¬ siderava la differenza specifica esclusivamente come forza efficiente, e non come tale che passi essa medesima nella materia del genere (nota 295), egli si trovava a dover prendere qui il nome della differenza non quale sostantivo, come aveva fatto Guglielmo da Champeaux 319 ) Glossae in Categ ., p. 579 s. : omnia.... aut dicuntur de princi ’- palibus substantiis sibi subjectis.... servata lege praedicamenti.... aut sani in eis subjectis. Un diverso modo di esprimersi, in luogo di questo, si ha (ibid ., p. 585 s.) nella distinzione tra praedicari sub - stantialiter e praedicari accidentaliter (Boezio, p. 131 \i.n 4r Praed I; PL, 64, 189]): cfr. la nota 322. m> ) Ibid., p. 584: species, in quibus conlinentur principales sub- slamine.... genera et species ordinata post principales substantias sola.... dicuntur secundac substantiae (e ripetutamente a questa stessa ma- mera). p. 591 : Vere primae substantiae significanl aliquid hoc indi¬ viduale, quia illud, qund significatur a prima substnnlia, scilicet quae tox est sicut et consimilia (così si deve leggere secondo il mano¬ scritto, con una piccola modificazione; la lezione del Cousin dà un controsenso), est individuum et unum numero, i. e. parificalum nu¬ merali descriptione, i. e. significatur ab hac voce, quae est individuum et unum numero. , bensì alle obiezioni che su questo punto furono sollevate anche da altri (nota 122), poteva sot¬ trarsi con l’interpetrare la parola che designa la diffe¬ renza, come un aggettivo derivato da questa ( — « sump- , um » —,) ss)). Ma a quei predicati nati seguono poi nelle Categorie le cose stesse, in quanto vengono desi¬ gnate con parole — « naturae, quae vocibus designati- tur » — e per conseguenza le categorie contengono le cose a22 ), mentre appresso vengono prima di tutto con¬ siderate le parole, in quanto esse sono ciò che designa, e costituiscono il passaggio al giudizio (sermo) stesso, che è composto da quelle. [o) anche il preteso intellettualismo di Abelardo de¬ riva dal suo aristotelismo]. — Ma allora il giudizio non contiene già le cose, bensì contiene il pensiero ( in- telleetus), e invece tratta intorno alle cose, ma non 321) Dialect., p. 456 : De nominibus dififerentiarum sciendum est, ut non quidem substantiva, sed sumpta a dififierentiis sumantur, posita lumen loco specierum. Oportet eitim in eadem significai ione vocabula dijjerentiarum sumi in divisione generis, in qua significatione ipsa in dijfinitione speciei ponuntur, cum scilicel nomini generali adjacent.... (p. 457) sicut in nostra fixum est senlentia, nullo modo inter accidentia dififerentias admiltamus (v. sopra le note 300 s.). Quod autem Porphyrius per dififerentias genus in species dividi dixit, secundum eam dictum est sentenliam. qua naturam generalem in species redigi atque distri¬ buì per susceptionem dififereniiarum realiter voluit ; aut potius per difi¬ ferentias genus in species dividi voluit, cum earum vocabula adjuncla nomini generis speciem designant, atque diffinìtionem speciei compo- nunt. hoc modo „animai aliud ralionale, aliud irrationale animai .‘ — Ihid , p. 189: In sumplis enim non ea, quae ab ipsis nominantur, com- parantur, sed tantum fiormae, quae per iosa circa subjccta determinane tur ; alioquin et subslantias ipsas comparaci contingeret, quae saepe a sumptis nominibus nominantur, ut ab eo quod est album.... 322 ) lbid.. p. 209 e 245, cioè due passi, che sono stati citati di già più sopra, nota 272. Ma vedi inoltre a p. 220: Subiectarum vero rerum diversitas secundum decem Praedicamentorum discretionem su- perius est ostensa, qua [Cousin: quae] principale ac quasi substan- tialis nomini significano detur. Caeterae vero significationes, quae se¬ cundum modos significando accipiuntur, quaedam posteriores atque ac¬ cidentale* dicuntur. già ili quanto le significhi, bensì in quanto contiene la connessione, afferrata dal pensiero, tra le cose e il pro¬ cesso di creazione. Laddove per conseguenza il predi¬ care Tessere (nel giudizio) non è esso medesimo un es¬ sere, nel predicare si tratta di uno stato di cose reale, cioè della connessione obbiettivamente reale tra ciò ch’è significato dal soggetto, e ciò cli'è significato dal predi¬ calo 323 ). Questa distmzione fra « contenere » e « trat¬ tare » forma l’intimo nòcciolo della concezione del giu¬ dizio secondo Abelardo 324 ). È ben vero, cioè, che il predi¬ cato ha un suo aspetto grammaticale, e che, designando noi nel giudizio una sola e medesima cosa con varie de¬ nominazioni (come per esempio quando chiamiamo So¬ crate ora uomo, ora corpo, ora sostanza), appunto in ciò consiste una differenza tra la espressione verbale e la realtà (efr. la nota 312); ma mentre la praedicatio per eè sola, avulsa dalla obbiettiva rerum inhaerentia, non è assolutamente nulla, precisamente la logica ha il compito di studiare il giudizio, in questo senso, dal lato della espressione verbale S2S ). Anzi quel che più importa è pro- 32S ) lbid., p. 241: Digrumi miteni inquisitione censemus, utrum Mae existentiae rerum. quas propositiones loquiintur, sint aliquae de rebus existentibus.... — p. 245: Clanim ilaqiie ex suprapositis arbi¬ trar esse, res aliquas non esse ea, quae a propositionibus dicuniur.... Palei insuper, ea quae propositiones dieunt nullas res esse, cum vi- delicet nulli rei praedicatio eorum apiari possit ; de quibus enim dici putest, quod ipsa sint ..Socrates est lapis “ vel ..Socrates non est lapis"?. ...Esse autem rernaliquam vel non esse, nulla est omnino rerum essentia. Non itaque propositiones res aliquas designant simpliciter quemadmo- dum nomina. Imo qualiter sese ad invicem habeant, utrum scilicel sibi conveniant annon, proponunt ; quae idcirco verae sunt, cum ita est in re sicut enunciant, lune autem falsae, cum non est in re ita. Et est projecto ita in re, sicut dicit vera propositio, sed non est res aliqua, quod dicit. linde quasi quidam rerum modus habendi se per proposi- liones exprimitur, non res aliquae designantur. s24 ) Soltanto dall’avere disconosciuto questa differenza è derivato, che il Cousin, e con lui l’Hauréau e il Rémusat, abbiano ravvisato nella dottrina di Abelardo un intellettualismo o concettualismo. 3 “) Dialecl., p. 247 s.: Si quis itaque secundum rerum inhaeren - tiam rcalem acceperit praedicationem ac subjectionem , secundum id prio ciò, di cui il giudizio « tratta »; ma ciò non è nè la parola nè il pensiero (intellectus), poiché non può dirsi che dalla esistenza di tuia data parola venga posta la esigenza che esista un’altra parola, e neanche sussiste, tra i pensieri, che i giudizi « contengono », una reci¬ proca affinità che li leghi a forza: poiché in ciascun giudizio abbiamo pure un unico pensiero soltanto, e ad ammettere che ne abbiamo parecchi insieme, si arrive¬ rebbe alla conseguenza che avremmo al tempo stesso un numero infinito di pensieri, essendo obbiettivamente, di fatto, contenuti in ciascuno stato elementi infiniti in serie continua: invece solamente in ciò, di cui il giu¬ dizio « tratta », deve trovarsi o fissarsi la connessione reale, ovvero quell’obbiettiva relazione reciproca (nota 32 3) 326 ) : e perciò anche la modalità della espressione, sia cioè affermazione o negazione o via dicendo (v. la scilicet, quod unaquaeque res in se recipit ac subsistit, sicut nihil esse eam viderel praeter ipsam, ita eam nihil esse per se ipsam invenerit. Al vero magis praedicationem secundum verbo proposiiionis , quam se¬ di ndum rei exislenliam, nostrum est attendere, qui logicae deservimus, secundum quod quidem de eodem diversas facimus enuntialiones hoc modo Socrates est Socrates vel homo vel corpus vel substantia. Aliud enim in nomine Sacratis quam in nomine hominis vel caeteris intelli- gitur ; sed non est alia res unius nominis, quod Socrati inhaeret, quam altcrius. V. inoltre il passo citato più sopra, nota 255. 328 ) lbid., p. 352 s.: Neque enim veram Itane consequenliam „si est homo, est animai “ de vocibus agentem possumus accipere, sive diclionibus sive propositionibus. Falsum est enim, ut, si haec vox ..homo" existat, haec quoque sit quae est ,.animai “ ; ac similiter de cnuntiationibus sive earum intellectibus. Ncque enim necesse est, ut qui intellectum praecedenti propositione generatum habet, habeal quoque in- tellectum ex consequenti conceptum. Nulli enim diversi intellectus ita sunt affines, ut ulterum cum altero necesse sit haberi, imo nullos simul intellectus diversos animam retinere, ex propria quisque discretione convicerit, sed totani singulis intellectibus, dum eos habet. vacare in¬ venerit. Quod si quis essentiam intellecluum ad se sequi sicut essentiam rerum, ex quibus habentur intellectus, concesserit, profecto quemlibet intelligentem infinilos intellectus habere concederei, secundum id sci- licei, quod quaelibet propositìo innumerabilia consequentia habet.... Ut igitur verilatem consecutionis teneamus, de rebus tantum eam agere concedamus, et in rerum natura regulas anteccdentis ac consequentis accipiamus. nota 318), non risiede nè nelle parole nè nei pensieri, bensì è da ricondurre soltanto al loro fondamento ob¬ biettivamente reale 32r ). [p) ma in Abelardo, vero spirito aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto l’impulso di Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell'argomentazio¬ ne}. — Ma se a questa maniera, secondo Abelardo, nel giudizio si ha clic fare non con il pensiero ( intellectus ), ma con la inerenza di fatto nella sfera della oggettività, si capisce ora altresì perchè egli (e il motivo al quale in ciò si conforma, è dato dal giuoco di combinare assieme elementi stoici con elementi boeziani) tratti il giudizio categorico solamente come un grado preparatorio al giu¬ dizio ipotetico, nel quale ultimo s’inserisce la topica, come base della sua validità. Il giudizio ipotetico, in quanto è complesso, ha anzi la funzione di servire come espressione adeguata della connessione, e questa viene resa manifesta nel procedimento dell'argomentazione, mediante ragionamenti, nella ipotesi che le premesse abbiano, per chi ascolta, un valore di enunciazione espressiva. Quel, cioè, che l’uomo pensante afferra con la mente, nella maniera rivelata da Platone, ed enuncia con il giudizio, nella maniera fissata da Aristotele, deve ora esser utilizzato per l’argomentazione, nella maniera propria della tradizione retorico-ciceroni alia. Vale a dire che anche neH’argomentazione — come viene osservato con tono polemico contro altri studiosi: v. la nota 225 — non si tratta già dei pensieri ( intellectus ), bensì di quel medesimo oggetto del quale trattano i giudizi, che costituiscono rargomentazione stessa, con questa sola differen¬ za, che cioè qui la necessaria connessione (necessitas) che ci si presenta nello stato di fatto obbiettivo, è nel RAGIONARE espressa precisamente dalla sussunzione (inferentia): ne ad Abelardo sembra d’insistere mai abbastan¬ za nel rilevare che la relazione di dipendenza tra antecedens e CONSEQUENS non è data nel pensiero, ma, come esclusivamente obbiettiva, sussiste già da se stessa nella natura creata, e nel fonda¬ mento reale di tutt i giudizi 329 ). L perciò, anche a quel- 1 altro modo di vedere unilaterale, che abbiamo incon¬ trato più sopra (nota 215), egli nettamente contrappone la idea, che alla modalità dei giudizi, anche relativa¬ mente ai concetti di possibile e di necessario (del pari che più sopra, nota 327), sia da metter a fondamento una modificazione obbiettiva dell’essere. Dicunlur in argumentis ea. quae a propositionibus ipsis significantur. ipsi quidem inlcllectus, ut quibusdam placet, quorum conceptio, SINE ETIAM VOCIS PROLATIONE, ad concessionem al- terius ipsum cogit dubitantem. XJnde et bene rationis nomea in prae- missa diffinitione (cioè in quella di Cicerone [intendi la definizione di CICERONE di ARGVMENTVM ; Top., cap. 2, § 8]: vedila, riprodotta in BOEZIO, neljla Sez. XII, nota 165) dicunt apponi ; ratio enim no- men est intcllcclus. qui in anima est. Sed, si divisioni verbo altendamus, potius argumentum accipiendum erit in designatane eorum, quae a propositionibus dicunlur, quam eorum intellecluum, qui ab ipsis " e- nerantur.... Neque enim in propositione quidquam de intellectu dicilur. sed, cum de rebus agitur, per ipsam intcllectus generatur, qui neque in sua essentia necessilatem tenet, neque in/erentiam ad alterum ... linde potius de bis, quae propositiones ipsae dicunt, supraposita diffinitio ....est accipienda. 3 “ 9 ) Introd. ad theól III. 7, p. 1134 [141] : Ex quo apparet , quarti veruni sit,... in illa.... philosophorum regula , cujus possibile est ante - cedens, et consequens, eos ad creaturarum tantum [142J nomea accommo- dare [IL. 178, 1112]. — Dialect p. 239 s.: Ex his itaque manife- slum est, in consequentiis per propositiones de earum inlelleclibus agen- dum non esse, sed magis de essentia rerum.... Et in hoc quidem signifi- calione eorum, quae propositiones loquuntur, una tamen exponitur re¬ gula, quae ait, posito antecedenti, poni quodlibet consequens ejus ipsitts, h. e.: existente aliqua antecedenti rerum essentia, necesse est existere quamlibet rerum existentiam consequentem ad ipsam. — Ibid., p. 351: Si quis itaque vocum impositionem recte pensaverit, enunliationum quarumlibet veritatem facilius deliberaverit, et rerum consecutionis ne¬ cessitatali velocius animadverterit. — Parimente alle p. 343 s. e 382. 33 °) Dialect., p. 270: Unde oportet, ut rcctae sint modales, ut etiam de rebus, sicut simplices. agant ; et tunc quidem de possibili et impos¬ sibili et necessario ; quod quidem tam in his, quae singultire subjectum hdbenl, quam in his, quae universale, licei inspicere. Con quel che siamo venuti dicendo intorno alla es¬ senza, al principio e allo svolgimento della dialettica di Abelardo, crediamo di esser giunti a farcene ima idea giusta e approfondita, che, ove ce ne fosse bisogno, po¬ tremmo noi stessi avvalorare con un documento estrin¬ seco, servendoci di un epitafio 331 ) composto in onore di Abelardo, da un suo contemporaneo. In questa dialet¬ tica, non è certamente spirito aristotelico quel che ci alita in fronte, bensì di gran lunga più manifesto vi risentiamo l’influsso ammorbante dello stoicismo (v. la Sez. VI, note 47-56), che s’era fatto strada negli scritti di Boezio; poiché quell’associazione di mi rozzo empi¬ rismo con un motivo formale, dato dal progresso verso mia sempre più complessa composizione, e con l’inte¬ resse retorico delFargomentazione, prende — proprio là, dove Abelardo sacrifica dappertutto i motivi logici, per considerare lo stato di fatto obbiettivo — il posto di una sillogistica che torni veramente a profitto del sapere definitorio: e a chi tenga presente la logica di Abelardo nel suo nucleo centrale, egli appare come un retore che fa la teoria dell’argomentazione, piuttosto che come un platonico o un aristotelico. Tuttavia egli è ampiamente giustificabile, perchè delle opere principali di Aristo¬ tele, conosceva, semplicemente per sentito dire, soltanto alcuni particolari frammentari (note 8-18), e in special modo perchè, dato, per un verso, 1 ordine irrazionale in cui erano disposte le parti dell’Organon, come pure date, 881) Citato, attingendo al Rawlinson, dal Rémusat, II. p. 101: Hic docuit voces cum rebus significare , Et docuit voces res significando notare; Errores gencrum correxit , ita specierum. Hic genus et species in sola voce locavit , Et genus et species sermones esse notavit . Sigili* ficativum quid sit (questo, cioè, è il giudizio: v. la nota 315), quid significatami Significans quid sit (questa è la parola singola), pru- dens diversificar il. Hic quid res essenti quid voces significar enti Luci - dius reliquis palefiecit in arte perilis. Sic animai nullumque animai genus esse probalur. Sic et homo et \sed?] nullus homo species vo- citatur [PL, 178, 104], per 1 altro verso, le idee che Boezio aveva prese da Por¬ firio, era inevitabile che traesse origine da ciò mia con¬ cezione contorta e contraddittoria. In Abelardo, e forse in tutti i suoi contemporanei, si compie la vendetta del fatto che, da un lato la Isagoge e le Categorie [delle quali, come sappiamo, il Franti contesta l’autenticità: v. la Sez. IV, nota 5] si tengono più vicine al platoni¬ smo, e che d’altro canto, al tempo stesso, nei libri suc¬ cessivi si trova contenuto l’aristotelismo; e inoltre può darsi che Abelardo dal suo medesimo personale talento fosse portato a non curarsi d’intendere più profonda¬ mente queste antitesi, e trascinato ad assumere Patteg¬ giamento del retore. Si direbbe ch’egli, se fosse vissuto in quei secoli più vicini a noi, sarebbe stato certamente un seguace di Pietro Ramo. [ql continua l'analisi del contenuto della Dialettica: le Categorie]. — Ma adesso ci rimane il compito di se¬ guire, anche attraverso le singole parti della dialettica. Io svolgimento che questa ha avuto da Abelardo, il quale ci si presenta sulla stessa linea degli altri autori di cui sopra, che hanno promosso le particolari controversie già ricordate, e dei quali ci è ignoto il nome. Seguendo la partizione dello stesso Abelardo (no¬ te 2,2 ss.), dobbiamo supporre colmata la lacuna del testo qual è a noi giunto, dovuta alla mancanza degli Antepraedicarnenta , e pensar di essere già stati condotti così a trattare le questioni più generali, e che più pro¬ priamente si posson dire questioni di principio. Agli An¬ te praedicament a tien ora dietro la seconda Sezione della prima parte principale, cioè i Praedicamenta, do¬ ve, come ben s’intende, è preso a fondamento Boezio, che viene ormeggiato a passo a passo. I concetti di uni- vocum, e simili, conforme a quanto abbiamo detto più sopra, sono naturalmente di spettanza dell [a teoria della predicazione, in quanto quest’ultima ha anche un] aspet¬ to grammaticale 332 ). La categoria della substantia, che altrove, d’accordo con il de Trin. del Pseudo-Boezio, viene intesa anche come subsistentia 333 ), è l’atta qui og¬ getto di una trattazione, che in tutto e per tutto si man¬ tiene nel più pieno accordo con Boezio 334 ). Più minutamente è presa in esame la quantità, seb¬ bene qui Abelardo si dovesse appoggiare a quel che n’era stato detto da altri, perchè, com’egli medesimo confessa, era ignorante di aritmetica M5 ) ; egli consente con coloro Icfr. le note 109 e 127), i quali eran di opi¬ nione che la linea consista di punti 33 °), e, riguardo al concetto di numero, si attiene al principio della unità naturale, condizionata dal processo della creazione (no¬ ta 304) : per conseguenza, in contrasto con le su riferite opinioni di altri (note 199 s.), qui il fondamento reali¬ stico è formato dal singolo, in quanto è particolare, co¬ sicché da un lato il « numero in generale » include già la pluralità e ha lo stesso significato che « [le] unità », e d’altra parte i diversi numeri determinati sono, come sostantivi, le denominazioni di diverse unità collettive su¬ periori, in maniera comparabile con il procedimento col¬ lettivo, onde, secondo diversi punti di vista, raccogliamo 332 ) Così, occasionalmente, Dialect., p. 480: Hoc ituque nomea, quoti est aequivocum sive univocum, ex vocabulis tantum in rebus con- tingit. 333 ) Introd. ad theol., II, 10. p. 1071 [88]: Unde et subslanliae quasi subsistentiae esse dictae sunt, et cactcris rebus, quae ei assistunt, [ci] non per se subsistunt. naturaliter priores sunt [PL, 178, 1060], 334 ) Dialect., p. 173—178. (Il testo del manoscritto incomincia pro¬ priamente soltanto a mezzo della categoria substantia, cioè in corri¬ spondenza con Boezio [in Ar. praed., I: PL, 64, 187-8], p. 133). 333 ) Ibid., p. 182: Etsi multas ab arithmeticis solutiones audie- rim, nullam tamen a me praeferendam judico, quia ejus artis ignarum omnino me cognosco. 336 ) Ibid. : Talem autem, memini, rationem Magistri nostri senten- tia praetendebat, ut ex punctis lineam constare convinccretur.... — (p. 183) Alioquin supraposita Magistri sententia , cui et nostra con¬ sentii, etc. le cose ili specie, o sottospecie, o altrimente ili gruppi 337 ). In quanto che nello stesso luogo si deve trattare anche del discorso umano inteso come alcunché di quantita¬ tivo, Abelardo combatte il modo di vedere unilaterale, che abbiamo trovato più sopra, onde si ritenne che fosse l’aria a adempiere l’ufficio di «significante»: e, asse¬ gnando egli invece al suono questa funzione di « signifi¬ care », va in cerca di autorità che suffraghino tale sua opinione 338 ). Ma, immediatamente dopo la quantità, fa posto alle categorie ubi e quando, come a quelle che per natura sono collegate, nella loro origine, con i concetti di luogo e di tempo, presi hi esame nella trattazione della quan¬ tità 339 ), e mentre così intende quelle due categorie in 337 ) P- 186: [numerus] semper.... in natura discretionem habct, qui solam unitatis parlicularilatem requiril.... cum nomea numeri plurale simpliciter videatur atque idem cum co, quod est unitates.... — p. 189: Unde opportunius nobis videtur, ut, sicut supra tetigimus, numeri no¬ mea substantivum tantum sii ac particulare unitatis, atque idem in significai ione quod unitates. Binarius vero vel ternarius cacteraque nu - merorum nomina in/eriora sunt ipsius pluralis, sicut homines vel equi ad animalia, aut albi homines et nigri, vel tres vel quinque homines ad homines. Et fonasse quoniam omnia substantiva numerorum no- mina in unitalibus ipsis pluraliter accipiuntur, omnia ejusdem singu- laris pluralia poterunt dici, secundum hoc scilicet, quod diversas uni- tatum collecliones demonstranl (c£r. la nota 307). Numerus quidem simplex metialur plurale, alia vero secundum certas collectiones deter¬ minala. A ciò fa poi seguito il passo citato più sopra, nota 199. Cfr. anche alla p. 421: Haec enim unitas hominis Parisiis habitanlis et illa hominis Romae manentis, lume f aduni binarium. Unde sola uni- latum pluralitas numerimi perfidi. — Così pure a p. 486. ) P* 190: Nos autem ipsum proprie sonum audiri ae significare concedimus.... — p. 192: unde et Priscianus ( Inst. gramm., I, 1 [ed. Hertz, p. 5]) ait, voccm ipsam tangere aurem, dum auditur, ac cursus ipse Boethius (deMusica [cap. XIV: PL,63, 1177], p. 1071 [della ediz. delle Opere di Boezio, Basilea 1546, cit. dal Cousin: p. 1379 della ediz. di Basilea 1570, alla quale, come s’è visto, suol riferirsi il Prantl]) totam vocem.... ad aures diversorum simul venire perhibet, dopo di che ci si richiama ancora, con le seguenti espressioni, di forma singolare, ad Agostino e a Boezio (p. 193): Ipsum etiam Augusti- num in Categoriis suis asserunt dixisse..., e etiam Boethius dicitur in libro musicae artis.... [194] adhibuisse. 33 °) P- 195: Hactenus de quantitale disputationem habuimus. Nunc ad tractalum pracdicamentorum reliquorum operam transferamus, eaqtie geuso realistico, includendovi anche p. es. il concetto di « ieri » * * 3 '* 0 ), arriva, per via dell’« essere nel luogo » e del- T« essere nel tempo », a considerare i vari significati di « messe » 341 ), ma cerca, in contrasto con obiezioni di al¬ tri, riferite più sopra (nota 194), le quali mettevano in campo l’analogia con l’avverbio interrogativo qualiter, di assegnare quell’espressioni concernenti l’inesse, all’uso del linguaggio secondo la grammatica 342 ), e di giustifi¬ car invece quelle due categorie, come tali, con la consi¬ derazione che in quelle è possibile una comparazione, e che pertanto non è il caso di ricondurle alla quantità, la quale esclude ima comparazione 343 ) : a ciò del resto si lega ancora il lamento che Aristotele sia stato in ge¬ nerale così parsimonioso nella trattazione delle ultime sei categorie 344 ). posi quantitatem exequamur, quae ei naturalitcr adjuncta videntur ac quodam modo ex ea originem ducere ac nasci. Ilaec aulem ., quando *" ei ..ubi." nominibus Aristoteles designai. Quorum quidem alterum ex tempore , alterum ex loco duxit exordium. ***) p. 196: v. sopra la nota 196 [reclius 197J. 3)l ) p. 197 : Quum aulem et ..quando" in tempore esse et ..ubi" in loco esse determinamus, non incommodo hoc loco demonstrabimus, quot modis ..esse in aliquo" accipimus ; Boelliius autem in edilione prima [198] super Categorias novem computai (dei quali modi segue qui la enumerazione, ricavata da Boezio [in Ar. praed., I; PL, 64. 172], p. 121: v. Sez. XII, nota 92; il Cousin si scandalizza, per non aver trovato questo passo di Boezio !). 3 «) p. 200: Si quis autem „qualità ■“ dica! nihil aliud quam quali- tatem demonstrare, et ..ubi"' dicemus nihil aliud quam locurn designare , vel „ quando “ nihil aliud quam lempus. Unde et carlini definitiones recte vel „in loco esse “ vel „in tempore [esse]" dicimus, quae, si gram- maticae proprietatem insistamus, nihil aliud a loco vel tempore diver- sum ostendunt.... Videntur itaque magis prò nominibus accipienda esse ..esse in loco “ vel ..esse in tempore", quam prò definitionibus. M3 ) Ibid .: Haec autem generalissima ipsa, ut arbitror, compara- tionis necessitas meditari compulit. Cum enim quantitates non comparaci constarci (Boezio [in Ar. praed.. II; PL, 64, 215], p. 154), non po- teramus comparalionem ,,diu “ vel „diuturni “ vel ..extra" ad tempus vel locum reducere: indeque maxime inveniri pracdicamentu arbitror, ad quae illa reducantur. 3M ) Ibid. : Ac de his quidern praedicamenlis difficile est pertractare, quorum doctrinam ex auctoritate non habemus, sed numerum tantum. Ipse enim Aristoteles, in tota praedìcamentorum serie, sui studii operam Nella controversia intorno alla categoria della rela¬ zione (v. sopra la nota 192), Abelardo finisce con il de¬ cidersi a favore dell’autorità della definizione aristote¬ lica 3, * n ), e così pure la questione del posto da assegnare ai concetti di simile e di uguale (nota 193) è da lui ri¬ solta nel senso che essi appartengano alla qualità 346 ). [r) i PostpraedicamentaJ. — I Postpracdica- menta poi, che costituiscono la terza Sezione del Liber partium, contengono, come si è veduto (nota 272), la trattazione del nome e del verbo, in quanto questi so¬ no i modi di significare le cose, e vengono considerati quali parti, da cui il giudizio, come totalità, è costituito. La opinione di Abelardo, riguardo al concetto di si¬ gnificavi o significatio, da noi precedentemente messa in chiaro, lo porta qui a dichiararsi d’accordo con quel Garinondo (nota 82), ch’era un nominalista moderato, e ìwn nisi qualuor praedicamerUis ndhibuit, Substanliae scilicct. Quan¬ titali, ad Aliquid, Qualitati ; de Facere autem vel Pati nihil aliud docuit , nisi quod contrarietatem ac comparalionem susciperent.... De reliquis autem qualuor. Quando scilicet. Ubi, Situ, Ilabere, eo quod ma¬ nifesta sunt, nihil praeter exempla posuit.... De Ubi quidem ac Quando, ipso quoque attestante Boethio (p. 190 [in .-Ir. praed., HI; PL. 64, 262 s.].), in Physicis, de omnibusque altius subtiliusque in his libris, quos Metaphysica vocat, exequilur. Quae quidem opera ipsius nullus adirne translator lalinac linguae aplavit ; ideoque minus natura horum nobis est cognita. Cfr. più sopra la nota 18, dove abbiamo dovuto accennare di già alla integrazione, portata più tardi da Gilbert de la Porrée: v. appresso le note 488 ss. Ms ) p. 204: Aristoteles de imperfcelione restrictionis sicut Plato de acceptatione nimiae largilatis culpabilis videlur ; uterque enim modum excesserit, alque hic quasi prodigus, ille tanquam avarus redarguendus. Sed et si Aristotelem Peripateticorum principem culpare praesumamus, quem amplius in hac arte recipiemus ? Dicamus itaque, omni ac soli relationi ejus diffìnitionem convenire eie. 346 ) p. 208: At vero, cum similitudo relationibus aggregetur (Boe¬ zio [in Ar. praed., II; PL, 64. 219], p. 157),.... non videtur secundum solas qualitates simile dici.... His autem. qui simile ac dissimile inter qualitatcs computant (Boezio [in Ar. praed., Ili; PL, 64, 259], p. 187), monstrari potcst, res quaslibct in eo, quod dissimiles sunt, esse similes.... At fortasse non impedit , si in eo, quod dissimilitudinem participanl, similes inveniantur (si attiene cioè al passo ult. cit. di BOEZIO. pertanto scorgeva la essenza della significazione non nella parola come tale, bensì nel contenuto concettuale della parola stessa: un modo di vedere, questo, che Abe¬ lardo trova confermato da passi di Boezio ,7 ). Nella di¬ sputa intorno alla questione, se le preposizioni e le con¬ giunzioni sieno da considerarsi come parti del discorso ( nota 206), cerca di conciliare i punti di vista imilate¬ rali dei grammatici e dei dialettici, attribuendo bensì a quelle parti del discorso la capacità di significare, ma ri¬ conducendo questa capacità, alla stessa maniera che la modalità della predicazione (note 327 e 330), a una mo¬ dificazione obbiettiva 348 ); onde, come si vede, anche se¬ condo la opinione di Abelardo, i così detti byncatego- reumata (cfr. le note 174 e 206) dovrebbero coerente¬ mente trovar posto in una o nell’altra parte della lo¬ gica- . . Ma in tutto il resto egli si tiene strettamente vicino a Boezio, e cerca di confutare obiezioni, sollevate da al¬ tri 349 ), cogliendo la occasione che di ciò gli era offerta. sn\ 210, dove alle parole già citate (nota 82) fa seguito im¬ mediatamente: linde manifestimi est, eos velie vocabula non omnia illa significare, quae nominimi (che p. es. animai non « significhi » •ria senz’altro homo), sed ea tantum, quae definite designata, ut animai se, Hat animai sensibile, aut album albedinem, quae semper m ipsis denotanlur. Quorum scntentiam ipse commendare Boethius (p. bij ['«' divisione: PL, 64, 877]) videlur, cum ait in divisione vocis „vocis attieni in proprias significationes divisto fit etc .(p. ZÌI) Oiiamen sanificare" proprie ac secundum rectam et propnam ejus dijjinilio- nen, signamus, non alias res significare dicemus, msi quae per vocem concipiuntur. — Cfr. la nota 317. 348 ) p. 217: llla ergo mihi sententia praelucere videtur, ut gram¬ matici consentientes, qui eliam logicae deserviunt, has quoque per se sisnificativas esse confiteamur, sed in eo significatwnem earum esse dicamus, quoti quasdam proprietates circa res forum vocabulorum, qui- bus apponi,ntur praepositiones, quodam modo determinerà.... t.onjunc- tiones quoque, dum quidem rerum demonstrantconjiinctionem, quamdam circa eas determinant proprietatem. — Cfr. la nota 620. ;n ») p eg- 219, dove di fronte alla obiezione ricordata piu sopra (nòta 210), si osserva: Veruni ipse verbo deceptus erat, ac prave id ceperat , verbum dicere rem suam inhaerere. così relativamente a quei giudizi (nota 211) che non im¬ plicano la esistenza effettiva del proprio soggetto 35 ), e questo nesso, che consiste in quella ri¬ spondenza, onde i due concetti son riferiti uno all’altro, è ciò per cui si distingue esso giudizio dal giudizio ca¬ tegorico: questo cioè enuncia la semplice esistenza, men¬ tre l’ipotetico c valido con assoluta necessità, fatta astra¬ zione dalla esistenza delle cose, ma appunto per questo ricorre all'aiuto dei loci, relativamente a ciò che non può desumersi dalla semplice realtà 396 ). In questo senso ex loco firmitalcm halent. Cujus quidem loci proprietas hacc est : vim inferentiae ex habiludine, quarti habet ad terminum illatum, conferre consequentiae, ut ibi tantum, ubi imperjecta est inferentia, locum va¬ lere confiteamur.... Hoc ergo, quod ad per]eclionem inferentiae deest, loci supplet assignatio. La deno mutazione « inferentia » è derivata dal termine boeziano « inferre » : e così parimente anche la idea che la consecuzione abbia a fondamento il nesso della necessità, è presa da Boezio: v. la Sez. XII, note 153 s. 301 ) p. 330 s.: Quae enim in ea ponuntur vocabula, essentiae tan¬ tum, non habitudinis, sunt designativa, ut « homo » et « animai » et « lapis». Qui itaque dicuut « si est homo, est animai, si est homo, non est lapis», nullo modo de habitudinibus rerum, sed de essentiis agunt, ila.... ut, si aliquid sit essentia hominis, et essenlia animalis esse con- cedatur, et lapidis subslanlia esse denegelur. 39S ) p. 336: Quod autem veritas hypotheticae propositionis in ne¬ cessitate consistat, tam ex auctoritate quam ex ralione tenemus. Questa maniera d’intendere il giudizio ipotetico sembra essere stata, in modo speciale, peculiare di Abelardo. (Jon. Saresb. Polycr. II, 22, p. 122 [ed. Webb, I, p. 129]): Solebai nostri temporis Peripateticus Palalinus omnibus his conditionibus obviare, ubi non sequentis intei- leclum anlecedentis conceptio claudit, aut non antecedentis contrarium conseqitentis destructoria ponit, eo quod omnes necessariam tenere consequentiam velint. — Dello stesso, Metalog., Ili, 6, p. 138 [144]: Miror tamen quare Peripateticus Palatinus in ipoteticarum iudicio tam artam praescripseril legem.... Siquidem.... ipotelicas respuebat, nisi manifesta necessitate urgente [PL, 199, 453 e 904]). 39 °) p. 343: Categoricarum autem propositionum veritas, quae re¬ rum aclum circa earum existentiam proponil, simul cum illis incipit et desinit. Hypotheticarum vero sententia nec finem novit nec princi-  pertanto, nelle discussioni dialettiche la concessione fatta daH’mterlocutore va intesa, fatta astrazione dalla sua esatta corrispondenza alla realtà, come una tale neces¬ sità 3B7 ), e nel giudizio ipotetico non si tratta già, come taluni ritengono (nota 228), de’ suoi singoli membri, bensì proprio di tutto quanto il nesso tra antecedens e consequens 3BS ) ; inoltre, per la medesima ragione, nel giudizio disgiuntivo, come già è stato mostrato da Boezio (v. la Sezione XII, nota 141), è semplicemente da rav¬ visarsi un’altra forma di enunciazione del giudizio ipo¬ tetico 3BB ). Li base a tale fondamento si parla poi, d’ac¬ cordo con Boezio, delle cosi dette « maxitnae proposi - tiones » (v. ibid., nota 165), le quali, in polemica con le idee di altri (v. sopra la nota 228), vengono ristrette alla forma del giudizio ipotetico 1B0 ). Indi fan seguito pium. Ulule el antequam homo et animai creata Juerint, vel postquam cliam omnino perierint, aeque in veritate consisti! id, qupd haec conse- quentia proponit « si est homo animai ralionale mortale, est animai ». — p. 347: Quia vero calegoricae enuntiationes actum rerum proponunt quuntum ad enuntiationes inhaerentiae praedicati. actus vero rerum ex ipsarum rerum praesentia manifestila est, necessitas autem infe- rentiae ex aclu rerum perpendi non potest, quae acque, ut dictum est, et rebus existcntibus et non existentibus. permanet, arbitror. hinc. lo- cum tantum in hypotheticis propositionibus requiri ; cum de vi infe- rentiae rerum earum dubitatur, quae ex actu rerum convinci non possimi. 3BT ) p. 342: Ncque mirri dialecticus curai, sive vera sit sive falsa inferentia proposilae consequenliae, ilummodo prò vera eam recipiat ille, cum quo sermo conseritur.,.. Seti liaec.... concessio vcrae inferen- tiae in necessitate recipienda est. >W) p. 353: Quidam lamen has regulas non solum in tota antecc- ilenlis et consequcntis enuntiatione , veruni ctiam in terminis eorum assignaiUes.... Sed.... regulae sunt accipiendae in his, quae tota pro- positionum enuntiatione dicuntur. 3 »s) p . 368: Quoti autem antecedens et consequens in disjunctis quoque lloethius accipit, non ad renna essentias, sed ad enuntiatio- num constitutionem respexit ....Quod ex resolutione disjunctae di e no- sci tur ; ex qua etiam resolutione. hypothelicae, i. e. condilionales, dis- junctivae quoque sunt appellatae. 40 °) p. 359 s.: Maximarum.... proposilionum proprielales inspi- ciamiis, quibus quitlem singularum veritas consequenliarum expri- mitur, quaeque ultimam et perfeclam omnium consecutionum proba- tionem tcnent.... Cum itaque diximus, eas conseculionis sensum habere, categoricas enuntiationes exclusimus. i singoli loci, e qui Abelardo, esclusi quelli retorici, vuole metter in campo solamente i dialettici 401 ); l’or¬ dine di successione in cui son disposti, trova fondamento in Boezio, che, trattando di questo argomento, cerca (de dijf. top . : v. la Sez. XII, nota 168) di accordare i loci di Temistio (Sez. XI, nota 96) con quelli cicero¬ niani ‘"'); ma la conchiusione è costituita da osservazioni sopra ^argomentazione in generale, e sopra la impor¬ tanza che han per la retorica la induzione e l’enti- mema 40S ). Come già più sopra (nota 222) è stato rile¬ vato, la dichiarazione dei singoli loci consiste nella indi¬ cazione ed enumerazione di « regole », fissate secondo l’uso delle scuole: e anche nella esposizione dello stesso Abelardo si fa manifesto, hi connessione con quel che 401 ) p. 334 : Illud praesciendum est, nos, qui haec ad doctrinam artìs dialecticae scribimus, eos solum laens exsequi, quibus ars ista consuevit uti. 102 ) In confronto con quell’ordine di successione [seguito da Cas- siodoro], del quale abbiamo dato notizia nel 1° voi. (Sez. XII, nota 184), la materia si dispone qui nella forma seguente: Anche qui (p. 368) si presentan da principio i loci tratti dalia sostanza stessa, cioè a diffinitionc, a descriptione, a nominis inter pretal ione ; ma ap¬ presso vengono, in una scelta risultante da una combinazione di elementi derivali da Temistio c da Cicerone, i loci che son tratti dalle conseguenze della sostanza (p. 375), cioè a genere, a toto, a par- tibus divisivis, a partibus constilulivis, a pari, a praedicato, ab ante¬ cedenti, a consequenli ; a questi fan seguito (p. 386), come loci presi extrinsecus, solamente le sottospecie del locus ab oppositis, cioè a relatione (inclusi simul e prius), a contrariis, a privatione et habitu, ab ajfirmatione et negatione (in questa trattazione delle quattro spe¬ cie di opposizione vien tirata dentro quasi per intiero la corrispon¬ dente Sezione delle Categorie); poi, come loci medii, seguono a re¬ lativi^, a divisione et parlitione, a conlingenlibiis, e sono quindi indi¬ cati inoltre a compimento — come quelli che vengono raramente in uso (p. 409 : sunt autem alii, quibus diabetici raro ac nunquam fere utuntur, quos tameri Boethius.,.. non praetermisit) — tra i « loci» ex consequentibus substantiam, quelli a causa, a materie, a forma, a fine, a motu. Del resto in tutta questa Sezione il Cousin si è spesso limitato ad accennare con intestazioni di titoli l’ordine della succes¬ sione, senza pubblicare il contenuto stesso. 4 " 3 ) p. 430 ss. I passi ai quali attinge qui Abelardo, son presi da Boezio, de dijf. top., su cui si fondano queste notizie: v. la Sez. XII, note 82 e 137. »i è visto più sopra (nota 228), a quanto muneroso con- Lvorsic generale abbi. 1. ..pi» tonato nelle svuole l’argomento e la occasione 404 )- r z) i sillogismi ipotetici. Giudizio conclusivo sopra l'opera di Abelardo]. - Infine nel Liber hypo , h e ticorum, cioè nella teoria dei gtudtzi e 8 dlo gismi ipotetici, viene ora riprodotto per urti ero d con tenuto dello scritto di Boezio de syll. hypoth Attui trendo a tale scritto, Abelardo incomincia con lo syol aere per prima cosa 406 ) la partizione del gmdmo ipo tetico (v. la Sez. XII, note 139 ss.), e, relativamente ai giudizi che s’iniziano con la congiunzione « cum »  n( . h ,, intorno alla causa efficiente e a motu (p. 41.5 ss.) si e g . 376 8B .) causalità divina del creatore de mondo H locas « ge ^ Crca . porla a prender in coimderazione il processo Stendere il locus a ..one e così comdde cernii m iUimit; , ta ,nenie universale praedicato (p. 484), i fi incontriamo qui la ter- (p. 381). A proposito del Incus °*>opP - 4fl7 . comp lexa autem miuologia « complexa » c « in P ^ ^ cod em contraria cnun- contraria eas dicimus proposilionc , 7 acgerrt). e così pure tiant hoc SS* immediata inferra- « constantia » (p. 408 [nassunto ue ' imme diMa smt ; qiiam linai habeant , adjietendumesse..ag»J p hrdus]) _ Abelardo ìss'ù.w ù. >. (v. le note 18 e 344). 405) p. 437-439.  tici 406 ); inoltre combatte la opinione già ricordala (nota 218) di altri, relativamente alla posizione del « vel.... vel » nei giudizi disgiuntivi 407 ). Ma è poi notevole quel che vien detto appresso, circa la conversione dei giudizi ipotetici; questi cioè, quando sono in forma disgiuntiva, potrebbero esser convertiti simpliciter (scambiandosi di posto i termini della disgiunzione!), e lo stesso potrebbe pure ripetersi del giudizio, che contenga [la enuncia¬ zione di] una [relazione di] contemporaneità, e che inco¬ minci con «cum»; invece, quando si tratti del giudizio propriamente ipotetico, fondato sopra il nesso della ne¬ cessità naturale, il principio fondamentale, a tutti noto, della consequenlia (vedilo in Boezio, Sez. XII, nota 145) sarebbe da prendere [cfr. ibid., nota 130] nel senso che qui si dia un caso di conversiti per contrapositionem 40S ). Ma se questo preteso compimento della teoria tradizio- 40 "««■ sed ad conceptus tummodo leritatem Aeque cairn unus est intellectus ..lapis ratio,la- multos intellectus ' *“"iplicem l’ero intellrctum dicimus muuos intellectus ab invicem dissolutos , ut si dicam animai" pauluhim quiescens, addam „rationale'\ ’ Cfr iuvece ' 4 ?» C " Abc,:!r US Wmim ■ P erso ' lalem discreti,m,m attendimi, h. e. simpliciter hominem excogilo, ,n eo scilicel tantum, quod homo est i e animai rat tonale mortale, non edam in co, quod esVhic ho moti file ri!!ru rSale h “ J iu ‘ c ", s “hslraho individui s. SU itaque abstractio supe¬ rna r‘ l "- feTtor , lbus : «“ scilicet universalium ab individui per praedicationem subjecds, sme Jarmari,m a materiis per fundationem no/, Subtrac "° f ero e con, rario dici potest,... cum alìquis subjeclae naturam essenti,,,- absque omn, forma nidtur speculari. Uterque autem mtellectus, tam abstrahens scilicel quam subtrahens, aliter quam res se habet concipere V, detur.... p. 482: Nusquam enim ita pure subsistit S smt“- Pl T C ° n rP llUr '- E *. m,ìla esl na •)■ p. 93 a: Non vidctur ergo transferenda conversatio dialeclicorum ad huiusmodi propter inconvenientia.... — 33, p. 91 b: Quod ergo dica Johannes Damasceni is (v. la Scz. XI. nota 170), non ita accipiendum, ut universalia et individua ita accipiantur sicut in philosophicis di- sciplinis.... Si quaeratur, an hoc praedicabile ,.deus“ sii universale rei CARLO PRANTL tavia in molte delle sue trattazioni al De Trinitate del Pseudo-Boezio (v. le note 35 ss.), e anzi con la comica osservazione che quello scritto è fdosofico (!) più che teologico, e che perciò non si deve lasciarsene sviare 451 ) ; inoltre la distinzione della sostanza come soggetto e della sostanza come forma, del pari che la distinzione della forma sostanziale come produttrice dell’individuo e come suscitatrice delle specie e dei generi, ci fan soltanto ve¬ dere il realismo platonico-teologico nella sua forma più rozza 452 ). Parimente nel suo contemporaneo Roberto da M e 1 u n [m. 1167], molto celebrato per la sua superfi- ciale abilità nella dialettica 453 ), si trova nient'altro che il solito realismo ontologico, il quale teoreticamente è tanto ottuso da non poter in generale interessarsi ai momenti individuimi, neutrum hic admittendum [PI,, 211 922 e 921], E tutta¬ via fu anche lui accusato di eresia : v. lu nota 478. 451 ) Ibid., I, 4, p. 8 b: Ideo imponitur Boelio, quod illam diffmi- tionem (cioèfdi persona ) magis posuit ut philosophus, quam ut thcolo- P" s - — 32, p. 93 b. : Sed nostri thcologi plerique non habent illam diffinitionem prò aulhentica, quia magis Juit philosophus quam theo- ^^923 I {t mag * S  “) Ibid,, 1,6, p. 12 a: Subslantia a subslando dicitur ipsum sub- jectum, quod substat Jormis, sive sit corpus sive alia res. Substantia a subsistendo dicitur forma, quae adveniens subjecto illud subsistit, i. e. sub se et aliis Jormis sistit, i. e. substare sibi et aliis Jacit , sìcut imago sigilli ceram.... Sed substantialis forma duplex est, vel quae facit „quis“, et lalis est omnis individualis proprielas, i, e. individuo et proprio nomine, ut Platonitas, cujus parlicipatione Plato est quis ; vel quae facit „quid“. ut speciale vel generale, i. e. quae speciali vel gene¬ rali nomine significatur, ut humanitas, animalitas, cujus participa- tione Plato est ..quid", non vero „quis“ [806-7], 4M ) Joh. Saresb. Metal.. II, 10, p. 78 s. (ed. Giles [e Webb]): Sic ferme loto biennio conversatus in monte (cioè Sanctae Genovefae), artis huius praeceploribus usus sum Alberico (v. sotto la nota 521) et magistro Rodberto Meludensi (ut cognomine designetur quod meruil in scolarum regimine, natione siquidem Angligena est); quorum al¬ ter.... Alter aulem (cioè Roberto), in responsione promptissimus, sub- terfugii causa propositum numquam declinavit articulum, quia alteram contradictionis partem eligeret ani determinata multiplicitate sermonis doceret unam non esse responsionem.... In responsis perspicax , brovis et commodus [PL logici, oppure, dove s’interessa, si mostra appunto in tutta la sua debolezza, come p. es. quando si polemizza contro chi riconosce carattere unitario al significato che è racchiuso in « est », e a quello ch’è racchiuso in « ens » 154 ). Ma per conseguenza non fa maraviglia che gli scolari di questo Roberto vilipendessero la Topica aristotelica, giudicandola un libro inutile (v. sopra la nota 29). [§ 35. — Gilbert de la porrée: a) il commento al De Trinitate del Pseudo-Boezio : posizione teoretica inge¬ nua e contraddittoria]. — Invece LnGilbert de la Porrée (nato a Poitiers, e perciò detto anche Pietà- viensis, morto nel 1154) l’alterco dei teologi intorno alla Trinità ha dato occasione a una concezione logica, net¬ tamente determinata, riguardo agli universali, e bisogna pertanto che ci teniamo presente più da vicino, oltre allo scritto De sex principila, reputato di grande importanza nei secoli successivi, anche il commento dello stesso Gil¬ berto al De Trinitate del Pseudo-Boezio 45 °). Che Gilberto conoscesse di già gli Analitici di Aristotele, è stato ricor¬ dato già più sopra (nota 21); tuttavia, fatta astrazione da quella citazione, egli in realtà non trae ulteriormente 1M ) Oltre alle notizie che si trovano nel De Bollai', Hist. Uni- versitatis Paris., II. p. 264 [ivi, p. 585—628, testi di R. da M.], I’IIauréaU, de la phil. scolasi., I, p. 333 ss. [Hist. de la ph. scol., I, p. 491ss.], ha riprodotto ancora vari tratti da manoscritti ; di quel ch’egli riferisce, poiché tutto il resto non ha che fare con il nostro presente intento, può citarsi, riguardo a un punto di logica, il passo seguente (p. 333 [492]): Has verovoces „esl“ et „ens** ejusdem esse significa- tionis, omnes philosophicae clamitanl scriplurae. In istis ergo locutio- tlibus ,,tiiundiis est ens**, ..mundus esf”, terminis oppositis idem signi¬ ficatile; sed nullus tanta amentia ignorantiac excaecatus est, qui aliquam harum vocum „essentia, est , ens** in illa significalione retenta, in qua creaturis convenit , Deuni vcl essenliam divinam significati praesumut, e via dicendo [Su Rob. da Melun, v. ora Uebervveg-Geyer, p. 272 e 276-8], «*) Riprodotto a stampa nel voi. delle Opere di Boezio, ed. di BasUea 1570, p. 1128-1273 [PL, partito da una conoscenza intrinseca dei principii ivi con¬ tenuti, bensì si limita ad aggirarsi entro l’orbita, più ri¬ stretta, della logica scolastica generalmente in uso 4S0 ). Mentre anch’egli ci mostra il singolare spettacolo della contraddizione, onde da un lato si fa sfoggio di tutto l’acume logico nella discussione sopra la Trinità (v. tut¬ tavia la nota 478), e intanto, dall’altro lato, si mantiene ima separazione assoluta di Dio e del mondo della na¬ tura, — semiira in verità che, sul compito e la posizione della logica, egli non sia stato in se stesso del tutto chiaro. Nè si può in Gilberto, neanche allo stesso modo che in Abelardo, distinguere le sfere della ontologia e della logica, ma, a mal grado di tutto il suo fondamentale tono realistico, egli accetta con piena ingenuità e senza incertezze il principio della funzione della espressione lin¬ guistica umana; poiché l’eccitazione della intelligenza egli la fa dipendere affatto ugualmente, ripetendo un detto di Boezio, dalla proprietà delle cose, altrettanto che dal significato costituito delle parole 45 . 7 ): e se alla stessa ma¬ niera trova la qualità del giudizio nella successione delle cose e delle parole, o nella modalità della espressione, — ciò che potrebbe rammentarci Abelardo : v. le note 318, 327, 330 —, e con questo richiama energicamente l’at¬ tenzione sopra la forma verbale 458 ), — egli torna da capo 156 ) Così p. es. a p. 1185 [1315] egli ricorda la differenza tra sil¬ logismo ed entiinena, a p. 1187 [1317] la« dialecticorum omnibus nota topica generalis, », a p. 1225 [1361] la «regula dialeclicorum [de conversione] », ap. 1187 [1317] la «concepito communis », a p. 122 1 [1360] il « conceptus non entis [rectius : ejus quod non esl] » (p. es. i Centauri), a p. 1226 [1362] il nihil come nomea infinitum. e via di¬ cendo: c anche la menzione che fa de’ sei sofismi (p. 1130 [1258]) può averla attinta alla stessa fonte che Abelardo (v. sopra la nota 7). 457 ) p. 1131 [1258]: Cum in aliis inlelligenliam excilel rei certa proprietas , aul certa vocis positio, ctc.... — p. 1132 [1260] : Trio quippe sunt. res, et intellectus, et sermo. Res intellectu concipitur, sermone significatur (Boezio, p. 296 [toc. tilt. cit. (alla nota 436), p.20:PL, 64, 402]: v. la Sez. XII, nota 110). 45s ) p. 1130 [1258]: Qualitas autem orandi vel in rerum atque die- tionum consequentia. vel in earumdem tropis attenditur. logica in occidente a collocare il contenuto filosofico, che 6 considerazione approfondita della proprietàs rerum, immediatamente ac¬ canto alle loqttendi rationes, che son di competenza della logica, e in pari tempo accanto a, momenti gram¬ maticali, e a quelli sofistici, e a quelli retorici • ). fb) concetto di sostanza. Teoria delle formae nativae]. - Pertanto Gilberto, nelle questioni riguardanti la relazione della obbiettività ontologica con la subbie»,vita logica, è persino ancor più ingenuo che non fosse stato lo Scoto Eringena: ma invece, dal primo di tal, punti d, vista, cioè dal lato obbiettivo-ontologico, il concetto, ond eg i prende posizione tra gl’indirizzi che si contrastavano nella contesa intorno agli universali, è il concetto d, sostanza; e se la sua posizione ci mostra punti d, contatto essenziali con altre correnti, questa è appunto una prova novella dell’incrociarsi delle opposte tendenze in vari punti nodali. . Nel concetto di sostanza che, in maniera omnicom¬ prensiva, va considerato come genere supremo d, tutti gli esseri, così corporei come incorporei, Gilberto distin¬ gue cioè, conforme al punto di vista della terminologia teologica (ossia dtel Pseudo-Boezio), due aspetti, onde m un essere viene designata quale g ua sostanza così que ch’esso è (quod est - subsistens), come anche ciò, per cui esso è quel che è {quo est - subsistenUa) ). Ma ora, m # [1406]: Quia omnis dictio diversa significa,, quid e, de quo diligens “ u,U X 1246 113831: Ne ergo lectorem decipere possit aliqua dictio, «Hfndat ; ^ locis am siderans, de tot signifi- irSX’lSto pertinet, convenientium illi rationum admt- nÌC ‘t i'X 2 [1281]: Hoc nomea, quod est ..substa,aia“ non a pe- _-\ d. 1145 112741: Subsistentia causa est, ut id, quod per eam est aliquid, suis propriis sit subjectum. — p. 1175 [1305]: Quoties enim subsistens ex subsistentibus conjunctum est. necesse est, ejus totum esse, i. e. Ulani qua ipsum perfectum est subsistentiam, ex om¬ nium parlium suarum omnibus subsistenlus esse conjunctam. concetti ili genere e di specie hanno un altro essere da quel delle cose stesse; poiché i primi hanno appunto so¬ lamente l’essere della sussistenza, e invece le seconde hanno l’essere, come soggetti e sostrati degli attributi uni¬ ficati nella sussistenza 4 ' 0 ). E così il pensiero intende i concetti generici e specifici, come gli universali di fronte alle cose particolari, argomentando, con un atto di met¬ ter assieme (colligere), dagli oggetti particolari concreta¬ mente esistenti, ai quali ineriscono gli attributi, l’es¬ sere della sussistenza 471 ); e da tale punto di vista poi le cose naturali, rispetto alla sussistenza del genere e della specie, alla quale [sussistenza] partecipano, come le cose singole partecipano all’essere sostanziale, vengono significate con i nomi di specie e di genere, del pari che gli attributi vengono enunciati come predicati, e, anche denominativamente, la sussistenza stessa viene chiamata soggetto 472 ). Ma, come il concetto del metter assieme ( collectio ), for- 47,) ) p. 1239 [1375]: Genera et species, i. e. generales et speciales subsistentiae, subsistunt tantum, non substanl vere.Ncque enim acci- denlia generibus speciebusve contingunt. Ut quod sunt, accidentibus debea ni (il concetto di accidens, qui come dappertutto, è preso in tal senso da comprendere, di fronte alla sostanza, tutte nove le altre categorie).... Individua vero subsistunt quidem vere.... Informata enim sunt jam propriis et specificis differentiis, per quas subsistunt. Non modo autem subsistunt, veruni etiam substanl individua, quoniam et accidentibus, ut esse possitit, ministrant : dum sunt scilicel subjecta.... accidentibus. 471 ) p. 1238 [ 1371—5] : Essentiae in universalibus sunt, in partimi- laribus substant . Subsistentiae [così il Prantl, ma nelle ediz. cit. : substantiae] in universalibus sunt, in parlicularibus capiunt substan- tiam, i. e. substant.... Universalia, quae intellectus ex parlicularibus colligit, sunt, quoniam particularium illud esse dicuntur, quo ipsa particularia aliquid sunt. Particularia vero non modo sunt, quod utique ex hujusmodi suo esse sunt, veruni etiam substant. 472 ) p. 1137 [1265]: Ad generales quoque et speciales subsistcn - tias, quae subsistentium, in quibus sunt. esse dicuntur, eo quodeis, ut sint aliquid, conferunt, ejusdem nominis, i. e. matcriae, alia fil denominatio. — p. 1140 [1269]: Essentia est illa res, quae est ipsum esse, i. e. quae non ab alio lume mutuai dictionem, et ex qua est esse, i. e. quae caeteris omnibus eamdem quadam extrinseca partici- patione communicat .... Namque et in naturalibus omne subsislen- maluiente usato da Gilberto per dar una definizione del genere 473 ), lo abbiamo di già incontrato più sopra nella teoria della indifferenza (nota 136), in Gausleno (nota 146) e nell’autore dello scritto De gen. et spec. (nota 162), — così Gilberto associa a questo concetto, ispirandosi a ve¬ dute realistiche, una concezione, da lui designata con le espressioni « substantialis similitudo » o « conjormantes subsistentiae », ma di preferenza con il termine, che ri¬ corre in lui così frequentemente, di« conjortnilas», anche esteso ai nomi delle cose 471 ); nè può qui disconoscersi tinnì esse ex forma est, i. e. de quocunque subsistcnte dicitur « est », formar, quam in se habet, participatione dicitur. — p. 1141 [ 1270J : Omnia de subsistente dicuntur : ut de aliquo homi/ie tota forma substanliae, qua ipse est perfectus homo, et omne genus omnisque dif- fercntia, ex quibus est ipsa composita, ut corporalitas et animatio, ...et denique omnia, quae vel loti illi formae adsunt, ut humanitati risi- bilitas, vel aliquibus partibus ejus. — p. 1145 [1274]: Quoniam... subsistentia causa est, ut id quod per eam est aliquid, suis propriis sit subjectum, ipsa quoque per denomi nalionem eisdcm subjecta dici¬ tur, et eorunUkm materia.... (p. 1146 [rectius : 1142 (1270)]): et ideo gerteraliter cum qualitalibus qualitas ....dicitur, et cum solis albedini- bus specialiter albedo. Atque adeo multa sunt. quae de. istis dicuntur : ut saepe etiam efficiendi ralione a coaccidentibus ad ea, quibus coacci- dunt, denominativa transsumptio fiat. Ut « linea est longa, albedo est clara». — p. 1199 [1329]: Hoc igitur, quod* habet a sua substantia, nomea, ad ea, quae ex ipso [il Pranll legge: ipsa] fluxerunt, denomi¬ native transsumptum est. 473 ) p. 1252 [1389]: Genus vero nihil alimi putandum est, nisi subsistentiarum secundum totam eorum proprietatem, ex rebus secun¬ dum species suas differentibus, similitudine comparata collectio. 174 ) p. 1135 [1263] : ,l)iversae,... subsistentiae, ex quartini aliis homines, et ex aliis equi, sunt ammalia, non imitationis vel imaginaria, sed substantiali similitudine ipsos, qui secundum eas subsistunt, fa¬ cilini esse conformes. — p. 1136 [1263 s.] : Dicuntur etiam multa sub¬ sistentia unum et idem, non naturar unius singularilate, sed multa- rum, quae ralione similitudinis fit, unione ....Ilio, quae divcrsarum nnlurarum adunai conformitas, genere vel specie unum dicuntur .... Tres homines.... neque genere ncque specie, i. e. nulla subsistentia¬ rum dissimilitudine, sed suis accidenlibus dissimilitudinis distant . Sunt conformantium ipsos subsistentiarum numero plures. — p. 1175 [1305]: Conformitate aliqua.... plures homines dicuntur unus homo. — p. 1192 [1322]: Secundum proposìtae naturar plenitudinem.... di¬ citur substantialis similitudo : qualiter album albo simile est, et homo homini. — p. 1194 [1324]: Tales sunt omnes differentiae illae, quae- [cunque] rei huic generalissimo proxime cum ipso quaedam contrae-l’affinità con la« similia creatio» del libro De gen. et spec. (nota 163), e particolarmente con la « consimilitudo » di Abelardo (nota 299) ; ma è degno di nota che il termine « indìfierentia », che pur doveva offrirglisi affatto sponta¬ neamente, Gilberto lo usi esclusivamente a proposito di discussioni teologiche intorno alla Trinità « 5 ), e che pur si serva invece, così per sostanze come per attributi, del termine « identitas» 47B ). In generale egli intende questa virtù formativa degli universali in senso realistico, a tal punto, che, p. es., non solamente la bianchezza, ma anche la unità appare a lui come una tale forma, la quale deve, qualunque sia il predicato, cooperare per far del soggetto di esso una cosa 477 ): e, mentre con ciò si trova esposto alla obiezione sopra citata (nota 438) : ed è possibile che fosse diretta proprio contro Gilberto), arriva qui a sta¬ bilire una distinzione, utilizzabile per la questione della Trinità, ma poi da capo violentemente combattuta da altri, fra la unità e 1’ Uno, o in generale tra gli aggettivi numerali e le forme ideali che stanno loro a fondamento — in quanto che quelli posson essere predicati soltanto delle fiorii similitudinis consumimi genera , quae a logica.... subalterna vo- canlur ■ vel subalterna similiter adhaerentes, quamlibet siib ipsa Sub- sistentiam specialem componunt- p. 1231 [Ì370]: ffomo subsistentia spedala, quae est hujus nomina qualità» una uulan conformilate, sed plures essenliae singulantate, de singola honuni- bus.... Parimente p. 1251 [?}» 1262 [1399], ecc. |9Q0) in ) Così, p. es., p. 1134, 1152 e 1169 [1262, 1280 e 1-99]. 4tg\ p H 69 [1299]: Identitate unionis.... homo idem quod nomo est. Nam'piato et Cicero unione speciei sunt idem homo. .. auae ex proprietate est unitatis |Prantl legge: propnetata est unitale ], q “ra,ion P ale P idem quod rationate est , eduli anima hommu, et,pse homo, non unione speciei, sed unitale propnetata, sunt unum ra donale. [ 1309 ]: Vnilas omnium.... praedicamentorum Comes est. Narri de quocunque aliquid praedicatur, idpraticato ?“**'” «* hoc, quod nomine ab eodem sibi indilo, et verbi iubifonm'i compos.- tione ... esse significata, sed unitale ,psi cooccidenfe esf um m ul album albedine quiden, album est, sed un,late cocce,dente albedim, unum, et simul albedine et ejus comite annate est album unum. cose concrete, che appunto sottostanno all’azione forma¬ tiva degli universali ideali 478 ). Ma poi al concetto di conjormitas si associa inoltre an¬ che un modo d’ intendere, secondo il quale nell’ individuo tutte le determinazioni possibili sono unificate per tal maniera, che esso, nella totalità della sua sussistenza (cfr. la nota 462), non è conforme a nessun altro essere, e per¬ tanto la individualità consiste in questa dissimiglianza di essenza, mentre all’ incontro tutto quel che c’è di non¬ individuale si fonda sopra una somiglianza, e può per¬ tanto venire compartito ne’ suoi modi di manifestarsi, individuali e concreti, che in esso sono simili, ma tra loro son dissimili: concezione questa, che Gilberto carat- 47S ) p. 1148 [1277]: Quod est unum, res est unitali subjecta, cui scilicet vel ipsa unilas inest, ut albo : rei adest, ut albedini. Unitas vero est id, quo ipsum, cui inest, et ipsum, cui adest, dicimus unum: ut album unum, albedo una. liursus ea, quae dicimus esse duo, in re¬ bus sunt, i. e. res sunt dualitati similiter subjcctae, quae dune sunl.... ldeoque non unitas ipsa, sed quod ei subjeclum est, unum est ; nec dua- litas ipsa, sed quod ei subjectum est, recle dicitur duo . Nani vere omnis numerus non numeri ipsius, sed rerum sibi suppositarum est numeriti. Ma che in generale persino questo sforzo, ispirato alla più stretta ortodossia, abbia raccolto poca gratitudine dalla parte di vari altri teologi, lo desumiamo dal fatto che, come riferisce il Du Houlay, Il istoria Universitatis Parisiensis, I, p. 404 [rectius : p. 402 ss.: y. inoltri ibid. p. 741, e particolarmente p. 200], il Priore Gualtiero di S. V ittore compose egli stesso uno scritto contro i« quat¬ tro labirinti di trancia» [Contro qualtuor labyrinthos Franciae : lo scritto si suol citare appunto con questo titolo], cioè contro Pietro Lombardo (v. sopra le note 41 ss.), Abelardo, Pietro da Poitiers e Gilberto; da manoscritti di tale opera (conservati nella Biblioteca di S. Vittore) il Launoi, de varia Aristot. in Acad. Paris. Jori., c. 3. p. 29 [p. 189 della ediz. di Vittemberga, 1720], comunica il passo seguente: Quisquis hoc legerit, non dubitabit, qualuor Labyrinthos Franciae, i. e. Abaelardum et Lombardum, Pelrum. Pictavinum et Gilbertum Porretanum. uno spiritu Aristotelico afflalos, dum ineffa- bilia Trinitatis et Incarnationis scholastica levitate tractarent, mul- tas haereses olim vomuisse, et adhuc errores pullulare [Cfr. UEBERtYEG— Geyer, p. 271]. Maggiori particolari sopra questo alterco fra teo¬ logi sono stati riferiti dall’UsENER nei Jahrbiicher fiir protestanti- sche rheologie, voi. V (1879), p. 183 ss. [« Gislcbert de la Porrée» è il titolo della nota, riprodotta nel IV voi. della raccolta delle Kleine Schriflen dell’Usener, Lipsia terizza scegliendo, per i così detti nomina appellativa, il termine « dividila », che troviamo qui per la prima volta, e, per i così detti nomina propria, il termine « indivi¬ dua » 479 )- Per la logica, una maniera di trarre partito da questo realismo ontologico consiste nell’andar su e giù per la Tabula logica, come si fa, secondo il procedimento di Boezio, nella definizione e nella divisione 48 °) : consiste per¬ tanto nella funzione predicativa, inquantochè quel che dal predicato si predica, relativamente alle cose concrete, non è mai l’essere concreto per se stesso, ma solamente la essenza, cioè la sussistenza e gli attributi essenziali 481 ): vale a dire che il realismo di Gilberto trova la propria espressione in ciò, ch’egli considera tutte le categorie come le causalità reali del loro manifestarsi nelle cose con¬ crete, e le designa pertanto come sommi generi non dei 47 9\ y 1164* 112941: Si enim dividuum facit similitudo, consequens est ut individuimi dissimilando. - p. 1236 11372]: Homo et sol a Grammatici appellativa nomina, a Dialeclicis vero dividila vocantiir Plato vero et eius singularis albedo, ab eisdem Grammatica propria, a Dia lecticis vero individua. Sed horum homo tam aclu quam natura appella tivum vel dividuum est; sol vero natura tantum, non aclu. Multi nam que non modo natura, verum etiam actu, et fuerunt, et sunt, et sant, subslanliali similitudine similes hommes. — p. 1165 11294] . Pestai igitur, ut illa tantum sint individua, quae ex omnibus compo¬ sita. nullis aliis in loto possimi esse conformia, ut ex omnibus, quae et actu et natura fuerunt vel sunt vel futura sunt, Platoms collecta Ha- tomtas. 112g jj 255 j. Sia* in diffinitiva demonstratione specie» aenere, sic in divisiva genus specie declaratur. — p. 1130 [1258]: «Nulla species de suo genere praedicatur» in diffimtionum genere verum est; itero « orarti* species de suo genere praedicatur » in divisto- num genere verum est. , 48 i\ p. 1244 [1381]: Nunquam enim id , quod est , praedicatut % sea. esse et quod illi adest, praedicabile est, et sine tropo, non msi de eo, quod est. (Se Gilberto con queste parole designava ì giudizi pura¬ mente esistenziali come inconcludenti, si metteva con ciò da capo in contrasto con certi teologi: v. Otto Frisino, de gest. Fnd.. I, 52 n. 437, ed. Urstis [MGH, XX, p. 379-80]: Erat quippe quorun- da'm in logica sententia, [quod.] cum quis diceret, Socratem esse, nihil diceret. Quos praefatus episcopus [intendi appunto 1 episcopus (i tc- taviensis) Gisilbertus ] seclans, talem dicti usuro haud premeditate „d theologiam verterà!).  predicati ma degli oggetti, si che per conseguenza la ja- cultas logica contiene semplicemente un ricalco della realtà 482 ). Ma, su questo punto, non si limita a distin¬ guere le categorie, alla solita maniera, onde quella della sostanza si contrappone a tutte le altre nove, bensì que¬ ste ultime si dividono a lor volta, secondo che appar¬ tengono all’ intima essenza, o han per contenuto sola¬ mente una relazione estrinseca 483 ) ; cioè, qualità e quan¬ tità, che appartengono alla « natura» (nota 461) o alla sussistenza, servono perciò ancora a predicare il vere esse, laddove le altre sette categorie, — inclusa dunque pur quella della relazione —, esclusivamente ricadono nella sfera degli status e delle loro esterne mutevoli circostanze (status : cfr. circumstantia in Boezio, Sez. XII, nota 166) «“). 4S2 ) p. 1173 [1303]: Ilorum nominum illa significata, quae diver- sis rationibus Grammatici qualilates, Dialectici cathegorias, i. e. prae- dicamenla, vocant, praedicantur substantialiter, — p. 1153 11281-2]: Qualilas ....omnium qualitatum gcneralissimum est, et quantilas om¬ nium quantilatum.... Ideoque qualitas est qualitas genere cujuslibet qualitatis, quale vero est quale qualitate cujuslibet generis.... Sirni- liter nullum, quod est ad aliquid, relatio est. et nulla relatio est ad ali- quid. Sed.... id, de quo ijJsa dicilur, est ad aliquid.... Ubi quoque, et quando, et habere, et situm esse, et Jacere, et pati, rwmina sunt gene¬ ralissima, non eorum quae praedicantur, sed eorum de quibus prae¬ dicantur.... Ilaec igitur praedicamenta talia sunt relationibus logicae jacullatis, qualia illa subjecta, de quibus ea convenit dici, permiserint. — p. 1146 [1274]: Caeteras, quae in corporibus sunt, vocantes formas, hoc nomine abutimur, dum non ideae, sed idcarum sint eìxóveq, i. e. imagines, quod ulique nomen eis melius convenit. Assimilantur enim.... quadam extra substantiam imitatione his formìs, quae non sunt in materia constitutae, sinceris. 483 ) p. 1153 [1282]: Quidquid hoc est subsistentium esse; eorundcm substantia dicilur. Quod ulique sunt omnium subsistentium speciales subsistentiae, et omnes ex quibus hae compositac sunt, scilicet, eorum- dem subsistentium, per quas ipsa sibi conformia sunt, generales, et omnes, per quas ipsa dissimilia sunt, dijjerentiales.... Accidenlia vero de illis quidem substantiis, quae ex esse sunt, aliquid dicuntur, sive in eis creata, sive extrinsecus affixa sint, sed eis tantum, quae esse sunt, accidunt. 484 ) p. 1156 [1285]: Ilare quidem, i. e. subslantiae, qualitates, quantitates, sunt talia, quibus vere sunt, quaecunque his esse propo- nuntur, ideoque recte de ipsis praedicari dicuntur. Reliqua vero sep- [d) lo scritto De sex principiis: un'abborracciatura]. — Ma proprio quest’ultimo argomento ci porta a prender in esame lo scritto di Gilberto De sex principiis , un pasticcio veramente pietoso, che fu già commentato da Lamberto da Auxerre (v. la Sez. XVII, nota 116), e poi, in conse¬ guenza dell’autorità goduta da Alberto Magno (ibid., note 439 s.), venne a essere tenuto in così grande conto da essere formalmente incorporato aH’Organon 485 ). ivi c’ imbattiamo novamente (cfr. la nota 461) nel concetto di essere sostanziale, nel quale risiede la forma di un in¬ trecciarsi degli elementi della essenza 486 ) : e a tale pro¬ posito si fa la osservazione, la quale, come più sopra (nota 464), resta senza motivazione, che cioè dalla sin¬ golarità delle cose concrete il pensiero trae fuori e in¬ tende quell’elemento, cb’è, nella sua unità, commune e universale 487 ). Ma poi si passa a considerar le categorie. lem generai» accidentia.... [non] vera essendi rationc praedicantur. Narri.... extrinsecis scilicet eircumfusus et determinatili minime prae- dicaretur, si non prius suis esset per se propri elalibus informatili. — p. 1160 [1290]: Sic ergo praedicatio alia est, qua vere inhaerens inhaerere praedicatur ; alia, quae quamvis forma inhaerentium fiat, tamen ila exterioribus datur, ut ea nihil alieni inhaerere inlelligatur. — p. 1255 s. [1393]: Caetera vero (cfr. la nota 461). quae de ipso no- turaliter dicuntur, quidam ejus status vocantur, eo quod nunc sic, nunc vero aliler, rctinens has. quibus aliquid est, mensuras et qualitalcs et ma¬ xime subsistentias, statuatur.... Situ, vel loco, vel Inibita, vel relatione, vel tempore, vel actione, vel passione slatuitur. Cori, quanto alla cate¬ goria della relazione, vien detto inoltre, nella forma più esplicita, a a p. 1163: relativa praedicatio ....consislil.... non in eo, quod est esse. 485 ) In conseguenza del suo accoglimento neH’Organon, è stato stampato in quasi tutte le più antiche traduzioni latine di Aristo¬ tele; io cito dal voi. I delle Opere di Aristotele in versione latina, Venezia 1552, in fnl. [Qui s’includono tra parentesi quadre i riferi¬ menti al testo accolto nella PL: cfr. più sopra la nota 21]. 4S “) Cap. 1, f. 31, v. A: Forma est compositioni contingens, sim- plici et invariabili essentia consistens.... Substanliale vero est, quod conferì esse ex quadam composilione compositioni, ut in pluribus, quod impossibile est deesse ei [PL, 188, 1258—9]. 487 ) f. 31, v. B: Sicut ex plurium partium coniunclionc constitutio quaedam primorum excedens quantitatem ejfìcilur, sic ex singularium discretione unum quoddam intelligilur. eorum excedens praedicatio- nem. — Così anche [Cap. 2], f. 32, r. B: omnes quidem homines eius hominis. qui communis est, et universale con quella stessa dicotomia (note 483 ss.) di categorie in¬ trinseche ed estrinseche, ma con questa differenza tutta¬ via, che cioè qui la categoria della relazione non viene ora più annoverata fra le categorie estrinseche, bensì questo gruppo viene a esser costituito dalle ultime sei categorie soltanto (actio, passio, ubi, quando, situs, ha- bere) : e poiché delle prime quattro categorie ha di già parlato a sufficienza Aristotele, Gilberto vuole trattare ora più compiutamente appunto di queste altre sei 488 ). Sodisfa cosi un bisogno, che abbiamo veduto di già mani¬ festato piu sopra (note 18 e 344): e qualificando Gil¬ berto, con la sua mania realistica, anche queste categorie come « principia» (cfr. le note 477 e 482), tale suo scritto, privo di senso comune, venne ad assumere più tardi, an¬ che in considerazione del suo titolo, una cosi grande im¬ portanza, da esser accolto per cosi dire nelFOrganon come sua parte integrante. [e) i sei « principii»: actio, passio, quando, ubi, si¬ tus, habitus]. — Per prima cosa vien definita l 'actio, e, con il più netto dualismo tra azione corporea e azione psichica, la si qualifica come legata da relazione di reci¬ procità con il concetto di movimento 489 ) : a ciò fa seguito la osservazione che la particolarità delazione ha per 4#8 ) [Cap. 2], f. 32, r. A: Eorum vero, quae contingunt exislenti, singultirli aul extrinsecus advenit, aul intra subslanliam consideratur simpliciler : ut linea, superficics, corpus. Ea vero, quae extrinsecus contingunt, aut actus, aut pati, aul dispositio, aut esse alicubi, aul in mora, aut habere necessario erutti. Sed de his, quae subsistunt, et quae non solum in quo existunt exigunl, in eo qui « de Categoriis» libro inscribilur, disputatimi est: de reliquis vero continuo aeamus [1260], * 4S “) Cap. 2, ibid. : Actio vero est, secundum quam in id, quoti sub- iicitur, agere dicimur.... Differunt autem, quoniam ea, quae corpo- ris est, rnovens est necessario illud, in quo est,.... actio autem animae non id movet, in quo est, sed coniunclum : anima enim, dum agii, im¬ mobile est.... Omnis ergo actio in mota est : omnisque motus in actione firmabitur sua proprietà (li produrre la passio, e che pertanto l'actio è il « principio » primordiale 49 °): a questo punto il concetto di « jacere » viene applicato anche a tutte le rimanenti categorie in ima serie di affermazioni che son delle più aride e peggio fondate 491 ) : e secondo il modello delle quattro prime categorie si fa vedere, anche nel jacere e nel pati, il rapporto di contrarietà e la gradua¬ zione di più o meno 492 ). Ma poi viene, ciononostante, in secondo luogo la pas¬ sio, dandosi per essa rilievo alla varietà di accezioni di questo termine 493 ). Viene appresso presentata, in terzo luogo, la catego¬ ria del quando, la quale è bensì afline al tempus, ma pur se ne distingue, in quanto che i tre tempi, passato e pre¬ sente e futuro, non son già un quando, ma sono solamente un effetto e una proprietà, conforme a cui qualche cosa viene denominata come passata e via dicendo (v. alcun¬ ché di simile alla precedente nota 194); inoltre nulla può misurarsi secondo il quando, ma secondo il tempo sì 494 ). 49 °) f. 32, r. B: Naturqlis vero actionis propnetas est, passionem ex se in id, quod subiicitur, inferre : omnis enim aclio passionis est effectiva.... Et sic actus quidem est primordiale principiata [1261]. 491 ) Ibid.: Facere vero id, quod quale est, ex se gignit.... Quanti- tatum vero particularium positio effectrix est, et qunlilatum uni¬ versa enim liaec a situ substantiam et generalionem kabent.... Situs autem, agere et pati : in dispositionis nonuple compositione quaedam generalio simplicium fil, quam in motiva actione consistere necesse est. Quando vero tempus. Ubi vero locus. Habere autem corpus : ea enim, quae circa corpus sunt, habere dicuntur [1261], 492 ) Ibid.: Recipit autem facere et pati contrarielalem, et magis et minus : secare enim ad plantare contrarium est....: et calefieri magis et minus dicilur [1261-2]. 493 ) C. 3, f. 32, v. A: Passio est effectus illatioque actionis.... Est autem pati eorum, quae multipliciter dicuntur : animae enim actio- num unaquaeque passio dicitur.... Dicilur quoque passio, quod in naturam agii : ut morbus.... Ea vero, quae nunc relinquuntur, in eo qui est « de Generatione» libro tractanlur (questa citazione è presa da Boezio [in Ar. praed.. Ili: PL, 64, 262], p. 190). 494 ) C. 4, ibid. : Quando vero est, quod ex adiacentia (cfr. la nota 504) temporis reliquitur. Tempus vero quando non est, utriusque autem ratio coniuncta est, ut tempus quidem praeteritum quando non est, A ciò fa seguito, come il colmo della stupidità, la indica¬ zione di una differenza tra quando e ubi, in quanto che il quando del presente, in pari tempo che l’istante stesso, è in eodem , ciò che non si verifica per Vubi 49S ), e cosi pure ima divisione del quando e del tempus in semplici e in composti 496 ), e infine la notizia che la relazione di contrarietà, e di più o meno, non ha luogo nel quando 497 ). Quarto viene ora ubi, e qui si presenta la distinzione analoga tra ubi e locus 498 ): e alla impossibilità che due cose sieno in uno stesso luogo o una stessa cosa in diversi luoghi, si collega anche la controversia sopraccennata (nota 203) circa la propagazione del suono 499 ); anche Vubi vien distinto in semplice e in complesso, e si esclude che, rispetto ad esso, abbia luogo la relazione di più efeclus autemcius, et affectio , secundum quarti dicilur aliquid fuisse, quando est. Instans autem quando non est, sed secundum quod ali- quid aequale, tei inacquale est: eius autem affectio, secundum quam aliquid dicilur in instanti esse, quando est. Futurum similiter tempus quando non est. — f. 32, v. B: Distai autem et tempus ab eo, quod quando: quoniarn secundum tempus aliquid est mensurabile : ut mo- tus animus.... Al vero secundum quando ri ih il mensuratur, sed ali- quando dicilur esse [1262]. 4 96 ) f. 32, V. B : Differì enim quando ab eo, quod est ubi : quoniarn in quocunque, tempus est vel fuitvcl erit, in eo quidem quando, est vel fuit vel erit, quod secundum idem tempus dicilur: quando enim, quod exislenti est, curn ipso instanti est, et simili in eodern sunt.... Ubi vero et locus, a quo est, vel fit, nunquam simili in eodem : ubi enim in circumscriptione est: locus autem in compicciente [1263], 19a ) Ibid. : Quando ....sicut autem et tempus, aliud quidem compo- situm est, aliud vero simplex. Est autem compositum, quod in compo¬ sita anione consista: simplex vero, quod cum simplici procedit [1263], 497 ) Ibid.: Inest autem quando, non suscipere magis et minus.... Amplius quando nihil est contrarium [1263]. 48s ) C. 5, f. 33, r. A: Ubi vero est circumscriptio corporis, a circum¬ scriptione loci proveniens. Locus autem in eo, quod capii, est, et cir- cumscribit.... Non est autem in eodem locus et ubi: locus enim in eo, quod capii, ubi vero in eo, quod circumscribitur et complectitur [1264]. 4 ") Ibid, : Nequaquam igitur duo in eodem loco esse simul pos- sunt, nec idem unum in diversis.... Movet autem quis quaestionem f orlasse, idem in diversis et pluribus concludens ; etenim vox in auri- bus diversorum est.... Confiteli oportel omnino, urtarti particulam aeris ad aures diversorum pervenire.... Relinquitur igitur, diversum sensum esse imaginabiliter se generanlium, et similiter [1264-5]. o ili meno, e così pure quella di contrarietà, a proposito della quale l’Autore persino espressamente si riferisce ai concetti di sopra e di sotto 50 °). Quinto segue situs , ovvero la categoria, come la chia¬ ma Gilberto, della positio , intesa secondo il realismo più rozzo possibile, sicché tutte le particolari manifestazioni di questa categoria, nel cui novero vengono compresi, p. es., anche lo scabro e il levigato (cfr. la nota 193), sono considerate soltanto come espressioni derivate 501 ); si contesta che questa categoria comporti opposizione contraria, e ciò perchè i contrari appartengono soltanto a un medesimo genere, e invece lo star seduti e il gia¬ cere vanno assegnati a generi differenti, in quanto che soltanto esseri ragionevoli possono star seduti, laddove gli altri stanno a giacere 502 ); e mentre qui è inammissibile an¬ che la relazione di più o di meno, questa categoria va messa nella più stretta connessione con quella della sostanza, pro¬ prio in essa trovando le sostanze il loro ordinamento 503 ). Ml °) f. 33. r. B: Ubi autem. aliud quidem simplex, aliud vero com- posilum. Simplex quidem, quod a simplici loco procedit : composilum autem, quod ex composito.... C.arct autem libi inlenlione et remissione : non enim dicitur alterum altero magis in loco esse vel minus.... Inesl autem ubi, nihil esse contrarium.... Sursuni enim et deorsum esse contraria pluribus videntur.... Conlingit autem contraria in eodem esse.... Si enim sursum esse et inferius esse contraria sunt, cum idem sursum et deorsum sit, colligitur, idem sibimet contrarium fieri [1265]. 601 ) C. 6, f. 33, v. A: Positio est quidam parlium situs, et genera¬ ti onis ordinatio, secundum quam dicuntur stantia vel sedentia.... Se¬ dere autem et lacere positiones non sunt, sed denominative ab his dieta sunt. Solet autem quaestio induci de curvo et recto, aspero et leni.... Non sunt autem positiones ea, quae dieta sunt omnia, sed qualia circa situm existentia [1265-6]. 60S ) Ibid. : Suscipere autem videtur situs contrarietates : nam sedere ad id quod stare contrarium esse videtur.... Ponentibus autem nobis, haec contraria esse, inconvenientia recipere cogimur, hoc, quod unum sit contrarium plurium.... Amplius autem conlrariorum quidem ratio est, circa idem natura existere. : sedere enim et iacere non circa idem natura sunt seiuncta : est enim sedere proprie circa ralionalia, iacere vero et accumbere circa diversa [1266]. 603 ) f. 3, V. B.: Proprium autem positionis, ncque magis neque mi¬ nus dici.... Magis autem proprium videtur esse positionis, substantiae Riinane poi ancora in sesto luogo Vhabitus, categoria identificata con il concetto di adiacentia, già familiare a noi, che conosciamo Abelardo (nota 284) 504 ); quando poi si legge che per habere la relazione di più o di meno è, di regola, ammissibile, ma talora, come, p. es., nel caso dell’« esser vestito », è inammissibile, e che in questa categoria non sussiste contrarietà, perchè esser armato ed esser calzalo non sono opposti 505 ), — anche ciò rende sufficiente testimonianza del talento logico dell’Autore; come particolarità di questa categoria, viene indicato il fatto che essa rimanda sempre a una pluralità, il che può, soltanto per certi rispetti, ripetersi anche per le categorie della quantità e della relazione 508 ); finalmente vengono citate ancora cinque accezioni differenti del ter¬ mine habere 507 ). [f) la controversia intorno al magis e al minus]. — Ma venuta poi a una conchiusione questa disamina dei « prin¬ cipi » 508 ), fa ancor seguito una trattazione speciale del proxime assistere , omnibus qiiidem aliis/ormis suppositis. Posilio autem nihil aliati est. quatti naturalis ipsius subslantiae ordinatio [1260]. S04 ) C. 7, f. 33, v. B: Habitus est corporum, et eorum quae circa corpus suoi, adiacentia : secundum quam hoc quidem habere, illa vero dicunlur halteri. Haec autem non secundum totum dicunlur, sed se¬ canti uni particularem divisionem, ut armatum esse [1267], s01i ) f. 34, r. A: Suscipit autem habitus magis et minus : armatior enim est eques pedite.... In quibusdam autem non videtur, quoti rum magis et minuspraedicentur : ut vestitum esse, et similia. IIabitui quoque nihil est conlrarium : elenim armatio calceationi non est contraria [1267], 60 °) Ibid. : Proprium quidem habitus est, in pluribus existere.... In paucis autem aliis principiis huiusmodi invenies : in quantilate enim solum, et in his quae ad aliquid sunt, similia reperies.... Habitus autem omnis in pluribus necessario existit, ut in corpore. et in his quae circa corpus sunl [1267]. 507 ) Ibid. : Dicilur autem habere multis modis : habere enim dicitur alterationem.... Dicilur etiam ras aliquid habere.... Habere quoque in membro dicimur,... Dicitui vir uxorem habere, et recipere uxor virum.... Quare modi habendi, qui dici consueverunt, quinario numero terminan- lur [1267-8], 50s ) Ibid. : Et quidem de principiis haec dieta sufficiant : reliqua vero in eo, quod de Analylicis est. quaerantur volumine magis et minus ; e qui Gilberto taglia il nodo della contro¬ versia ricordata più sopra (nota 196), non potendo l’or- dine delle graduazioni risieder già nella sostanza stessa, poiché questo urta contro il concetto di sostanza, ma d’altra parte nemmeno negli accidenti, perchè allora il grado superiore, p. es., di bianchezza dovrebbe consi¬ stere nell’ampiezza della superficie (!) : donde consegue che il più o il meno neanche ha la propria sede nell’ima e negli altri insieme, cioè nella sostanza e ne’ suoi acci¬ denti 509 ). Ma la soluzione positiva, che dà ora Gilberto, ha questo fondamento, che cioè il magis vel minus con¬ siste nel grado in cui lo stato di fatto reale sta più vicino o più lontano dall’accezione del termine che designa la qualità, una graduazione questa che non si manifesta, dove si tratta di sostanze, per la ragione che la denomina¬ zione delle sostanze stesse rimane compresa entro saldi confini (in terminis) : tuttavia a tal proposito viene a confes¬ sare egli stesso quali assurdità sieno queste che presenta, quando deve aggiungere che una tale saldezza si ritrova tut¬ tavia anche nella denominazione di talune qualità 51 °). In- 60 “) C. 8, f. 34, r. B: Non ergo secundum suscipicntium ipsorum Crementum vel decremenlum, cum „magis vel minus “ aliqua dicuntur. Nulla cnim ratio obviarel dicenti, hominem et animai et substantiam et caetcra consimilia cum „magis et minus" dici.... Mons eliam alio monte maior dicitur , cum neuler crescat vel decrescat.... Amplius autem ncque secundum ea, quae inficiunt. Si enim, secundum magnitudinem albedinis vel alicuius caelerorum, dicitur aliquid albius aliquo, vel, se¬ cundum parvitatem , minus album, vel quomodolihet aliter, utique et magis albus equus vel homo, vel quodlibet aliud albius margarita di- cetur : etenim maior albedinis quantitas equo accidit quam marga- ritae.... f. 34, v. A: l’atet itaque, nihil secundum ,.magis et minus“ praedicari, ncque secundum suhiecti solum augmentum vel diminutio- nem, neque secundum accidentis ; quare ncque secundum utrunaue [1268-9], ^ 61 °) 6 34, v. A: Oportet igilur ab alio ea invenire, quae cum „magis et minus" dicantur. Huiusmodi vero sunt ea, quae. sunt in voce eorum, quae adveniunt, et non secundum subiecti vel mobilis cremenlum vel diminutionem, sed quoniam eorum, quae sunt in voce, impositioni pro- pinquiora sunt, sive ab eadem remotiora sunt : de his etenim cum „ magis" dicuntur, quae proximiora sunt ei, quae in ipsa voce est , impositioni, cum „minus" autem de his, quae remotiora consistunt.... Quanto igitur tìne la faccenda mette pur capo anche alla tesi essenziale, che cioè nella pluralità della realtà materiale in gene¬ rale, hanno loro proprio luogo il divenire e la relatività 511 ), e F illogico realista assume poi a criterio per questo campo la espressione verbale, mentre, per Forbita del vero es¬ sere, possiede nella parola solamente il ricalco di una idea. Così lo scritto di Gilberto intorno alle categorie ci porge un documento veramente miserevole, per provare come quell’epoca non fosse per nulla meno goffa e inetta dei secoli precorsi, tostochè sol si tentasse mai, senza le dande della tradizione, di muover un passo indipen¬ dente, anche senza uscir dall’ambito delle cose più sem¬ plici. [§ 36. — Ottone da Freising, seguace di Gilberto. Lo scritto pseudo—boeziano De imitate et uno]. — Ma quale seguace di Gilberto, riguardo alla concezione degli universali, ci si presenta Ottone da Frei- 8 i'n g (nato nel 1109 [rectius : nel 1114 o 1115], morto nel 1158), che alle sue opere storiche intreccia talvolta disgressioni formali di contenuto filosofico, manifestando in esse, con i modi consueti di espressione, il suo rispetto di teologo verso Platone, e in pari tempo il conto in cui ad vocis impositionem accedens puriori inficitur alitarne, tanto et can- didior assignabitur.... Dubitabit autcni aliquis, quarc haec quidem cum ..magis et minus LL dicantur, substantiae vero minime : hoc autem con- tingit. quoniam subslantiarum impositio quidem in termino est, ultra quem transgredi impossibile est. Additur autem et de accidenlibus qui- busdam, quae sine ..magis et minus “ dicuntur : ut quadrangulus, et triangulus, et similia [1269], 6U ) f. 34, v. B: In subiecto enim duo sunt. quorum haec quidem estjorma secundum rationem, haec autem secundum materiam ; quando igitur in his duobus est transmutatio, generatio et corruptio crii sim- pliciter secundum veritatem.... Est autem materia maxime quidem subiec- lum gencrationis et corruptionis proprie susccptibile.... Haec autem hoc aliquid significant et substantiam, haec autem quale, haec autem quantum. Quaecunque igitur non substantiam significant, non dicuntur simpliciter , sed secundum aliquid generari tiene la logica aristotelica 512 ). Come Ottone occasional¬ mente aderisce una volta alla tesi, che gli esseri concre¬ tamente esistenti formano il contenuto e l’oggetto dei predicati dichiarativi, laddove i concetti di specie e di genere vengono predicati, avuto riguardo alla causalità delle cose che ha in essi fondamento 513 ), — così un’altra volta egli si pronunzia più distesamente sopra questa relazione, in tutto e per tutto ripetendo la opinione di Gilberto, con il quale si accorda anche nella espressione letterale ( nativum , natura , Jorma, con.jorm.is, coadunatio, — « omne esse ex Jorma est» —) 514 ). Nello stesso senso, 612 ) Chron. II, 8, p. 27, cri. Urstis [MGH, XX, p. 147]: Sacrale*.... educaviI Platonem et Aristotilem, quorum alter de potentia. sapientia, bonilate creatoris ac genitura mundi creationevc hominis tam luculenter, lam sapienter, tam vicine verilati disputai.... alter vero dialecticae [li- bros] arti* vel primus edidisse, tei in melius correxisse, aculissimeque ac disertissime iride disputasse invenilur [cfr. il testo della ediz. Wil- mans (M G II), e ivi l’apparato critico], 61a ) De gest. Frid. Prolog., p. 405, cd. Urstis [MGH, XX, p. 352]: Sicut enim iuxta quorundam in logica nolorum positionem, cum non formarum, sed subsistentium proprium sii praedicari seu declarari. ge¬ nera tamen et species praedicamento transsumpto ad causam praedi¬ cari dicuntur. Vel, ut communiori utar exemplo, sicut albedo clara, mors pullida, eo quod claritatis altera, palloris altera causa sit, appel- latur, etc. (La espressione transsumptio, come pure lo stesso esempio albedo clara, si trovano in Gilberto, p. 1142 [1270] : v. la nota 472). M4 ) De gest. Frid. I, 5, p. 408 [354]: Nativum velut natimi aut gemtum, descendens a genuino (v. la nota 464).... In nalivis igitur omnem naturata seu formam, quac integrata esse subsistentis sii, vel adii et natura, vel natura sallem conformem habere necesse est.... Partes aulem hic vaco eas formas (nota 468), quae ad componendarn speciem aut in capite ponuntur, ut generales, aut aggregante, ut differentiales, aut eas comitantur, ut accidentales.... [355] Potei.... humanitatem So- cratis secundum omnes partes et omnimodum effectum humanitali Plu¬ toni* conformem esse, ac secundum hoc Socratem et Platonem eundem et unum in universali dici solere (nota 474),... Concretìo etiam in naturaiibus non solum coadunatione formae et subsistentis. sed ex mol¬ titudine accidentium, quae substanliale esse comilantur, consideravi po- test (note 464 e 471).... Sunl aliae formae subiectum integrum infor¬ mante*, quae naluram tantum conformem habenl. Esse quippe soli*, etsi non aclu, natura conformem habere noscitur. Quare, quamvis plu- res soles non sint, sine repugnanlia tamen naturae plures esse possunt (nota 479).... (p. 410) Omne namque esse ex forma est.... Tantum de co, quae a philosophis genitura, a nobis faclura seu creatura dici solet, disputai inumi inslituimus. Sed notandum, quod compositio alia for- ébìin altro luogo (con. intonazione polemica contro Gu¬ glielmo da Champeaux) qualifica l’universale come« quasi in unum versale», e a ciò unisce una giustificazione eti¬ mologica dei termini e dei concetti di dividuum e indivi- diium 515 )', inoltre condivide con Gilberto l’ingenuo rac- costamento delle cose e delle parole 516 ), come pure ri¬ corda altresì ima volta quell’esercizio ginnastico, che vien fatto nello studio della logica, sull’albero di cuccagna della Tabula logica 517 ). Appartiene allo stesso gruppo anche uno scrittarello anonimo [oggi è riconosciuto esser opera di Domenico Gundissalino] «De unitate et uno», che mani¬ festamente è una produzione determinata dalle polemi¬ che di quel tempo intorno alla Trinità, ma che, al pari di quella più antica opera De Trinitate [oggi, come ab¬ biamo veduto, attribuita appunto a Boezio], fu ritenuta marum, alia est subsistentium.formarum ex formis, subsistenlium ex sub- sistentibus..,. [356] Formarum autem aliae compositae, aline simplices ; simplices, ut albedo, compositae, ut humanitas.... Ulule Boetius in oclava rcgula libri llebdomade „omni composito aliud est esse, aliud ipsum est“ (v. la noia 37). 61S ) Ibid., 53, p. 437 [380] : Universalem..., dico, non ex eo, quod una in plurilius sii, quod est impossibile (noia 105), sed ex Iwc, quod plura in similitudine vivendo [rectius : uniendo] ab assimilamii unione univcrsalis. quasi in unum versalis dicalur.... Ex quo palei . quare.... singularem, individualem vel parlicularem dixerim proprietatem, eam nimirum, qttae suum subiectum non assimilai aliis. ut humanitas, sed ab aliis dividii, discernit, partitur. ut ea, quam fido nomine solemus dicere ,,Platonitas “, a dividendo individua, a parliendo particularis, a dissimilando singularis dieta. Nec opponas, quod potius a dividendo dividuam, quam individuam dici oporteat. Nam cum suum subiectum non solum ab aliis dividat vel dissimilet. sed etiam in sua individua¬ litale et dissimilitudine tam firmiter manere faciat, ut nec sii nec fuerit neo futurum sit aliud subiectum, quod secundum eiusmodi proprieta- lem illi assimUari queat, melme individuum privando, quam dividuum ponendo vocalur, eiusque oppositum, quod dividendo pluribus com- munical, et communicando dividii, rectius dividuum dici debet (noia 479). “ 1G ) Ibid., p. 438 [ifc.] : Cum enim omne esse ex forma sii, quodlibet sub- sistens rem et nomea a sua capit forma (note 458, 174, 482). s17 ) Ibid.. 60, p. 444 [386] : iuxta logicorum enim regulam methodus a genere ad destruendum, a specie valet ad aslruendum (nota 480). fattura di Boezio (v. sopra la nota 35) «»). Domina nella questione della unità, che anche Gilherto era stato tratto a discutere (note 477 s.), quello stesso realismo di Gil¬ berto o di Ottone 519 ), e forse possiamo tutt’al più ri¬ cordare che qui si trova una singolare enumerazione di accezioni varie del termine « unum» 520 ). [§ 37. — Alberico (da Reims ?), a Parigi. Willi- RAM DA SoiSSONS. VARI ALTRI AUTORI, MENZIONATI DA Walter Mapes]. — Ma nello stesso tempo, cioè press’a poco tra il 1140 e il 1170, viene a cadere anche la com¬ parsa di alcuni altri autori, dei quali conosciamo quasi esclusivamente i nomi, e a ogni passo della nostra in- dagme torna a imporsi la considerazione, che cioè le fonti a noi accessibili ci consentono pur sempre soltanto una conoscenza frammentaria. Si dovrà anzi designare come casuale la notizia dataci da Giovanni da Salisbury, quando, raccontando il corso de’ suoi studi, fa il nome di un certo Alberico, che, morto Abelardo, insegnò aS.te Geneviève in Parigi, e imprese energicamente la „ Q M^n. tampata °P cre di Boezio, ediz. di Basilea 1570, p. 1274 l'òleslpaTJTwTìMiT l * 3 bibli0thè 1 ue * *.s dipar,ements de . ’ 1 ungi 1841, p. 169) trovo m un manoscritto di St -Michel Hd/nf t0 an0nmM p rh e T nd ° aUe righe “ iziali d “ lui citate, c identico a questo Pseudo-Boezio. ".*> p -.,. 1274 t PL ’ „ 63 - 1075]: Omne enim esse ex forma est , in unita* r f ' S> ' " ullum eSSC ex f° rma nini cum forma maleriae unita est. Esse xgitur est nonnisi ex eoniunctione formae cum materia j.m autem forma matenae unitur , ex eoniunctione utriusque necessario al,quid unum consti,ni,ur.... Uni,io autcm non fi, nisi un.tatZ Z- mam autcm non tene, uni,am cum materia nisi unitasi ideo materia egei untiate ad umendum se.... et de natura sua habet multiplicari Uni,as vero retine,, umt e, colligi,. Ac per hoc ne materia divida,ur et spargami -, necesse est, ut ab unitale retineatur ecc. [testo cit. se- 0nd ° a ed £- C r ™ (Beitràge del Baumker, I, 1, p. 3 - 5 )]. ) p. 12/6 fPL, 63, 1077-8]: Unum enim aliud est essentiae Simpl,Citate.... Ahud simplicium eoniunctione.... Aliud.... continui- tate.... Ahud... compositione.... Alia dicuntur unum aggrega,ione Alta.... proportione.... Alia.... accidente.... Alia.... numerai Alia ZZI'"' Al,a ":;. natura . unum ’ ut participatione speciei plures hommes unus. Alia.... natwne.... Alia.... more [testo c. s„ p. 9-10]. STORIA DELLA LOCICA IN OCCIDENTE lotta contro i nominalisti, nella quale pare lo abbia so¬ stenuto un considerevole talento per le distinzioni 521 ). Riferisce inoltre Giovanni, ch’egli stesso ha impartito 1’ in¬ segnamento della logica a tale W i 1 1 i r a m [Gugliel¬ mo ?] da Soissons, il quale, da lui presentato poscia a Adamo dal Petit-Pont (note 440 ss.), ha ideato in seguito una speciale machina contro i seguaci della vecchia logica (antiqui, logicae vetustas: v. sopra le note 55 ss.) 522 ). Giovanni menziona poi un’altra volta, oltre 621 ) Jou. Saresb. Metal., II, 10, p. 78 s. (ed. Giles [e Wcbbj): Contali me ad Peripateticum Palatinum qui. Iurte in monte Sanctae Genoue/ae clarus doclor et admirabilis omnibus praesidebat. Ibi ad pedes eius prima artis huius rudimento accepi.... Deinde post discessum eius, qui michi praeproperus visus est, adhaesi magistro Alberico, qui inter ceteros opinalissimus dialeclicus enitebal et erat revera norninalis sectae acerrimus impugnator. Sic ferme tota biennio conversatus in monte, artis huius praeceptoribus usus sum Alberico et magistro Rodberto Me- ludensi (v. sopra la nota 453)....; quorum alter (cioè Alberico), ad omnia scrupulosus, locum quaestionis inveniebal ubique, ut quamvis polita planilies ojjvndiculo non carerei et, ut aiunl, ei [sjcirpus non esset enodis. Nam et ibi monstrahat quid oporleal enodari ....Apud hos, toto exercilatus biennio, sic locis assignandis assuevi et regulis et aliis rudimentorum elementis, quibus pueriles animi imbitumar, et in qui- bus praejati doctores potentissimi crani et expeditissimi, ut etc. [PL, 199, 867-8). Menzione di questo Alberico si trova fatta da Giovanni anche nell’ Enthelicus, v. 55 s. : Iste loquax dicaxque parum redolel Melidunum, Creditur Albrico doctior iste suo [PL, 199. 966). Ma di quale Alberico si trattasse, fra i parecchi con questo nome, menzio¬ nati in quell’epoca, non è possibile determinare con sicurezza; la indicazione cronologica su riferita rende probabile che fosse Albe¬ rico da Reims, soprannominato de Porta Veneris, il quale fece più tardi accoglienza ospitale a Giovanni da Salibury e all’arcivescovo Tommaso [Becket], quando furon esuli in Italia. V. Du Boulay, Hist. Univ. Par.. II, p. 724. e la Ilistoire littér. de la France, XII, p. [72-6, e particolarmente] 75. 522 ) Ibid., p. 80 [81]: linde ad magistrum Adam.... familiarilalem contraxi ulteriorem.... Interim Willelmiim Suessionensem, qui ad expu- gnandam, ut aiunt sui, logicae vetustatem et consequentias inopinabi- les construendas et antiquorum sentcntias diruendas rnachinam post- modum fedi, prima logices docili dementa et tandem iam dieta prae- ceplori appositi. Ibi forte didicit idem esse ex contradictione, cum Ari- stotiles obloquatur, quia « idem cum sit et non sit, non necesse est idem esse » (queste parole si trovano negli Anni, pr., II, 4, 57 b 3: v. la Sez. TV, nota 614), et item, cum aliquid sit, non necesse est idem esse et non esse. Nichil enim ex contradictione [82] evenit et conlradictio- nem impossibile est ex aliquo evenire. Unde nec amici machina im- a quel suo avversario, denominato da lui Cornificio (v. subito appresso), il rappresentante di un altro indirizzo, a quanto sembra, esagerato e astruso, nello studio della logica, e lo designa con il nome imaginario di Serto- r i u s 523 ). Ma a ciò si aggiunge, oltre a notizie mal verificate circa un tal Davide, a ITirschau, e un Giovanni Serio, a A ork r ’ 24 ), un’altra informazione ancora, che dobbiamo a un autore della fine del secolo XII», cioè a Walter M a p e s , il quale nelle sue poesie occasio¬ nalmente dimostra conoscenza delle personalità e delle tendenze dominanti nelle scuole; costui menziona (con la osservazione, che il maggior numero di seguaci lo ha Abelardo), oltre a Bernardo da Chartres, Pietro da Poi- tiers e Adamo dal Petit—Pont, anche un certo Regi¬ na I d o , uno straordinario sbraitone, che criticava tutti pellente urgeri potili ut credam ex uno impossibili omnia impossi- bitia provenire [PI,, 199, 868], Anche a prescindere dalla questione di determinare in che cosa inai potesse consistere questa misteriosa machina , tutto il passo, del quale può anche ben darsi che il testo sia guasto, mi è rimasto assolutamente incomprensibile; tutto quel che risulta da un altro passo (v. appresso la nota 624), è che si ten- tav f di riattaccare a quelle parole di Aristotele i sillogismi ipotetici. ) Enthet.,\. 116 ss. |PL, 199, 967-8]: Si i/uis credatur logicus , hoc satis est ; Insanire putes potius. quam philosophari , Seria sani etemm cuncta molesta nimis. Dulcescunt nugae, vultum sapientis abhor- rent, lormenti geritts est saepe videre librum. Ablactans nimium te- ncros Sertorius olim Discipulos Jerlur sic docuissc suos ; Doctor mini juvrnum prelio compulsila et aere Pro magno docuit munere scire nihil. tuo ), 1THKMI1 Ann ? liì Uirsaugienses , ann. 1137 (ediz. di S. Gallo. 1690, I, p. 403): David.... monachicum habitum suscepil.... Scripsil quaedam non spernendae lectionis opuscolo.... de grammatica L. 1, in Perihermenias Aristotelis libros duos. Che tuttavia le notizie di Tritemio abbiano scarso valore, lo sanno tutt’ i competenti; d’al¬ tra parte è noto che le cose vanno di gran lunga anche peggio per il 1 ITSEUS [John Pits, 1560-1616], il quale spesso, quando non co¬ piava il Lei and [John Leland (Leyland, Laylonde), antiquario in¬ glese m. 1552], inventava semplicemente menzogne, sicché forse neanche vai la pena di ricordare quel ch’egli dice. De illustribus Anghae scriptoribus. p. 223 s. (ad ann. 1160): Joannes Serio dictus magister Serio.... ex Eboracensi canonico Jactus est.... Fontanus Abbas.... Scripsit.... de aequivocis diclionibus librum unum, de univocis dictio- nibus librum unum. e appiccò Porfirio alla l'orca (laqueo suspendit), sicché potremmo forse ravvisare in lui quel Comifìcio di cui parla Giovanni da Salisbury [e da altri diversamente identificato; cfr. la nota del Webb alla p. 8 della sua ediz. del Metalogicus] ; menziona inoltre, insieme con Ro- bertus Pullus, un Manerius, estremamente sottile, mi arguto Bartolomeo e un Roberto Ami¬ ci a s 525 ). Si può anche ricordare che la poesia finisce con la cacciata dei monaci dalle scuole dei filosofi 528 ): e c’è del pari un’altra poesia, che appartiene press’a poco alla stessa epoca, e rappresenta con molto spirito il con¬ trasto fra il pretume, dedito ai piaceri del senso, e la fine cultura logica 527 ). 5 “) The latin poems commonty attributcd to Walter Mapes, col- lected and edited by TnOMAS Wrigiit (Londra, 1841-4), dove uella Introduzione è anche esposto quel che di più preciso risulta sul conto di Walter Mapes. In una delle poesie, Metamorph. Goliae, v. 189 ss. (p. 28), si trova il passo seguente: Ibi doctor cernitur ille Carnotensis, Cujus lingua vehemens truncat vclut ensis ; Et hic praesul praesulum stai Pictaviensis , Prius et nubenlium [studenlium ?] miles et castrensis (seguono i versi cit. più sopra, nota 442).... [v. 199 ss.) ....Celebrem theologum vidimus Lumbardum ; Cum Yvone, Helyam Petrum (entrambi grammatici), el Bernardino [p. 29], Quo¬ rum opobalsamum , spiralo*, el riardimi. Et professi plurimi sunt Abaie- lardimi. Reginaldus monachus dumose contendit. Et obliqui s singu- los verbi s comprehendit ; Hos et hos redarguii, nec in se descendit. Qui nostrum Porphyrium laqueo suspendit. Roberlus theologus corde vivens mando Adest, el Manerius quem nullis secando ; Alto loquens spiritii el ore profundo. Quo quidem subtilior nullus est in rnundo. Hinc et Bartholomaeus faciem acutus. Retar, dialecticus. sermone astu- tus, Et Robertus Amiclas simile secutus , Cum hiis quos praetereo , populus minutus. 5 -’) Ibid., v. 233 (p. 30): Quidquid tantae curiae sanctione datur. Non ceda t in irritum, ratuni habealur ; Cucullatus igitur grex vilE pendatur. Et a philosophicis scolis expellatur. — Amen. 5 “') De presbytero et logico (parimente edito dal Wrigiit, op. cit., p. 251 ss.) in 216 versi, dove a dire il vero non si trova alcun con¬ tributo d’ informazione storica per il nostro intento. Il contrasto degl indirizzi ha p. es. la sua espressione nei versi 29 ss.: Logicus: «Fallis. fallis, presbvter, coelum Christianum, Abusive loqueris. laedis Priscianum; Te probo falsidicum, te probo vesanum»; ....Presbyter. « Tace, tace , logice ; tace , tir fallator; Tace , (lux insaniae, legis vanne lator ;....» Log. — « Peccasti, sed gravius adjicis peccare. Le- gem hanc adjiciens vanam nominare; Sanum est, dissercre nel gram- C. Prantl, »S 'torio, della logica in Occidente, H.  [§ 38. — Il così detto Cornificio, oggetto della polemica di Giov. da Salisbury]. — Ai già nominati si unisce finalmente ancora tutto quell’ indirizzo, che Gio¬ vanni da Salisbury, volendo combattere non contro la persona, ma esclusivamente contro la cosa, qualifica con il nome simbolico di Cornificio 528 ). I numerosi passi dov’egli rammenta questo suo avversario o i seguaci di lui, coincidono in un punto, che è questo: c’erano cioè parecchi, i quali a priori respingevano come inutile ogni tecnica della parola nudrita di pensiero (eloquentia o lo¬ gica), perchè tutto ha fondamento nella disposizione na¬ turale, e pertanto, chi possieda questa, senza punta tec¬ nica, tocca da se medesimo il segno, e invece chi non ha talento, non fa progressi neanche in grazia della teo¬ ria 629 ). E quando si soggiunge che questi « filosofi di mutilare, — Si insanum reputai, velim dicas quare». Prcsb. — « Dco est udibile vestrum argumentum ; Ibi nulla veritas, toturn estfigmentum ;», o p. es. ai versi 129 ss.: Log. —« Audi, inter phialas quid philoso- pharis ; follus, non philosophus, bine esse probaris ; Stulto sunt si- milia singola quac faris, [parte tua caream quarti ibi lucraris ]. Epi- cure lubrice, dux ingluviei, Cujus Deus venter est, dum sic servis ei etc. ». 62S ) J OH. Saresb. Metal., I, 2, p. 14 [ed. Webb, p. 8|: Utique par est sine derogatione personae sententiam impugnari ; nichilque lurpius quam cum sententia displicet aut opinio, rodere nomea auclo- ris.... [9] Celerum opinioni reluclor, quae multos perdidit, eo quod populum qui sibi credat habet ; et licei antiquo novus Cornificius inep- tior sii, ei tamen turba i nsipienlium adquiescit. — Polycr., I, Prol., p. 15 [16]: Aemulus non quiescit, quonium et ego meum Cornificium habeo.... Quis ipse sit, nisi ab iniuriis temperet, dicam.... Procedat tamen et publicet, arguat meum ralione vel auctoritate mendacium [PL, 199, 828 e 388], Dal modo di esprimersi dello scrittore in questi due ultimi passi, risulta come Giovanni non abbia fatto che traspor¬ tare simbolicamente il nome di Cornificius da un personaggio del- 1 antichità al suo proprio nemico, e può ammettersi con certezza che a ciò gli abbiano dato occasione le notizie di Donato (Pila Vir- gilii, c. 17 s. : vedi le Opere di VIRGILIO, ed. Wagner, I, p. XCIX s.), riguardo a un tale Cornificio, avversario di Virgilio « ob perversam naturami> [cfr., nella ediz. Brummcr delle Vitae Vergilianae, il « Ple- nus apparatus ad vitam Vergilii Donatianam», p. 31], 529 ) Ib., Metal., I, 1, p. 12 [ed. Webb, p. 6]: Miror ilaque.... quid sibi vull, qui eloquentiae negat esse studendum.... p. 13 [8[: Cornifi¬ cius noster, studiorum eloquentiae imperitus et improbus impugnalor. — C. 3, p. 15 [10]: Fabellis tamen et nugis suos pascit interim audi- testa propria », avendo a disdegno F intiero trivio e qua¬ drivio. si son gettati sopra forme di attività pratica e sovra profitti pecuniari ;>3 °), sarebbe in ciò da riscontrare un indizio significativo, in quanto si direbbe che tale corrente, non prendendo ispirazione da vedute clericali o dommatiche bensì per effetto di un impulso pratico, si sarebbe mostrata avversa al farraginoso viluppo della scienza scolastica, e avrebbe richiamato l’attenzione so¬ pra il valore immediato del talento individuale. Così po¬ tremmo intendere tali manifestazioni come un preludio di tendenze svoltesi più tardi. Qualora ci fosse lecito riferire al così detto Cornificio anche la notizia, che ta¬ luni rigettarono le Categorie e la Isagoge come inutili libri elementari 531 ), potremmo forse ritenere che il già tores quos sine artis beneficio, si vera sunt quae promittit , fa ci et elo- quentes et tramite compendioso sine labore philosophos. — C. 5-6, p. 23 [20]: Neque erti rii. ut Cornificius, meipsum docui.... Non est ergo ex eius sententia.... sludendum praeceplis eloquentiae ; quoniam eam cunctis natura ministrai aut negai. Si ultra ministrai aut spante, opera superflua et diligentia ; si vero negai, inefficax est et inanis. — C. 9, p. 29 [26]: Eo itaque opinionis vergit intentio, ut non omnes mutos faciat. quod nec fieri potcst nec expedit, sed ut de medio logicam tollal. — Ibid.. II, Praef., p. 62 [60]: Logica, quam. etsi mutilus sit et amplius mutUandus, Cornificius, parielem solidum eccoti more pal- pans, impudenter attemptat et impudenlius criminatur. — Ibid., IV, 25, p. 181 [192]: Sed Cornificius nosler, logicar criminator, phi- losophantium scorra, non immerito contemnetur. — Enthel., v. 61 ss. « Quum sit ab ingenio totum, non sit libi curae. Quid prius addiscas posteriusve legas ». Ilare schola non curai, quid sit modus ordove quid sit. Quam teneant doctor discipulusve viam [l’L, 199: 827, 828, 833 837, 857, 931, 966], 530) j \Jctal. I, 4, p. 20 [15]: Alii autem Cornificio similes ad vulgi professiones easque prophanas relapsi sunt; parum curantes quid phi- losophia doceat, quid appetendum fugiendumve denuntiet ; dummodo rem faciant, si possunt, recte ; si non, quocumque modo rem (Hor. Ep. 1, 1, 65[-6])....Evadebant illi repentini philosophi et cum Corni¬ ficio non modo trivii nostri sed totius quadruvii contemptores IPL, 199. 831], 531 ) Ibid., III, 3, p. 123 [128]: Sunt qui librum islurn (cioè le Ca- tegoriae), quoniam elementarius est, inutilem fere dicunt, et satis esse putant ad persuadendum se in diabetica disciplina et apodictica esse perfectos, si contempserinl vel ignoraverint illa, quae in primo com¬ mento super Porphirium anlequam artis aliquid attingatur docel Boe- lius praelegenda [PL nominato Reginaldo fosse per lo meno un rappresentante di questa tendenza 532 ), se non apparisse inutile, con tante lacune nella conoscenza delle fonti, presentare semplici congetture. Ma quale idea si fosse fatta lo stesso Gio¬ vanni della origine di siffatta opposizione alla logica sco¬ lastica, è stato già più sopra indicato, alle note 52 s. [§ 39. — Giovanni da Salisbury: a) i suoi studi: il « Metalogicus»]. — Ma così è venuto il momento di occuparci proprio di quello stesso autore, che già tante volte abbiamo finora dovuto usare quale fonte, cioè di Giovanni da Salisbury 533 ). Costui (morto nel 1180) aveva intrapreso lo studio della logica alla scuola di Abelardo, lo aveva proseguito presso il già ricordato Alberico, Roberto da Melun e Guglielmo da Conches, M2 ) È possibile che nella espressione sopra citala « laquco su- spendi!» (nota 525) si celi anche un’altra volta un giuoco di pa¬ role con Cornificius e carni/ex. V. upprcsso, nota 545, un altro giuoco di parole con cornicari. 693 ) Approfondite ricerche sopra Giovanni da Salisbury, dal punto di vista della storia letteraria, sono state presentate da Cristiano I’ETERSEN nella sua edizione dell’Uref/ietieus (Amburgo, 1843). La monografia, nella quale Ermanno Reuter (Johann von Salisbury : Zur Geschichte der christlichen Wissenschaft im 12. Jnhrhundcrl [G. da S. : Per la storia della scienza cristiana nel 12° Secolo], Berlino, 18 12) ha tentato di svolgere la dottrina di Giovanni, generalmente si risente dell’orientamento proprio dell’Autore, e che è tanto sbagliato quanto estremamente insufficiente. Una ricca esposizione della dot¬ trina stessa la dobbiamo a C. ScHAARSCHMIDT, Joh. Saresberiensis nach Leben und Studiai, Schriften und Philosophie [G. da S. ueda vitu e negli studi, negli scritti e nella filosofia] (Lipsia, 1862): ma le osserva¬ zioni ch’egli muove in questo suo libro (p. 303 ss.) contro il mio modo di vedere, non in’ inducono per nulla a modificare la mia opinione, che trova appoggio nelle fonti. — Le citazioni son fatte sulla base della edizione complessiva di A. Giles (Oxford 1848, in 8°, 5 voli., dei quali il 3° e il 4° comprendono il Policraticus, mentre il Metalo¬ gicus si trova nel 5°), sebbene tale edizione non sia adatto compiuta con diligenza, e sia particolarmente da rilevare conte essa, con la più assurda interpunzione, renda spesso difficile l’intelligenza del testo (le necessarie modificazioni ce le introduco tacitamente). [Qui sono aggiunti, per il Policraticus e per il Melalogicon, i rinvii alle più recenti ediz., curate dal Webb. e seguite in massima nella riprodu¬ zione dei testi]. poi entrò in relazioni scientifiche con Adamo' dal Petit- Pont, ascoltò di nuovo lezioni di dialettica presso Gil- lierto de la Porrée, di teologia presso Roberto Pulleyn [e Simon Pexiacensis], indi ritornò agli Abelardiani, che nel corso di quei vent’anni nulla avevano appreso e nulla dimenticato 534 ), e compose intorno al 1160 535 ) il suo Me- talogicus, dove principalmente espose le sue vedute rela¬ tivamente alla logica. Giovanni ha scritto, come dice egli medesimo, quest’opera sua soltanto a memoria, fretto¬ losamente e in breve tempo, dopo che da molti anni aveva interrotto i suoi studi di logica, e fu suo intento non già di comporre un commento che servisse a inse¬ gnare o a imparare, bensì essenzialmente di dimostrare la utilità della logica, contro gli attacchi che le erano stati mossi, e così difenderla 636 ). 534 ) Metal., II, 10, dove al passo citato più sopra (n. 521) fa se¬ guito (p. 79) [79]: Deinde.... [80] me ad gramaticum de Concilia trans- tuli, ipsumque triennio docentem audivi. Viene appresso il conte¬ nuto della precedente nota 522, e poi (p. 81) [82]: Reversus itaque.... repperi magistrum Gileberlum. ipsumque audivi in logicis et divinis ; sed nimis cito subtractus est. Successa Rodbertus Pullus, quem vita pariter et scienlia commendabanl. Deinde me excepit Simon Pexia¬ censis [J’issiacensis. Pisciacensis, cioè da Poissy: è lecito congettu¬ rare eon lo Wcbb che si tratti dello stesso Simone, di cui v. qui so¬ pra. nota 54].... Sed hos duos in solis theologicis habui praeceptores.... locundum itaque visum est veteres quos reliqueram et quos adhuc dia¬ betica detinebat in monte recisero socios, conferve cum eis super ambi- guilatibus pristinis, ut nostrum invicem ex collatione mutua commeli- remur profectum. Inventi suiti qui fuerant et ubi ; neque enim ad pal- mam visi sunt processisse. Ad quaesliones pristinas dirimendas neque propositiunculam unam adiecerant. — Ibid., Ili, 3, p. 129 [134]: Habui enim hominem (cioè Adamo dal Petit — Pont: v. la nota 441) familiarem assiduitate colloquii et communicatione librorum et coti- diano fere exercitio super emergentibus articulis conferendi ; sed nec una die discipulus eius fui. Et lamen Italico gratias, quod eo docente plura cognovi, plura ipsius.... ipso arbitro reprobavi [PL, 199, 868-9 e 899]. Cfr. inoltre la nota 54. 53ó) V. Petersen, loc. cit., p. VI e 73 ss. 63B ) Metal.. Prol., p. 8 [2]: Siquidem cum opera logicorum vehe- mentius tanquam inulilis rideretur, et me indignanlem et renitenlem aemulus cotidianis fere iurgiis provocare!, tandem litem excepi et ad.... cnlumnias.... studiti responderc.... [3] Placiti! itaque sociis ut hoc ip- sum tumultuario sermone dictarem ; cum nec ad sententias subtiliter . [b) punto di vista utilitaristico, alla maniera di Cice¬ rone. La divisione del sapere ]. — Per lui il punto di vista decisivo è quello della utilità, e per conseguenza dob¬ biamo già aspettarci di trovar in lui un eclettico, che procede assolutamente senza scorta di principii 537 ). Do¬ minato com’è anche lui dalla pratica tendenza utilitaria, si distingue dal suo avversario Cornifichi, soltanto per¬ chè non rigetta, come costui, la dottrina delle scuole, bensì vuole render pratica questa dottrina stessa; ma egli è filosofo tanto poco quanto Cicerone, con il quale si trova in intimo accordo. Anzi fa anche espressamente professione di aderire alla dottrina probabilistica di quella setta degli Accademici, ch’era caldeggiata da Cicerone 63S ), e per conseguenza trova nella utilità pratica il fine unico di ogni scienza 539 ). In tal senso si esprime circa il pe- examinandas nec ad verbo expolienda studium supcresset aut otium.... (p. 9) Nam ingenium hebes est et memoria infidelior quarti ut anti¬ quorum (v. le note 55 ss.) subtilitates percipere aut quae aliquando percepta sunt diutius valeam retinere.... Et quìa logicae suscepì patro - cinium. Metalogicon inscriptus est liber. — Ibid., Ili, Praef. p. 113 [117]: Anni fere vigilili elapsi sunt ex quo me ah officiai» et palaestra eorum qui logicam profitrntur rei jamiliaris avulsit angustia.... Unde me excusaliorem habendum pillo in bis quae obtusius et incultius a me dieta leclor internet.... (p. 115) [119] Ergo procedat oratio. et quae anliquatae occurrent memoriae de adolescentiae sludiis, quoniam io- cunda aetas ad menlem reducilur ctc. — III, 10, p. 156 [164]: ....prò- positura est ; scilicet, ut potius aemulo occurratur, quarti ut in artes, quits omnes docenl aut discunt, commentarli scribantur a nobis TP!, 199: 824, 889-90, 916], 1 ’ 537 ) Ermanno Reuter s’inganna a partito, quando parla di un « superiore punto di vista filosofico», che Giovanni avrebbe assunto, elevandosi al disopra degl’ indirizzi allora contrastanti. ) I olycr., I, Pro!., p. 15 [1. 17] : [cum]....in phitosophicis academice disputane prò ralionis modulo quae occurrebant probabilia sectatus sim. Nec Academicorum erubesco professionem. qui in bis quae sunt dubilahilia sapienti, ab eorum vestigiis non recedo. Licei enim seda haec tenebras rebus omnibus videalur inducere, nulla ventati exami- nandae jidelior et, auctore Cicerone qui ad eam in senectute divertii, nulla profectui familiarior est. — Metal., II, 20, p. 102 [106]: qui me in bis, quae sunt dubitabilia sapienti, Academicum esse pridem pro/cssus sum [PL, 199: 388 e 882|. 63 ") Metal., Eroi., p. 9 [4]: De moribus vero nonnulla scienter inserui ; ratus omnia quae legiintur aut scribunlur inutilia esse, nisi dantesco verbalismo e la sottigliezza dei dialettici, fa¬ cendo uso di termini così energici, che il più sistematico nemico della logica in generale, non potrebbe pronun¬ ziarsi con maggiore veemenza 54 °); anzi persino in quelle discettazioni sopra le Categorie, alle quali il suo maestro Gilberto s’era dedicato, egli trova, pur essendo per molti lati d’accordo con lui (v. appresso le note 582 ss., 593 ss. e 606 ss.), da criticare tuttavia qualche cosa, che possa cioè scapitarne la conoscenza morale di noi stessi 5U ) : e trascinato dal suo zelo per la teologia morale, qualifica la logica aristotelica, che pur vuole difender contro chi l’attacchi, con il termine aslutiae, che siamo abituati a veder usato dai nemici fanatici della filosofìa 542 ). quatenus afferunl nliquod adminiculum vilae. Est enirn quaelibet pro¬ fessi philosophandi inutili et falsa, quae se ipsam in cultu virlulis et vitae exhibitione non aperit [PL, 199, 825]. MO) Polycr., VII, 9, p. 110 [II, 123]: Suspice ad moderatores phi- losophoruni temporis nostri....; in regula una aut duobus aut pauculis verbis invenies occupalos. aut ut mullum pauculas quaesliones aplas iurgiis elegerunt, in quibus ingenium sutim exerceant et consumatit aetatem. Eas tamen non sufficiunt etwdare, sed nodum et tolam ambi- guitatem cum ititricntione sua per auditores suos transmittunt posteris dissolvendum.... Latebras quacrunt, variant faciem, nerba distor- quenl,... si in eo perstiteris, ut quocumque verbo defluant et volvan- tur. quid velit, intelligas et quid sentiat [II, 124] in tanta varietale varborum, et tandem vincietur sensu suo et capielur in verbo oris sui, si substantiam eorum quae dicunlur attigeris firmiterque tenueris. — lbid., 12, p. 122 [II, 136]: Erranl ulique et impudenler errant qui philosophiam in solis verbis consistere opinantur ; erranl qui virtutem verbo putant.... Qui verbis inhaerent, malunt videri quam esse sapien- tes.... [II, 137] quaestiuneulas movent, intricala verbo ut suum et alie- num obducant sensum, paratiores ventilare quam examinare si quid difficultalis emersit [PL, 199, 654 e 662]. Inoltre, la precedente nota 58. 511 ) Jbid., Ili, 2, p. 164 [I, 174]: Inde est forte quod illi, qui prima totius philosophiae elemento posteris tradcre curaverunt, substantiam singulorum arbitrati sunl intuendam, quantilatem, ad aliquid. quali- totem, situai esse, ubi, quando, habere, facete, et pati , et suas in omnibus his proprietates, ari intcnsionem admittant, et susceptibilia sint con- trariorum, et ari eis ipsis aliquid invenialur adversum (queste ultime son tutte questioni discusse appunto da Gilberto: v. le note 489-509 [507]). Provide quidem haec et diligenter, etsi in eo negligentiores exsti- terint. quod sui ipsius notitiam in tanta rerum luce non asseculi sunt etc. [PL, 199, 479]. 5! -) Jbid., IV, 3, p. 227 [I, 243]: Astutias Aristolilis, Crisippi acu- Ma se cerchiamo quindi di scoprire quale sia la posi¬ zione che Giovanni assegna alla logica, dal punto di vista di un ordinamento sistematico, vediamo una volta, relativamente alla divisione delle scienze, accennato da lui un tono fondamentale, che ci ricorda molto da vi¬ cino Ugo da S. Vittore (note 45 s.), designandosi come forze ancillari, sotto la sovranità della divina pagina, le discipline meccaniche, teoriche e pratiche, e con esse la filosofia che erige il saldo baluardo 543 ) : e a tal propo¬ sito è degno di nota che anche da Ugo il compito della logica è trasferito nel perfezionamento della espressione verbale. E quando un altra volta, tenendosi attaccato, nella maniera più lampante, a Gilberto (nota 465), Gio¬ vanni distingue ima triplice funzione della ratio, — in quanto che l’uso concreto di questa (modus concretivus) è rivolto alla natura sensibilmente percettibile, Tatti- vita astrattamente analitica ( resolvere ) conduce alla mate¬ matica, e la comparazione riferente (conjerre et rejerre) è compito della logica 544 ), — già da ciò desumiamo l’at¬ titudine di Giovanni ad afferrare a capriccio opinioni varie di altri, e a metterle ancora, ecletticamente, una accanto all’altra. mina, omniumque philosophorum lendiculas resurgens mortuus con- futabat. - Metal., Ili, 8, p. 141 [147]: Pithagoras naluram exculit, Socrates morurn praescribit normam, Plato de omnibus persuader , Ari¬ stotile* argutias procurai [PL, 199. 518 e 906], Cfr. la nota 560. ,,J3 ) Enthet., v. 441 ss.: Ilaec scripturarum regina vocalur, eandem Divinam dicunt.... Haec caput agnoscil Philosophia suum ; Huic omnes artes famulae ; medianica quaeque Dogmala, quac variis usibus apio videi, Quae jus non reprobai, sed publicus approbat usus, Iluic operas debent militiamque suam ; Practicus buie servii servitque theoricus; arcem Imperli sacri Philosophia dedii [PL, 199, 971-5]. Riguardò a Ugo, cfr. più oltre la nota 555. 64 ‘) Ibid., v. 659 ss.: Res triplici spedare modo ratio perhibetur, Nec quartum poluit meni reperire modani ; Concretivus hic est, alius concreta resolyit, Res rebus confert tertius atque refert ; Naluram pri- mus, mathesim medius comilatur, Vindical extremum logica sola sibi  [c) punto di vista retorico , come in Cicerone. Gramma¬ tica e dialettica ]. — Ma invero per la logica il punto di vista propriamente eclettico è il punto di vista retorico, perchè questo si libera di tutte le difficoltà che si possono presentare nelle questioni filosofiche fondamentali: e così anche Giovanni è esonerato dalla fatica di decidersi per ima data concezione filosofica, a preferenza delle altre. Senza determinare più precisamente il posto della logica nel campo delle scienze, nè discutere in base a una qual¬ siasi veduta, pur che fosse una e ben definita, la relazione del pensiero subbiettivo con la obbiettività o con la for¬ ma della espressione verbale, egli può qui accontentarsi di opporre ai nemici della logica, sfoggiando una ricca colorita varietà di frasario, e traendo partito dalla so¬ lita tradizione scolastica, il concetto e il valore della « eloquentia» 64S ). La maniera in cui il pensiero si atteggia rispetto alla espressione verbale, è qualificata mercè un fioretto retorico, parlandosi di un « dolce e fecondo con¬ nubio» della ragione e dell’eloquio 546 ), nè diverso va¬ lore ha l’altra frase, che cioè le proprietà delle cose « ri¬ dondano» nelle parole: e data l’affinità che sussiste fra le cose e ciò che di queste si dice [.sermones] (lo stesso 5Ji ) Melai.. I, 7, p. 24 [21]: Cornicatur haec domus insulsa (suis tamen verbis ) et quarti constai totius eloquii contempsisse praecepta.... [22] Ait cairn : Superflua sunl praecepta eloquentia, quoniam ea na- turaliler adest aut abest (nota 529). Quid, inquarti, falsius ? Est enim. eloquentia facullas dicendi commode quod sibi cult animus expediri.... (p. 25) Ergo cui facilitas adest commode exprimendi verbo quidem quod sentii, eloquens est. Et hoc faciendi jacultas rectissime eloquentia no- minatur. Qua quid esse praeslantius possit ad usum, compendiosius ad opes. fidelius ad gratinai, commodius ad gloriam , non facile video [PL. 199. 834]. M6) lbid., I, 1, p. 13 [7]: Ratio, sciattine virlutumque parens..., quae de verbo frequentius concipil et per verbum numerosius et fructuo- sius parit, aut omtrino sterilis permanerei aut quidem infecunda, si non conceptionis eius fructum, in lucem ederet usus eloquii; et invicem quod sentii prudens agitano mentis hominibus publicaret. Haec autem est illa dulcis et fructuosa coniugatio rationis et verbi, quae etc. [PL si legge in Abelardo — cfr. la nota 308 —, e qual¬ che cosa di simile in Gilberto — cfr. la nota 457), si tratterebbe semplicemente di possedere in mente una quantità di cose, e in bocca una quantità di parole 547 ). Insomma per Giovanni il punto di vista più essenziale è rappresentato dalla consistenza dei mezzi, che s’ab- biano una volta a disposizione, appropriati per la manife¬ stazione del pensiero con il discorso, e pertanto la « lo¬ gica nel significato più esteso» della parola, è da lui defi¬ nita in termini ciceroniani come ratio loquendi vel disse- rendi, onde è di sua competenza l’addestramento all’uso del discorso (magisterimn sermonum): e qui essa, mentre da un lato rivela la propria utilità, dall’altro lato tiene anche il primo posto fra le arti liberali, poiché in quella più vasta accezione comprende anche la sfera della gram¬ matica 548 ). Ma mentre con ciò si renderebbe tuttavia manife¬ sta la esigenza di una più rigorosa determinazione, in ordine a questa estesa definizione, della relazione reci¬ proca tra grammatica e logica (cfr. subito appresso la ) Ibid., 16, p. 42 [39]: Natura enìm copiosa est et ubertatis suae pratiam Immotine mdigentiae facit. Inde ergo est, quod [401 prò- pnetas rerum redundat in voces, dum ratio offertat sermone, rebus de quibus loquUur esse cognatos. — Polycr., VII, 12, p. 124 fll. 1391 - A telili cairn utilius, nichil ad gloriam aut rcs adquirendas com'modius inventati quam eloquenza quae ex eo plurimum comparatile si rerum ln r re copia sit ver,l ° rum fPL, 199, 845 e 6631. etuTrìJ , 1 ': 10 ’ P ‘ w 8 - [ 2 J ]: Est ita ^ e lo * ica '  ). Ma poiché ciascun’argomentazione o disputa consiste di espressioni verbali, si la ora la distinzione — in maniera simile che in Abelardo (nota 271), e tenuto conto di que¬ sta definizione più ristretta (cfr. invece la nota 548) — fra la grammatica, che tratta soltanto della dictio, e la dialettica, che ha per oggetto e contenuto i dieta : ma a tal proposito, con atteggiamento di puro indifferenti¬ smo, si qualifica come irrilevante la questione se si tratti qui del profferire, o di quello che vien profferito 556 ). E mentre Giovanni a ciò novamente ricollega la parci- secundo super Porphirium asserii (p. 47 [PL, 64, 73; ed. Brandt, 140]), est orlus logicai disciplinae. Oporluit enim esse scientiam quae veruni a falso discerncret. et doceret quae ratiocinatio veram te- neat similari i disputarteli, quae verisimibm, et quae fida sit, et quae debeat esse suspecta ; alioquin veritas per ratiocinantis operam non po¬ terai diveniri. — I, 15, p. 41 [39]: Diabetica autem id dumtaxalac¬ centai. quoti verum est aut verisimile , et quicquid ab his longius dissi- det ducil absurdum [PL. 199: 857, 858 e 844]. 5M) ihid.. II, 3. p. 65 [64]: Profecta igitur hinc est et sic perfecta scientia disserendi ; quae disputandi modos et rationes probationiim aperit...; aliis philosophicis disciplinis posterior tempore, seti ordine prima (parimente Ugo da S. Vittore, nota 46: e cfr. la nota 543). Inchoanlibus enim philosophiam praelegenda est , eo quod vocum et intellectuum inlerpres est. sine quibus nullus philosophiac articulus recte procedil in lucern [PL, 199, 859]. 5M ) lbid., 4. p. 67 [65] : Est autem diabetica, ut Angustino placet (v. la Sez. XII, nota 30), bene disputandi scientia.... Est autem dis¬ putare, aliquid eorum, quae dubia sunt aut in [66] contradictione po¬ sila aut quae sic rei sic proponunlur catione supposita probare rei irn- probare ; quod quidem quisquis ex arte probabiliter facit, ad dialectici pertingil metani. Hoc autem ei nomea Aristotiles auctor suus impostili, eo quod in ipsa et per ipsam de diclis disputatile : ut enim grama- tica de diclionibus et in dictionibus. teste Ilemigio (Sez. precedente, nota 172), sic ista de dictis et in diclis est. Ilio verbo sensuum P rln ~ cipaliter : sed linee examinat sensus verborum ; nani lecton [aev. .ov] graeco eloquio (sicut ait Isidorus) (Sez. precedente, nota 27) dietum appellalur. Sire autem dicatur a Graeco lexis [>.£''.;], quod locutio interpretalur.... site a lecton [)£Xt6v], quod dietum nuncupatur. non multum refert ; cum ex aminare loculionis vim et eius quod dicitur ve- ritalem et sensum. idem aut fere idem sit ; vis enim verbi sensus est. — III, 5, p. 137 [142]: Est autem res de quo aliquid, dicibile quod de aliquo, dictio quo dicitur hoc de ilio : e a ciò fan seguito le parole sopra citate, alla nota 207 [PL. zione delia logica, venuta in voga nella scuola, da Boe¬ zio in poi 537 ), la conoscenza ch’egli ha di Aristotele, lo porta in pari tempo a distinguere tra apodittica e dia¬ lettica: in tale distinzione tuttavia, neanche la prima delle due reca in se stessa una propria interna finalità, bensì rimane pur sempre come cosa essenziale la utilità della logica, così divisa, nella sua totalità 558 ). [d) conoscenza compiuta . 66 [64]: Pro co namquc logica dieta est. quod rationalis, i. e. rationum ministraloria et examinalrix est. Divisti eam Plato in dialeclicam et rethoricam ; sed qui efficaci am eius altius me- tiuntur, et pitica attribuunt. Siquidem ci demonstrativa. probabilis et sopii'stira subicmntur, ecc., in piena conformità con Boezio (v. in Sez. XH, nota 82). Così pure 5, p. 68 [67]: Demonstrativa. pro- babilis, et sophistica, omnes quidcm consistimi in inventione et iudicio, et itidem dividentes, diffinientes, et colligentes, domestici rationibus utuntur : v. ibid. la nota 76 [PL, 199, 859 e 861], yotq Uiid.. II, 14, p. 85 [87]: Principia inique dialecticae proba- bilia sunt ; sicut demonstralivae necessaria . — III, IO, p. 152 [160]: Sophisma est sillogismus litigatorius ; philosofimn vero , demonstrativus ; argumentum aulem. sillogismus dialecticus ; sed aporisma (v. la Scz. IV, nota 33), sillogismus dialecticus contradictionis. Horum omnium necessaria estcognitio, et in facultatibus singulis perutilis est exercilalio. — p. 154 [162]: Sic simrum instrumentorum necessc est logicum expe- dilam habere faciillatem, ut scilicet principia noverii. probabilibus habun- too et inducendi omnes ad manum habeat rationcs [PL iiosce più gli scritti logici parzialmente, e soltanto per sen¬ tito dire, è da lui qualificato come vero duce (campiduc- tor) di tutti gli studiosi di logica, e in ogni caso, sebbene con le riserve dovute all’autorità della fede cristiana e della teologia morale, come maestro dell’arte di dispu¬ tare 559 ): al ciceroniano Giovanni, cioè, manca natural¬ mente il senso dell’ intimo valore filosofico della logica aristotelica, nella quale scorge invece soltanto una tecnica estrinseca: e perciò è anche sua opinione — questo ci fa ricordare la espressione su ricordata (nota 542) « astu- tiae» — che Aristotele mostri maggior vigore nella po¬ lemica contro altri, che non nella costruzione positiva della sua propria dottrina 58 °). Prese le mosse dalla tesi che la logica, come tecnica dei discorsi ( sermones ), comprendendo inventio e iudicium (Sez. XII, nota 76), è lo strumento di tutte le discipline, per la quale ragione appunto Aristotele si è meritato di essere soprannominato « il Filosofo » 581 ), Giovanni con- 559 ) Ihid., Ili, 10, p. 147 [154]: Rei rationalis opifex et campi- doctor (Giles legge campi doctor [PrantJ, campiductor ]) eorum qui lo- gicam profitentur. — IV, 1, p. 157 [165]: Campidoctor (come sopru) itaque Peripateticae disciplinae, quae prae ceteris in veritatis indaga- lione laboret, infelicem summam operis dedignatus, taluni compqnil (allusione a Hor. Ars poet., v. 34); cerlus quoti cuiusque operis per- fectio gloriam sui praeconalur aucloris. — IV, 23, p. 180 [190] : Sicul optimus campidoctor (qui anche il Giles dà la lezione corretta [ campiductor ]) hunc ad infcrendam pugnimi, illum inslruit ad cau- telam. — 27, p. 183 [193]: Nec tamen Aristotilem ubique bene aut sensissc aut dixisse protestar, ut sacrosanctum sit quicquid scripsit. Nam in pluribus [194], optinente ratione et auctoritatc fidei, con- vincitur errasse . linde sic accipiendus est, ut ad promovendos iu- vrnes ad gravioris philosophiae instituta doctor sit, non morum sed disceptaiionum [PL, 199: 910, 915-6, 930, 932], 5 ““) Ibid., III, 8, p. 141 [147]: Aristotilem prue ceteris omnibus tam aliae disserendi ratiocinationes quam diffiniendi titulus (cioè il contenuto del 6° Libro della Topica) illustrarci, si tam patenter astrarrei propria quam potenter destruxil aliena [PL, 199, 906], M1 ) Enlhel., v. 821 ss.: Magnus Arisloleles sermonum possidet artes Et de virtutum culmine nomen habvt. Judicii libros componil et inve- niendi Vera, facultales tres famulantur ei; Physicus est moresque docet, sed logica servii Alidori semper officiosa suo ; Haec illi nomen proprium Jacit esse, quod olim Donai amatori sacra Sophia suo ; Nam qui prae - sidera l’intiero Organon in una maniera che perfetta¬ mente si accorda con il modo di pensare di Abelardo (note 271 ss.); Aristotele cioè avrebbe ricevuto dalle mani dei grammatici la semplice vox significativa, della quale avrebbe preso a trattare nelle Categorie, in tal guisa che essa possa poi (De Interpretatione) venire considerata come elemento della complessa struttura del giudizio, e a ciò possa far seguito Io svolgimento di quanto si attiene alla inventio e al iudicium ; la Isagoge compilata da Porfirio [per introdurre] alla prima di queste parti principali, ap¬ partiene al tutto, proprio soltanto quale introduzione, e non si deve, come si suole da molti (note 56 ss.), farne per così dire la cosa principale 562 ). Così però si opera nell’Organon anche una nuova di¬ visione in due gruppi principali, in quanto che la Isa¬ goge, le Categorie e il De interpr. posson valere solamente da gradi preparatorii (praeparaticia artis), essendo tali libri ad artem, piuttosto che de arte, laddove la tecnica vera e propria, nella quale la inventio e il iudicium tro¬ vano la loro piena esplicazione, si presenta nelle tre opere celiò, liluli communis honorem Vindicat. — Metal., II, 16. p. 88 [90]: fìrnnes se Aristotilis adorare vestigio gloriantur ; adeo quidem, ut communi' omnium philosophorum nomea praeminentia quadam sihi proprium fecerit. Nam et antonomasice, i. e. excellenter. Philo- sophus appellatile [PL, 199: 983 c 873], 562) jVf e (a/., II, 16. p. 89 [90]: Ilic ergo (cioè Aristotele) proba- bilium rationes redegit in artem et, quasi ab dementis incipiens, usque ad propositi perfectionem evexit. Hoc autem pianura est his qui scru- tantur et diseutiunt opera cius. Voces enim primo significativas. i. e. sermones incomplexos, de gramolici menu accipiens, differentias et vires eorum diligenler exposuit, ut ad complexionem enuntiationum et inveniendi iudicandique scientiam facilius qccedant. Sed quia ad lume elementarem librum magis elementarem quodammodo scripsit Por- phirius, eum ante Aristotilem esse credidii antiquitas praelegendum. Recte quidem, si recte doceatur ; i, e. ut tenebras non inducal [91] eru- diendis nec consumai aetatem,,.. linde quoniam ad aliu introduclo- rius est, nomine Ysagogarum inscribitur. Itaque inscriptioni dero- gant qui sic versantur in hoc, ut locum principalibus non relinquant [PL, principali: Topica, Analitici e Soph. Elenchi 563 ). Ma pro¬ prio per rispetto alla inventio e al iudicium, risulta di nuovo un altro punto di vista da adottar quale princi¬ pio della partizione, in quanto che la Topica, insieme con i libri precedenti, riguarda prevalentemente e fon¬ damentalmente la inventio, laddove alla stessa maniera Analitici e Soph. El. debbono servire al iudicium ; tut¬ tavia neanche si potrebbe daccapo mantenere rigorosa¬ mente questa partizione (della quale poi non sappiamo davvero perchè in generale sia stata assunta come fon¬ damentale), perchè alla inventio contribuiscon pure gli Analitici e i Soph. El., e viceversa anche la Topica giova al iudicium 564 ). D’altra parte, oltre a tutto ciò, troviamo che Giovanni, per far intendere che cos’è l’Organon, uti- M3 ) Dopo che cioè nel lib. Ili, cap. I, del Metal, si è trattato della Isagoge, nei cap. 2 e 3, delle Categorie, c nel cap. 4, del De in- terpr., al principio del c. 5, p. 134 [139] si legge: Artis praeparalitia praecesserunl, ad quam suus opifex et quasi legislator rudem omnino tironem irreverenter el, ul dici- solet, illotis manibus non censuit ad- mittendum.... Utilissima quidem sunt et, si non satis proprie dican- tur esse de arte, satis vere dicuntur esse ad artem : parum autem refert, si magis dicatur ari sic. Ipsum itaque quodammodo corpus artis, de- ditctis praeparatiliis, principaliter consistit in tribus ; scilicet Topi- corum. Analeticorum. Elenchorumquc notitia; his enim perfecte co- gnitis, et habitu eorum per usum et exercilium roboratis, inventionis et iudicii copia suffragabitur in omni facultate tam demonstratori quam dialectico et sophistae [PL, 199, 902]. M4 ) Ibid., IV. 1, p. 157 [165]: Unde cum inventionis instrumenta procurasset et usum. quasi in conflatorio setlens, examinatorium quod- dam studuit cadere, quo diligentissima fieret examinatio rationum. Ilic autem est Analeticorum liber, qui ad iudicium principaliter spe¬ cial, et lanieri ad inventionem aliquatcnus proficit. Nani [166] disci- plinarum omnium connexae sunt rationes, et qucelibel sui perfectio- nem ah aliis mutuatur. — III. 5, p. 134 [139]: Scientia Topicorum. quae, etsi inventionem principaliter instruat, iudiciis tamen non me- diocriler sujjragatur.... Siquidem sibi invicem universa contribuunt. coque in [140] proposito facultate quisque expeditior est, quo in vicina el cohaerente instructior fueril. Ergo et tam Analetice quam Sophistica conferunt inventori, et Topice itidem conducit indicanti ; facile tamen adquieverim singulas in suo proposito dominari et accessorium esse beneficium cohaerentis. — IV, 8, p. 164 [173]: Licei ad iudicium ma¬ xime dicatur hacc scientia (se. demonstrativa) pcrtinere, invenlioni tamen plurimum conferì [PL izza una similitudine, e compiutamente la svolge, fa¬ cendo corrispondere alle lettere dell’alfabeto le Categorie, e alle sillabe il libro De interpr. 56S ); fa poi seguito la To¬ pica, che rappresenta la parola (dictio) e v’incliiude la col- leclio degli elementi 566 ) : e ciò anzi in tal guisa, che, pro¬ cedendo lo sviluppo nel senso di una costante ascesa, a fondamento di tutta quanta la logica stia il primo libro della Topica 567 ), e cosi poi il libro ottavo corrisponda alla connessione della proposizione ( constructio , espressione di Prisciano — cfr. la nota 273), ond’è proprio questo il libro, in cui si dà la scalata al punto culminante della logica, ed esso, al paragone di tutta la letteratura mo¬ derna (dei moderni : v. le note 55 ss.), dev’essere quali¬ ficato come lo scritto di gran lunga più utile 588 ). Gli Ana- 5C5) Jbid., Ili, 4, p. 130 [135]: Libcr Pcriermeniarum, vel potius Periermenias (v. la Sez. precedente, nota 33), ratione proporlionis sillabicus est, sicul Praedicamenlorum elementarius ; nam dementa ralionum, quae singulatim tradii in sermonibus incomplexis. iste col- ligil, et in modum sillabae comprehensa producit ad veri falsiquc si- gnijlattionern. Tantae quidem subtilitatis est habitus ab antiquis, ut in praeconium eius celebralum ferat Isidorus (v. ibid. la nota 34), quia Aristotiles, quando Periermenias scriplilabat, calamum in mente tinguebat [PL, 199, 899]. _ 66r >) Ibid.. 6, p. 137 s. [143]: Sicul autem elementarius est Praedi- camentorum, Pcriermeniarum vero sillabicus, ila et Topicorum liber quodammodo dictionalis est. Licei enim in Periermeniis agatur de simplici enunliatione , quae ulique veri falsine dictio est, nondum to¬ rnea ad vim colligendi pertingit , nec illud assequilur. in quo dialecll- ces praecipua opera versalur. Ilic vero prirnus est in rationtbus ex pii- candis, doctrinamquc facit localium argumentationum, et sequcntium complexionum pandit initia ]PL, 199, 904]. _ 567 ) Ibid., 5, p. 135 [140]: Odo quidem voluminibus clauditur, fiuntquc semper novissima eius potiora prioribus. Primus autem quasi materiam praeiacit omnium reliquorum [141] et lolius logicae quae- dam conslituit fundamenta [PL, 199, 903]. 56S ) Ibid., 10, p. 147 [154]: Arma lironum siiorum locami m arena, dum sermonum simplicium significationem evolverei et ilem cnunlia- tionum locorumque naturam aperiret.... Ut autem praemissae simili- tudinis sequamur proporlionem, quemadmodum Categoriarurn clcmen- tarius, Pcriermeniarum syllabicus, proemiasi Topici dictwnnles libri sunt ; sic Topicorum octavus constructorius est ralionum , quorum eie- menta vel loca in praecedentibus monstrala sunt. Solus itaque versatur in praeceptis, ex quibus ars compaginatur , et plus confort ad scientiam  litici Primi, che si riattaccano a quel libro stesso, ven¬ gono, con l’aggiunta di una barbarica interpretazione [etimologica] del titolo (cfr. la nota 23 e la Sez. prece¬ dente, n. 288), lodati bensì parimente per la loro utilità, ma nello stesso tempo criticati tuttavia per la sterile loro forma, poiché non soltanto si trova lo stesso contenuto svolto altrove (cioè evidentemente in Boezio, de syll. cat. e Introd. ad syll. cat.) in forma molto più facile e pene¬ trante, ma ancora perchè quell’opera, in generale, con il suo stile conjusus e inintelligibile, è poco meno che inser¬ vibile per dare all’argomentazione il suo apparato este¬ riore (ad phrasim instruendam) : e però ci si doveva limi¬ tare a imparar a memoria le regole in essa contenute (dunque press’a poco alla stessa maniera che troviamo in Boezio, loc. cit. [direi che si riferisca alla nota 77 della Sez. XII, richiamata nella nota 569 — o, più precisa¬ mente, al seguito del testo corrispondente, dove si parla di Boezio, come del primo autore di una logica, indiriz¬ zata all’unico intento di far entrare un certo numero di regole nelle teste dei più stupidi]), ma il rimanente si poteva lasciarlo da parte, come loppa o foglie secche 589 ). disserendi, si memoriter habeatur in corde... .quam omnes fere libri dialecticae, quos moderni patres nostri in scnlis legere consueverant ; nani sine eo non disputatile arte., sed casu [PI,. 199, 910]. 60 °) Jbid.. IV, 2, p. 158 [166]: Analeticorum quidem perutilis est scienlia, et sine qua quisquis logicam profitetur, ridiculus est. Ut vero ratio nominis exponatur , quam Graeci Analeticen diclini , nos possumus Rcsolutoriam appellare (questo è un pensiero che Giovanni ha preso da Boezio : v. la Sez. XII, nota 77), familiarius tamen assi- gnabimus. si dixerimus aequam locutionem; nam illi anu « acquale », lexim « locutionem » dicunl. Frequens autem est, cum sermo parum est inlellectus, et eum in notiorem resolvi desideremus aequivalenter ; unde et interpres meus (probabilmente uno o l’altro di que’ due tradut¬ tori, che abbiamo trovati più sopra, note 32 s.), cum verbum audi¬ rei ignotum, et maxime in compositi », dicebat « Analetiza hoc » quod volebat aequivalenter exponi . Ceterum, licei necessaria sit dottrina, liber non eatenus necessarius est ; quicquid enim continet, alibi faci - lius et fidelius traditur, sed certe verius aut forlius nusquam. Siquidem et ab invito fidem extorquel.... Porro exemplorum confusione et tra- iectione litterarum quas tuoi de industria, tum causa brevilatis, tum E se è opinione di Giovanni che questa incomprensibi¬ lità si manifesti per es. particolarmente neU’ultimo ca¬ pitolo degli Analitici Primi (Sez. IV, note 649 s.) 57 °), lo stesso biasimo è da lui rivolto anche contro tutti quanti gli Analitici Secondi, soltanto con raggiunta, che una parte di colpa ce l’ha forse la traduzione 571 ). Invece il ciceroniano Giovanni si trova ora di nuov o, da buon retore, nel suo elemento, con i Soph. Elenchi, che pertanto, staccati dalla Topica, egli colloca alla fine del- l’Organon; dice che nessun altro libro è più utile di que¬ sto per la gioventù, e com’esso porge il più grande ausilio per la retorica (ad phrasin), così va preferito anche ai due Analitici, perchè promuove, in maniera più facil¬ mente intelligibile, la eloquentia , cioè la espressione del pensiero mediante la parola 572 ). Ma dalla Topica ne falsitas alicubi cxemplorum argueretur, interseruit, coleo confusus est, ut cum magno labore co perveniatur, quoti faciliime tradì potest. ■— 3, p. 159 [167] : Sicut autem regulae utiles sunt et necessariae ad scientìam, sic liber fere inutilis est ad frasim instruendam, quam nos verbi supellectilem possumus appellare.... Ergo scientia memoriter est firmando, et verbo pleraque excerpenda sunt ; ....quac alio commode transferunlur et quorum potest esse frequentior usus. Reliquae coae- quantur foliis sine fructu, et oh hoc aut calcantur aul sua relinquuntur in arbore. (Qui fa seguito il passo citato più sopra, nota 20). — Ibid., HI, 4, p. 132 [137]: Sunt autem pleraque quae, si a suis avellas sedi- bus, aut nichil aul minimum sapiunt auditori; qualia fere sunt omnia Analelicorum exempla, ubi litterae ponunlur prò terminisi quae, sicut ad doclrinam profìciunt.. sic tracia alias inutilia sunt. Regulae quo¬ que ipsae, sicut plurimum vigorie habent a veritate doclrinae, sic in commercio verbi minimum possunt [PL, 199, 916-7 e 900-11. 67 °) Ibid., IV, 5, p. 162 [170]: Postremo agii de cognitione natu- rarum. Grande quidem capitulum et quod, licei aliqualenus propo¬ sito conferai , fidem tamen prom issi nequaquam irnpìet. Unum scio, me huius capituli beneficio neminem in cognitione nalurarum vidisse perfectum [PL, 199, 919], S71 ) Il passo è stato citato di già più sopra (nota 27). E72 ) Metal., IV. 22, p. 178 s. [188]: Sophisticam esse dicium est, quae falsa imagine tam dialecticam quam demonslralìvam acmulatur, et speciem quam virtulem sapientiae magis affettai.... Opus quidem dignum Aristotile et quo aliud magis expedire diventati non facile dixerim .... Frustra sine hac se quisquam [189] gloriabitur esse philo- sophum; cum nequeat cavere mendacium aut alium deprehendere men- lientem.... Unde et ad frasim eoncilìandum et totius philosophiae in- [di Aristotele], che contiene proprio il fondamento della logica, sono scaturiti i rispettivi scritti di Cicerone e di Boezio, come pure il libro di quest’ultimo De divi¬ sione (su questo punto non c’è dubbio che Giovanni ha perfettamente ragione), il quale tra le opere di Boezio occupa un posto particolarmente eminente 573 ). [e) la « ratio indijjerentiae » come indifferentismo scien¬ tifico]. — Con questo ci siamo ora perfettamente orien¬ tati riguardo al punto di vista di Giovanni, e in esso ravvisiamo certo con buon fondamento un’accentuazione di quella, che Abelardo aveva chiamata (nota 267) elo- quentia Peripatetica ; e se nel rispetto filosofico già in Abelardo aveva prevalso una conciliazione inorganica di opinioni opposte, anche questo può ripetersi in più alto grado per Giovanni. È in verità un atteggiamento coe¬ rente il suo, quand’egli, stando con l’attenzione rivolta in modo esclusivo alla eloquenza dell’argomentazione, va in cerca persino di una formula determinata, con cui elevarsi a tutta prima al disopra di quante difficoltà po¬ trebbero esser riposte in una salda posizione filosofica, che fosse assunta nel contrasto fra le tendenze. Questa formula è la sua« ratio indijjerentiae », vale a dire il pro¬ cedimento del perfetto indifferentismo. Egli cioè anzitutto, trattandosi della conoscenza delle cose che posson essere oggetto dei discorsi (rerum praedicamenlalium : v. appresso vesligationes sophisticae exercitatio plurimum prodest ; ita tamen ut veritas, non verbositas, sit huitis excrcilii fructus. — 24, p. ] 81 [191]: In eo autem michi videntur (se. Elenchi ) Analelicis praejerendi , quod non minus ad exercitium conferunt et faciliori intellectu eloquenliam promovent [PL, 199, 929-30], 57a ) Ibid.. Ili, 9, p. 145 [152]: Qui vero librum hunc (cioè la To¬ pica aristotelica) diligentius perscrutatur, non modo Ciceronis et Boetii Topieos ab his septem voluminibus (cioè dai primi sette libri) erulos deprehendet. sed librum Divisionum, qui compendio verborum et eleganlia sensuum inter opera Boetii , quae ad logicam spectant, singularcm gratiam nactus est [PL, e dei discorsi stessi (sermonum), richiama l’attenzione sopra la molteplicità di significato a cui i discorsi si prestano, e osserva che questi all’epoca di Ari¬ stotele potevano avere un significato diverso, perchè in¬ vero, secondo la sentenza oraziana, le parole van via scor¬ rendo in continuo mutamento, e solamente 1’ uso le fissa a questo o quel modo 574 ). E sebbene ora si conceda che, a parità di significato, la terminologia degli antichi sia più degna di reverenza, che non quella dei moderni 57S ), in linea di principio tuttavia l’uso è più potente che non sia lo stesso Aristotele: e perciò, in quanto venga in que¬ stione la verità di fatto nella sua obbiettività, e con essa il senso reale delle parole, ben possono anche sacrificarsi l’espressioni verbali, mentre d’altra parte, fin che la cosa sia soltanto ammissibile, si può conservar insieme, del- 1 antica dottrina, e la lettera e l’intimo significato 576 ). S71 ) Ibid., 3, p. 128 [133]: Profecto rerum praedicamentalium et sermonum pcrulilis est notitia.... Et quia multiplicitas sermonum ple- rumque inlelligentiam claudit, quoliens dicatur unumquodque docci (se. Aristotiles) esse quaerendum.... Conlingit autem tractu temporis, et adquiescente utentium voluntate, multipticitalem sermonum nasci itemque extingui.... (p. 129) [134: Esse in aliquo] multiplicius dici- tur quam Aristotelis tempore diceretur ; et quae lune verbo aliquam. nunc forte nullam habenl significalionem ; siquidem « Multa rena- scentur quae iam recidere, cadentque Quae nunc sunt in honore voca- buia, si volet usus, Quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi » (Hor. Ars poet., v. 70 ss.) [PL, 199, 898-9J. “"') Ibid., 4, p. 131 [136]: Praeterea reverentia exhibenda est verbis auctorum, cum culla et assiduitale utendi ; tum quia quondam a ma - gnis nominibus antiquitatis praeferunt maiestalem, tum quia dispen- diosius ignorantur, cum ad urgendum aut resistendum potentissima sint.... Licei itaque modernorum et veterum sii sensus idem, venera- bilior est velustas [PL, 199, 900]. 6,r ') Ibid., p. 133 [138]: Patet itaque quod usus Aristotile poten- tior est in derogando verbis vel abrogando verbo ; sed veritatem rerum. quoniam eam homo non statuii, nec voluntas Humana convellit. [139] Itaque. si fieri polest, artium verba teneantur et sensus. Sin autem mi- nus, dum sensus maneat, excidant verbo ; quoniam artes scirc non est scriptorum verbo revolvero, sed nasse vini earum atque senlentias. Enthel., v. 27 ss.: Qui sequitur sine mente sonum, qui verbo capessit. Non sensum, judex integer esse nequit : Quum vim verborum dicendi causa minislrel, Ilaec si nescilur, quid nisi ventus erunl? [PL Già di qua si desume che tale principio deve condurre a una maniera estremamente comoda di fare sparir tutte le difficoltà che vengono a galla, perchè in tutti questi casi basterà dire che la espressione verbale nel corso del tempo è venuta ad assumere un significato diverso, op¬ pure che in generale essa non ha importanza. Cosi dice appunto Giovanni stesso (a proposito di una opinione di Bernardo da Cliartres) che non è per lui di nessun mo¬ mento il prender una parola alla lettera, e che non c’è punta necessità di metter in armonia con un singolo passo, in tal senso, anche tutti gli altri passi 577 ). E di fatto a questa maniera la ratio indijjerentiae, ch’egli ri¬ tiene il punto di vista giusto anche ai fini del tradurre (nota 32), prende forma, dov’egli si richiama a essa, di esplicito metodo di negazione dello spirito scientifico. Poi¬ ché certamente è somma leggerezza non soltanto il con¬ siderare, com’egli fa, « significare-» e « praedicare » quali perfetti sinonimi, mentre Abelardo si era pure sforzato di arrivare a una rigorosa definizione (nota 318), — ma anche il denotare, a tal proposito, come cosa assoluta- mente indifferente che p. es. con gli aggettivi si voglia intendere la qualità, ovvero l’oggetto che n’è qualificato; e rimettendosi egli su questo punto per ciascun singolo caso a una benigna interpretatio, fa valere le Categorie come un fondamento essenziale ad avvalorare il suo pro¬ cedimento, proprio perchè in esse si tratta, ora delle pa¬ role significanti, ora delle cose significate 578 ). Similmente 677 ) Metal., Ili, 2, p. 120 [125], dove al passo che abbiamo già citato qui sopra (nota 93) fa seguito: Habet haec opinio sicut impu- gnatores, sic defensores suos. Michi prò minimo est ad nomea in ta- libus disputare, cum intelligentiam dictorum sumendam noverim ex causis dicendi. Nec sic memoratam Arislotilis aliorumve auctoritates in- terprelandas arbitrar, ut trahalur istuc quicquid alicubi dictum re- peritur [PL, 199, 893]. 57S ) Ibid., p. 122 [126]: Ex quo liquel quoniam « significare », sicut et « praedicare », multipliciler dicitur ; sed quis modus familia- rissimus sit, discernere palam est. Inde est, quod iustus et similia si comporta Giovanni, a proposito di un passo aristote¬ lico, e viene su questo punto, conforme alla sua indiffe- rentia o ratio licentiae, al risultato, che 1’ individuo sin¬ golo, percettibile per mezzo dei sensi, può essere tauto predicato quanto soggetto”»). E se nella trattazione di tali questioni siamo con Giovanni al punto dove la lo¬ gica finisce, prima di esser in generale neanche incomin¬ ciata, non può farci maraviglia che, presentandosi difficoltà un poco più riposte, egli enunci subito con tutta disin- passim apudauctores rame dicuntur iustum, nunc iustitiam signifi¬ care vel predicare.... [127J Tale est iUud Aristntilis : Qualitalem si- gnificant, ut album; quantilatem, ut bicubitum (Cai., 4: v. la Sez. IV. nota 303 [dove la citaz. si arresta avanti le esemplifieaz. : Sinr/u Xsuxiv...]; in Boezio [ad Ar. praed., I; PL, 64, 180], p. 127) .Sic ulique quia dantur a quahtale vel quanlitate, ila et qualitalem praedi- cant, quam apposita demonstrant inesse subieclis ; inlerdum dicuntur significare quatta, quomam apposilione sua declarant quali,i sint su- biecta. Sed haec a se, si sit benignus inlerpres, non multum distaili, etsi andito albusintelhgatur in quo albedo ; cum autem albedo (licitar, non mteUigiturin quo talis color ; sed polius color jaciens tale. Illud vero quod nudità voce concipit iniellectus, ipsius familiarissima si- gnificalio est. 3, p. 122 s.: Quia ergo aut acquivoce aul univoco aut denominative, ut sequmtur indifferentiae rationem, singula praedi- canlur, ipsaque praedicatio quaedam ratiocinandi materia est. praedi- camenlorum praemissa sunt instrumenta.... Rationem vero indifferen- tuie, LI—“J quarti semper approbamus, liber iste commendai prue cetens ; etsi ubique dilìgenter inspicienti manifesta sit. Agii enim nunc de sigmficantibus, nunc de significati, aliorumque doctrinam J acU n nomuitbus aliorum [PL, 199, 894-5], « Ih>d " 2 ;?‘ P'., 110 Mine forte est illud in Analeticis Aristomenes intclligibihs semper est; Aristomenes autem non sem- per .'"\ >> ( Ar l al - pr .,, I, 33; in Boezio [cap. XXXV: PL, 64, 677], p. 445). Et hoc quidem est singulariter individuum, quod salum qui¬ dam munì posse de al,quo praedicari.... Ego quidem opinionem hanc vehementernec impugno, nec propugno; nec enim multum referre arbitror, ob hoc quod illam amplector indifferentiam in vicissitudine sermonum, sino qua non credo quempiam ad mentem auctorum fide- hter pervenire . (p 111) [114], Itaque hic. sicut et alibi, executus est quod decet libertdium artium pracceptorem, ugens, ut dici solet. Minerva pinguion [Cic. de Amie., V, 19] ut intelligeretur.... Quid ergo prohihcl ,uxta hanc licentiae rationem ea quae sunt sensibilia vel praedicari vel subici? Nec opinor auctores hanc vim imposuisse sermoni, ut alligatus sit ad imam in iuncturis omnibus signìficatio- nem, sed doctnnaliter sic esse locutos, ut ubique servianl inlelleclui Ino c ° n ‘™ n f!' !i '! mus est el Q upm ‘bi haberi prue ceteris ratio exigit [PL. 149, 886-/]. V. inoltre appresso [il seguito, nella] voltura il suo punto di vista, come p. es. quando, ri¬ guardo al giudizio universale, prende per equivalenti la inerenza obbiettiva e la predicazione subbiettiva, e tut- t’al più ravvisa qui ima modificazione di terminologia, presentatasi nel corso del tempo 580 ). [f) la Isagoge. Concezione deglia universalia in re»]. — Se dopo di ciò seguiamo nei loro particolari l’espressioni di Giovanni relativamente alla sfera propria della logica, tenendo dietro al filo della partizione da lui stesso as¬ sunta come fondamentale per l'Organon, — incontriamo in lui anzitutto, come ben s’intende, nell analisi della Isagoge, cioè nella questione degli universali, 1 estremo sincretismo o eclettismo, cbe sfocia da ultimo in una con¬ cezione stoico-ciceroniana. Non già al punto di vista di un filosofo cbe stia al disopra della unilaterale contesa tra i contrastanti indirizzi, bensì a mancanza di acume filosofico o a faciloneria da retore praticone, s’informa l’atteggiamento di Giovanni, quando qualifica come in¬ fantile tutta la disputa sui concetti di genere e di specie : e invero, a tal proposito, egli si limita a tirarsi indietro, riferendosi a quella molteplicità di significati delle parole, di cui più sopra (note 574 s.) abbiamo fatto cenno : im¬ perocché genere e specie possono significare cosi il prin¬ cipio della generazione, cioè la base ontologica delle cose, come anche il predicabile, cioè il valore logico dei con¬ cetti universali 58 ^). E a quel modo cbe su questo punto m°) JHd„ IH, 4, p. 132 [137]: Quod dicitur „in loto esse allerum alteri “ vel .. 'in loto non esse ", et „universaliler aliquid de aliquo prae - dicari '“ vel „ab aliquo removeriidem est (cfr. la nota 16); frequens tamen usus est alterius verbi , et alterius fere inlercidit, nisi quatenus ex condicto inlerdum admittitur. Fuit /orlasse tempore Aristotilisutrius- que usus celebrior, sed nunc prae altero viget alterum, quoniam ita vu lt usus. Sic et in co quod dicitur contingens. aliquatenus derogatimi est ei quod apud Aristotilem optinebat [PL, 199, 901] (cfr.la nota 216). 581 ) lbid., 1, p. 116 s. [120]:... sed ad puerilem de genenbus et speciebus.... inclinavit opinionem (s’intende Abelardo); malens in-  Giovanni si appoggia al commento boeziano della Isagoge di Porfirio, così insomma è ancor una volta, come ve¬ dremo (nota 602), in un passo isolato di Boezio che ci si offre concentrata la opinione di lui, sicché anche in lui ritroviamo di nuovo un argomento per provare quanto strettamente tutto il movimento degli studi di logica in quell’epoca si tenesse attaccato a sentenze frammen¬ tarie degli autori tradizionalmente più autorevoli. Perfettamente analogo all’atteggiamento di Abelardo, che si riattaccava a un solo unico passo [della versione boeziana del De inlerpr.] per avvalorare la duplicità del suo modo di vedere [nella questione degli universali] (nota 286), è l’atteggiamento complessivo anche di Gio¬ vanni, in quanto ch’egli presta agli universali un valore ontologico, e logico al tempo stesso; con la sola differenza, che in lui la confusione dei punti di vista è non soltanto più complessa e stravagante, ma anche ben più contraddit¬ toria che non in Abelardo. Giovanni, cioè, non soltanto parla occasionalmente, quale teologo, intorno ai concetti di sostanza e di essenza, alla stessa maniera che si tro¬ vano trattati questi argomenti nel Pseudo-Boezio de Trin. e in Gilberto 582 ), ma anche in quello scritto ch’è dedi- slruere et promovere suos in puerilibus quam in gravitate philosopho- rum esse obscurwr.... Itaque sic Porphirius legendus est, ut sermonum de quibus agitar, significatici teneatur, et ex ipsa superficie habeatur sensus verborum.... Sufficiai ergo introducendo nosse quia nomen ge¬ neris multiplex est et a prima instilutione significai generationis prìn- cipium.... Deinde hinc translatum est ad significandum id, quod de differentibus specie in quid pratdicatur (sopra questa terminologia ab¬ breviata, v. la nota 282). Item et species [121] multipliciter dicilur ; nam ab instilutione formam significai.... Hin autem sumptum est ad significationem eius quod in quid de differentibus numero praedicalur. (lutto ciò ha fondamento in Boezio [ad Porph. a Vict tranci I 22: ed. Brandt, p. 66; PL, 64. 38], p. 22, e [od Porph. a se fransi, lì, 2: ed. Brandt, p 171 ss.; PL, 64, 87-8] 57 s.).... Quid ergo sibi volunt [Webb: voi in qui.... quicquid aliud exeogitari potest, adiciunt ?.... Vo- cabulorum simpliciter aperiantur significai ioncs, apprehendatur illa quae proposito congruit per descriptiones certissimas etc. [PL, 199 091]. oS ") Epici. 169 (I, p. 270): Quicquid autem subsistit, sine dubìo in genere vel in natura vel in substantia manet. Quum ergo essentiam cato alla logica, espressamente manifesta il suo accordo con Platone e con il suo realismo ontologico, secondo il quale il vero essere appartiene all’ intelligibile, mentre le cose concrete neanche son degne del verbo «esse» 083 ). E com’egli all’erma quale base reale dell’essere la natura non peritura della sostanza e la persistente efficienza della forma, attenendosi in ciò pedissequamente al motto, tra¬ smesso per antica tradizione « singultire sentitur, univer¬ sale intelligitur » 6M ), così a lui Gilberto è guida, anche relativamente alla definizione della natura, e alla forza plastica- della differenza specifica 686 ): Giovanni anzi si serve persino del termine « jorma nativa » (cfr. la nota 467); nè parimente manca in lui, come non manca in alcuno tra i realisti, il concetto di partecipazione 586 ) ; infine la dicimus significare naturam, vel genus rei suhstantiam. intelligimus ejus rei, qua e in his omnibus semper esse subsistat.... Quod si apud Graecos expressam habent dififerenliam lutee, quae Ilio totics inculcata sunt, essendo, natura, genus, substantia, cam expediri omnium arbitror interesse quamplurimum [PL, 199. 162-3]. i > 83 ) Metal., IV, 35, p. 193 [204]: Plato quoque eorurn quae vere sunt et eorum quae non sunl sed esse videntur, dififerenliam docens, intelligibilia vere esse asseruit.... Unde et eis post essenliam primam reale competei esse; i. e. firmus certusque status, quem verbum, si proprie, ponilur, [205] cxprirnil substantivum ; temporalia vero videntur quidem esse, co quod intelligibilium praetendunt imaginem. Sed appel- latione verbi substanlivi non satis digna sunt quae rum tempore trans- eunt, ut nunquam in eodem statu permansavi, sed ut fumus evane - scant ; fugiunt enim, ut idem ail in Thimaeo (p. 49 E), noe expeetant uppellutionem .... p. 195 [206]: Ideam vero.... sicut aelernam audebat dicere, sic coaeternam esse negabal [PI., 199, 938-9]. 6M) Enthet., v. 1013 s. : Nulla perire potasi substantia, formaque jormae Succedens prohihet, quod movet, esse nihil. — v. 1233 s. : Solis corporeis sensus carnalis inhaeret, Res incorporcae sub ratione jacent [PL. 199. 987 e 992]. m ) Metal., I, 8, p. 26 [23]: Est autem natura, ut quibusdam placet (evidente allusione a Gilberto: v. la nota 461), ( licei eam sit dijfinire difiìcile,) vis quaedam genitiva, rebus omnibus insita, ex qua /arare vel [24] pati pnssunt. Genitiva autem dicitur, eo quod ipsam res quaeque controllai, a causa suae generalionis, et ab eo quod cuique est princi- pium existendi.... (p. 27) Sed et unamquamque rem injormans spe¬ cifica differenza, aut ab eo est, per quem facta sunt omnia. aut omnino nichil est.... [25] Esto ergo ; sit potens et ejficax vis illa genitiva, indita rebus originaliter [PL, 199, 835—6]. 686 ) Énthet.. v. 395 ss.: Est idea potens veri substantia, quae rem stessa concezione della individualità assume una forma tale, che vi riconosciamo la distinzione di Gilberto (nota 489) tra dividila e individua 587 ). [g) grossolano eclettismo, nella questione degli univer¬ sali]. — Ma, dopo avere udito Giovanni pronunziarsi in tal maniera, che non lascia adito a equivoco, abbiamo ragione di maravigliarci che egli, per il fatto che l’in¬ telligibile non può esser universale, ma può soltanto es¬ ser concepito universalmente, dichiari che quella intorno agli universali è una disputa priva di oggetto, nella quale si cerca di acchiappare la sostanzialità di un’ombra o di una nube fuggevole 688 ). Vien ora anche, per quel che riguarda la logica, dato formalmente congedo a Platone, oltre che ad Agostino e a tutt’ i Platonici, per far posto ad Aristotele, sia pure con l’aggiunta, a mo’ di conso¬ lazione, che la dottrina di quest’ultimo può ben darsi Quamlibet informat ut Jacit esse, quod est ; Omne quoti est vcrum , con¬ vinci! forma vel actus, Necfalsum clubites , si quid utroque caret. Forma suo generi quaevis addirla tcnelur Et peragil semper, quicquid origo jubet; Ergo quod informa nativa constai agilve, Quod natura mancns in ratione rnonet Esse sui generis, veruni quid dicilur idque Indicai effectus aut sua forma probat. — Polycr.. Ili, 1, p. 162 [I, 172]: Ini- plet autem haecvita omnem creaturam, quia sine ea nulla est substantia creaturae. Omne enim quod est, eius participatione est id quod est [PL, 199: 973-4 e 478], S8 ‘) Metal., II, 20. p. 105 [109]: Ergo si genera et species a Deo non sunt, omnino nichil sunt. Quod si unumquodque eorum ab ipso est, unum piane et idem bonum est. Sì autem quid unum numero est , protinus et singulare est. Nam quod quidam unum aliquid dicunt, non quod unum in se. sed quod multa unial expressa plurium conformitate, articulo praesenti non derogant.... Omnis namque substantia acciden - tium pluralitate numero subest. Accidens autem omne et forma quae- libet itidem numero subiacet, sed non accidentium aut formarum par- ticipatione, sed singularitate subiecti [PL, 199, 884], Polycr., VII, 12, p. 127 [II, 141]: Sicut in umbra cuiuslibel carpari, frustra solidilatis substantia quaeritur, sic in his quae intelli- gibilia sunt dumtaxat et universaliter concipi nec tamen univcrsaliler esse queunt, solidioris existentiae substantia nequaquam invenitur. In his aetatem terere nichil agentis et frustra laborantis est ; nebulae si- quidem sunt rerum fugacium et, cum quaeruntur avidius, citius da¬ nese uni [PL che non sia per nulla più vera, ma è comunque his di- sciplinis magis accommoda [tale (v. la nota 589) è la espres¬ sione di Giovanni, resa dal Prantl con le parole « fiir die logischen Partien passender »] sa9 ). Vengon ora per¬ tanto criticati tutti coloro, che nella Isagoge voglion metterci dentro un modo di vedere ispirato al platoni¬ smo, o che in altra maniera si scostano da Aristotele: e, richiamandosi nel modo più risoluto alla sentenza ari¬ stotelica, che cioè gli universali non hanno per se stessi esistenza separata, Giovanni respinge a priori qualsiasi teoria che parli di un essere degli universali stessi 590 ), combattendo così in particolare, da questo punto di vi¬ sta, anche la teoria dello status 591 ). Ma se siamo ora effettivamente curiosi di vedere come si risolva cjuesta contraddizione con le tesi prima enun¬ ciate, il nostro stupore crescerà forse ancora di passo in passo. Giovanni cioè anzitutto mette pur in prima linea P intellectus, in tal maniera che, accordandosi quasi 58 B ) Metal., II, 20, p. 112 [115]: Licei Plato cetum philosophorum grandetti et lam Augustinum quatti alios plures nostrorum in statuen- dis ideis habeat assertores, ipsius lanieri dogma in scrutinio univer- salium nequaquam sequimur ; eo quoti hic Peripateticorum principem Aristotilem dogmatis huius principem prafilemur.... [116] Ei qui Pe¬ ri palei ieorutn libros aggredilur, magis Aristotilis sentendo sequenda est ; forte non quia verior, sed piane quia his disciplinis magis accommoda 'est [PL, 199, 888], 60 °) Ihitl.. 19, p. 94 [97] : Quasi ab adverso pectentes (cioè i commen¬ tatori della Isagoge), veniunt contro menlem auctoris et, ut Aristo- liles planior sit, Platonis sententiam docent aut erroneam opinionem, quae aequo errore deviai a sententia. Aristotilis et Platonis; siquidem omnes Aristotilem profilentur. 20, p. 94: Porro hic genera et species non esse, sed intelligi tantum asseruit (Anni, post., I, 22 e 11: v. la Sez. Ili, nota 66, e la Sez. IV, nota 373) ....(p. 95) Ergo si Aristo- tiles verus est. qui eis esse tollit. inanis est opera praecedentis inve- stigationis.... [98] Quare [oul] ab Aristotele recedendum est, concedendo ut universalia sint [oul....] [PL, 199, 877], e via dicendo (v. la nota 70). B91 ) Ibid., 20, p. 102 s. [106]: Sed esto ut statimi aliquem generalem appellativa significent ,... status ille quid sit , in quo singola uniuntur, et nichil singulorum est, etsi aliquo modo somniare possim ; lamen quotando sententiae Aristotilis coaptetur. qui universalia non esse con- lendit, non perspicuum habeo [PL, parola per parola con l’autore dello scritto De intellec- tibus, non soltanto dà rilievo all’ intellectus coniungens et disiungens (v. la nota 427), e in priino luogo principal¬ mente alla forza dell’astrazione ( intellectus absirahens: v. la nota 432), — ma, respingendo anche la obiezione che 1 intellectus abstrahcus sia illegittimo ( cassus : v. la nota 429), rivendica all’ intellectus la facoltà di conside¬ rar le cose, altrimenti da quel che sono in concreto (v. le note 432 s.): e con ciò designa l’astrazione, quale con¬ dizione fondamentale di tutta la tecnica dell’intelletto : a tal proposito, mentre si trova d’accordo con Gilberto (abstractim attendere: v. la nota 464), va facendo uso altresì di espressioni che abbiamo trovate adottate dai rappresentanti della teoria della indifferenza ( generaliter intueri, diverso modo attendere: v. [per una terminologia analoga] le note 133 e 13/), e nello stesso tempo viene a trovarsi ancora d’accordo, nel concetto del raccogliere le somiglianze (v. le note 162 s.), con l’autore dello scritto De genenbus et speciebus: anzi, con la risèrva che si tratta qui soltanto della facoltà intellettiva subbiettiva, e che obbiettivamente nella natura gli universali non esistono, si serve persino di quello, ch’era il ter min e in- valso nella teoria, da lui combattuta, dello status (v la nota 132) S92 ). ’*-) limi., 20, p. 95 [98]: Nec verendum ut cassus sii intellectus, qui ea percepent scorsimi a singularibus, cum lumen a singularibus seorsum esse non possint. Intellectus enim quandoque rem simpliciter tntuetur, velut si hominem per se intucatur...; quandoque gradalim suis inceda passibus, ut si hominem albore.... contemplelur. Et hic quidem dicitur esse compositus. Porro simplex rem interdum inspicit ut est, ut si Platonem attendai, interdum alio modo ; nunc enim componendo quae non sunt composita, nunc abstrahendo quae non possunt esse distancta.... p. 96 [99] Ceterum componens, qui disiuncta coniungit (1 esempio è hircocervus [oltre che centaurus]), inanis est ; abstra - hens vero fidelis, et quasi quaedam officina omnium artium. Et qui- ocm rebus existendi unus est modus, quem scilicel natura conlulil, sed easdem intelligendi aut significatali non unus est modus. Licet enim esse nequeat homo qui non sit iste vel alias homo, intelligi tamen potest et significari.... Ergo ad significationem incomplexorum per abstra -Se così, in una variata scelta di motivi, ricavati dalle opinioni di altri autori, si vedon convergere diversi fili, a formar la concezione della operazione subbiettiva del- T intelletto, deve ora riuscirci inaspettato che a ciò si ricolleghi da capo il realismo di Gilberto: la dottrina, cioè, secondo la quale la incorporeità qualifica gli uni¬ versali soltanto negativamente, — laddove, rispetto al loro fondamento positivo, questi debbono, come in ge¬ nerale tutte le cose, esser messi in relazione di dipen¬ denza da Dio; ma Dio ha creato la materia formata, vale a dire che tutte quante le forme, sicno sostanziali sieno accidentali (v. questo punto in Gilberto, alle pre¬ cedenti note 461 s.), hanno da Dio il loro essere e la loro efficienza, e così nell'atto onde sono state espresse le cose, ha predominato un riguardo ai concetti delle spe¬ cie, concetti che pertanto il cultore della logica non può tener separati da Dio, ma in virtù dei quali « le cose son venute fuori [ma Prantl rende « prodierunt » con « eingiengen»] dapprima nella loro propria essenza, e ap¬ presso nell’intelletto umano» 593 ). In seguito a tale cau- hentem inteUectum genera concipianlur el species ; qaae tamen, si quis in rerum natura dùigentius a sensibilibus remota quaerat, nichil aget et frustra laborabil; nichil cnim tale natura peperit. Ratio autem ea deprehendil, substantialem simililudinem rerum differentium perirne- tans apud se. — Polycr., II, 18, p. 96 [I, 103]: InteUectus.... nunc quidem res ut sunt, nunc aliter imudar, nunc simpliciter, nunc com¬ posite, mine disiuncta coniungit, nunc coniuncta distroihil et disiun- gii.... p. 97 [104] Si abstrahentem tuleris inteUectum, liberalium arliurn officina peribit.... Sic hominem intellectus attingit, ut ad neminem hominem aspectus illius descendat, generaliter intuens, quod non nisi singulariter esse potest.... Dum itaque rerum similitudines et dissimi- litudines colligit, dum differentium convenientias el convenientium dijfcrentias altius perscrutata,... [105] multos apud se rerum invenit status, alios quidem universales, alias singulares [PL, 199, 877-8 c 437-8]. 5#3) Metal., II, 20, p. 103 [106]: Sed et nomina, quae proemisi, ,.incorporeum“ et insensibile “, universalibus convenire, privativa in eis dumtaxat sunt, nec proprietates aliquas, quibus natura universa- lium discernatur, illis attribuunt ; siquidem nichil incorporeum aut insensibile universale est.... Quid est autem incorporeum quod non sit substantia creata a Deo vel ipsi concretum ?... Valeanl autem, immo salita mistica di quella clic Gilberto aveva chiamata for¬ ma sostanziale, Giovanni ora può dire che la sostanzia¬ lità degli universali è vera, soltanto riguardo alla causa cognitionis, e in pari tempo riguardo al generarsi delle cose (natura), perchè ciascun ente, secondo ch’è situato a un grado più basso nella Tabula logica, ha bisogno, per il suo proprio essere ed essere pensato, di un altro ente, che si trovi rispettivamente a un grado più alto; ma d’altra parte gli universali non hanno un essere, nè come corpi, nè come spiriti, nè come individui 591 ). Cosi dunque Giovanni, mentre segue Gilberto, crede di poter in pari tempo essere un aristotelico, e come ritiene di sfuggire a quella non necessaria duplicazione di sostanze (v. la Sez. Ili, nota 64), ch’è una conseguenza della concezione platonica 5 95 ), cosi dice nella maniera dispereant univcrsalia, si ei obnoxia non sunt. Omnia per ipsum farla sunl, inique lam subiecta formarum quam formae subiectorum.... For- mae quoque, tam substantiales quam accidentales, habenl ab ipso ut sinl et ut suos subiectis operentur effectus. Quod itaque ei obnoxium non est, omnino nichil [107] est (v. inoltre appresso la nota 613)_ p. 104: Ut enim ait Auguslinus, formatam creavit Deus materinm.... Eo spectat illud fìoetii in primo de Trinitate ,.omne esse ex forma esl“ (nota 37).... [108] CuiUbet ergo esse quod est, aul quale aut quan- tum est, a forma est.... p. 105:.... fundamenta iecit Deus; et in ipsa expressione rerum habita est mentio specierum. Non illarum dico, quas logici fìngunt non obnoxias creatori ; sed formarum in quibus res prò- dierunl primo in essentiam suam, et in liumanum deinde intelleclum. Nam hoc ipsum quod aliquid coelum aut terra dicitur, formae. effe¬ ctus est [PL, 199, 882-4], 6M ) ìbid., p. 97 [100]: Quod autern univcrsalia dicuntur esse sub- stantialia singularibus, ad causam cognitionis referendum est singu- lariumque naturam (analogamente lo Scoto Eriugcna aveva, rife¬ rendosi agli universali, fatto uso dell’espressioni causaliter ed effec- tualiler : Sez. XIII. nota 129); hoc enim in singulis patet. siquidem inferiora sine superioribus nec esse nec intelligi possunt.... Quia ergo tale exigit tale, et non exigitur a tali, tam ad essentiam quam ad noti- tiam, ideo hoc illi substantiale dicitur esse. Idem est in individuis, quae exigunt species et genera, sed nequaquam exiguntur ab eis.... Uni- versalia tamen et res dicuntur esse, et plerumque simpliciter esse ; sed non ob hoc aut moles corporum aut subtilitas spirituum aut singula- rium discreta essentia in eis attendendo est [PL, 199, 878-9]. 695 ) Ibid., p. 98 [101]: Itaque detur ut sint univcrsalia, aut etiam ut res sint, si hoc pertinacibus placet ; non tamen ob hoc rerum erit più esplicita che gli universali — i quali stanno a fon¬ damento delle cose, non diversamente dal modo in cui il piano detrazione, che è incorporeo, sta a fondamento delle azioni, che sono invece sensibilmente percettibili, — li troviamo appunto, esclusivamente, soltanto nelle cose singole, le quali ultime si presentano visibilmente come ex empia, in cui gli stessi universali si fanno manifesti: Giovanni cioè risolutamente rappresenta — e su questo punto è il primo, ad assumere tale atteggiamento — la concezione degli « universalia in re», e persino combatte la dottrina platonica degli « universalia ante rem », per¬ chè fuori dal singolo non c’è universale 596 ). Ma poiché, in questa sua posizione, gli sta sempre dinanzi il concetto che ha Gilberto della forma sostan¬ ziale, è naturale che si attenga a quei passi di Aristotele, dove il concetto di genere e il concetto di specie ven¬ gono designati come qualche cosa di qualitativo 597 ). rerum numerum aligeri vel minai prò eo, quoti iuta non sunl in nu¬ mero' rerum [PL, 199, 879], C ' J6 ) Ihid. : Nirli il au tem universale est, nisi quoti in singularibus invenitur.... Nec moveat quoti singularia et corporea exempla sunl uni- versalium et incorporalium ; cttm omnis ratio gerendi... incorporea sit et insensibile, illud tamen quoti geritur, et actus quo geritur, plerum- qite sensibilis sit (anche ciò fa tornare a mente il significato che lo Scolo Eriugena ripone nel termine ,,agcre“: v. la Sez. XIII, nota 131). — p. 108 [111]: Habita tamen ratione aequivocationis. qua ens vel esse distinguitur prò diversilate subiectorum, species et genera utrum- qite non sine ratione esse dicuntur. Persuadet enitn ratio ut ea dicantur esse, quorum exempla conspiciuntur in singularibus, quae nullus am¬ bigli esse. Non autem sic dicuntur genera et species exemplaria sitigli - lorttm, ut. iuxta Platonici [112] dogmalis sensum, formae sint exem- plares, quae in mente divina intelligibiliter constiterint, antequam pro- dirent in corporei (questo è il passo di Prisciano. già cit. nella nota 263); sed quotiiam, si quis eius quod communiter concipitur, audito hoc no¬ mine ..homo", aut quod dijjinitur, cttm dicitur ..homo esse animai ra- tionale mortale l % quaerat exemplum, slalim ei Plato aliusve hominum singulorum oslenditur. ut communiter significantis aut dìffinientis ratio solidelur [l’L, 199, 879 e 885-6]. ia, ) Ihid.. p. 100 [103]: /lem Aristotiles : Genera, inquit, et species circa substantiam qualitatem determinanl (Cai., 5: v. Sez. IV. nota 476).... Item in Elenchis (c. 22: in Boezio [II, 3: PL, 64. 1032], p. 750, con una traduzione che alquanto si scosta dal testo: v. so- In queste forme qualificanti scorge la « mano [dell’Arte¬ fice] della natura», che ha dato alle cose la veste delle forme, perchè l’uomo le possa più facilmente compren¬ dere: e perciò si presenta ora con il più spiccato rilievo la prima substantia di Aristotele, cioè l’individuo, mo¬ vendo dal quale l’intelletto da sè solo si eleva, in linea ascendente — per mezzo della uguaglianza di forma che accomuna i singoli ( conjormitas : v. questo concetto in Gilberto, alla precedente nota 474) — sino alla univer¬ salità dei concetti di specie e di genere 598 ): e come Gio¬ vanni si ritrova su questo punto ancora in accordo con la teoria della indifferenza, così adopera anche a tal ri¬ guardo persino la espressione» conjormis status» 599 ). A pra la nota 34): ,,/Jomo et omne commune non hoc aliquid, sed quale quid, (rei) ad aliquid vel aliquo modo vel huiusmodi quid significai". Et post paura : „Manifestum quoniam non dandum hoc aliquid esse quod communiter praedicalur de omnibus , sed aut quale aut ad aliquid aut quantum aut talium quid significare". Profecto [104] quod non est hoc aliquid, significatione espressa non potest explanari quid sii [PL, 199, 880]. 69S ) Polycr., II, 18, p. 98 [I, 105]: Et primo substantiam, quae omnibus subest , acutius intuetur (se. intellectus), in qua manus naturae probalur artificis, dum cam variis proprietatibus et formis quasi suis quibusdam vestibus induit et suis sensuum perceplibilibus informat, quo possit aptius humano ingenio comprehendi. Quod igitur sensus percipit, formisque subiectum est, singularis et prima substantia est. Id vero sine quo illa nec esse nec inlclligi potest, ei substantiale est, et plerumque secunda substantia nominatur.... Universale, si, licei non natura, conformitate tamen sii commune multorum. Quod forte faci- lius in intellectu quam in natura rerum poterit inveniri, in quo genera et species, dijferenlias, propria et accidentia, quae universaliter dicun- tur, planum est invenire, cum in actu rerum subsistentiam universa- lium quaerere exiguus fructus sii et labor infinitus, in mente vero Mi¬ litar et faciliime reperiuntur. Si cnim rerum solo numero differen'.ium substantialem similitudinem quis mente pertractet, speciem tenel; si vero etiam specie differentium convenientia menti occurrat, generis lalitudo mente diffunditur. Denique dum rerum, quas natura substan- lialiter vel accidenlaliter assimilavit, conformitatem percipit intellectus, in universalium comprehensionc movetur.... p. 99 [106] Numquid ab- strahens intellectus, dum haec agit, otiosus est aut inutilis, per quem animus honestarum artium gradibus ad thronum consummatae philo- sophiae consccndit? [PL, 199, 438-9]. 69e ) Enthet., v. 849 ss.: Est individuum, quicquid natura creavit, Conformisque status est ralionis opus : Si quis Arislotelem primum questo modo la uguaglianza delle cose tra loro, riguardo alla forma, viene messa in connessione immediata con la inlellectus communitas (communiter intelligi) 600 ), ma gli universali stessi vengono, come tali, trasferiti pura¬ mente nel modus intelligendi (e ciò è in armonia anche con la teoria della maneries : v. la nota 88), sì ch’essi vengono denominati parole « figurali», e appartenenti esclusivamente alla « dottrina » (di figura locutionis ave¬ vano parlato anche i nominalisti: v. la nota 81), o, in una parola, « jigmenta », che, con le cose singole, si tro¬ vano nella relazione scambievole di mostrare e di essere mostrati, e però han potuto da Aristotele esser accon¬ ciamente denominati « monstra » (— monstrare —) 601 ). [h) concetto indeterminato di notio]. — Ma questo modo di considerare gli universali è ora in verità così elastico, che nel concetto di« figmentum» Giovanni ci può tra¬ sportare anche l’apprendimento, per parte dell’ intelletto, non censet liabendum, Non reddit merilis proemia digita sttis [PL, 199. 983], 6°°) Melai., II, 20, p. 98 [101]: Ergo quod mcns communiter in - teìligil et od qingularia multa aeque perlinet, quod vox [102] commu- niter significai et acque de mullis ve rum est, indubitanter universale est. — p. 107 [110] Secundum intellectum illuni [111] deliberari pa¬ lesi de re subiecta, i. e. actualiter exemplificari, ob inlellectus commu- nitatem ; res, quae sic intelligi potest, etsi a nullo intclligalur, dicitur esse communis ; res enim conjormes sibi sunt, ipsamque conjormi- latem deducta rerum cogitatione perpendit inlellectus [PL, 199, 879 e 885], ® 01 ) Jhid., p. 107 [110]: Ergo dumlaxat intelligunlur, secundum Aristotilem, universalia ; sed in actu rerum nichil est quod sii uni¬ versale. A modo enim intelligendi figuralia haec, licenter quidem et doctrinaliter. nomina indila sunt. p. 108 [111J : Ergo ex sententia Ari- stotilis genera et spccies non omnino quid sunt sed quale quid quodam- modo concipiuntur ; et quasi quaedam sunt figmenla rationis, seipsnm in rerum inquisilione et doctrina suhtilius exercentis.... [112] Possunt et monstra dici (si riferisce al noto passo antiplatonico di Aristotele: vedilo qui più sopra, nota 31), quoniam invicem res singulas mon- .siranf, et monstrantur ab eis. — III, 3, p. 127 [132]: Ea vero quae intelligunlur a singularibus abstracta,.... animi figmenla sunt.... quae ex conformitale singularium intellectu non casso concipiuntur [PL.. 199: 885-6 e 897]. 452 CARLO PRANTL dei modelli originari (exempiano), che misticamente eser¬ citano il loro influsso, dalle cose (exempla), sopra l’anima: a tal proposito enuncia con sufficiente chiarezza il suo sincretismo eclettico, qualificando, — oltre che far uso di quell’espressioni d’intonazione nominalistica —, gli universali come prodotti psicologici (phantasiae, termine che ricorda lo Scoto Eriugena: v. appresso la nota 613 [per altre reminiscenze delle dottrine doU’Eriugena]), ma a ciò collegando nel medesimo tempo la concezione stoico¬ ciceroniana, secondo la quale gli universali stessi sono concetti subbiettivi (svvoiou, notiones: v. il luogo ci¬ tato più sopra alla nota 64); e inoltre egli passa ancora, in modo molto manifesto, rasente al platonismo, o per lo meno va d’accordo con Gilberto, in quanto che anche da lui gli universali son tenuti in conto d’ imagini di una originaria purezza ideale, tralucenti dalle somiglianze delle cose singole: con ciò si trova infine ancora commisto l’aristotelismo, poiché queste figurazioni fantastiche non possiedono già una esistenza separata dalle cose singole, bensì, quando si volesse così afferrarle, si dileguano come ombre o come imagini di sogno 602 ). Se ora sembra che non sia effettivamente possibile accumulare, una sull’altra. 602) lbid.. II, 20, p. 96 [99]: Sunt itaque genera et species nor. qui- dem res a singularibus aclu et naturaliter alienae, sei! quaedam notti- ralium et aclualium phantasiae (anche questo termine si trova pa¬ rimente — cfr. [per la concezione di Giovanni degli universalia in re, nella sua relazione con quella dello Scoto Eriugena] le note 594 c 596 — nello Scoto.Eriugena: v. la Sez. XIII, nota 125) renitentes in intellectum, de similitudine aclualium. tamquam in speculo, nativae puritatis ipsius animar, quas Gracci ennoyas [evvoia;] sire yconay- fanas [elxovo22 ) Policr., VII, 7, p. 103 [II, 115]: Sic et geometrae primo peti- nones quasdam quasi totius artis iaciunt fondamento, deinde comma- nes animi conceptiones adiciunl et sic quasi acie ordinala ad ea quae stb, sunt demonstranda procedunt [PL ch’è stata colmata dagli studiosi venuti più tardi (Sez. XII, nota 136), ma anche riguardo ai sillogismi consistenti in combinazioni di giudizi categorici con giudizi di ne¬ cessità e di possibilità (Sez. IV, note 558 ss.), dice che essi non sono esposti da Aristotele in maniera esauriente: e pertanto rimane qui ancora aperto ad altri il campo a un’attività, la quale tuttavia, sussistendo il bisogno pratico di così fatte forme di ragionamento, dovrà for¬ nire. per sodisfarlo, mezzi che sieno, dal punto di vista pratico, più convenienti 623 ) — e queste sono ehiaccbieie, per le quali, anche dal canto suo, egli stesso sembra do¬ ver pretendere quella benigna interpretatio, di cui s’è fatto cenno più sopra. Similmente Giovanni si pronunzia circa i sillogismi ipotetici, da Aristotele lasciati forse intenzio¬ nalmente da parte, a causa della loro difficoltà; tuttavia, oltre a un accenno a questi sillogismi, che si trova già nella Topica, è stato in particolare un certo passo degli Ana¬ litici. che ha determinato Boezio e altri a colmare la lacuna, sebbene neanche per opera loro sia stata ancora raggiunta la vera compiutezza 624 ). Che Giovanni anche 623) Metnl.. IV, 4, p. 160 [168]: Trium figurarum subnectil rationes (se. Aristotiles) ..'■■et qui modi in singulis figuri* ex complexione extre- mitatum provenirmi docci : data quidem semente rationis eorum quos, sicul Boetius asserii (il passo è stato citato più sopra, Sez. V, nota 46), Theofrastus et Eudcmus addiderunt. Deinde habita modalium ratione transil ad commixtiones quae de necessario sunl aul contingenti cum his quae sunl de inesse.... A ec tamen dico ipsum Aristotilem alicubi , quod legerim, nisi forte quod ad propositum, de modalibus sujficienler egisse ; sed procedendi de omnibus fidelissimam scientiam trudidit. Expo- silores vero divinae paghine rationem modorum pernecessariam esse dicunt.... [169] Et prof celo licei nullus modos omnes, unde modale s dicuntur, singulatim enumerare sufficiat. quod quidem ncc ars exigit, tamen magistri scolarum inde commodissime disputali t. et, ut pace mul- titudinis loquar, Aristotile ipso commodius [PL, 199, 918j. Cfr. la nota 220. 62') Jhid.. 21, p. 177 [187]: Dialecticam et apodicticam.... prue - cedentia docent ; in his tamen de ipoteticis syllogismis nichil aut parum est actitatum, Seminarium tamen datum est ab Aristotile, ut et istuc per industriam aliorum possit esse processus. Cum cairn tam proba- bilium quam necessariorum loci monstrati siili, ostensum est quid ex quo sequilur probabiliter aut necessario. Quod quidem ad vpoteticarum negli Analitici avesse dinanzi agli ocelli soltanto lo scopo pratico dell’argomentazione, è manifesto dove fa men¬ zione così della pelino principii B2S ), come pure di alcuni altri momenti della tecnica, tra cui il procedimento della controprova, per il quale sceglie il termine « catasyllo- gismus » «»). Dagli Analitici secondi lia potuto attin¬ gere la conoscenza dei così detti quattro principii ari¬ stotelici 6 “'), e aneli egli è stato inoltre portato a entrare nelle questioni di teoria della conoscenza, che tuttavia discute assai peggio che non l’autore dello scritto De intellectibus (note 418 ss.), perchè a un esordio, d’into¬ nazione ancora abbastanza aristotelica, concernente la percezione sensibile, la fantasia e la opinione, fa se- imUcinm maxime special.... Praeterea Boetius (De syll. hypothetico ( 1. IL, 01 . 836], p. 609) hoc prò seminio inveniendorum dicit acceptum quod Aristotile$ ait in Analeticis (v. sopra la nota 522): ..Idem cum su et non SI', non neresse est idem esse." Ergo ipse et olii (v. la Sez. XII nota 139) aliquatenus suppleverunt imperfectum Aristotilis in line . parte; seti quidem, ut michi visum est , imperjecte (sino a qual punto ‘,‘Zn r:r oss I er ': azione sia v. Md., note 155 e imi [188],Sea forte ab Aristotile de industria relictus est hic lahor. co quòd plus difficultatis quam utilUatis videtur habere libcr illius qui dilLen- ttssime scnpsit. Prof ceto si hunc Aristotiles more suo exequerelur, ve- nsimile est tantae difficultatis fare librum ut praeter Sibillam inlelli- gat nomo. Nec tamen hic de ypotelicis satis arbitrar expeditum, sud- P ien ^ nia vero scolorimi perutilia et necessaria sunt [PI,. 199 928-01 nota 62BW 5 ' P | 161 t 1 . 7 ?] 1 , Adicit (-inai. pr.. II, 16: v. la Sez. IV\ nota 628) et regulampetitwnis principii, quae speculatio tam demon- straton quam diabetico satis accommodata est ; licei hic probabilitale gaiiaeat* tue verUatem aumtaxat amplectatur fPL 199 9191 e ) md.; p. 162 [170]: Segui tur de causa falsae conclusioni, et catasillogismi (cosi è anche intitolato effettivamente nella traduzione di Boezio, p. 516 [cap. XX „De falsa ratiocinalione. catasyllogismo iZlZTu l Z l '° ne ì e l e ' en rt° : PL - 64 ’ 7 ° 51 ’ 11 ri8 P««ivo capitolo AnaL pr II, 19. v. la Sez. IV, nota 631) et elenchi (ibid. ; nota 632) et de fallacia secundum opinionem (ibid. : nota 634 s.) et de conver sione medi! et extremerum (ibid., nota 636 s.), cuius tamen tota utili tas longe commodius tradi potest [PL, 199, 919], w ') Enthct., v. 375 ss. [PL. 199, 973]: Quatuor ista solerei laudem praeslare creatis : Subjectum, species, artificisque manus. Finis item cunclis qui nomina rebus adaptat. Arist. Anal. post., II, 11: v la’ Sez. IV, nota 696. Era pertanto affatto inutile che si mettesse in librila SS U " a COnOSCenZa ’ P" ài Giovanni, dei guito subito il concetto ciceroniano di prudenza pratica, al quale viene appresso la concezione platonica della ra¬ do i, per metter capo infine alla sapientia, intesa in senso teologico, come ultima meta 628 ). Parimente, come tratto dalla conoscenza dei Sopii. Elenchi, posti da Giovanni a conchiusione dell’Organon aristotelico, potrebbe tutt’al più essere degno di ricordo il termine « reluclatorius [eluctatorius : v. la nota] syllo- gismus » 629 ), e così pure, come ricavata dairàmbito degli scritti di Boezio, la menzione delle quindici specie di definizione (v. la Sez. XII, nota 107); e qui la lettura superficiale del libro di Boezio ha indotto Giovanni a ritenere che Cicerone abbia composto anche lui uno scritto De definidone 63 °). 6as ) Melai., IV, 9, p. 165 [174]: Cum sensus secundum Aristo- tilem ( Anal. post., II, 19: Scz. IV, nota 51) sit naturalis potenlia indicativa rerum, aut omnino non est aut vix est cognitio, deficiente sensu.... p. 166: Aristotiles autem sensum potius vim animae asserii quarti corporis passioncm. 10, p. 167 [175]: Imaginatio itaque a ra¬ dice sensi!um per memoria’ fomitem oritur. — 11, p. 168 [177] : Primum enim iudicium viget in sensu.... Secundum vero imaginationis est; ut cum aliquid perceptorum. relenta imagine, tale vel tale asserii, de fiu- turo iudicans vel remoto. Hoc autem alterutrius iudicium opinio ap- pellalur (così in Boezio si trova tradotto il termine Só^a: v. sopra la nota 19; invece per existimatio v. la nota 423). — 12, p. 169: Pru- dentia autem pst, ut ait Cicero, virtus animae, quae in inquisitione et perspicientia sollertiaque veri versatur. — 13, p. 169 [178] : Inde est quod maiores prudentiam vel scientiam ad temporalium et sensibilium noti- liam retulerint : ad spiritualium vero, intellectum vel sapienliam. Nam de humanis scientia, de divinis sapienlia dici solet. — 16, p. 172 [181] : Ergo et potenlia et potentine motus ratio appellatur. Ilunc autem mo- tum asserii Plato in Politia vim esse deliberativam animae ctc. — 19, p. 175 [184]: Sapendo vero sequitur intellectum, co quod divina de his rebus quas ratio discutit, intellectus excerpsit, suavem habenl gu¬ sta ni et in amorem suum animas intelligentes accendunt [PL, 199: 921-3, 925, 927], 629 ) Ibid., IV, 23, p. 180 [ed. Webb, p. 189]: Sicut enim dialec- ticus elencho, quem nos eluctalorium dicimus sillogismum, eo quod con- tradiclionis est,.... utitur ctc. [PL, 199, 930]. — Cfr. Polycr., II, 27, p. 145 [ed. Webb, I, p. 153; PL, 199, 467], dove, sotto il nome [di syllogismus] „cornutus“, viene messo in opera un dilemma. oso) Vietai., Ili, 8, p. 141 [147]: Sumpserunt hinc (cioè da Arist., Top. VI) doctrinae suae primardio Marius Victorinus et Boelius cum Cicerone, qui singuli libros dififinitionum cdiderunt. Illi quidem difi-  [§ 40. — Alano da Lilla], — Mostra qualche affi¬ nità con Giovanni da Salisbury, nei riguardi della onto¬ logia teologica. Alano da Lilla [ab Insulis], scrit¬ tore tanto scipito quanto affettato (morto intorno al 1200 [circa nel 1203]), a entrambi servendo da comune punto di partenza, circa tali questioni, la concezione di Gilbert de la Porrée. Alano tuttavia non ba trovato che valesse la pena di prender in considerazione, neanche a quella maniera che ci si fa manifesta in Gilberto o magari an¬ che in Giovanni, il valore di questa ontologia dal punto di vista della logica, dovendo, in ordine a quella, rima¬ nere riservato ai teologi il compito di giudicare o apprez¬ zare: bensì ba assunto, nell’ampolloso suo poema « A/i- ticlaiidianus », rispetto alla logica, il punto di vista della dottrina scolastica piu volgarmente ordinaria, che an- cb egli ha in buon conto, solamente come mezzo di ar¬ gomentazione per la battaglia contro gli eretici 631 ). Fa¬ cendo comparire, analogamente a Marciano Capella, le sette arti quali figure simboliche, egli, dopo che per pri¬ ma è stata introdotta la grammatica, rappresenta, in secondo luogo, la logica come una vergine estremamente industriosa e solerte, nel cui volto scolorito si scorgono solamente pelle e ossa, sicché vi si riconoscono le con¬ seguenze delle veglie trascorse nell’applicazione allo stu¬ dio 63 -); enumera poi i suoi doni, ch’essa reca con sé finicndi nomen usque ad quindecim species dilataverunl, describcndi modns dijfinitionis vocabulo subponentes ; hiiic vero de substanliali prae- cipue cura est fPL, 199, 906] (v. la fonte di questo errore alla Sez. XII. note 103 c 106). ' 1 ) Anticlaud ., V II, 6 (Alani Opp., ed. C. de Visch, Anversa 1654, fol., p. 394 [PL, 210, 554]): Succedit Logicae virlus arguta,... Haec docet argutum JMartem ralionis mire , Adversae parti concludere , fran¬ gere vires Oppositas , parlenupie su ani ratione Uteri : Eestigare fugarti veri, falsumque fugare , Schismaticos logicce , falsosque retundere fratres. Et pseudologicos et denudare sophislas [testo cit. secondo la ediz Wright, 11, p. 391: Dist. VII, eap. VI, 1 ss.]. 6 ‘-) Ibid., III, 1, p. 345 [PL, 210, 509]: Latius inquirens, sollers, studiosa , laborans. Virgo secando starlet, intrat penetralia mentis, Sol- licitatque manum, mentem manus excitat , urget Ingenium.... Et decor nella battaglia per la verità, e tra essi precisamente no¬ mina anzitutto la topica, con le sue maximae proposi- tiones, a questa intrecciando la sillogistica, come pure la induzione e Vexemplum: seguono poi la definizione, con inclusa la descrizione (cfr. la Sez. XII, nota 9), e la divisione del genere nelle specie, come pure del lutto nelle parti, e inoltre il ricostituirsi della connessione tra i membri così differenziati: tutte funzioni, queste, con le quali la logica agisce quale strumento o chiave della verità, come pure quale arma per tutte le altre arti 633 ). Finalmente Alano, enumerando gli scrittori di logica, esalta Porfirio come un secondo Edipo, critica Aristo¬ tele, per la confusione di parole che ha introdotta, onde la logica è stata novamente oscurata e velata : ma dopo di lui è venuto Boezio a riportare nel tutto, luce e or¬ dine 634 ). e t species afilasset virginia arlus, Sicul praesignis membrorum disseril orda. Ni facies quadam macie, respersa iacerel. Vallai eam macies, macie vallata profunde Su lisi del. et nudis culis ossibus arida nubit. Ilaec habitu . gesta, macie, pallore, figurai Insomnes animi motus, vi- gilemque Minervam Praedicat, et secum vigiles vigilasse lucernas [p. 310 : Dist. Ili, cap. I, 1 ss.]. 633 ) Ibid., p. 345 f. [PL, 210, 509-10]: Monslrat elenchorum pugnas, logicaeque duellum : Qualiter ancipiti gladii mucrone coruscans Vis lo- gicae veri facie tunicata recidit Falsa, negane falsum veri latitare sub umbra.... Quid locus in logica dicalur quidve localis Congruitas, quid causa loci, quid maxima, quid sitVis argumenli, mattana a fonte locali, C.ur argumentum firmeI locus, armet elenchum Maxima, quae vires proprias largitur elencho.... Cur ligel extremos medius mediator eorum Terminus, et firmo confibulel omnia nexu...., Qualiter usurpans vires et robur elenchi Singula percurrit inductio, colligit omne.... Qualiter excmplum de se paril.... Quomodo diffinit, parlitur, colligit, unii Sin¬ gula, quaegremio complectitur illa capaci. Quomodo res pingens descriptio claudit easdem, Nec sinit in varios descriptio currere vultus. Quid genus in species divisum separai, aut quid Dividit in partes totum, rursusque renodal, Quae sunt sparsa prius, divisaque cogil in unum. Qualiter urs logicae tanquam via, janua, clavis, Ostendil, reserat, aperii secreta sophiae. Qualiter arma gerii, et in omni militai arte.... [p. 311: c. s.. 34 ss.]. B34 ) Ibid., p. 347 [PL, 210, 511]: Auctores logicae, quos donai fama perenni Vita,... recole.ns defu nctos suscitai orbi. [Illic Porphyrius directo tramite pontem Dirigit, et monstrat callem quo lector abyssum latrai Aristotilis, penetrane penetralia libri.] Illic Porphyrius arcana Passaggio alla letteratura del se¬ colo XIII 0 ]. Eccoci giunti così al limite del XII 0 e del XIII° secolo, limite caratterizzato anche dal fatto, che proprio in quel momento da varie parti è stato recato al¬ l’Occidente latino materiale nuovo : la considerazione di questo deve formare l'oggetto delle due prossime Sezioni, perchè sia poi possibile distesamente illustrare i vasti ef¬ fetti di questo materiale nuovo che ha da sopraggiungere. Per quanto si attiene al progresso della storia della ci¬ viltà, è un fatto che la nostra ricerca, sino al punto a cui Pabbiamo condotta, non ci ha davvero presentato punti di vista, i quali ci dian motivo a rallegrarci. Ci siamo sì fatti passare dinanzi multa, ma certamente non multum. Anzi, persino la conoscenza che un poco per volta si ridesta, delle principali opere aristoteliche, non è stata feconda di frutti che meritino di essere ricordati: e al posto di un modo veramente filosofico d’ intendere la logica, quale avrebbe potuto essere determinato dallo studio di Aristotele, sembrò infine volersi ancora far va¬ lere, più che mai di gusto, P impulso alla retorica pratica. E anche le Sezioni che seguiranno più tardi, ci faranno, pure in un’epoca in cui uno spirito nuovo spezza le catene della tradizione e dell’autorità esteriore, assistere, nel campo della logica, solamente a una ripe¬ tizione intensificata di questo giuoco della storia, onde la logica, frammezzo a molte diverse concezioni, con¬ tinua sempre a esser di nuovo cacciata via da una base intimamente filosofica. resolvit, ut alter Aedipodes nostri solvens aenigmata sphingos, Verborum turbator adest, et turbine multos Turbai Aristotiles noster gaudelque In¬ tere. Sic logica tractat, ut non tractasse videtur ; Non quod oberret in hoc, scd quod velamine verbi Omnia sic velai, Quod vix labor ista re- velet.... In lucem tenebrosa rejert, nova ducit in usum, Exusalque 1 ra¬ po s, in normam schema reducit, Exerit ambiguum Severinus ; quo duce linquens Natalem linguam nostri, peregrinai in usum Sermonis logi¬ car virlus, ditatque Latinum [c. s., 107 ss.]. ELENCO DEI NOMI E DELLE COSE PIO NOTEVOLI (i) Abbone da Orléans Abelardo abstractio Adalberone Adamo dal Petit-Pont Adelardo da Balli udjticcnler, adjacentia aequi pollentia Alano da Lilla Alberico Alberico da Monle Cassino Alcuino Anonimo, De gener. et specieb. De intellectibus De interprete De unii, et uno San gali. De p<irt. Loicae SangaU. De syllog., 115 Anselmo d’AOSTA (si veda) Anseimo il Peripatetico Anlepraedicamenta antiqui antiqui e moderni Aristotele (nuove traduzioni di) Arnolfo da Laon Asino (Prova dell’) Bartolomeo Berengario Questo Elenco è mantenuto ei eli'erano stati segnati dai Franti (N. Bernardo da Chartres Bernardo da Chiaravalle Bernhard da Hildesbeim, 93. Borgognone da PISA (si veda) calasyllogismus Categorie colligere concepito conceptus communes conformilas consimilitudo contingens c possibile copida Cornifieio Costantino Cartaginese [note] Damiani Davide da Hirsebau Definizione Differenza, v. Porfirio Diritto (Scienza del), v. Giurisprudenza dividenlia dividuum Drogone da Troyes eloquentiu eloquentia peripatetica Erico da Auxerre forma subslantialis formae nativae Formularii ìtro gli stessi limiti, molto ristretti (I. J'.) Francone da Liegi Fredegiso Fulberto da Charlrcs Gannendo Caunilone Gauslenus da Soissons Genere (Concetto di), v. Universali Gerberto Giacomo da Venezia Gilbert de la Porrée Giovanili da Gorze Giovanni da Saiisbury Giovanni Scoto Eriugena Giovanni Serio Giselberto da Reims Giudizio Giurisprudenza Gualtiero Mapes, v. Mapes Gualtiero da Mortagne Gualtiero da S. Vittore [nota] Gualtiero da Spira Guglielmo da Champeaux Guglielmo da Conches Guglielmo da llirscliau Gunzone ITALO (si veda) Uraliano Mauro identitas Jepa indifferentia Indifferenza (Dottrina della) individualiter inesse informare Intellettualismo inlelleclus intellcclus conceptus intellectus coniungens e dividens Josccllinus da Soissons, v. Gauslcnus Irnerio Isidoro da Siviglia Lanfranco Logica, vecchia e nuova, v. antiqui c moderni maneries Manerius Mapes malerialite.r imposila materialum modulis moderni moderni e antiqui, v. antiqui e moderni monstra, Nominalismo Nominalismo e realismo nominaliter notio Notker Labeone Oddone do Candirai Onorio da Autun Otloli da Ratisbona Ottone da Cluny Ottone da Freising Papia Parte (Concetto di) perihermeniae Pietro LOMBARDO (si veda) Pietro da Poitiers Plutonici Poppone Porfirio (Isagoge di) possibile e conlingens, v. contingens e possibile postpraedicamenta praedicamentalis praedicari praedicari in quid [nota] proprium, v. Universali Pscudo-Abclardo Pseudo-Boczio, De Trin. Pseudo-Boezio, De unii, et uno Pseudo-Erico Pseudo-Hrabano Rainibcrto da Lilla rntionale Realismo Realismo e nominalismo, v. Nominalismo e realismo Reginaldo Reinhard da Wiirzburg Remigio da Auxerre res de re non praedicalur Rhahano Mauro, v. Hrahano Roberto Amiclas Roberto da Melun Roberto da Parigi Roberto Pulleyn Roscelino Salomone (Glossario di) S. Gallo Scoto Eriugcna, v. Giovanni S. E. Sensismo aerino sermocinalis Sertoriu9 sex principia significatimi Sillogismi' (Teoria dei) Sillogismi ipotetici Silvestro li, v. Gerberto Simeone speries, v. Universali status sumplum syllogismi imperfccti syncalegoreumata Tendenze contrastanti Teologia Topica Ugo di S. Vittore Ugucrione universale intelligitur, singultire sentitur Universali (Disputa intorno agli), v. Tendenze contrastanti Universali in re vcrbaliter, v. nominaliter vocalis voce» signativae vocis flatus vocum impositìo Volfango da Ratisbona Williram da Soissons Finito di stampare, in 1500 esemplari numerati, nella Tipografia Fratelli Stianti in Sancasclano Fai di Pesa Esemplare N. * " IL PENSIERO STORICO „ SOTTO GLI AUSPICI DELL’ENTE NAZIONALE DI CULTURA INDICE DELLE MATERIE Avvertenza del Traduttore . Pag. v Prefazione dell’Autore alla seconda edizione .... » xi Dal proemio dell’Autore alla prima edizione .... » xi Indice delle materie . » xm Sezione XIII. CONOSCENZA INCOMPIUTA DELLA LOGICA LIZIO Delimitazione dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca . Si diffonde nelle scuole lu logica della lorda latinità .La tradizione della logica scolastica , nei riguardi delle traduzioni di Boezio, è limitata: e s’igno- rutto le principali opere logiche di Aristotele. . » 6 § 4. - Atteggiamento della ortodossiarispettoallalogica La « Isagoge » di Porfirio Miseria del pensiero medievale. » 14 § 7. — La questione degli universali determina un con¬ trasto di tendenze nel campo della logica: pre¬ valenza di un realismo platonico .Pensiero e linguaggio . Isidoro da Siviglia: а) Logica e Teologia Compendio di dialettica nelle « Origine» » . . > 24 c) Altri spunti di teorie logiche . > 27 S 1(1. - Alenino: sua compilazione di un compendio di dialettica INDICE DELIE MATERIE Fredegiso da Tours . Pag. 35 Hrabuno Mauro: suoi scritti di sicura autenticità. Il « De TrinUate » del Pseudo-Boezio .» 37 Giovanni Scoto Eriugenu: a) Sua abilità nella logicu formale . » 40 b) Posizione dello Scoto, rispetto alla dialettica » 46 c) Realismo teologico dello Scoto, il quale tut¬ tavia fu unche mollo conto della  84 Sterilità del secolo X : tenui tracce di studio della logica: Poppone a Fulda, Reinhard a W'iirzburg, Giovanni da Garze, Canzone Italo ( prende co¬ sci mitemente posizione nel contrasto delle ten¬ denze), Wol fungo a Ratisbona, Abbone du Orléans, Bernward a llildesheim, Gualtiero da Spira. . . » 88 Gerberto, figura assolutamente insignificante: a) Materiale degli studi di storia di logica altemposuo.»95 b) Lo scritto «De rationale et ratione uti » . » 99 Adalberone di Laon . » 104 Fulberto di Chartres . » 106 Anonimo rifacimento metrico della Isagoge e INDICE DELLE MATERIE XV delle Categorie, del secolo XI: colorito nomina¬ listico .Intensa attività della scuola di Sun Gallo. Notker Labeo: Un trattato insignificante Rifacimento delle Categorie . Rifacimento del «De interpretatione Il «De partibus loicae»: nominalismo. Scritto anonimo « De syllogismis », e sua im¬ portanza . » Conclusione . Altri documrnti relativi allo studio della logica nel secolo XI: Francane u Liegi, Otloh a Rati- sbona, Pier Damiani .Movimento più vivace, la scienza giuridica . » 124 5 29. - l’apia. Anseimo il Peripatetico, Lanfranco, Irne- rio; i Formulari . » 125 § 30. - Movimento più vivace nella seconda metà del se¬ colo XI: 2) la teologia. Nominalismo di Berengario nella questione della Santa Cena, e atteg¬ giamento  203 § 12. - Movimento più intenso: grande estensione, e in pari tempo carattere imilaterale, della lette¬ ratura attinente alla logica. Le vicende dello studio della logica, nel rac¬ conto che ne fece Giovanni da Salisbury  Contrasto caratteristico fra logica «vecchia» e «nuova» . La polemica intorno agli tuiiversuli : si può di¬ mostrare che almeno tredici erano le correnti. xvn nelle quali si dividevano le opinioni su questo problema . § 16. - Nominalismo che rasenta il sensismo Grudi vari di questo nominalismo (Garmondo) La teoria che gli universali sono « maneries »: Uguccione  / Platonici: . a) Bernardo da Chartres . b) Guglielmo da Conches (e Costantino Cartaginese) .Il realismo di Guglielmo da Champeaux .Le difficoltà e i gradi del realismo Controversie intorno alla definizione e intorno al concetto di « parte La teoria dello «status», come tentativo di conciliazione. Gualtiero da Mortagne . § 24. - La teoria della « indifferenza Adelardo da Balli : intonazione platonica da lui data alla teoria della « indifferenza Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua idea del colligere. Lo scritto anonimo « de generibus et specie- bus »: punto di vista del suo autore: а) Critiche ad altre soluzioni del problema de- gli universali. б) Soluzione da lui stesso proposta . c) Dottrina del giudizio . d) Propensione al platonismo . § 28. - Controversie sovra punti speciali. Sopra le « Categorie Sopra la teoria del giudizio in generale Sopra cpiestioni particolari, attinenti alla teoria del giudizio. d) Sopra difficoltà inerenti alla teoria del sillo¬ gismo . e) Sopra questioni di Topica .Negli studi di logica, la qualità continua a ri¬ maner molto al disotto della quantità Abelardo : a) Suo ingegno: caratteristica generale .... » 294 b) Scritti di logica . »  c) Dialettica e teologia: intimo dissidio della dottrina di Abelardo . I ag. 299 d) Abelardo aristotelico . » 302 e) Ma il « Peripatetieus Palalinus » è al tempo stesso anche platonico . » 304 j) Nè aristotelico, nè platonico, infine: bensì, retore . » 306 g) La « Dialettica » è la principale tra le. opere logiche di Abelardo: disposizione della ma¬ teria . » 308 h) Esposizione della « Isagoge » o « Anleprae- dicamenta », quale risulta dalle « Glossae », e soprattutto dalle « Glossulae », « super Por- phyrium»: atteggiamenti polemici sopra la questione degli universali . » 312 i) Soluzione proposta da Ahelardo: il « sermo praedicabilis » . » 318 l ) L’universale inteso come « quoti natum est de pluribus praedicari »: uso di questo princi¬ pio, secondo lo spirito del platonismo ...» 325 m) Ma dallo stesso principio Ahelardo trae in¬ sieme partito, secondo il punto di vista ari¬ stotelico . » 331 n) Ispirazione aristotelica, nel maggior rilievo dato al giudizio (« praedicari ») . » 334 o) Anche il preteso intellettuulismo di Abelurdo deriva dal suo aristotelismo . » 338 p) Ma in Abelardo, vero spirito aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto l’impulso di Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell’argomentazione .... » 341 q) Continua l’analisi del contenuto della « Dia¬ lettica»: le « Categorie » . » 344 r) l ) La topica . » 364 zi l sillogismi ipotetici. Giudizio conclusivo so¬ pra l’opera di Ahelardo . » 3 XIX | 31. - Accentuazione dell’ aspetto aristotelico della «Dialettica» di Abelardo: .l Ja B- 371 a) In un commento anonimo del « De interpre- tatione » .. | 32. b ) Nell’acuto untore dello scritto pseiulo-abelur- diano «De intelleclibus »: 1) Punto di vista aristotelico . 2) Dottrina del « sermo » . § 33. - In Adamo dal Petit-Ponl prevale la teoriu del giudizio . § 31. - Scetticismo logico di Roberto Pulleyn: e rea¬ zione teologica di Pietro da Poitiers e di Ro¬ berto da Melun . » 373 » 377 » 383 » 388 § 35. - Gilberto de tu Porrée: .» a) Il commento al « De Trinitate » del Pseudo- Boezio: posizione teoretica ingenua e con¬ traddittoria . » b) Concetto di sostanza. Teoria delle « formae nativae ». * c) Realismo di Gilberto .» d) I.o scritto « De sex principiis * : un’abborrac¬ ciatura . > e) I sei « principii » : « actio, passio, quando, ubi, situs, habitus » » /) La controversia intorno al « magi» » e al « minus ».» § 36. - Ottone da Freising, seguuce di Gilberto. Lo scritto pseudo-boeziano « De unilate et uno » . » § 37. - Alberico (da Reims?), a Parigi. WUliram de Soissons. Vari altri autori, menzionati da Walter Mapes . » § 38. - Il cosi detto Cornijìcius, oggetto della polemica di Giovanni da Salisbury . » 391 § 39. - Giovanni da Salisbury: a) I suoi studi: il « Metalogicus » . » 420 b) Punto di vista utilitaristico, alla muniera di Cicerone. La divisione del sapere. » 422 c) Punto di vista retorico, come in Cicerone. Grammatica e dialettica. » 425 INDICE DELLE MATERIE d) Conoscenza compilila dell « Organon ». Punti di contatto con Abelardo, soprattutto nel modo di intendere e giudicare l’opera logica di Aristotele . Pag. 430 e) La « ratio indifferentiae » come indifferenti¬ smo antiscientifico . » 437 f) La « Isagoge ». Concezione degli « universalia in re » . » 441 g) Grossolano eclettismo, nella questione degli universali .» h) Concetto indeterminato di « notio »... » i) Le Categorie .» /) Teoria del. Giudizio . » m ) Topica, sillogistica, teoria dei sofismi ...» | 40. — Uno scritto insignificante di Alano da Lilla . . » § 41. - Passaggio al XIII secolo. » Elenco dei nomi e delle cose più notevoli .... » LA LOGICA MEDIEVALE XIII Sezione. CONOSCENZA INCOMPIUTA DELLA LOGICA ARISTOTELICA NEL PRIMO MEDIO EVO Delimitazione dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca]. Saggio su CARLO PRANTL, STORIA DELLA LOGICA IN OCCIDENTE NELL’ETÀ MEDIEVALE. LA NUOVA ITALIA FIRENZE. La « Geschichte der Logik ini Abendlande » di Prantl, curata da Fock a Lipsia, è divisa in parti. La prima ha por oggetto lo svolgimento della Logica nell’Antichità. Gli fecero sèguito una seconda parte dedicata alla Logica nel Medio Evo. In una Collezione, che ha per suo programma di rendere largamente accessibili ai filosofi italiani quello grande saggio di esplorazione e ricostruzione della storia della filosofia, che sono imperitura gloria della cultura, doveva esser fatto luogo a un classico trattato qual è questo del Prantl. Per ragioni editoriali l’ordine di apparizione dei volumi della traduzione italiana non corrisponde all’ordine di successione del saggio originale: e si è dovuto dare la precedenza al Medio Evo, la quale forma un tutto unico e continuo, dotato di una certa autonomia. Alla traduzione del primo volume che vedrà successivamente la luce, diviso in due o tre tomi, sarà premesso un discorso introduttivo intorno all’Autore, e alla importanza e. vitalità della sua opera: bastino qui brevi cenni, a giustificare il lavoro e a render ragione dei criteri adot¬ tati dal Traduttore. Il disegno di Storia della Logica Medievale presen¬ tato dal Franti non è stato sostituito da opere più re¬ centi: il suo intento, di risparmiare, almeno per lungo volger (Tanni, agli studiosi venturi, la immane fatica di riprender ex novo l'argomento, rifacendosi diretta¬ mente dalle fonti, è stato raggiunto: e il trattato è an¬ cor oggi cosa viva, sì che nessuno studioso, mettendosi, con un suo particolare obbietta, a lavorar attorno a que¬ sta materia, può far a meno di ricorrere e di ricollegarsi a quello: è, a giudizio di CROCE, il solo, tra i libri spe¬ cial, recanti il titolo di Storia della Logica, che, fondato sopra lunghe ricerche, sia veramente insigne per dot¬ trina e per lucida e animata esposizione. Animata, vor¬ rei soggiungere, ancor più che lucida: non di rado, in venta, la espressione è negletta e contorta, e la perspi¬ cuità e sacrificata alla rapidità e alla efficacia: lettura dunque, non tutta agevole, ma tale da far desiderare una versione che, se non sembri troppo ambizioso il propo¬ sito, elimini almeno in parte, pur attenendosi con scru¬ polosa cura di fedeltà all'originale, quelle cause che non possono non render ostica a noi Italiani la greve prosa * f-CXC SC Q, Dei progressi che gli studi son venuti facendo in que¬ sti cinquant anni si doveva naturalmente tener conto, ma senz alcuna intenzione di metter assieme un Prantl nuovo, in luogo di ri presentare nella sua integrità il I rantl vecchio: e la questione era soltanto del modo piu opportuno di far posto a quel pochissimo ch'è del traduttore, nella poderosa costruzione innalzata dal- l Autore. i\on era dunque il caso di contrapporre all'atteggia¬ mento che il Pronti assunse, con icastiche espressioni di disprezzo, di fronte al pensiero medievale, un giudizio valutativo diverso o per lo meno più temperato: anche se nessuno si sentirebbe disposto a ripetere senza riserve che una filosofia medievale non c'è stata, intensificandosi anzi da molte parti lo sforzo di rintracciare nel Medio hyo anticipazioni e presagi del pensiero moderno, il giudizio del Prantl va conservato in tutta la sua cru¬ dezza, per lo meno quale documento significativo di un momento importante nella storia della cultura: d'altra parte, in antitesi con la corrente che, sempre tenden¬ ziosamente talvolta nostalgicamente, porterebbe ad abo- hre la differenza tra Medio Evo ed età moderna, o a sopravvalutare quello, a tutto danno di questa, può avere virtù correttiva, od operare come reazione salutare, la ricomparsa dell'opera di un eminente ricercatore., il quale, proprio studiando lo sviluppo di quella disciplina filosofica che fu più largamente e appassionatamente coltivata nella età di mezzo, ne trasse occasiime a rive¬ lare lo spirito medievale nel suo aspetto deteriore: quasi si direbbe ch’egli si fosse accinto all’ardua impresa di esporre classificare giudicare i cultori illustri e oscuri della logica nel Medio Evo, con la persuasione di ve¬ dersi dispiegare dinanzi agli occhi un panorama tanto interessante quanto poco conosciuto, e tale comunque da compensare il travaglio della indagine: e nei giudizi re¬ cisamente svalutativi da lui pronuziati nei riguardi di quasi tutti gli autori che ha studiati, diresti di sentire la eco di un’amara delusione o un movimento di di¬ spetto, se non addirittura l’accento scorato di chi è tratto ad esclamare: «et oleum et operata perdi di » ! Rimaneggiare l'opera ‘del Pronti, conservando immu¬ tate quelle sole parti che han conservato oggi tutto il loro valore, e sostituendo integrando rifacendo quelle che appaiono antiquate o inadeguate, sarebbe stato in contrasto con l’indirizzo al quale, come s’è accennato, la Collezione si attiene: il rispetto dovuto alle opere in essa incluse, ne esige la riproduzione compiuta, senza modificazioni o mutilazioni, che han sempre l’aria di manomissioni arbitrarie. Primo dovere era quello di rivedere l’ingente mate¬ riale accumulato nelle numerosissime note, che preval¬ gono per ampiezza sopra il testo del Pronti: poderosa raccolta di testi accortamente scelti, della quale ricono¬ scono l'incomparabile valore anche i meno disposti a seguire. l’Autore ne’ suoi apprezzamenti e nelle sue in- terpetrazioni. Era il Pronti uno studioso di esemplare diligenza, e fa veramente, maraviglia che, con lina smi¬ surata mole di lavoro, egli sia soltanto eccezionalmente incorso in errori di trascrizione, sviste nella correzione delle bozze, inesattezze nelle citazioni e nei rimandi. Ma alcune mende s’è pur dovuto rilevare, che, com’era ine¬ vitabile. sono state naturalmente travasate tutte quante nel « Manuldruck » del 1927. In una traduzione, invece, bisognava procurare di eliminarle, e riscontrar le cita¬ zioni, una per una, con i testi, per ottener la massima possibile correttezza, evitando altresì che, come pure in alcuni luoghi è accaduto all Autore, la trascrizione frammentaria possa alterare o non render intiero il pensiero dello scrittore: si direbbe che il Franti qualche volta prendesse frettolosamente le sue note dai testi da citare, e poi le trascrivesse per la stampa, senza più darsi pen¬ siero di collazionarle con l originale. Inoltre, era suo costume di servirsi a caso di una o al¬ tra edizione che trovava, per ciascun autore, consert ata nelle Biblioteche di Monaco, rendendo così a noi, molto spesso, difficile il riscontro delle sue citazioni con i testi originali da lui usati: era dunque necessario non sola¬ mente emendare e aggiornare le citazioni, ricorrendo, ogni qual volta fosse possibile, a edizioni moderne criti¬ camente condotte, ma inoltre sodisfare una esigenza di uniformità e di unificazione, aggiungendo a ciascun passo il riferimento al luogo corrispondente di un grande re¬ pertorio, largamente diffuso e facilmente accessibile, qual è la Patrologia, Greca e Latina, del Migne (desi¬ gnata nelle note, tra parentesi quadre, con la sigla PC o PL, seguita in cifre arabiche dalla indicazione del vo¬ lume, poi della colonna o delle colonne corrispondenti). Testi che il Franti aveva potuto conoscere solamente di seconda mano, riferendoli secondo le parafrasi di benemeriti studiosi francesi, son oggi editi, e dovevano naturalmente venir citati anche nella forma originale, così rendendosi manifesti i progressirealizzatinella conoscenza di scrittori, quali Adelardo e Abelardo. Successivamente alla comparsa del secondo volume (seconda edizione) della Storia del Pronti, la letteratura concernente gli Autori da lui studiati si è venuta accre¬ scendo in misura molto rilevante: e non c’è forse un solo scrittore o argomento, per il quale non si rendano necessarie allo studioso informazioni bibliografiche sup¬ plementari: ma si è voluto evitar di gonfiare la mole della traduzione, introducendovi dati che ciascuno può facilmente trovare raccolti in opere di uso comune, uni¬ versalmente apprezzale per ricchezza ed esattezza d’indi¬ cazioni, qual è, per citare la più nota, il Manuale del- V Ueberweg (voi. II), nelle più recenti edizioni curate dal Paumgartner e dal Geyer. Questioni che si giudicano definitivamente risolte, in senso contrario alle tesi soste¬ nute dal Pronti — quelle, per esempio, che riguardano l’autenticità degli scritti teologici di Boezio, o le rela¬ zioni tra le « Sumniulae » di Pietro Ispano e la « Si¬ nossi » di Psello — non potevano venir qui dibattute: e al lettore basterà veder accennato il presente stato delle questioni stesse. I volumi del Pronti son tipici esemplari dell arte tipografica tedesca, intorno alla metà del secolo scorso: pagine massicce, caratteri minuti, scarsità di capoversi: tutto quelchecivuole,perdisvogliaredalla lettura, o per renderla più che mai fastidiosa. Ben diverso è l’aspetto delle pagine della traduzione: la necessità di conformarla al tipo prescelto per i. volumi precedenti della Collezione, portava di necessità a un considerevole aumento di mole, in confronto con l’originale: e s è dovuto ripartire in tre volumi la materia compresa dal Pronti nel secondo e nel terzo volume: effettivamente le due ultime Sezioni del secondo volume del testo, la XV a («Influsso dei Bizantini») e la XVI a («Influsso degli Arabi»), trovano il loro posto più adatto, meglio che nel presente volume, in quello che gli farà sèguito: non servono di conchiusione. alla Storia della Logica, ma d’introduzione alla Storia della Logica nel XIII 0 secolo: e formeranno dunque opportunamente, insieme con l’amplissima Sezione XVIP, il contenuto del prossimo successivo volume. Ho avuto cura di render sensibile al lettore come si compartisca e articoli la trattazione del Prantl, moltiplicando i « da capo », e soprattutto dividendo e suddividendo in para¬ grafi le varie Sezioni, ciascuna delle quali forma nel testo un tutto compatto: una modificazione, questa, che osiamo sperare sarà apprezzata segnatamente dagli stu¬ diosi, quando ricorreranno al libro per consultazioni e ricerche particolari. I titoli dei paragrafi e sottopara¬ grafi corrispondono inpartealleindicazioni che il Prantl ha raccolte nell’ Indice delle Materie, e anche riprodotte in capo alle pagine, in parte sono state ag¬ giunte dal Traduttore, il quale ha cercato di tener di¬ stinta, compilando l’Indice stesso, una dall’altra parte, mediante l’uso di tipi differenti. Di regola, e nel corso dell’intiero lavoro, ha incluso tra parentesi quadre tutto ciò ch’è aggiunta sua, dichiarativa o emendativa o inte¬ grativa, evitando tuttavia di esporsi alla taccia di pedanteria con una frappo minuta registrazione delle va¬ rianti: solamente il raffronto fra i testi quali sono rife¬ riti nell'originale e nella versione potrebbe, a chi volesse, fornire la misura della pazienza che ha richiesta la revi¬ sione dell’estesissimo prezioso materiale. Il Traduttore non s’illude di esser riuscito a evitare errori e sviste nel lavoro di versione, trascrizione, retti¬ ficazione: ma ha coscienza di aver fatto tutto quello che stava in lui, per ridurli al minimo: è grato a quanti gli hanno agevolato le ricerche, condotte per lungo pe¬ riodo di tempo, presso Biblioteche italiane e straniere: in particolare ringrazia l'insigne collega Mons. Geyer della Università di Bonn, che gli ha liberalmente offerto ospitalità nella sede dell’Albertus Magnus - Institut di Colonia. PREFAZIONE DELL’AUTORE ALLA SECONDA EDIZIONENell’attendereaquestanuova edizione riveduta, era mio primo dovere, come ben s*intende, di adeguarla alla presente condizione degli studi: e sebbene non sieno stati molto nume¬ rosi i contributi, recati negli ultimi ventiquattr’anni allu storia della logica medievale, bisognava certamente trarne profitto con la massiina accuratezza. Ma la nostra conoscenza attuale della letteratura logica di quell’epoca presentando pur sempre, sovra punti particolari, varie lacune, sarei lieto di dare rinnovellato impulso alla pubblicazione di testi supplementari, quali appaion desiderabili, tratti dai preziosi fondi manoscritti delle Biblio¬ teche. Questo augurio vale ancor oggi segnatamente nei riguardi della questione pselliana [sopra la quale son da vedere le Se¬ zioni XV e XVII, nel volume successivo di questa versione], clic io sono bensì convinto di avere oramai risolta in linea di principio, ma che debbo tuttavia qualificare come una questione aperta, in quanto che presentemente ci manca tuttora la cono¬ scenza degli anelli intermedi, che si erano avuti antecedente- mente su terreno bizantino. Pbantl. Monaco di Baviera. DAL PROEMIO DELL’AUTORE ALLA PRIMA EDIZIONE Relativamente al Medio Evo si trattava ancora di studiare criticamente tutto quanto il' materiale accessibile, come pure di rintracciare la linea effettivamente seguita dal corso della storia. E, per quest’ultimo rispetto, si rese subito manifesto che proprio la storia della logica può aver il compito di correggere o di compiere la conoscenza della così detta filosofia del Medio Evo. A quel modo cioè che, in ordine alla controversia intorno agli universali, è venuta in luce una varietà di tendenze con¬ trastanti. della quale finora non si aveva la idea, — così si .è potuto in compenso non soltanto delimitare esattamente, in quale misura fosse, in quei secoli, conosciuta la letteratura logica, ma anche fornire la dimostrazione incontestabile, che XII DAL PROEMIO DELl’aUTUKK ALLA I* EDIZIONE nell’intiero Medio Evo, senza eccezione di sorta, non c’è stato un solo autore che abbia cavalo fuori dalla propria testa un pensiero che fosse suo: bensì la letteratura di quell’epoca era tutta dipendente e condizionata dalla estensione di un mate¬ riale preesistente, trasmesso per tradizione. Soltanto sobbarcan¬ domi alla fatica indicibile di sollevare e di risolvere, quasi direi frase per frase, la questione della fonte dalla quale la frase! fosse stata ricavata, sono riuscito a esporre in maniera obbiettivamente esatta il corso della evoluzione; e anche quella sola volta che (cioè a proposito di Escilo) non sono stalo più in grado di dar una risposta a quella domanda « Di dove? », non è già che su questo punto resti da ciò alterata la giustezza della mia tesi generale, ma in quel caso speciale semplicemente manca alla ricerca il materiale necessario. Se del resto io per principio mi sono limitata a quella produzione letteraria, che abbiamo a nostra disposizione in pubblicazioni a stampa, sono tuttavia contento di ammettere la possibilità che da varie Biblioteche, utilizzandosi materiale manoscritto, vengano tratti alla luce elementi per rettificare o integrare la mia ricerca, e anzi in più luoghi ho espressamente formulato l’augurio che ciò awengà. Purtuttavia in un caso soltanto ho derogato a quel mio principio: da manoscritti pari¬ gini, additati dall’ Hauréau, ho potuto cioè desumere con gioia ch’era mio dovere addurre il materiale che ivi si trova; poiché n’è derivata luce, non meno nuova che interessante, sopra la relazione di Psello con Pietro Ispano, o piuttosto con i pre¬ decessori e contemporanei di quest’ultimo: un risultato, al quale non si sarebbe mai potuti pervenire, con la letteratura a stampa. | Il l J rantl allude qui munì lestamente a scritti inediti di Gu¬ glielmo da Shyreswood e di Lamberto da Auxerre, dei quali tuttavia egli si è giocato non per il 2”, ma per il 3" volume di questa sua Storia. Si veda, nel volume successivo della pre¬ sente traduzione italiana, la Sezione XVII J. Se i passi delle fonti, copiosamente riportati nelle Note, sembrano spesso (particolarmente nella Sezione [la XVI': vedi il voi. successivo della traduzione ] che tratta degli Arabi) con¬ tenere più ancora di quel che ho esposto nel testo, il lettore vorrà scusarmene, considerando che io mi sono sempre sforzalo di attenermi alla massima possibile brevità, e che pertanto mi son provato a presentare nel testo non una semplice traduzione e neanche un riassunto, bensì la intima essenza dei passi origi¬ nali. Al medesimo intento di brevità servono anche i numerosi reciproci rinvii, nei quali il lettore vorrà ravvisare non un ozioso abbellimento, o imbruttimento, ma un mezzo compendioso di tener dinanzi agli occhi in molti casi una più ampia connes¬ sione. Monaco di Baviera

Luigi Speranza, “Grice e Limentani”. Limentani.

 

Grice e Livi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del consenso sociale – filosofia toscana -- filosofia italiana – l’aporia: se cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano. Prato, Toscana. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers who have taken Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson, collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla Common-Sense Association, che ha come organo ufficiale la rivista "SENSVS COMMVNIS” – cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic Logic". Tra i suoi numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore di importanti saggi di Storia della Metafisica,  Bettetini, Arecchi, Spatola, Covino ed Arzillo.  Fondatore di Vinci, membro associato della Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense. Firma con Giovanni Paolo II alcune parti dell'enciclica Fides et ratio.  «Senso comune» è il termine utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in chiave anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e incontrovertibili possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a priori, ma di un sistema organico di certezze universali e necessarie che derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni ulteriore certezza. – cf. Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and Ordinary Language,” “Common Sense and Scepticism” --. Ha per primo precisato quali siano queste certezze e ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono in effetti il fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende dunque l'evidenza dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento; l'evidenza dell'io, come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il mondo; l'evidenza di altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale che regola i rapporti di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di Dio come fondamento razionale della realtà, prima causa e ultimo fine, conosciuto nella sua esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e spontanea, la quale lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che è la Trascendenza in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un sistema di logica aletica su base olistica.  Tra gli studi recenti sul sistema della logica aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di AGAZZI, "Valori e limiti del senso comune" (Angeli, Milano), Ottonello ("L.", in "Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo ("La riabilitazione del SENSO COMUNE", in "Memoria e progresso", Fede & Cultura, Verona), di Arzillo, “Il fondamento del giudizio -- una proposta teoretica a partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci, Roma ); Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica -- analisi della proposta di L. (Vinci, Roma). Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia antica, Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson, Fabro ed Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della speculazione metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi (Platone, Aristotele, la Scesi, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e dell'età moderna (VICO, Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto assertore del metodo realistico di interpretazione dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni utilizzando sistematicamente gli strumenti dialettici offerti dai filosofi della scuola analitica. Suoi critici più intransigenti sono stati, da una parte, l’idealista Severino, e dall'altra il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri saggi: “Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila:  Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre del Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO COMUNE -- Logica della scienza (Milano: Ares); “IL SENSO COMUNE tra razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo); “Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO COMUNE e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano: Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica” (Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma: Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni ); “SENSO COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia in eta antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale;  moderna;  contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma: Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei” (Roma: Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO COMUNE al vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica della scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa" (Roma: Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il sistema della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica” (Roma: Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa",  su Gli equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci);  “Aquino filosofo” in Piolanti, AQUINO nella storia della filosofia” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Gilson", in  Piolanti, Gilson, filosofo, Roma: Vaticana,  "L'unità dell'ESPERIENZA nella gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica, critica e metafisica in chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE e unità delle scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft]  in Martinez "Unità e autonomia del sapere: il dibattito", Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza Romana, antoniolivi.Vinci, su editriceleonardo  ISCA Commonsense Association ca-news; fidesetratio. Ilgiudiziocattolico. Antonio Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical defence in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what he sees as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” – Grice: “I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would – certainly Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone and Livi is an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection, conceptual he thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like ‘I know that s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on the table. Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a conversationally appropriate defeater!” – Livi. Keywords: consenso sociale, amoris laetitia, Letizia dell’amore --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Leonzi – (Leonzio) Georgia di Leonzi

 

Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia marchese – scuola di Ancona -- filosofia italiana – il vincolo mi fa libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Ancona, Marche. Grice: “I love Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational self-love and the principle of conversational benevolence is what all his philosophy is about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an individualism, i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’ inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive; similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo siamo. Vive a Torino, Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene associato ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno della filosofia,  si inserisce nella tradizione del liberalismo classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure assistente volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fa parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare prigionieri e salvare soldati.  Insegna filosofia e ricoprendo l'incarico di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione tipografo ma che svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato truffe e sottrazioni di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo, Quero lo assassina colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si affermavano politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L. critica la logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del concorso delle volontà dei singoli individui.  Fondatore di Il Politico, svolge ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche.  Con i suoi saggi, inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso.  E stato quasi dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di lezioni ). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è pervaso da quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo intellettuale.  Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso, bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere sulle pagine del  torinese, dando vita ad una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori filosofi del liberalismo. Oggi.  non è più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore delle sue tesi.  In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L., per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro potenzialità.  Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri, Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico, i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana.  Altri saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli, Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);  “La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”, Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino,  “Il diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri,  Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione  Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu, che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana.  E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek, rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala  La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri, “Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri, Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L.. Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo. Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia umbra – scuola di Spoleto – filosofia perugiana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto). Filosofo italiano. Spoleto, Perugia, Umbria. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) – when he died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning), strangled to death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa.  E qui che ha modo di entrare in contatto con la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato uno dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello stesso Lorenzo de Medici.  All'indomani della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca  sostengono che il mandante dell'uccisione di L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli, Dizionario Biografico degl’Italiani, riferimenti in.  Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era adpresso del dicto Lorenzo uno excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in FILOSOFIA, nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. E questo uomo in tanto prezzo adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille ducatj de provisione per anno: poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj ad legere e similemente ad Padova. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda a Firenze. E questo mastro L. de tanta scientia, che predisse la morte sua essere infra IV misi. E anda mal voluntierj ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze trova Lorenzo stare male: sono lì clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de Milano: et predice mastro L. la morte de Lorenzo. Ipso non presta mai et non se mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che L, non s'ingerì affatto in ciò che riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo, limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI della malattia ed a consultazioni astrologiche. E con ciò vuole, forse, velatamente intendere che niente ha a che vedere L. con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni viscerali che tormentano il paziente, servirono forse ad accelerarne il tracollo -- ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato homo bestiale e senza prudentia, ordina che el dicto mastro L. fosse morto. Lorenzo e in villa ad uno suo casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro L., volendo tornare luj allu solito loco, e menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale, et lì e strangulato dicto mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e portato in Firenze, e retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai. Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la bona memoria de Lorenzo ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li secretj soj sapiva, savio, sapientissimo e pieno de verità, bontà et integrità."  Nella sua "Storia della Letteratura Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti dell'epoca, fra cui Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due famigliari di Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il quale non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki, Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti, Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova,  Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori.  Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool Library. Leoni.

 

Grice e Leopardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del favoloso – Leopardi fascista – filosofia maceratese – filosofia marchese – scuola di Recanati -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative; admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks, pretty much like the first Vitters, that language is a prison. Man has a need for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming – without conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest poet, one would first think!”  -- Grice: “One could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement, ‘leopardismo.’  Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo.  È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto oltre la sua epoca.  Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla lettura di FILOSOFI come il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico. Muore di edema polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera di Napoli. Il dibattito sull'opera leopardiana, specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il bisogno.  In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane Giacomo.  Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia.  La formazione giovanile  La casa natale Ricevette la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello contenutistico e metodologico. Nel Museo leopardiano a Recanati è conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto insieme al fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della Congregazione dei nobili.  Il ruolo avuto dai precettori non impedì, comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione. Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati puerili. La produzione dei puerili  Puerili e abbozzi vari Il corpus delle opere cosiddette puerili dimostra come il giovane Leopardi sapesse scrivere in latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità, eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e, senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco (nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia Leopardi si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece il lavoro di Leopardi presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia dell'astronomia Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo. Probabilmente infatti Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla geometria cartesiana e al calcolo differenziale.  Iniziò nello stesso periodo anche le prime pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria: dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte cambiamento, frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo reumatico e disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione della spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e conseguenti problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita stentata, problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo intenso), alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua. Era convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.»  Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da Citati) è che Leopardi soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei genitori. Tutti i fratelli L. furono deboli di salute, con l'eccezione di Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera asimmetria del viso. Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.  «Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.»  (Lettera dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla, propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo".  Dopo il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui, fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della "teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia»  Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare al dibattito culturale tra classicisti e romantici. L. difende la cultura classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!»  (Il primo amore, v.3)  Geltrude Cassi Lazzari con i figli, illustrazione di Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.»  (L., L'infinito. Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L. elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò. Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti, gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà degli anni '30, da alcuni indicato come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente bolognese Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una "Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta, patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del ritratto di L. sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze, dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare Leopardi per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e Leopardi tornò alla poesia, che tace (con l'eccezione della poco riuscita epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il periodo creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche "grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi»  (Le ricordanze) Il periodo di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici: Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati, dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti pisano-recanatesi".  In questo periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo, ch'eterno io mi credei.»  (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei "Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere; Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia, seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si nota anche una tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi, dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni polemici e misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.»  (Lettera da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»  (Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò:  «Quivi Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse. «Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo favore.  Busto del poeta presente a Villa Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni "dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già Leopardi aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del Leopardi. Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati), talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve moltissimi caffè. La morte  Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute.  L. si sentì male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita fredda) verso sera.  Fu colpito da malore poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio, Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto "alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo. Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che avrebbe ucciso il debilitato Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi cronici all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite colerosa) in poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta la versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro Giordani:  «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo, non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e "sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi.   La lapide originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima, un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti con altre ossa.  La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di Recanati. Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni Leopardi e la figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del Pero-Leopardi, vedova del conte Pierfrancesco "Franco" Leopardi e madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia L. (esplicitata dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta (presidente fino al  conte Vanni Leopardi) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei canti veramente divini il Leopardi trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di splendore.»  (Papini, Felicità di Giacomo Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato, attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no,  era del resto ben presente allo stesso Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani A Recanati  Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo L.: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali dall'architetto Carlo Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo. L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del poeta, Monaldo Leopardi. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia Palazzo Leopardi. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi nel 1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai aperto a tutti.  Palazzo Antici-Mattei: casa della madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San Leopardo (XIX secolo): venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e nei pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia Leopardi. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori Osservanti insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e abbattuti due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della Posta (corso Garibaldi),  Palazzo Antici Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"), convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano ("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso (oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa (lettera a Paolina Leopardi). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso), con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo". Opere di Giacomo L..  Copertina della prima edizione dello Zibaldone di pensieri. Epistolario Di Giacomo Leopardi ci sono rimaste oltre novecento lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo). L'intero corpus epistolare di Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L. prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.  Leopardi, amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti sino al 1906. Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più vicina alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina. Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione poetica in merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari. Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario, essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che contraddistinguono la società italiana, e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera Leopardi giunge all'amara conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo poco civile per godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici»: è ancora Leopardi a descrivere la propria opera in una lettera indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che regna in esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi considerate la più alta espressione del pensiero leopardiano, racchiudono l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I Canti, considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono trentasei liriche composte da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica leopardiana.  Le ultime opere Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro la finzione comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari, mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i granchi-austriaci, feroci e stupidi.  nuovi credenti, invece, sono un capitolo satirico in terza rima dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida", "improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici, di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana.  Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di Giacomo Leopardi, musica di Francesco Paolo Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G. Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi, Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario collettivo Il fatto che l'opera di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le principali:  studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani  e Zibaldone di pensieri); passata è la tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna... (in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito). Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12 pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano, Napoli.  Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi:  10 disegni originali realizzati sul tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una scultura del 1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane") ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione prodotta in Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel breve documentario "Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione Marche.  Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella Canzone per Piero di  Guccini e in Stai bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno (di un pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo), entrambe di Roberto Vecchioni.  Giorgio Gaber, nella canzone "Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del 1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi. Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma televisivo"Leopardi, il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche. Video in rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo Leopardi nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]: Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari; "A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman: L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra (o Il fiore del deserto) Alla luna,  La sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito, Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia: L'infinito,  Lavia dice Leopardi; Alberto Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso un video, per la regia di Solari, trasmesso sui principali canali televisivi italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver interpretato ad Ascoli Piceno il film di Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane Sandrelli.  Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione turistica:  «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui emozionalità è strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e raggiunta.»  (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a scrivere:  «Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante «performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la musica dell’andamento di un’esposizione poetica?»  (Mina Mazzini) Al contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.  Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi leopardiani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera", nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna promozionale del  Dustin Hoffman fu sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè.  Continuò comunque l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un "movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che, rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione (Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani, Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza & f.i,Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920; poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia (Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi, Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano: Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna: Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati, Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di Studi Leopardiani.  Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico, artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a Monaldo, finché fu in vita.  Uno sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ).  Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo Leopardi, su emsf.rai).  Forse la malattia di Pott o la spondilite anchilosante.  Erik Pietro Sganzerla, Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male»  (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia)  Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città, gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta (Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de' maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti.  Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia della letteratura italiana. Milano L'Ottocento  Zibaldone  «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e editi», Milano, Bompiani 1972  Citati20-25.  Cecchi, Sapegno, oGiuseppe BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano, Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'Autore, raccolto e ordinato da Prospero Viani,  I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in Epistolario di L. con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini (puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre, RaiTre-RaiStoria)  Sarà la lingua utilizzata nelle lettere allo Jacopssen  Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale. regione. marche. Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale, Recanati  a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche,  5-8.  Aimé-Henri Paulian su data.bnf.fr.  Un episodio della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero della gloria  Cecchi, Sapegno, Spesso nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una coperta di lana.  C 33 esegg.  Giuseppe Bortone, Il "morire giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo  Alessandro Livi, giacomo leopardi, le malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico, Paolo Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su Rotari Club Fermo,  «Di contenti, d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di Leopardi anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece.  Es. sindrome della cauda equina  Alcuni propongono altre diagnosi: diabete giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre. cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.  Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di G. Leopardi453.  E. Galavotti, Letterati italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone, autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana,  3, tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia  infelicità in un modo assai più tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito ("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13 anni il dagherrotipo).  Bonghi, Biografia di Leopardi, su classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti  Citati 226 e segg.  Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e Pensiero,  Fotografia della maschera (JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio  (archiviato il 1º gennaio ).  Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro nazionale di studi leopardiani Centro mondiale della poesia e della cultura "G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre Palinodia al marchese Gino Capponi  Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani delle Ultime lettere di Jacopo Ortis  «Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux)  Una stroncatura per L. Archiviato   in.; mentre fu più meditato e indulgente il giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su Leopardi stesso.  Introduzione alla Palinodia  L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani. Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di G. Leopardi (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese.  Lettera aColletta dcome citato in Marco Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani, La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30.  Gente che m'odia e fugge, per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca.   CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione Garzanti  Donne fatali 2: Giacomo Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...", su sulromanzo.  "Tu vivi / bella non solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti e link in.  Giovanni Mèstica, Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica,  (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and lesbian history,  1, ad vocem  Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca. repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario, BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi in L. Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece, appresso a poco, della notte giorno, e viceversa."  Traduzione in Michele Scherillo, Vita di Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina), su treccani. 2 D'Orta25.  L. Il poeta della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro (cfr. Sfrondando gli allori della poesia)  Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta anche Citati, Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali.  Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia Plautina,  cfr. anche Notizia della morte del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato, congestione, coma diabetico o indigestione  Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere. in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G. Cugnoni,  I, Halle, Max Niemeyer Editore, Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G. Piergili, Firenze, Le Monnier,   in.; "Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti  Biografia sulla Treccani, su treccani. are LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano, McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui, su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro Giordani,  Scritti editi e postumi di Pietro Giordani,  VI, pubblicati da Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi, edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri,  Firenze, Successori Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre  in..  Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento (JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre cautela in. da Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA, MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO?  Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi, Leopardi, strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi, Guida, Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale ufficiale delle persone presenti.  E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita  L., sito gestito dal CNSL  Si torna a parlare dei resti di L., nato comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati. Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia, Milano, Mondadori,  Cfr. in proposito anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare: Manzoni e L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni).  Paolo Emilio Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al Novecento,  Roma, Ed. di Storia e Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica del mondo  Peter Lang, In Saggi critici, Russo, Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc.  Per L., su pergiacomo leopardi.altervista.org. Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi, tratte da sue lettere.  Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali, su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (), Istituto dell'Enciclopedia italiana.  Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea, su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".   "Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg  ascolta la canzone nel sito della Fondazione Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo Archiviato il 6 settembre  in.  vedi il testo dell'Operetta morale in Operette _morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU  Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia" con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/ articoli/leopardi- il-rivoluzionario/default.aspx "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/ articoli/ leopardi -il-rivoluzionario/ default.aspx in.  Rai Storia, "Giacomo Leopardi e l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx Archiviato l'8 settembre  in.  Nel sito web de "La Stampa", Guzzini del Centro  Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/ multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7 fEJyVoUSrazy1H/ pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo L.", intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E  "Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI  Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM  Vittorio Gassman interpreta L'infinito, su youtube.com. Gassman interpreta A Silvia:  youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il 29 marzo  in.  Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4  Bene interpreta L'infinito: youtube.co  Bene interpreta Passero solitario: youtube. com/ watch?v=IZz Qbnzpaok  Carmelo Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y  C. Bene interpreta Alla luna: youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk Bene interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/ watch?v= qydGUiV1wwI  Bene interpreta Il sabato del villaggio:  youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4  Carmelo Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM  Bene interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane: youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE  vedi su Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista Archiviato   in.  leggi il testo di Inno ad Arimane init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(Leopardi) /Ad_Arimane Archiviato il 15 settembre  in.  Bene interpreta Amore e Morte: youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw  Foà interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario: youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg  Foà interpreta A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE  Foà interpreta La sera del dì di festa: youtube. com/watch?v=a WOJfMZeCVo  Foà interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk  Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok  Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com /watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=  BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno  in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao  Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube   Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ  Germano, nel film Il giovane favoloso di Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4  Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa: youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4  Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/ Portals/1/Leopardi/ Leopardi%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM  La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su "La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati, "Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre  (archiviato il 6 settembre ).  vedi la serie di spot "Le Marche non ti abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli: youtube Marco Minnucci, La regione Marche rispedisce Dustin Hoffman in America e pone fine allo stupro di L., su qelsi,  su Giacomo Leopardi. Edizioni delle opere Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi «Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano: Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri, Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano: Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba  scelto e annotato con introduzione e indice analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario, pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli,  Francesco Flora, Milano: Mondadori, in Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi, «Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni, saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano: Mondadori «Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione fotografica dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli, Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli: Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici leopardiani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e Wanda Marra, Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna: Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo, Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino: Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze: Accademia della Crusca, Giacomo Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette Morali L. Operette morali; edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna: Cappelli, 1929 introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «Universale economica classici», Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani, Milano: Mondadori «Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton Compton, «Mammut»,  poi da sole nella collana «GTE», Giacomo Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri Giacomo Leopardi, Pensieri, Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana Giulio Bollati e G. 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E una dissertazione di laurea, e  reca infatti l’impronta comune a tutti i lavori giovanili.  L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro, un  po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro,  che non vuol essere propriamente un’esposizione fatta  dall’autore del sistema filosofico del Leopardi; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore con le  stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte  sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo.  Metodo anche questo alquanto ingenuo e da scrittore  che non vede ancora la necessità, chi voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue  parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo  pensiero, entrarvi dentro, mettendosi allo stesso punto di  vista del filosofo, e quindi in grado di rielaborare il suo  pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche a cui è  legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logicamente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la  inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita  nuova del sistema filosofico nella mente dell’espositore. GATTI, Esposizione del sistema filosofico di L., saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che non riesce felicemente se  non agli scrittori provetti; ma che nessuno ordinaria¬  mente crede di potere schivare, se non limiti il proprio  ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne escono  alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li  ha intesi.   L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere  insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando  come fil filo un pensiero si svolgesse dall’altro; e dove  la connessione non appariva evidente nelle parole del  testo, ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi: proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie di riflessioni già via via  segnate sulla carta a schiarimento del proprio pensiero  e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il rischio, e stavo per dire la responsabilità, a  cui andava incontro, facendo parlare per la sua bocca  lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone stesse,  pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice  composizione degli stessi materiali leopardiani, la statua  del filosofo sul piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro  che, se anche nei pensieri inediti del L. fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro-  varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta  dall’autore.   Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già altri,  ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il Leopardi poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e  di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci scopris¬  sero il Leopardi filosofo. Questa era anche la tesi dello  Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui  il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima delle quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa  natura; donde prima una concezione storica del pessi-  niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini  non insisteva sul valore sistematico di questa filosofia  leopardiana; e, d’altra parte, nel secondo volume dei  suoi Studi su L., esaminando le Operette morali,  veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle  riflessioni dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi aveva fatto seco stesso  per iscritto, fossero appunto condensate nelle Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello  Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze  cronologiche, che lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli  pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema  logico. Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si formavano giorno per  giorno nella mente del Leopardi attraverso ben (juindici  anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo  per quella del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse  meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il diario degli  anni in cui si svolse la vita morale del poeta, e offre  perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose  da lui stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi  sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti  di tutto il lavorìo intimo di quello spirito, non potremo  apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo dalle  loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le  proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel  giorno: e quel lavoro di sistemazione e organizzazione,  per cui di tutti i pensieri slegati si possa fare un tutto  coerente, manca.   Gentile, ifa» 2 ont e Leopardi.  Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca  accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a  rilevarsi, che qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente  molto lontani fra loro ». E la sua ragione sarebbe questa :  «Tali salti, mentre da un lato ci forniscono ancora una  prova evidentissima e incontrastabile della profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione  cosmica del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il  proposito nell’Autore di rifare spesso a ritroso coll’ im¬  maginazione la via già percorsa dal pensiero allo scopo  di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa strada,  e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,  allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli  avrà mostrata altra via da battere per giungere alla mèta  prefìssa». Cioè, se ho capito bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter addurre  pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra  ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento  sostanziale di pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta  con l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e  già superata. Ci sarebbero certi « pensieri di ritorno », o  « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti, non  bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto, ma,  per certa ripugnanza sentimentale alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi temperamenti,  torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza  filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un  ritorno siffatto nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter fissare questa nella coerenza di certi pen¬  sieri definitivi, è evidente che non può essere altro che  una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è costretto,  quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria. Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a  pretendere dal Leopardi, nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella natura  di tali confessioni.   E non era neppure nella natura dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma  non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia  tante volte protestato di possedere una sua filosofia ?  Allo stesso modo del Leopardi, più o meno, chiunque  si ritiene in grado di giudicare dei sistemi dei filosofi,  ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di  costoro, e insomma di affermare una filosofia propria  che possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio  punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva  ragione il Leopardi ; perché in fondo a ogni mente umana,  sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬  sofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero.  Ma questa filosofia dei poeti non è la filosofia dei filosofi,  e bisogna trattarla, per non snaturarla e non distruggerla, con molta delicatezza.   Una delle differenze più notabili tra la filosofia dei  poeti e quella dei filosofi è che il poeta può averne una,  se è capace di averla, in ogni singola poesia; laddove  il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina, non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno  diritto, come poeta, di affrontare il problema del dolore,  sempre da capo, con nuovo animo, con considerazioni  nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla virtù,  ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve  stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa di L. è infatti una situazione d’animo nuova; quindi  una nuova vista dello stesso dolore che domina l’anima  del poeta; un nuovo concetto, una filosofia nuova, che  solo trascurando le differenze essenziali, che in una  poesia e in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può rappresentare come sempre  identica.   Egli è che il poeta, checché si proponga e dica di  aver fatto, non espone propriamente una filosofia: ma  esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, deter¬  minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti.  Abbozza in se medesimo (e quindi in un diario intimo)  una filosofia provvisoriamente sufficiente ad appagare  i bisogni della propria ragione (che non sono poi grandi  in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in quanto profondamente sentita, in quanto vita  della propria anima, diventa materia di poesia. Di poesia  anche in prosa; perché, in sostanza la prosa leopardiana  è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi stati  d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti  per lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il  Leopardi fa di costringere il sentimento spontaneo dentro  r intenzione ironica, satirica, che gli fece appunto pre-  f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette come  nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia tetra e col  suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo  grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni,  che altri ha studiosamente cercate in lui, e che sono il vero  segno caratteristico del suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver niente del¬  l’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della  soggettività; è una contemplazione, diciamo così, d’una  verità eterna, in cui il filosofo, come persona particolare,  si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte le  tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di  somiglianza con quelli del Leopardi non presenta nes-  Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza, nella Rivista d’ Italia,  asuna traccia, non offre nessuno indizio di sentimenti  personali. K veramente una visione del mondo sub specie  aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del  filosofo scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire,  scompare nell’animo dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia. Onde una volta  noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in  tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬  stema di concetti, in sé.   Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬  diano è, come è stato tante volte osservato, così imprgnato di elementi ottimistici, così logicamente frammen¬  tario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente  coerente e vivo, che lo scambio non è possibile. Noi pos¬  siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita  del suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto,  molto delicato; perché in esso non bisogna mai lasciarsi  sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio,  non è questa filosofia in se medesima, astratta materia  della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella filosofia  è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace  di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬  dere la poesia, e valutata in quanto poesia, per quella  vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta.   La pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è trovata  innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella  tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso,  e che, per quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva  pregato nessuno di mettere in pubblico: quella filosofia,  che egli destinava a far materia di espressione più per¬  fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne in  parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma merita di essere particolarmente studiato).  E dimenticando che pel L. tutti questi materiali  non avevano valore per sé, ma l’avrebbero acquistato  soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno  s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del  L.! No, questi sono i detriti della sua poesia:  tutto ciò che la sua forza poetica non avvivò, non tra¬  sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e trasfigu¬  randolo nel suo canto e nella sua satira.   E produce davvero una strana impressione il proce¬  dimento seguito dal dott. Gatti, che riferisce nel testo  certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a sussidio  di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,  in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il  perfetto fatto servire all’imperfetto; la poesia ridotta  a documento d’un suo documento!   Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia.  In un pensiero L. S’era  domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e  stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente  che artificiosa macchina e mole dei mondi? A che  serve, dunque, questo infinito e misterioso spettacolo  dell’esistenza e della vita delle cose », se « né resistenza  e vita nostra, né quella degli altri esseri giova veramente  nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo per noi l’esistenza, così nostra come universale,  scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine  dell’esistenza, anzi l’unica utilità che resistenza rechi a  quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e tutta la Idosofia  del Leopardi. Ma che significano queste sue interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo,  che, non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana  [ Zibald.,  Queste giunture frapposte alle parole del Leopardi sono del  Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi leggermente  il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e non vedendo, d’altronde,  che tal fine sia o possa mai esser raggiunto, egli, Giacomo  Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale possa  essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa costruzione e nella sua vasta armonia farebbe  pensare a un’ intima finalità. Qui non è affermata una  verità obbiettiva; è bensì manifestata la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente  espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza  che questo suo ondeggiare tra il concetto di una finalità  eudemonistica universale e il dubbio suUa validità di tal  concetto ha neU’animo suo; quando da questo suo per¬  petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento  filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli  sarà ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a confronto e conforto  di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello  che nelle note fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del canto.   E quando miro in cielo arder le stelle.   Dico fra me pensando:   A che tante facelle ?   Che fa l’aria infinita, e quel profondo  Infinito seren ? che vuol dir questa  Solitudine immensa? ed io che sono?   Cosi meco ragiono: e della stanza  Smisurata e superba,   E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti  D’ogni celeste, ogni terrena cosa.   Girando senza posa.   Per tornar sempre là donde son mosse;  Uso alcuno, alcun frutto  Indovinar non so.   Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio  che non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe neH’anima di  un poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante  faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande  commozione, com’ è noto, per Leopardi), e l’immensità  della solitudine attorno alla propria persona non dimen¬  ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia,  ma l’uomo Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che  gh desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al  dolore di lui che vi si sente dentro smarrito. C’ è anche,  innegabilmente, un dubbio filosofico : semphce dubbio  («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse  s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero  b mio pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi  nasce il dì natale); ma come elemento o momento della  lirica grande.   La pubblicazione dello Zibaldone, badiamo bene, è  stata, in fondo, una certa quale indelicatezza, che nessun  onesto avrebbe giustificato, vivo L., e che non  si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio  deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che scriva e stampi, pubblica soltanto  queUo che gli par compiuto secondo il fine a cui, più o  meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta non  beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.  Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua perso¬  nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene  appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo,  r interesse storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio, mediante la conoscenza più  larga che sia possibile della sua anima, bastano a giu¬  stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come degb    epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più gelosi  segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce  col credere che appartengano agli altri più che a se stesse.  Ma questa giustificazione non deve farci dimenticare che  gli abbozzi del poeta, sono abbozzi delle sue poesie, come  gli appunti provvisori del filosofo sono antecedenti spesso  superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni modo non  si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore  che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬  tano la conclusione definitiva del poeta e del filosofo.   Tutto questo, si potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna vedere  al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi di Gatti,  ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei rispondere con un altro discorso astratto, sostenendo che  è ben difficile che uno stesso genio possa essere insieme  poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia un’attività, che  la filosofia necessariamente combatte e mortifica. Ma  penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre,  quasi costantemente mirabilissimo esempio dell’energia,  onde è capace lo spirito umano, di individualizzare e  stringere nella fantasia e nel sentimento di un’anima  singolarmente potente il sistema più intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della filosofia  ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre  perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico  di fantasmi che son pure astratti concetti: unità, che non  si finisce e non si finirà mai di studiare nella Divina  Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare  e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso generale  io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla quale per questo rispetto non credo si possa paragonare,  ma a distanza grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera,  come arte e come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta.   aver letto attentamente il saggio di Gatti. Libro, che  non ò certo inutile, perché molti schiarimenti particolari  a concetti del Leopardi da uno studio così attento e  minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi  sono opportunamente istituiti tra pensieri del Leopardi  e luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e degli  altri autori del Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la  tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del Leopardi si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi  a dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato  che ci dà dei Pensieri leopardiani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa  meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate  riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono  il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non  più di questo. Il Leopardi lo ritroveremo sempre nel  disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amaris¬  simo e pur soave delle prose.   11 materialismo della sua metafisica, il sensismo della  sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono  nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti,  i motivi costanti del breve filosofare leoparebano : ma  sono spunti filosofici, anzi che principii d’un pensiero  sistematico; sono credenze d’uno spirito addolorato, anzi  che veri teoremi di un organismo speculativo. Le sue  pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬  vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci  come vedev^a le cose Giacomo Leopardi.   In lui non trovi né anche una critica della ragione,  come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi  somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni  contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e  principii di deduzioni pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai. Non studiò  nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e stu¬  dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬  siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬  sofia antica ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o  altri dossografi. Del Medio Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce  neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come Voltaire, non so¬  spettando in alcun modo la profondità del suo pensiero  Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano  allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma  la sua vera indole, quella che noi dobbiamo guardare  in lui, è r indole poetica, convinti che fuori della sua  poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica  edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette  in rilievo di contro alle conseguenze negative della sua  filosofia teoretica, non ha niente che vedere coll’odierna  filosofia prammatistica, a cui egli studiosamente la rac¬  costa, per dimostrare così la modernità del pensiero  leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello  scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto  sempre la vita alla scienza, e salvata almeno quella dal  naufragio di questa. Salvataggio operato ora con la na¬  tura, ora col sentimento, ora con la volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come tale,  che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo  fondamentale. Leopardi ricorre all’ immaginazione e a  un certo qual senso dell’animo, che fan contrappeso agli  argomenti dolorosi della ragione e bastano a confortarci  a vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore del James e degli altri pram-  matisti d’oggi, i quali non sono scettici, benché in realtà  abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono  nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica:  ma unificano le due attività, e immedesimano la verità  con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia  esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe credere,  secondo L., sarebbe né più né meno che un’ illu¬  sione. La differenza tra Leopardi e James è la differenza  profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo  prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente  dommatica e positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra  gh studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e  competenti interpreti del pensiero leopardiano; ma con  altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leg¬  gere al principio del suo libro le seguenti parole; «Fu  tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal Cantella,  di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri  dello Zibaldone leopardiano; con esito che non poteva  essere altro che infelice; quando si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito,  per lo spazio di circa quindici anni, da quando prima  il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo  cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno degli  argomenti principali che a suo tempo io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del  poeta, la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei  prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle  Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio  del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul va¬  lore e sull’ interesse dello Zibaldone.   Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce  netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta  com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin-  cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la visione  esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero leopardiano e turbano il giudizio sulla sua forma ultima.  Cosi, quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo,  per la qualità stessa dell’autore; il quale sarebbe bensì  un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,  dominato interamente dal sentimento, e perciò di pensiero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli,  da una parte, esagera e àltera il mio giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta l’opera del L.;  e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬  bito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli  può consentire una ricostruzione storica non arbitra¬  riamente soggettiva, ma razionalmente giustificabile del  pensiero leopardiano. In primo luogo, non è esatto che io abbia negato o  voglia negare ogni interesse speculativo allo Zibaldone e  tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi sono  disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi  non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in  tutti i suoi gradi, che il problema speculativo, nei termini,  s’intende, in cui egli poteva e doveva porlo. Quel che  ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia del  pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse  negli scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto  di vista del L., fosse già pervenuto a quel punto  di maturità spirituale, di verità, in cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso volle  entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa  nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva  licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di  noi si prepara ai suoi lavori, e che, compiuti questi,  quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il succo,  si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle  note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano  venute correggendo e integrando in più logica compat¬  tezza ' ; 2) che si possa adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del tanto di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni dottrina sulla natura della poesia, basta  considerare le critiche profonde e ineluttabili, onde quella  verità fu superata da uno spirito, che ebbe inizialmente  una profonda simpatia congeniale col L., il Gioberti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione del Diario  sia stata un'indelicatezza, quando il Leopardi medesimo di questa  pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un indeli¬  catezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico di  pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del grand'uomo  che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a vene¬  rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue reliquie... ».  Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che scrissi io nella  Rass. bibl. tett. U.,  mi rincresce  di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬  mazione. La quale mirava soltanto a chiarire che dello Zibaldone non  ci si può servire se non come di documento della formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo per altro cercare  sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse l'autore, e pubblicò  egli stesso come sole degne di sé.  nel Gesuita e nella Protologia), in pagine che il Levi non  anteporrebbe di certo né pur a quelle dello Zibaldone.   L vero che « nei sistemi filosofici le parti più caduche  sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema ». Ma  ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬  mostra che è: perché gli errori di questo genere non si  scoiarono dal critico se non come errori della costruzione  del sistema, ossia come divergenze dalla costruzione che,  secondo lui, sarebbe più conforme alle verità fondamen¬  tali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse per  suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo  di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato  dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché  un giudizio che affermasse immediatamente : questo è  vero, e questo è falso, senza dimostrazione di sorta, non  credo che pel Levi sarebbe un giudizio per davvero.  E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non  è privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi  s’intende i filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti quelli che sono realmente  vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare, ecc.  Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos  intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie  rotte nel sistema, ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da  una parte e dall’altra. Ma noi non possiamo parlare di  Omero poeta e di Platone filosofo senza un concetto  del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia: le quali, come funzioni dello spirito, trascendono  la storia, che è la concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla filosofia come funzioni  trascendentali dello spirito si possono assegnare caratteri  distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto  tale non sarà della filosofia, e per converso.   Nella storia tutte le funzioni concorrono in un’unità  concreta, in cui il poeta, essendo anche filosofo, partecipa  del carattere dello spirito che è filosofia; e il filosofo,  essendo pure poeta, partecipa del carattere dello spirito  che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle  funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della storia, che fa essa stessa la divisione dei  grandi spiriti nelle due schiere dei poeti e dei filosofi,  secondo che negli uni prevale il momento poetico e negli  altri il momento filosofico; onde la distinzione e però  la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni  volta, funzioni di giudizio storico, concreto.   Perché il Leopardi va considerato come poeta, e  non come filosofo ? Perché, se conosco il Leopardi storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto,  io ci vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia  la vedo chiusa, compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che  egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e  poiché il suo occhio è tutto intento alla risonanza tutta  soggettiva, in cui vive per lui un certo, oscuro, vago e  frammentario concetto del mondo, la verità è per lui,  e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma nella vita di esso, in quella tale risonanza,  nella sua Urica. Beninteso che, per quanto oscuro, vago  e frammentario, quel concetto sarà pure un concetto,  che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente  alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta.  E non ci sono principii astratti ed estrastorici che pos¬  sano segnare a priori i limiti della filosoficità del concetto  che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non toglie che la  distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e che  non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a  volta, il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es-  senziaU ed assolute.  Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme  è in fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se  è suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo nei poeti, di  cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di  più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare e cercare un’attività etica con un suo  senso determinato e costante ». Ond’egli si propone di  cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie egli giunse  alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬  giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬  verso Ebbene, tutto questo è molto vago perché  possa servire di criterio alla storia del pensiero di un  poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una sola  soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le  differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è in fondo venga su, e si manifesti,  e assuma così una forma storica determinata. E se è  suprema esigenza etica che la nostra vita sia azione,  posto, com’ è necessario, che le suddette forme della  I grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più  d’una, oltre la suprema esigenza etica, ci saranno (dato  pure c non concesso che questa sia la radice di tutte)  altre esigenze supreme : come quella che la vita sia poesia,  e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci riflette  bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per  la sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un  ^ atteggiamento dell’uomo di fronte all’universo : poiché   ; quest’atteggiamento o è un pensiero, o l’imphca; e questo   pensiero, dovendo essere una filosofia, non può non essere anche una poesia.  In realtà, quel che cerca il Levi nel poeta, non è la   ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una metafisica,  I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del regno  soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del valore poetico  e del valore del contenuto filosofico della poesia, egli  non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro,  il problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira  quasi mai al giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma  si restringe a tracciare la linea di svolgimento del pensiero  che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto la sua  forma finale in una specie di individualismo romantico  corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò bensì  che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire  nel pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente  estetico, più che etico, di questa filosofia romantica a  cui egli aderisce: quantunque pur in questo concetto la  differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza,  qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa sistematicità, che è necessaria anche a una filosofia individualistica.   Il risultato degli studi del Levi, in breve, è questo.   Nel pensiero del Leopardi si devono distinguere due periodi; uno come di distruzione e dissoluzione dell’uomo,  l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo stesso;  il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !  mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo  periodo, e si aderge in tutta la sua grandezza, che è la j  sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza della sua p  infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso la fine |  del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo 1  Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a poco, nel J  gennaio 1824, quando il Leopardi pose mano alle Operette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- #  mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1  Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l  sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS  alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?.  e l’aver esposto definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri intorno alla virtù  e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone è il periodo  jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i  primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui  il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ri¬  trova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del suo  speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di  felicità, di bellezza e di grandezza ». La riflessione, in  questo periodo, che comincia intorno al ’20, si stringe  addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito  leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode  e distrugge. Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ?  e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo spi¬  rito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello  spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane  pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la  loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende  in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta  nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una espressione  ingenua della verità disconosciuta: espressione, che ferma  giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa  segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo  dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere  interpretata alla stregua del difettoso concetto che  egli ha delle attinenze della poesia con la filosofia,  e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione del  secondo periodo.   11 Leopardi, il 27 novembre 1823, scriveva nel suo  Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza  dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede  neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente  quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama    Storia, anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò  per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né accresce il suo amor proprio. Nel totale e sotto il più  dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione  inversa della forza propriamente corporale.... La vita è  il sentimento dell’esistenza. La materia (cioè quella  parte delle cose e dell’uomo che noi più pecuharmente  chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può  esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente  coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è  capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il Leopardi chiama sen¬  timento vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi,   « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : Di qui  innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli ha  avuto cura di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’ e  ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo  bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato  e il falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei  romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé e rispetto  all’uomo in generale, egli ha fermato con suffi¬  ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di  natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio  del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la  sua interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario  c’ è la coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il  concetto) di questa coscienza; il Leopardi sente la pro¬  pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli esseri  inferiori, e la propria grandezza come Leopardi sugli  uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non  pone mente che egli è grande, non perché infelice, ma  perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser  cuo nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore,  e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun patto  asserire che possegga la nozione della propria natura spirituale e della propria dignità di contro alla natura. Infatti  il possederla praticamente (e soltanto praticamente)  come vuole il Levi, che significa se non che non la pos¬  siede come nozione, bensì con quella immediatezza onde   10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza  di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto della sua poesia (attualità  reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché sarebbe  risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od  oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria  sulla natura, come opposizione e limite dello spirito, e  quindi sorgente dell’ infelicità.   Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col con¬  cetto del valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬  fonda ripugnanza che prova il L., pur quando  intravvede nella vivacità stessa della sua spiritualità  l’essenza propria del reale, che è sentimento, com’egli  s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà che  non ha posto nella visione pessimistica del mondo in  cui si chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle  circonlocuzioni « quella parte dell’uomo che noi chia¬  miamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la patente documentazione del fatto, che il Leopardi non si  solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo  concetto si fosse rivelato comunque alla sua mente, con  tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei  sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici »,  con tutto « il suo bisogno di concretezza », come avrebbe  potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che   11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non  è materia, e che la presunta concretezza della materia  come tale non è altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota altrimenti che pel sentimento che ne ha il vivente ?   Orbene questa contraddizione intrinseca tra il sentimento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza, e  il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della  nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fatalità assoluta del dolore, questa è la grande situazione  poetica del Leopardi rappresentata così splendidamente  dal De Sanctis nel saggio su Schopenhauer:  L. produce l’effetto contrario a quello che si propone.  Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede  alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore,  la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio  inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore;  e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al suo  cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede  possibile un avvenire men tristo per la patria comune,  ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma  a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la  sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita ».  Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto  e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua  poesia: ma non perviene mai a distinta coscienza degli  opposti motivi che vi concorrono senza scoppiare dentro  il contenuto (astrattamente considerato come filosofia) in  manifesta contraddizione logica, come avviene nella  Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so.  Certo, la forma leopardiana si regge sull’equilibrio di  questi opposti motivi, che sono la personalità del poeta  e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si mantiene  perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo,    ‘ Saggi critici,     à  nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo tipico,  nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica  nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove,  appena vi si contrapponga, come parte di contenuto (che  qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto al¬  l'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare  l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per  interpretare il Leopardi, non vedo abbia chiara coscienza;  e però scambia la forma col contenuto dell’arte leopar¬  diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a lui  d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima,  e cioè la poesia del Leopardi.   Tralascio i bei capitoli, che il Levi consacra alla storia  della concezione storica del pessimismo, quale si disegna  già nella critica dello Stato e della civiltà, della scienza  e della filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso   10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua espressione  nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un  vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo,  Alla primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo  periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della coscienza che il  Leopardi comincia ad acquistare della propria grandezza  dopo la dimora che fa in Roma: coscienza culminante da ultimo, in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano  intelletto, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza....  E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale  sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più  capaci della conoscenza, e del sentimento della propria  piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo periodo, il cui    ' Zibald.] pensiero il Levi vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della  Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un  Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e nelle note  sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo  dall’uomo il Leopardi ritrae la causa del dolore universale  nella natura; alla concezione storica del pessimismo sottentra quella cosmica; ma di fronte alla natura ineso¬  rabile artefice del nostro doloroso destino e imperscruta¬  bile prosecutricc di fini divergenti dai fini dell’uomo  s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:  dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo,  e pur creatore del suo valore nel virile disdegno d’ogni  illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nel¬  l’affermazione, insomma, di sé come coscienza del dolore.  Onde il Leopardi acquista una serenità, una sicurezza  ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima  sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo.  Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione del Levi, il suo modo d’intendere questa forma  suprema dello spirito leopardiano.   Ma contro questa interpretazione vedo due princijiali  difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre con  qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere  interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i  documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che  riguarda l’individualità dell’uomo, che in questo secondo  periodo starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria  dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la designazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e magnanime », che vengono a provare  « piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine »,  comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto  il L.: ma non come individuo che crea se stesso,  col suo valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo.    che può nello spirito vincere l’avversa natura e toccare  (juindi la beatitudine da questa contesagli ; ma è l’im-  niediata condizione spirituale del Poeta, la cui serenità  estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il dolore.  11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di  ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura  dell’universo, e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della  beatitudine che spira intorno al nume, figliuolo di Venere  celeste, non v’ è giustificazione, né quindi concetto.  « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili  a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla  consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per  questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né  potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è l’anima  che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come  concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce  serenità che si diffonde per tutta la prosa: ossia la forma,  la poe.sia, non il contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬  pardiano.   Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella individualità che il Levi vede nelle varie  prose al di sopra del pessimismo cosmico, fino a Tristano  che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo  al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri  uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione:   « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni  cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta  credo fermamente che non sia desiderata al mondo se  non da pochissimi. In altri tempi ho invidiato.... quelli  che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri  mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio  più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con  loro mi cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura,  perché e come potrà farsi una caratteristica del secondo  periodo se nel primo periodo resta, per esempio,  il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che  guerreggia teco   Guerra mortale, eterna, o fato indegno;   e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge  magnanimo contro i numi e l’empia sorte, e, conscio  della propria grandezza al di sopra del « velo indegno »,  emenda il crudo fallo del cieco dispensator dei casi ?   Però credo che nell’esame dei canti del secondo pe¬  riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e  suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più  d’una volta tormentata affinché risponda docilmente ai  preconcetti filosofici costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬  mento sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su tutto,  e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non  ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il  Leopardi canta:   Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni;   Sopire in me gli affanni  L’ingenita virtù.   Non l’annullàr, non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L'infausta verità . . .   Pur sento in me rivivere  Gl’ inganni aperti e noti;   E de’ suoi proprii moti  Si maraviglia il sen.   la chiave, l’intonazione della poesia è in questo mera-  vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento dell’ ingenita  virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché tale.   j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità  della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza,  perché meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia,  questo stupore innanzi al subito rianimarsi del mondo  al risorgere del vecchio cuore, la poesia è svanita.   Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se stesso,  secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,  disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬  soluta solitudine della sua grandezza » ; e cita i versi ;   Non vai cosa nessuna  I moti tuoi, né di .so.spiri è degna  La terra. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.   Ma dov’ è qui la solitudine della grandezza, se il Leo¬  pardi vi nega ogni finalità ai moti stessi del cuore, se  cioè non crede che il cuore possa aspirare a nulla, e tutti  i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco sotto  r immane fatalità ?   Infine : « La Ginestra », dice il Levi, « è da taluni,  non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo conte¬  nuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me sembra una cosa grande, anche per quella  maschia e dantesca sprezzatura, onde il poeta non rifugge,  per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere la sua  melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in  versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno  all’ immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo,  eppoi la straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬  viane. La bellezza di questa nasce da cosa molto più  alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è l’in¬  tensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e  la potenza di una personalità, che si colloca di fronte  alla natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene opprimere ». Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande  per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la  poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬  menti che interrompono davvero la poesia, il Leopardi,  mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo la  sua poesia; dato che la grandezza della poesia non possa  essere altro die il carattere eccellente di una poesia,  tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e  tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persua¬  dere ad esaltare la Ginestra per il suo contenuto morale;  poiché questa parte appunto (oltre che la polemica contro  la filosofia e contro Mamiani ROVERE (si veda)) è quella  in cui è compromesso l’equilibrio lirico della poesia;  ma mi pare anche un errore staccare la bellezza delle  meditazioni sul contrasto tra la grandezza sterminata  dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della  descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di  tutta la ])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le  altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la bellezza della ginestra, del fior gentile, immagine del Leo¬  pardi, che, mentre tutto intorno una mina involve,   al cielo   Di dolcis.simo odor manda un profumo.   Che il deserto consola:   l'espressione più delicata della divina poesia leojìardiana.  E dove il Levi afferma con intenzione, che la bellezza  non so se della descrizione delle eruzioni vesuviane o se  di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta che  non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina  estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò  che egli mostra di non aver forse compreso che s’intende  in questa dottrina per espressione : perché l’intensità  tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso  dalla espressione, se di questa intensità tragica intende    parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espres¬  sione va cercata nell’atteggiamento individuale che lo  spirito assume di fronte a una certa materia, e questa,  quindi, in lui.   Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte  alla natura.... senza lasciarsene opprimere ? — Qui sa¬  rebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra  non supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo,  non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph-  cherebbe indarno al futuro oppressore. Non c’ è, dunque,  né pur qui, l’individuo che si contrappone alla crudel  possanza, ma la serenità pacata della coscienza della  sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che  affermazione romantica dell’umana personalità.   In conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la  poesia leopardiana si sottrae e repugna, per richiudersi  sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos lirico.   ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con alcune  osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente  lettera :    Egregio Professore,   Mi par difficile discutere delle interpretazioni parti¬  colari di questa o quella poesia o altro documento del  pensiero leopardiano senza rimettere in discussione il  concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro.  Perché le mie osservazioni singole non miravano a con¬  futare singole opinioni e determinati giudizi, né a mo¬  strare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a far vedere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con  cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono leggere nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune delle  mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire  r intento generale e il significato complessivo del mio  articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel luogo  citato dello Zibaldone con vita o sentimento  dell’esistenza H L. intenda la coscienza,   10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto,  della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale,  in quanto parte di una generale intuizione del mondo,  era ciò di cui Ella aveva bisogno per cominciare a vedere  nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana.  Con ciò io non dovevo attribuire al L. soltanto   11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa  dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un  senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari  un concetto, che però non era un vero concetto, della  coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza, ma  non la pensa; sicché per lui pensatore questa coscienza  è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che « praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale,  egli ha fermato con sufficiente sicurezza la nozione di  ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità ».  Il senso della spiritualità e della dignità spirituale di sé  e dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo  essere non il contenuto (la filosofia, il concetto) della  poesia leopardiana, ma la forma (la poesia, la lirica,  l’espressione della personalità del poeta, superiore alla  sua filosofia).   Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda infelice  perché grande, piuttosto che grande jierché infelice.  Ma questo non ha che vedere con la mia osservazione  che, se egli avesse avuto il concetto della coscienza,  avrebbe veduto la propria grandezza in un grado spiri¬  tuale che è al di sopra del dolore e della infelicità. La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza  vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del  dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬  sione sub specie aeterni del dolore stesso, non può non  liberare da esso il soggetto. Nel Dialogo della Natura e  di un Anima il Leopardi, phi che far dipendere l’infe¬  licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra. L’Anima  domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬  naria sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando  sieno due cose, non le potresti tu scompagnare l’una  dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle anime degli  uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i generi  di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi  il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa  maggiore intensione della loro vita; la qual cosa im¬  porta maggior sentimento dell’ infelicità propria ; che è  come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove è chiaro  che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè  eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale  in quanto è sentimento di essa, cioè quella vita, nella  cui intensione consiste l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare la propria  grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non avrebbe  fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la nozione della vera realtà spirituale,  che in lui spontaneamente s’afferma quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i « mag¬  giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi  annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori, e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con  altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al  mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è quel dolore impietrato, di cui io parlavo come  dell’unica forma possibile del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza, e quindi di  quella vita del dolore che non è più dolore nella vita  dello spirito il Leopardi non ha coscienza.   E però il contrasto interiore che io vedo nella poesia  del Leopardi è identico a quello che ci vedeva il De Sanctis,  anche se, nel passo citato da me, rappresentato da un  solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della  personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni sostanzialità spirituale, propria del con¬  tenuto della sua poesia.   Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto  che il primo periodo citato da me sia ; « E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole precedenti erano state  pur da me riferite immediatamente prima fino a  Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né  piega il capo al destino, né viene seco a patti, come fanno  gli altri uomini » Ma queste parole non potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce  il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dia¬  logo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella dice, della propria per¬  sona empirica; perché la morte, pel Leopardi, non di¬  strugge soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere  dell’ mdividuo.  Mi piace ricordare la felice osservazione di Sanctis {Studio  sul Leopardi). Leopardi ha la forza di sottoporrei  il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fab¬  bricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche  la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e  fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e  appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare]  Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono  stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del  poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella  contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina  la faccia. Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra  ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e  Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma  la si attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬  siero di suicidio, non occorre negarla per non vedere  né anche nei componimenti più tardi quella coscienza  jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.  ^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a  scorgere, « quella robusta fede nella grandezza umana,  riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a se  stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice  che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo,  in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né  di ritenerla né di lasciarla ». E, se non m’inganno, la  nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della tol¬  lerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni  sono bensì la critica del pessimismo materialistico del  Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, baste¬  vole a conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa  che gli è propria, e sono veramente l’opposto di quella  affermazione dell’ individualità dello spirito, di cui si va  in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione e  della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni;  0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno;  non è di sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima  di addolorare colla uccisione propria gli amici e i do¬  mestici; è di non curante d’altrui, e di troppo curante  di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso  non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca  se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro  alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto  che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il  più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men  liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo».  Se prendessimo atto di questa critica del suicidio — che.  risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come  effusione di stati immediati deU’animo, ma non come  filosofìa — che filosofia diverrebbe questa del Poeta che  ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo  sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo  all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera del  piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte,  senza questa contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta  è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr.  la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione intima  di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia  del commovente dialogo ?   Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento posso  sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba  intendere altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giu¬  dizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto  persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle  domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi  ridesta ? Che virtù nova è questa ?... Chi mi ridona il  piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ;   Da te, mio cor, quest’ultimo  Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto mio  Solo da te mi vien;   ed è vero che nella quartina precedente l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione del problema, in cui consiste la  poesia : l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vec¬  chio cuore. E quindi il sentimento che regge tutta la  poesia mi pare la meraviglia. Ragione, invece. Ella ha  certamente nel correggere il significato da me attribuito ‘   In un periodo ora non più ristampato dello scritto precedente.     agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur dopo la  correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla tesi dell’affermazione della propria grandezza,  gi a quella del grido della disperazione, comune a quasi  tutta la poesia leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia-  luato, della personahtà del Poeta che non si lascia opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna  vedere quanto questo motivo sia attenuato qui dall’umile  coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua. Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato  e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver  le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e  sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli  uomini fra sé confederati, e nella poesia consolatrice che,  commiserando i danni altrui, manda al cielo, come la  ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che consola  il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo  innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla alla gentilezza  del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante,  né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente  cantata dal Leopardi.   Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere  chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬  diani; e io voglio sperare che questa discussione possa  invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose del nostro  grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non  staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di  nuove ricerche. Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof. Bertacchi >  si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di  Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme unità  gli elementi dell’opera sua nei quali parlino più alto le  feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di mcn ;  triste ricorre neUe pagine del Nostro; quanto di attivo  e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j   mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^  se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la '  cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j  strare tutti gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1   leopardiana. 1;   Elementi che non mancano certamente nella detta 'i  poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del suo j  pessimismo, come già osservava sessant’anm fa il De San- '  ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che allo  stesso concetto aveva accennato un ventennio prima *  Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); ,  e conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I  solato pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. |  E molti studi diligentissimi furono fatti in questo senso i  da Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano t  rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J  direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il ,  carattere dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l  timismo edonistico od estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft   vita-. Sag^o leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna, /a  nichelli, igi?-    stratto e superficiale può vedere in alcuni aspetti della  sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi è  la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della  lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come  egli le chiama, a cui non trova posto nel mondo, guar¬  dato come cieco crudele meccanismo naturale; ma che  non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più  vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo purificato e rasserenato in questa  intuizione schiettamente spiritualistica. La quale, d’altra  parte, non a\Tebbe il suo proprio particolar significato,  disgiunta dalla negazione pessimistica della vita dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il  contenuto. In questa contraddizione intima tra la natura  cattiva e lo spirito buono che in sé accoglie la visione  di cotesta natura, consiste proprio la radice, da cui trae  alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender la  quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro  dei due elementi contradittorii.   11 Bertacchi invece crede di poter quasi cogliere  in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬  lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia  il Poeta in rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro  ai suoi canti una sensazione di letizia; per modo che,  contro r intenzione del Poeta, la sua poesia tratto tratto  scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata dal¬  l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia  una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur  seppe attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far  sentire il bello e il sereno di natura; vita ravvisare e  creare le fide corrispondenze con essa », e poi « l’uscirle  incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impre¬  gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o  contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di  atteggiamenti e di modi, circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso sensibile le conchiusioni jiiù nostre  e i significati inattesi » ecc., e il Poeta studiato « ne’ suoi  fedeli commerci con la natura esteriore » apparirebbe  maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia  e ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma  la vita di cui sarebbe maestro il Leopardi è una vita di  piacere | del piacere procurato dalla intuizione estetica  della natura.   Tesi in parte ingenua e oziosa, in parte falsa. Perché  se si volesse dire soltanto che il Leopardi insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar vita  estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma  così del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta;  e non c’ è nessun bisogno di dimostrare questa tautologia,  che un’opera d’arte, qualunque essa sia, è rappresenta¬  zione estetica; e quel che può avere un interesse e un  significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo  un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la pretesa d’indicare attraverso questo  vagheggiamento fantastico della bella natura una vita  diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che questi  ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra  squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne  accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce  di questa s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto  erronea; e giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi  candidamente esposto fin dalla prima pagina del suo  libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.   Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che  l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche  per il modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno  di noi », poiché « spesso dalla parola d’un autore, acco-  r   stata alle anime nostre, si svolgono sensi ulteriori che  l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e le  somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare....  Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di  significazioni e di uffici ». Sicché il Leopardi maestro di  vita è il L. dei sensi ulteriori e non il L. storico; il Leopardi creato più che il creatore: creato,  s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una  volta sul punto di creare, non è più legato da nessuno  dei vincoli onde ogni critico e storico è legato alle opere  che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti  leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti  soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma-  I gine del maestro di vita che desidera raffigurare.   Così comincerà con lo scartare le prose ; perché « nella  voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore sinistro  svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio  di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;  «egh non suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬  zione a quella sua logica amara ». E il Bertacchi vuol  dire che lì c’ è il pensiero del Leopardi, e non c’ è la na¬  tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che  non è poi vero, se si considerano almeno la Storia del  genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese,  La Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel  Bertacchi le Operette morali sono filosofia e non poesia.  — Da scartare poi le poesie in cui il Poeta «trasferisce  nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar  musicale, dalle pur rare imagini che infiorano il discorso  qua e là ». E con questi caratteri il Bertacchi non si pe¬  rita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli, la Palinodia  ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.  Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella  donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! — Scartate, almeno questa volta, le  poesie in cui il Leopardi parla bensì diretto al nostro  cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma can¬  tando se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna  ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal  caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora  in sé in quanto essa gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso ». —  Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento  di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vinci¬  tore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si  resta, sebbene con ampiezza maggiore  nell’ordine  voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima  al cospetto della natura: «vive con la natura, o almeno,  nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena ».   Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può  spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi ulteriori.  Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi  in cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta,  sono sempre evocati nei loro aspetti più belli ; soleg¬  giati sono i suoi giorni; le sue notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in  un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro,  riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina,  attraversata dal sole che entro vi trema sorgendo».  E questa presenza della natura « non è senza effetto per  noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro  ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o  le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano  terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole,  seguirlo nei suoi tristi argomenti, veder quella bella  natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il contrasto  che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non  possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel  sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e  festi in noi quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il poeta  vi associa, congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante  visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi si  raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà avver-  t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana,  un senso ulteriore, che il Leopardi non ci mise (come  il Dante della novella sacchettiana), ma non ha più niente  che vedere colla poesia del L. E dove pare si  accenni a un giudizio critico, non può essere altro che  una vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore.   Così il Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio  e nella Quiete dopo la tempesta « il poeta ha compromesso  il filosofo versandoci con troppa pienezza nel cuore  tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un  errore, perché tutta quella poesia traboccante è l’incar¬  nazione deU’ idea stessa del filosofo, che nel Sabato non  si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette è  il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman  tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la  rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la  gioia d’una speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità della fanciullezza ma non  quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo  già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬  guate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna  non vedere questa pietosa malinconia, che prorompe da  ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica donzelletta  tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole, cioè  chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un  dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende  la mano al filosofo. O. c., p. IO.  Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1 altro La vtla,  solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza, la¬  sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere  a queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬  spensione fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia  perplesso sul proprio stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \  luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente il  piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del  proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,  ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria  fluttua soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e  la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del poeta,  e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c  solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto,  che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri  lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,   alla reina FeUcità servi, o natura »).   Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in  cui propriamente il Bertacchi affisi la poesia del L. invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.   Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo  per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poe¬  ta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra,  riviviamo tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione  di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che essi nell’anima  nostra, non afflitta da quelle cagioni, lascino pure qualcosa  della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa  e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e  j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come sorte da noi, alle sensazioni già  nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano, troppo  umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la  poesia, per dir la verità, non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del Ber-  tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed  a noi, godendo e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della complessa sua  opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa di  vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne  siano gli aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui, che era in se stessa, per lui,  elemento e ahmento di vita ». « Quelle mitologie che, sia  pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi la  visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura  d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme  all’ inconscio e aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa  la fanciullezza dei singoli, la giovinezza dei popoli ».  «Momenti e motivi reali, più che di pura idea, sono que’  tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi  di canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad  avvolgere in aura di poesia.... i temi son temi e temi  che, comunque, ci attestano come la stessa malia delle  sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio indugiar  sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri » ».   Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi  ama troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove  forse i sensi ulteriori gli soccorrono più lenti alla fan¬  tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi  liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle  notti medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di  noi certamente, in qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi in cuore un’eco  di quei canti stellati, e ripensando al poeta congiunto  da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli  è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi  di oratoria ritmica ; alla quale potranno non mancare  gli ammiratori; ma in cui non direi che sia ricreato i]  L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio che  quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture leopardiane che il Comitato della  Dante Alighieri di Macerata istituì nel 1927 presso quella Università;  nella cui Aula Magna questo discorso venne pronunaiato il 13 feb¬  braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia. A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di  letture leopardiane c’ è da essere assaliti da un certo  sgomento, per la responsabilità che si assume. E ciò  per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si rajjpresenta generalmente come un maestro di  pessimismo; ed alzare una cattedra a illustrazione del  suo pensiero e della sua poesia può parere perciò tutt’altro  che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a  vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬  cismo e di allargare il petto ad energici sentimenti di  fiducia nelle proprie forze e ad alte convinzioni di fede  nella vita che è chiamato a vivere. Oggi sopra tutto,  che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di grandi  doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare  nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella  educazione della gioventù a maschi propositi e metodi  di vita l’antica fibra del carattere nazionale. E sarebbe  questo il momento di diffondere nei giovani e nel popolo  gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia  non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa  vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?   Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo  confesso, non turba tanto l’animo mio quanto l’altro  che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella istitu¬  zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una  elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene  che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiam¬  mato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e negl’ ideali  che fanno degna e feconda la vita umana degl individui  e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬  mento di letture pel pubbhco, diventi anche lui materia  di quel malfamato genere letterario che troppo è stato  coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi  delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto  il suo tempo, e potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬  tudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’ Italiani si  persuadano che, se si vuol far davvero, e stare tra le  grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile,  realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla  testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e  morale, bisogna romperla col passato. Dico col jiassato  dell’accademia e della «letteratura», dei sonetti e delle  cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e  colti signori in cerca di onesti passatempi, più o meno  noiosi; in cui ogni argomento era buono purché legger¬  mente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato  con oratoria adatta a mover gli affetti e guadagnare  gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né ascoltatori  debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o  di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con  tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice  o si apiilaudisce, conseguenze che siano norme di con¬  dotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si  dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona  fede, e anche in mala fede, compiono un’azione e si pre¬  parano a compierne altre; e non vuol essere una predica,  che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che  nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio,  nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno   Si    ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con   è venuto alla conferenza.   Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si sviluppò  durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne  fuori il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬  damente per tutto il suolo del bel Paese, tutte quelle  accademie dai nomi strani e burleschi che attestavano  es«i stessi la frivolezza dei propositi e la spensieratezza  jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano; accademie,  che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia dalla  nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬  stono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti  nioderni e alla storia, e vivacchiano oscuramente sul  margine dei bilanci dello Stato nelle provincie e anche  nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a danno  delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬  cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime  e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso,  morale, filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filo¬  sofia alla moda, erudizione per l’erudizione, scienza per  la scienza, nessuna fiassione, né anche nella letteratura  politica, che legasse il pensiero alla persona e la persona  al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui l’uomo  non era cittadino della sua patria, né padre della sua  famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito  innamorato di astratte forme, senza attinenza con la  pratica della vita e con la realtà degl’ interessi personali.  Cultura intellettualistica, di cervelli magari pieni zeppi  di notizie peregrine e di squisite nozioni e raffinatezze  di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né amori.  Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,  cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini  proni alla frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad  ogni alto e generoso sentimento e ad ogni idea la cui  attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile, MaiXrZoni e L..  Chi non conosce queste debolezze dello spirito italiana  nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^  risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella  cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri  ha cominciato a sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo  e che poesia, come ogni altra forma d’ingegno, vuoi  dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa che  j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra  le genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe  stata una creazione effimera ed insignificante senza gl;  Italiani ? Cioè senza Italiani che cominciassero a unire  e a fondere insieme quel che avevan sempre diviso, l’in.  teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la scienza  e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola  finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica  e con tutta la vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il  dire e altro è il fare », per cominciare a prender sul serio  tutto, a lavorare tenacemente, a sentire come proprio  r interesse comune, a stringere la propria sorte a quella  della patria, a sentirla perciò questa patria come intima  a sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei  si muoia ? Chi non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori  si doveva pur rifare di dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma  venuto meno lo slancio morale di quell’età eroica, tale  aspirazione si attenuò e fu meno sentita; e nei riposati  tempi di pace e di raccoglimento succeduti al periodo  agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,  certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla;  nel rifiorire della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del secolo scorso, in cui  r Italia parve godersi le prospere condizioni acquistate  con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed  elegante; e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu imitato  jn tutte le principali città, e i conferenzieri più brillanti  f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando  j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro  pagine patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva,  del lor^^ pubblico di dilettanti di cultura a buon mercato.  Perché a certe conferenze, con certi nomi, di dire che  l’ora é lunga a passare pochi hanno il coraggio.   L. non può esser materia di conferenze. Vi si  ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i luoghi solinghi e i silenzi della notte  dove il suo canto possa spandersi in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito; dove  il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a  fronte della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi  segreti del suo cuore. Vi si ribella la religiosa austerità  del suo spirito tormentato dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e orgoglioso  della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e far  suonare la sua voce esile e tremante di commozione in  mezzo a un numeroso uditorio distratto e proclive a  mondani pensieri e a cure di frivola oziosità o di vanità  letteraria.   No, quanti amano il Poeta, non tollereranno che  anche L. venga alle mani dei pedanti, dei letterati,  dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto di  vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi  che fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla  sua vita con vigilante coscienza morale. E io inizio questo  corso formulando il voto e, per cyuanto è da me, fermando  il programma, che qui sia sempre vivo e presente  L. poeta, che è il L. degli uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap.  passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples.  sione e si precluse la via a ogni godimento della vita per  la furia con cui nella età più giovanile si gettò sugli studi  per puro amore di sapere. Per molti anni aspirò, finché  la perduta salute e la vista indebohta non gli ebbero  create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo  consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia  degli accademici, fu anche lui studiosissimo, ancorché  ironicamente guardasse dall’alto, per la coscienza che  ebbe del suo più squisito gusto e della sua più perfetta  dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma  la sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella  letteratura. Se ne servì come di strumenti a vedere e  sentire più addentro nel proprio animo, e di grado in  grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la prova  più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse  sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando  la vita, studiando gli uomini, speculando sulla natura e  sull’anima umana, indagando i destini dei mortali e le  forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel suo iiensiero  la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il suo  pensiero è una continua, commossa meditazione su se  stesso, in forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge agli interni occhi  trepidanti.   Leopardi, con diversa temperie spirituale e cultura  diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio di  quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e  ne sente il valore e la serietà; profondamente differente  da quella anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti  italiani cominciarono ad accorgersi che nella stessa poesia  c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo; l’uomo, che è legaio    da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti della sua vita    a una divina realtà, governata da leggi che domano e  annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una  realtà, in cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo  da cui si diparte morendo, ma in cui deve inserire e  jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni sua azione,  ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sentimento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello  jella morte. Anche Leopardi, razionalista e irrisore di  superstizioni e di dommi, è uno spirito profondamente  religioso, sempre faccia a faccia del destino: incapace di  abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di  prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso  è sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si  scorge il pacato accoramento dell’uomo che non riesce  a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso  dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in particolare, si sforza di vincere il dolore. Per  questa sua costituzionale religiosità Leopardi non fu  soltanto un poeta, ma fu anche un filosofo, allo stesso  titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam  così, di professione, ai filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi risponderanno che  Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee  speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti  più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta personale, perché non furono fecon¬  date da una sua speciale ispirazione. Accettò, riecheggiò,  Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo,  ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità. In una storia della filosofia ei perciò non può trovar  posto; quantunque di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura filosofica della  prima metà del secolo passato. In questo senso, d’accordo, Leopardi non fu un filosofo.   Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare della  filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei  filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare  tutti gli uomini, e non essere una malinconica fantasti¬  cheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello  per cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh che,  senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove  sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno  prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e  forza dello spirito, in cerca di risposta a domande che  sorgono spontanee dal fondo della loro anima, insistenti,  invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere e  far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa  intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da  cui sono senza tregua assillati. Giacché, insomma, la filo¬  sofia, come la poesia, non è privilegio né monopoho dei  pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in fondo allo  spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,  c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto  nelle esteriorità da non portare in tutto l’accento, per  quanto leggiero, della sua personalità; e c’ è chi si ripiega  e raccoglie in sé, e dentro di sé cerca, trova e coltiva il  germe della sua vita e del suo mondo.   In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi  fu squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con  gli occhi intenti, ansiosi, sopra il mistero della vita, quale  ad ogni uomo che sente e che pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi  passioni svariate che gli tumultuano incessantemente  pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può vivere  così spensierato e abbandonato all’ istinto da non av¬  vertire che la sua vita non scorre tranquilla com’acqua  sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli  da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora  appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la  gioia offuscata sempre dal dolore, che, vinto, risorge in  mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna vicenda di vittorie  e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e disinganni,  giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire  totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della  sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue  labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di colpirci, toghendoci per sempre e an¬  nientando intorno a noi tante delle nostre persone care,  con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro  ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa  morte ? e che questa vita che precipita fatalmente nella  morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di non  arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una  tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie,  ci priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille ostacoli. ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci  concede tregua finché non ci abbatta per sempre ? Nascere  è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede  sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre  più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più  aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti  0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura, del  destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per  soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la nostra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men  difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire;  salire sempre; da un gradino all’altro: sempre più  senza fermarsi mai.   Ma, appena l’uomo che ha un cuore, sente quest  affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la catastrofe”  non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta ché  par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz.  sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi  confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa  per conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita  sua, quale ei la vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia  mette in moto la sua attività; e se egli non debba aprire  gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco inesorabile  della natura, granello di polvere sperduto nel turbine, o  ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato  movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i]  quale ogni sforzo di volontà non può essere, esso mede¬  simo, al pari delle idee e dei sentimenti che lo solleci¬  tano, se non un necessario effetto di una causa necessaria  predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui  si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa  neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi  dentro di esso, tutt’uno con tutte le altre cose, anche  noi mossi dalla forza irresistibile del destino ? 0 siamo  noi veramente capaci di metterci di fronte a ciuesto  mondo, modificarlo con la nostra opera, con la nostra  volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo  naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬  stro innamorato dell’ ideale, instaurare una legge che sia  la norma del bene e di un mondo spirituale dotato di  un valore assoluto ? E se non fosse possibile questo  mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male,  e c è una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe  pensare lo stesso mondo inferiore e quella natura spietata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui affermazione implica che si ritenga vera? E se a questo mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello  spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^ contrario, se ne contrappone un altro che è  la nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere  che sia libera la natura umana, circondata e condizionata da una natura che è l’opposto della hbertà ?   Pensieri, che il filosofo più esperto mette in formule  stringenti, e scruta a fondo; ma che confusamente, e  non perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni  umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di cui ogni uomo ha bisogno per non  fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un passo senza  credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta  innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona  per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi,  e gli manchi del tutto, allora non gli resta che rifugiarsi  nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno  invece sentì mai cosi acutamente come il nostro Leo¬  pardi. nessuno vi pensò mai con tanta insistenza, e ne  trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il Leopardi  se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta  in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni  filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero  al cuore, e \'i si abbarbicarono, e furono la sua persona,  lui stesso, la sua anima, 1 immediato sentimento, in cui  \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La sua concezione  della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche idee,  ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma  della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in  accenti e fantasmi di poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e del sapere  speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e  si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e far sua, e viverne anche, ma elevandosi  sopra di sé e quasi uscendo da sé, e mediandosi, cioè  svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo vivente  della sua individualità, in guisa da parere che non senta  più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta  nella contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia,  lungi dall’alienare da sé il soggetto, lo stringe a se stesso,  e lo fa vedere immediatamente così come esso è, dentro  di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel  brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere  e nel suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato,  riflesso, ragionato e disindividuato. Lo scienziato cerca  e trova la verità che è di tutti, astrattamente obbiettiva,  in guisa che non par più né anche spettacolo di occhi  umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa;  e il poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso:  l'amore o qual’altra passione gli detta dentro le parole  in cui egli si esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello spirito poetico è il segreto della miracolosa  potenza della poesia, raffigurata dagli antichi nella virtù  incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che  solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda  anch’essa cultura e finezza spirituale, risultato di studio  e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e delle  moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non  per virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino  miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte  è senza paragone superiore a quella della filosofia.   Perciò quella filosofia, che fu nel Leopardi sentimento  e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente  maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si  chiudesse nel gretto circolo di una concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di educatori del popolo italiano erigere qui una  cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi,  per raggiungere la loro verità, devono salire l’erta faticosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per solito  in una solitudine magnanima, anche a malgrado della  moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti  si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche  lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si  scopre ». Leopardi è tra essi; ma materia del suo  canto è la sua filosofia.  E qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ?  Quello che abbiamo già detto dei problemi filosofici, che  spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero umano,  ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei  problemi martellò il suo pensiero; e di quei problemi  vagheggiò soluzioni, che scossero profondamente il suo  animo. E sono i problemi fondamentah o massimi della  filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno  di assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile  per vivere: la fede nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo  giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi un  suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi  ideali e non dibattersi vanamente in una rete di illusioni  e di sforzi infecondi. Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬  sofia materiahstica, evidentemente, è una filosofia fallita;  la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse da  ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come  ho detto, al suicidio.  Ora Giacomo L., ogni volta che si trovò a fare  di proposito una professione di fede, fu esplicito nel  manifestare la sua adesione alla filosofia sensualistica e  materialistica; e il Frammento apocrifo  di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è  una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per  altro, si ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti  in prosa e in verso. Poiché da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata nel  Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa  e non si cura dei desiderii né delle sofferenze umane;  natura grande, enorme, infinita, la quale racchiude in  sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende di  contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle  proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una  vita bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere  in concorrenza della dura, quadrata realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni  umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale  delle leggi di natura: dove non c’è bene né male, ma  tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa  che lo determina, non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva  da un principio autonomo, che si faccia centro di una  vita superiore e indipendente, avente in sé la propria  misura, ma è effetto del generale meccanismo, che si  abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in  conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a riflettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni ma¬  terialistiche : uno proprio degh spiriti poco sensibih, che,  raggiunte quelle conclusioni, vi si rassegnano: le trovano  inevitabili, e si fanno un dovere, il cui adempimento  non costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione  di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se  non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore  e la manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro,  e vi si ribellano con tutta la forza del loro sentimento,  che ò come dire della loro stessa personalità. I secondi  non riescono ad affisarsi tanto nella visione di quella  natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬  fatto di queste esigenze, e cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da questo  stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare  l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto  vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una  parte, la natura disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬  lumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra,  questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde dentro  di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano  e vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di  una affermazione, in cui lo spirito umano manifesta la  fede che ha nelle proprie forze e nella propria capacità  di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al primo  in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì  di fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale,  meccanica, chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello  spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di  attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra.  E per ammettere questa, bisogna ammettere prima quella ;  senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si  chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà.  Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero,  con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride  alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose  belle e buone, a cui il nostro cuore tende con irresistibile  slancio ? E come spiegar l’ali, onde noi vorremmo innalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul  muro di bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ?   Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa,  che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo materialistico;  ed essa è il reale contenuto della poesia leopardiana:  quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho detto  esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non  si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché  la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il  cuore, è la negazione del materialismo; e poi perché egli  è un poeta, e come ogni poeta crede nel suo mondo, lo  prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più  luminosa della sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali  dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo  religioso, lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà  che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca scientifica,  alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in sé  quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo deve arren¬  dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente,  celebra la sua assoluta libertà, arbitro della nuova realtà  che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria:  sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga a  orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e  del divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬  pidante tenerezza per le vaghe immagini figlie dell’arte  sua: per quelle dolci parvenze che un po’ gli sorridono  e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore  che essa cagiona ai cuori teneri e gentili. E insieme con  le immagini belle, gli arridono tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non  ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione  (ji quella mezza filosofia, che è il materialismo: le beate  lar\e, che allietano e confortano la vita agli uomini,  nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e  della gioventù quando non ancora si sono appressate le  labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del  mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha  riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica.  Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie : di tutte,  cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che quella  filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate  di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare  dallo spirito umano.   Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea  onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi cono¬  sciamo, risponde il Leopardi, ne è la negazione. Ricordate  il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere ? L’almanacco promette per l’anno nuovo tante  cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è  una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa  che non si conosce ; non la vita passata, ma la vita futura ».  La quale però un giorno sarà passata, e allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro  è il mondo che vi finge lo spirito; il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male e  trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore;  lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non  è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga,  e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo  averla innanzi a noi, ed effettivamente conoscerla, quella  ci disillude, e ci dimostra che la virtù è un nome vano.  e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più cari  finiscono nel nulla.   Tant’ è che Tuomo conchiuda o per condannare come  semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che la  vita non si può governare se non in rapporto al reale  all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o  per risolversi animosamente a dir no a questo mondo  reale (che è il passato senza futuro) e a governarsi con  l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di es¬  sere pensante, e perciò creatore di ideali e vagheggiatore  di una vita superiore a quella puramente naturale. E L. dice questo no con tutta la forza del suo animo,  con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto  proteso verso il futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale che  incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il  brutto poter che ascoso a comun danno impera e V infinita  vanità del tutto. Per lui   Nobil natura è quella  Ch’a sollevar s’ardisce  Gli occhi mortali incontra  Al comun fato. E quanto a sé non cederà certo ; e alla morte può dire:   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   I.a man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir....   Solo aspettar sereno   Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto  Nel tuo virgineo seno.   Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima umana  pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice.  Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è solo  jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si  jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e regnano sovrane in quella superiore realtà che è propria  dello spirito. Leopardi sa che la grandezza del suo dolore  si commisura alla grandezza del suo pensiero che lo sente  e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto; e che  un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto  il dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride.  Leopardi sa che la coscienza dell’umana miseria è già  segno di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha suoi di¬  letti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà un amaro  gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e stanca  della vita che non mantiene mai le sue promesse, si ri¬  duca infatti all’estremo della infelicità, che non è la di¬  sperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non dolore  né piacere, ma il sentimento della nullità, questo terri¬  bile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi  potesse cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria  «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri oggetti,  e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri  oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e immedia¬  tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi  de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche  allora l’anima non cade, non è vinta. Giacché, secondo  Leopardi, « la noia è in qualche modo il più sublime dei  sentimenti umani. Il non potere essere soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia.  La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili,  anche i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del  bene, a tutti.... fuorché alla noia» (Zibald.).  Zibald., Giuntile, Manzoni e Leopardi.  alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera;  considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il nu¬  mero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che  tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio;  immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo  infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe  ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accu-  sg^re le cose d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬  mento e vóto, e pero noia, pare a me il maggior segno  di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura  umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬  sun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su tutti i dolori, su tutte le  miserie, al di sopra della mole sterminata di quest’uni¬  verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬  gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la  hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore  degna delle più nobili aspirazioni connaturate all’animo  umano. Anche pel Leopardi, poca scienza pregiudica e  mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce la  fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura,  che la mezza filosofia del materialista ci rappresenta  in voley mutyignu, è pur quella natura che mette nel¬  l’animo nostro le illusioni; e se non sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo non  più contento delle condizioni naturali della vita che egli  dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore,  con la pietà, con tutti gli affetti gentili che riempiono  il cuore di dolci consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura che governa Tuomo, madre benigna e pia  nell’età dei Patriarchi, nei tempi oscuri e favolosi del  genere umano, e risorge amorosa nella prima età di  ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬  ginare la speranza nel futuro a cui egli va incontro;  questa natura, che nell’amore torna sempre a rinverdire  le speranze, e che ci fa conoscere una « verità piuttosto  che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,  quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬  tato il calice amaro, torna a confortare l’uomo, amica e  consolatrice. La natura del materialista è via; ma non  è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11 savio torna  fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è alla  presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto travolge e distrugge quanto a lui è più  caro, ma quello del pensiero, dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici della  filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il filosofo al suicidio, Plotino può rispondere :  <iPorgiamo orecchio piuttosto alla natura che alla ragione»'.  alla natura primitiva « madre nostra e dell’universo »,  la quale ci ha infuso un certo senso dell’animo, che è  amore degli altri e che ferma la mano al suicida ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero  della sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe  togliersi la vita, il filosofo più savio, il maestro, Plotino  dirà:   Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della  nostra specie ! Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un  l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso  scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica   della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo : e   anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò Sanctis paragonando Schopenhauer a  Leopardi, notava questo grande divario tra n filosofo  tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette  in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto  più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù,  tanto più ce ne accende vivo nel petto il desiderio e il  bisogno. Perciò la lettura del Leopardi non sarà mai  pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà leg-  gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso  per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero,  è uno dei più sani e vigorosi ottimisti che ci possano  apprendere il segreto della vita operosa e feconda.   La morte, anche la morte, il simbolo della fatalità  avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬  nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni  speranza e d’ogni fatica, e della nullità della vita a cui  ci sentiamo tutti legati, la stessa morte al Poeta, nella  maturità piena della sua poesia, quando il suo animo  ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la  sua verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa  germana di Amore, che è pel L., come s’ è veduto,  ciò che dà verità più che rassomiglianza di beatitudine.   Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte   Ingenerò la sorte.   Cose quaggiù si belle   Altre il mondo non ha, non han le stelle.   Morte diviene una bellissima fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore:   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d’ogni saggio core.   Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come  merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo leopardiano, Treviso, bongo e Zoppelli,  Il Poeta sente che   Quando noveUamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto.   Languido e stanco insiem con esso in petto  Un desiderio di morir si sente:   Come, non so: ma tale   D’amor vero e possente è il primo effetto.   Il Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza,  e non vi riesce. Ma ben sente che quando si ama, non ha  più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso nei suoi  limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che  fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore  scopre che la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che  bisogna ch’egli perciò muoia a se medesimo, e spezzi  r involucro della sua individuahtà naturale, centro di  ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte  opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte  è liberatrice, affrancando lo spirito umano dai vincoli  onde ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo,  chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e forze naturali,  incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi, en¬  trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.   Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa  la materia del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che  attraverso il corso di queste letture, che inauguriamo,  tale concetto apparisca in luce sempre più chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane (Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali  di G. L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette morali come una  raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso, sarebbe  tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non  sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite  con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi alla  terza edizione iniziata a Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate la  prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di  almanacchi e di un Passeggere, e di quello di Tristano  e di un Amico; tornano ora alla luce  ricorrette notabilmente, ed accresciute del Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco, del  Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio.  Intanto, non tutte le Operette furono pub¬  blicate la prima volta a Milano; giacché tre di  esse, come « primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’ Antologia e quell’anno  stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione  di quelle che nella notizia testé riferita sono assegnate  dall’autore furori composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte  leopardiane della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed. Mestica, li,  fa sicura testimonianza con le date apposte alle operette  singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al 13 dicembre  di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo  in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima  fu concepito, o ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬  ratore nell’animo del Leopardi. Giacché con qual fonda¬  mento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a docu¬  mento di quel periodo spirituale che si suole infatti atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di Simonide (apparte¬  nenti probabilmente a quello stesso tempo), e l’epistola  Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono caratteristici delle  Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già osservato j  che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che  sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti  staccati senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un  Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal Chiarini, Vita  di G. Leopardi, Firenze, Barbèra, e da  me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva tra  le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte; Proposta  di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio; Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ;  Dialogo di Malamhruno e di Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico; Dialogo della Natura  e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del  suo Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo di  Ruysck e delle sue Mummie; Detti me¬  morabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e di  Gutierrez);  Elogio degli Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note,  Da N. Serban, L. et la France, Paris, Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle carte  napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo, sul proposito di quella  parlata della natura, all’uomo, che Volney le mette in  bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo  della Natura e di un'Anima) il quale, dunque, al tempo  di quell’appunto non era scritto. Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari degli  antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa  cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬  flessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare  di quelle ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia  nel penultimo capitolo dei Detti memorabili, che è delle  ultime operette del '24. Ora, se questi appunti sono per¬  tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in  qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura  e di un’Anima l’autore parlasse come di opera da com¬  porre ? O egli non aveva neppur composti i Detti me¬  morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe messi  a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?   Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come  par probabile, a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti  segnati nel medesimo foglietto, s’incontrano, tra gli  altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade) Egesia  pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬  tuomo e mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco,  da capo, il Dialogo della Natura e di un’Anima, ma ac¬  canto a un altro dialogo. Galantuomo e mondo, che l’autore  abbozza, per tornarvi sopra nel '24, senza con¬  durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto  deve risalire. E secondo lo stesso docu¬  mento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre  [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo,  riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬  pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12.     quattro operette, due del '24 e due del '27. Giacché,  oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico,  qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato  la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel  Salto di Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo  e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore quella  del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento  certamente dimostra che del Plotino e del Copernico,  scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il  concetto, ma anche la forma in cui il concetto si ])re-  sentò alla mente del Leopardi, non è posteriore alle  Operette.   E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci dai docu¬  menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate  del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti,  riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella lette¬  ratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in  questo scritto « liberamente il Leopardi raccolse dal suo  Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici; certo  intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di  pubblicare qualche parte del materiale  accumulato giorno per giorno». Sicché s’è  creduto poter conchiudere che nell’ Ottonieri al Leopardi  « venne fatto un centone, non un’operetta come le altre  organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio  d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.  Ili dell’ Ottonieri si legge :    > Egesia infatti è ricordato nel Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo e Pensieri.  Questo dialogo infatti originariamente recava il titolo di Dia¬  logo di Filénore e di Misénore.   Luiso, Sui Pensieri di L., nella Rassegna Nazionale.  Dice che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di  commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno  apparenza di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio,  in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo,  lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per  animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando  colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬  sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬  manità e simili; e da quella abbia origine un numero assai mag¬  giore di cattive opere; e che una grandissima parte delle azioni  e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a qualche  pessima qualità morale, non sieno veramente altro che incon¬  siderati.    Idee che fin dall’ ii settembre 1820 il Leopardi aveva  sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri, scrivendo:   La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e  produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di esser  considerata come una delle principali cagioni della tristizia degli  uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo  c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so bastone,  passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo  a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir  nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel  giovane. A me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte  volte c’induce a far cose dannosissime e penosissime altrui, senza  che ce ne accorgiamo (parlo anche della vita più ordinaria e  giornaliera, come di un padrone che per trascuraggine lasci pe¬  nare il suo servitore alla pioggia ecc.), e avvedutici, ce ne duole;  molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo bene  quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo fac¬  ciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo.  Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo stessis¬  simo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni  volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre  quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia che  fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, no  Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a  leggere;   Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo  inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene di  conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi  veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o  qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora  molta profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬  moria, per considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬  pre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non  iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo tra  noi di scoprirvele.   E anche questo pensiero, quantunque in forma com¬  pendiata a mo’ di appunto, era già nello Zibaldone;   Noi supponiamo sempre negli altri una grande e straordi¬  naria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari  che sieno, e profondità di riflessione per considerarli, quando  anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto a  qualunque altra cosa.   E il numero di simili riscontri è tale che pochi sono  i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima prova  nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire  che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma defini¬  tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬  brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro  anni prima ?   Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri.  Anche del Parini è stato notato che la sostanza è già  nei Pensieri [ b Caratteristico  questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini;   Come città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi  onde altri venga all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e   V. tra gli altri B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, -  04, II, 42; e Losacco, in Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città  grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto basso conto,  non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa fama  che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e l'altre  in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per caso  qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e  di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica,  non tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse  volte, quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine  di quegli uomini, la più negletta e oscura persona del luogo....  E tanto egli è lungi da potere essere onorato in simili luoghi,  che bene spesso egli vi è riputato maggiore che non è in fatti,  né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che, giovanetto, io  mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la  terra eh’ io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun  poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo,  fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte le  lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma  differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o fa¬  vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per  questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano  minore assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io  li lasciava venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un  poco meno smisurata che essi non pensavano, io scadeva ancora  moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo si persuadevano che  essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.   Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae origine  da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal Leopardi  segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;   Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio,  se ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e contuttociò la  stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto, sicché  relativamente considereranno quel tal pregio come molto minore.  Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli studi,  credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e m’interrogavano  indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano poeta,  rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc., insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran  cosa, e per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano paragonabile ai letterati forestieri, malgrado  la detta opinione che avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo  lodarmi, un giorno mi disse: A voi non disconverrebbe di vivere  qualche tempo in una buona città, perché quasi quasi possiamo  dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro stima  scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno  del loro grado   Né soltanto la cronologia diventa un problema di  difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.  I quali però non sono possibili se non dove si consideri  ciascun elemento del pensiero del Leopardi astratto dalla  forma che esso ha nelle Of erette. Che se si guarda a questa,  è facile scorgere, per esempio, la superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non  sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si badi, d’altra parte, a non prendere né anche  questa forma in astratto, quasi la forma speciale del  tale passo delle Operette, il quale abbia un antecedente  più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur  così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente  diversa). Anche questa è una forma astratta; perché  la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte di  un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con  tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale,  ossia di quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore  si trovò componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una salda  e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si pre¬  scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬  tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare  che l’opera risulti. Che è quello che è stato fatto per le  prose leopardiane da tutti i critici che se ne sono oc¬  cupati, ora considerando e giudicando le singole operette  ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse  in una serie di frammenti facilmente rintracciabili in  altri scritti, in verso e in prosa, dello stesso L.  (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta inutilmente se  stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del  secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’originalità dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il  L. abbia avuto, il De Sanctis; se ha sdegnato  ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e confronti,  fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’ inseparabilità  del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò della  necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera  nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni  vero artista trasfigura la sua materia; non s’è guardato  tuttavia né pur lui, di cercare la vita nelle parti, la cui  serie forma il contenuto del libro, anzi che nel tutto,  nell unità, dove soltanto può essere l’anima e l’origina¬  lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per  così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa  a sé, invece di cercare il Leopardi di tutte le operette,  che sono un’opera sola.   In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del  Venditore di almanacchi e del Tristano, con cui nel '32  l’autore volle tornare a suggellare il pensiero delle Ope¬  rette, tutte le altre pullularono dall’animo del Leopardi  nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e di  sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il  Copernico e il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei  vagheggiava il suo Tasso, il Colombo e fin lo stesso Ti-  mandro; e meditava insomma quegli stessi pensieri, che  presero corpo nelle Operette del '24; con le quah infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano  accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner,  che gh chiedeva scritti inediti da potersi pubblicare a  Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere aggiunti  alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il suicidio,  l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.  Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a  vostro piacere: solo bisogna eh’ io abbia il tempo di  farle copiare, e di rivedere la copia. Esse non potrebbero  facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma avvertiva subito,  che da soU questi dialoghi non potevano andare; e tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che  le mie due prose inedite abbiano un interesse sufficiente  per comparir separate dal corpo delle Operette morali, al  quale erano destinate»*. Quanto al Frammento  apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente posteriore alle altre prose compagne;  anteriore ad ogni tentativo fatto dall’autore per pubbli¬  care le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e totali  fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non  potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬  rialismo che vi è professato, c che le Censure non avreb¬  bero lasciato passare.   Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬  rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi  e Tristano) che vennero successivamente ad aggiungersi  alle prime venti, è certo che queste venti, composte tutte  di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore  scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando  ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che  le singole operette potessero venire in luce alla spic¬  ciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle pubblicare  Epistolario, Firenze, Le Monnier,  * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore amico vo¬  leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬  segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani,  al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un  editore: con tanto desiderio di vedere stampata la sua  opera, che scrive impaziente  a Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno presto,  perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non  ci pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo  manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus-  seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato,  dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che troverete  riferiti nel n. 61 dell’Antologia, ora pubbhcato, eh’ io ho  il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio  fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato  del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬  lenti scritti. Sento che queste Operette morali verranno  probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai pel  pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte  per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un  giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu  altro che un saggio. Del quale L. scrive all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi stampati  ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio,  e però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La  scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise  l’ultimo per primo » 3 ; affermando così che tra i dialoghi  c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto.   Proponendo pertanto la stampa dell’opera intera al¬  l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella veduto  [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47.  » Nell' Epist. del L.   3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬  trato, ed ha avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella ve¬  duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le parlai già.  in Milano di questo mio mano¬  scritto. Ne abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze  per provare se il manoscritto passerebbe in Lombardia.  Giudica ella che faccia a proposito per lei ?... Tutte le  altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve  ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto,  in quel manoscritto consiste, si può dire, il frutto della  mia vita finora passata, e io 1’ ho più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di quel  mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella  ha ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto ».  11 fascicolo dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di poterne tuttavia sperare  altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe provato:  intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il  Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi  sento molto lusingato e superbo del voto favorevole che  ella accorda alle predilette mie Operette morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma del  ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente  fitta di mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse  e potesse esserne l’editore.... La prego a darmi una risposta concreta in questo proposito tosto ch’ella potrà » i.  Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ri¬  coglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali »,  scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo  a parte che mi farà strada a pubblicar tutte queste, da  0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno per la mole, non  pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il L. affret-  tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella  stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella  assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si disponeva  a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una  cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i  manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più  di perder la testa che questo manoscritto, e però la supplico a non avventurarlo formalmente alla Censura senza  una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o che  sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto  partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella  j)oté  informare l’autore d’averlo ricevuto.  poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi  restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali  quanto mi allettano.... altrettanto temo che trovar deb¬  bono degli ostacoli per la Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per poi  stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di  tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento  delle care Operette ? La proposta ferì al vivo l’animo del  Leopardi, che, a volta di corriere, il 31 rispose: «Se a  far passare costì le Operette morali non v’ è altro mezzo  che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante-  mente la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬  scritto al più presto possibile. O potrò pubblicarle altrove,  o preferisco di tenerle sempre inedite al dispiacer di  vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubbli¬  cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume     l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,  conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬  rette, nate come venti capitoli di un’opera sola.   All’unità della quale ei certamente mirò nell’ordina¬  mento definitivo che fece delle singole parti, quando le  ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come  tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione  avvenuta nei tre dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti-  mandro doveva essere l’ultimo, egli avA^erte. Infatti era  stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure scritto  prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era  quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente  fin da principio era destinato al ventesimo o, comunque,  ultimo posto, che tenne nella edizione milanese del '27.  È invero un’apologià del libro; e l’apologià non poteva  essere se non la conclusione e il giudizio, che, nell’atto  di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,  nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che  il Leopardi ebbe da ultimo ragione di preferire, non soltanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura  e di un Islandese, scritti successivamente, con un solo  giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno  frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio  familiare, a cui il Leopardi pose mano appena finito  quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio che senza  una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed  è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se non  negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran  legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari  scritti devono per lo più esser nati già con questi rap¬  porti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germoghava via via nella sua spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n. i.  una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e il  risorgere di un’ ispirazione che era parsa esaurita, traeva  l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine  cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e  alla coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena  levata la mano dall’ Islandese, nasce come un anello che  salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico;  e se l’autore scrive il Timandro,  bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli antecedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere  esaurito il suo tema; credere perciò di potersi arrestare  a quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese: e  quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro.  Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni,  e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando  fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette  in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un gruppo  distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Ti¬  mandro, del motivo ispiratore delle operette.   III.   Ma tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’organismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità  non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero.  Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa bene  in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche  apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad  argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine  non meno vero che non si trova quel che non si cerca;  e che l’unità delle Operette leopardiane, ritenute generalmente una semplice raccolta, aumentabile (con la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto,  come tutti fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non si  è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti  questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne  essenziale.   Intanto, lo spostamento osservato del Timandro  epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scorgere un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli  scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epilogo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo distacco  formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia  la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del genere umano  a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può  a ragione considerare come un prologo; le diciotto operette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come  tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del Leopardi.  Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa  dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,  (]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo  della Natura e di un Islandese. Precede, e inizia la tri¬  logia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole e  di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui  all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬  tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato  dalle superstizioni moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello.  Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo  insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o  fortuita quando si osservino gl’ intimi rapporti spirituali  onde sono insieme congiunte e connesse, in tale ordina¬  mento, le diverse operette.   Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le varie  note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo non for¬  niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal  primo gruppo.   Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche  Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi  secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco.  j(a la Terra da allora è diventata leggerissima; e quando  Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra novità più  nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli « bat¬  teva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali; e  metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio.  Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che  abbia rotta la molla »; e quanto al ronzare, Ercole non vi  ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che il  mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile;  e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse  morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse  col puzzo; e pensava come e in che luogo lo potessi sep¬  pellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre ». È lo stesso  grido, come si vede, de La sera del dì di festa'.   Kcco è fuggito   11 dì festivo, ed al festivo il giorno  Volgar succede, e se ne porta il tempo  Ogni umano accidente. Or dov’ è il suono  Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido  De’ nostri avi famosi, e il grande impero  Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio  Che n’andò per la terra e l’oceano ?   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  li mondo, e più di lor non si ragiona.   Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la  Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa  questo perché alla Morte stessa: poiché i soh frivoli e  accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i  « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono  soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol  morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj.  cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e ri¬  scoperti dai filologi, « se in tutto non siam periti » t  La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta  ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi  che giovano al ben essere corporale, e introdottone o  recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo in  mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo  nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,  così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta  che viva; tanto che questo secolo si può dire con verità  che sia proprio il secolo della morte ».   Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto  il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬  chine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine».  L’Accademia dei SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro  bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che  restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta  costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa,  quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella donna, che fu  r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata come  la « sua donna » da esso il Leopardi :   Forse tu l’innocente   Secol beasti che dall’oro ha nome.   Or leve intra la gente   Anima voli ? o te la sorte avara   Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti ornai  Nulla spene m’avanza 3 .   ' Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv. 3-4.   » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna.    fbbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo  «espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai negozi  jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco diano  luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa  I la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore,  la morte degh ideali che già fecero virtuoso e magna¬  nimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il quale  non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla  stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e  nei campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e  5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio, d’infiam¬  mare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle  ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della libertà, della  patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’uma¬  nità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo  di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo,  a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si  trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a  proferir questo nome. Di essa, dice il Leopardi, che ne  sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto ».  La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica.  Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa  «che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni  occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché  il testo è da restituire, per travestirlo alla moderna, fa¬  cendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis, memi-  neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula,  epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris  portare.   Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno !  Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita   [Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre  *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L.,  Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un  pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra  uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi  rito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj  uomini sono tutti morti e la razza è perduta ». Mancati  tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando  parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori  pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte  stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e  disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le vie  di far contro la propria natura » ; studiandole tutte con  queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel-  l’antico error, di cui « grido antico ragiona », onde fu  negletta la mano dell’altrice natura, come il Leopardi  aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il nostro  Scellerato ardimento inermi regni  Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora durano e  procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il  mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto  invece crede fosse fatto e mantenuto per i folletti; come  lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità umana pareggia essa  la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti spariti,  la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono  stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano  di nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura  non si commuove allo sterminio di sé a cui l'uomo è  tratto dal suo ardimento.   Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra  L’aonio canto e della fama il grido  Pasce l’avida plebe) amica un tempo    » Inno ai Patriarchi.     Al sangue nostro e dilettosa e cara  Questa misera piaggia, ed aurea corse  Nostra caduca età. Non che di latte  Onda rigasse intemerata il fianco  Delle balze materne, o con le greggi  Mista la tigre ai consueti ovili  Né guidasse per gioco i lupi al fonte  Il pastorei; ma di suo fato ignara  E degli affanni suoi, vota d'affanno  Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura.  Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è  il principio della perdizione. E invano l’uomo cercherà  col pensiero di restaurare la sua vita e riconquistare la  dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa* *;  Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano  con piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo  servigio, lo riapprende da Farfarello, impotente a farlo  felice un momento di tempo. La felicità è la vita che si  V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita col  suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un diletto  infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni  uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai,  perché nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che  appaghi il nostro desiderio naturale. Onde il vivere sen¬  tendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta se non  dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda  l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra  vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il  non vivere è meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu- [Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere  il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura italiana,  sione di quella premessa, che la felicità o valore della  vita consista nel diletto; il quale non può essere altro  che limitato, e quindi mai mero diletto, senza mistura  di amarezza.  Tale il concetto del primo gruppo delle Operette, che  pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al nulla:  ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta:  poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo  è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e  l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con  r irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma.   Ed ecco il problema e il tormento dell’anima del  Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è  quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo,  che è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo  avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere quello che  egli penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi  quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uo¬  mini morti e la natura viva, muta, indifferente. Pro¬  blema affrontato nel Dialogo della Natura e di un’Anima,  il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,  dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale  sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi,  e sii grande e infelice ». Giacché, come poi le spiegherà,  « nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle  di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e l’altra  cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle    I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitas¬  sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se, ben¬  ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come  prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto  per loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna).   jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità pro-  ria; che è come se io dicessi maggiore infelicità»; e  l’uomo « ha maggior copia di vita, e maggior sentimento,  che niun altro animale; per essere di tutti i viventi il  niù perfetto »; e però è il più infelice. E il meglio è per  l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle  (loti che possono nobilitarla, e farsi « conforme al più  stupido e insensato spirito umano » che la natura abbia  jjjai prodotto in alcun tempo.   Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dia¬  loghi del primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino dell’uomo : la  cui storia non può avere altra conchiusione che la rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col  suo amaro sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia  e raccoglie nella Luna, come immaginò l’Ariosto di tutto  ciò che ciascun uomo va perdendo. La Luna, a cui la  Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne domanda,  non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è  semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra  che il linguaggio umano e relativo allo stato degli uomini,  che la Terra usa, non ha significato fuori di questa: e  che insomma non ha base in natura quello che gli uomini  considerano pregio della loro ^^ta, e che, non trovandolo  fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione.   Ma il concetto più direttamente è trattato nella  Scommessa di Prometeo: scommessa perduta con Momo  (che è lo stesso spirito satirico pessimista con cui  Leopardi guarda la \'ita nella sua vanità).'Perduta, perché  Prometeo deve confessare che alla prova il suo genere  umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto genere  dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali », gli era  fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro-  pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della  vita, il più sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando a Londra  vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta  ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su!  pino, che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto  e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, mede¬  simamente morti»: sciagurato padre, che per dispera-  zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: (juan-  tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di  amore, e favorito in corte: ma caduto in disperazione  «per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta  andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i  due seguenti dialoghi hanno questo argomento. Il Dialogo  di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita non essere bene da se medesima, e non esser vero che ciascuno  la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama  come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò  che veramente vale. E questa, guardata più da vicino,  consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle  affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel  puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far  essere (come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia  e la vuota durata, ma la mobilità, la vivacità, il gran  numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il tempo  pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita  degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno  infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior  parte occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua,  che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è morte; anzi  peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo stesso  Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità sia  vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita,  in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il Leopardi così sente)  non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del primo gruppo; e che  non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella  coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che  l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare  perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore  perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere il pieno;  la morte al posto della vita.  E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del  Tasso, che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal  ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai, apparso  al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui « mi¬  serando esemplo di sciagura:   O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa  Tua niente allora, il pianto  A te, non altro, preparava il cielo.   Oh misero Torquato ! il dolce canto  Non valse a consolarti o a sciorre il gelo  Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda.   Cinta l’odio e l’immondo   Livor privato e de’ tiranni. .Amore,   Amor, di nostra vita ultimo inganno.  T’abbandonava. Ombra reale e salda  Ti parve il nulla, e il mondo  Inabitata piaggia.  Tasso medesimo, che non trova nel mondo  altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago  inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno  alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso  e del suo Genio ', e non si lagna già del dolore, ma della  noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli pare  abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi  interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti  in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro  non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente.  Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai  piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però.    come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si  dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»;  e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte  di dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona  del povero prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte  alla immutabile natura — si viene via via votando cosi  del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della  tristezza soffocante del tedio.   L’uomo prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio  dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la Natura  a render conto di sé all’uomo: al povero Islandese, che  la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la  vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e  l’ha innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di  forme smisurate, seduta in terra, col busto ritto, ap¬  poggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di  volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con   10 sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero  errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’  tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue  viscere », e « per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto o vi benedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬  l’universo è un circolo perpetuo di produzione e distruzione. — Ma, riprende 1’ Islandese, poiché chi è distrutto  patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi quello  che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova  cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con  danno e con morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’ Islandese è  mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’ inedia,  che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel  giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo, è la Natura che al principio ha detto  aU’anima: — Sii grande, e infelice. La vita infatti   È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché vuota;  e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa  Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza valore, non appena con la sua  coscienza si stacchi dalle cose, e vi si contrapponga.  L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto  nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima,  il sentire) non ha posto nella natura, che è poi tutto.  Perciò l’anima è vuota, e la vita è tedio.   V.   E qui potè parere al Leopardi, come osservammo,  di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili  critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso  libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro.   Ma poi considerò che la sua dimostrazione non era  veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare  Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al grande  Recanatese b scrisse una volta. L.comincia  uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬  venta nel mondo un’anima con queste parole: — Vi\d  e sii grande ed infelice. — Io per me credo proprio il  rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non  in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi  uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della infelicità; ma non l’aveva  imparata egh quando produsse quelle canzoni per cui   Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni  profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel volume  La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della  nuova Italia, Lanciano, Carabba,  Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il De Sanctis doveva osser\’are  più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini della  vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riem¬  piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬  maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa,  cevano materia di diletto quello stesso soffrire. Egli aveva  la forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione  e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato  conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza  di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie,  e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino  il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua  anima di artista e immaginare Bruto e Saffo, non c’è  pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati mo¬  menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice  del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma né  il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita  al Leopardi. È suo questo pensiero vero e pro¬  fondo ; « L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento  vivo della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto  altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere  di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nul¬  lità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente  e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita, quando  anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad  un animo grande, che si trovi anche in uno stato di  estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e sco¬  raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere  disgrazie.... servono sempre di consolazione, raccendono  l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro  che la morte, gh rendono, almeno momentaneamente,  quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli, Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo  ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi aura   Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il raziocinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il bisogno  (ji riprendere la dimostrazione. L. non affronta  nelle Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di  questa vita incoercibile che risorge dalla sua più fiera  negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà, non  superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto  l’argomentare della sua filosofia non genera la convin¬  zione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma  la mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla mi¬  sera Saffo « il velo indegno », per rifuggirsi ignudo animo  a Dite, e così emendare il crudo fallo del destino. L’amor  della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima  che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro  i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla  fama, dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi  spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità della ricor¬  danza che essi lasciano di sé ai loro posteri».   Ebbene, questa gloria, che già non arride all’anima,  quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure  agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui  gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso,  potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto senza  fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser  « nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa gloria,  che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto  più sentiranno la loro infehcità, e più quindi saranno  infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli  riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli alla    loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione  della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per Taddietro,  finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo genio.  La sua sostanza è veramente in questa lode interna e  soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore onde  il genio vede illuminata la propria opera. Leopardi,  nudrito la mente dei concetti classici e delle idee mate¬  rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa gloria,  in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte  le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in  fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza. E  perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia  superstite della grandezza spirituale, veduto in questa  forma; l’anima grande e infelice è destinata essa alla  gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che  ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed ecco il  Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto  di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel  mondo presente, da farla apparire mèta inattingibile.  Talché vien meno anche questa aspettazione, e al grande  non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga,  con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la na¬  tura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.   Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si  possa chiedere alla stessa eccellenza dell’animo, quando  altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si vegga  da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual  porto rimane allo stanco spirito umano ? Vivere infeUce ?  Dovecanterà:    O speranze, speranze; ameni inganni  Della mia prima età ! sempre, parlando.  Ritorno a voi; ché per andar di tempo.  Per variar d'alletti e di pensieri,  Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,  Son la gloria e l’onor; diletti e beni  Mero desio; non ha la vita un frutto.  Inutile miseria.   E sia; ma se non si può né anche farsi un monumento  della propria infelicità ?   Sola nel mondo, eterna, a cui si volve  Ogni creata cosa.   In te, morte, si posa  Nostra ignuda natura.   Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor.   La risposta viene dai morti, che si sveghano per un  quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale  vivono immortah; senza speme, ma non in desio, come  le anime del limbo dantesco:   Profonda notte  Nella confusa mente  Il pensier grave oscura;   Alla speme, al desio, l’arido spirto  Lena mancar si sente:   Così d’affanno e di temenza è sciolto,   E l’età vote e lente  Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza senti¬  mento. Vero porto, in cui il povero Islandese finalmente  avrà pace, e in cui si può giungere in un languore di sensi  senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,  quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile  dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del  sonno, nel tempo che si vengono addormentando ».  Dolce morte hberatrice ! Ma prima che la morte ci  abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot-  tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬  teneva una buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con alcuni  suoi familiari, sopra qualunque materia gli era sommini¬  strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre.  non per farne trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofìa in iscritto e irrigidir]^  in formule che non risponderanno piti ai mutevoli bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e  senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando  ogni vana querimonia: come aveva detto Spinoza: non  ridere, non liigere, neque detestari, sed intelligere. Questo  r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile e  morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né  della fortuna sua »>. E con la sua pacata magnanimità e  la sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate  anche in questa modesta, anzi umile coscienza del sapere, e quindi, per lui, del potere umano. L’ Ottonieri  vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e persona.   Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ?  Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte vegliata sull’oceano .sterminato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando all’amico  che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, « ha posto  la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem-  phee opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli  soggiunge, « quando altro frutto non venga da questa  navigazione, a me ]iare che ella ci sia profittevolissima  in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla noia,  ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che altrimenti  non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano,  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si. debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo,  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o  pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna  pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla  fxipe di Leucade. E navigazione è ogni rischio della  vita, ogni azione eroica. O filosofare, dunque, come Ot-  tonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al tedio,  P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce  ne liberi.   E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il Dialogo  a Colombo e Gutierrez  Leopardi,  nel fervore dell’animo commosso da questa coscienza  del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé  l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano  al bellissimo Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor-  gatagU dal pieno petto, al guizzo d’una immagine Ucta  e ridente: di queste creature amiche delle campagne  verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti,  del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline  e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena  e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col  canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena  d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una  gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero  d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il  canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬  creare gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario  in luogo alto ; donde ella si spandesse all’ intorno per  maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che il  poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi,  che è già appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in  uccello, per provare quella contentezza e letizia della  loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens.  E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di cui parlano  alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e tocca  colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vi¬  brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della  vita, attenuando bensì il tono della lirica precedente, c  smorzando l'entusiasmo, al quale mai come in questo  caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e additandogli  anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la morte  a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente,  ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione  del puro e frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin-  francatore. Sensazione già nota al Poeta:   La mattutina pioggia, allor che l'ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’affaccia  L’abitator de’ campi, e il sol che nasce  I suoi tremuli rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli sussurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;  « Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton-  sene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma  della vita : riducetevi dal mondo falso nel vero ». La fiera  soma! Meglio, meglio dormire, e non destarsi; ma verrà  la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c  canta questa corsa universale alla morte, « ad ogni modo,  il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più  comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella  loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne  La Vita solitaria    producono e formano di presente; giacché gli animi in  quell’ora eziandio senza materia alcuna speciale e de¬  terminata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono  disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali.  Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta  uovamente neU’anima la speranza, quantunque ella in  niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la spe¬  ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella  disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita  dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va  alla notte, e alla vita umana che muove dalla heta gio¬  vinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se ter¬  mina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura  sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima  empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della spe¬  ranza mattutina e giovanile non è distrutto: perché  quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più tardi  l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà  mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬  tino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette dunque del terzo gruppo ricostruiscono,  nella misura e nel modo che si può secondo L.,  quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostrui¬  scono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche  la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo  gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo le prime due  edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del se¬  condo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e  il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo ri¬  fiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al  diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di un'Anima  e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine del-  l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬  gatosi su se medesimo, diede della propria intuizione  filosofica: concezione, sullo stile delle teorie cosmolo¬  giche greche più antiche, di un universo go\'ernato da  pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in  fondo a ogni concetto pessimistico del Leopardi; onde  si tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta, l’immagine  di quella Natura che eternamente passa, e che negli ul¬  timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile  e spaventoso ».   Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti ope¬  rette primitive anche nell’edizione di Firenze del '34.  quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi dialoghi  del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che  in questa edizione invece non potè entrare il Frammento  di Stratone molto probabilmente per le difficoltà già ac¬  cennate, derivanti dalla materia di esso, poiché è il solo  scritto crudamente materialistico, che sia tra le Operette.  11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu scritto  verso il maggio del '25 • (quando il Leopardi aveva tut¬  tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe  già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa  aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico  del hbro), dimostra all’evidenza che i dialoghi fiorentini  della stampa del ’34, che sappiamo scritti a Firenze due  anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene  ad aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi:  come avverrà del Frammento, appena l’autore crederà  potere e dover tralasciare il Sallustio, e sostituirlo.   Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde il Mestica    I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G. L., perché gli parve troppo scolastico e di materia non   [ abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso conte¬  nuti siano conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco  movimento e scarso valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva dello  strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo,  e forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse  anche col passar degli anni, il Leopardi non credè più  che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e per  opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al  L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà  I pentito delle parole crudissime che usa parlando della  I libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli   f lamenta la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in   modo più vago ». Il Sallustio, in questo cinico pessimismo,  contraddice al motivo fondamentale delle Operette: logico  nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei  sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta  abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva  a un suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali  non sono qui un sistema filosofico astratto, ma l’alimento  segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una  poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità  risuona all’anima del lettore come una musica, secondo  che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena    I operette morali di L.,   ’ Le prose morali di L.Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera  nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un  motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men significante  ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando VAntologia, or  son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L. ancora inedite....  io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il motivo della  musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette insieme unite,  mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne  scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava  potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo rrio  tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^  e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua naturale cor  nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del genere  umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto  estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte  le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re  qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e  d’entusiasmo; a quello spirito, che si può definire con le  parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo in  una lettera al Giordani  (del tempo  in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo  termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬  nere degli studi che io fo, come sono mutato da quel  che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga  di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo  e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché  il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio  di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria  degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente,  speculando questo arcano infelice e terribile della vita  dell’universo ». Lo stesso animo, non altrettanto feli¬  cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tut¬  tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli :   Ben mille volte  Fortunato colui che la caduca  Virtù del caro immaginar non perde  Per volger d’anni; a cui serbare eterna  La gioventù del cor diedero i fati qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del  Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo  amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono  musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più d’una  osservazione notabile.  SuU’amicizia del  L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi leopardiani, Firenze, Le Mounier,    (si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)]   Della prima stagione i dolci inganni  Mancar già sento, e dileguar dagli occhi  Le dilettoso immagini, che tanto  Amai, che sempre inlino all’ora estrema  Mi fieno, a ricordar, bramate e piante.   Or quando al tutto irrigidito e freddo  Questo petto sarà, né degli aprichi  Campi il sereno e solitario riso.   Né degli augelli mattutini il canto  Di primavera, né per colli e piagge  Sotto limpido ciel tacita luna  Commoverammi il cor; quando mi fia  Ogni bel tate o di natura o d’arte.   Fatta inanime e muta; ogni alto senso.   Ogni tenero affetto, ignoto o strano;   Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men dolci, in eh’ io riponga  L’ingrato avanzo della ferrea vita,   Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi  Destini investigar delle mortaU  E dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi traendo  Verrò: che conosciuto, ancor che tristo.   Ila suoi diletti il vero.   Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare,  scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e  inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che  nel '25, nel caldo ancora dell’opera, poteva credere di  aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno dopo  egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno, non  è ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la  gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma non è ancora  del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso  e di eloquente è un desiderio, un programma, un propo sito; ma non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto senso  ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené  e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Eleandro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda  fa alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace'  ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente invece  per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra  protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia  sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva Oggi, benché non sono  ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né  forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non  mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me  stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è pos¬  sibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile  pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle  sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò  sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che  esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per  poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi  possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ribella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella  all’ intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro  che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo Eleandro  conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità  dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene  col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi  libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di  quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte  o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,  [Ed ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬  tolare, come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli  non era davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista.    iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi:  laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo;  e in line gli errori antichi, diversi assai dagh errori bar¬  bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero dovuti  cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da  queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si  volgono gh occhi del Leopardi, il mondo di Stratone  da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese, — come non è  spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza; ma  non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore  del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro;  e a dispetto di quella natura, che è il vero, ama gli uomini  e la virtù, dichiarandola un’illusione, ma naturale, e  quindi vera, quantunque contradittoria a quell’altra na¬  tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire fred¬  damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di  sopra della universale miseria, sentita come tale, e non  assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza  avrebbe voluto.   Così nella Storia del genere umano, vero preludio  alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto  all’ uno fondo di cotesta miseria, rappresentato dall’ap-  parire in terra della Verità, spunta egualmente una  divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei  mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è  mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà  di Giove sopra tanta infehcità; e massime sopra quella  di alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto, con¬  giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali  egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più    IO.(‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi.     che alcun altro, dalla potenza e dalla dura dominazione  di quel genio»: ossia appunto, della Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità, propose agjj  immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a  visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare  in tanto travaglio questa loro progenie, e particolarmente  quelli che dimostravano essere, quanto a se, indegni  della sciagura universale». Tacciono tutti gli altri Dei¬  ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo  massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i  mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della  Verità ». Di rado egli scende, e poco si ferma, e perché  la gente umana ne è generalmente indegna, e perché  gli Dei molestissimamente sopportano la sua lontananza.  EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la sua  grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità  del vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore.  « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri  e più gentih delle persone più generose e magnanime;  e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina  e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e  di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa  al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge  due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con grandissima  istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non  gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché  la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve  intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere  pieni del suo nume vince per se qualunque più fortunata  condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Ed  ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente,  allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda  (iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità  (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che né  egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a  respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si ag¬  girano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già  segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio  riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo  Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque  inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente  offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei  geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra  logica non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta  questa natura, la quale mette in cuore il bisogno della  virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine, quella  stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringa¬  gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo  Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza  eterna, quindi esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli  uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare,  suscita e rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede,  l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli  anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’ suoi  diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano  come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non  ode i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup-  phzio ne prenderebbe: tanto è da natura magnanimo e  mansueto ».   Qui non c’ è satira, né riso, né fredda anahsi; ma  la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con la  pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean-  dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto  amore tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la  purifica e sana nel gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua  giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e  della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con  nodi divini, e della bellezza, della libertà, della patria,  e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo.   Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la  vita umana, questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬  simista, sì, ma alla Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un  roscau, le plus faible de la nature] mais c’est un roseau pen-  sant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour l’écraser ;  une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour le tuer. d/a/s,  quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore plus  noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et  l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\  sicché la grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU  misérable E il Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia  delle Operette, e quando il concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza  e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬  biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬  mente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza.  Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si sente  essere infinitesima parte di un globo che è minima parte  degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in  questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬  fondamente sentendola e intensamente riguardandola, si  confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pen¬  siero della immensità delle cose, e si trova come smarrito  nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con que¬  sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova della  sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua  mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées, (Brunschvicg).    è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose tanto  superiori alla natura di lui, e può abbracciare e con¬  tener col pensiero questa immensità medesima della  esistenza e delle cose. Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità  sulla trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed è  l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette  rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme  e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio  a questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che  tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione del  Sallustio, che è negazione fredda, senza l’orrore, la ri-  beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da  amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo  parmi il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo. Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva  ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi quindi  ad aggiungere alle prime Operette già formanti un orga¬  nismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il  Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore,  la nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando  un’ idea che contro i Timandri medievali attardati aveano  già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle  ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclu¬  sione necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo  (che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di  tutta la parte negativa delle Operette) : che sia ragionevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare  (movendo da premesse, che son quel che sono, ma a lui  paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma  Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza assai più profonda  più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^  1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^  atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP  elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostr^'  che secondo natura uomo. Perché contro natura e contro umanità il suicidio  ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam’orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh  ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre  nostra e deU’universo; la quale se bene non ha mostrato  di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata  assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi  coir ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬  rata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata  ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o  con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia  grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo-  tenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla  né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in  ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado  che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere  altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile;  pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai  saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha  prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già il  raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne.   E credi a me, che non è fastidio della vita, non  disperazione, non senso della nulhtà delle cose, della  vanità deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio  del mondo e di se medesimo, che possa durare assai:  benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a  notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or  quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella  loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura;  non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,  al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo  senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è  evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal  Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo  silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel Copernico,  opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leo¬  pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata  stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo ».   Senso dell'animo, che è sempre amore per L. Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche  un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare:  « E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi  avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti  di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della  moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali  siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,  bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor nostro  dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto  di quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona  cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice la  parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette,  ma di cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma-  Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo  «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito leopardiano, come  principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof. Giovanni  Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia, 1894-99),  passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy.  1gine di Bruto mancante ai funerali della sorella: prae-  fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui che  si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno  degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta  per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il  genere umano: tanto che in questa azione del privarsi  della vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo  il men bello e men liberale amore di se medesimo, che  si trovi al mondo. Dunque quella grandezza non è infelicità; perché  l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe  se vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo  dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità di  beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più  sé dagli altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa  è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non è più il dolore incomportabile che ci  fa invidiare i morti, ma questo amore che ci stringe ai  viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di  uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice  al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda;  non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci  ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci  incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente;  per compiere nel miglior modo questa fatica della vita».  Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta  la morte e ci abbellisce l’idea di questo mondo, da cui  non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte  verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo  momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci  rallegrerà il pensiero che, poi che saremo sjienti, così  molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ».   Vili.   Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette.  Le quali ebbero ancora una ripresa nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo  grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ri¬  comincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il pas¬  seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione  a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella,  non è la vita che si conosce, ma quella che non si co¬  nosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che si  conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione  di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla:  vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce,  e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e  sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo  venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? L. non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene  dalle Operette: sperare non è ragionevole, poiché, come  cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte; ma  non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro  sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché fu¬  turo; né di questo futuro potrà mai tanto passarne che  non ce ne sia sempre dell’altro, in cui possa rifugiarsi  la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo intonare  il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con  queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una mi¬  seria disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro  cuore, i nostri fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬  stro amore, una beatitudine divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova  della sua fede. Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però luminosa immagine  della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del cuore  stesso di Giacomo.   Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella  Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta  Infinita beltà parte nessuna  Alla misera Saffo i numi e l’empia  Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni  Vile, o natura, e grave ospite addetta,   E dispregiata amante, alle vezzose  Tue forme il core e le pupille invano  Supplichevole intendo   Non meno supplichevole Giacomo guarda ad Aspasia;  onde ricorderà:   Or ti vanta, che il puoi. Narra che prima,   E spero ultima certo, il ciglio mio  Supplichevol vedesti, a te dinanzi  Me timido, tremante (ardo in ridirlo  Di sdegno e di rossor), me di me privo.   Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto  Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi  Fastidi impallidir. E cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile  errore, fu « notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma  Saffo proruppe nel grido disperato ; — Morremo ! -- e violenta cercò l’atra notte e la silente riva. Leopardi  scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più  l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬  tilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella  d’Amore ;    1 Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla,   Dolce a veder, non quale  La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo Amore  Accompagnar sovente;   E sorvolano insiem la via mortale.   Primi conforti d'ogni saggio core   £ la morte sospirata dall’amante, nel languido e  stanco desiderio di morire, che si sente   Quando novellamente  Nasce nel cor profondo  Un amoroso affetto,   perché già a’ suoi occhi la vita diviene un deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta  Vede ornai senza quella  Nova, sola, infinita  Felicità che il suo pensier figura;   Ma per cagion di lei grave procella  Presentendo in suo cor, brama quiete.   Brama raccorsi in porto  Dinanzi al fier disio.   Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.   E a questa morte consolatrice, che insieme con amore  è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza  armare la mano, anzi con umile e mansueto animo, vol-  gesi il Poeta con un sospiro di religiosa preghiera:   Bella morte, pietosa   Tu sola al mondo dei terreni affanni.   Se celebrata mai   F'osti da me, s’al tuo divino stato  L’onte del volgo ingrato  Ricompensar tentai.    • Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina  A disusati preghi.   Chiudi alla luce ornai   Questi occhi tristi, o dell’età reina.   Non già che amore e morte abbian potere di cancellare  la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi abbiano  mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà  le penne al suo pregare, lo troverà   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato.   La man che flagellando si colora  Nel suo sangue innocente  Non ricolmar di lode.   Non benedir. La morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬  dele: ma già Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi  addormentato il volto nel vergineo seno di lei; e il fato  è vinto nel suo animo gentile da questa aspettazione:  vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di Tristano;  il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia  del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬  ciarlo : « non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro  di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici,  ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore»;  perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento  che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in  confidenza, mio caro amico, io credo febee voi e felici  tutti gli altri; ma io, quanto a me, con licenza vostra e  del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo; e tutti i  giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario ».  Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E  di più vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla  mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco  a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare  la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né vi  parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il  fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho  invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un  gran concetto di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬  biato con qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più né stolti  né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. In¬  vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri àzH’antico  dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della  morte, è fiducia confortata da una speranza che non  falhrà, e che già allieta di sé Tanimo sottratto per lei a  quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e stupenda,  che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema,  poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione  piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come  accade nella mia solitudine, e con cui vo passando il  tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.   In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore  trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine  da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo  « di cedere inesperto ». Cederebbe il suicida egoista, non  il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore, e  guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo  sottrae, alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta  differenza tra la morte di cui Ercole ragiona con Atlante  0 quella che s’incontra nella Moda, al principio delle  Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge desioso  alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che dall’una  conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.  Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel Messaggero della domenica, poi nei Frammenti  di estetica e letteratura, A proposito del Leopardi toma sempre in campo la  questione delia differenza e del rapporto tra filosofia e  poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo;  ma, d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬  guere una cosa dall’altra, come res dissociabiles, e in un  libro di prosa volle in forma più sistematica e più ra¬  zionalmente convincente esporre quel suo pensiero da  cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie.  E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie  in cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi  di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era formato  della vita, e che attraverso una determinata situazione  personale, un paesaggio, un ’immagine, si sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna  delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto  la forma di scolastica dimostrazione e scevra di quel  sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la  personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti.  La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non po-  tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più  e di meno: affermando che l’elemento filosofico predomina  nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si crede  così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare  alla filosofia per esser poeti, e viceversa: giacché la loro  natura è così diversa e ripugnante, che l’una non può  esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata.   Ma io non voglio ora affrontare la questione, che  potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata    li. — Gkntilk, Òfamoni e Leopardi.   quanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬  pardi la questione di principio è priva d’ogni interesse,  perché il Leopardi, anche nelle sue prose, è indubbiamente  poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o ragioni,  cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce  se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità  che gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare  e di assoggettarla a quella più alta razionalità, a quella  critica oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui  consiste propriamente una filosofia che non vuol  dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una  filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo  del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare  intera coscienza di sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un  certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde nella  divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore  a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente  di formulare.   Superiore perché, — ormai è noto agh studiosi più  attenti della sua poesia — questa ha pel poeta un conte¬  nuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto  ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatal¬  mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi,  vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta  che ogni poeta canta non è quella che ha innanzi agli  occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però ogni  poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore  con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬  pardi era, come egli disse una volta, nato ad amare,  ed aveva « amato, e forse con tanto affetto quanto ]iuò  mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo    I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d. filos-  Hai.,  e nel voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vai-  lecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che è piena di do¬  lore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva,  redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che  rassomiglianza di beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ottimismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella  natura considerata dal punto di vista materialistico,  brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa  in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana biso¬  gnosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme  alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede  nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia  dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore.  11 mondo del pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui  il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il mondo del¬  l'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà è  quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità  è questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi  alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col  progresso della riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la canzone All’Italia con La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della  sua poesia, dove la bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e dissolvono nella commossa e tenera  effusione di un’anima angosciosamente agitata da un  bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede  nella virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di questo superiore ottimismo in cui rimane assor¬  bita la sua iniziale visione pessimistica; e continua a dire  che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-, ma  l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella    ' storia del genere umano.   - Lett. al De Sinner -- realtà che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo  bensì la forma poetica della sua espressione in modo  pieno e perfetto.   Se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico,  ironista, materialista piuttosto mediocre nell’ invenzione,  dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri che  lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph,  disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬  ferma delle sue idee: mediocre nell'esposizione od ela¬  borazione della materia, per evidente inesperienza del  metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità coi grandi  pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il Leopardi e si  fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima  per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo  ed eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi  la sua poesia s’impone e suscita un’eco solenne nell’animo.  In questo senso bisogna pur dire che in Leopardi non si  deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima, che  rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima uma¬  nità. C’ è insomma il poeta.   Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di avere  definitivamente dimostrato con argomenti esterni, at¬  testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso L., e con argomenti interni, desunti dallo svolgimento del pensiero e dagli evidenti legami onde le  singole operette sono congiunte tra loro per graduali  passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal  primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma  un organismo, un tutto unico, che si articola dentro di  se stesso e si conchiude. Si conchiude tra un preludio e  un epilogo in una opera, che è un poema, e non è un  trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬  nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti capitoli, scritti tutti in  un anno di lavoro felice, ma con un intervallo tra i primi  quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte,  svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella  prima serie: dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo  capitolo, quello perché introduzione e questo perché  apologia e conchiusione di tutta la serie, si ottengono  infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in  due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è  destinato a svolgere un certo motivo, e quindi forma  un ritmo a sé. Sospetto confermato da alcuni spostamenti  dall’autore introdotti nel primitivo ordine cronologico,  e poi costantemente mantenuti, salvo una sostituzione  che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al  posto di un capitolo del primo gruppo: capitolo abolito  allora perché infatti non armonico né col gruppo, né  con tutta l’opera.   La distribuzione, è ovvio, non può avere se non una  importanza relativa. £ ragionevole pensare che fosse  voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non  volle mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da  lui curate dei Canti, e diede loro un ordinamento ideale,  che per lui aveva un \'alore, e che per i lettori ed inter¬  preti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto stesso  che tutte e venti le operette furono scritte successivamente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo,  e hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo,  dimostra evidentemente che i loro singoli gruppi non  si possono considerare separatamente, quasi ognun d’essi  formasse un tutto a sé.   La distribuzione del nucleo principale delle Operette  in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a capo un capitolo introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere  le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali  che nel pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj  complessivo, e formano l’unità organica del libro; e in  questo modo può servire quasi di chiave a un libro, che  fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro  capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre  dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere  un taglio netto tra un gruppo e l'altro, e una soluzione  di continuità che non si sa perché l’autore avrebbe do¬  vuto introdurre una prima e una seconda volta nel  corso della sua unica opera.   Discrezione che non vedo, per esempio, nel professor  Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello  che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬  vire quindi come passaggio al secondo, mi domanda:  « Ma non potrebbe stare anche nel secondo, poiché è  una affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta-  mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il  primo gruppo concluso da questo dialogo di Malambruno  e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura  e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero  dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno  quell’anima che si ritrova di fronte alla Natura al prin¬  cipio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi non  un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile  ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è una  constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel se¬  condo ciclo il problema.   Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬  zocco -- da me usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬  renza tra primo e secondo periodo in questa trilogia  delle Operette consisterebbe, secondo me, in ciò: che nel  primo « r infelicità del genere umano si considera particolarmente nell’età moderna come effetto più che altro  della volontà pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel  secondo invece, « questa infelicità si considera come  legge imprescindibile e ineluttabile dell’umanità o del  mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella prima  ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e  di fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio  di ogni male e di ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo  Zumbini tra la prima fase « storica » del pessimismo  leopardiano, e la seconda metafisica o cosmica. Ma non  corrisponde per l’appunto alla distinzione da me indi¬  cata, tra il concetto del primo e quello del secondo gruppo  delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien  posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto  della vita, non più degna d’essere vissuta; poiché degna  sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,  coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e l’uomo  se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irrequieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ».   Qui il pessimismo storico è già superato, e Malam-  bruno può dire che « assolutamente parlando » il non  vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché la  vita umana, fin da principio e per sua natura, è senso,  coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e  affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬  rere », scrissi io, « che la morte dell’umanità, la sua nul-  htà o infelicità sia, nei dialoghi del primo gruppo, una  colpa dei degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è au¬  mento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in realtà,  fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo.    c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Ma-  lambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine del  primo ciclo.   Il secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della  verità scoperta nel primo. E si apre infatti col Dialogo  della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione  del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso  e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior  copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto  il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio  spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e  farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare  l’umanità, rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta,  rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente, che  ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi  alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo  ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è  aperto tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il de¬  stino a cui gli conviene di rassegnarsi, rinunziando a  quella natura che non è per lui, e a quella vita che sol¬  tanto nella natura potrebbe spiegarsi.   Il primo ciclo è una negazione, per così dire teoretica; il secondo è la negazione pratica, che consegue  dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere  quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però  la conclusione del Leopardi, il quale non finisce con  r Ultimo canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché  quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto nel  terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo:  che quella vita che certamente non ha valore, perché è  dolore e perciò negazione della vita che noi vorremmo  vivere, ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua stessa  negazione.   La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la stessa  contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da  tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch,  attraverso una filosofia che sappia intendere e sorridere  con la magnanimità bonaria di un Ottonieri, attraverso  gli stessi rischi in cui la vita si perde e si riconquista  col gusto di una cosa nuova, e in generale attraverso  l’attività, il movimento, la passione e la speranza che  non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore  che ci fa ricercare nell’uomo, neW’umana compagnia,  quello che la natura ci nega anche nella piena coscienza  della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e sente  la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo  dalla natura.   Una soluzione dunque del problema della vita nei tre  cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che no: perché la via che filosoficamente si do¬  vrebbe seguire per superare il pessimismo radicale dei  primi due cich è, senza dubbio, quella per cui l’anima  dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente  procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì   10 slancio naturale dello spirito che risorge con tutte le  sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo,  in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. Leopardi sente bensì e vive la verità superiore, ma  non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬  rimenta in sé ed attesta coi moti del suo animo la po¬  tenza dello spirito, che anche nell’uomo che s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa della forza  tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta  la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello  spirito. E in questo balsamo, che il suo animo sparge  così su tutte le piaghe che ha aperte e che ha fissate  inorridito, in questa dolcezza che sana ogni dolore, in  quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui  la personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto  nelle Operette, come nei Canti.   Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde si  conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.  scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei.  lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile,  che il centro e l’accento principale dello spirito leojiar-  diano è in quel « senso dell’animo », com’egli dice, che,  agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore, vincolo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale  inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite  infatti (coni’ è detto nella Storia del genere umano) a  quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è prodotta dal  sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del L.,  come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi  vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna  d’esser vissuta, per quel che dice appunto Plotino: «E  perché non vorremo noi avere alcuna considerazione  degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei  fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari  e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran  tempo: che morendo, bisogna lasciare per sempre: e non  sentiremo in cuor nostro dolore di questa separazione;  né terremo conto di quello che sentiranno essi, per la  perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del  caso ? ». Questo non è un argomento filosofico, ma un  cuore che trema in ogni parola; e ogni parola si sente  come velata dal pianto dell’anima che il dolore apre ed  espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a domandarmi il profes¬  sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola delle  Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia  consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della  vita nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno possa dubitarne. E non vedo  che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale dubita piuttosto  che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare che  sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo  a Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo posto fu collocato il Dialogo  di Tristano e di un Amico. La compassione di Eleandro,  egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo  dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e  Mis nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere L. ». Ma il Faggi non ha badato che (come avrebbe  potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dall’autografo) cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo fu ideato  quando ancora il dialogo era da scrivere, ma mantenuto  fino alla fine della composizione del dialogo stesso. Sicché  il concetto di Mist'nore è puntualmente quel medesimo  che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si  oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si  oppone soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser  detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col domma  della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬  dronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo  vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII  e dai progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche  sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo vittima della  natura e però degno di compassione.   La compassione non è amore; certo. Ma ne è la ra¬  dice. E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del  genere umano, manda Amore fra gli uomini. Perché solo  l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera l’infelice;  e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che  gli si sprigiona dal più profondo del cuore: «Sono nato  ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva », soggiunge. Oggi non  mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie  stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»-  l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si'  sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al  dommatico ottimismo di Timandro; ma si smentisce  subito continuando. Con tutto ciò sono solito e pronto  a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di pa¬  timenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg  una sorta di amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte  questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza  col riscontro di quel dialogo con i canti dell’amore fio¬  rentino, Aspasia e Amore e morte), non è la disperazione  della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è la  bellissima fanciulla che   Gode il fanciullo Amore   Accompagnar sovente;   la bella morte, pietosa, sospirata in quel languido e stanco  desiderio di morire che sorge col nascere d’un amoroso  affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano,  non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì  contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di Tristano.   Vero è che per leggere Leopardi non bisogna tanto  badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in  cui lo dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente  consiste la sua anima, e quindi la vita e il valore della  sua prosa. Che io perciò desidero considerare più come  poesia che come argomentazione. E perciò non posso  accettare quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’ Elogio degli uccelli.   Come mai, mi domanda del primo, «appartiene al  secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è  senza dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato.   vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ».  Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza  che c’ è fra un uomo chiuso nelle quattro mura d’una  prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’ Oceano  infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo  Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che  il grande Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due  han trovato la maniera di fuggire la noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto non  ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo  a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per lungo tempo essa ci tiene  Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa pregevoli molte  cose che altrimenti non avremmo in considerazione.  E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla con¬  versazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo  da questo datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche  Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e due, tra  fantasticare o navigare, van consumando la vita: non  con altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico  frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento  che l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo svegliarsi ’ ».   Ora tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale  dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo spunto  del Colombo ci è indicato dallo stesso Leopardi, che,  come io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto  col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del dia¬  logo va quindi cercato nel passo che segue alle parole  citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi,  come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-  dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di  Leucade) giù nella marina, e scampandone, restavano  per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io  non so se egli si debba credere che ottenessero questo  effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno  per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo  avuta cara la vita, che prima avevano in odio; o pm-g  avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na  vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe  di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(,  durevoli che quello non produrrebbe; al quale, per questo  conto, ella è superiore assai. Credesi comunemente che  gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco in  pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬  pria, che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso  rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche per¬  sone in tanto amore e pregio come da’ navigatori e  soldati ».   Non il consumai'e la vita è l'utilità del rischio, a cui  Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la gioia di riaf¬  ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfug¬  gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo  bene, appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬  stiamo. 11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma  che bisogna perciò affrontare per vincerlo.   Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il  piacere della vista di un cantuccio di terra: ma il povero  prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua  sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i dolori,  la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può parlare  perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino universale degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo  della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo:  « A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la  (juale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose  matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro:  e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra,  quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo mate¬  riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così  nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la mente  per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero.  Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche  in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova con¬  tenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo  da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di  noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il  dolore e il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio  col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier  confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tri¬  stezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza,  ma questa per la più parte del tempo è come una notte  oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia  al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto.  Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare  quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede  sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che  ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del Tasso  l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale,  per chi legga la prosa leopardiana con animo sensibile  all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può  significare altro che un realistico strappo che 1 autore  vuol dare alla stessa poetica illusione consolatrice del-  r infelice prigioniero.   E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello  scrittore io credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli  lirica stupenda sgorgata al Leopardi dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto  di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli  un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj  riflessione; benché questa sia ravvivata dal soffio della  poesia inerente al soggetto. Il Leopardi non intendeva  di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no  litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto  estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello  non è un canto di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo  il Faggi, il Leopardi è filosofo, e non è poeta. « Non ha  creduto di spogliare del tutto la giornea del filosofo-  che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo soli¬  tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico, scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare  Dante e Tasso. .Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende in una lunga digres¬  sione sull’origine e la natura del riso, suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che  fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo suo volea riposarsi, si lascia attrarre  a considerare il riso umano nello scettico, nel pazzo e  nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto  degli uccelli ».   Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia  voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi ritenuta da senno per vera, e industrian¬  dosi di dimostrarla nel miglior modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci  ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione mia fu di far poesia  in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una mito¬  logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi,  senza essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi,  possiamo aggiungere noi. E del resto a quella conclu¬  sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬  ginazione beta o serena in cui l’animo del Leopardi volea  riposarsi » ; e rispetto alla quale gli uccelli non sono dav¬  vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella tessitura  dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze delle  sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui,  della storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine,  simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione  e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a  questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso  quella Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli  a conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu  notabile prowedimento della natura l’assegnare a un  medesimo genere di animali il canto e il volo; in guisa  che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla  voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si  spandesse all’ intorno per maggiore spazio e pervenisse  a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la  quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata  di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto  e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri  animali che agli uomini, l’udire il canto degli uccelli ».   La prosa tranquilla e contenuta vuol essere nella  sua forma esteriore l’eloquio didascalico di un filosofo, ma  tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che vi  si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta,  che fa dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento  degli uomini la vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬  trario, pochissimo soprastanno in un medesimo luogo; van-    I Episiol., lett. . — GENTILE, Manzoni e Leopardi.  no e vengono di continuo senza necessità veruna ; usano T  volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen  tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i]  medesimo in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccol  tempo che soprasseggono in un luogo, tu non h ved^  stare mai fermi della persona; sempre si volgono cjua I  là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK  lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità  quella prestezza di moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬  sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’  deve vibrare dentro, si spiegano i ricordi anacreontd  che il Faggi dice eruditi e freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel desiderio  finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco  di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella  contentezza e letizia della loro vita ». Ultime parole  dell’ Elogio, che ne sono quasi la chiave, e che reca me¬  raviglia non vedere intese esattamente nepjmr dal Faggi  Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo  pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito  ma offuscatore assai più spesso che rischiaratore del ni¬  tido pensiero leopardiano, postillò: n Per un poco di  tempo. Meno male ! chè dopo la vantata perfezione degli  uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che  Amelio non sia riuscito a convincere pienamente se stesso,  o il suo entusiasmo non sia stato davvero troppo pro¬  fondo ». Come se si trattasse di convincere!   A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬  dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente  ad ognuno, che rifletta che se il filosofo avesse espresso  il desiderio d’essere convertito per sempre in uccello,  avrebbe fatto ridere. Che diamine, il poeta invidia degh  uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui  sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per  essere disposto a barattarla con esse per sempre. Anche  la morte potrebbe essere per lui, come per Porfirio, la  soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso del¬  l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero,  colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero  alcuno degh altri; non cerca se non la utilità propria;  si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi,  e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del  privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,  o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬  simo che si trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del  Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno-  luglio dello stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di commemorare un poeta è quello  di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo  dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi  della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella  di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in  mezzo alle quali questa vita si svolse, le idee stesse che  egh accolse e che professò, le correnti spirituali ante¬  cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono semplici  generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le  quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬  tografia, rimangono appunto generalità, riferibili a migliaia di persone.  Ogni uomo è una determinata personalità in quanto  è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e  cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.  E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia  del mondo di cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto  che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo di  reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo  pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere nello  stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso  luogo e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi,  tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari  nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta material¬  mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse  idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad entrare nel suo intern  è se stessa, diversa, assolutamente diversa dall’altra  quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr  nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^  subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh”  ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire  atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest  dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in  verità tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto  quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che  ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è  la base d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inaf¬  ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta  se non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni  del carattere, nel complesso degh atti e delle parole,  che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro non  è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza.   Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella  vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione  del poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se  non jierché riesce a stampare una più profonda impronta  di questa segreta potenza nelle espressioni del suo essere.  E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della  moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita  l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa  il suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e  ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena  del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune  esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli  vede e tutto ciò che può dirci è la sua anima, anzi  questo dèmone che si cela nella sua anima.  Nel caso di L., quanto difficile cercarla e tro-  v'arla questa scaturigine della sua poesia: e quanto perciò  s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide  tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che sponta¬  neamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma  studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da  mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base di  mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla preten¬  siosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo  più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi  frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora  alla intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una definizione.   Negli ultimi tempi vi si son provati critici di grande  levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non  disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano  indubbiamente alla comprensione della poesia leopar¬  diana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti.  11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità,  che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho  creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il cui  effetto è questo: che il critico non sente la necessità di  risalire sino alla sorgente da cui la poesia leopardiana  sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere l’unità della  sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei motivi  in essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e  le prose del Leopardi, e si dica. Nelle prose, manco  a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è  una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello  che si sforza di dimostrare sistematicamente uno stato  d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato  d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero  e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo,  sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi  in cui il poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano  e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci  col calore e la passione della vita che ogni uomo vive e  sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche non  meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora-  torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e  non si dimentica nello schietto moto della sua anima  Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di  queir ispirazione, che s’apprende immediatamente all’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo  che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure  fisiche e le tristi condizioni personali gli han lasciato  aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta  che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del  mondo e il vasto respiro delle cose. — £ fortuna se alla  prova di questa critica si salva qualche frammento della  poesia del Leopardi.   Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi critici  a ristampare Leopardi purgandolo da tutte le scorie  della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia; con¬  tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia.  Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema-  mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il  significato di ciascun verso risulta dal contesto a cui  appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel complesso  del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre  un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme.  Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se si  crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella  parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la  fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato,  in cui non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione  del nostro animo. L. non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove  il suo petto si allarga e s’inebria del profumo della na¬  tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande cuore  del mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della  luna, imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona  tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad ora  ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Eleandro; ed è Copernico e Ottonieri; ed è Colombo  e Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura dal volto « mezzo tra bello e terribile »; ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra coi  piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e riempie  del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, « innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato nel  sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero  e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni  travagho c gustano una beatitudine divina, ancorché  confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento  nella vita universale. Ed è anche il poeta che come italiano vede le colonne e i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma non vede più la gloria e le armi dei  padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera infinita  d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza  pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore  la disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù  sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio della misera  Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non  gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode  di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno  fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà  sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo fallo  del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che si  leva col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo  che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si  compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle  mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo specu¬  lare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo altissimo  sentimento della invitta potenza del pensiero umano  nella rocca inespugnabile della noia: di questo che egli  dice « in qualche modo il più sublime dei sentimenti  umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da alcuna  cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; consi¬  derare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e  la mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è  ])oco e piccino alla capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito,  e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora  più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le  cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento  e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di gran¬  dezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana » >.  E perciò anche il Leopardi, nel colmo della sua delusione,  può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e ogni  moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura,  il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli  fece vedere e amare in una donna mortale la Dea della  sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una  notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato   Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di  se medesimo:   su l’erba   Qui neglùttoso immobile giacendo,   Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.   Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della  poesia leopardiana, per restringerci al dolce gusto di  quell’ idillico che è la prima e immediata forma di questa  poesia, noi avremo sì elementi di una poesia squisita,  ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella  quale quella prima forma è solo uno degli elementi del  dramma e del fiero contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia leopardiana per l’appunto consiste. L’i dilli o è certo alla base del Leopardi poeta. Ne  risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello  Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’ idillio, come il Leopardi  r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei quindici versi  che gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe in  spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima  quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in  sé e annichilano la voce del vento che stormisce tra le  piante e il suono delle lotte e delle fatiche umane:   Così tra questa  Immensità s’annega il pensier mio  E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo  si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore errante  dell’Asia, che dice alla sua greggia:  Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe.   Tu .se’ quieta e contenta;   E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato.   Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,   E un fastidio m’ingombra  La mente, ed uno spron quasi mi punge  Si che, sedendo, più che mai son lunge  Da trovar pace o loco.   Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico  mito della colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna  Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto  ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La  noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché  la riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬  cora in grado di domandare alla luna il fine di tanti  moti, e che sia   Questo viver terreno.   Il patir nostro, il sospirar che sia;   Che sia questo morir, questo supremo  Scolorar del sembiante,   E perir dalla terra, e venir meno  .‘Vd ogni usata, amante compagnia;   egh può esser queto e contento come la sua greggia.  Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene  fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto:  non aver più né contentezza né pace. Il Leopardi intanto  sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò  in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e  chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande  e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che  non credono al dolore: A voi non tocca  DeU’umana miseria alcuna parte,   Ché misera non è la gente sciocca. Dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna  Kon è dagli astri alcun poter concesso.   Non al dolor, perché alla vostra cuna  Assiste, e poi sull’asinina stampa  11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se talor la vostra vita inciampa.   Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio  Il non sentire e il non saper vi scampa.   Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio  Rompon l’alme ben nate. Ma se il pensiero è la sorgente del dolore, bisogna  pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche questo  è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la stessa  natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore  e nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura  e della vita; che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬  lusioni, che tali si dimostreranno al cimento della espe¬  rienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre dal  fondo del cuore umano a rendere amabile o almen sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro  pensiero, che si sovrappone a questo primo e lo critica  e lo demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore umano e  lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del benefizio  di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero naturale,  e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.  Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva  che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che questa  natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno.  Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata  dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se  stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni  suo giorno, come d’ogni nuovo periodo della sua vita  « Il primo tempo del giorno », canta anche il gallo silvestre  « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo  svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-  ma quasi tutti se ne producono e formano di presente  perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia  alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla  giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla  pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione;  destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza  ciuantunque cUa in niun modo se gli convenga. Molti  infortuni e travagli propri, molte cause di timore o di  affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non  parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del  dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in  riso, come effetto di errori e d’immaginazioni vane.  La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario,  il principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬  sione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia:  tanto più acuto quello, tanto più grave questa, quanto  più viva fu la speranza e ardente la fede nella vita. Quindi  la grande importanza del momento idillico, o giovanile,  spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del  Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco  e della opposizione, che è il momento del dolore. Questo  dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza  dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il  suo significato lirico se non corrispondesse a un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così  bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non  possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride spet-  tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto negli  occhi e nel petto;   Placida notte, e verecondo raggio  Della cadente luna; e tu che spunti  Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care  Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato.   Sembianze agli occhi miei. Del resto questo molle spettacolo non fugge da’ suoi  occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo. Noi r insueto allor gaudio ravviva  Quando per l’etra liquido si voi ve  E per li campi trepidanti il flutto  Polveroso de’ Noti, e quando il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo.   Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli  Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta  Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto  Fiume alla dubbia sponda  Il suono e la vittrice ira dell’onda.   Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di  questa natura di cui ella si vede prole negletta:   , Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella   Sei tu, rorida terra. A me non ride   L’aprico margo, e dall’eterea porta  Il mattutino albor; me non il canto  De’ colorati augelli, e non de’ faggi  Il murmure saluta: e dove all’ombra  Degl' inchinati salici dispiega  Candido rivo il puro seno, al mio  Lubrico pie’ le flessuose linfe  Disdegnando sottragge,   E preme in fuga l’odorate spiagge.    13. — GkktIx<s, Manzoni e heopardi.  Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura  sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne odono  di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste:   E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi,   E l’inquieta notte e la funesta  All’ausonio valor campagna esplori.   Cognati petti il vincitor calpesta,   Fremono i poggi, dalle somme vette  Roma antica mina;   Tu si placida sei ? Tu la nascente   Lavinia prole, e gli anni   Lieti vedesti, e i memorandi allori;   E tu su l'alpe l'immutato raggio  Tacita verserai quando ne’ danni  Del .servo italo nome.   Sotto barbaro piede  Rintronerà quella solinga sede.   Ecco tra nudi sassi o in verde ramo  E la fera e l’augello.   Del consueto obblio gravido il petto.   L’alta mina ignora e le mutate  Sorti del mondo: e come prima il tetto  Rosseggerà del villanello industre.   Al mattutino canto   Quel desterà le valli, e per le balze   Quella r inferma plebe   Agiterà delle minori belve.   D’altra parte, fin da quando il  Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed  eternamente giovanile della santa natura e del mondo,  contro cui si volgerà sempre più risentito e dolorante,  egli sente nel petto   Nell’ imo petto, grave, salda, immota  Come colonna adamantma,   quella noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte  Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e grandi idilli che altro, in¬  fine, si canta se non il dolore ?   Dolce e chiara è la notte e senza vento,   E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti  Posa la luna, e di lontan rivela  Serena ogni montagna. O donna mia.   Già tace ogni sentiero, e pei balconi  Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo  Nelle tue chete stanze; e non ti morde  Cura nessuna; e già non sai né pensi  Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.   Tu dormi: io questo ciel, che si benigno  Appare in vista, a salutar m’affaccio,   E l’antica natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme  Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro  Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi  e lo stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna  formano lo sfondo del quadro, in cui risalta la personalità  di quest’uomo, a cui la speranza è negata e i cui occhi  non brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza di  questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna  sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a  lei. Fantasmi e sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono  alla mente del Poeta soltanto per fargli sentire che egli  ne è escluso:  non io, non già eh’ io speri,  .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta per  terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella  gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione  che l’inaridisce:  Ahi, per la via   Odo non lungo il solitario canto  Dell’artigian, che riede a tarda notte.   Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;   E fieramente mi si stringe il core,   A pensar come tutto al mondo passa,   E quasi orma non lascia.   L’artigiano probabilmente non fa questa malinconica  riflessione. Probabilmente egli, come la donna, rimembra  i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta  tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel  mondo festivo e gorgogliante ancora di sensazioni dilet-  tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore de¬  solato.   E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue  poesie, che il Leopardi stesso definì idillii, e in cui più  forte risuona la corda dell’animo commosso e vibrante  della stessa vita del mondo.   Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria   che comincia;   La mattutina pioggia, allor che l’ale  Battendo esulta nella chiusa stanza  La gallinella, ed al balcon s’afìaccia  L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce  I suoi tremiili rai fra le cadenti  Stille saetta, alla capanna mia  Dolcemente picchiando, mi risveglia;   E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo  Degli augelli susurro, e l’aura fresca,   E le ridenti piagge benedico;   per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura, e  per concludere;   In cielo.   In terra amico agh infehci alcuno  E rifugio non resta altro che il ferro.   Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto  è idillico il principio. I due termini si corrispondono e  si congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione e l’amore per la natura, per  la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza ma¬  gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la  patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che  rende amabile e santa la vita, e non intenderete più lo  strazio delle sue delusioni. Prescindete dal fermo con¬  vincimento, che la sua filosofìa gli ha piantato nel petto,  della arbitraria soggettività degli ideali in cui l’uomo,  non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto  con cui egli, tornando sempre ad esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale degli  uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non  potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca  a questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire  virgineo con cui tutto il suo essere si stringe al mondo,  che non può, malgrado tutto, non amare. Leggete II  pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte del  Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è  gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬  giato, ma il cui incanto è caduto, risorge nella sua me¬  moria e nel suo cuore superba visione, sua delizia ed  erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e presente,  torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,  che già lo fece per tanto tempo ululare.   L’atteggiamento negativo ed ostile, quando non si  scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e signi¬  ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme  di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in  qualche raro tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬  rette morali. Di cui si è potuto parlar con sì distratta  intelligenza da vedervi lampeggiare non so che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi,  sa che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici  sono i critici del frammento. Si fermano a una pagina  delle Operette leopardiane, e non curano di guardarne  l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente unità  organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una,  sotto la stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento  dell’autore. Così vedono Momo, i sillografi, Stratone;  ma non vedono il principio e la fine del libro. E si lasciano  sfuggire il significato e l’accento del mito iniziale, la  Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-  v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore  gentilissimo; come si lasciano sfuggire le meditazioni  finali di Eleandro e di Plotino, tutte umanità ed affetto.  Non vedono perciò lo spirito complessivo e centrale e  quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,  che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti  più duri, più pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta  è colpito allo spettacolo del freddo vero.   L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due  opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello  spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime.  La quale nel momento stesso che pare prostri gli animi  nel più disperato dolore, li solleva, conforta ed esalta,  aspergendoli di non so che affettuosa soa\ ita. Idilho e  dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la  vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed  estrania; e fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente  dentro di sé un vuoto infinito. Due cuori diversi, ma non  posti l’uno accanto all’altro, bensì unificati in un cuore  solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né ])cssi-  mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà,  del valore e della superiore letizia della vita, tremenda  insieme e adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬  senza della poesia leopardiana.  In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che quel  pensiero che ferisce, sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo  stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora  rinverdisce di nuove fronde. Non si può negare che esso  faccia guerra continua alla nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la fede  e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ;  e dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna,  la quale tenta d’immergervisi e sentirne il refrigerio,  sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e s’affretta  per le piagge odorate.   Se non che questo pensiero devastatore e distruttore  della originaria unità dell’uomo con la natura, è esso  stesso una nuov'a natura: è la natura di quell anima  grande perché infelice, e infehee perché grande, onde il  Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in  verità sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori,  ma si pensi, si attui, si viva, esso non è più nulla di  estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in esso, ancorché  rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.  Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità  superiore in cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito  attraverso al pensiero e al canto; poiché (come egli dice)  « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la  potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà  dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce  naufragare, è contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia  spaziando più oltre. Allora egli, piccolo ed esile fiore  sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore, s’inebria del  profumo della sua poesia, che consola il deserto. Allora  egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna  gli può strappare, nel demone divino e onnipotente che  fa insieme la sua infelicità e la sua grandezza, la gioia  e il fervore della vera vita; in cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende l’amcre  con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬  taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire.  A Porfirio che a conclusione d’un rigoroso ragionamento  si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che « non dee  piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere secondo  ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro  chi non cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi  dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere  umano. Uomo chi l’amore di se medesimo pospone al¬  l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini,  è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ?  O non ci sono, per dir così, due ragioni: una, inferiore,  che ci trarrebbe al suicidio attraverso il più sordido amore  di noi medesimi, e una superiore, che ci libera dal giogo  di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini che  ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non  è la natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità  che soffre ed ama e canta.   Quale in notte solinga  Sovra campagne inargentate ed acque.   Là 've zefiro aleggia,   E mille vaghi aspetti  E ingannevoli obbietti    1 Operette. Fingon l’ombre lontane   Infra Tonde tranquille   E rami e siepi e collinette e ville;   Giunta al confin del cielo. Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno  Nell’ infinito seno   Scende la luna; e si scolora il mondo;   Spariscon Tombre, ed una  Oscurità la valle e il monte imbruna;   Orba la notte resta,   E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente luce.   Che dianzi gli fu duce.   Saluta il carrettier dalla sua via;   Tal si dilegua, e tale  Lascia l’età mortale  La giovinezza.   La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.  In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto  segno dello spirito del Poeta. Qui la sua poesia.  Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia Nazionale  dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata, oltre che  ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i» lugUo  dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo  Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla morte di L. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno  di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e interessi  in massima parte estranei all’animo del Leopardi, anzi  osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro  uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così impor¬  tanti, anche secondo il modo di vedere del L.,  da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni e  de’ suoi giudizi storici. Secolo, si può dire, anti-leopardiano, culminante in questa Italia, potente, imperiale,  creazione audace della stessa Italia che alla fantasia giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche  ambe le braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la  faccia nascosta tra le ginocchia, piangente.   Eppure lungo questo secolo la fama del Leopardi è  venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia  ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia, della sua anima ha acquistato  d’anno in anno, e quasi giorno per giorno, di penetra¬  zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a  mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una  coscienza più seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze risorgevano a dignità civile e  politica. Scendevano quindi in campo contro gli oppres¬  sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di  accorgimento e di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva, operante  e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto  sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una  nuova scienza, una nuova cultura, adeguata all’altezza  dell’assunto politico; e creavano un esercito nazionale; e  sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla vita  economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e creavano le scuole, organizzando tutto un sistema  nuovo di pubblica istruzione e portando via via la luce  neUe menti delle plebi abbandonate da secoli all’igno¬  ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte  le energie individuali si venivano educando al senso e  alla tecnica dello Stato; e infine, in una riscossa della  coscienza nazionale che si era venuta formando negli  animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più  grande guerra della storia; combattevano con grande  onore, e contribuivano più d’ogni altra nazione alleata  alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬  fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova  Itaha e una nuova Roma. Quanto cammino! E quanta vita  in quella moribonda Italia, di cui parlava Leopardi!   Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb  cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi,  r ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua  grandezza. La bibliografia leopardiana è una delle più  ricche tra quante se ne siano formate intorno ai maggiori  poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con la dantesca.  Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e su¬  scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con  i casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi  che soprastano con le loro alte cime al vento, da De San-    ctis a Carducci e a Pascoli, per non citare viventi, e di  fitta boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei grossi  tronchi. Intorno al L. non pure letterati, deside-  sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello svolgimento graduale del genio, e di risol¬  vere tutti i problemi che lo studio di tal materia fa na¬  scere; ma filosofi e storici della filosofia, poiché il Leopardi  ebbe il gusto degli alti concetti speculativi, e nel suo  stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri di dottrine  celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme scienziati  (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto  che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬  vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente  da improvvisate teorie e appoggiato a improvvisate os¬  servazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di costruzioni  e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili tuttavia  a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto  in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente,  peraltro, se ci sono state deviazioni ed eresie critiche e  storture di metodi materialistici suggeriti da pigrizia  intellettuale di letterati ottusi, o da presunzione pseudo¬  scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti di qual¬  siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci sono  stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso  le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti  della espressione artistica sa scoprire il principio profondo  dell’ ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di  quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che in  Italia, in questo secolo, da Leopardi a noi, ha avuto  esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato nel¬  l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per  raggiungere il poeta là dove egli e poeta.   Così in questa selva della letteratura leopardiana noi  non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di questo    secolo anti-leopardiano si può dire che egli sia stato prima  scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno  dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il  creatore della più intensa poesia che si sia prodotta mai  in Italia. Fu scoperto quando un nostro grande critico,  che lo aveva conosciuto di persona, gentile e mansueto  come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti,  e acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro,  non poteva paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire  la infinita differenza tra il pessimismo amaro del filosofo  tedesco e il pessimismo sui generis del poeta itahano.  « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a quello  che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬  derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama  illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in  petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che  non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli, che non  cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non  abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa  credente; e mentre non crede possibile un avvenire men  tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo  amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così  basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile  e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse  prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te  l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva confessato  il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più freddamente  si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli occhi  dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza  indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e  degna di esser vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove  esce candidamente a dire « che non è fastidio della vita,  non disperazione, non senso della nuUità delle cose, della  vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio    del mondo e di se medesimo; che possa durare assai;  benché queste disposizioni dell’animo siano ragionevo¬  lissime e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,  passato un poco di tempo, mutata leggermente la dispo¬  sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un  subito, per cagioni menomissime e appena possibih a  notare; rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella  speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro  apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non  veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al  senso dell’animo ».   Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo dal  sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché  sente di dover affermare, come fa L. Sono  nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto  può mai cadere in anima viva », « sohto e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬  mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire :  <( Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste,  o jier isfogo dell’animo, o per consolarmene col riso, e  non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di  deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di (juel  misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o  di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo,  iniquità e disonestà di azioni, o perversità di costumi;  laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,  benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,  magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato;  quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che  dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e  infine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari;  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Così  aveva pensato quando scriveva con animo  di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi. Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni  dopo, nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche.   Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo il  succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel '33  quegli accenti disperati ed empi;   In noi di cari inganni   Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e noia   La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener nostro il fato   Non donò che il morire. Ornai disprezza   Te, la natura, il br\itto   Poter che, ascoso, a comun danno impera,   E r infinita vanità del tutto.   Momento satanico, ma un solo momento: voce sì  dell’anima leopardiana, ma che il lettore attento non  può ascoltare se non commista in armonia profonda a  voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo  stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione  più schietta della sua propria natura. Alla quale egli non  può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima  di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al let¬  tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mez¬  z’ora gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di  fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre spesso nel Leopardi.  Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di questa  forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a  se medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia  di questo universal meccanismo che regge il mondo  concepito, come L. aveva appreso a concepirlo,  in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in  cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù,  né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza    umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e  la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di  dominarla e farne strumento di una vita spirituale sem¬  pre più ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’im¬  magine enorme e tremenda di quella Natura disumana,  che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo  audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta  nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove all’uomo  che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita  per cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel-  r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un  luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco  che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco  di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide  da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli  ermi colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola  di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era una  forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto,  appoggiato il dorso e il gomito a una montagna; e non  finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di  occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ».  La Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più  che altrove la sua potenza. E alle molte parole con cui  1 ’ Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono  l’uomo in questa vita a cui non egli ha chiesto di nascere,  risponde breve che « la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate  ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve con¬  tinuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo;  il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiun¬  gono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che    appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese; come  fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita  per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso,  e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che  r Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò  un superbissimo mausoleo di sabbia; sotto il quale colui  disseccato perfettamente, e divenuto una bella mum¬  mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato  nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo della  prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga questa  immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra  una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace  d’indagare questo mistero enorme delbumverso non per  addolorarsi del disperato destino deU’uomo, anzi per  riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo socratico, che con occhi di lince scopre  tutto il vano e il doloroso della vita, ma ne ragiona con  impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al di sopra  e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo Leopardi non fa la fine dell Islan¬  dese; non soggiace aUa natura, pasto dei leoni o còlto  improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda dal¬  l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore  nell’ intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia  n plebeo il quale, non valendo a cessare gli oltraggi del  destino, si consola con la necessità dei danni, quasi fosse  men duro un male senza riparo o non sentisse dolore  chi è privo di speranza. No,  Guerra mortale, eterna, o fato indegno,   Teco il prode guerreggia.   Di cedere inesperto.   È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso  luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de    casi. A quel modo di emenda a cui s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà consentire, come sappiamo.  Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non devecedere.   Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero si leva al di sopra del fato, intende, comprende  e sorride;   Che se d'affetti   Orba la vita, e di gentili errori,   È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me bastante  E conforto e vendetta è che su l’erba.   Qui neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido.   Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si allarga  allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece  battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità.  Ma questa eroica grandezza non basta; poco stante,  nella piena maturità delle sue esperienze morali, tornata  la calma dopo la tempesta della patita delusione e del  sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal  cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator  dei casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi  cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’ impietrata lava,  là dove erano state liete ville e ricche messi e armenti  e città famose, e ora tutto intorno una ruma involve, il  suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra, che,  quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor  manda un profumo, che il deserto consola: simbolo della  sua poesia, del suo animo, che da questa spietata empia  natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana  compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro  al destino:   Nobil natura è quella  Che a sollevar s'ardisce  Gli occhi mortali incontra  Al comun fato, e che con franca lingua,   Nulla al ver detraendo.   Confessa il mal che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma contro la natura che sola è rea:   che de’ mortali   Madre è di parto e di voler matrigna.   Costei chiama inimica; e incontro a questa  Congiunta esser pensando.   Siccome è il vero, ed ordinata in pria  L'umana compagnia.   Tutti fra sé confederati estima  Gh uomini, e tutti abbraccia  Con vero amor, porgendo  Valida e pronta ed aspettando aita  Negli alterni perigli e nelle angosce  Della guerra comune.   Oh l’alta meraviglia del Leopardi, dopo circa un  lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel concetto desolato  del mondo che le meditate dottrine gli mettevano innanzi,  e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella speculazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a  chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta,  ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere scritto  le Operette che sono la filosofia del Leopardi, ma sono  pure un momento essenziale dello svolgimento della sua  poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della  sua vita avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno nella filologia  italiana, che furono per lui le cure spese intorno alle  Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia  italiana. oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire  in petto la vita ! Non che risorgesse la speranza; non  che la natura gli apparisse sott’altra luce; non che si  accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.  Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti  Natura, e i dolci inganni.   Sopirò in me gli affanni  L’ingenita virtù ;   Non l'annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura  L’ infausta verità.   Dalle mie vaghe immagini  So ben ch’ella discorda;   50 che natura è sorda.   Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette:  Pur sento in me rivivere  Gl’inganni aperti e noti;   E de’ suoi propri moti  maraviglia il sen.   Da te. mio cor, quest’ultimo  Spirto, e l’ardor natio.   Ogni conforto mio  Solo da te mi vien. Saffo ha ragione quando afferma;   Mancano, il sento, aH’anima  Alta, gentile e pura. La sorte, la natura.   Il mondo e la beltà.   Saffo però ha dimenticato il suo cuore:   Ma, se tu vivi, o misero.   Se non concedi al fato.   Non chiamerò spietato  Chi lo spirar mi dà.   Ecco, Tanima si calma, torna la vita con le sue attrattive,  con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al cuore del    2 i 6    Poeta Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza  negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa; toma  l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il petto, al suon della sua voce; quando questa  voce gli faceva lasciare gli studi leggiadri per affacciarsi  al balcone della casa paterna:   Mirava il ciel sereno.   Le vie dorate e gli orti,   E quindi il mar da lungi, e quindi il monte.   Lingua mortai non dice  Ouel eh’ io sentiva in seno.   E pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni prima,  in quel capolavoro che è l’idillio scolpito nei quindici  versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna, della spietata natura, aveva intravvista, sentita,  amata un’altra Natura; l’immensa Natura, verso la  quale dal limite stesso della prossima siepe l’anima è  lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica dolcezza:    interminati   Spazi di là da quella, e sovrumani  Silenzi, e profondissima quiete   .... ove per poco  Il cor non si spaura. E come il vento  Odo stormir tra queste piante, io quello  Infinito silenzio a questa voce  Vo comparando; e mi sovvien l’eterno,   E le morte stagioni, e la presente  E viva, e il suon di lei. Cosi tra questa  Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare.   Di questo momento mistico del Leopardi poco s’è  parlato; ed è momento di grande valore per la compren¬  sione della sua anima, che in quest’atteggiamento reli¬  gioso placa definitivamente il fiero contrasto tra la sua    indomita soggettività e la realtà onnipotente e infinita,  in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in  una situazione idillica che, riportando l’individuo alla  natura madre, infonde in lui la fiducia rinfrancatrice,  di cui l’uomo ha bisogno per vivere, abbandonarsi al¬  l’azione e sentire nel proprio petto il respiro eterno e  r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò,  com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i grandi  idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore  errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più  potente espansione e della lirica più piena e felice del  Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia leopardiana.   Quando si legge la lettera al Giordani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta  la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e  un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi  cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune  immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel  cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura, la cui voce mi parve  di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere com¬  mossi da questo prorompere di così alta vena mistica la  cui scaturigine evidentemente si cela nel centro vivo  più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   Allora si ode quasi il lento respiro queto e dolce e l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria parte,   Sovra un rialto, al margine d’un lago  Di taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si volve.   La sua tranquilla imago il sol dipinge.   Ed erba o foglia non si crolla al vento;   E non onda incresparsi, e non cicala  Strider, né batter peima augello in ramo,   Né farfalla ronzar, né voce o moto  Da presso né da lunge odi né vedi.   Tien quelle rive altissima quiete;   Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio  Sedendo immoto; e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le coramova, e lor quiete antica  Co' silenzi del loco si confonda.   Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur  così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo funereo  sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata  poesia :   Forse s'avess’ io l’ale  Da volar su le nubi,   E noverar le stelle ad una ad una,   O come il tuono errar di giogo in giogo.   Più felice sarei....   Poiché il pastore vede che la sua greggia è beata, quasi  libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non -prova, a  differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra  l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la  mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia  riposo. E ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si  appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è la  felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irre¬  quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile  intrigo, in una fatica vana senza speranza.   Tutta la poesia del Leopardi attinge in quel punto  mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia.  Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni che    gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della  casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti  azzurri ». Per lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi,  né riso, né amore: ma cantare sì, come ruccellino che  dalla vetta della torre antica va cantando, alla campagna,  finché non muore il giorno; ed erra l’armonia per la  valle, mentre   Primavera d’intorno   Brilla nciraria, e per li campi esulta.   Si ch’a mirarla intenerisce il core.   L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che passa e della morte che s’avvicina: poiché  di natura è frutto ogni sua vaghezza e in lei non è affanno :  e da lei sgorga pure il suo canto; il canto che aduna  nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare  l’aria e esultare le campagne.   Anche uomini di alto intelletto, come Capponi,  han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel suo con¬  cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬  zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬  pere. Come se questo stesso lamento non uscisse dalle  Sacre Carte ! E gli han voluto far osservare che felice  era certo egh stesso mentre componeva i suoi canti, e  riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo  il significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente  del suo irresistibile incanto! L. lo sapeva bene,  e sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri  annotava: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita,  e nel quale mi contenterei di durare finch’ io vivo !  Passar le giornate senz’accorgermene e parermi le ore  cortissime, e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta  facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non aveva  egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano  intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e interamente  comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza?  Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare  della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir così,  a far la più alta prova del suo potere dentro il genio  dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova  se stesso, scoperta che abbia la fonte della sua vita:  quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle beate  larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere  e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze, al  regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre  questa sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente  l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza  e nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad  amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti  parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore  in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto  dello spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento  del proprio valore, quale si svela al contatto di quella  natura eterna, in cui è il suo principio e con cui perciò  deve immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio  essere. E il naufragar m è dolce in questo mare.   Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua  poesia, che i giovani amano per l’amore della giovinezza  che vi spira dentro; che gh uomini maturi ed esperti  della vita amano non meno per il lucido specchio che  essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso  i quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni  disinganno; che tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti  o ignoranti, considerano come uno dei doni più preziosi  di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran cuore  parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono  per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e della non meno innegabile azione dello  spirito che affranca da ogni miseria e infonde la fede  per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro, sacro per  gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in  cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò  faciU, com’ è al passero solitario il suo perpetuo canto :  anima della sua anima. Piccolo libro da leggere bensì  non a brani e frammenti, ma intero, affinché non sia  frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme  la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze e  pubblicata nel volume di letture Giacomo Leopardi a cura di Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di  Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande  poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di  questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto  che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto  falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole.  Ripugna infatti al senso poetico di cui ogni spirito ben¬  nato è più o meno riccamente dotato, questa ricerca che  ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e  affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che  pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta,  e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia  quello che egli sente, e sente profondamente, al paragone  degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire.  Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia,  un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno !  Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza  e col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita  spirituale, nessuno così fortemente come il poeta afferma  la propria fede e la oppone ad ogni più meditata dottrina  che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati  interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto  d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le  altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si  svolgono dentro al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬  sono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una gioia  tutta soggettiva come di chi in sogno viene a capo del  suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del giar¬  dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e le opere loro, perché con la ragione sovrana  prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di fronte  al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contrad¬  dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle  sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede;  e insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene  così a trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza  della sua personalità se a misurarla non adotti un metro  diverso. E che cosa di più irriverente e ottusamente inu¬  mano e brutale che accostarsi ai grandi uomini per guar¬  darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano scorgere  i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto  in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è  grande uomo per il suo cameriere; e potrebbe parere che  in fine il filosofo sia, per tale rispetto, il cameriere del  poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le scarpe, ma  non lo guarda mai in faccia.   Oh la servitù numerosa che sta intorno al poeta !  C’ è il filosofo; ma c’ è anche l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ; schiere e schiere  di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i quah,  per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il padrone, per entrargli nel¬  l’anima e scrutarne la passione, intenderla, sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!   Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto  tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se stesso e \fivere la sua vita supe¬  riore, di cui è geloso come del suo tesoro. Talora può  concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile  degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti  occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬  riosi, così opachi, così grevi; — e negh angoh della bocca  il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini che  la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue inces¬  santi inchieste e pretese, diventa materia di satira.   Allora, il Leopardi esce in un’osservazione di gusto  volteriano, come questa che è nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e  della filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità  se l’uomo fosse ancora qual era da principio; consiste a  correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter  l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato  s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la som¬  mità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla  filosofia ». Osservazione che ama ripetere, dandola come un «suo principio»: «La sommità  della sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà,  e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non  fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il  suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto  umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato in  cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida  forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi  delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo  di Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si  ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bi¬  sogna filosofare ».   Nei Paralipomeni degli ultimi anni, anzi  degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente dirà;   Non è filosofia se non un'arte  La qual di ciò che l'uomo è risoluto  Di creder circa a qualsivoglia parte.   Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto.   Le ragioni assegnando empie le carte  O le orecchie talor per instituto  Con più d'ingegno o men, giusta il potere  Che il maestro o l'autor si trova avere.    Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬  pardi chi si limitasse a leggere questa sola ottava dei  Paralipomeni, come chi si diverte a ripetere col Petrarca.  Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o ignorando  che PETRARCA continua; Dice la turba al vii guadagno  intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si  ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen-  sier suo in questo modo:   Quella filosofia dico che impera  Nel secol nostro senza guerra alcuna,   E che con guerra più o men leggera  Ebbe negli altri non minor fortuna,   Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera  La mia mente oso dir, portò ciascuna  Facoltà nostra a quelle cime il passo  Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso.   La filosofia, dunque, che il Leopardi schernisce è quella  teologica, come allora si diceva, dommatica, spiritua¬  listica; la filosofia della Restaurazione e del Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni  filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica,  presuntuosa, intollerabile alla mentalità leopardiana per¬  ché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni li¬  bera mente, proveniente, come pur quivi si dice,   da quella   Forma di ragionar diritta e sana  Ch’a priori in iscola ancor s'appella,   Appo cui ciascun’altra oggi par vana.   La qual per certo alcun principio pone  E tutto l'altro poi a quel piega e compone;   cotesta filosofia non è satireggiata qui propriamente  dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole, da  un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è combattuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬  tore par vera. Neanche si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia respinta in tutte le sue  forme e in generale, quando osserva che anch’essi, questi  avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro  filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere  la sua filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli  propriamente professa di averne due. Dico cU più: senza  r intelligenza di questa sua duphce filosofia si rischia  di fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare,  e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una  filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da camerieri che allacciano le scarpe e  non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a braccetto una critica  che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non meno,  tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però  della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione di metodo, che ritengo fonda-  mentale. Ed è questa: che l’essenza della poesia non è  nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta  ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma  negh occhi con cui lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e  vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì,  nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo  ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede  o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la sorgente  della poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette  morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e reazionario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e  per ciò non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e  cioè di positivo ed eterno, è critica radicalmente sbaghata,  che scambia le ombre con i corpi saldi. Poiché le idee,  una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima assume  verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse    partecipano e da cui traggono il loro significato vivente,  sono pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente,  ma non {lotrà mai abbracciare al suo petto.   Nel caso del Leopardi poi c’ è di più; perché, come ho  accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu-  rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e  che fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì  del suo canto, egli ha la filosofia di cotesta sua filosofia.  E in questa filosofia superiore che è negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da  Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che non bisogna filosofare; in questa  filosofia superiore è il senso serio e profondo di quella  che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda della  filosofia, giudicata inutile anzi dannosa.   Lo stesso L., teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della sapienza, la  chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»:  una filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle  cose, ci ravvicini alla natura: filosofia naturale, spon¬  tanea, primitiva, barbara; più che alle origini, si trova  nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo da  capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della filosofia leopardiana contro la pretensiosa  filosofia ottimistica alla moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle  opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano  allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i più  degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello  solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste  cose le dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e  moderni ». Timandro ha concesso ad Eleandro che tutti    sono infelici; gli ha concesso la necessità della nostra  miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli  uomini; gli ha concesso che in queste verità si assommi  la sostanza di tutta la filosofia; ma deplora egh che tali  verità vengano divulgate col solo frutto di spogliare gli  uomini della stima di se medesimi («primo fondamento  della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh  dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle verità che sono la sostanza di tutta la  filosofia, si debbono occultare alla maggior parte degli  uomini; e credo che facilmente consentireste che debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare, come  s’ è detto.   Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia primieramente  è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non  fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima, perché cjuella ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e imparata che sia, non  si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli  uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi  più facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ».   Non si può mettere in opera. Il che significa che  rultrafilosofia — che è la conclusione perfetta e perciò  la vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra, falsa  o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è quella  che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi  resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado,  quantunque insieme con essa e al disopra di essa ci sia  una verità certamente più umana e degna dell’uomo,  diretta a ricostruire quel che la prima ha demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che  si conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto  ragionare che s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa  della filosofia superiore non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda natura,  che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà  mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la verità assoluta, perché messaci innanzi  dalla stessa filosofia quando sia riuscita ad elevarsi fino  alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur non  contraddire alle verità via via accertate e sempre più  strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile  sistema, bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sem¬  bianza di verità, illusioni, fantasmi, tutte quelle altre  verità che come tali si rappresentano all’uomo il quale  a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda rivivere  il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva, felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente. L’uomo L. non può non  filosofare; non può non passare attraverso la prima filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda e superiore. Dove egli ritrova tutto quello che ha  perduto. Lo ritrova, s’intende, com’ è possibile soltanto dopo  averlo perduto; poiché dimenticare quel che ha saputo  e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar fanciullo  un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e le  amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della  virtù chi abbia una volta bevuto al calice del bene e  del male.   Chi distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o  forme, la prima di un pessimismo storico in cui tutto il  male è frutto dell’ « irrequieto ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai Patriarchi),  e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi uomini  vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è,  ripeto, il segreto della sua poesia; di quella dolcezza che  ci suona dentro alla lettura dei canti dal primo all’ultimo,  e in forma più palese e più sistematicamente determinata,  almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza  che negli uni e nelle altre si riversa nelle più varie forme  dell’anima di quest’uomo, che fu certamente tanto grande  quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta onda della  sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvol¬  gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione,  anzi per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella  vita con i suoi ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente attestata  nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano  col mito delle origini della umanità governate dall’amore  e finiscono nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei  scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo  dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro  [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora può parlare  con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia negli  stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio  di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è  fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza  d’animo, iniquità e disonestà di azioni, e perversità di  costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle  opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili,  forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,  che dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo;  e in fine gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari.  i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere  per opera della civiltà moderna e della filosofia. E più  tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge  della vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto  al fondo della disperazione della sua vita senz’amore.  Prima parola ed ultima, amore. Quella stessa che risuona  in fondo ai Canti, nella Ginestra. E contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e insomma a tutto il contenuto  prosaico della poesia leopardiana; voglio dire a tutto  quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli insegnamenti di quella filosofia che, per altro, negli stessi Paralipomeni, dove più espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L.  di uscire in quel famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto avvenimento esulta  Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che giustifica un  empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello che  in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il  quale da chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze  imprescindibili, non può non raffigurarsi dotato di liberta,  e quindi appartenente a quel mondo dei valori per cui  è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione  al falso, o un volere buono in contrasto col malvagio,  e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel puro aere  ideale e sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte; lo  stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui libertà  e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,  altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione  ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa  realtà che si rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo  spazio e nel tempo, materiale, risultante da infinite parti  e particelle che si condizionano a vicenda in guisa che  ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre;  in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade,  è fatale di una necessità che schiaccia e stritola ogni  vana pretesa dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso  del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia nel  cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche  il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal  falso. Anche la volontà che non sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle  tempeste della natura.   La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura,  perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a  ogni razionalità (perché la ragione è discriminazione,  scelta, libertà). Un mistero.   Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che  essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come se  cioè fosse possibile un mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per  l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo,  nel mistero di questa tenebra profonda e per definizione  invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la verità sia proprio quella che egli asserisce ! Come se fosse possi¬  bile salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni verità.   Filosofia dunque essenzialmente contradditoria, che  nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente contrad¬  dizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per  negarsi rivendica di fatto il proprio potere e valore.  Filosofia accettata dal Leopardi, ma con un’anima che  troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è  naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito  reagisce ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi  al dolore, per non aver coscienza di tale contraddizione.  E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo, pertanto,  che dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso  angoscioso del proprio niente, non piega, invece, non  s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione  di tutto il suo spirito nel senso gagliardo e tenace con  cui l’apprende e lo ferma nel cristallo della sua divina  fantasia, si trasfigura: non è più il limite della sua forza  e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza  umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e  infinita potenza.   Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua  poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale  dall’astratto concetto di quel crudo materialismo, che  annienta l’uomo e fiacca perciò ogni velleità di vivere a  proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un mondo  qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo  senso profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno,  che gli \aene dalla sua « ultrafilosofia », dal bisogno di  respingere come antiumana e contradditoria alla incoer¬  cibile natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e sof¬  focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma prode,  di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il  fato indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tar¬  taro:  e la tiranna   Tua destra, allor che vincitrice il grava.   Indomito scrollando si pompeggia.   Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride.   Ora è la misera Saffo, grave ospite di natura, estranea  alla infinita beltà di questa, consapevole del prode ingegno  che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie virili  imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può  vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo  indegno ricevuto da natura, primo principio della sua  infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del  cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi.   Erta la fronte, armato,   E renitente al fato. La man che flagellando si colora  Nel mio sangue innocente  Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa   Per antica viltà l’umana gente;   Ogni vana speranza onde consola  Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto  Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento  anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima dispera¬  zione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,  della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto poter che, ascoso, a comun  danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a questa Natura mi¬  steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente  oppone la realtà all’uomo al punto da non lasciargli più  modo di distinguersene e spingerlo perciò al desiderio  d’immergersi e immedesimarsi col tutto infinito che gli  è davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo  dolore, ossia quella sua soggettività solitaria e disperata  di uomo che, perduta la giovinezza, vede intorno a sé  il deserto e il buio della sera e deH’orrida vecchiezza,  nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,  dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce  gusto dell’eterno:   Così tra questa   Immensità s’annega il pensier mio;   E il naufragar m’ è dolce in questo mare;   de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe   A pensar come tutto al mondo passa  e quasi orma non lascia;   e il suono delle umane glorie e degl’ imperi più famosi  cede come il canto dell’artigiano che riede a tarda notte  al suo povero ostello poiché la festa è finita:   Tutto è pace e silenzio, e tutto posa  Il mondo;   e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante insieme e viva divenutagli familiare:   ed alla tarda notte  Un canto che s’udia per li . sentieri  Lontanando morire a poco a poco;   de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso all’ immoto specchio del lago di taciturne  piante incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte  Giaccian le membra mie, né spirto o senso  Più le commova, e lor quiete antica  Co’ silenzi del loco si confonda.   Estasi; estasi mistica che fa risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel canto  Alla primavera, 0 delle favole antiche:   Vivi tu, vivi, o santa  Natura ?   e quello anche ])iù antico della stupenda lettera al Giordani, che convien rileggere: «Poche sere  addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia  stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna,  e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano  da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche,  e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi  a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto  tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota nello Zibaldone che  « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,  ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della  sua nota, della FILOSOFIA inferiore. Egli stesso ha il pensiero  a una diversa filosofia quando, sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi  si strisciano sempre intorno e appiedi alla verità; di  rado l’afferrano con mano robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto  della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬  timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni,  situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto  il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura  o « senso dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della  piccola ragione, poiché ha bisogno della grande. La quale  non s’illude di aver spiegato tutto quando ha spiegato  la natura, e non ha spiegato e si mette in condizioni  di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a  dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita  umana. L’uomo, che è poi colui che si propone il pro¬  blema della natura, e senza del quale {pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella  mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia  nel meccanismo della natura e condanna alla schiavitù  del nulla, ma che risorge in tutta la sua libertà e nel suo  valore infinito appena la grande ragione gh faccia sentire  la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna  cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬  noscere e interamente comprendere e fortemente sentire  la sua piccolezza » ; e provare la gioia del comporre, del  cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa,  è grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace  alla natura, e può non temere la morte, e può, come la  ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino  alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una  forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio,  che « nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco  savio, che voler savia e filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in proverbio  tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita non  c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi sempre  filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano  robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬  lettualismo.  La quale FILOSOFIA, si ponga mente, una volta, come  s’è veduto, il Poeta la chiama ultrafilosofia; ma non è  poi altro propriamente che la sua personalità, il suo modo  di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù  che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata salire su dal profondo i  palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza, e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia,  il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire;   Non l’annullàr: non vinsela  Il fato e la sventura;   Non con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è, io dico, la  stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero la  determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle parole,  nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica-  mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che  l’autore non fece delle sue idee, e che, sempre a fatica  e non senza arbitrarie glosse, continuano a imbandirci  quei camerieri del Leopardi che sono i suoi interpreti,  pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi non pensò mai di scrivere;  non vorrei, dico, si ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti  Mi perdoni la grande e austera ombra del Poeta questa parola  cara oggi a certi spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il  Padre manda in terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla  a cercare con essi l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e  sparsi, le sentenze assai spesso felicemente formulate  non possono essere pel critico altro che accenni, spie  dell’anima del filosofo. La cui individualità è caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella  che, conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega  tanto le sue parole, spesso espressioni di cose pensate e  non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente  nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad  averne coscienza in un sistema chiaro e bene organato  di idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare e inconfondibile individualità si mamfesta e si fa  conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui  lo dice, non pel contenuto delle sue parole ma pel colore  che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con cui la  sua anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia  d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente della  filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del  cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove  la pupilla trema della commozione segreta: ascoltare il  suo canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Leopardi: l’implicatura conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – filosofia maceratese -- Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche.  Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off the old block’ as they have in Recanati!” --  Importante esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi, targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse l'amministrazione della propria eredità.  Dopo un primo progetto di nozze andato a monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria" di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo, passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della biblioteca di famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese, come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".  L'impegno civico  Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di L., Adelaide e Giacomo  Il medico e naturalista britannico Jenner La sua opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.  Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e delle attività teatrali.  Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di "retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe seguito.  Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale»  Morì il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi, la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi, i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di "Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo, ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre in una lettera dell'8 marzo:  «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.»  Per umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi, infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.  Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000 abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza, ironia e umorismo.  Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi storici su Recanati, coltivati in gioventù.  Opere digitalizzate Monaldo Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca pazienza. Rapporto con il figlio  ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono: senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte: la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo.  La lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819, quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli dovette rinunciare ai suoi piani.  «Mio Signor Padre. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.»  Finalmente, Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di attrito fra padre e figlio. Giacomo Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce che fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si sfogò poi per lettera con l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.»  In toni decisamente più miti ne scrive poi a L. il 28:  «Nell'ultimo numero dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.»  Nelle ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima lettera).  Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i due rimaneva però ancora evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non accettando lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina, scriveva a Marianna Brighenti:  «Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto di sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.»  Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà il proprio testamento, alla settima volontà scrisse:  «Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno anniversario della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L. e la sua famiglia, Bietti, Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di Sandro Petrucci  Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo.  Giacomo Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,  (L'ultimo amico del poeta narra di un suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi, Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede & Cultura, L., Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi, Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il bicentenario del trattato di Tolentino,  n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L.. Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi.  Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Corno, L. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi anti-italiano. che dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio , questi sono i doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo, questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi , e non trovo in esso una sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello?  LA CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer. Fin quì non dite male , ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella , ognuno ba i suoi gusti , e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”. Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo, bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo. come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo , e incominciamo le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia , il Cervello e il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi  Cer. Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città , perchè immagino che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non vogliamo un governo all'antica , il quale pretenda di governare davve ro , ma bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra , un simulacro , un brodo di ranocchie e niente di più.  questa è una cosa da nulla, ed è più facile preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer. Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e il più semplice , ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd , oibù ; se fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano diavere ricevuto il loro potere da Dio , e nessuno si azzardava di slendere la mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re falto dal popolo, perchèchipuòfarepuò guastare, ed è più facile sbalzare dal trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di cucina.Sentite dunque signor governo , e imparate bene cosa ha da essere il governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di tutto, il re ha da essere un re di carta , o vogliamo dire che tulta la sua autorilà deve consistere in un pezzo di carta , esso medesimo deve riconoscerla tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e putati , ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza , e per una semplice for malità , sua maestà di carta deve subito pi gliare la frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere i vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa , e di toccare un quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla cainera dei deputali , e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se però la camera non vorrà darglieli ,lascerà che il governo cammini da per sè stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi scacciare il re con tutta la sua maestà e la  Gov. Benissimo. Fil.Siccome poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla , e che egli pad usarne soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua maestà di carta lo dovrà liberare , e se condanneranno ingiustamente un innocente malveduto dal popolo , sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov. Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone in mano , e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono , il governo, tutto è del popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di passatempo al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”. Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia vera mente solida , dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino , il quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici debbano essere lavorali sopra queslo m o dello , un re dipinlo ,ovvero un re di paglia potrebbe servire nello stesso modo.  La Filosofia. Chi siete, e cosa volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti , i quali hanno inolla pratica dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino. Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p  La Filosofia , il Cervello, a la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia , gli avvocati e i procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un altro poco adattarsi al siste ma antico , e perciò venile avanli madonna Giustizia e facciamo i nostri palli.   posta per imparare cosa deve essere la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in m e n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e la giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròin verecondamente per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle cause, quando stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei giudici però i quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere discacciati e puniti.  102 re che questo non è proibilo ; e non manca il modo di stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se però qualcbe volta vi troverelealle strelle , rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e salvare la capra e l'orto , falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono per tutto , e coperlamente , ovvero scopertamente comandano in lulli i dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo   loro , e a chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un capo la dro , e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali , acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i galantuomini i quali giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo. mini indifferenti , ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione quelli iquali desiderano, che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure vengano giuo catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha da essere veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera . Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si vuole la m a n naia del boia , e piuttosto si gradisce ilcol tello degli assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce , Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il Sacramento , te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete, un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli , i frali, i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave re fatto una sconcordanza , caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re , distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi    Giu . H o capitotullo benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il vostro genio; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello perderà il cervello , e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i proprielari,ma anche 105  1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia , e non ci sarà mai pericolo , che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro. Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà , e lulle le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire , m a siccome ancora non siamo arrivati al punto , basterà stabilire per adesso alcu ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja , intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo partito definitivo , l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg gi , tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione uguale ?  106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in mira di spogliare iricchi,i signori   e i benestanti; e di arricchire i cialtroni , e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino, e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer. Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime , e siccome alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca pito,signora Proprietà?   Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo , che bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne; e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia le anticamere , perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a spalle dei mincbioni , se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre preferire i più indegni , i più asini e i più lemerari, e così si deve correre ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni , diffusa l'idea che tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato , e rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni , igoverni e i ministri del governo verranno strascinati da quella piena , e non potranno più impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo disordine e sono vera  108   mente affezionati allo Stato, daranno mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti qualche loro protello , tutti diranno che quella è la eccezione della regola , e tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto, acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato perchè non ebbe mai niente , e non è dovere che nel giorno della cuccagna un galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza , a depositarsi nella pan cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare la diffusione dei beni , o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa - tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi , ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta, con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con dottieri nasali dei grandi , e sino le zitelle , le vedove e le vecchie , pericolate , perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi , e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi , e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori, e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi , siguor Cervello, e imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in quelle casse , m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie tari e ancora dello stato , allora si manife steranno le forze di questa nuova occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le proprielà , e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli i pezzenti , aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni ? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità. Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso , e non credeva cbe la filosofia la sa. pesse tanto lunga , e pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della proprie tào vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo non cerca di mutar posto , 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti , rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e la buona morale , il deside rio dell'ordine, l'altaccamento al governo e la considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite e degra date dalla miseria , sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni ; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine tolta la barriera della ricchezza e della nobillà , o vogliamo dire tolta la barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo , e le gloriose giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni , o vogliamo dire l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire, ma  Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non potranno es sere permanenti e durevoli , perchè l'egua glianza delle proprietà è in opposizionecon gli ordinamenti della natura.  sfasciata da capo a fondo una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo , sì quando avremo subissata ben beno la società , non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo assicurare il bordello , il susurro , e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama Proprietà , ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi ai miei be nefici regolamenti , e ricordatevi che nel re gno dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni e delle proprietà , o sia per assassinare tulle quante le proprielà.  La Filosofia , il Cervello , l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali , e amici tan to sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve nite avanti , signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà.  L'Ins. Parlate pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi è quella appunto con cui si olliene   Fil.Dibò,oibo.Tutti vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società , e che anche i guatleri , i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi , letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia, e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina? la diffusione della civillà.Voi dunque , signor Josegnamento , dovete mettervi in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi , let terati e saccenti, e di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani , que stinon vorrete che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli oziosi,indocili e scontenti diseme desimi , e gravosi e molesti agli altri.   rivare alla diffusione generale dei lumi,e al l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai vostri scon siderati seguaci , qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero d'individui , e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di vil lapi ignoranti , e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla società non conviene alla filoso fia , la quale vuole il movimento e non vuole la quiete , vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio grado , la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni , e che ostacoli insormontabili naturali e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumi e della civiltà, così è certa che la propagazione smodera la dell'ammaestramento e dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi dolli , di scioli , di sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non pensa , neppure quando si trova ubriaco , di essere esso stesso un sovrano.Chi non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come si rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ? e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà.   L'Inc. Orsù , non perdiamo più tempo perchè io muoro di voglia d'incominciare la mia missione , e di andare a diffondere i lumi e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto allescienze, generalmentepar:   L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in ridicolo i preti , i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che trattano scopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive lusingando  > > . 120 lando , potete secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate sempre di oscurargli la verità e di allerare nel loro cuore igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli dell'uomo , le quali scienzc adoperate dalla filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere le dollrine dell’empielà e per suscitare lospiritodellale. merità.Sevoinon capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare la testa dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu l'opera di un essere necessario, ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi , oppure ciolloli del torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non ne sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi, per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la rigenerazione filosofioa, o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate a colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo , serve a legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili, commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta per custo dire le tradizioni , i monumenti e le opere delle lingue viventi ,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal mescolamento di voci nuove 0 straniere , e logorate e guastale dall'uso , si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli italiani , dai francesi , dai goli e dagli arabi , i libri scritti in ilaliano e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici , e non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in comoda precisamente per questo , e che vo gliamo levarcela di altorno appunto , perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco della dottrina ecclesia stica resterà in piedi , vantando diciotto se. coli d’inalterata antichità , i preti e i frati , i vescovi , i papi e i cristiani ce lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli. E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa diventerebbero i canoni dei concili , i placiti dei pontefici, le opere dei padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari , ma in primo luogo è assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente per due dozzine di secoli ,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso l'ultima sua rovina.  Cer. Questo certamente è stato un passo falso carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della filosofia e i danni religiosi e sociali diventi. nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali , e con questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo   indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare , giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot tore e sulla fede del farmacista , così litiganti è lo stesso che le citazioni e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua , giacchè alla fine dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali. Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento della sua importanza e della sua familiarità , si rende sempre più sconosciuta e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la  per i Cer. E quali sono queste ragioni? tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali , gli avvocati e i giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango, e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di quella lingua , gl'impegni , le protezioni e la cabala faranno il resto; il foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere, voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione. L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden dovi, che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere ilfra. tello carnale dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia. L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil. Una volta adunque la vera civiltà con. e   L'Inc. Ho capito benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più , e la civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito d'arlecchino , una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.  sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono , e al più si deve con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità dichiarata e brutale , predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono il frutto della civiltà , m a rendele poi familiari negli scritti e nei trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per opera della civiltà. Fil. Andate pure , e vi accompagnino cou lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi , ma oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo , e l'incilimento deve esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i superbi. Voi dunque , andando sempre contro natura,dovele mettere in tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori , e d o vele meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini , siccbè queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ?  Fil. Voi vi ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola religione può esser vera e tutte le altre devono essere false , così un solo cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere allrellanle imposture e mascherate , ridicole agli occhi degli uomini e oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o  Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne uno. facendo torto agli altri ?   trebbe essere la citla della Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi pare, operate come vi pare , e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua. Fil. Queslo veramente non è necessario , percbè nei paesi della filosofia ci è il datur omnibus , e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco , e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a bere e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei nostri serragli , come vi vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora nell'altro mondo , e che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta , questa , poco più poco meno , è la religione dei fi losofi liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli due sessi del genere umano quella libertà che si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo illuminato , il libertinaggio animalesco libera è il compendio di lulti i voti e lo scopo principale del liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio , e per l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia nuova cillà , esercitatevi il vostro culto liberamente, e non dubitale che i pollai , i pecorili e i porcili non saranno mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio , ma siccome non so cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu dizio.  Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più , e non gli volge mai nè uno sguardo , nè una parola ; questo Id dio è come se non ci fosse , si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi , e la dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni , ed entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro. Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo , ovvero se col tempo prenderà qualche altra figu ra , e non so cosa sia l'uomo e se finirà di essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio , e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini , voglio dire che non c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile , o il sarà quel che sarà , può accomodarsi benissimo con la dottrina della filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le divinità di le gno e di cocco , e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le lucerte , è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei filo sofi non mancheranno adoratori ,e a quella cara Venere, deessa della voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata , e che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p   Ris. Noi siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani, quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli , e co noscerele che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ?   Rif. Per ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci disertori dalla Chiesa romana. Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo godere i privilegi dell'errore , e non volendo assoggettarsi alle seccature della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale, il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi , e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo , perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta.  Fil. Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non sono più di quelli di pri m a , e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia , nata fatta per venire a figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb. Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti , portiamo titoli e decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico , e insieme coi miei compagni desideriamo di professare li  137 e per ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò non è vero nel senso in cui voi lo intendele , e non polrete provare in nes sun modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es sere i soli a credere e insegnare la verità , che fuori della vostra chiesa lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che vivono in un'altra credenza , e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati e  beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei filosofi la fede e il culto cattolico? e  perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in tolleranti , noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache , di frati e di claustrali di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non vanno a genio della filosofia. Cat. Ma , se è vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel pensiero , e animali dallo stesso desiderio , non potranno albergare in una medesima casa,vestire un medesimo abi to , vivere come gli pare e godere anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi , e i Dervis dei maomettani , perchè lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la parola di Dio, istruiscono la gioventù , so stengono il ministero del culto , assistono gli infermi , consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano per forza , assassinando i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle nuvole e non  1 $   Fil. E non contate per niente il celibato del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà , forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è troppo serio , troppo pubblico , troppo pomposo e solenne, e non può essere mai gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione cattolica è la dominante , ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe, epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio. Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat. tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si accordano mai coi cattolici , e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo , perchè accomodata quella piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete accordarci il bru tismo , le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque , i preti e i cat tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città , o la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle. La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa la sua danza pippando , e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello, la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. – the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.

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