CLASSICI DELLA FILOSOFIA
COLLEZIONE FONDATA DA
NICOLA ABBAGNANO
DIRETTA DA
TULLIO GREGORY
CLASSICI
UTET
Prima edizione: 1977
Tipografia ‘Toso, via Carlo Capelli 93, Torino
INTRODUZIONE
I.
È difficile isolare, nell'àmbito della filosofia contemporanea, un
indirizzo che possa essere caratterizzato in maniera univoca, e al
tempo stesso esaustiva, con la designazione di « storicismo ». Ciò
dipende in primo luogo dal fatto che il termine « storicismo » —
così come si è venuto diffondendo a partire dagli anni ’20, dappri-
ma in Germania e poi in Italia — è stato impiegato per indicare
posizioni filosofiche (e anche non filosofiche) disparate, recando con
sé quasi sempre una carica polemica o, al contrario, elogiativa che
gli ha impedito per lungo tempo di essere assunto a contrassegno di
un’impostazione di pensiero o di diventare una designazione storio-
grafica comunemente accettata. Nella cultura tedesca lo storicismo è
stato infatti identificato originariamente con una considerazione stori-
ca dei diversi campi della vita e della cultura fondata su un atteggia-
mento relativistico, che comportava quindi una relativizzazione dei
valori alla particolare cultura o al particolare periodo storico nel
quale si sono formati. Nella cultura italiana esso è invece servito a
indicare soprattutto, almeno fino alla seconda guerra mondiale, una
concezione della storia (di derivazione hegeliana) che affermava la
fondamentale storicità di tutto il reale, e di conseguenza la riduzio-
ne di ogni conoscenza a conoscenza storica. In altri paesi, eccetto in
quelli di lingua spagnola, il termine ha avuto scarso successo: nella
cultura francese è rimasto sostanzialmente assente — tant'è vero che
il primo studio organico del movimento storicistico tedesco, cioè il
libro di Raymond Aron del 1938, è intitolato alla « filosofia critica
della storia » anziché allo storicismo — mentre nella cultura anglosas-
sone ha acquistato, in virtù della polemica di Karl Popper contro la
« miseria dello storicismo », un significato quasi sempre negativo.
In epoca più recente, cioè nel corso degli anni ’60, è subentrata una
tendenza piuttosto diffusa a identificare lo storicismo con la concezio-
10 INTRODUZIONE
ne marxistica della storia, vale a dire con il materialismo storico:
tendenza chiaramente connessa con il processo di rinnovamento del
marxismo contemporaneo, operato attraverso il recupero di autori
come il Lukdcs di Geschichte und Klassenbewusstsein e il Gramsci
dei Quaderni del carcere, nonché attraverso l’incontro con altri orien-
tamenti del pensiero contemporaneo, in primo luogo con l'’esisten-
zialismo.
AI di lì di queste considerazioni relative al significato del
termine, e ben più importanti di esse, vi sono però altri due ordini
di motivi i quali spiegano la difficoltà di cui si diceva. Il primo
ordine di motivi consiste in una caratteristica intrinseca allo storici-
smo, ossia nel fatto che esso non è soltanto, né principalmente, una
dottrina o un complesso di dottrine filosofiche, ma è pure un
movimento che ha avuto larga influenza sulla ricerca storica e sulle
scienze sociali, e che presenta connessioni tutt'altro che irrilevanti
con le vicende politiche europee del secolo xx. Le formulazioni più
propriamente teoriche dello storicismo contemporaneo — come la
teoria della conoscenza storica e l’analisi della struttura storica del
mondo umano e della relazione dell'uomo con i valori — sono
quindi aspetti di un fenomeno più vasto, al quale continuamente
rimandano. Il secondo ordine di motivi risiede invece nel legame
ricorrente dello storicismo con altri indirizzi della filosofia contem-
poranea: per un verso con l’idealismo — in tutte le versioni che si
richiamano, direttamente o indirettamente, alla concezione hegeliana
della storia — e per l’altro verso con il neocriticismo o con l’esisten-
zialismo o con il marxismo o con il pragmatismo, magari (in qualche
caso) perfino con il neopositivismo. Risulta così impossibile determi-
nare un nucleo dottrinale al quale siano riconducibili le diverse mani-
festazioni dello storicismo contemporaneo, e che sia più o meno pre-
sente in tutte: al contrario, le varie forme di storicismo divergono
anche su questioni d'importanza fondamentale. La possibilità di
individuare lo, storicismo come un indirizzo a sé stante della filoso-
fia contemporanea appare perciò problematica sia per quanto concer-
ne i rapporti tra pensiero filosofico e altri campi culturali, sia all’in-
terno dello stesso pensiero fiosofico. Sarà opportuno soffermarci più
da vicino su questi nessi.
Già dal punto di vista biografico gli esponenti dello storicismo
contemporaneo che siano filosofi di professione, e nient'altro che
filosofi, sono assai rari, e non certamente i più importanti. Wilhelm
INTRODUZIONE II
Dilthey, pur insegnando filosofia, è stato però insieme studioso di
psicologia e di pedagogia, e ha soprattutto dedicato gran parte della
propria attività all’analisi e alla ricostruzione storica di alcuni mo-
menti centrali di sviluppo della cultura moderna, dal Rinascimento
alla Riforma, dall’Illuminismo al mondo romantico. Georg Simmel
e Max Weber occupano un posto di grande rilievo nella sociologia
contemporanea; inoltre, mentre il primo è autore di numerosi saggi
di argomento artistico, letterario ed estetico, e ha ripetutamente affron-
tato i problemi concernenti la fisionomia e il significato della cultura
moderna, il secondo è pervenuto all'analisi metodologica delle scien-
ze sociali muovendo da studi sulle società commerciali del Medioe-
vo, sul diritto agrario romano, sulle condizioni dei contadini nella
Germania e, infine, sulla scuola storica di economia. Ernst Troeltsch
è stato in primo luogo un teologo, e tutta la prima fase della sua
attività speculativa è ispirata da preoccupazioni tipicamente teolo-
giche: la sua successiva riflessione sulla storia e sulla conoscenza
storica è anch’essa radicata in una problematica religiosa, e pren-
de le mosse dalla consapevolezza dell’urto della coscienza storica
moderna sulla validità della fede cristiana. Friedrich Meinecke è
giunto ai problemi dello storicismo attraverso l’analisi del processo
di formazione dello stato nazionale tedesco e della struttura della
«ragion di stato » nell'età moderna; anche professionalmente, egli è
stato uno storico, e solo in secondo luogo un filosofo, In quanto a
Benedetto Croce, anch'egli è stato all'inizio — com'è noto — soprat-
tutto studioso di storia e di critica letteraria, e il suo sforzo di
elaborazione filosofica è proceduto di pari passo con l’approfondi-
mento di temi di storia etico-politica, dî estetica e di linguistica. E
l’esemplificazione potrebbe agevolmente continuare. Ma la connessio-
ne con altri campi culturali non è soltanto un dato biografico; essa
è pure una dimensione intrinseca dello storicismo contemporaneo.
Da un lato, infatti, la consapevolezza del fondamentale carattere
storico dell’uomo e della realtà sociale ha condotto all’analisi dei
momenti decisivi della storia culturale europea, nel duplice intento
di delineare — secondo il programma indicato da Dilthey — la vicen-
da dello « spirito europeo » e di porre in luce le relazioni reciproche
tra settori diversi del processo storico, c contemporaneamente ha
promosso il ricorso alle prospettive concettuali che erano offerte
dalle scienze sociali, in particolare dalla sociologia. Dall'altro lato il
riconoscimento della storicità della filosofia, del suo legame con le
12 INTRODUZIONE
altre manifestazioni culturali di un’epoca, della sua dipendenza dai
risultati della ricerca condotta dalle scienze particolari, ha mostrato
l'impossibilità di una filosofia che pretenda di configurarsi come
una forma autosufficiente di sapere, fornita di validità incondi-
zionata.
Non meno arduo è discriminare lo storicismo dai diversi indiriz-
zi della filosofia contemporanea con i quali è quasi sempre intreccia-
to. Ciò vale sia per il legame con l’idealismo, che risulta essenziale
al pensiero di Croce (o del suo discepolo inglese R. G. Collingwood),
sia per il nesso con l’esistenzialismo o con il marxismo o ancora
con il pragmatismo, allorché la problematica storicistica s’innesta su
una piattaforma dottrinale diversa e rispondente ad altri interessi. È
vero che Croce si è proposto — fin dal saggio Ciò che è vivo e ciò
che è morto nella filosofia di Hegel (1906) e dalla Logica come
scienza del concetto puro (1909) — di differenziare la propria impo-
stazione filosofica da quella di Hegel, eliminando la distinzione
hegeliana tra idea, natura e spirito e risolvendo quindi i primi due
momenti nel terzo, che viene così fatto coincidere con la realtà
intera, in maniera da identificare il processo di realizzazione dello
spirito con lo sviluppo storico e da interpretare ogni fatto come
fatto storico. Cionondimeno il crociano «storicismo assoluto » si
configura come una ripresa intenzionale della concezione della sto-
ria formulata dall’idealismo del primo Ottocento e soprattutto da
Hegel, dal quale deriva il postulato fondamentale della razionalità
dello sviluppo storico e l'affermazione del suo carattere progressivo.
Del resto, la stessa qualificazione di «storicismo » è stata adottata
da Croce molto tardi, nel corso degli anni ’30, durante il trapasso
dal « sistema » della filosofia dello spirito alla posizione de La storia
come pensiero e come azione e degli scritti successivi: il saggio /!
concetto della filosofia come storicismo assoluto è, difatti, del 1939.
Nel pensiero di Croce lo storicismo sorge quindi sulla base di
un’impostazione chiaramente idealistica, ed è inseparabile da que-
sta. La stessa definizione della filosofia come metodologia della
storiografia ha ben poco in comune con una concezione metodologi-
ca della filosofia (quale si è sviluppata partendo da una prospettiva
neocriticistica), ma poggia su una concezione idealistica — anzi,
neoidealistica — del sapere la quale nega il carattere conoscitivo
delle scienze naturali, interpretandole come prodotto della forma
economica dello spirito, e perciò riduce la conoscenza a conoscenza
INTRODUZIONE 13
storica, vale a dire a conoscenza dello sviluppo dello spirito nella
serie infinita delle sue manifestazioni finite. Anche in vari altri
autori lo storicismo si presenta come un approccio ai problemi della
storia e della conoscenza storica condizionato dall’assunzione di
presupposti propri di orientamenti di pensiero eterogenei, ed è
lungi dal configurarsi in modo autonomo.
Per esempio, la concezione heideggeriana della storicità dell’esser-
ci è strettamente dipendente dalla teoria diltheyana della storicità;
ma questa viene ricondotta a un quadro ontologico del tutto estra-
neo alla filosofia di Dilthey, risolvendosi in un elemento dell’analiti-
ca esistenziale di Sein und Zeit. Analogamente, se è vero che Karl
Jaspers si è richiamato con insistenza a Max Weber (fino ad asseri-
re che egli « non ha insegnato una filosofia, ma era una filosofia »,
anzi la filosofia per eccellenza del suo tempo), la problematica storici-
stica occupa un posto del tutto secondario nell’esistenzialismo jasper-
siano. Né le cose stanno in maniera diversa nel caso del marxismo.
Molte delle categorie interpretative di Geschichte und Klassenbe-
wusstsein, in primo luogo quella di « possibilità oggettiva », sono di
origine weberiana; ma il rinnovamento del marxismo intrapreso da
Lukdcs poggia non già su un’accettazione dell’impostazione metodo-
logica di Weber, bensì su uno sforzo di replica a Weber, cioè sullo
sforzo di sottrarre il materialismo storico alla critica a cui egli lo
aveva sottoposto. Anche la recezione di posizioni storicistiche nel
clima filosofico-culturale francese degli anni ’60, caratterizzato in
misura prevalente dall'incontro tra esistenzialismo e marxismo —
basti pensare alla Critigue de la raison dialectigue di Jean-Paul
Sartre, apparsa nel 1960 — non può certo essere scambiata per una
forma vera e propria di storicismo. Al di fuori della cultura euro-
pea, poi, l'affermazione dell'identità tra esperienza e storia e del
carattere problematico dell’esperienza in quanto sequenza di eventi
storici, formulata da John Dewey in Experience and Nature (1925),
sviluppa in modo originale temi propri del pragmatismo americano,
€ può caso mai essere ricondotta a una matrice hegeliana filtrata
attraverso un’interpretazione naturalistica, non già a una piattafor-
ma storicistica. In tutti questi casi ci troviamo di fronte a forme
d'incontro tra storicismo e altri indirizzi filosofici (se non addirittu-
ra, come nell’ultimo, a un'affinità piuttosto remota), in cui esso
perde inevitabilmente qualsiasi specificità.
14 INTRODUZIONE
Se si vuole individuare, nell’ìmbito della filosofia contempora-
nea, un movimento storicistico che abbia proprie caratteristiche di-
stintive, e che non sia subordinato ad altre impostazioni teoriche,
occorre cercarlo nella cultura tedesca degli ultimi due decenni del
secolo xix e dei primi decenni di questo secolo, fino alla vigilia
della seconda guerra mondiale. Soltanto entro tale contesto si può
legittimamente parlare di uno storicismo contemporaneo, cioè di
uno storicismo che non sia la ripresa o la rielaborazione di una
concezione della storia formulata nel primo Ottocento (quale quella
hegeliana), e che d'altra parte non costituisca un semplice elemento
di una costruzione filosofica fondata su presupposti eterogenei. Con
ciò non si vuol dire affatto che esso esaurisca il panorama dello storici-
smo nella filosofia contemporanea, in cui rientrano a buon diritto
anche le altre forme a cui si è accennato; si vuol piuttosto afferma-
re che è la sola forma di storicismo che possegga una sua caratterizza-
zione autonoma rispetto ad altri indirizzi filosofici, che cioè sia sorto
fin dall’inizio come un movimento indipendente. Anche se lo storici-
smo tedesco appare legato, soprattutto nella sua fase iniziale di svilup-
po, con il neocriticismo sviluppatosi — a partire dal 1860 — sulla base
del programma di « ritorno a Kant» avanzato da Kuno Fischer, da
Otto Liebmann e da Hermann von Helmbholtz, il suo rapporto con
questo è un rapporto non tanto di derivazione o di dipendenza,
quanto di differenziazione, che comporta quindi un crescente distac-
co dai presupposti e dall'impostazione gnoseologica del neocritici-
smo. E in seguito, già a partire dal primo decennio di questo
secolo, tale legame appare come un'eredità del passato, che sopravvi-
ve soltanto in figure piuttosto marginali del movimento storicistico
(per esempio nel vecchio Rickert). Perciò la scelta presentata in
questo volume si limita ai principali esponenti dello storicismo
tedesco, lasciando da parte autori che trovano la loro collocazione
primaria in altri orientamenti della filosofia contemporanea.
II.
Lo storicismo tedesco contemporaneo prende le mosse dal dibatti-
to metodologico sulla conoscenza storica, cioè dalla discussione sul
carattere peculiare, sul metodo e sull’oggetto delle discipline che stu-
diano l’uomo e la realtà sociale nella loro dimensione storica. Alla
base di tale dibattito c'è chiaramente un'esigenza critica in senso kan-
INTRODUZIONE 15
tiano, vale a dire l'esigenza di determinare le condizioni che rendono
possibile la conoscenza e che ne garantiscono la validità. Se quest’esi-
genza è comune pure al movimento neocriticistico nelle sue varie ma-
nifestazioni, è invece caratteristico dello storicismo il proposito di
estendere l’ìmbito dell’indagine critica a un campo del sapere che era
rimasto estraneo sia alla considerazione di Kant sia agli interessi
propri del neocriticismo, Agli occhi di Dilthey, ma anche di Windel-
band o di Rickert o di Simmel, il limite della critica kantiana
consiste nel fatto che essa si riferisca esclusivamente alle scienze
naturali, alla conoscenza fisico-matematica nella sistemazione datane
da Newton, senza rendersi ancora conto che un analogo problema
di fondazione critica si pone pure per la conoscenza scientifica
dell’uomo e del mondo umano, considerato nel suo sviluppo stori-
co. Questo limite trova certamente una base di giustificazione nella
situazione del sapere all’epoca di Kant, cioè in un’epoca in cui le
scienze storico-sociali facevano appena i primi passi. Ma a distanza
di un secolo — il primo (e unico) volume dell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften di Dilthey compare nel 1883, poco più di
cent'anni dopo la pubblicazione della Kritik der reinen Vernunft
— e cioè dopo i progressi decisivi che queste discipline hanno
compiuto nella prima metà dell’Ottocento, soprattutto ad opera del-
la scuola storica, esso risulta ormai privo di fondamento. Dilthey si
trova dinanzi a un edificio concettuale nuovo, che si è venuto in
larga misura costituendo dopo Kant, e che non trova posto nel
quadro categoriale della « critica della ragion pura »; perciò si propo-
ne di affiancare ad essa una «critica della ragione storica », vale
a dire un'indagine concernente le condizioni di possibilità della
conoscenza storica. Al problema kantiano della possibilità della natu-
ra (e della conoscenza scientifica della natura) fa riscontro il proble-
ma della possibilità della storia (e delle scienze storico-sociali). Questa
è l'ispirazione comune, pur nella diversità di formulazioni e anche di
presupposti, alla prima fase di sviluppo del movimento storicistico.
Su tale base Io storicismo prende posizione contemporaneamente
nei confronti del positivismo e del neocriticismo. Sorto in un perio-
do in cui il positivismo veniva diffondendosi anche nella cultura
tedesca, soprattutto nell’àmbito degli studi psicologici e psico-sociolo-
gici — particolarmente importante è, a questo proposito, l’opera di
Wilhelm Wundt — esso accoglie l’esigenza positivistica di un’anali-
si scientifica dei fenomeni del mondo umano, e quindi il rifiuto di
16 INTRODUZIONE
una considerazione metafisica dell’uomo e della storia. Da ciò la
sua diffidenza, se non l'ostilità, nei confronti della concezione idea-
listica della storia; da ciò la polemica sotterranea ma non meno
accentuata verso Hegel e la visione hegeliana del processo storico
come realizzazione progressiva dello « spirito del mondo », che sol-
tanto molto più tardi cederà il posto a un tentativo di recupero
dell'eredità dell’idealismo — condotto da Dilthey sul terreno storio-
grafico — attraverso lo studio degli scritti giovanili di Hegel, e da
Windelband piuttosto sul piano teorico, attraverso la proclamazione
della necessità di un «rinnovamento dell’hegelismo » (come suona
il titolo di un saggio del 1910). Ma lo storicismo respinge, al tempo
stesso, la riduzione dello spirito a natura che gli sembra implicita
nel positivismo classico; e soprattutto respinge il tentativo di ricon-
durre la conoscenza dell’uomo e del mondo umano a un modello
di spiegazione comune a tutto il sapere, che comportava l’assimilazio-
ne delle scienze storico-sociali al procedimento delle scienze natura-
li. Il distacco dal positivismo — nella versione che ne avevano dato
Auguste Comte nel Cours de philosophie positive o John Stuart Mill
nel System of Logic, Ratiocinative and Inductive — si esprime
proprio nella rivendicazione dell'autonomia metodologica della cono-
scenza storica, nell’affermazione della sua irriducibilità alla conoscen-
za della natura, e quindi nella tesi di una fondamentale dicotomia
del sapere: scienze della natura e scienze dello spirito in Dilthey,
scienze nomotetiche e scienze idiografiche in Windelband, conoscen-
za naturale e « scienze storiche della cultura » in Rickert. Il model-
lo milliano di spiegazione causale è valido, secondo Dilthey, per le
scienze della natura: così per Windelband e per Rickert la conoscen-
za è, e dev'essere, orientata in vista della determinazione di leggi
generali organizzate in un sistema di leggi, a cui possano venir
ricondotti i fenomeni. Ma quel modello non è applicabile alla
conoscenza dell’uomo e della realtà, che ha per Dilthey un diverso
fondamento e si serve di altre categorie; e le leggi non trovano
diritto di cittadinanza nelle scienze storico-sociali, o per lo meno
non possono costituirne il fine ultimo.
Ma attraverso la critica al positivismo si compiva anche un netto
distacco dalle prospettive neocriticistiche. Come nella Kritik der
retnen Vernunft, così nelle opere dei neocriticisti della fine dell’Otto-
cento — in particolare in quelle della scuola di Marburg, rappresen-
tata soprattutto da Hermann Cohen e da Paul Natorp — non
INTRODUZIONE 17
trovava posto la dicotomia del sapere che il nascente movimento
storicistico sosteneva: nella permanente identificazione della cono-
scenza con la conoscenza fisico-matematica questo non poteva non
scorgere una sostanziale incapacità di adeguazione al mutamento di
orizzonte scientifico intervenuto dopo Kant. Anche in Windelband
e in Rickert, che rimangono più legati all’impostazione gnoseologi-
ca generale del neocriticismo, questa divergenza è esplicita: a un
secolo di distanza dalla critica kantiana il compito della teoria della
conoscenza è quello di estendere il proprio ambito alla conoscenza sto-
rica, determinando anche per questa il fondamento che ne garantisce
la validità. Ben più nettamente, nell’Einleitung in die Geisteswissen-
schaften Dilthey si propone di fare per le scienze storico-sociali ciò
che Kant aveva fatto per le scienze della natura; e, al pari di Kant,
muove dal riconoscimento dell’esistenza di un complesso di discipli-
ne organizzate, dinanzi alle quali non ha senso chiedersi se siano
valide oppure no, ma occorre invece andare alla ricerca del fonda-
mento della loro validità, cioè chiedersi come siano possibili e di
quali princìpi si avvalgono nell’organizzare concettualmente il dato
empirico. È un decennio dopo, in Die Probleme der Geschichtsphilo-
sophie (1892), Simmel affronterà il compito di determinare le catego-
rie della conoscenza storica e i suoi rapporti con le scienze sociali.
Tuttavia l'allargamento o — se si vuole — il completamento della
teoria della conoscenza formulata da Kant costituisce soltanto un
aspetto, e forse neppure il più importante, del distacco dal neocritici-
smo. L'altro aspetto, diversamente presente nei singoli autori, riguar-
da la stessa impostazione gnoseologica del neocriticismo, vale a dire
il tipo e i presupposti dell'indagine critica.
Come si è accennato, Windelband e Rickert rimangono sostanzial-
mente fedeli a questa impostazione: nei primi saggi teorici windel-
bandiani — a partire da Was ist Philosophie? e da Normen und
Naturgesetze (entrambi del 1882) e dagli altri scritti che compongo-
no la prima edizione dei Pràludien (apparsa l’anno successivo) — il
distacco dal neocriticismo avviene nella direzione di una teoria dei
valori che attribuisce alla filosofia il compito di individuare i princìpi
a priori dell'attività umana in tutti i campi, e quindi anche nell’ambi-
to conoscitivo, e che li interpreta appunto come « valori » forniti di
una loro intrinseca validità indipendente dall’esperienza, sulla base
della distinzione tra essere e dover essere, tra la necessità empirica
(propria delle leggi naturali, oggetto della scienza) e la validità ideale
2. STORICISMO TEDESCO.
18 INTRODUZIONE
delle norme (di esclusiva pertinenza della filosofia). Il soggetto del co-
noscere rimane quindi il soggetto trascendentale, capace di pervenire
a una verità incondizionata sulla base della conformità alle norme
proprie dell’attività conoscitiva; rimane il soggetto trascendentale
sottratto — come Rickert ribadisce in Die Grenzen der naturwissen-
schaftlichen Begriffsbildung (1896-1902) — a ogni determinazione
empirica. La conoscenza storica trova il fondamento della propria
validità, di una validità altrettanto universale e necessaria di quella
della conoscenza naturale, nella presenza di valori incondizionati
che costituiscono i princìpi della sua elaborazione concettuale. Le
cose stanno ben diversamente per Dilthey, e anche per Simmel.
Entrambi respingono infatti il postulato di un soggetto trascendenta-
le per rivendicare il carattere empirico dell'io che indaga la storia;
perciò respingono anche l’attribuzione alla conoscenza storica di
una validità indipendente dall'esperienza. Per Dilthey la conoscen-
za — quella delle scienze dello spirito ancor più di quella del-
le scienze della natura — è inseparabile dal complesso della vita
umana, è cioè una funzione dell’esistenza concreta dell’uomo in
quanto individuo empirico e della situazione storico-culturale in
cui egli vive: di conseguenza la validità di ogni sapere è condi-
zionata dalla struttura complessiva della coscienza, dal suo ra-
dicarsi nell’esperienza vissuta. Perciò negli anni ’go, e ancora nei
suoi ultimi scritti, Dilthey sarà condotto ad affrontare appunto
l’analisi di questa struttura, nell'intento di mostrare come da essa
scaturisca il procedimento conoscitivo proprio delle scienze storico-so-
ciali e come in essa siano presenti le condizioni che ne fanno una
forma oggettivamente valida di sapere. Nello stesso periodo Simmel
opera una netta riduzione della conoscenza storica alla comprensio-
ne psicologica, assumendo così un punto di vista radicalmente oppo-
sto a quello del neocriticismo: dal momento che i fenomeni a cui si
riferisce tale conoscenza hanno la loro radice nella vita psichica
degli individui, essa deve sempre risalire da certi dati esterni,
oggetto di osservazione empirica, all’interiorità spirituale degli indivi-
dui che in questi si manifesta. La conoscenza storica si riassume
quindi nell'atto psicologico dell’intendere, cioè in un atto che com-
porta la proiezione di un processo psichico vissuto dal soggetto
conoscente a un'altra personalità, alla quale esso viene attribuito. E
le categorie di cui si avvale nell'organizzare concettualmente il dato
empirico non sono princìpi 4 priori, eterogenei a questo dato, ma
INTRODUZIONE 19
sono semplici presupposti psicologici, forniti di una validità pura-
mente ipotetica: anch’esse derivano, seppure in maniera indiretta,
dall'esperienza.
AI di là del limite rappresentato dall’esclusiva considerazione
delle scienze naturali, l'impostazione gnoseologica del neocriticismo
appariva perciò scarsamente idonea al compito di fondazione della
conoscenza storica, che il movimento storicistico si proponeva. Il
mutamento di àmbito dell’indagine critica trascinava con sé anche
un mutamento dei presupposti di quest’'indagine. E qui entra in
gioco un’altra componente, non meno essenziale, dello storicismo
tedesco: il richiamo all’opera della scuola storica, alla quale viene
attribuito — secondo le parole di Dilthey — il merito di una
« definitiva costituzione della scienza storica e, mediante questa, delle
scienze dello spirito ». Si può anzi rilevare una correlazione precisa
tra tale richiamo e il distacco dal neocriticismo. In Windelband e
in Rickert, che accolgono l'impostazione gnoseologica del neocritici-
smo, l'eredità della scuola storica è sostanzialmente assente: anche
quando, nel primo decennio del Novecento, essi cercheranno nel
passato le premesse di una concezione della storia coerente con la
teoria dei valori, queste saranno rintracciate piuttosto nell’orienta-
mento storico dell’idealismo post-kantiano, nella visione storica del-
la realtà presente nei successori di Kant e particolarmente in Hegel.
In Dilthey, invece, l’abbandono dei presupposti neocriticistici si
accompagna alla consapevole recezione dei risultati e della stessa
impostazione di ricerca della scuola storica. Tra questa e il program-
ma di una «critica della ragione storica » non esiste, per Dilthey,
una soluzione di continuità: lo storicismo accoglie il lavoro compiu-
to dalla scuola storica e il suo edificio concettuale per indagarne
criticamente le condizioni di possibilità, in maniera analoga a quel-
la in cui Kant si era rifatto alla sistemazione newtoniana. Dilthey
compie così una scelta esplicita tra le due grandi direzioni di
sviluppo della concezione della storia che si possono individuare
nella cultura tedesca della prima metà del secolo — quella rappresen-
tata dall’idealismo post-kantiano, che era culminata nella filosofia
della storia di Hegel, e quella rappresentata dalla scuola storica, che
trova il suo approdo nella Weltgeschichte di Leopold von Ranke;
ed è una scelta in favore della seconda, cioè opposta alla scelta di
Windelband e di Rickert. Tuttavia il richiamo all'opera della scuo-
la storica non va disgiunto da uno sforzo diretto a metterne tra
20 INTRODUZIONE
parentesi i presupposti più tipicamente romantici. Nello stesso mo-
do in cui recupererà in seguito il concetto hegeliano di spirito
oggettivo, ma interpretandolo come il prodotto dell’oggettivazione
della vita, cioè come il complesso delle manifestazioni dell’attività
umana nel mondo sensibile, fin dagli scritti precedenti all’Einlei-
tung in die Geisteswissenschaften Dilthey lascia cadere la nozione
di « spirito del popolo » di cui Savigny e altri esponenti della scuola
storica si erano serviti per indicare il principio creativo unitario
della vita di un popolo, considerata nel suo sviluppo storico. E
anche l’individualità di ogni epoca storica, lungi dall’esprimere —
come per Ranke — il suo rapporto diretto con Dio, verrà a designa-
re, nella fase conclusiva del pensiero diltheyano, il suo carattere di
autocentralità, vale a dire l'orizzonte entro il quale si collocano
tutte le manifestazioni culturali, politiche, sociali di un’epoca, deri-
vando da esso il loro significato specifico.
Polemica contro il positivismo e contro il « riduzionismo » meto-
dologico implicito nell’assunzione di un modello unitario di spiega-
zione dei fenomeni; distacco dal neocriticismo e dalla sua stessa
impostazione gnoseologica; richiamo all’opera della scuola storica,
ma contemporaneo abbandono dei suoi presupposti romantici — que-
ste sono le coordinate del movimento storicistico nella sua prima fase
di sviluppo. E in relazione ad esse si determina la posizione che i
principali esponenti dello storicismo assumono nel tentativo di perve-
nire a una fondazione critica della conoscenza storica. La stessa
polemica tra Dilthey e Windelband, che ha inizio nel 1894, dev’esse-
re collocata su questo sfondo.
La rivendicazione dell’autonomia della conoscenza storica si con-
figura, in Dilthey, nella forma di una distinzione tra scienze della
natura e scienze dello spirito. Fin dal 1875, nel saggio Uber das
Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der
Gesellschaft und dem Staat, Dilthey aveva sostenuto il carattere
peculiare di queste discipline e l’inapplicabilità al loro sviluppo
della legge di progresso scientifico enunciata da Comte nel Cours
de philosophie positive. Da tale punto di vista le scienze dello spirito
costituiscono una totalità caratterizzata — in contrapposizione alle
scienze della natura — dall’appartenenza del soggetto conoscente allo
stesso mondo, cioè al mondo umano, che è oggetto della loro indagi-
ne. La distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito è
quindi fondata, in ultima analisi, su un diverso rapporto del sogget-
INTRODUZIONE 21
to conoscente con il loro oggetto: un rapporto di estraneità nel
primo caso, un rapporto dall’interno — e quindi di fondamentale
identità — nel secondo caso. Da questa differenza derivano le varie
antitesi mediante le quali Dilthey ha cercato, nell’Einleitung in die
Geisteswissenschaften, di definire la fisionomia rispettiva delle scien-
ze della natura e delle scienze dello spirito. Dal punto di vista
dell’oggetto, le prime studiano una realtà esterna all’uomo, mentre
le seconde si riferiscono al mondo umano considerato nella sua
dimensione storica. Dal punto di vista della « fonte » da cui provie-
ne il dato empirico, le prime muovono dall’esperienza esterna, cioè
dall’osservazione sensibile, mentre le seconde si radicano nell’espe-
rienza vissuta che l’uomo ha di sé, della propria vita interiore e dei
propri rapporti con gli altri. Dal punto di vista del procedimento, le
prime tendono a fornire una spiegazione causale dei fenomeni,
mentre le seconde si propongono di «intenderli », avvalendosi di
categorie eterogenee a quelle della conoscenza naturale. Così caratte-
rizzato, l’edificio delle scienze dello spirito si presenta come un
complesso di discipline che abbracciano lo studio dell’individuo al
pari di quello della società, l’analisi delle strutture del mondo
umano (sistemi di cultura e sistemi di organizzazione esterna della
società) al pari dell’analisi del suo sviluppo storico, cioè delle sue
varie epoche. « Universale » e « particolare », studio comparativo
delle uniformità presenti nella struttura psichica o nella struttura
del mondo umano e studio delle sue manifestazioni singole, con-
siderate nella loro individualità, costituiscono perciò i due scopi
conoscitivi, tra loro inscindibili, delle scienze dello spirito.
Proprio contro questa conclusione si rivolge la polemica di
Wildelband, allorché egli affronta, undici anni dopo — nel saggio
Geschichte und Naturwissenschaft (1894) — il problema della cono-
scenza storica. Anche Windelband intende garantire l’autonomia
della conoscenza storica rispetto alla scienza naturale, ma il criterio
di distinzione tra di esse viene cercato sul terreno puramente metolo-
logico, vale a dire nella diversità del loro orientamento. Da un lato
vi sono scienze che mirano alla costruzione di leggi generali (le
scienze nomotetiche), dall’altro vi sono invece scienze che mirano
alla determinazione della fisionomia di un fenomeno nella sua
individualità (le scienze idiografiche). Le prime costituiscono, nel
loro insieme, la conoscenza naturale; le seconde costituiscono la
conoscenza storica. Una distinzione siffatta risulta perciò indifferen-
22 INTRODUZIONE
te al carattere « naturale » o « spirituale » dei fenomeni studiati, su
cui aveva insistito Dilthey; anzi, la distinzione diltheyana tra scien-
ze della natura e scienze dello spirito non poteva non apparire, agli
occhi di Windelband, come l’eredità di un’antitesi metafisica. Le
scienze naturali sono tali non già in quanto studino fenomeni
ontologicamente distinti da quelli spirituali, ma in quanto sono
orientate verso la conoscenza di rapporti generali, esprimibili sotto
forma di leggi; e la conoscenza storica si differenzia da esse in
quanto cerca in ogni fenomeno ciò che gli è proprio, vale a dire la
sua individualità.
Quando Windelband criticava il criterio di distinzione formula-
to da Dilthey, questi era ormai impegnato in uno sforzo di appro-
fondimento della posizione dell’Einleitung in die Geisteswissenschaf-
ten. In un saggio apparso nello stesso anno, cioè nelle Ideen dider cine
beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894), egli muoveva
dal rapporto tra scienze dello spirito ed esperienza vissuta per
affrontare l’analisi della struttura della vita psichica: se il compito
di queste discipline è un compito non già di spiegazione, ma di
comprensione dei fenomeni, e se la comprensione riposa sulla cono-
scenza che l’uomo ha di sé, ossia sull’introspezione, allora lo studio
di tale struttura assume un'importanza centrale per la fondazione
delle scienze dello spirito. L'analisi della struttura della vita psichi-
ca, condotta dalla psicologia, viene perciò a coincidere con l’indagi-
ne critica delle condizioni di possibilità delle scienze dello spirito.
Dilthey perviene così — in significativa consonanza con le tesi
espresse due anni prima da Simmel — a privilegiare la psicologia
come scienza «fondamentale », facendone la base e il punto di
partenza di ogni conoscenza dell’uomo e del mondo umano. Ma la
psicologia capace di assolvere questa funzione non è la psicologia
associazionistica della tradizione herbartiana, diffusa nella cultura
tedesca di fine Ottocento, che Dilthey respinge in quanto « esplicati-
va e costruttiva»: è una nuova psicologia « descrittiva e analitica »
che deve porre in luce la struttura della vita psichica, analizzarne i
diversi elementi e i loro rapporti, senza pretendere di offrirne una
spiegazione che avrebbe inevitabilmente carattere naturalistico.
L'attribuzione alla psicologia di un compito di fondazione criti-
ca era esposta alle obiezioni di Windelband in misura ancora mag-
giore di quanto non lo fossero le formulazioni dell’Einleitung in
die Geisteswissenschaften. Di ciò Dilthey era consapevole: e difatti
INTRODUZIONE 23
egli abbandonerà ben presto tale strada, per affrontare direttamente
la polemica con Wildelband nei Beitràge zum Studium der Indivi-
dualitit (1895-96). Nel respingere la distinzione windelbandiana tra
scienze nomotetiche e scienze idiografiche Dilthey è condotto non
soltanto a lasciar cadere la pretesa di assegnare alle scienze dello
spirito un fondamento psicologico, ma anche ad approfondire l'anali-
si del loro procedimento di ricerca. Se nell’Einlestung in die Geistes-
wissenschaften uniformità e individualità rappresentavano due aspet-
ti distinti della struttura del mondo umano, ai quali corrispondeva-
no due scopi conoscitivi diversi delle scienze dello spirito, ora il
secondo termine acquista un’importanza preminente. Il problema
centrale dell'analisi metodologica diltheyana diventa quello del sorge-
re dell’individuazione sulla base dell’uniformità, vale a dire del
configurarsi in forma singolare di fenomeni che pur presentano
caratteristiche analoghe. Dilthey lo risolve inserendo tra uniformità
e individuazione un termine medio, il «tipo», che costituisce al
tempo stesso l’elemento comune a una molteplicità di fenomeni e la
loro norma intrinseca. L’uniformità deriva dal legame con la realtà
naturale, con il mondo fisico e biologico che condiziona il sorgere
dei fenomeni spirituali; sulla sua base si realizza l'individuazione,
resa possibile da un insieme di forme fondamentali che sono appun-
to i vari tipi di questi fenomeni. Il compito delle scienze dello
spirito viene riposto non più nello studio separato dell’uniformità e
dell’individuazione, ma nello studio del loro rapporto: ma in tal
modo il tipo diventa il termine di riferimento del processo dell’inten-
dere, il quale cessa di identificarsi con l’introspezione — o di essere
riconducibile ad essa — per configurarsi soprattutto come compren-
sione degli altri individui e delle loro manifestazioni di vita. Il
procedimento delle scienze dello spirito viene quindi a coincidere
con la comprensione, vale a dire con la «riproduzione» di stati
interiori altrui, i quali vengono « rivissuti » dall’individuo sulla ba-
se della propria esperienza. Alla distinzione tra conoscenza delle
leggi e conoscenza dell’individuale, formulata da Windelband, Dil-
they contrappone pertanto l’antitesi tra spiegazione causale e com-
prensione; ma all’interno di questa impostazione confluisce una nuo-
va esigenza, quella di affermare il carattere individuale — in ultima
analisi — del mondo umano.
Spetterà però a un allievo di Windelband, Heinrich Rickert,
concludere, per quanto provvisoriamente, questo dibattito in Die
24 INTRODUZIONE
Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung e nella contem-
poranea, più breve trattazione di Kulturwissenschaft und Naturwis-
senschaft (1899): due opere scolastiche che avranno però larga fortu-
na, e che saranno più volte ripubblicate con modifiche e ampliamen-
ti (di particolare rilievo saranno, per i Grenzen, la seconda edizione
del 1913 e la terza del ’21). Rickert riprende la distinzione windelban-
diana, cercando di ricondurla a un quadro sistematico. Il procedi-
mento della conoscenza storica e la sua autonomia vengono « dedot-
ti» attraverso un'analisi dei limiti propri della scienza naturale,
cioè mostrando che l’ideale di quest’ultima — l'ideale di un’integra-
le spiegazione meccanica della realtà, da conseguire mediante la
costruzione di un sistema di leggi di sempre maggiore generalità —
si lascia sfuggire l’individualità di ogni fenomeno nella sua immedia-
tezza empirica. Da ciò la necessità di un’altra forma di conoscenza
che si riferisca proprio a questa individualità, e che risulta irriducibi-
le alla scienza naturale e al suo tipo di elaborazione concettuale del
dato. In questa prospettiva la distinzione tra le due forme di
conoscenza — scienza naturale e conoscenza storica — rimane fonda-
ta su una differenza di metodo: la medesima realtà può essere
oggetto di entrambe, indipendentemente dall’eventuale determinazio-
ne ontologica dei fenomeni, ed anzi si presenta come natura quando
è considerata in riferimento a leggi generali e come storia quando è
considerata in riferimento al particolare. Ma l’individualità storica
non coincide con l'immediatezza empirica del dato; anch’essa è
infatti il risultato di un procedimento di elaborazione concettuale,
sebbene differente da quello della scienza naturale. Rickert indica
la base di tale procedimento nella relazione ai valori, vale a dire nel
rapporto con valori forniti di validità incondizionata, i quali presie-
dono alla scelta del dato empirico e alla costruzione un «indivi-
duo » storico. L’individualità di un oggetto risulta così fondata sul
suo riferimento ai valori, che ne costituisce il significato. In tal
modo la conoscenza storica viene a differenziarsi dalla scienza natu-
rale anche ‘per quanto riguarda il campo di ricerca; e questo è
identificato con la «cultura», cioè con una realtà che abbraccia
tutti i possibili fenomeni a cui viene attribuito un significato in
virtù della relazione a qualche valore.
Il dibattito metodologico degli ultimi due decenni dell’Ottocento
mette perciò capo a un approfondimento di rilievo delle posizioni
iniziali degli studiosi che vi hanno preso parte. Dinanzi alla critica
INTRODUZIONE 25
di Windelband, Dilthey è condotto ad accentuare l’importanza del-
l'individualità e a riformulare la distinzione tra scienze della natura
e scienze dello spirito nei termini di un’antitesi tra spiegazione e
comprensione, dalla quale prenderà le mosse l’elaborazione conclusi-
va del suo pensiero, contenuta negli scritti del periodo 1905-1911.
D'altra parte la distinzione enunciata da Windelband nel °94 trova
in Rickert uno sviluppo sistematico nell’ambito della teoria filosofi-
ca dei valori; e in questo quadro Rickert è costretto a riconoscere
all’antitesi tra scienza naturale e conoscenza storica anche una
dimensione oggettiva, che il suo maestro aveva inteso escludere.
Anzi, la conoscenza storica risulta nient'altro che il complesso delle
« scienze della cultura », cioè il complesso delle discipline che han-
no per oggetto fenomeni forniti di significato, di un significato che
può essere stabilito — com’egli dirà nel 1913, richiamandosi esplicita-
mente a Dilthey — mediante l’«intendere ». Erano così poste le
premesse perché venisse messa in disparte la questione se l’autono-
mia della conoscenza storica abbia un fondamento oggettivo oppure
una base puramente metodologica, mentre d’altra parte nuovi proble-
mi, suscitati dal costituirsi di nuove discipline e dall'incontro con
altri indirizzi di pensiero, si affacciavano ormai all'orizzonte dello
storicismo tedesco.
III.
Quando Dilthey scriveva l’Einleitung in die Geisteswissenschaf-
ten, la sociologia era ancora una scienza estranea all'ambiente cultu-
rale tedesco. In un capitolo di quell’opera egli conduce una critica
radicale dell’impostazione sociologica comtiana, coinvolgendo la so-
ciologia nella medesima condanna della filosofia della storia. Filoso-
fia della storia e sociologia rappresentano, ai suoi occhi, due espres-
sioni di un medesimo atteggiamento metafisico nei confronti del
processo storico, cioè di un atteggiamento che pretende di fare a
meno del paziente lavoro delle discipline particolari per attingere di
colpo la totalità della storia, per determinarne le leggi costitutive,
le fasi e la direzione di sviluppo. È vero che alla base della filosofia
della storia c'è una prospettiva teologico-religiosa, esplicita da Agosti-
no a Bossuet e poi implicita da Vico e da Lessing fino a Hegel,
mentre la sociologia poggia su una concezione naturalistica; ma
anch'essa non è altro che una forma di metafisica, e precisamen-
26 INTRODUZIONE
te una «metafisica naturalistica della storia» che presuppone la
« subordinazione dei fenomeni spirituali all'insieme della conoscen-
za della natura ». Contro la sociologia nella formulazione datane da
Comte — ma la critica vale, in fondo, per tutta la sociologia
positivistica — Dilthey fa valere la tesi che il processo storico può
essere conosciuto soltanto attraverso l’analisi dei suoi diversi aspetti,
compiuta da una pluralità di discipline particolari, non già attraver-
so la pretesa illusoria di abbracciarlo nella sua totalità.
Anche in seguito lo storicismo tedesco manterrà la posizione
critica verso la sociologia positivistica, enunciata da Dilthey. Ma
pochi anni dopo, nel 1887, un giovane studioso di formazione
filosofica, Ferdinand Ténnies, pubblicava un libro destinato a inau-
gurare un tipo di sociologia svincolato dai presupposti del positivi-
smo, dal titolo Gemeinschaft und Gesellschaft. Esso si proponeva di
mostrare l’esistenza di due diverse forme di organizzazione, designa-
te appunto la prima come « comunità » e la seconda come « socie-
tà », e fondate rispettivamente su rapporti di carattere organico e su
rapporti di carattere meccanico tra gli individui che ne fanno parte.
Attraverso l’analisi comparativa delle due forme di organizzazione
Tonnies perveniva a delineare due modelli differenti di relazioni
tra gli uomini e, al tempo stesso, due momenti storicamente successi-
vi nello sviluppo dell'umanità. Il modello della comunità è quello
di una relazione organica tra i membri del corpo sociale, la quale
riposa su un’unità fondamentale delle volontà individuali e si espri-
me dapprima nell’ambito della parentela, del vicinato e dell’amici-
zia: è la forma originaria di organizzazione, che comporta il
possesso e il godimento in comune dei beni, nonché l’azione solida-
le del gruppo nella difesa come nell’offesa. Il modello della società
è invece quello di una relazione meccanica, e quindi «arbitraria »,
la quale riposa sull'incontro e sulla somma di volontà individuali
separate e sulla stipulazione di un contratto che le vincola all’osser-
vanza di determinate norme: è una forma derivata di organizzazio-
ne, che si esprime soprattutto nei rapporti di scambio. La comunità
è universalmente diffusa, e caratterizza in modo esclusivo ogni tipo
di associazione primitiva: è propria del villaggio, ma si ritrova an-
che nella città antica e in quella medievale, organizzata sulla base di
un'economia corporativa. La società è, al contrario, la forma specifica-
mente capitalistica di associazione tra gli individui: essa è definita
dalla divisione del lavoro, dall’equivalenza tra lavoro e merce, dalla
INTRODUZIONE 27
proprietà privata, dal sorgere di un’economia monetaria, dallo svilup-
po del capitalismo e dall’allargamento del mercato fino a dimensio-
ni mondiali.
In quest’analisi Tònnies proseguiva indubbiamente lo sforzo
della sociologia positivistica di individuare le caratteristiche struttura-
li della società industriale moderna, distinguendola dalle precedenti
forme di organizzazione sociale: sotto tale profilo il suo rapporto
con Comte (e in qualche misura anche con Spencer) è esplicito,
ancorché non privo di sostanziali riserve. Ma egli si richiamava
soprattutto ad altri due filoni culturali, dai quali desumeva gli
elementi per determinare la fisionomia rispettiva della comunità e
della società. Nel caratterizzare la comunità egli si rifaceva infatti
— per il tramite di Otto von Gierke e della sua opera Das deutsche
Genossenschaftsrecht, apparsa tra il 1868 e il 1881 — alla scuola
storica: la «comunità » tònnesiana non è altro, in fondo, che la
trasposizione in termini analitici dell'ideale romantico di una socie-
tà organica, fondata sull’unità dello « spirito del popolo ». Ma in tal
modo questo ideale veniva per così dire storicizzato, e le categorie
di cui la scuola storica si era servita per costruire la propria concezio-
ne della società venivano utilizzate per definire una forma specifica
di organizzazione sociale. Nel caratterizzare la società Ténnies si
rifaceva, assai più che alla sociologia positivistica, per un verso a
Hobbes e per l’altro verso a Marx. Dal primo egli derivava la
visione di un’organizzazione su base contrattuale, a cui gli indivi-
dui partecipano in quanto individui, mossi dalla duplice aspirazione
alla potenza e al guadagno; dal secondo traeva gli strumenti per
individuare il contenuto economico della società moderna e per
identificarla quindi con il capitalismo. Sul rapporto con la scuola sto-
rica — che tanta importanza riveste in Dilthey — si innestava così
il riferimento a Marx e alla sua interpretazione della società mo-
derna come società capitalistica.
Bisognerà tuttavia attendere l’ultimo decennio del secolo perché
il materialismo storico, fin allora rimasto un indirizzo « eterodos-
so» ed emarginato dagli ambienti accademici, entri nella cultura
tedesca. Nel 1894, annunciando la pubblicazione del terzo e ultimo
volume di Das Kapital (a cura di Engels), Werner Sombart richia-
mava gli studiosi tedeschi a una diversa considerazione dell’opera
di Marx, e insisteva sulla necessità di tener conto dell’analisi che
questa offriva del processo capitalistico di produzione. E proprio sul
28 INTRODUZIONE
terreno dell'interpretazione del capitalismo e della sua struttura eco-
nomica doveva compiersi l’incontro tra il pensiero marxistico e la
storiografia economica ufficiale, rappresentata soprattutto dalla suo-
la di Gustav von Schmoller. In un paese che, seppur parecchi
decenni dopo l’Inghilterra e anche dopo altre nazioni continentali
come il Belgio c la Francia, aveva conosciuto un rapido e fiorente
sviluppo capitalistico — fino a diventare ormai una delle potenze
dominatrici del mercato mondiale — il problema delle origini del
capitalismo e dei suoi caratteri distintivi rispetto ad altre forme di
economia, nonché dei rapporti tra l'economia capitalistica e gli altri
aspetti fondamentali della società moderna, acquistava un rilievo
preminente. Ed esso costituirà, all’inizio del nuovo secolo, il terna
centrale delle maggiori opere di Sombart, a partire da Der moderne
Kapitalismus (1902), e delle contemporanee ricerche di Max Weber
sul condizionamento reciproco tra religione e sviluppo economico.
Nell'ultimo decennio dell’Ottocento lo storicismo tedesco si tro-
va perciò inserito in un panorama culturale in rapida trasformazio-
ne. Esso non deve più fare i conti soltanto con l’eredità della scuola
storica e con l’edificio concettuale che essa aveva costruito, ma ha
davanti a sé una sociologia che sta sorgendo sulla base di presuppo-
sti diversi da quelli della sociologia positivistica, ha davanti a sé
altre scienze sociali che si propongono di sviluppare un’analisi
empirica di particolari settori della società; e sullo sfondo comincia
a profilarsi l'ombra scomoda del materialismo storico. Nuovi proble-
mi si impongono quindi alla sua riflessione: non più quello dell’au-
tonomia della conoscenza storica e della sua distinzione dalle scien-
ze della natura — che appaiono ormai cosa acquisita — ma i pro-
blemi dei rapporti tra la sociologia e le altre discipline, tra le scienze
sociali e la ricerca storica, tra l’interpretazione economica della
storia e altre direzioni di analisi. Ad essi rivolge la propria atten-
zione Georg Simmel, dal saggio Uber soziale Differenzierung (1890)
al volume Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892) e alla con-
temporanea, ampia E:nleitung in die Moralwissenschaft (1892-93),
dalla Philosophie des Geldes (1900) alla Soziologie (1908).
Simmel muove dal presupposto del compito descrittivo delle
scienze sociali. In esso si manifesta il suo atteggiamento ambivalen-
te verso il positivismo, dal quale accoglie il postulato della possibili-
tà di una descrizione empirica dei fenomeni sociali ma di cui re-
spinge, al tempo stesso, l’assunzione di una struttura legale della
INTRODUZIONE 209
realtà alla quale la conoscenza scientifica debba, in ultima analisi,
riferirsi. Con ciò Simmel non giunge a negare l’esistenza di una
struttura del genere, ma la considera inattingibile alla conoscenza, e
quindi irrilevante. Le leggi dei fenomeni sociali — questa tesi è
formulata fin dal 1890 — sono leggi non macroscopiche ma micro-
scopiche, e regolano non già il comportamento e il processo evoluti-
vo delle varie forme di associazione e di organizzazione, bensì i
rapporti tra gli individui che ne costituiscono gli elementi ultimi.
Non esistono quindi o, se anche esistono, non si possono determina-
re — il che è la medesima cosa — leggi di sviluppo della società in
quanto tale, considerata nella sua totalità: al massimo, esistono
leggi psicologiche a cui si conforma l’azione degli individui. All’anti-
tesi diltheyana tra spiegazione e comprensione Simmel sostituisce
così la distinzione tra un procedimento esplicativo, fondato su leggi
generali, e un procedimento rivolto alla descrizione dei fenomeni; e
questo gli appare l’unico legittimo nell’ambito delle scienze sociali
come nella ricerca storica. Tuttavia la descrizione non costituisce la
semplice riproduzione di una realtà oggettivamente sussistente: essa
comporta un’elaborazione del dato empirico che può avvenire solo
sulla base di categorie. Queste rappresentano l’elemento formale
della conoscenza, distinto dal contenuto: la loro funzione è di
organizzare il dato, e quindi di determinare la direzione di ricerca
delle varie discipline. Ma l’apriorità delle categorie, la loro differen-
za rispetto al contenuto della conoscenza, non significa affatto che
esse siano forme universali e necessarie dell’intelletto: al contrario,
anch'esse derivano dall'esperienza e sono diverse da una disciplina
all’altra. Compito dell'indagine critica è perciò quella di individuare
tali categorie, di stabilirne la funzione, di accertare il modo in cui
operano nelle varie scienze sociali, attraverso un’analisi del procedi-
mento concreto € del campo di ricerca di ogni disciplina.
Simmel ha condotto quest'analisi non tanto in termini generali,
quanto in riferimento a problemi specifici; né è possibile rintraccia-
re nelle sue varie opere una linea coerente e unitaria di sviluppo. In
Die Probleme der Geschichtsphilosophie egli affronta l'esame dei
rapporti tra psicologia e ricerca storica, cercando di determinare i
presupposti psicologici sui quali poggia il procedimento di compren-
sione di quest’ultima, per giungere infine alla negazione del caratte-
re scientifico delle leggi storiche — a cui viene riconosciuto un
valore puramente ipotetico e anticipatorio — e al rifiuto dei vari
30 INTRODUZIONE
tentativi di scoprire un « senso » della storia scientificamente valido.
Nell’Einleitung in die Moralwissenschaft egli si propone di dimostra-
re la possibilità di una conoscenza scientifica della vita morale e di
individuarne il campo di ricerca, ai confini tra psicologia, scienze
sociali e ricerca storica. Nella Philosophie des Geldes egli prende in
considerazione un concetto economico fondamentale, quello di dena-
ro, per analizzare il processo attraverso il quale il valore economico
diventa un'entità misurabile e trova quindi la propria unità di
misura appunto nel denaro.
Più tardi, nel 1908, Simmel perverrà ad affrontare il problema
dell'autonomia della sociologia nei confronti delle altre scienze socia-
li, proponendone una concezione svincolata sia dai presupposti positi-
vistici sia dall’impostazione storico-tipologica ch’essa aveva trovato
nell’opera di Tònnies, La concezione simmeliana è fondata sull’af-
fermazione del carattere puramente formale della sociologia. Dal
punto di vista del contenuto non è possibile differenziare la sociolo-
gia dalle altre scienze sociali: i fenomeni che esse studiano sono pur
sempre i medesimi, e sono riconducibili a processi psichici individua-
li. Ma la sociologia rappresenta un nuovo tipo di considerazione di
questi fenomeni, in quanto essa li studia non già come fenomeni
morali o economici o politici, e via dicendo, bensì nei modi di
relazione — in certa misura permanenti — tra gli individui, da cui
hanno origine i processi di « associazione ». La sociologia prescinde
dal contenuto dei fenomeni sociali, che sono sempre variabili, per
limitarsi all'analisi delle forme di associazione; essa è la « dottrina
dell’essere-società dell'umanità ». In altri termini, mentre le singole
scienze sociali studiano i fenomeni sociali in quanto qualificati nel
loro contenuto, la sociologia indaga i processi in cui i rapporti
reciproci tra gli uomini dànno luogo alle strutture della società. Il
suo oggetto specifico consiste perciò nelle forme di associazione, che
costituiscono l’elemento formale onnipresente nella vita sociale e
che, pur essendo anch'esse sottoposte a un mutamento e a una
trasformazione, posseggono tuttavia un grado di permanenza supe-
riore al ritmo della vita individuale.
Quando Simmel pubblicherà la Soziologie, questa disciplina
avrà ormai trovato una piena legittimazione nella cultura tedesca; e
lo stesso Dilthey — in contrasto soltanto apparente con la posizione
assunta nell’Einl/eitung in die Geisteswissenschaften — avrà parole
di apprezzamento per la prospettiva simmeliana. Nel corso degli
INTRODUZIONE 3I
anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo la sociologia aveva
cercato non soltanto di definire teoricamente il proprio compito e i
propri metodi, ma si era impegnata in uno sforzo di analisi empirica
di diversi aspetti della realtà tedesca contemporanea, Molto tempo
era trascorso da quando Heinrich von Treitschke aveva sbrigati-
vamente asserito che la conoscenza della società si esaurisce nel-
la scienza politica, in quanto ogni aspetto della vita sociale è
riconducibile allo stato: i problemi della struttura economico-so-
ciale della Germania post-bismarckiana richiedevano un altro tipo
di considerazione, che era appunto offerto dalla nuova scienza. In
questo contesto si viene compiendo la formazione di una delle
più importanti personalità del movimento storicistico, cioè di Max
Weber. Partito da studi a cavallo tra storia del diritto e storia
economica, il giovane Weber prende ben presto parte a un'inchiesta
sulla situazione del lavoro agricolo in Germania, promossa dal
« Verein fir Sozialpolitik », analizzando — nel volume Die Ver-
haltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (1892) —
il processo di trasformazione dell’agricoltura tedesca nelle regioni
orientali e i problemi, anche politici, che ne derivavano; in seguito
altri aspetti dell’economia capitalistica contemporanea attraggono la
sua attenzione, finché nel ’97 una grave crisi nervosa non lo costrin-
ge a interrompere per vari anni ogni attività. Ma già in questo
primo, intenso periodo di lavoro intellettuale viene a delinearsi il
posto centrale che, negli studi successivi di Weber, assumerà il
problema del capitalismo moderno e della sua individualità storica,
cioè della sua specificità rispetto alle altre forme di economia. Nel
medesimo tempo l’emergere di sempre più marcati interessi metodo-
logici lo spinge a seguire da vicino la discussione sul materialismo
storico, che proprio verso la metà degli anni ’go si estende dalla
Germania verso altri paesi europei, e ad avvertire l’esigenza di defi-
nire il procedimento delle scienze sociali. Così egli si accosta alla pro-
blematica dello storicismo, al cui sviluppo offrirà poi un contributo
decisivo agli inizi del nuovo secolo.
IV.
Nel 1905, dopo quasi un decennio dedicato prevalentemente
all'analisi dei principali momenti di sviluppo della cultura moder-
na, Dilthey riprendeva il progetto di una «critica della ragione
32 INTRODUZIONE
storica », formulato nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften.
Egli si rendeva certamente conto — ne sono prova i tentativi
piuttosto disparati di prosecuzione, compiuti negli anni ’90 — di
non essere riuscito a realizzare quella fondazione delle scienze dello
spirito che si era proposto. Anzi, si rendeva anche conto che la
soluzione prospettata nel 1883 rischiava di vanificare la validità
oggettiva di tali discipline, riducendole all’immediatezza dell’espe-
rienza vissuta. Infatti, se le scienze dello spirito hanno la propria
base nell’esperienza vissuta che l’uomo ha di sé e degli altri, e se la
comprensione degli altri poggia sulla capacità di «rivivere» gli
stati interiori altrui — com'era asserito nei Beitràge zum Studium
der Individualitit — è chiaro che la validità della conoscenza
storica e delle discipline che la costituiscono rimane confinata al
piano psicologico. Per dare alle scienze dello spirito un fondamento
conoscitivo adeguato era necessario abbandonare questo piano, e
garantire in qualche modo l’oggettività dell’intendere, la partecipabi-
lità dei suoi risultati.
Ancora una volta il punto di partenza era offerto dall'analisi
della struttura della vita psichica, alla quale sono dedicate in massi-
ma parte le tre Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften
(1905-10). Ma in quest’analisi Dilthey non soggiace più, come nelle
Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, alla
tentazione di risolvere il compito di fondazione critica delle scienze
dello spirito in una descrizione psicologica del loro procedimento.
Un’impostazione del genere non poteva ormai non apparirgli inficia-
ta di psicologismo, cioè di una confusione arbitraria tra determina-
zione delle condizioni di validità del conoscere e analisi delle sue
condizioni psichiche; e proprio lo psicologismo era stato sottoposto
pochi anni prima a una critica spietata da parte di Edmund Hus-
serl nelle Logische Untersuchungen (1900-1901), l’opera che segna
l'inizio del movimento fenomenologico. Come aveva rilevato Hus-
serl, la psicologia è una scienza sperimentale, che non può avanzare
alcuna pretesa di fondazione; anzi, essa stessa richiede di esser
fondata nella sua validità, Dilthey, che aveva letto attentamente le
Logische Untersuchungen, recepisce questa critica: se il punto di
partenza della fondazione delle scienze dello spirito consiste nell’ana-
lisi della struttura della vita psichica, essa non è tuttavia riducibile
a quest’analisi. L'indagine critica concerne la validità delle scienze
dello spirito: al di là della descrizione delle varie operazioni conosci-
INTRODUZIONE 33
tive, sulla cui base si costituiscono le singole discipline, si pone
appunto un altro problema, quello della fondazione del loro meto-
do e dei loro risultati.
In questo contesto anche l’esperienza vissuta viene in qualche
modo ridimensionata nella sua importanza. Certamente, ogni mani-
festazione della vita psichica ha la sua radice in essa, cioè nel corso
ininterrotto dell’ErleZer, nella successione di stati interiori da cui
questo è formato. Ma l’Erleben possiede una sua struttura, rappre-
sentata dalla relazione tra atto e contenuto; e dai diversi modi di
questa relazione sorgono le varie forme di atteggiamento della vita
psichica, i suoi «sistemi» — cioè l'apprendimento oggettivo, il
sentimento e la volontà. La conoscenza coincide appunto col primo
di questi sistemi, nel quale è presente una tendenza verso l’oggetto,
verso un oggetto concepito — e qui è evidente la suggestione di
Husserl — come « parzialmente trascendente » rispetto all’esperien-
za vissuta. Perciò essa si sviluppa su un piano ulteriore rispetto
all’Erleben: su questo piano sorgono le operazioni comuni a ogni
specie di apprendimento oggettivo, da quelle elementari (come la
comparazione, la distinzione, la relazione) a quelle proprie del
pensiero discorsivo (come la riproduzione memorativa di uno stato
passato, il rapporto tra espressione e ciò che è espresso, il giudizio,
il concetto, il sillogismo), e si compie altresì la differenziazione tra i
metodi delle varie discipline, in particolare tra scienze della natura
e scienze dello spirito.
In tale prospettiva Dilthey affronta, nell’ultima delle Studier
zur Grundlegung der Geisteswissenschaften e, più ampiamente, in
Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften
(1910), il duplice problema della delimitazione delle scienze dello
spirito e della loro fondazione critica, Esso viene impostato indivi-
duando il fondamento di queste discipline non più nell’esperienza
vissuta, ma nel nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere
— comune sia all’introspezione sia alla comprensione storica, vale
a dire sia alla conoscenza di sé sia alla conoscenza degli altri. Ogni
elemento del mondo umano è infatti, per Dilthey, l’espressione di
un'esperienza vissuta, l’espressione della vita di un individuo. Ma
questa espressione, la quale comporta la realizzazione dell’esperien-
za vissuta all’esterno, in forme sensibili, è una realtà oggettiva e
osservabile: a questa realtà, non alla vita psichica nella sua immedia-
tezza, si rivolge il processo dell'intendere. L’intendere non si riduce
3. STORICISMO TEDESCO.
34 INTRODUZIONE
quindi a un atto di «penetrazione simpatetica », al rivivere un
certo stato interiore proprio o di un altro individuo; tanto meno si
riduce all’introspezione, poiché — come Dilthey afferma esplicita-
mente — «l’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante
l’introspezione ». Tuttavia intendere un elemento della realtà spiri-
tuale vuol dire pur sempre riportarlo all’esperienza vissuta da cui è
scaturito, ossia considerarlo come espressione della vita: l’intendere
non è altro che «un ritrovamento dell’io nel tu», la scoperta, in
tutte le manifestazioni storiche, della vita psichica dalla quale proce-
dono. Il nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere viene
quindi a configurarsi come un nesso circolare: come l’espressione
deriva dall’esperienza vissuta e l’intendere si riferisce all’espressione,
così l’intendere deve anche risalire — per il tramite dell’espressione
— all’esperienza vissuta. Essendo fondate su tale nesso, le scienze
dello spirito risultano caratterizzate da un «riferimento retrospetti-
vo» all’esperienza vissuta. Come già nell’Ein/eitung in die Geistes-
wissenschaften, così anche nell'ultima fase del pensiero diltheyano
esse poggiano dunque sul presupposto di un’identità fondamentale
tra soggetto e oggetto, e la loro possibilità deriva appunto dal fatto
che «la vita coglie qui la vita». La loro certezza non è più
immediata ma mediata, in quanto trova una garanzia nel rapporto
tra esperienza vissuta, espressione e intendere; tuttavia anche questa
garanzia trae origine, in ultima analisi, dall’appartenenza dell’uomo
allo stesso mondo studiato dalle scienze dello spirito, vale a dire
dalla struttura dell’uomo come essere storico. Perciò le categorie
della ragione storica, i modi di apprendimento del mondo umano,
coincidono con le forme strutturali di tale mondo: esse ne costitui-
scono la semplice traduzione concettuale.
Dilthey rimaneva così legato, anche nell’ultima fase del suo pen-
siero, all’eredità metodologica della scuola storica. L’insistenza sull’e-
sperienza vissuta come radice di tutta la vita psichica, sul costante
« riferimento retrospettivo » ad essa delle scienze dello spirito, e nel
medesimo tempo il privilegiamento della vita considerata come la
dimensione fondamentale del mondo umano — che ha fornito lo
spunto a un’interpretazione metafisica della filosofia di Dilthey,
senza dubbio arbitraria ma tuttavia sintomatica — ne sono una
chiara dimostrazione. Non del tutto a torto Husserl estendeva allo
storicismo diltheyano, nel saggio Philosophie als strenge Wissen-
schaft (1910), la critica rivolta allo psicologismo. La « costruzione
INTRODUZIONE 35
del mondo storico » delineata negli scritti del periodo 1905-11 rima-
ne sempre in un difficile, precario equilibrio tra lo sforzo di
svincolarsi dal piano dell’immediatezza, dalla tendenziale riduzione
della conoscenza storica all’esperienza vissuta, e il permanente lega-
me con la scuola storica e con i suoi presupposti metodologici. Ma
nei medesimi anni in cui il vecchio Dilthey esponeva all'Accademia
delle Scienze di Berlino i risultati conclusivi della sua analisi delle
scienze dello spirito, quei presupposti subivano una critica radicale
e definitiva da parte di Max Weber — di trent'anni più giovane —
sulle colonne prima dello « Schmollers Jahrbuch » e poi del rinnova-
to « Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik ». Se per Dil-
they la conoscenza storica coincideva pur sempre con l’edificio con-
cettuale della scuola storica, per Weber s’identificava ormai con un
complesso di discipline che si erano costituite — la sociologia in
primo luogo, ma anche la scienza economica nella versione margina-
listica — distaccandosi da tale edificio e respingendone sia l’imposta-
zione generale sia la pretesa di onnicomprensività. A queste discipli-
ne, al loro procedimento concreto e ai loro rapporti si riferisce
l’analisi metodologica di Weber, che non a caso prende le mosse
dalla polemica contro la scuola storica di economia.
Quando Weber ritorna agli studi nel 1901, il suo interesse è
attratto soprattutto dal problema — largamente dibattuto in quel
periodo — del metodo della scienza economica; e a questo è dedica-
to il suo primo saggio metodologico, Roscher und Knies und die
logischen Probleme der historischen Nationalbkonomie (1903-06).
Da circa mezzo secolo la scuola storica dominava gli studi di
economia negli ambienti accademici tedeschi: essa si proponeva, in
opposizione all'economia classica di Smith o di Ricardo, di indaga-
re i fenomeni economici nel loro sviluppo, come parte integrante
della totalità della vita di un popolo. Ciò facendo Roscher, Hilde-
brand, Knies avevano in realtà trasferito all'ambito economico l’im-
postazione organicistica della scuola storica, la visione del processo
storico come prodotto di uno « spirito del popolo » che garantisce,
in ogni momento di sviluppo, la connessione dei diversi aspetti
della realtà sociale. Questa impostazione era stata criticata fin dal
1883 da Karl Menger nelle Untersuchungen ùiber die Methode der
Sozialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere,
un’opera che aveva dato inizio a una celebre disputa. Weber ripren-
de le obiezioni di Menger, respingendo la pretesa di determinare
36 INTRODUZIONE
leggi di sviluppo economico, cioè tendenze evolutive dei fenomeni
economici fornite di significato legale. Ma la sua critica si estende
subito all’intera eredità metodologica della scuola storica, all’edificio
concettuale che essa aveva costruito. E a tal fine egli si richiama a
un’altra opera apparsa da poco, ai Grenzen di Rickert, accogliendo
la distinzione che egli aveva formulato tra scienze naturali e scien-
ze della cultura, Rickert gli offriva infatti gli strumenti per condur-
re una duplice polemica: da un lato contro l’oggettivismo storico,
cioè contro la dottrina che ripone il fondamento dell’autonomia
della conoscenza storica in una determinazione oggettiva del campo
di ricerca, cioè in una presunta specificità ontologica dei fenomeni
storici, dall’altro contro l’intuizionismo storico, cioè contro la dottri-
na che cerca tale fondamento in qualche forma di comprensione
intesa come intuizione immediata. Se Dilthey non è nominato,
cadono invece sotto i colpi della polemica di Weber autori come
Wundt, Miinsterberg, Lipps, come il Simmel dei Probleme der
Geschichtsphilosophie e il Croce dell’Estetica.
Il richiamo a Rickert aveva però anche una portata positiva.
Accogliendo un criterio puramente metodologico di distinzione tra
scienze naturali e scienze storico-sociali Weber lasciava da parte l’an-
titesi — di origine diltheyana — tra spiegazione e comprensione, e
poteva rivendicare anche alla conoscenza storica un compito di spiega-
zione causale. Soltanto che questa assumeva una connotazione parti-
colare. Nelle scienze naturali, infatti, la spiegazione consiste nel
riportare un fenomeno a leggi generali, di cui esso costituisce un
semplice caso particolare: tra l'avvenimento da spiegare e le leggi
vi è un rapporto di « sussunzione ». Nelle scienze storico-sociali la
spiegazione riveste invece un carattere individuale: essa è rivolta
alla determinazione del rapporto causale specifico che intercorre tra
due o più fenomeni individuali, ossia tra momenti successivi di uno
stesso processo individuale di sviluppo. Sulla strada indicata da
Rickert era quindi possibile attribuire un compito esplicativo anche
alle scienze storico-sociali, ma asserirne al tempo stesso la diversità
da quello delle scienze naturali. La metodologia storiografica di
origine romantica e — al pari di essa — anche il positivismo
avevano identificato la causalità con la legalità; rifiutando tale identi-
ficazione Weber affermava, al contrario, la specificità della spiegazio-
ne causale-individuale e la sua compatibilità con il processo dell’in-
tendere. Egli perveniva così a recuperare un elemento centrale del-
INTRODUZIONE 37
l'impostazione diltheyana: la conoscenza storica deve, a differenza
delle scienze naturali, comprendere il proprio oggetto. Ma questa
comprensione è inseparabile dalla spiegazione causale. Più precisa-
mente, la comprensione consiste nella formulazione di ipotesi inter-
pretative concernenti il « senso » degli avvenimenti, che occorre poi
verificare attraverso il ricorso alla spiegazione causale. Si compie in
tal modo l’incontro tra due orientamenti di analisi metodologica,
che nel corso degli anni ’90 erano apparsi inconciliabili: da una
parte la spiegazione causale viene svincolata dal riferimento esclusi-
vo a leggi generali, e si riconosce la possibilità di un tipo di
spiegazione proprio della conoscenza storica, orientato in senso indi-
vidualizzante; dall’altra l’intendere acquista una propria autonomia
metodologica nei confronti dell'esperienza vissuta, e il suo procedi-
mento viene ricondotto a regole oggettive.
Su questa base Weber affronta, nel saggio Uber die « Objektivitàt»
sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntis (1904) e nel-
le Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen
Logik (1906), il problema dell’oggettività delle scienze storico-sociali
— che rimarrà centrale nella sua riflessione metodologica. Le condi-
zioni di tale oggettività vengono determinate per un verso nell’esclu-
sione dei giudizi di valore, per l’altro verso nel ricorso alla spiegazio-
ne causale. Weber accoglie infatti la distinzione rickertiana tra
giudizio di valore e relazione ai valori, per affermare l’estraneità
del primo a ogni forma di conoscenza e per individuare nella
presenza o nell’assenza di quest’ultima la differenza principale tra
conoscenza storica e scienze naturali. Le scienze storico-sociali pog-
giano su una relazione ai valori che designa il riferimento a certi
criteri di scelta del dato rilevante per la loro indagine, i quali
presiedono quindi alla sua elaborazione concettuale. Ma nell’analisi
di questa relazione Weber si distacca nettamente da Rickert, lascian-
do cadere il presupposto della validità incondizionata dei valori.
Egli muove, al contrario, dall’affermazione della relatività dei crite-
ri di scelta impiegati dalle scienze storico-sociali, e perciò dalla
constatazione del carattere inevitabilmente « soggettivo » delle loro
premesse, cioè del loro condizionamento culturale. Si pone così il
problema di stabilire come, date queste premesse soggettive, le
scienze storico-sociali possano tuttavia pervenire a risultati validi
oggettivamente. La garanzia di tale validità è rintracciata nel princi-
pio di causalità, che vale — seppure in forma diversa — sia nelle
38 INTRODUZIONE
scienze naturali sia nelle scienze storico-sociali. Ma la relatività dei
criteri di scelta incide, in realtà, sullo stesso procedimento di spiega-
zione causale. Essa rende impossibile in linea di principio, e non sola-
mente di fatto, determinare tutti gli elementi del processo causale da
cui scaturisce un certo evento: ogni spiegazione è sempre parziale,
in quanto individua una particolare serie di antecedenti e mai la
totalità degli antecedenti di un fenomeno. Ciò implica che il rappor-
to tra una certa condizione o un certo complesso di condizioni
(considerate come cause del fenomeno) e il fenomeno da spiegare
non è esprimibile in un giudizio di necessità, cioè in un giudizio il
quale asserisca che, data quella condizione o quel complesso di
condizioni, ne deriva immancabilmente come suo effetto quel feno-
meno; esso deve venir formulato su una diversa base categoriale,
cioè in un giudizio di possibilità oggettiva, La spiegazione di un
avvenimento consiste perciò nella determinazione delle condizioni che
lo hanno reso oggettivamente possibile, nonché del grado di rilevanza
di ognuna di queste condizioni; tant'è vero che i giudizi di possibili
tà oggettiva si dispongono lungo una scala i cui estremi sono
costituiti dalla « causazione adeguata » e dalla « causazione accidenta-
le », cioè dalla determinazione rispettivamente dell’indispensabilità
o della non-indispensabilità di una certa condizione per il verificarsi
del fenomeno da spiegare.
Un oggetto storico, considerato nella sua individualità, non è
soltanto — come si è visto — indeducibile da un sistema di leggi
generali, ma non è neppure suscettibile di una spiegazione esausti-
va. Le scienze storico-sociali possono spiegarlo sempre in maniera
parziale, riportandolo a una o più serie particolari di condizioni; e i
giudizi che enunciano tale rapporto sono appunto giudizi di possibili-
tà oggettiva. Affermando l’orientamento individualizzante della spie-
gazione storica Weber non ha però inteso escludere il riferimento a
leggi generali, o per lo meno a uniformità di comportamento dei
fenomeni sociali : il sapere nomologico è anzi presupposto indispensa-
bile per la stessa formulazione di giudizi di possibilità oggettiva. Ma
esso ha una funzione puramente strumentale, nel senso che quelle
che Weber chiama «regole generali dell’esperienza » intervengono
nel procedimento esplicativo soltanto come supporto per la costruzio-
ne di processi tipico-ideali con i quali comparare il processo reale, e
sono impiegate in vista della determinazione di un nesso causale tra
fenomeni individuali. La relazione tra generale e individuale si
INTRODUZIONE 39
presenta così in maniera inversa nelle scienze naturali e nelle scien-
ze storico-sociali. Nelle prime il fenomeno viene ridotto a caso
particolare di una legge, e anche il rapporto di causa ed effetto tra
due fenomeni viene considerato come una semplice specificazione di
un rapporto esprimibile in forma generale, cioè in forma di legge.
Nelle seconde il riferimento a regole empiriche generali serve inve-
ce come mezzo: il sapere nomologico di cui la conoscenza storica si
avvale è costituito del resto da tipi ideali, cioè da concetti formati
attraverso un processo di astrazione dalla realtà empirica e di
accentuazione unilaterale di alcuni suoi elementi.
Weber non si è però limitato a fornire una caratterizzazione del
procedimento esplicativo delle scienze storico-sociali in termini indivi-
dualizzanti, sulla linea tracciata da Rickert; gli ha anche dato una
struttura categoriale diversa da quello delle scienze naturali. Lo
schema di spiegazione della conoscenza storica, definito in termini
di giudizi di possibilità oggettiva, si presenta infatti come uno
schema « condizionale ». Sotto questo profilo — che è probabilmen-
te il più importante — la teoria weberiana della spiegazione rappre-
senta un radicale rifiuto del postulato di una struttura legale della
realtà sociale, che il positivismo ottocentesco aveva sovente associato
al modello di spiegazione su base deduttiva formulato da John
Stuart Mill. Per Weber la realtà sociale non è il dominio di leggi
necessarie: in esse si possono ritrovare soltanto uniformità di com-
portamento verificabili empiricamente, la cui elaborazione concettua-
le dà luogo alle leggi che costituiscono l'apparato teorico delle
scienze storico-sociali. Perciò il procedimento esplicativo di queste
discipline poggia non già su relazioni invariabili, bensì su possibili-
tà oggettive; e i rapporti che esso pone in luce sono rapporti di
condizionamento i quali esprimono il grado maggiore o minore di
probabilità del verificarsi, sulla base di condizioni date, di un deter-
minato fenomeno.
Mentre Dilthey concludeva una fase del dibattito metodologico
dello storicismo tedesco, Weber ne apriva contemporaneamente
un’altra. Ci troviamo qui di fronte a una svolta decisiva nello
sviluppo del movimento storicistico, a una svolta caratterizzata non
soltanto dalla consapevole rottura con l'eredità della scuola storica,
ma anche dallo sforzo di risolvere l'indagine critica nell’analisi
metodologica del procedimento concreto delle scienze storico-sociali
e del loro tipo di spiegazione, abbandonando le ambizioni di una
40 INTRODUZIONE
loro « fondazione » filosofica. L'impostazione weberiana avrà conse-
guenze durature, e di ampia portata, sullo sviluppo di queste discipli-
ne, in primo luogo della sociologia. Del resto lo stesso Weber
simpegnerà in seguito, sulla linea tracciata nei suoi primi saggi
metodologici, nella definizione del compito e delle categorie della
« sociologia comprendente », indicando il suo oggetto specifico nelle
uniformità dell'agire umano dotate di senso e affermandone l’autono-
mia, anzi l’antitesi relativa, nei confronti della ricerca storica. Su
questa base egli giungerà a fornire, in quella che è rimasta fino ad
oggi l’opera più importante della sociologia novecentesca — cioè in
Wirtschaft und Gesellschaft, pubblicata postuma nel 1921 — una
sistemazione organica della teoria sociologica e dei principali campi
d’indagine della nuova scienza.
V.
La problematica dello storicismo tedesco non si esaurisce tutta-
via nel dibattito metodologico al quale abbiamo finora limitato la
nostra attenzione. Al contrario, alla discussione sul metodo della
conoscenza storica, sulla sua autonomia rispetto alle scienze naturali
e sui suoi rapporti con le scienze sociali si affianca, fin dall’inizio,
la consapevolezza che lo sviluppo di questo nuovo tipo di sapere
non può non incidere sull'immagine dell’uomo e della realtà, la
consapevolezza che la dimensione storica deve in qualche modo
trovare diritto di cittadinanza in una concezione filosofica generale.
Molti anni prima dell’Etz/eitung in die Geisteswissenschaften, in
una lettera che risale al 1860, Dilthey aveva individuato la caratteri-
stica fondamentale di questa nuova concezione filosofica nello sfor-
zo di « comprendere l’uomo come un essere essenzialmente storico,
la cui esistenza si realizza soltanto nella comunità». E in base a
questo egli assumeva fin da allora una duplice posizione critica: da
una parte nei confronti di ogni metafisica la quale pretenda di
cogliere il significato della storia ancorandolo a un piano provviden-
ziale divino, dall’altra nei confronti di qualsiasi tentativo di ricondur-
re il processo storico a un principio assoluto ad esso immanente, Il
rifiuto dell’interpretazione teologica della storia diventerà esplicito
nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, in cui il sorgere delle
scienze dello spirito viene collegato al processo di liberazione del
sapere dalla metafisica tradizionale; ma era già implicito negli
INTRODUZIONE 4I
scritti precedenti, nella stessa adesione del giovane Dilthey ai presup-
posti metodologici della scuola storica. Ad esso si accompagna però
l'atteggiamento polemico verso Hegel, il rifiuto del postulato della
razionalità della storia e di una visione del processo storico come
successione razionalmente ordinata di incarnazioni dello « spirito
del mondo ». Fin dal 1864, affrontando il problema dell’essenza
della storia, Dilthey la identificava con il puro e semplice « movi-
mento storico », inteso come «il lavorare di una generazione per la
successiva, il concretarsi dell'individuo in rapporti sociali ricchi di
contenuto, per cui egli lavora ». Questa presa di posizione anti-meta-
fisica, sorretta dal richiamo alle prospettive neocriticistiche, verrà
poi chiaramente in luce nell’Einleitung in die Geisteswissenschaf-
ten, in cui è asserita in modo esplicito la storicità dell’individuo e
del mondo umano nel suo complesso, e in cui viene compiuto il
tentativo di dare una definizione della storia che prescinda dal
riferimento a princìpi speculativi. La vita dell’uomo si risolve nel
processo storico, nell’instaurazione di rapporti con gli altri individui
e nella costruzione dei sistemi di cultura e dei sistemi di organizza-
zione esterna della società; e ogni stato sociale è inserito in questo
processo, per cui risulta « uno stato storico ». La storicità viene in
tale maniera assunta a dimensione costitutiva non soltanto dell’uo-
mo in quanto individuo, ma dello stesso mondo umano che è
oggetto delle scienze dello spirito.
Dilthey ritornerà più tardi, nell’ultima fase del suo pensiero, su
queste implicazioni più generali della propria filosofia, cercando di
darne una sistemazione organica. Ma già prima esse erano ben
percepibili. Che lo storicismo avesse conseguenze di ampia portata
— e soprattutto conseguenze negative — sulla considerazione di
tutti gli aspetti della vita umana, che non soltanto richiedesse nuove
prospettive di analisi ma mettesse contemporaneamente in crisi cre-
denze e sistemi tradizionali, appariva chiaro già pochi anni dopo la
pubblicazione dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. Ed era
quasi inevitabile che il primo terreno a venirne investito dovesse
essere quello religioso. La consapevolezza delle implicazioni filosofi-
che dello storicismo poneva infatti in questione il postulato del
valore assoluto della fede cristiana e, insieme ad esso, la possibilità
di una teologia. Dalla coscienza di questa crisi prende le mosse la
speculazione di Ernst Troeltsch. Erede della teologia liberale, allie-
vo di Albrecht Ritschl, Troeltsch avverte il carattere antinomico del
42 INTRODUZIONE
rapporto tra storia e religione: se ogni forma di vita religiosa è
storicamente condizionata, se può esser compresa soltanto in relazio-
ne ai diversi aspetti di una certa cultura o di una certa epoca,
nessuna religione può aspirare a una validità incondizionata. E
quindi anche il Cristianesimo diventa una religione come le altre,
ossia un prodotto dello sviluppo storico, privo perciò di quel fonda-
mento soprannaturale che doveva distinguerlo dalle religioni non cri-
stiane. In questa prospettiva Troeltsch affronta — a partire dal saggio
Christentum und Religionsgeschichte (1897) — il problema della
specificità e della validità del Cristianesimo.
Di questo problema Troeltsch ha dato soluzioni oscillanti e non
sempre coerenti, dapprima indicando nel Cristianesimo non già la
religione assoluta ma la religione più alta alla quale l’umanità
sia pervenuta nel suo sviluppo storico, e recuperando così un qua-
dro storico-evolutivo che aveva respinto nella sua polemica con-
tro il tentativo di «conciliazione » tra storia e religione compiuto
dalla concezione romantica, poi andando in cerca di un «@ priori
proprio della vita religiosa che ne garantisca l’irriducibilità alle altre
forme di attività umana e affermando la presenza di valori assoluti
all’interno del processo storico. Pur nel variare delle soluzioni,
l'orientamento del suo pensiero rimane abbastanza determinato. Es-
so muove infatti dal riconoscimento che, con il sorgere della coscien-
za storica moderna, anche la considerazione della religione e quindi
la costruzione di una teologia devono collocarsi sul terreno della
storia. Che cosa sia il Cristianesimo, quale sia la sua origine, se sia
giustificata la sua pretesa di validità universale, se abbia ancora
senso una teologia — tutte queste sono questioni da affrontare sulla
base di una prospettiva storica, facendo rientrare il Cristianesimo
nell’ambito di una storia generale della religione. Nel volume Die
Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (1902)
Troeltsch lascia cadere il tentativo di ricondurre tutte le religioni a
un nucleo comune o a una linea unitaria di sviluppo, per guardare
invece al Cristianesimo come a un fenomeno storico individuale, nel
quale si realizza non già il possesso — impossibile in linea di principio
— ma il grado più elevato di partecipazione alla verità religiosa. Il
Cristianesimo è interpretato quindi come una religione storicamente
condizionata, da indagare nel suo sviluppo e nelle sue diverse
manifestazioni: qualsiasi fondazione della fede cristiana deve proce-
dere ormai da questo riconoscimento, senza di cui essa è destinata a
INTRODUZIONE 43
naufragare di fronte alla coscienza storica. Tuttavia la storia non
costituisce, per Troeltsch, una realtà autosufficiente e chiusa in se
stessa: al contrario, può riferirsi a valori assoluti, a una realtà
trascendente che si colloca al di fuori del processo storico e che è
accessibile soltanto in maniera parziale e in forme differenti.
Troeltsch trova così nella teoria dei valori il punto di partenza
di una giustificazione della vita religiosa. Fin dal saggio Die Selbst-
dindigkeit der Religion (1895) egli si era richiamato al neocritici-
smo; cercando il fondamento della religione e della sua autonomia
in un principio trascendentale distinto da quelli che presiedono alla
conoscenza o alla moralità o all'arte: ma un fondamento del genere
rimaneva puramente formale, e non garantiva affatto la validità
oggettiva delle credenze religiose, tanto meno quella di una determi-
nata forma storica di religione. Anche in seguito il compito della
filosofia della religione è additato nella determinazione della possi-
bilità della vita religiosa come sfera a sé stante dell’attività umana;
ma questa viene individuata non tanto nella struttura della vita psi-
chica — come farà Dilthey nei saggi dedicati alla teoria dell’intuizione
del mondo e, in particolare, nel breve saggio Das Wesen der Religion
(1911) — quanto nella relazione con valori trascendenti. In tal modo
il rapporto tra coscienza religiosa e valori si configura come un caso
specifico di un rapporto più generale, cioè del rapporto tra l’uomo
nella sua esistenza storica e un mondo al di là della storia, dal
quale egli deve trarre i propri criteri normativi.
La posizione assunta da ’Troeltsch negli scritti di filosofia della
religione degli anni ’90 e dei primi anni del nuovo secolo era, per
molti aspetti, emblematica. Nell’intento di salvaguardare la vita
religiosa dall’urto della coscienza storica e dalle conseguenze relati-
vizzanti che essa sembrava comportare, Troeltsch iniziava un processo
di recupero di prospettive metafisiche all’insegna della teoria dei valo-
ri, che sarebbe stato ripreso con maggior coerenza dall'ultimo Win-
delband e dal Rickert del dopoguerra (oltre che da lui stesso, nei
successivi scritti di filosofia della storia). Egli si rendeva ben conto
che il riconoscimento della storicità dell’uomo e del mondo umano
era un'acquisizione definitiva, e che per ritrovare nuove certezze
occorreva pur sempre muovere da tale base. Il tentativo idealistico
di conciliare storia e religione — comune a Schleiermacher e allo
Hegel delle Vorlesungen tiber die Philosophie der Religion — gli
appariva una sostanziale mistificazione della vita religiosa e della
44 INTRODUZIONE
sua storia, arbitrariamente interpretata come la manifestazione pro-
gressiva di un’ipotetica «essenza» della religione. Agli occhi di
Troeltsch la realtà storica era una realtà finita, distinta dal mondo
trascendente dei valori e in un rapporto problematico con questi; di
conseguenza, il divino gli si presentava come qualcosa di lontano,
di accessibile soltanto parzialmente e con fatica, in una dimensione
diversa da quella del sapere scientifico. La concezione romantica
della storia, la concezione del processo storico come sede di realizza-
zione di un piano provvidenziale, era così respinta esplicitamente:
tanto la filosofia hegeliana della storia, che nella successione dei
singoli «spiriti dei popoli» scorgeva la marcia incessante dello
« spirito del mondo », quanto la visione rankiana che in ogni epoca
ritrovava un rapporto immediato con la divinità, appartenevano per
lui a un passato ormai concluso.
Il nuovo storicismo veniva perciò a differenziarsi nettamente,
nella sua concezione della storia, da quello della prima metà del secolo
XIX; e questa eterogeneità traspariva con chiarezza dalla presa di
posizione nei confronti di Hegel, Esso era così destinato a incontrar-
si — in un dialogo che non cesserà mai di essere più o meno
polemico — con il materialismo storico, il quale pure aveva preso le
mosse dalla crisi della filosofia idealistica della storia e dalla critica
dei suoi presupposti. Negli anni in cui l'emergere del problema del
capitalismo moderno, della sua origine e delle sue caratteristiche distin-
tive costringeva la cultura accademica tedesca a fare i conti con l’anali-
si marxiana (ed engelsiana) del sistema capitalistico e del suo sviluppo,
il materialismo storico si trovava da parte sua impegnato in un difficile
compito di revisione delle proprie prospettive. Il crollo del capitali-
smo, che nel 1848 era potuto sembrare imminente, si allontanava
sempre più nel tempo, trasformandosi in un obiettivo di lungo
periodo; il sistema capitalistico si rivelava in grado di assorbire le
spinte del movimento operaio e di sopravvivere ai periodi di depres-
sione economica; la previsione di un progressivo accentuarsi della
divisione della società in due classi contrapposte appariva priva di
fondamento. Lo stesso Engels era costretto a riconoscere, nel 1895, la
discrepanza tra teoria e realtà, tra le aspettative rivoluzionarie e il
consolidamento del capitalismo. In questa situazione uno dei maggio-
ri esponenti della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, avvia-
va tra il 1896 e il 99 un processo di revisione dei princìpi dottrinali
del marxismo, i cui risultati — pubblicati dapprima sulla rivista
INTRODUZIONE 45
« Neue Zeit » — confluiranno in seguito nel volume Die Vorausset-
zungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie
(1889). La polemica di Bernstein si rivolge contro le interpretazioni
del materialismo storico in chiave deterministica, contro la trasfor-
mazione della teoria materialistica della storia in una dottrina
della necessità storica, esprimibile in presunte «leggi» di sviluppo.
A tale polemica si accompagna lo sforzo di sottrarre il materialismo
storico al postulato della riconducibilità di ogni fenomeno a cause
(in ultima analisi) economiche, di cui gli altri aspetti della vita
sociale sarebbero semplici manifestazioni sovra-strutturali, Contro la
distinzione tra struttura economica e sovrastruttura Bernstein fa
valere infatti la tesi della molteplicità dei « fattori » del processo
storico, rivendicando quindi l’autonomia della sfera politica e soprat-
tutto della sfera ideologica rispetto ai processi economici. Ogni
fenomeno dev'essere spiegato come il risultato dell'incontro e della
cooperazione di cause diverse, tra cui quelle economiche rivestono
certamente un’importanza essenziale, ma in nessun modo esclusiva
e determinante.
Questa riformulazione del materialismo storico, che tendeva chia-
ramente a presentarlo non più come una concezione generale ma
come una teoria scientifica della storia, era destinata ad avere larga
risonanza — fin dai primi anni del nuovo secolo — anche nell’ambito
del movimento storicistico. Certo non in Dilthey, concentrato nella
realizzazione del programma di una «critica della ragione storica »,
e neppure in Windelband o in Rickert, che si proponevano di svilup-
pare una filosofia della storia sulla base della teoria dei valori; ma
piuttosto nei suoi esponenti più giovani, da Max Weber allo stesso
Troeltsch. E ancora una volta la religione diventava il terreno
principale di questa discussione, il terreno sul quale lo storicismo,
impegnato in un’interpretazione storica dei fenomeni religiosi, dove-
va però evitare al tempo stesso la loro riduzione a processi puramen-
te economici e assicurarne in qualche modo l'autonomia. Fin dal
1904 Max Weber, ritornato al lavoro dopo una parentesi di alcuni
anni, affrontava il problema dell’origine del capitalismo e dello
«spirito capitalistico », e formulava la celebre tesi della derivazione
di quest’ultimo dalla ricerca calvinistica di una «conferma» della
salvezza individuale attraverso il successo conseguito nell’agire mon-
dano, in particolare nell’attività professionale. In questa prospettiva
il rapporto tra fenomeni economici e fenomeni religiosi risultava
46 INTRODUZIONE
rovesciato: lungi dal determinare lo sviluppo della religione, il
capitalismo è esso stesso condizionato all’origine — in uno dei suoi
elementi costitutivi — da un fenomeno religioso qual è l’etica calvini-
stica. Tuttavia Weber era ben lontano da una concezione spirituali-
stica della storia, del tipo di quella enunciata da Rudolf Stammler
in Wirtschaft und Recht nach der materialistischen Geschichtsauffas-
sung (1896) — nei cui confronti egli assumerà anzi una posizione
aspramente critica in un saggio del 1907. Weber concepiva piuttosto
la relazione tra economia e religione (al pari di quella tra l’econo-
mia e qualsiasi altra sfera della realtà sociale) come un nesso di
condizionamento reciproco, del quale si deve di volta in volta
indagare la direzione e la portata. Riconducendo l’origine non già
del capitalismo ma di una sua particolare componente, cioè dello
spirito capitalistico, all’etica calvinistica, Weber respingeva il materia-
lismo storico come concezione generale della storia, ma riconosceva
la sua validità (e fecondità) in quanto principio euristico, in quanto
ipotesi interpretativa. In una sostanziale convergenza con Bernstein
— anche se muovendo da una posizione di critica al materialismo
storico, non già di revisione interna — egli rifiutava di ammettere
un condizionamento univoco dei processi storici, e quindi anche di
quelli religiosi, da parte di una presunta struttura economica della
storia, e affermava l’impossibilità di ricondurre qualsiasi fenomeno
a cause solamente economiche; ma rivendicava l’importanza di
un’indagine diretta ad accertare il peso del condizionamento econo-
mico sulle diverse sfere della vita sociale. L’unilateralità del materia-
lismo storico gli appariva nient’altro che un caso specifico della
unilateralità di ogni criterio di interpretazione: non la sua limitatez-
za, ma la sua assolutizzazione è da respingere. E difatti nei successi-
vi saggi sull’etica economica delle religioni universali — che conflui-
ranno nei Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie (1920) —
Weber allargherà il proprio ambito di considerazione, affrontando
lo studio sia delle influenze che la situazione economica e i rapporti
di classe e di ceto esercitano sulla formazione e sullo sviluppo delle
dottrine religiose, sia del modo in cui queste orientano l’attività eco-
nomica di determinati gruppi sociali, il loro atteggiamento tradizio-
nalistico o razionalistico nei confronti del guadagno e del lavoro pro-
fessionale.
In quei medesimi anni anche Troeltsch si accingeva a un’analisi
storica delle dottrine economico-sociali sorte sul terreno del Cristiane
INTRODUZIONE 47
simo. Lo separava da Weber non soltanto un’originaria diversità di
interessi, ma anche una differente valutazione della Riforma protestan-
te, che questi considerava un elemento decisivo per la formazione dello
spirito capitalistico e quindi della civiltà moderna, mentre Troeltsch
vi scorgeva piuttosto — nel volume Die Bedeutung des Protestanti-
smus fiir die Entstehung der modernen Welt (1906) — la continua-
zione di una cultura su base teologica quale quella medievale. Ma
la lunga consuetudine degli anni di Heidelberg, dove Troeltsch
insegnò dal 1894 al 1915, lo portò ad attenuare questo giudizio e a
riconoscere le possibilità di sviluppo in senso liberale e democratico
del Calvinismo, contrapposto al Luteranesimo conservatore. Così,
mentre Weber estendeva la propria analisi alle religioni della Cina
e dell’India, oltre che alla religiosità ebraica, Troeltsch dedicava alla
sociologia del Cristianesimo un’opera di ampio respiro, Die Sozial-
lehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1908-12). Anch’egli
si proponeva di indagare lo sviluppo del Cristianesimo, dall’epoca
primitiva al Cattolicesimo medievale e poi alla Riforma, nei suoi
mutevoli rapporti con la vita economica e con l’organizzazione
della società, ponendo in luce il trapasso dall’originario atteggiamen-
to di indifferenza rispetto al « mondo » a uno sforzo sistematico di
subordinarlo a fini religiosi. E in quest’impresa si trovava a dover
fare i conti con il materialismo storico, a rivendicare nei suoi
confronti quell’autonomia della religione che costituiva la preoccupa-
zione dominante degli scritti degli anni '90. Ma la posizione di
Troeltsch veniva a divergere in maniera significativa — al di là
delle dichiarazioni di principio — da quella di Weber, in quanto
egli postulava l’esistenza di una causalità autonoma della vita religio-
sa e concepiva così il condizionamento reciproco tra i vari tipi di
fenomeni storici come incontro di serie causali indipendenti. Se la
critica di Weber si collocava sullo stesso versante metodologico di
Bernstein, quella di 'Troeltsch era piuttosto assimilabile alla concezio-
ne spiritualistica di uno Stammler, in quanto si richiamava a una
definizione ontologica della struttura del processo storico. Questa
divergenza, ancora celata negli anni fino al 1915, verrà chiaramente
in luce più tardi, condizionando l’elaborazione della filosofia della
storia di Troeltsch e orientandola verso un esito assai diverso da
quello a cui era pervenuto Weber.
48 INTRODUZIONE
VI.
Allargando la propria considerazione dal metodo della conoscen-
za storica alla struttura oggettiva della realtà studiata dalle scienze
storico-sociali, il movimento storicistico si trovava impegnato nella
critica delle concezioni della storia prodotte dalla cultura filosofica
della seconda metà del Settecento e della prima metà dell’Ottocen-
to, In tale maniera si compiva, da un lato attraverso il rifiuto della
visione del processo storico come manifestazione o realizzazione di
un principio assoluto, dall’altro attraverso la riduzione del materiali-
smo storico in termini metodologici, la dissoluzione della « storia
universale ». Il processo storico tendeva ad articolarsi in una molte-
plicità di processi particolari, in una molteplicità di rapporti e di
direzioni di sviluppo non riconducibili a una matrice unitaria —
sia essa il cammino dello « spirito del mondo » o la presenza della
divinità o anche soltanto l’azione determinante della struttura econo-
mica. Non più la storia come totalità, ma la storicità dell’uomo e
del mondo umano nelle sue dimensioni concrete diventava il centro
di riferimento di una considerazione filosofica della storia. Il proble-
ma del «senso» della storia, di un senso inerente al processo
storico in quanto tale ed esprimibile in una direzione di sviluppo o
in un termine ultimo, lasciava perciò posto alla ricerca del significa-
to dei singoli avvenimenti, delle singole epoche e dei loro rapporti
reciproci. Questo mutamento di impostazione non rivestiva soltanto
un carattere negativo: al contrario, esso dava luogo a un'analisi
strutturale del mondo umano e della sua storicità, alla determinazio-
ne dei modi concreti in cui questa permea la vita degli individui e
della società. Tale sforzo speculativo accomuna, al di là delle diffe-
renze, autori come Dilthey o Simmel o lo stesso Weber, e costitui-
sce — accanto al dibattito sul metodo della conoscenza storica — il
secondo nucleo problematico dello storicismo tedesco.
L'analisi strutturale dell’uomo e del mondo umano viene condot-
ta lungo tre direttrici principali. La prima è rappresentata da Dil-
they, il quale tende sempre più chiaramente — dopo l’Einleitung in
die Geisteswissenschaften — a trasformare la critica della ragione
storica in una filosofia dell’uomo come essere storico, riportando le
categorie delle scienze dello spirito alla struttura del mondo umano
che costituisce il loro oggetto complessivo. La seconda è rappresenta-
ta da Simmel che, dopo il 1910, compie il trapasso dalla prospettiva
INTRODUZIONE 49
relativistica formulata nel periodo precedente a una metafisica di
tipo immanentistico, la quale individua nel rapporto tra la « vita »
e le sue « forme » la struttura fondamentale dell’esistenza. La terza
è rappresentata da Weber, il quale muove dall’analisi della relazio-
ne ai valori per definire su tale base l’esistenza dell’uomo, e con essa
il significato da un lato della scienza e dall’altro della politica. Le
tre direttrici di analisi si distinguono, già a prima vista, per il
diverso atteggiamento che assumono nei confronti del relativismo.
Dilthey afferma la relatività di ogni fenomeno storico e l'immanenza
dei valori alla storia; ma il suo relativismo è enunciato soprattutto
in chiave negativa, e viene a coincidere con il riconoscimento della
finitudine dell’uomo e del mondo umano — in sostanza, esso non è
altro che il rifiuto di una concezione metafisica della storia la quale
pretenda di determinarne il senso attraverso il riferimento a qual-
che principio assoluto. In Simmel lo storicismo viene invece identifi-
cato col relativismo, e la conseguenza di ciò è che l’affermazione
della relatività della vita si trasforma nella sua assunzione a fonda-
mento di ogni realtà: dal relativismo, teorizzato in forma positiva,
si sviluppa così una filosofia della vita di stampo chiaramente roman-
tico. Un esplicito atteggiamento anti-relativistico caratterizza invece
il pensiero di Weber: ai suoi occhi il relativismo poggia su una
teoria organicistica, che egli respinge per sostenere l’irriducibilità
dei valori al processo storico e per qualificare il rapporto dell’uomo
con i valori come una presa di posizione che comporta una scelta
tra i diversi valori e le diverse sfere di valori. Il riferimento ai
valori perde quindi quella funzione di garanzia della validità incon-
dizionata della conoscenza e dell’agire umano, che Windelband e
Rickert gli avevano attribuito.
Fin dall’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey si è
proposto di determinare, sia pure in maniera sommaria, la struttura
del mondo umano come realtà storica. Questa struttura è caratteriz-
zata dalla polarità tra l'individuo e i «sistemi» costituiti in virtù
delle relazioni che si instaurano tra gli individui. L'individuo è
il nucleo fondamentale, il Grundkòrper del mondo umano, e quin-
di della storia. Ma l’individuo assume un’esistenza storica soltanto
nella misura in cui entra in rapporto con altri individui, cercando
di soddisfare i propri bisogni attraverso la divisione del lavoro e nel
corso delle generazioni. Da quest’azione reciproca, da queste relazio-
ni che acquistano una loro consistenza autonoma rispetto ai singoli
4. STORICISMO TEDESCO.
50 INTRODUZIONE
uomini, sorgono due tipi di sistemi, i sistemi di cultura e i sistemi
di organizzazione esterna della società. I sistemi di cultura — vale
a dire l’arte, la religione, la filosofia, la scienza e così via —
nascono da una comunanza di scopi presenti in una molteplicità di
individui, che vi trovano la base della loro cooperazione. I sistemi
di organizzazione sociale — cioè le varie istituzioni, dalla famiglia
allo stato e alla chiesa — si reggono invece non soltanto su interessi
comuni, ma anche su rapporti di dominio e di subordinazione, e
hanno quindi sempre un carattere più o meno coercitivo. Gli uni e
gli altri si sviluppano nel corso temporale della vita, hanno cioè
una dimensione storica: anche se il grado della loro permanenza
nel tempo è assai superiore a quello dell’esistenza individuale, non
per questo acquistano un’esistenza metastorica. Questa struttura
del mondo umano si riflette nell’edificio delle scienze dello spirito,
il quale comprende da un lato due discipline — la psicologia e
l’antropologia — che studiano in modo specifico l’individuo, dall’al-
tro la ricerca storica e le scienze dei vari sistemi di cultura e di
organizzazione sociale.
In seguito, negli scritti del periodo 1905-1911, Dilthey è pervenu-
to a concepire le categorie delle scienze dello spirito come la tradu-
zione delle forme strutturali del mondo umano. La vita, la tempora-
lità, l'essenza e lo sviluppo, il valore, lo scopo, il significato non
sono categorie astratte, applicabili a un oggetto qualsiasi; esse sono
radicate nella struttura stessa del mondo umano, la quale condizio-
na perciò il procedimento conoscitivo delle scienze dello spirito. Su
questa base il mondo umano viene inteso come il prodotto del
processo di oggettivazione della vita, vale a dire come « spirito
oggettivo» — anche se in senso del tutto differente da quello
hegeliano, ossia come il complesso delle manifestazioni storiche del-
l’attività umana — e la sua struttura è definita facendo ricorso alla
nozione di « connessione dinamica ». Questa nozione, introdotta dap-
prima per caratterizzare la struttura della vita psichica e in seguito
estesa a ogni espressione della vita, designa un insieme organizzato
di elementi che ha il proprio centro in se stesso, che si prefigge
scopi suoi propri e che produce valori peculiari. È quindi una
connessione dinamica sia il mondo umano nel suo complesso sia
ogni suo elemento singolo, dall’individuo ai sistemi di cultura e ai
sistemi di organizzazione sociale; anzi, il mondo umano è una
connessione dinamica la quale si articola, al suo interno, in una
INTRODUZIONE SI
molteplicità di connessioni che ne ripetono i caratteri strutturali.
Non soltanto la vita storica è orientata in vista di determinati scopi
e crea valori, ma ogni connessione dinamica è contraddistinta da
scopi e valori particolari, che la differenziano da tutte le altre.
Riprendendo i risultati dell'analisi strutturale condotta nell’Ein/ei-
tung in die Geisteswissenschaften, Dilthey riconduce i vari elementi
del mondo umano al concetto unificante di connessione dinamica.
Ma accanto ai sistemi di cultura e ai sistemi di organizzazione sociale
si collocano ora anche le epoche storiche, che vengono a costituire
la struttura diacronica del mondo umano: se i due tipi di sistemi
rappresentano le forme permanenti di relazione tra gli individui, le
epoche storiche dànno alla loro attività una fisionomia diversa nel
tempo. E difatti ogni epoca, pur essendo collegata da molteplici
rapporti sia con quelle precedenti sia con quella che la segue —
come Dilthey pone in luce analizzando l’esempio dell’Illuminismo
— è caratterizzata da un proprio orizzonte, nel quale rientrano
tutte le sue manifestazioni. Di conseguenza, queste traggono il loro
significato dall’appartenenza a una data epoca, e possono essere
comprese soltanto in relazione ai suoi scopi e ai suoi valori peculia-
ri. La tesi dell’autocentralità delle epoche storiche sfocia quindi
nell’affermazione della relatività di ogni fenomeno storico.
Questa conclusione vale anche per il sapere, e più specificamente
per la filosofia. Negli ultimi anni di vita Dilthey ha cercato di
porre in luce le implicazioni che il riconoscimento della fondamenta-
le storicità dell’uomo e del mondo umano comporta per la filosofia
e per la sua tradizionale aspirazione a una validità universale.
Dapprima nel saggio Das Wesen der Philosophie (1905), in seguito
in Das geschichtliche Bewusstsein und die Weltanschauungen e in
Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den meta-
physischen Systemen (entrambi del rgri), Dilthey ha tracciato le
linee di una «filosofia della filosofia » impostata sulla considerazio-
ne della filosofia come una forma non già di sapere scientifico,
bensì di intuizione del mondo. La filosofia, infatti, non è in grado
di offrire alcuna conoscenza oggettiva: il suo sforzo di affrontare il
mistero del mondo e della vita è accostabile più a quello dell’arte e
della religione che non al procedimento d'indagine delle scienze
della natura o delle scienze dello spirito. Arte, religione e filosofia
trovano così la loro unità non nello « spirito assoluto » a cui Hegel le
aveva ricondotte, bensì nell’intuizione del mondo, cioè in un atteg-
52 INTRODUZIONE
giamento di fronte alla vita che è caratterizzato da un complesso di
conoscenze, di modi di sentire e di princìpi di condotta. Tutte e tre
sorgono su questa base, proponendosi di dare per vie diverse una
risposta al mistero del mondo e della vita: l’arte lo fa in forma
intuitiva, la religione andando in cerca di un rapporto con l’invisibile,
la filosofia formulando soluzioni che aspirano a una validità universa-
le. Perciò la filosofia risulta anch’essa condizionata dal tipo di
intuizione del mondo che esprime, e la sua pretesa di dare una
soluzione del problema della realtà che valga per sempre è contrad-
detta dalla stessa molteplicità delle dottrine filosofiche. Questo condi-
zionamento è però duplice, in quanto procede per un verso dalla
struttura della vita psichica e per l’altro verso dal processo storico.
In quanto esprime concettualmente un'intuizione del mondo, ogni
dottrina filosofica rientra in un tipo particolare di visione della realtà,
caratterizzata dall’importanza preminente accordata a un certo aspet-
to della struttura psichica; rientra cioè nell’ambito o del naturali-
smo o dell'idealismo oggettivo o dell'idealismo della libertà, che
corrispondono alle tre possibili forme di atteggiamento dell’uomo
nei confronti del mondo. Nel medesimo tempo ogni dottrina filosofi-
ca, appartenendo a una data epoca storica, ne riflette i problemi e le
caratteristiche peculiari. La storia della filosofia viene perciò a confi-
gurarsi come lo sviluppo e la lotta reciproca di tre tipi fondamenta-
li di metafisica, che ricorrono in veste nuova nelle varie epoche.
Da quest’analisi Dilthey trae la conclusione che la filosofia deve
abbandonare la pretesa metafisica di determinare un principio incon-
dizionato della realtà. Anch’essa deve, in altri termini, riconoscere
la propria storicità, accogliendo i risultati della coscienza storica
moderna. Dilthey riprende così, a proposito della filosofia, le conside-
razioni che Troeltsch aveva formulato in riferimento alla religione.
Ma, a differenza di Troeltsch, egli si guarda bene dal proporsi una
« fondazione » della filosofia che ne ristabilisca la validità universa-
le, rivelatasi ormai illusoria: egli intende piuttosto costruire una
« filosofia della filosofia » intesa come «l’autoriflessione storica della
filosofia sopra di sé», che si sviluppa in primo luogo attraverso
l’approfondimento del significato storico delle diverse dottrine filoso-
fiche. In questa prospettiva si inquadrano i molteplici studi che
Dilthey è venuto conducendo, soprattutto dopo il 1890, sulla conce-
zione dell’uomo nel Rinascimento e nella Riforma, sull’età di Leib-
niz e sulla cultura illuministica tedesca, e infine sulla concezione
INTRODUZIONE 53
filosofica romantica e sull’influenza che questa ha esercitato sulla
formazione di Hegel. La relatività della filosofia è considerata non
già come la conseguenza negativa della coscienza storica moderna,
come una conclusione paralizzante a cui ci si debba sottrarre, ma
come la condizione indispensabile di una nuova impostazione di
ricerca filosofica.
Nei medesimi anni — a partire dalla Philosophie des Geldes
(1900) fino agli Hauptprobleme der Philosophie (1910) e alla raccol-
ta di saggi PAilosophische Kultur (1911) — anche Simmel era
impegnato nel delineare una prospettiva rigorosamente relativistica.
Ma il relativismo di Simmel aveva una base più psicologica che stori-
ca, ed era alimentato dal richiamo ad autori di matrice romantica co-
me Goethe, Schopenhauer e soprattutto Nietzsche. Il suo punto di
partenza era infatti rappresentato da un’interpretazione psicologica
delle categorie: anche se le forme del conoscere assolvono una
funzione distinta dal contenuto, e servono anzi a organizzarlo, non
per questo sono eterogenee rispetto ad esso. Le categorie deriva-
no dall’esperienza, e hanno quindi un'origine psicologica, non già
un carattere trascendentale. Questa impostazione — che comportava
un netto distacco dal neocriticismo e dal suo sforzo di distinguere il
piano della validità del conoscere da quello del procedimento psicolo-
gico con cui lo si attinge — conduceva Simmel ad affermare la
relatività non soltanto della conoscenza, ma di ogni attività umana.
La verità scientifica è relativa all'assunzione di determinati presuppo-
sti, i quali rivestono carattere psicologico e non posseggono alcuna
validità universale; analogamente, il valore di un'azione morale o
di un atto economico dev'essere commisurato a criteri che sono
anch'essi sempre relativi. La stessa filosofia può pervenire a una
verità soltanto relativa, la quale consiste nella capacità di esprimere
l'elemento tipico di una certa persona e di renderlo comunicabile ad
altri individui.
In questo relativismo Simmel individuava l’essenza della civiltà
moderna, il risultato di un secolare processo di distacco dalla
fede in una verità universale e in valori incondizionati. Lo stesso
«rovesciamento dei valori » proclamato da Nietzsche era interpreta-
to — in maniera storicamente discutibile — come l’affermazione
della relatività di ogni criterio di condotta etica. Ma il relativismo
simmeliano del primo decennio del secolo era pur sempre definito
in modo prevalentemente negativo; e in ciò stava la sua genericità e
54 INTRODUZIONE
insieme la sua ambiguità. Infatti il riconoscimento della relatività di
tutti gli aspetti della vita umana tendeva a trasformarsi in un
principio assoluto, ed esprimeva né più né meno che l’impossibilità
di trascendere la vita, considerata come l’orizzonte onnicomprensivo
di ogni attività umana. Erano così poste le premesse per il passag-
gio da una prospettiva relativistica a una metafisica della vita, che
Simmel compie negli anni successivi al 1910 e che si manifesta
soprattutto nei saggi apparsi su « Logos», nel volume Kan: und
Goethe (1916) e infine nella Lebensanschuung (1918). Di questa
metafisica egli rintraccia i presupposti remoti nella concezione ro-
mantica della realtà, in particolare nell’organicismo di Goethe; e da
Goethe, l’antitesi del razionalismo kantiano, trae la visione della
vita come un processo continuo che si realizza in una molteplicità
di forme, le quali si distaccano dal divenire per acquistare una
propria autonoma consistenza. La dialettica tra la vita e le forme
diventa così il tema centrale dell'ultima fase del pensiero simmelia-
no. La vita è intesa come un corso infinito e ininterrotto, che
produce forme finite e che, dopo averle create, tende a distruggerle.
Le forme nascono così dal divenire della vita ma nel medesimo
tempo gli si contrappongono, e devono quindi resistere allo sforzo
incessante che la vita fa per riassorbirle in sé e per produrre altre
forme. La vita è per Simmel contemporaneamente « più-vita » (Me4r-
Leben) e « più-che-vita » (Me4r-als-Leben): è « più-vita » nel senso
che è continuo superamento di ogni limite che essa stessa pone; è
« più-che-vita » nel senso che si auto-trascende producendo una mol-
teplicità di forme finite le quali diventano indipendenti da essa. Da
questa dialettica emergono i « mondi ideali », prodotto dell’organiz-
zazione sistematica delle forme, che nel loro insieme costituiscono
lo «spirito»: ognuno di questi mondi è trascendente rispetto al
puro e semplice divenire della vita, e ha la propria base in un
principio fondamentale comune a tutte le sue forme, Tra questi
mondi ideali vi è anche il mondo della storia, nel cui ambito gli
avvenimenti acquistano un proprio significato elevandosi al di sopra
del divenire della vita. In tal modo la storicità, lungi dall'essere un
attributo o una dimensione della vita, viene a qualificare un piano
di realtà trascendente rispetto ad essa, in cui la temporalità del
divenire — non dissimile dalla «durata reale» di Bergson, un
filosofo verso il quale Simmel nutriva una non casuale simpatia —
lascia posto al tempo propriamente storico.
INTRODUZIONE 55
Ben diverso è l’esito a cui perviene Weber riprendendo in esa-
me, durante e dopo la guerra, il problema del rapporto con i valori,
e dando ad esso una portata più generale. Dopo i grandi saggi me-
todologici degli anni 1903-06 Weber aveva concentrato i suoi interes-
si da un lato sull’analisi dell'etica economica delle religioni universa-
li, in riferimento al problema dell'individualità del capitalismo mo-
derno, dall’altro sulla determinazione delle categorie sociologiche
(alla quale è dedicato il saggio Uber einige Kategorien der ver-
stehenden Soziologie del *13). Lo scoppio del conflitto aveva poi
accentuato — come vedremo — il suo impegno politico, che farà di
lui, fino alla morte, uno dei maggiori protagonisti del dibattito
post-bellico in Germania. Sollecitato da questo impegno, egli ritor-
na nel 1917, in un saggio dal titolo Der Sinn der « Wertfreiheit »
der soziologischen und òkonomischen Wissenschaften, sul tema
della « avalutatività » delle scienze storico-sociali, per ribadire la
differenza di principio tra il compito di queste discipline e la
funzione dei giudizi di valore. Ma il discorso si allarga ben presto a
un tentativo di enucleare le implicazioni filosofiche della propria
impostazione metodologica, che Weber sviluppa sia in quel saggio
sia in due conferenze tenute a Monaco nel 1919 sulla « scienza come
professione » e sulla « politica come professione ». Diversamente da
Dilthey (c anche da Simmel), Weber non si propone di fornire
un'analisi strutturale del mondo umano muovendo dall’analisi del
procedimento delle scienze storico-sociali: il campo di ricerca di
queste discipline non può essere per lui oggetto di un tipo di
considerazione distinto da quella metodologica, ma può essere indivi-
duato nelle sue relazioni interne soltanto nell’ambito di questa, In
altri termini, non esiste una struttura oggettiva del mondo umano o
della realtà storica a cui la filosofia possa riferirsi prescindendo dal
— o pretendendo di andare oltre il — lavoro delle varie discipline,
in un tentativo di unificarne i molteplici (e anche variabili) punti di
vista. Tuttavia la relazione di valore inerente al procedimento cono-
scitivo delle scienze storico-sociali offre la base per un discorso più
ampio, che assume il rapporto con i valori come fondamento di un’a-
nalisi dell’esistenza umana e della sua stessa storicità.
Come si è visto, Weber si era avvalso della nozione rickertiana
di relazione ai valori per distinguere le scienze storico-sociali per un
verso dalle scienze naturali, per l’altro verso dalla presa di posizio-
ne pratica che è costitutiva della politica e dai giudizi di valore in
56 INTRODUZIONE
cui questa si esprime. Le scienze storico-sociali si differenziano dalle
scienze naturali in quanto hanno a loro fondamento una relazione
con certi valori i quali presiedono alla selezione del dato empirico,
orientando la ricerca in una determinata direzione; si differenziano
dall’agire politico in quanto sono neutrali nei confronti dei fenome-
ni che esse studiano. L’oggettività delle scienze storico-sociali è
perciò garantita, in primo luogo, dal fatto che il loro rapporto con i
valori è eterogeneo rispetto a quello implicito nei giudizi di valore.
Ne deriva una duplice conseguenza, e cioè che — prescindendo
dalle scienze naturali, a proposito delle quali Weber accoglie acritica-
mente l’interpretazione che ne aveva dato il positivismo ottocente-
sco — l’attività umana è qualificata, in generale, da un rapporto
con i valori, ma che questo rapporto assume una configurazione
diversa nelle sue varie sfere. Si pone così a Weber il problema, fin
allora rimasto in ombra, di determinare le forme di tale relazione e
di ricondurle eventualmente a una comune modalità. La risposta a
questo problema segna il distacco definitivo di Weber dalla teoria
dei valori qual era stata elaborata da Windelband e da Rickert, e
soprattutto dal suo sviluppo in senso metafisico, verso cui Rickert si
avviava in quello stesso periodo, Per Weber il rapporto con i valori
non rappresenta più in alcun modo un fondamento assoluto, capace
di garantire la validità incondizionata del sapere o dell’agire uma-
no: al contrario, in ogni momento della propria esistenza l’uomo si
trova a dover compiere una scelta tra valori e tra sfere di valori in
conflitto reciproco. I valori cessano infatti di apparire come un
mondo organizzato sistematicamente, fornito di una propria coeren-
za interna: le sfere di valori sono molteplici e non riconducibili a
un ordine gerarchico, così come i valori che appartengono a ogni
sfera possono essere non soltanto diversi, ma addirittura inconciliabi-
li tra loro. Nel suo rapporto con i valori l’uomo è obbligato a una
scelta incessante, poiché l'assunzione di determinati valori come
criterio di orientamento del processo conoscitivo o dell’agire politico
comporta nel medesimo tempo la negazione o il rifiuto di altri. La
relazione tra l’uomo e i valori viene perciò a configurarsi sempre
come una relazione problematica, definita in termini di scelta da
parte dell’uomo.
Su questa base Weber ha cercato di individuare il senso della
scienza e, parallelamente ad esso, il senso della politica. La scienza
riveste ovviamente un'importanza tecnica, in quanto consente l’elabo-
INTRODUZIONE 57
razione di determinati strumenti suscettibili di uso pratico. Ma il
suo significato non si esaurisce in questo; anzi, la stessa funzione
tecnica della scienza — si tratti di scienze naturali oppure di
scienze storico-sociali — rimanda alla questione se si debba o no
dominare tecnicamente la vita, e in vista di quali scopi. Muovendo
da quest’analisi Weber ha indicato, nel saggio Wissenschaft als
Beruf (1919), il senso della scienza nella sua capacità di fornire
all’uomo la «chiarezza », vale a dire la consapevolezza del proprio
agire e soprattutto del rapporto tra gli scopi che si prefigge e i
mezzi dei quali si serve per conseguirli, In tal modo la scienza, pur
non potendo formulare giudizi di valore, assolve una funzione
critica nei confronti dei valori, in quanto pone in luce le condizioni
e le conseguenze della loro realizzazione: se non la validità, alme-
no la realizzabilità dei valori cade quindi sotto la sua considerazio-
ne. Ma anche il senso della politica risulta definito in base a un
rapporto con i valori, seppure di diverso genere. Nel saggio Politik
als Beruf (anch’esso del ’19) Weber muove dalla constatazione che
la politica consiste sempre in rapporti di forza, in quanto ogni
agire politico è diretto all’acquisizione o al mantenimento di un
potere garantito coercitivamente; ma perviene a riconoscerne il sen-
so nella dedizione a una «causa», a un compito che dev'essere
assolto appunto attraverso la conquista e l’esercizio del potere. Il
semplice dominio sugli altri non costituisce lo scopo ultimo dell’agi-
re politico più di quanto l’utilizzazione tecnica di certi strumenti
non costituisca il fine principale della scienza: anch'esso acquista
significato soltanto se vien posto in rapporto con i valori. E infatti
la dedizione a una « causa », che dà all’agire politico la sua coeren-
za interna, coincide sempre con una presa di posizione in favore di
determinati valori e contro altri.
Così stando le cose, l’agire politico non può non entrare in una
relazione positiva o negativa con l’etica. E infatti il rapporto tra
etica e politica diventa un tema centrale nell'ultima fase della
riflessione filosofica di Weber — fin dall'articolo Zwischen zwei
Gesetzen del 1916 — intrecciandosi strettamente con l’analisi del
rapporto dell’uomo con i valori. Weber muove dalla distinzione tra
due forme fondamentali di etica, che obbediscono a criteri del tutto
differenti: l’etica della « coscienza » o dell’intenzione e l’etica della
responsabilità, La prima è caratterizzata dall'assunzione di un certo
valore come scopo assoluto, da perseguire sempre e in ogni caso,
58 INTRODUZIONE
senza tener conto dei mezzi che occorrono per la sua realizzazione;
la seconda è caratterizzata invece dalla considerazione del rapporto
tra il valore assunto come fine e le sue condizioni o, una volta che
sia realizzato, con le sue conseguenze. L'etica dell’intenzione si
esprime in norme incondizionate, le quali prescrivono un determina-
to comportamento prescindendo dalla possibilità di attuarlo di fat-
to: la sua manifestazione più elevata è indicata da Weber nel
Sermone della montagna, nell’etica evangelica indifferente alle condi-
zioni del « mondo ». Essa è un'etica irrelativa, che non tiene conto
dell’esistenza di altre sfere di valori o, al massimo, pretende di
subordinarle tutte al proprio imperativo assoluto: come tale, è indif-
ferente anche alla politica, se non addirittura ostile ad essa. Al
contrario, l’etica della responsabilità si esprime in norme le quali
tengono presenti sia le condizioni di realizzazione dei valori a cui
l'agire si riferisce, sia le conseguenze che questa comporta: il suo
interesse è rivolto non soltanto al perseguimento, ma anche all’attua-
zione effettiva di tali valori. Essa riconosce quindi l’esistenza di
altre sfere di valori, e in particolare l'importanza dell’agire politico.
Tra queste due forme di etica non c'è possibilità di conciliazione e
neppure d’incontro, ma c’è piuttosto un contrasto permanente. Non
diversamente dalle altre sfere di valori, anche quella etica contiene
in sé una scissione che le impedisce di offrire agli individui delle
regole univoche e incontrovertibili di comportamento.
Così l’uomo risulta sempre coinvolto nel conflitto tra i valori, e
questi vengono a loro volta a dipendere dall’assunzione o dal
rifiuto che di essi compiono, in una situazione concreta, i singoli
individui. La stessa storicità dell’esistenza umana viene a coincidere
con questa presa di posizione di fronte ai valori, mediante la quale
l’uomo è impegnato a dare un senso al mondo. D’altra parte la
validità dei valori è definita dal loro rapporto con la storicità, in
quanto lo sviluppo storico è il terreno della loro possibile realizzazio-
ne. In tale maniera i valori perdono quella trascendenza ontologica
che aveva loro attribuito Rickert, ma mantengono una trascendenza
che si può dire normativa, nel senso che assolvono una funzione di
orientamento e di guida per l'agire umano. La loro validità, se da
un lato non è certo incondizionata, dall’altro non è neppure circo-
scritta a una singola epoca o a un particolare ambito culturale. Ciò
spiega perché Weber abbia sempre respinto il relativismo, scorgen-
do in esso il prodotto di una concezione organicistica che conduce a
INTRODUZIONE 59
eliminare la relazione problematica dell’uomo con i valori. Se la
filosofia dei valori ne postulava arbitrariamente la validità per tutte
le epoche e per tutte le culture, il relativismo presuppone non meno
arbitrariamente un legame necessario tra i valori e l'orizzonte stori-
co di una singola epoca o di una singola cultura: in entrambi i casi
i valori cessano di essere il termine di riferimento di una scelta da
parte dell’uomo, per configurarsi come una struttura determinante
della sua esistenza. Coerentemente, perciò, il distacco definitivo da
un’interpretazione metafisica dei valori si accompagnava negli ulti-
mi saggi filosofici di Weber con la polemica anti-relativistica, e con
l’esplicito richiamo alla dottrina platonica secondo cui «l’anima
sceglie il suo proprio destino — e cioè il senso del suo agire e del
suo essere ».
VII.
Nel corso del conflitto mondiale il panorama dello storicismo
tedesco si trasforma rapidamente. Scompaiono intanto, in breve
volger di tempo, i maggiori rappresentanti della sua prima genera-
zione. Nel 1grr era morto Dilthey, dopo aver dedicato la sua lunga
esistenza al tentativo sempre rinnovato di costruire una «critica
della ragione storica» e dopo averne dato negli ultimi anni la
formulazione più compiuta. Nell'ottobre 1915 moriva Windelband
e tre anni dopo, nel settembre 1918, lo seguiva Simmel. Weber e
Troeltsch, che appartenevano ormai a una generazione successiva
— in quanto erano nati rispettivamente nel 1864 e nel 1865 —
sopravviveranno ancora per qualche anno, il primo fino al 1gzo e il
secondo fino al 1923; e saranno per entrambi anni di intensa
attività intellettuale e di impegno politico. Rickert vivrà invece più
a lungo, fino al 1936; ma le sue opere, a partire da Die Philosophie
des Lebens del ’20, sono sempre più caratterizzate dallo sforzo di
affermare l’autonomia ontologica dei valori e di fornirne un’elabora-
zione sistematica, e si collocano ormai al di fuori del movimento
storicistico.
Accanto a questi elementi biografici, un altro fattore interviene a
modificare in maniera profonda il panorama dello storicismo tede-
sco: l’importanza decisiva che la politica e i suoi problemi assumo-
no nel dibattito filosofico. Dilthey, Windelband, Rickert, in fondo
lo stesso Simmel (pur così attento allo sviluppo delle scienze sociali)
60 INTRODUZIONE
avevano prestato scarsa attenzione alle vicende della Germania bi-
smarckiana e post-bismarckiana, o per lo meno i loro interessi
politici non si erano mai tradotti in uno sforzo di formulazione
teorica. La stessa esaltazione del passato tedesco, che si può trovare
nel lavoro di ricostruzione storica di Dilthey, e il risalto da lui
dato alle peculiarità della tradizione culturale tedesca rispetto a
quella francese o inglese esprimevano assai più il richiamo retrospet-
tivo al mondo romantico anziché un'adesione al processo di unifica-
zione politica della Germania, Del resto, la formazione di Dilthey
si era compiuta prima dell'avvento di Bismarck al potere, in un
ambiente ancora permeato di motivi liberali su cui aleggiava il
recente ricordo dell'assemblea di Francoforte. Più in generale, il
prevalere del problema dell’autonomia e delle condizioni di validità
della conoscenza storica e la connessione tra analisi metodologica e
analisi strutturale avevano contribuito a dare allo storicismo tedesco
un’impronta sostanzialmente apolitica; e i suoi esponenti erano stati
difatti filosofi accademici, inseriti nella vita universitaria tedesca ma
scarsamente partecipi a ciò che avveniva al di fuori. Questo stato di
cose cambia del tutto con la prima guerra mondiale: anche Windel-
band, poco prima di morire, dedica il suo ultimo scritto, la « lezio-
ne di guerra » sulla Geschicktsphilosophie (apparsa postuma nel 1916),
alla ricerca di un senso razionale della storia, impostandola in
riferimento allo scoppio del conflitto e alla rottura della solidarietà
morale tra i popoli che esso comporta. Il richiamo all’idea di
umanità, intesa come principio regolativo del processo storico, rap-
presenta la sua risposta al venir meno della fiducia in uno sviluppo
ordinato e pacifico del genere umano, che la guerra aveva drammati-
camente messo in questione.
Sarebbe tuttavia errato far coincidere l'emergere degli interessi
politici in seno al movimento storicistico con la crisi del 1914-18.
Già prima, infatti, il processo di unificazione politica della Germa-
nia e la soluzione bismarckiana erano stati oggetto della riflessione
sia di Weber che di uno storico a lui quasi coetaneo, Friedrich
Meinecke. Figlio di un deputato liberale, Weber aveva esordito
sulla scena politica tedesca da posizioni nazionalistico-conservatrici,
ma ben presto se ne era distaccato per avvicinarsi al gruppo dei
« socialisti della cattedra ». Nei saggi del periodo 1893-95, che traeva-
no le conclusioni dell'inchiesta condotta sulla situazione del lavoro
agricolo nella Germania orientale, egli poneva in rilievo il decadere
INTRODUZIONE 6I
dell’aristocrazia fondiaria prussiana in un ceto di imprenditori capita-
listici, ormai incapace di assolvere la funzione politica di un tempo.
Negli anni successivi la sua opposizione al regime personale di
Guglielmo II e alla politica imperialistica divenne sempre più aper-
ta; e con essa maturava anche una valutazione più positiva del
sistema parlamentare, favorita dallo studio e dall’esperienza diretta
della democrazia americana. Meinecke muove anch'egli da una
sostanziale adesione a posizioni conservatrici, condividendo il giudi-
zio della scuola storica prussiana sul modo in cui la monarchia
degli Hohenzollern e Bismarck avevano realizzato l’unità politica
della Germania. Allievo di Droysen, di Sybel, di Treitschke, egli è il
continuatore della loro impostazione storiografica e al tempo stessso
l’erede della loro visione politica; anzi, le sue indagini si ispirano a
un preciso obiettivo di giustificazione storico-politica del processo di
formazione dello stato nazionale tedesco. Fin dalla biografia dedica-
ta a uno degli eroi delle guerre anti-napoleoniche, il maresciallo
Hermann von Boyen (pubblicata nel 1886-99), l’analisi di questo
processo è diretta a mostrare il carattere positivo, e storicamente
inevitabile, della soluzione prussiana, in contrapposizione alla vani-
tà dei tentativi compiuti dal liberalismo riformatore del ’48. Non
soltanto l’edificio politico bismarckiano, ma in generale il concretar-
si delle aspirazioni nazionali tedesche in un’organica struttura stata-
le diventa — dal volume Das Zeitalter der deutschen Erhebung
(1906) ai saggi raccolti sotto il titolo Von Stein zu Bismarck (1909)
e a Radowitz und die deutsche Revolution (1913) — il centro di
riferimento delle successive ricerche di Meinecke. Bisognerà attende-
re la guerra e la sconfitta tedesca perché egli avverta finalmente i
limiti della costruzione di Bisrmarck e si impegni in una sostanziale
revisione delle prospettive della scuola storica prussiana.
La prima grande opera di Meinecke, Weltbirgertum und Natio-
nalstaat (1908), costituisce infatti il tentativo più compiuto di giustifi-
care l’edificio politico bismarckiano, considerato come il punto di
confluenza e d’incontro tra la «nazione culturale » tedesca e la
« nazione territoriale » prussiana. Meinecke si propone qui di mostra-
re come da una parte le aspirazioni della cultura tedesca al consegui-
mento dell'unità nazionale si siano gradualmente svincolate dalle
idee universalistiche di origine settecentesca, e come dall'altra lo
stato prussiano sia diventato, dopo il 1848, l’interprete di tali aspira-
zioni e abbia saputo realizzarle concretamente. Da Wilhelm von
62 INTRODUZIONE
Humboldt a Novalis, a Friedrich Schlegel, a Fichte, a Miiller, a
Savigny, e infine a Ranke — momento conclusivo di questo proces-
so — la «nazione culturale » tedesca acquista coscienza della pro-
pria individualità e del proprio diritto di costituirsi in una struttura
statale unitaria; e tale coscienza comporta appunto il progressivo
abbandono della visione cosmopolitica dell'Illuminismo e del suo
astratto ideale di umanità. Contemporaneamente la Prussia subordi-
na i propri interessi particolari a quelli della causa nazionale tede-
sca, assumendo l’egemonia del processo di unificazione politica del-
la Germania. Dopo il fallimento del ’48 Bismarck dà così esistenza
storica all’ideale nazionale che la cultura romantica aveva proclama-
to, innestandolo sulla struttura dello stato prussiano.
Questa giustificazione dell’edificio politico bismarckiano era pe-
rò destinata a rivelare la sua intrinseca debolezza al momento della
sconfitta tedesca. Già prima e durante il conflitto Weber aveva
denunciato i limiti della costruzione di Bismarck, imputando ad
essa la mancanza di una classe politica in grado di dirigere il paese
e di controllare il potere della burocrazia. In numerosi saggi scritti
nel corso della guerra, e soprattutto nel volume Parlament und
Regierung im neugeordneten Deutschland (1917), egli insisteva sul-
la necessità di tener distinti i compiti del funzionario e del politico,
ossia di non ridurre la vita politica ad amministrazione; e ciò lo
conduceva a sottolineare la funzione dei partiti e del parlamento
come sede di formazione di una classe politica. La situazione della
Germania guglielmina, con la sua dipendenza diretta della burocra-
zia dal potere monarchico, gli appariva caratterizzata da uno « pseu-
do-costituzionalismo » che sottraeva al parlamento la direzione e il
controllo dell'amministrazione pubblica. Se in Weber la critica a
Bismarck e all’eredità politica bismarckiana si innestava su una
linea di sviluppo che risaliva all’ultimo decennio dell'Ottocento, in
Meinecke la sconfitta tedesca aveva invece un effetto traumatico, e
lo costringeva a un profondo processo autocritico. Il suo originario
conservatorismo lasciava posto alla rivendicazione del regime demo-
cratico, la quale si accompagnava alla denuncia del militarismo
prussiano e del fallimento dei suoi sogni imperialistici. Venivano
così in luce i difetti insanabili, già indicati da Weber, di una
costruzione che non era riuscita a modificare il vecchio ordinamen-
to economico-sociale di origine feudale né a rendere le masse popola-
ri partecipi alla vita politica. Quella che un decennio prima era
INTRODUZIONE 63
potuta sembrare una felice sintesi tra « nazione culturale » e « nazio-
ne territoriale », tra le aspirazioni della cultura romantica all’unità
nazionale e gli interessi della monarchia prussiana, si rivelava ora a
Meinecke come una soluzione debole, come un compromesso instabile
realizzato all’insegna di una « politica di potenza» che avrebbe
condotto al fallimento del 1918. Avanzata per la prima volta nel
saggio Kultur, Machtpolitik und Militarismus (1915), sviluppata
più ampiamente nei saggi di Nach der Revolution (1919), questa
critica sfocierà in seguito — in Das preussisch-deutsche Problem im
Jahre 1921 — nella revisione del quadro storiografico tracciato in
Weltbiirgertum und Nationalstaat. Più tardi ancora, nel 1924,
Meinecke ne trarrà spunto per affrontare il problema dell’antitesi
tra potenza e spirito, considerati come i momenti antinomici della
vita politica.
Mentre Weber e Meinecke si portavano (al pari di Troeltsch) su
posizioni apertamente democratiche, appoggiando la repubblica di
Weimar e prendendo parte alla sua travagliata esistenza, la coscien-
za della sconfitta tedesca trovava un'espressione emblematica in un’o-
pera destinata ad avere larghissima fortuna — in Der Untergang
des Abendlandes di Oswald Spengler, apparsa tra il '18 e il ’22. A
differenza degli altri esponenti del movimento storicistico, Spengler
viveva ai margini della cultura accademica: dopo aver conseguito il
dottorato aveva dapprima insegnato in liceo, e si era quindi dedica-
to all'attività pubblicistica. La sua stessa formazione filosofica non
era priva di aspetti dilettanteschi: i suoi « autori » prediletti erano
Goethe e Nietzsche, ma l’uno e l’altro subivano nell’opera spengle-
riana un sostanziale travisamento. Accanto alla loro presenza non è
difficile cogliere alcuni temi caratteristici dell’ultimo Dilthey e di
Simmel: anzi, i presupposti fondamentali di Der Untergang des
Abendlandes mostrano chiaramente la loro derivazione da Dilthey,
anche se si tratta di un Dilthey interpretato (e il più delle volte
frainteso) in senso relativistico. Spengler accoglie infatti la distinzio-
ne diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito, trasfor-
mandola nell’antitesi tra il « mondo come natura» e il « mondo
come storia » e affermando l’irriducibilità della conoscenza storica
al metodo della scienza naturale; analogamente, egli fa propria
la tesi dell’autocentralità delle epoche storiche, traducendola nel
postulato della radicale eterogeneità delle culture e della loro recipro-
ca incomunicabilità. Su questa piattaforma s'innesta il richiamo alla
64 INTRODUZIONE
prospettiva organicistica di Goethe, in virtù del quale ogni cultura
viene interpretata come un organismo biologico che deve necessaria-
mente percorrere il ciclo vitale proprio della specie alla quale appar-
tiene. Dalla visione della storia come sviluppo di una molteplicità
di culture chiuse in se stesse, destinate a morire dopo aver esaurito
il complesso di possibilità che le caratterizza al momento della
nascita, deriva la profezia spengleriana dell’imminente « tramonto
dell'Occidente », nella quale il crollo della potenza della Germania si
trasfigura nell’inevitabile destino di morte di un'intera civiltà.
L’impianto dottrinale di Der Untergang des Abendlandes si
regge in primo luogo, come si è accennato, sull’antitesi tra il
«mondo come natura » e il « mondo come storia »; e questa vien
fatta coincidere con la contrapposizione goethiana tra divenuto e
divenire. Il « mondo come natura » è infatti il mondo del divenire,
caratterizzato dall’estensione spaziale e dalla necessità causale, che
trova la propria formulazione nella legge matematica; il « mondo
come storia » è il mondo del divenire, caratterizzato dalla direzione
del corso temporale e dalla necessità organica, che si esprime nella
forma vivente. La loro conoscenza comporta perciò due specie diffe-
renti di logica: la natura può essere appresa avvalendosi di una
logica meccanica, che si regge sul principio di causalità e sulla
determinazione di rapporti matematici, mentre la storia può essere
colta soltanto attraverso la logica organica, che si regge sull’intuizio-
ne della forma vivente. Spengler riprende quindi da Dilthey la
distinzione tra spiegazione e comprensione, ma riduce al tempo
stesso quest’ultima — procedendo in senso opposto a Weber — a
un atto intuitivo, all’immediatezza dello « sguardo storico ». Il rifiu-
to del metodo naturalistico e della spiegazione causale mette così
capo all’antitesi tra due tipi di conoscenza, che vengono rispettiva-
mente designati come sistematica e come fisiognomica. C'è però
ancora un’altra differenza, non meno importante. I due tipi di
conoscenza non si pongono più sullo stesso piano, come avveniva in
Dilthey: dal momento che ogni divenuto procede dal divenire, il
«mondo come storia » acquista una preminenza ontologica rispetto
al « mondo come natura », e l’immagine della natura viene a dipen-
dere dalla concezione del mondo, storicamente condizionata, delle
singole culture.
Su questa base Spengler si propone di realizzare una « morfolo-
gia della storia universale », concepita come studio delle forme
INTRODUZIONE 65
viventi del divenire storico. Ma la « storia universale » si articola, ai
suoi occhi, in una molteplicità di forme non riconducibili a una
superiore unità. Il divenire storico non è il progressivo dispiegamen-
to di un principio unitario, ma coincide con la ripetizione necessa-
ria di una medesima vicenda, che è poi il ciclo biologico delle
culture. La struttura portante del « mondo come storia » è perciò
non il singolo individuo e neppure l'umanità nel suo complesso, ma
la singola cultura, nel suo sorgere attraverso il distacco dall’umanità
primitiva — astorica per definizione — e nel suo successivo svilup-
po fino alla morte inevitabile, a una morte cui non può sottrarsi
come non può sottrarvisi nessun altro organismo. La storia è quin-
di storia di culture, e l’esistenza storica dell’individuo è definita
dalla sua appartenenza a una cultura e al suo particolare mondo sim-
bolico. Infatti, se è vero che tutte le culture percorrono uno stesso ci-
clo, esse si differenziano d’altra parte tra loro per quanto riguarda la
concezione del mondo. Ogni cultura è infatti caratterizzata, fin
dalla nascita, da un complesso di possibilità, da una propria eredità
biologica che è diversa da quella delle altre culture. La visione
organicistica della storia e l'affermazione della relatività delle cultu-
re e dei loro rispettivi mondi simbolici rappresentano così i due
aspetti — strettamente connessi — dell’impostazione di Der Unter-
gang des Abendlandes. "Tra le varie manifestazioni delle culture vi
è sì una corrispondenza formale, che consente di stabilire analogie e
di dar luogo a uno studio comparativo, ma c’è anche una radicale
eterogeneità di contenuto: la matematica occidentale e la matemati-
ca indiana, tanto per fare un esempio, non hanno alcun rapporto
tra loro. Non soltanto non esiste alcuna verità assoluta, ma ogni
prodotto storico — e quindi anche ogni teoria scientifica, ogni
dottrina filosofica o religiosa, ogni norma etica — non è altro che
l’espressione di una data cultura in un particolare momento del suo
sviluppo. Di conseguenza, la sua validità è circoscritta all'ambito
della cultura che l’ha prodotta, ed è ulteriormente limitata a una
certa fase del suo processo evolutivo. Ogni cultura ha un proprio
orizzonte che abbraccia tutte le sue manifestazioni, e che le rende
perfino incomunicabili alle altre culture.
Spengler perviene in tal modo a preannunciare l'imminente tra-
monto dell’Occidente. L'analisi del processo evolutivo della cultura oc-
cidentale rivela infatti che essa non soltanto ha da tempo concluso la
sua fase creativa, ma è ormai prossima alla fine. Anzi, essa non è pro-
3. STORICISMO TEDESCO.
66 INTRODUZIONE
priamente più una cultura, ma è una cultura meccanizzata e « divenu-
ta», una « cultura-in-declino » (Zivilisation): ne è prova il rovescia-
mento dei valori che caratterizza l’epoca moderna, al pari di qualsia-
si epoca di declino di una cultura. Spengler accoglie così la diagnosi
che della civiltà contemporanea avevano dato i critici aristocratici
della seconda metà dell'Ottocento, da Burckhardt a Nietzsche, i
quali avevano guardato con timore e preoccupazione all’avvento
della democrazia e del socialismo, all’irrompere delle masse sulla
scena storica, all’importanza crescente del sapere scientifico e della
tecnica. La stessa contrapposizione tra Kultur e Zivilisation esprime
per un verso la predilezione, tipicamente romantica, per i valori
originari e « primitivi » della cultura, per l’altro verso la valutazione
negativa dell’azione uniformante della civiltà industriale moderna e
delle tendenze egualitarie che tendono a eliminare le differenze di
ceto. Anche per Spengler la dissoluzione del vecchio ordine sociale,
il mutamento dei rapporti tra le classi, il declino dell’aristocrazia e
l’ascesa della borghesia, la preminenza dell’economia sulla politica,
l’onnipotenza del denaro sono aspetti di una crisi che investe non
soltanto la Germania, ma l’intero Occidente. A questa crisi è impos-
sibile sottrarsi, in quanto essa è il portato inevitabile del ciclo
biologico delle culture e si colloca quindi sotto il segno del destino.
L'individuo può soltanto riconoscerne la necessità, e cercare di
disporsi nella direzione del processo storico anziché pretendere vana-
mente di opporglisi.
L’opera di Spengler esprimeva la crisi politico-culturale della
Germania sconfitta, ma rivelava altresì l'incapacità di analizzarne i
motivi storici concreti e la tendenza a trasporla su un piano metafisi-
co. Attraverso la polemica contro la democrazia e il socialismo,
attraverso l’esaltazione degli aspetti primitivi della storia e il rifiuto
della civiltà industriale moderna, Spengler forniva elementi preziosi
all'elaborazione dell’ideologia nazista. In una serie di volumi di più
immediato intento politico — da Preussentum und Sozialismus
(1919) a Der Mensch und die Technik (1931) e a Jahre der Entschei-
dung (1933) — egli avanzava infatti la proposta di un « socialismo
prussiano » capace di restaurare l’autorità dello stato, e concepito
come la continuazione dell’ideale germanico della subordinazione
dell'individuo alla volontà collettiva del corpo sociale. Anche se
Spengler guarderà sempre con diffidenza a Hitler, rifiutando di
riconoscersi nel movimento che andava al potere nel °33, non per
INTRODUZIONE 67
questo si può negare l’affinità profonda tra la sua posizione anti-de-
mocratica (e anti-marxista) e l’ideologia del nazismo. La stessa affer-
mazione del dovere etico di accettare il destino poteva facilmente
tradursi in un atteggiamento di convinta adesione al nuovo regime,
esaltato come il segno dei tempi nuovi e lo strumento della riscossa
tedesca. Su un versante diverso, le conclusioni relativistiche di Der
Untergang des Abendlandes ponevano in luce un’altra crisi, quella
dello storicismo; ponevano cioè in luce il pericolo di una vanificazione
dei valori a cui questo era esposto. Non a caso lo stesso Weber, e con
lui Troeltsch e Meinecke, si affrettarono a prendere le distanze da
Spengler e a denunciare le aporie della sua opera. Dopo di allora
l'ombra del relativismo graverà sempre minacciosa sulla cultura
filosofica tedesca, spingendola verso una restaurazione dei valori che
ne salvaguardasse, in qualche modo, la validità oltre l'ambito della
singola cultura o della singola epoca storica.
VIII.
Toccherà a ‘Troeltsch e a Meinecke tentare una risposta alla
crisi dello storicismo. Partiti da interessi e da esperienze culturali
differenti, essi si trovano alla fine del conflitto impegnati in una co-
mune battaglia contro le conseguenze relativistiche dello storicismo e
contro l’« anarchia dei valori » che questo sembra comportare. La-
sciata Heidelberg nel 1915, Troeltsch si era trasferito a Berlino
passando contemporaneamente dall’insegnamento della teologia siste-
matica a una cattedra di filosofia; e qui egli incontrava Meinecke,
che era approdato alla capitale l'anno precedente. S’inizia così tra
loro un periodo d’intensa collaborazione filosofica a cui porrà termi-
ne, nel febbraio 1923, la morte di Troeltschj; e la piattaforma
dottrinale definita in questi anni continuerà a ispirare per lungo
tempo l’elaborazione teorica di Meinecke, ancora sotto il regime
nazista e negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Comu-
ne a entrambi è la consapevolezza della crisi dello storicismo, intesa
— secondo la formulazione di Troeltsch, che Meinecke sostanzial-
mente condivide — non già come una crisi della ricerca storica ma
come una crisi del « pensiero storico », e cioè del significato che la
storia riveste per la concezione del mondo. Lo storicismo si configu-
ra ai loro occhi come una concezione generale della realtà, che
procede « dalla fondamentale storicizzazione del nostro sapere e del
68 INTRODUZIONE
nostro pensiero»: non tanto uno sforzo di analisi metodologica
delle scienze storico-sociali o di analisi strutturale del mondo uma-
no, quanto una visione complessiva del mondo e della vita. Comu-
ne a Troeltsch e a Meinecke è pure l’intento di sottrarsi alla crisi
dello storicismo attraverso una restaurazione dei valori che ne re-
cuperi l’assolutezza — un’assolutezza senza la quale l’uomo ri-
mane privo di criteri di orientamento per il proprio agire. La
riduzione dei valori a prodotto storico, nella quale Dilthey aveva
visto una conquista positiva dello storicismo, appare invece una sua
conseguenza negativa, che mette in pericolo la stessa possibilità di
norme etiche. Perciò essi cercano nella teoria dei valori un punto di
appoggio per opporsi all’esito relativistico dello storicismo, che l’ope-
ra di Spengler esprimeva in modo emblematico.
Già nel 1904, al suo primo approccio ai problemi della filosofia
della storia, Troeltsch si era richiamato alla definizione rickertiana
dell’oggetto storico, indicandone il fondamento nella relazione ai
valori. Anche nel periodo berlinese — in Der Historismus und
seine Probleme (1922) e poi nei saggi postumi raccolti sotto il titolo
Der Historismus und seine Uberwindung (1924) — la teoria dei
valori costituisce lo sfondo dell’elaborazione filosofica di Troeltsch.
Il punto di partenza del suo tentativo di restaurazione dei valori è
rappresentato infatti dalla caratterizzazione dell'oggetto storico co-
me una «totalità individuale », a cui è inerente una connessione di
senso che la distingue in maniera radicale dall'oggetto della cono-
scenza naturale. A differenza dei processi naturali, l’oggetto storico
è costituito da un rapporto con i valori che ne garantisce l’unità,
anzi un'unità di significato la quale abbraccia i molteplici elementi
che lo compongono. Troeltsch afferma così la presenza nell’oggetto
storico di un senso immanente, il quale viene identificato con il
valore (individuale) di tale oggetto. Ciò comporta un mutamento
rilevante, ancorché non esplicito, rispetto alla posizione di Rickert.
Mentre per quest'ultimo il senso dell’oggetto storico consisteva nel
riferimento a valori incondizionati che si realizzano storicamente
ma che sussistono indipendentemente dalla storia, per Troeltsch
senso e valore coincidono: il mondo dei valori non è più un
mondo fornito di autonomia ontologica, ma diventa la connessione
significativa inerente allo sviluppo storico. Al pari del singolo ogget-
to storico nella sua individualità, anche lo sviluppo storico nel suo
complesso risulta costituito dalla presenza immanente dei valori.
INTRODUZIONE 69
Questi diventano perciò la struttura assiologica della storia, la sua
struttura per così dire « assoluta ». Il recupero dell’assolutezza dei
valori avviene postulandone non più la trascendenza metafisica ma
l'immanenza, e quindi ‘attraverso il ritorno alla nozione romantica
di individualità.
In questa impostazione Meinecke poteva trovare una sostanziale
continuità rispetto al punto di vista espresso in Welrbirgertum
und Nationalstaat. Quando nel 1918, nel saggio Persònlichkeit und
geschichiliche Welt, egli affronta per la prima volta il problema del
rapporto tra storia e valori, è proprio la nozione romantica di
individualità che gli permette di riconoscere da un lato l’autonomia
della singola persona e dall’altro la presenza nella storia di forze
sovra-personali che s'intrecciano dando vita ai fenomeni storici. Lo
sviluppo storico gli appare un processo nel quale l'uomo, pur
essendo inserito in una molteplicità di serie causali, produce tutta-
via un mondo di valori spirituali che, collocandosi oltre il livello
dell’esistenza naturale, si contrappongono alla causalità della natu-
ra. Si ripropone così, sul terreno della storia, il problema kantiano
del rapporto tra necessità e libertà, concepito in termini per un
verso di antitesi e per l’altro verso di connessione. Per Meinecke lo
sviluppo storico è infatti un intreccio indissolubile di necessità e di
libertà, dove il primo termine è identificato con l’azione causale
delle condizioni naturali e il secondo con la capacità di creare valori
culturali. Ma quest’intreccio è tutt'altro che una coesistenza armoni-
ca: al contrario, la realizzazione dei valori comporta una lotta
costante contro le condizioni naturali e quindi lo sforzo di rompere
il quadro della loro causalità.
La drammaticità di questo rapporto è stata posta in luce da
Meinecke soprattutto a proposito del mondo della politica e, in
particolare, dell’esistenza dello stato. Nella sua seconda grande ope-
ra storica, Die Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte
(iniziata durante la guerra ma pubblicata soltanto nel ’24), egli ha
additato nell’antitesi tra potenza e spirito la struttura fondamentale
della politica e l’essenza stessa della « ragion di stato ». Ma quest’an-
titesi non è altro che una manifestazione del contrasto tra necessità e
libertà. Da una parte la politica è legata a condizioni naturali: al
pari di ogni organismo, lo stato tende all’autoconservazione e, per
conservarsi, deve affermare la propria potenza nei confronti degli
altri stati e, occorrendo, in conflitto con essi, Dall'altra parte la
70 INTRODUZIONE
politica è in rapporto con i valori: anche lo stato si propone di
produrre o quanto meno di salvaguardare i valori culturali, proce-
dendo oltre la propria base naturale e abbracciando in sé la vita
etica, giuridica, religiosa, artistica di un popolo. Lo stato ha così
un'essenza in qualche modo duplice: esso è insieme necessità e
libertà, natura e spirito, o più precisamente krdtos e é:h05 — vale
a dire aspirazione alla potenza e aspirazione alla realizzazione di
valori culturali. La sua esistenza si svolge tra due poli, tra il polo
della naturalità da cui prende le mosse e il polo della spiritualità
verso cui si eleva. Questo contrasto intrinseco al mondo della politi-
ca costituisce l’antinomia della «ragion di stato », nel suo sempre
rinnovato tentativo di conciliare due termini tra loro inconciliabili.
Che questo tentativo sia aleatorio, e dia luogo soltanto a sintesi
provvisorie, è dimostrato soprattutto dalla tendenza del primo termi-
ne a prevalere sul primo, cioè dalla tendenza dell'impulso alla
potenza a subordinare a sé i valori culturali. La potenza è infatti
indifferente ai valori culturali e alla loro realizzazione, è « indifferen-
te rispetto al bene e al male». Ma quest'amoralità della potenza
trapassa di continuo — come dimostra la storia dell'idea di « ragion
di stato », da Machiavelli fino a Treitschke — nell’immoralità, ossia
nel rifiuto o nella soppressione dei valori culturali, Il diritto dello
stato alla propria conservazione e al proprio accrescimento lo spinge
verso una politica di potenza di stampo bismarckiano, nella quale
l'autonomia dei valori va inevitabilmente perduta.
L’antinomia tra &rdtos e éthos appare quindi, in sostanza, un
aspetto particolare dell’antitesi tra il fondamento naturale della sto-
ria e l’aspirazione a valori culturali; e l'esigenza di garantire l’auto-
nomia di questi ultimi nei confronti dell’opposta aspirazione alla
potenza coincide con l’esigenza di salvaguardarne l’assolutezza che,
essa sola, può evitare che la « relatività dei valori» degeneri in un
«relativismo dei valori ». In Der Historismus und seine Probleme
(apparso due anni prima di Die Idee der Staatsrison) Troeltsch si
proponeva di offrire una via di uscita da questa difficoltà attraverso
la formulazione di una filosofia « materiale » della storia. Compito
della filosofia della storia è, in generale, quello di elaborare una
« sintesi culturale » adeguata a una certa situazione storica, e capace
perciò di indicare agli individui la direzione di sviluppo da percorre-
re in riferimento ad essa. Anche per l’epoca contemporanea si pone
un problema del genere: non diversamente dal passato, la filosofia
INTRODUZIONE 71
deve oggi proporre agli uomini un ideale di civiltà costruito attraver-
so una critica immanente del processo evolutivo della cultura occi-
dentale e la determinazione delle sue possibilità di sviluppo. Perciò
la « sintesi culturale » contemporanea non può non essere condiziona-
ta dai valori specifici di un certo ambito di civiltà, ed anzi esprimere
questi valori assumendoli a criterio direttivo per il futuro. Ancora
una volta, quindi, i valori rivelano la loro intrinseca relatività; e il
rapporto con l'assoluto, lungi dal configurarsi come un dato incon-
trovertibile, si presenta piuttosto come un compito da realizzare. Il
divenire storico, con la molteplicità e la variabilità delle sue forme,
si incontra e si scontra con il bisogno insopprimibile di trovare
delle norme in grado di fornire un orientamento sicuro all’agire
umano. Ma allora — come risulta chiaramente dai saggi postumi di
Der Historismus und seine Uberwindung — la conciliazione tra
relatività storica e assolutezza rimane sempre problematica. Essa è
fondata, in ultima analisi, su una convinzione personale, su un atto
di fede.
Una posizione del genere era senza dubbio assai debole; né i
tentativi di approfondimento compiuti in quegli stessi anni da Mei-
necke — nei saggi Ernst Troeltsch und das Problem des Histori-
smus (1923) e Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924) —
riuscivano a darle una base più solida. La stessa distinzione tra
causalità naturale e causalità etico-spirituale, che riposava sull’identifi-
cazione di quest'ultima con lo sforzo umano di realizzazione dei
valori culturali, si richiamava sempre alla nozione romantica di
individualità, mettendo capo all’affermazione dell’individualità del
valore e della sua inerenza al processo storico. Non a caso, un
decennio più tardi, l’adesione allo storicismo e lo sforzo di sottrarlo
alle spire mortali del relativismo si compongono non tanto sul
terreno teorico, quanto in un nostalgico quadro retrospettivo delle
origini dello storicismo. In Die Entstehung des Historismus (1936)
Meinecke muove dalla convinzione che lo storicismo costituisca la
maggiore «rivoluzione » culturale dell’età moderna, in virtù della
quale la fede giusnaturalistica in una ragione eterna e atemporale
ha lasciato il posto al duplice riconoscimento dell’individualità dei
singoli momenti del mondo umano e della loro appartenenza a un
processo di sviluppo che tutti li comprende. Il diritto naturale —
elemento costante della tradizione filosofica occidentale, dal pensiero
antico al Cristianesimo, dal Rinascimento all'Illuminismo — è consi-
72 INTRODUZIONE
derato da Meinecke il grande antagonista dello storicismo, e al tempo
stesso il suo immediato antecedente storico. Sorto attraverso un secola-
re distacco dall’impostazione giusnaturalistica, che ha avuto inizio con
il trapasso dal razionalismo seicentesco alla cultura illuministica, lo
storicismo è giunto alla sua piena maturità nel pensiero tedesco di
fine Settecento con Herder, con Mîser, con Goethe. In questa
prospettiva il rapporto tra Illuminismo e storicismo si presenta
come un rapporto di opposizione, ma anche di continuità: la cultura
illuministica ha messo in crisi, dall’interno, la fiducia nell’esistenza
di norme razionali immutabili, creando così le premesse di un
nuovo senso della storia. Perciò lo storicismo di cui Meinecke
delinea il processo genetico è pur sempre identificato con la concezio-
ne romantica della storia e con l’elaborazione dottrinale che questa
ha subìto da parte della scuola storica tedesca, in particolare ad
opera di Ranke. E nel richiamo a Ranke, il quale concepisce « Dio
al di sopra del mondo, il mondo creato da lui, ma anche percorso
dal suo spirito, e perciò affine a Dio e al tempo stesso anche sempre
imperfetto in quanto terreno », Meinecke cerca il modo di sottrarre lo
storicismo al suo esito relativistico. Contro l’idealismo post-kantiano
e contro la filosofia della storia di Hegel egli ribadisce — in
polemica con Croce, che aveva sostenuto l’ascendenza hegeliana
dello storicismo e la sua identità col «razionalismo concreto» —
l'impossibilità di ricondurre il processo storico a un principio razio-
nale; contemporaneamente egli rivendica nei confronti del movimen-
to storicistico degli ultimi decenni l’assolutezza dei valori, un’assolu-
tezza operante nell’ambito della storia che designa (rankianamente)
la presenza di Dio in ogni epoca storica.
Questa impostazione, esplicitamente formulata in una serie di
saggi poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der
Geschichte (1939) e negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte
(1942), segnava la conclusione dello sforzo speculativo dello storici-
smo tedesco contemporaneo. Ma ne segnava anche, in larga misura,
il fallimento. L'ombra del relativismo dava luogo a un tentativo di
restaurazione dei valori che si risolveva, in fondo, nel ritorno alla
visione romantica della storia, a quella visione da cui il movimento
storicistico aveva cercato — a partire da Dilthey — di svincolarsi. E
significativamente l’affermazione della presenza dell’assoluto in
ogni momento del processo storico veniva a coincidere proprio con
INTRODUZIONE 73
quella relativizzazione dei valori che Troeltsch e Meinecke si erano
proposti di evitare. La via di uscita dal relativismo era trovata in un
vago e generico rinvio al senso ignoto della storia, alla possibilità di
conciliare immanenza e trascendenza su un piano inaccessibile alla
logica umana.
Caratteristico prodotto di un’epoca che aveva guardato alla sto-
ria con fiducia, di un’epoca che aveva visto il consolidarsi del
capitalismo industriale e l’affermazione della potenza del nuovo
stato nazionale tedesco, di un’epoca che aspirava a penetrare scientifi-
camente i processi storici senza però ridurli naturalisticamente a
processi biologici o psicologici, il movimento storicistico non ha
retto al trauma della guerra e della sconfitta. Anche se i rapporti
tra la crisi politico-culturale della Germania post-bellica e la crisi
dello storicismo tedesco sono tutt'altro che diretti, e sfuggono
in ogni caso a troppo facili semplificazioni — del tipo di quelle
predilette dal Luk&cs della Zerstorung der Vernunft — non si
può negarne né la sostanziale contemporaneità né la correlazio-
ne. Intorno al 1920 il movimento storicistico ha ormai esaurito
la sua carica produttiva; e la morte di Weber può essere assun-
ta come data emblematica di questa svolta. Da allora esso guar-
da al futuro con timore, con il timore che il processo storico
porti non già all’accrescimento ma alla perdita del patrimonio
culturale che la storia precedente ha trasmesso. Da ciò il ripie-
gamento sul passato che spinge Troeltsch e Meinecke a idealiz-
zare l’eredità del pensiero romantico e a cercarvi un rifugio. Il
grandioso quadro storiografico di Die Enzstehung des Historismus
è sì un esame di coscienza dello storicismo, ma ne costituisce anche
— quasi inconsapevolmente — l’elogio funebre. In una Germania
dominata dal nazismo, la quale si apprestava a tentare una rivincita
che avrebbe condotto a un nuovo più grave disastro, in un clima
culturale ormai caratterizzato dalla presenza di altri orientamenti
filosofici — in primo luogo la fenomenologia e l’esistenzialismo —
non c’era più posto per lo sforzo di analisi metodologica e di analisi
strutturale che lo storicismo aveva perseguito. Il ritorno alla concezio-
ne romantica, al senso di uno sviluppo pervaso da forze irrazionali
mai completamente eliminabili, rappresentava la resa dinanzi al pre-
sente, e insieme un tentativo di fuga dalla sua opprimente e dispe-
rata realtà.
Non per questo, tuttavia, l’eredità del movimento storicistico
74 INTRODUZIONE
andava perduta. Nella breve e travagliata stagione della repubblica
di Weimar esso aveva fecondato per vie diverse il sorgere dell’esisten-
zialismo, il rinnovamento del pensiero marxistico, lo sviluppo lella
sociologia del sapere. Dalla Psychologie der Weltanschauungen (1919)
di Jaspers a Sein und Zeit (1927) di Heidegger, da Geschichte
und Klassenbewusstsein (1923) di Luk&cs a Ideologie und Utopie
(1929) di Mannheim, esso ha contribuito in maniera decisiva al deli-
nearsi di nuove prospettive filosofiche e di nuove direzioni d'indagine
storico-sociologica. Anche più tardi, quando il nazismo sarà pervenu-
to al potere, il movimento storicistico continuerà ad agire soprattut-
to fuori dei confini tedeschi, e un'intera generazione di studiosi più
giovani — educati nell'immediato dopoguerra e costretti all'esilio
all’inizio degli anni ’30 — recherà all’estero l'insegnamento di
Dilthey, di Simmel e soprattutto di Weber, Così lo storicismo
tedesco è sopravvissuto in forme molteplici alla propria crisi, mo-
strando la sua non ancora cessata capacità di trasfigurazione.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Vengono qui indicate soltanto opere di carattere generale, che si rife-
riscono in tutto o in parte allo storicismo tedesco contemporaneo e ai suoi
rapporti con la cultura filosofica otto-novecentesca. Le monografie dedicate
a singoli autori sono menzionate nelle rispettive note bibliografiche.
R. Aron, Essai sur la théorie de l'histoire dans l’ Allemagne contempo-
raine (La philosophie critique de l’histoire), Paris, 1938, 19502.
M. ManpeLsaum, The Problem of Historical Knowledge, New York, 1938,
parte I.
C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1939 (ristampa 1973).
H. R. von SrBik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismus bis
zur Gegenewart, Miinchen, 1950-51.
G. Luracs, Die Zerstorung der Vernunft, Berlin, 1953; tr. it. Torino, 1959.
P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, 1971?.
H. Stuart HucHes, Consciousness and Society (The Reorientation of
European Social Thought), New York, 1958; tr. it. Torino, 1967.
P. Rossi, Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano, 1960.
I. S. Kon, Die Geschichtsphilosophie des 20. Jahrhunderts - Kritischer
Abriss (tr. dal russo), Berlin, 1964.
G. ScHmipr, Deutscher Historismus und der Ùbergang zur parlamenta-
rischen Demokratie: Untersuchungen zu den politischen Gedanken
von Meinecke, Troeltsch, Max Weber, Liùbeck-Hamburg, 1964.
M. C. Branps, MHistorisme als Ideologie: Het « onpolitieke » en « anti-nor-
mative » Element in de Duitse Geschiedwetenschap, Assen, 1965.
G. G. Iccers, The German Conception of History: The National Tradi-
tion of Historical Thought from Herder to Present, Middletown
(Conn.), 1968; tr. tedesca col titolo Deussche Geschichtswissenschaft,
Miinchen, 1971.
76 NOTA BIBLIOGRAFICA
F. Tessitore, Lo storicismo, nella Storia delle idee politiche, economiche
e sociali, Torino, vol. IV, 1972, pp. 27-126.
Sulla storia e sui significati del termine « storicismo » si rimanda ai
seguenti studi:
E. RorHacger, Historismus, « Schmollers Jahrbuch », LXII, 1938, pp. 388-99.
D. E. Lee e R. N. Beck, The Meaning of « Historicism », « American
Historical Review », LIX, 1953-54, pp. 568-77.
C. G. Ranp, Two Meanings of Historicism in the Writings of Dilthey,
Troeltsch and Meinecke, « Journal of the History of Ideas», XXV,
1964, pp. 503-18.
P. Rosst, Storicismo, nella Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, vol. XIV : Filo-
sofia, Milano, 1966, pp. 446-72.
M. ManpeLBAUM, Historicism, in The Encyclopedia of Philosophy, New
York, 1967, vol. IV, pp. 22-25.
G. G. Iccers, Historicism, nel Dictionary of the History of Ideas, New
York, 1973, vol. II, pp. 456-64.
La presente edizione
I testi compresi in questo volume sono stati tradotti ex mzovo anche
quando ne esisteva un'altra traduzione italiana. Si è fatta eccezione sol-
tanto per gli scritti filosofici di Dilthey e per i saggi metodologici di
Weber, a suo tempo tradotti dal curatore in due volumi della « Biblioteca
di cultura filosofica» di Einaudi, nonché per il primo capitolo della
Soziologie di Simmel, del quale si è utilizzata la traduzione (non ancora
pubblicata) di Giorgio Giordano per i « Classici della sociologia » delle
Edizioni di Comunità, e per l’altro saggio weberiano Wissenschaft als
Beruf, del quale si è utilizzata l'ottima traduzione di Antonio Giolitti.
Anche in questi casi, però, la traduzione è stata sottoposta a una revi-
sione accurata, e in diversi passi modificata a scopo di uniformità termi-
nologica.
Il curatore desidera ringraziare pubblicamente Sandro Barbera, che
ha prestato la sua valida opera di traduttore, nonché Claudio Magris, Mas-
simo Mori ed Enzo Randone, che lo hanno aiutato a rintracciare alcune
citazioni. Un particolare ringraziamento va a Massimo Mori, che ha con-
tribuito alla correzione delle bozze.
WILHELM DILTHEY
NOTA BIOGRAFICA
Wilhelm Dilthey nacque a Biebrich am Rhein, nel ducato di Nas-
sau, il 19 novembre 1833, figlio di un pastore calvinista. Dopo aver
compiuto gli studi liceali a Wiesbaden, si iscrisse all’Università di
Heidelberg e quindi a quella di Berlino, seguendo corsi di teologia, di
filosofia e di discipline storiche: a Heidelberg fu allievo dello storico
della filosofia Kuno Fischer, a Berlino di alcuni dei maggiori maestri
della scuola storica come il filologo classico August Boeckh, lo storico
Leopold von Ranke, il geografo Karl Ritter, nonché di un altro illustre
storico della filosofia, Adolf Trendelenburg. In virtù del loro insegna-
mento la partecipazione di Dilthey al mondo della cultura romantica,
soprattutto alla poesia e alla musica da un lato e alla religiosità dal-
l’altro — partecipazione di cui è testimonianza il diario giovanile,
pubblicato postumo dalla figlia Clara Misch Dilthey col titolo Der junge
Dilthey (Leipzig-Berlin, 1933; Gottingen, 1960?) — si traduce nell’inte-
resse storico per la concezione del mondo e per le manifestazioni artistico-
letterarie, religiose, filosofiche del Romanticismo tedesco. Da questo interes-
se prese le mosse una serie di studi su Hamann (1859) e su Schleierma-
cher, che metteranno capo — dietro suggerimento di Trendelenburg —
prima alla dissertazione di dottorato De principiis ethices Schleiermache-
ri (Berlin, 1964; tr. it. Napoli, 1974) e poi al primo volume di un'ampia
biografia rimasta incompiuta, il Leben Schleiermachers (Berlin, 1867-70;
2° ed. a cura di H. Mulert, Berlin-Leipzig, 1922; 3* ed. a cura di M.
Redeker, Berlin, 1970). Dopo aver ottenuto l'abilitazione a Berlino, Dil-
they diventa professore di filosofia a Basilea nel 1867, per poi trasferirsi
a Kiel nel 1868 e a Breslau nel 1871. In quest'ultima città egli stringe
amicizia col conte Paul Yorck von Wartenburg, con il quale egli avrà
un intenso e fecondo scambio intellettuale fino alla morte di lui: testimo-
nianza di questo scambio sono le lettere pubblicate postume (nel Brief-
wechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von
Wartenburg, Halle, 1923). Nel 1882, infine, Dilthey fu chiamato a
succedere a Hermann Lotze all’Università di Berlino, dove insegnò fino
al 1906. Priva di avvenimenti esteriori di rilievo (Dilthey non partecipò
mai alla vita politica tedesca), la vita di Dilthey coincide sostanzialmen-
80 WILHELM DILTHEY
te con la sua carriera accademica e con la sua attività intellettuale. Morì
a Siusi (Bolzano) il 1° ottobre 1911.
Negli anni dal 1864 (in cui scrive il VersucA einer Analyse der
moralischen Bewusstsein, presentato come lavoro di dissertazione) al
1875 (in cui pubblica il saggio Uber das Studium der Geschichte der
Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat) Dilthey
ha elaborato i presupposti della propria impostazione filosofica, staccando-
si gradualmente dalle posizioni romantiche della sua gioventù e avvici-
nandosi al movimento neoccriticistico. L'Habilitationsschrift del 1864,
dedicata a un'analisi della coscienza morale che riflette da vicino l'inse-
gnamento di Trendelenburg, vuol rivendicare nei confronti dell'etica
kantiana il carattere storico delle prescrizioni in cui si esprime l’imperati-
vo categorico, e quindi la variabilità del contenuto della morale. In
seguito, la prolusione con la quale Dilthey dà inizio nel 1867 al suo
insegnamento a Basilea (Die dichterische und philosophische Bewegung
in Deutschland 1770-1800), se da un lato pone in rilievo l’importanza
del contributo che la cultura tedesca di fine Settecento, da Lessing a
Hegel, ha dato alla comprensione delle manifestazioni storiche del mon-
do umano, dall’altro fa valere l'esigenza di estendere l’indagine critica
alle scienze che studiano la realtà storico-sociale. Il saggio del 1875
riprende questi temi impostando per la prima volta in termini espliciti il
problema della fondazione critica di queste discipline, ossia delle « scien-
ze dello spirito ». Questo problema costituisce il punto di partenza di
tutta la successiva produzione filosofica diltheyana del periodo berlinese.
Nel 1883 compare il primo (e anche unico) volume dell’Ein/eitung in
die Gersteswissenschaften (tr. it. Firenze, 1974), in cui Dilthey si propo-
ne di rivendicare l'autonomia delle scienze storico-sociali nei confronti
delle scienze naturali, determinandone le caratteristiche specifiche e quin-
di le condizioni che ne garantiscono la validità. Le scienze della natura
e le scienze dello spirito si differenziano — secondo l'analisi diltheyana
— in primo luogo per il loro oggetto, in quanto le prime studiano un
complesso di fenomeni esterni all'uomo, mentre le seconde studiano
invece un dominio di cui l’uomo è parte integrante e di cui possiede
una coscienza immediata. A questa differenza di oggetto si accompagna
perciò una differenza di carattere gnoscologico, dal momento che i dati
delle scienze della natura provengono dall'osservazione esterna e i dati
delle scienze dello spirito derivano, in primo luogo, dall'esperienza inter-
na, dall'esperienza vissuta (Er/ebnis) che l'uomo ha di sé e dalla com-
prensione che può avere degli altri uomini; inoltre, mentre le prime si
propongono di fornire una spiegazione causale, le seconde si avvalgono
di categorie peculiari come quelle di significato, di scopo, di valore ecc.
Entrambi questi criteri di distinzione riconducono però a una differen-
WILHELM DILTHEY 8I
za di rapporto tra soggetto e oggetto: nelle scienze della natura i due
termini sono eterogenei tra loro, mentre nelle scienze dello spirito il
soggetto conoscente appartiene allo stesso mondo umano che costituisce
l'oggetto dell'indagine. Ma non soltanto il rapporto tra soggetto e
oggetto, bensì la stessa struttura del mondo umano presenta un proprio
carattere specifico. Il mondo umano ha il suo nucleo elementare, il suo
Grundkéòrper (come Dilthey lo chiama), nell’individuo, e appare costitui
to da un complesso di rapporti storicamente condizionati, dai quali
sorgono i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione sociale. Gli
uni e gli altri devono essere compresi nella loro esistenza storica, in
quanto la struttura del mondo umano è appunto storica. Da ciò deriva
l’articolazione sistematica dell’edificio delle scienze dello spirito. Da una
parte la ricerca storica indaga le manifestazioni del mondo umano nella
loro individualità; dall’altra le discipline di tipo generalizzante cercano
di scoprire le uniformità del mondo umano. E di queste fanno parte sia
la psicologia e l’antropologia, che hanno per oggetto l'individuo, sia le
scienze dei sistemi di cultura e le scienze dell’organizzazione esterna
della società, le quali studiano rispettivamente le forme culturali (arte,
religione, filosofia, scienza ecc.) e le istituzioni politiche, economiche,
giuridiche in cui si strutturano i rapporti tra gli uomini.
L'Einleitung in die Geisteswissenschaften segna così la data d'inizio,
per così dire, del movimento storicistico tedesco. Le due direzioni di
ricerca che in essa si intrecciano, cioè l’analisi metodologica delle scien-
ze dello spirito e l’analisi della struttura del mondo umano come mondo
storico-sociale, vengono riprese da Dilthey in una serie di saggi successi-
vi, particolarmente nelle /deen tiber eine beschreibende und zergliedern-
de Psychologie (1804) e nei Beitrige zum Studium der Individualitit
(1895-96). Nel primo, partendo dalla determinazione della struttura della
vita psichica, Dilthey formula il programma di una psicologia descrittiva
e analitica che si contrappone alla psicologia esplicativa e costruttiva di
impostazione positivistica, e attribuisce ad essa un compito di fondazione
rispetto alle altre scienze dello spirito — compito che verrà in seguito
messo in disparte. Nel secondo egli addita nella spiegazione e nella
comprensione i procedimenti caratteristici propri rispettivamente delle
scienze della natura e delle scienze dello spirito e, respingendo la
distinzione tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche che Windel-
band aveva formulato (come vedremo) nel 1894, determina il compito
delle scienze dello spirito nello studio dell’individuazione storica, quale
essa sorge sulla base dell'uniformità attraverso la mediazione del tipo.
Negli scritti del periodo 1905-1911 (cioè, all'incirca, del periodo suc-
cessivo alla conclusione dell’insegnamento berlinese) il problema della
fondazione delle scienze dello spirito trova la sua più matura formulazio
6. STORICISMO TEDESCO.
82 WILHELM DILTHEY
ne. Soprattutto nelle Studien zur Grundlegung der Geisteswissenchaf-
ten (1905-10), in Der Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswis-
senschaften (1910) e negli appunti manoscritti che ne costituiscono il
Plan der Fortsetzung (1910-11) Dilthey realizza nella sua forma definiti
va il progetto, perseguito fin dalla gioventù, di una «critica della
ragione storica » (tr. it. Torino, 1954). Attraverso l’analisi delle scienze
dello spirito egli perviene a individuare il fondamento della loro validità
nel nesso tra l’Erleben (ossia il divenire della vita, di cui il soggetto è
immediatamente consapevole), l’espressione della vita e l’intendere: la
vita si realizza in un complesso di manifestazioni oggettive o di « ogget-
tivazioni » che devono essere intese, cioè che devono costituire il termi-
ne di riferimento dello sforzo umano di comprensione. La conoscenza
del mondo umano, fornita dalle scienze dello spirito, si configura pertan-
to come una conoscenza dall’interno, che è opera dell’uomo stesso; però
questa conoscenza non è data immediatamente nell’introspezione, ma
può essere ottenuta soltanto attraverso lo studio dei prodotti storici
dell'attività umana. L’intendere implica un riferimento retrospettivo al-
l’Erleben, il quale è mediato dall'espressione; esso esprime la consapevo-
lezza dello scaturire di tutte le manifestazioni storiche dal processo
produttivo della vita. D'altra parte il mondo umano si configura come
l’oggettivazione dello spirito, cioè come « spirito oggettivo » — anche se
in senso ben diverso da quello hegeliano. E l’analisi di questa struttura
pone in luce che ogni fenomeno del mondo umano è una connessione
dinamica, la quale produce valori e realizza scopi, avendo il proprio
centro in se stessa. Di tale specie sono non soltanto i sistemi di cultura
e i sistemi di organizzazione sociale, ma anche le epoche storiche, le
quali si differenziano per i loro valori e fini particolari e sono caratteriz-
zate ognuna da un proprio orizzonte; cosicché ogni epoca deve essere
compresa in base al suo sistema di valori, il quale costituisce il criterio
di valutazione di ogni sua manifestazione. Attraverso quest'analisi della
struttura del mondo umano Dilthey perviene, negli scritti del periodo
1905-1911, a riconoscerne la fondamentale storicità: già l'individuo in
quanto tale è un essere storico, e storicamente condizionati sono tutti i
fenomeni del mondo umano. La critica della ragione storica sfocia così in
una critica « storica » della ragione, vale a dire in una filosofia dell’uo-
mo come essere storico.
La storicità del mondo umano coinvolge la stessa filosofia, che risulta
qualificata come una forma particolare di intuizione del mondo. Nel
saggio Das Wesen der Philosophie (1907; tr. it. Torino, 1954) e negli
altri due saggi dedicati al medesimo tema, Das geschichtliche Bewusst-
scin und die Weltanschauungen e Dice Typen der Weltanschauung
und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen (entrambi del
WILHELM DILTHEY 83
1911), Dilthey ha definito il rapporto tra filosofia e intuizione del mon-
do. Arte, religione e filosofia sono tutti e tre modi di esprimere un'’intui-
zione del mondo che non è soltanto una forma di conoscenza della
realtà, ma anche un complesso di valori, di fini e di regole di condotta,
ossia un atteggiamento di fronte alla vita; e la filosofia si distingue
dall’arte e dalla religione per la sua aspirazione a una validità incondi-
zionata — un’aspirazione che è però contraddetta dalla coscienza storica,
la quale pone in luce il condizionamento storico di tutte le dottrine
filosofiche. Su questa base Dilthey individua le forme tipiche di intuizio-
ne del mondo (e quindi anche di filosofia) nel naturalismo, nell’ideali-
smo oggettivo e nell’idealismo della libertà, e interpreta la storia della
filosofia come una lotta tra questi tre tipi ricorrenti. Tra la pretesa di
validità incondizionata della filosofia e la coscienza storica si determina
quindi un’antinomia, la quale trova la propria soluzione in una « filoso-
fia della filosofia » intesa come indagine critica sulla possibilità e sui li-
miti della filosofia. Essa deve porre in luce il carattere illegittimo della
pretesa metafisica di offrire una spiegazione globale della realtà, e richia-
mare la ricerca filosofica alla consapevolezza della propria relatività storica.
Questa concezione della filosofia e della sua storia ispira anche le
numerose opere di storiografia filosofica a cui Dilthey ha dedicato gran
parte della sua attività. Dai primi studi su alcune figure del mondo
culturale romantico e dalla biografia di Schleiermacher egli è venuto
allargando il proprio campo di ricerca al Rinascimento, alla Riforma,
all’Illuminismo, per poi ritornare all’analisi del Romanticismo tedesco e
dell’idealismo post-kantiano. Un primo gruppo di saggi, pubblicati per
la maggior parte negli anni 1891-94 e quindi raccolti sotto il titolo
generale Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance
und Reformation (tr. it. Firenze, 1927), è dedicato al Rinascimento e
alla Riforma, nonché al processo di fondazione del « sistema naturale
delle scienze dello spirito » nel secolo xvi. Un secondo gruppo concer-
ne invece la cultura filosofica del Settecento, con particolare riguardo a
Leibniz e a Federico Il: particolarmente importante tra di essi è quello
dedicato alla concezione illuministica della storia, Das achtzehnte Jahr
hundert und die geschichiliche Welt (1901; tr. it. Milano, 1967). Un
terzo gruppo riguarda invece gli aspetti poetici e musicali della cultura
romantica tedesca, considerati nel loro rapporto con l'intuizione del
mondo propria del Romanticismo: essi sono raccolti in Das Erlebnis und
die Dichtung (Leipzig, 1906; tr. it. Milano, 1947) e nel volume postumo
Von deutscher Dichtung und Musik (Leipzig, 1933). A questo filone di
studi si collega l’ultimo dei lavori storici di Dilthey, cioè l'ampia biogra-
fia del giovane Hegel tracciata in Die Jugendgeschichte Hegels (1905-6),
nella quale la formazione del pensiero hegeliano viene studiata nei suoi
84 WILHELM DILTHEY
legami con l’ambiente culturale del Romanticismo tedesco e indagata nei
suoi motivi « teologici ». Al centro di tutti questi scritti sta la connessio-
ne tra la filosofia e l'intuizione del mondo propria delle varie epoche,
analizzata nel ripresentarsi di certe posizioni fondamentali — corrispon-
denti ai vari tipi di intuizione del mondo — che fanno della successione
delle diverse dottrine un processo storico unitario.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Le opere di Dilthey sono state raccolte nelle Gesammelte Schriften,
edite dalla casa editrice Teubner in undici volumi (vol. IIX e XI-XII)
dal 1914 al 1936. Dopo la guerra, la casa Vandenhoeck und Ruprecht di
Géttingen ha ristampato più volte le opere di Dilthey, aggiungendovi
nuovi volumi: la raccolta è tuttora da completare. Il primo volume (a
cura di B. Groethuysen) comprende l'Einlcitung in die Geisteswissen-
schaften; il secondo (a cura di G. Misch) racchiude gli studi sul Rinasci-
mento e sulla Riforma, sotto il titolo Weltanschauung und Analyse des
Menschen seit Renaissance und Reformation; il terzo (a cura di P.
Ritter) raccoglie gli studi sull’età di Leibniz, sull'età di Federico il
Grande e il saggio Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche
Welt, sotto il titolo Studien zur Geschichte des deutschen Geistes; il
quarto (a cura di H. Nohl) comprende la Jugendgeschichte HRegels und
andere Abhandlungen zur Geschichte des deutschen Idealismus; il
quinto e il sesto (a cura di G. Misch, che vi ha premesso un ampio e
importante Vorbericht) raccolgono, sotto il titolo complessivo Die geisti-
ge Welt: Einleitung in die Philosophie des Lebens, alcuni saggi fonda-
mentali tra cui Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften
vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, i Beitrige zur Lòsung
der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realitàt der Aussen-
welt und seinem Recht, le Ideen iiber eine beschreibende und zergliedern-
de Psychologie, i Beitrige zum Studium der Individualitit, Das Wesen
der Philosophie, nonché diversi altri saggi di poetica e di estetica; il
settimo (a cura di B. Groethuysen) racchiude, sotto il titolo Der Aufbau
der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, le tre Studien
zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, l'ampio saggio che dà il
titolo al volume e il relativo Plan der Fortsetzung; l'ottavo (a cura
di B. Groethuysen) comprende i saggi dedicati alla Weltanschauungs-
lehre, e cioè Das geschichtliche Bewusstsein und die Weltanschauungen e
Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphy-
sischen Systemen; il nono (a cura di O. F. Bollnow) è dedicato alla
Pidagogik; il decimo (a cura di H. Nohl, e apparso nel 1958) racchiude
il System der Ethik; l'undicesimo (a cura di E. Weniger) raccoglie,
sotto il titolo complessivo Vom Ausgang des geschichtlichen Bewusst-
86 WILHELM DILTHEY
sein, numerosi saggi giovanili su storici tedeschi dell'Ottocento; il dodice-
simo (a cura di E. Weniger) comprende vari saggi Zur politischen
Geschichte, a cui fa seguito l'elenco completo degli scritti di Dilthey
fino al 1883 (pp. 208-12); il quattordicesimo (a cura di M. Redeker, e
apparso nel 1966, su licenza dell’editore de Gruyter) contiene il vol. II
del Leben Schleiermachers; il sedicesimo (a cura di U. Herrmann, e
apparso nel 1972) raccoglie, sotto il titolo complessivo Zur Geistesge-
schichte des 19. Jahrhunderts, una serie di articoli e di recensioni del
periodo 1859-74.
Rimangono al di fuori delle Gesammelte Schriften i seguenti volumi,
già menzionati nella nota biografica: Der junge Dilthey. Ein Lebensbild
in Briefen und Tagebiichern (1852-1870), Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttin-
gen, 1960?; Das Erlebnis und die Dichtung, Leipzig-Berlin, 1906, 1907”,
1g1o3, e Géttingen, 1965 4; Von deutscher Dichtung und Musik, Leip-
zig-Berlin, 1933, e Gòttingen, 19572. Il Leben Schleiermachers è stato
completato con la pubblicazione del secondo volume, Schleiermachers
System als Philosophie und Theologie (a cura di M. Redeker), Berlin,
1966; lo stesso Redeker ha in seguito dato una nuova edizione critica
del primo volume, Berlin, 1970? Rimangono inoltre al di fuori delle
Gesammelte Schriften varie raccolte di lettere, e precisamente: il Brief-
wechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von
Wartenburg (1877-1897), Halle, 1923; i Briefe Wilhelm Diltheys an Beyrn-
hardt und Luise Scholz (1859-1864), « Sitzungsberichte der Preussischen
Akademie der Wissenschaften », Philosophisch-historische Klasse, 1933,
n. 10, pp. 416-71; i Briefe Wilhelm Diltheys an Rudolf Haym (1861-1873),
« Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften », Ber-
lin, 1936. Si veda inoltre W. Biemel, Einleitende Bemerkung zum Brief-
wvechsel Dilthey-Husserl, « Man-World », I, 1968, pp. 428-46.
Tra l'ormai vasta letteratura critica dedicata all'opera e al pensie-
ro di Dilthey segnaliamo gli studi seguenti:
B. GroetHursen, Wilhelm Dilthey, « Deutsche Rundschau », CLIV, n. 4,
1913, pp. 69-92, € n. 5, 1913, pp. 24970.
A. Stern, Der Begriff des Geistes bei Dilthey, Tùbingen, 1913, 2° ed. col
titolo Der Begriff des Verstehen bei Dilthey, Tiibingen, 1926.
B. ScHarpnact, Diltheys Verhdltnis zur Geschichte, Berlin, 1927.
L. Lanporese, Wilhelm Diltheys Theorie der Geisteswissenchaften, Hal-
le, 1928.
G. MiscH, Lebensphilosophie und Phinomenologie. Eine Auscinander-
setzung der Diltheyschen Richtung mit Heidegger und Husserl, Bonn,
1930, e Leipzig-Berlin, 1931, infine Stuttgart, 1967?.
WILHELM DILTHEY 87
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ma, 193I.
A. Decener, Dilthey und das Problem der Metaphysik, Bonn-Kéln, 1933.
A. Liesert, Wilhelm Dilthey, Berlin, 1933.
C. Cuppers, Die erkenntnistheoretischen Grundgedanken Wilhelm Dil-
theys, Leipzig-Berlin, 1934.
J. Hennic, Lebensbegriff und Lebenskategorie. Studien zur Geschichte
und Theorie der geisteswissenschaftlichen Begriffsbildung mit beson-
derer Beriicksichtigung Wilhelm Diltheys, Aachen, 1934.
J. StenzeL, Dilthey und die deutsche Philosophie der Gegenwart, « Phi-
losophische Vortrige der Kant-Gesellschaft », Berlin, 1934.
G. Masur, Wilhelm Dilthey und die europdische Geistesgeschichte, « Deut-
sche Vierteljahrschrift fir Literaturwissenschaft und Geistesge-
schichte », XII, 1934, pp. 479-503.
D. BiscHorr, Wilhelm Diltheys geschichiliche Lebensphilosophie, Leipzig-
Berlin, 1935.
O. F. BoLLnow, Dilthey. Eine Einfihrung in seine Philosophie, Leipzig-
Berlin, 1936, e Gottingen, 19557, 19672.
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raccolto nel volume Storicismo ed ermeneutica, Roma, 1974, pp. 77-123.
G. Marini, Dilthey e il giovane Hegel, nel volume Incidenza di Hegel
(a cura di F. Tessitore), Napoli, 1970, pp. 793-841.
F. Branco, Dilthey e la genesi della critica storica della ragione, Milano,
1971.
U. Hernmanw, Die Pédagogik Wilhelm Diltheys, Gòttingen, 1971.
G. Marini, Dilthey filosofo della musica, Napoli, 1973.
Un'ampia bibliografia si trova in F. Diaz pe Cerro Ruiz, W. Dilthey
y el problema del mundo histérico, cit., pp. xrx-Lv. Del medesimo au-
tore si veda però ora il saggio Bibliografia de W. Dilthey, « Pensamien-
to », XXIV, 1968, pp. 195-258. Ma il lavoro più completo è quello di
U. Herrmann, Bibliographie Wilhelm Diltheys: Quellen und Literatur,
Wernheim/Bergstr.-Berlin-Basel, 1969.
SCIENZE DELLO SPIRITO
E SCIENZE DELLA NATURA *
I. LE SCIENZE DELLO SPIRITO: UN COMPLESSO AUTONOMO ACCANTO
ALLE SCIENZE DELLA NATURA
Il complesso delle scienze che hanno come loro oggetto la
realtà storico-sociale viene qui compreso sotto la designazione
di scienze dello spirito. Il concetto di queste scienze, in virtù
del quale esse costituiscono un complesso unitario, e la delimita-
zione di tale complesso nei confronti delle scienze della natura
potranno essere spiegati e fondati in maniera definitiva soltanto
nel corso dell’analisi; all'inizio ci limitiamo a stabilire il signifi-
cato in cui impiegheremo l’espressione e a indicare provvisoria-
mente l'insieme dei fatti sul quale si fonda la delimitazione di
tale complesso unitario delle scienze dello spirito nei confronti
delle scienze della natura.
L’uso linguistico comprende sotto il nome di «scienza» un
insieme di proposizioni i cui elementi sono concetti, cioè perfet-
tamente determinati, costanti in tutta la connessione di pensie-
ro e forniti di validità universale, i cui legami sono fondati, in
cui infine le parti sono reciprocamente connesse in una totalità
allo scopo di poter comunicare, cosicché un elemento della
realtà può essere concepito nella sua compiutezza in virtù di
questa connessione di proposizione oppure un ramo dell'attività
umana può esser regolato in base ad essa. Indichiamo perciò
* Einleitung in die Geisteswissenschaften, libro I: Ubersicht tiber den Zusammen-
hang der Einzelwissenschaften des Geistes, Leipzig, Duncker und Humblot, 1883, ca-
pitoli u-vir, pp. 5-35, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. I, 1914,
PP. 4-28 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
92 WILHELM DILTHEY
qui col termine «scienza» ogni insieme di fatti spirituali
in cui si ritrovano le caratteristiche sopra indicate e a cui
dunque generalmente viene applicato il nome di «scienza»: in
modo corrispondente presentiamo provvisoriamente il nostro
compito. Questi fatti spirituali, quali si sono storicamente svi-
luppati nell’umanità, e ai quali è stata tramandata — secondo
un comune uso linguistico — la denominazione di scienze del-
l’uomo, della storia, della società, costituiscono realtà che noi
non vogliamo dominare, ma anzitutto comprendere. Il metodo
empirico esige che anche in questo settore delle scienze venga
determinato in modo storico-critico il valore dei singoli procedi-
menti di cui il pensiero qui si serve per la soluzione dei suoi
compiti, e che venga chiarita, nell’intuizione di questo grande
processo che ha per soggetto l’umanità stessa, la natura del
sapere e del conoscere relativi a questo campo. Un tale metodo
sta in antitesi a quell'altro — di recente troppo di frequente
praticato dai cosiddetti positivisti — che deriva il contenuto
del concetto di scienza da una determinazione concettuale del
sapere sorta per lo più sul terreno delle attività proprie delle
scienze della natura, e che in base ad essa decide quali siano
le attività intellettuali a cui spetta il nome e il rango di
scienza. In tal modo alcuni, prendendo le mosse da un concetto
arbitrario di sapere, hanno con miopia e presunzione negato
alla storiografia, qual è stata praticata da grandi maestri, il
rango di scienza; altri hanno creduto di dover trasformare in
conoscenza della realtà quelle scienze che hanno a loro fonda-
mento imperativi, e non già giudizi sulla realtà.
L'insieme dei fatti spirituali che ricadono sotto questo con-
cetto di scienza viene di solito suddiviso in due rami. L’uno è
designato col nome di « scienza naturale »; per quanto riguar-
da l’altro non si dispone, abbastanza stranamente, di una desi-
gnazione universalmente riconosciuta. Aderisco qui all’uso lin-
guistico di quegli studiosi che indicano quest'altra metà del
globus intellectualis con l’espressione di «scienze dello spiri-
to». Da una parte questa designazione è diventata — e non
poco lo deve all’ampia diffusione del System of Logic di John
Stuart Mill! — abituale e universalmente intelligibile. D’al-
1. Il System of Logic, Ratiocinative and Inductive di John Stuart Mill (1806-1873)
WILHELM DILTHEY 93
tra parte, confrontata con tutte le altre designazioni inadegua-
te tra cui è possibile scegliere, essa appare la meno impropria.
‘È pur vero che essa esprime molto incompiutamente l’oggetto
di questo studio, giacché in esso i fatti della vita spirituale
non sono separati dalla vivente unità psico-fisica della natura
umana. Una teoria che voglia descrivere e analizzare i fatti
storico-sociali non può prescindere da questa totalità della natu-
ra umana e limitarsi all'elemento spirituale. Ma l’espressione
ha in comune questo difetto con tutte le altre che si sono
applicate: scienza della società (sociologia), scienze morali, scien-
ze storiche, scienze della cultura — tutte queste designazioni
soffrono del medesimo errore, di essere cioè troppo ristrette in
rapporto all’oggetto che devono esprimere. Il nome che qui si è
scelto ha per lo meno il vantaggio di designare adeguatamente
l'ambito centrale di fatti a partire dal quale è stata vista in
realtà l’unità di queste scienze, abbozzato il loro ambito, com-
piuta — benché ancora in maniera assai incompleta — la loro
delimitazione rispetto alle scienze della natura.
Il motivo di cui è derivata l’abitudine di delimitare queste
scienze rispetto a quelle della natura, intendendole come una
unità, è radicato nella profondità e nella totalità dell’autoco-
scienza umana. Ancor prima di procedere a indagini sull’origi-
ne del mondo spirituale, l’uomo trova in questa autocoscienza
una sovranità del volere, una responsabilità delle sue azioni,
una capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto
nella libertà della sua persona, mediante cui si distingue da
tutta la natura. Egli si ritrova infatti, in questa natura — per
impiegare un'espressione spinoziana — come un Imperium in
imperio®. E poiché per lui esiste solamente ciò che è fat-
a. Pascal esprime in modo molto geniale questo sentimento della vita
nelle Pensées: « Tutte queste miserie provano la sua grandezza: sono mi-
serie da gran signore, miserie di un re spodestato » (I, 3). « Noi abbiamo
fu pubblicato a Londra nel 1843 e tradotto in tedesco da I. Schiel nel 1849. Questa tra-
duzione utilizza appunto il termine Geistessvissenschaften per rendere l'espressione mil-
liana moral sciences: così, per esempio, il titolo del sesto libro (On the Logic of Moral
Sciences) risulta tradotto Logik der Geisteswissenschaften. Dilthcy fa ricorso per la pri-
ma volta al termine Geistestvissenschaften proprio in riferimento a Mill, nel saggio Uber
das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und
dem Staat (1875), ora raccolto in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 31-73.
94 WILHELM DILTHEY
to della sua coscienza, ogni valore e ogni scopo della vita
risiede in questo mondo spirituale che agisce in lui in maniera
autonoma, e ogni fine delle sue azioni risiede nella costruzione
di fatti spirituali. Così egli distingue dal regno della natura un
regno della storia, nel quale — in mezzo alla connessione di
una necessità oggettiva, che costituisce la natura — la libertà
emerge in innumerevoli punti. In antitesi al corso meccanico
dei mutamenti naturali, il quale già contiene fin dall’inizio
tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti della volontà producono
realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e dei loro
sacrifici, del cui significato l'individuo è consapevole nella pro-
pria esperienza; essi suscitano lo sviluppo, sia nella persona sia
nell’umanità — attraverso e oltre la vuota e desolata ripetizione
del corso della natura nella coscienza, della cui rappresentazio-
ne come ideale di progresso storico si compiacciono gli adorato-
ri dello sviluppo intellettuale.
Invano l’epoca metafisica, per la quale questa differenza
nelle basi di spiegazione si configurava immediatamente come
una differenza sostanziale inerente alla struttura dell’universo,
ha lottato per stabilire e giustificare formule in vista della
fondazione di questa differenza dei fatti della vita spirituale da
quelli del corso naturale. Tra tutte le trasformazioni che la
metafisica antica ha conosciuto presso i pensatori medievali,
nulla è stato più ricco di conseguenze del fatto che in questo
periodo, in connessione con tutti i movimenti religiosi e teologi-
ci dominanti in cui erano inseriti questi pensatori, s’introdusse
nel nucleo centrale del sistema la determinazione della differen-
za tra mondo degli spiriti e mondo dei corpi, e quindi la
relazione di entrambi questi mondi con la divinità. La principa-
le opera metafisica del Medioevo, la Summa de veritate catholi-
cae fidei di Tommaso, abbozza—a partire dal secondo libro —
una struttura del mondo creato in cui l’essenza (essentia quiddi-
tas) è distinta dall’essere (esse), mentre in Dio i due momenti
sono una sola cosa*. Essa dimostra che nella gerarchia del
un'idea così grande dell'anima umana che non possiamo sopportare di es-
serne disprezzati, di non esserne stimati » (I, 5) (Oeuvres complètes, Pa-
ris, 1866, vol. I, pp. 248-49).
a. Summa contra Gentiles, libro I, cap. xxt1; cfr. pure libro II, cap. LIV.
WILHELM DILTHEY 95
creato c'è un elemento necessario superiore, costituito dalle so-
stanze spirituali che non risultano dall’unione di forma e mate-
ria ma sono incorporee per sé — gli angeli — e dalle quali si
distinguono le sostanze intellettuali o forme incorporee che, per
il completamento della loro specie (cioè della specie « uomo »),
abbisognano dei corpi. Su tale base essa elabora —in polemica
con la filosofia araba — una metafisica dello spirito umano la
cui influenza può venir seguita fino agli ultimi scrittori metafi-
sici nei giorni nostri*; da questo mondo di sostanze imperitu-
re si distingue la parte del creato che ha la propria essenza
nell’unione di forma e materia. Questa metafisica dello spirito
(psicologia razionale) fu posta poi da altri eminenti metafisici
in relazione con la concezione meccanicistica della natura e con
la filosofia corpuscolare, non appena queste ultime diventarono
dominanti. Ma ogni tentativo di elaborare sul fondamento di
questa dottrina delle sostanze, e con i mezzi della nuova conce-
zione della natura, una rappresentazione sostenibile dei rappor-
ti tra spirito e corpo naufragò. Quando Descartes sviluppò sulla
base delle proprietà chiare e distinte dei corpi in quanto gran-
dezze spaziali la sua rappresentazione della natura come un
immenso meccanismo, considerando costanti le grandezze di
movimento presenti in questo complesso, si introdusse nel siste-
ma — insieme con l’ipotesi che una sola anima imprime dall’e-
sterno un movimento in questo sistema materiale — la contrad-
dizione. L’impossibilità di rappresentare un'influenza da parte
di sostanze non-spaziali su questo sistema esteso non veniva
certo diminuita dal fatto che Descartes raccolse in un punto il
luogo spaziale di tale azione reciproca — come se potesse con
ciò far scomparire la difficoltà. L’avventurosità della concezio-
ne secondo cui la divinità sorreggerebbe con ripetuti interventi
questo gioco di azioni reciproche, oppure di quell’altra, secon-
do cui invece Dio avrebbe, come il più abile degli artefici,
predisposto fin dall’inizio i due orologi del sistema materiale e
del mondo degli spiriti in modo tale che un avvenimento natu-
rale produca una sensazione e un atto di volontà realizzi una
trasformazione del mondo esterno, dimostrano nel modo più
chiaro l’inconciliabilità della nuova metafisica della natura con
a. Summa contra Gentiles, libro II, cap. xvi.
96 WILHELM DILTHEY
la precedente metafisica delle sostanze spirituali. Cosicché tale
problema operò come pungolo sempre stimolante, favorendo la
dissoluzione del punto di vista metafisico in generale. Questa
dissoluzione si completerà nella conoscenza — che si svilupperà
più tardi — che l’Erlebnis dell’autocoscienza è il punto di
partenza del concetto di sostanza, che questo concetto sorge
dall’adattamento di tale Erlebris alle esperienze esterne — pro-
dotto dal conoscere che procede secondo il principio di ragion
sufficiente — e che in tal modo questa dottrina delle sostanze
spirituali altro non è che un riportare il concetto, formatosi in
tale metamorfosi, all’ErleBnis entro cui era originariamente da-
to il suo presupposto.
In luogo dell’antitesi tra sostanze materiali e sostanze spiri-
tuali subentrò quella tra il mondo esterno dato nella percezione
esterna (sensation) mediante i sensi, e mondo interiore, dato
primariamente in virtù dell’apprendimento interno degli eventi
e delle attività psichiche (reffection)?. Il problema assume in
tal modo un aspetto più modesto, che implica però la possibili-
tà di un'impostazione empirica. Di fronte al nuovo e migliore
metodo si fanno ora valere gli Erlebrisse che avevano trovato
un'espressione scientificamente insostenibile nella dottrina delle
sostanze propria della psicologia razionale.
Per la costituzione in forma autonoma delle scienze dello
spirito occorre anzitutto che — in base a questo punto di vista
critico — da quei processi i quali sono formati mediante un
collegamento concettuale sulla base del dato sensibile, e soltan-
to di questo, si distinguano, come un ambito particolare di
fatti, quegli altri processi che sono invece dati primariamente
nell’esperienza interna, cioè senza alcuna cooperazione dei sen-
si, e sono quindi formati sulla base del materiale dell’esperien-
za interna, dato in modo primario, in occasione di processi
naturali esterni, per esser sottoposti a questi mediante un proce-
dimento equivalente, per la sua funzione, al ragionamento ana-
logico. Nasce così un particolare dominio di esperienze che ha
la sua origine autonoma e il suo materiale nell’Erlebnis interio-
re, e che diventa quindi spontaneamente oggetto di una partico-
2. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra sensazione e riflessione formulata da
Locke.
WILHELM DILTHEY 97
lare scienza di esperienza. E finché qualcuno non asserirà di
essere in grado di derivare dalla struttura del cervello di Goe-
the e dalle qualità del suo corpo — e di rendere così meglio
conoscibile — l'insieme di passioni, di figure poetiche e di
invenzione concettuale che noi indichiamo come la vita di
Goethe, non sarà neppure contestata la posizione autonoma di
una scienza siffatta. Orbene, ciò che per noi qui esiste, ed
esiste in virtù di questa esperienza interna, ciò che per noi ha
valore o costituisce uno scopo ci è dato soltanto nell’Er/ebnis
del nostro sentimento e della nostra volontà: in questa scienza
sono così contenuti i princìpi del nostro conoscere, che determi-
nano in quale misura la natura può esistere per noi, e i princì-
pi del nostro agire, che spiegano l’esistenza di scopi, di beni, di
valori su cui è fondato ogni commercio pratico con la natura.
Una fondazione più approfondita della posizione autonoma
delle scienze dello spirito accanto alle scienze della natura, che
costituisce qui il nucleo della costruzione delle scienze dello
spirito, sarà compiuta più avanti, gradualmente, nella misura
in cui si procederà nell’analisi dell’Erlebnis complessivo del
mondo spirituale nella sua incomparabilità con ogni esperienza
sensibile concernente la natura. Mi limito qui a chiarire il
problema, facendo cenno al duplice senso in cui si può asserire
l’incompatibilità dei due ambiti di fatti: corrispondentemente,
anche il concetto dei limiti della conoscenza della natura acqui-
sta un duplice significato.
Uno dei nostri maggiori scienziati ha intrapreso la determi-
nazione di questi limiti in un trattato assai discusso, e ha di
recente illustrato questa determinazione dei limiti della sua
scienza®. Supponiamo di aver tutte le trasformazioni del mon-
do corporeo in movimenti di atomi, causati dalle loro forze
centrali costanti: in questo caso la totalità del mondo sarebbe
conosciuta in base alle scienze della natura. « Uno spirito —
a. E. Du Bors-ReyMonp, Uber die Grenzen des Naturerkennens, Leip-
zig, 4° ed. 1872: dello stesso autore si veda pure Die sieben Weltritsel,
Berlin, 18813.
3. Emil Du Bois-Reymond (1818-1896), fisiologo positivista, autore delle due opere
citate da Dilthey, sostenne l'impossibilità per l’uomo di risolvere gli enigmi « trascen-
denti » e la necessità di attenersi al principio dell’ignorabimus.
7. STORICISMO TEDESCO.
98 WILHELM DILTHEY
egli prende le mosse da quest'immagine di Laplace — che per
un dato istante conoscesse tutte le forze operanti della natura,
e la reciproca posizione degli esseri di cui essa consta, € che
inoltre fosse anche abbastanza sapiente da sottomettere ad anali-
si questi dati, sarebbe in grado di comprendere in una medesi-
ma formula i movimenti dei massimi corpi celesti come dell’a-
tomo più leggero » ®. Siccome l'intelligenza umana nella scien-
za astronomica è una « debole copia di uno spirito di tal fat-
ta», Du Bois-Reymond indica la conoscenza di un sistema ma-
teriale prospettata da Laplace come conoscenza astronomica.
Partendo da tale immagine si approda di fatto a una concezio-
ne assai chiara dei limiti entro cui è racchiusa la tendenza
dello spirito proprio delle scienze naturali.
Ci sia ora concesso di introdurre in questa considerazione
del problema una distinzione relativa al concetto di limite
della conoscenza naturale. Dal momento che la realtà, in quan-
to correlato dell’esperienza, ci è data nella cooperazione della
struttura dei nostri sensi con l’esperienza interna, dalla differen-
za di provenienza dei suoi elementi costitutivi che ne deriva
scaturisce un'incomparabilità tra gli elementi del nostro calcolo
scientifico, la quale esclude la derivazione dei fatti di una deter-
minata provenienza da quelli di provenienza diversa. Dalle
qualità dell'elemento spaziale perveniamo così attraverso la fat-
ticità del senso del tatto — nel quale viene esperita la resisten-
za — alla rappresentazione della materia; ogni senso è racchiu-
so entro il suo specifico ambito di qualità; e se dobbiamo
apprendere uno stato della coscienza in un momento determina-
to, siamo costretti a passare dalla sensibilità alla percezione
degli stati interni. Pertanto noi possiamo soltanto accogliere i
dati nell’incomparabilità in cui essi si presentano a seguito del-
a. P. S. LarLace, Essai philosophique sur les probabilités, Paris, 1814,
p. 3°.
4. Pierre-Simon Laplace (1749-1827), matematico e astronomo francese, autore del-
l'Exposition du système du monde (1796), del Traité de mécanique céleste (1798-1825),
della TAéorie analytique des probabilités (1812) e del saggio citato da Dilthey, diede un
contributo decisivo alla formulazione della teoria — già enunciata da Kant — dell'ori-
gine del sistema solare da una massa gassosa. L'Essai sviluppa le implicazioni filosofiche
del calcolo delle probabilità.
WILHELM DILTHEY 99
la loro diversa provenienza; la loro esistenza di fatto rimane
per noi priva di giustificazione; ogni nostro conoscere è limita-
to alla constatazione di uniformità nella successione e nella
contemporaneità, secondo le quali esse sono in relazioni recipro-
che nella nostra esperienza. Si tratta di limiti inerenti alle
condizioni stesse del nostro esperire, cioè di limiti che sussisto-
no in ogni punto della scienza della natura, non già di barriere
esterne in cui urti la conoscenza della natura, bensì di condizio-
ni immanenti allo stesso esperire. La presenza di questi confini
immanenti della conoscenza non costituisce però impedimento
alcuno per la funzione del conoscere. Se col termine compren-
dere si designa una completa trasparenza nell’apprendimento
di una connessione, allora ci troviamo di fronte a barriere
contro cui urta il comprendere. Ma, sia che la scienza sottomet-
ta al suo calcolo, riconducendo i mutamenti della realtà a movi-
menti di atomi, delle qualità oppure dei fatti della coscienza
— sempre che questi si lascino sottomettere — l’inderivabilità
non costituisce impedimento alcuno alle sue operazioni. È tan-
to poco possibile trovare un passaggio da una determinatezza
meramente matematica o da una grandezza di movimento a un
colore o a un suono, quanto a un evento della coscienza: non
posso spiegare la luce azzurra mediante il corrispondente nume-
ro di oscillazioni più di quel che possa spiegare il giudizio
negativo mediante un processo che accade nel cervello. Come la
fisica cede alla fisiologia il compito di spiegare la qualità sensi-
bile dell’« azzurro », così la fisiologia — che nel movimento di
parti materiali non possiede neppur essa un mezzo per far
apparire d’incanto l'azzurro — trasmette alla psicologia il suo
compito, che rimane in definitiva, come in un gioco di specchi
magici, affidato alla psicologia. Ma l’ipotesi che le qualità sor-
gano dal processo della sensazione è di per sé solamente un
mezzo ausiliario di calcolo, che riconduce le trasformazioni
della realtà — quali si dànno nella mia esperienza — a una
certa classe di trasformazioni al suo interno che costituisce un
contenuto parziale della mia esperienza, per poterle collocare
in certo modo su uno stesso piano a scopo di conoscenza. Se
fosse possibile sostituire a fatti definiti in maniera determina-
ta, che nel contesto della considerazione meccanicistica della
natura occupano un posto stabilito, fatti di coscienza definiti in
100 WILHELM DILTHEY
modo costante e determinato, e con ciò stabilire — conforme-
mente al sistema di uniformità in cui si trovano i primi — il
presentarsi dei processi della coscienza in un accordo completo
con l’esperienza, allora questi fatti di coscienza sarebbero inseri-
ti nella connessione della conoscenza naturale allo stesso modo
di un qualsiasi suono o colore.
Ma proprio a questo punto l’incomparabilità tra processi
materiali e processi spirituali assume un diverso senso, e pone
alla conoscenza naturale limiti di tutt'altro genere. L’impossibi-
lità di derivare i fatti spirituali da quelli dell'ordine meccanico
della natura, che si fonda sulla diversità della loro provenienza,
non impedirebbe l’inserimento dei primi nel sistema dei secon-
di. Soltanto quando le relazioni tra i fatti del mondo spiri-
tuale si presentano incomparabili nella loro specie con le unifor-
mità della natura, viene esclusa una subordinazione dei fatti
spirituali a quelli accertati dalla conoscenza meccanica della
natura: infatti qui non ci si trova di fronte a confini immanen-
ti al conoscere empirico, bensì a limiti in cui la conoscenza
naturale finisce e ha invece inizio un’autonoma scienza dello
spirito, che si costituisce intorno a un proprio centro. Il proble-
ma fondamentale consiste pertanto nello stabilire quella data
specie di incomparabilità tra le relazioni dei fatti spirituali e le
uniformità dei processi materiali che esclude la subordinazione
dei primi e una loro interpretazione come qualità e aspetti
della materia, e che dev'essere di tutt’altro genere della differen-
za sussistente tra i diversi ambiti particolari di leggi della mate-
ria — così come queste si presentano nella matematica, nella
fisica, nella chimica e nella fisiologia, sotto forma di un rappor-
to di subordinazione che si sviluppa in modo coerente. L’esclu-
sione dei fatti spirituali dalla connessione della materia, delle
sue qualità e delle sue leggi presupporrà sempre un contrasto
che si manifesta, in qualsiasi tentativo di subordinazione siffat-
ta, tra le relazioni dei fatti di un campo e quelle di un altro.
E ciò appare chiaro quando l'incomparabilità della realtà spiri-
tuale viene ricondotta ai fatti dell’autocoscienza e dell’unità
della coscienza ad essa inerente, alla libertà e ai fatti della vita
normale ad essa collegati, in antitesi all’organizzazione spaziale
e alla divisibilità della materia nonché alla necessità meccanica
a cui soggiace il comportamento di ogni sua parte. Vecchi
WILHELM DILTHEY IOI
quasi quanto la riflessione rigorosa sulla posizione dello spirito
rispetto alla natura sono i tentativi di formulare questo tipo di
incomparabilità dell’elemento spirituale con qualsiasi ordine na-
turale, sulla base dei fatti dell’unità della coscienza e della
spontaneità del volere.
Nella misura in cui nell'esposizione di questo illustre scien-
ziato viene introdotta la distinzione tra i confini immanenti
dell’esperire e i limiti della subordinazione dei fatti alla connes-
sione della conoscenza naturale, i concetti di limite e di inespli-
cabilità acquistano un senso esattamente definibile, e scompaiono
quindi difficoltà che si sono fatte ampiamente rilevare nella
polemica intorno ai limiti della conoscenza naturale provocata
da questo scritto. L'esistenza di confini immanenti all’esperien-
za non è affatto decisiva rispetto alla questione riguardante la
subordinazione di fatti spirituali alla connessione della cono-
scenza della materia. Se ci si propone — come nel caso di
Haeckel5 e di altri scienziati — di inserire i fatti spirituali
nella connessione della natura, assumendo l’esistenza di una
vita psichica negli elementi in base ai quali si costituisce l'orga-
nismo, tra un tentativo del genere e la conoscenza dei confini
immanenti di ogni esperienza non sussiste assolutamente alcun
rapporto di esclusione; su di esso decide soltanto il secondo
tipo di indagine sui limiti del conoscere naturale. Per questo
anche Du Bois-Reymond ha proseguito nel secondo tipo di
indagine, e nella sua dimostrazione si è servito dell’argomento
dell’unità della coscienza così come dell’argomento della sponta-
neità del volere. La dimostrazione della tesi «che gli elementi
spirituali non possono mai essere compresi sulla base delle Ioro
condizioni materiali »° viene condotta come segue. Anche nel
caso di una conoscenza compiuta di tutte le parti del sistema
materiale, della loro reciproca posizione e del loro movimento,
a. E. Du Bors-RexMonD, op. cit., p. 28.
5. Ernest Heinrich Hacckel (1834-1919), biologo e filosofo positivista, autore di nu-
merose opere di argomento zoologico e di una Generelle Morphologie der Organismen
(1866), nonché di vari volumi sulla teoria dell'evoluzione, fu uno dei maggiori espo-
nenti del darwinismo in Germania. Il libro Die Welrétse! (1899), scritto in polemica con
Du Bois-Reymond, rappresenterà un tentativo di risposta in chiave positivistica a quelli
che Du Bois-Reymond aveva indicato come gli enigmi insolubili del mondo.
102 WILHELM DILTHEY
rimane però del tutto incomprensibile perché a un certo nume-
ro di atomi di carbonio, d’idrogeno, di azoto, di ossigeno, non
dovrebbe essere indifferente in qual modo essi sono collocati e
si muovono. L'impossibilità di spiegare l'elemento spirituale
rimane tuttavia immutata anche se ognuno di questi elementi è
corredato di coscienza al pari delle monadi; in base a quest’ipo-
tesi non si può spiegare la coscienza unitaria dell’individuo*.
a. E. Du Bois-RerMonD, op. cit., pp. 29-30; cfr. anche Die sieben Welt-
ritsel cit., p. 7. Quest'argomentazione ha del resto valore conclusivo sol-
tanto se alla meccanica atomistica si attribuisce una validità per così dire
metafisica. Alla sua storia, accennata da Du Bois-Reymond, si può avvi-
cinare anche la formulazione che troviamo nel classico della psicologia ra-
zionale, Moses Mendelssohn? Leggiamo per esempio in Schriften, Leip-
zig, 1880, vol. I, p. 277: « 1) Tutto quanto distingue il corpo umano da
un blocco di marmo può essere ricondotto a movimento. Ma il movimento
non è altro che il mutamento del luogo o della posizione. È evidente che
tutti i mutamenti di luogo possibili al mondo, per quanto possano essere
raccolti insieme, non comportano affatto la percezione di questi muta-
menti di luogo. — 2) Tutta la materia è costituita da più parti. Se le sin-
gole rappresentazioni fossero isolate nelle parti dell'anima così come gli og-
getti lo sono nella natura, non si incontrerebbe mai la totalità. Noi non po-
tremmo paragonare tra loro le impressioni dei vari sensi, confrontare le
rappresentazioni, percepire rapporti, riconoscere relazioni. Ne deriva chia-
ramente che non soltanto nel pensiero, ma anche nella sensazione la mol-
teplicità deve convergere nell'unità. Dal momento però che la materia non
è mai un soggetto singolo ecc. ». Kant sviluppa questo « tallone d'Achille
di ogni conclusione dialettica della dottrina pura dell’anima » come il se-
condo paralogismo della psicologia trascendentale. In Lotze? questi « atti
del sapere relazionante » sono stati svilupppati in vari scritti (da ultimo
nella Metaphysik, Leipzig, 1841, p. 476) come «il fondamento insuperabi-
le, su cui può riposare con sicurezza la convinzione dell'autonomia dell'a-
nima », e costituiscono la base di questa parte del suo sistema metafisico.
6. Moses Mendelssohn (1729-1786), autore dei P/ilosophische Gespriche (1755), dei
Briefe tiber die Empfindungen (1755), del Phédon (1767), delle Morgenstunden (1785)
c di varie altre opere, fu uno dei maggiori esponenti della « filosofia popolare » di ispi-
tazione illuministica; amico di Lessing, lo difese dall'attribuzione di spinozismo sostc-
nuta da Jacobi. Dilthey si riferisce qui al tentativo di dimostrazione dell'immortalità
dell’anima, criticato da Kant nella Critica della ragion pura.
7. Rudolph Hermann Lotze (1817-1881), autore della MetapAysik (1841), della Lo-
gi% (1843), del Mikrokosnus (1856-58), del System der Philosophie (1874-79) e di nu-
merose altre opere, alcune delle quali pubblicate postume, fu il maggiore rappresentante
dello spiritualismo ottocentesco tedesco: il suo pensiero ebbe larga diffusione, influen-
zando la cultura filosofica della seconda metà del sccolo in senso anti-positivistico c anti-
psicologistico.
WILHELM DILTHEY 103
Già la sua tesi contiene in quel « non possono mai essere com-
presi » un doppio senso che ha come conseguenza l'emergere,
nella dimostrazione stessa, di due argomenti di portata ben
differente. Da un lato egli afferma che il tentativo di derivare
fatti spirituali da trasformazioni materiali (attualmente caduto
in oblio in quanto rozzo materialismo, e compiuto ancora sol-
tanto attraverso l’ipotesi dell’esistenza di proprietà psichiche
negli elementi) non può eliminare i confini immanenti di ogni
esperienza: il che è certo, ma non decisivo contro la subordina-
zione dello spirito alla conoscenza naturale. Egli afferma allo-
ra che tale tentativo deve naufragare davanti alla contraddizio-
ne tra la nostra rappresentazione della materia e il carattere di
unità che è proprio della nostra coscienza. Nella sua posteriore
polemica con Haeckel, a quest'argomento aggiunge quell’altro
che, se si mantiene tale ipotesi, si ha un’ulteriore contraddizio-
ne tra il modo in cui un elemento materiale è meccanicamente
condizionato nella connessione naturale e l’Er/ebnis della spon-
taneità del volere; una « volontà » presente negli elementi della
materia che « deve volere, voglia o non voglia, e ciò in rappor-
to diretto al prodotto delle masse e in rapporto inverso al
quadrato delle distanze » è una contradictio in adiecto *.
II. IL RAPPORTO DI QUESTO COMPLESSO CON IL COMPLESSO DELLE
SCIENZE DELLA NATURA
In un ambito più ampio, però, le scienze dello spirito com-
prendono in sé fatti naturali, hanno a fondamento la conoscen-
za della natura.
Se si concepissero esseri puramente spirituali in un regno
di persone costituito soltanto da essi, il loro venire alla luce, la
loro conservazione e il loro sviluppo, al pari della loro scompar-
sa (in qualsiasi modo ci si rappresenti lo sfondo da cui proven-
gono e a cui sono destinati a fare ritorno), sarebbero legati a
condizioni di tipo spirituale; il loro benessere sarebbe fondato
sulla loro posizione rispetto al mondo spirituale; la loro connes-
sione reciproca, le loro origini si compirebbero con mezzi pura-
a. E. Dv Bois-Revmonp, Die sieben Weltritsel cit., p. 8.
104 WILHELM DILTHEY
mente spirituali e gli effetti durevoli di tali azioni sarebbero
anch'essi di tipo puramente spirituale; lo stesso loro ritrarsi
dal regno delle persone avrebbe il suo fondamento nell’elemen-
to spirituale. Un sistema composto da individui siffatti potreb-
be venir conosciuto da pure scienze dello spirito. In realtà un
individuo nasce, si conserva e si sviluppa sulla base delle funzio-
ni dell’organismo animale e delle sue relazioni col corso natura-
le dell'ambiente; il suo sentimento vitale è, almeno in parte,
fondato su queste funzioni; le sue impressioni sono condiziona-
te dagli organi di senso e dalle influenze del mondo esterno; la
ricchezza e la mobilità delle sue rappresentazioni, la forza e la
direzione dei suoi atti di volontà dipendono sovente dalle modi-
ficazioni del suo sistema nervoso. L'impulso della sua volontà
comporta un accorciamento delle fibre muscolari, cosicché l’agi-
re verso l’esterno è connesso ai mutamenti di posizione delle
particelle dell’organismo, e le conseguenze durevoli delle sue
azioni volontarie esistono soltanto nella forma di trasformazio-
ni all’interno del mondo materiale. La vita spirituale di un
uomo è perciò una parte — separabile solo in virtù di un’astra-
zione — della vivente unità psico-fisica in cui si manifesta
un'esistenza e una vita umana, Il sistema di queste unità viven-
ti è la realtà che costituisce l’oggetto delle scienze storico-
sociali.
In virtù del duplice punto di vista del nostro apprendimen-
to, l'uomo come unità vivente è per noi (quale che sia il suo
stato metafisico) una connessione di fatti spirituali fin dove
giunge la consapevolezza interiore, ed è invece un complesso
corporeo nella misura in cui apprendiamo per mezzo dei sensi.
La consapevolezza interiore e l'apprendimento esterno non si
compiranno mai nello stesso atto, e quindi il fatto della vita
spirituale non ci è mai dato contemporancamente a quello del
corpo. Ne derivano necessariamente per la coscienza scientifica
che voglia cogliere i i fatti spirituali e il mondo corporeo nella
loro connessione, di cui è espressione la vivente unità psico-fisi-
due punti di vista differenti, e tra loro irriducibili. Se
procedo dall’esperienza interna, troverò l’intero mondo esterno
dato nella mia coscienza: le leggi di questo complesso naturale
sottostanno alle condizioni della mia coscienza e dipendono
quindi da esse. Questo è il punto di vista che la filosofia
WILHELM DILTHEY 105
tedesca a cavallo tra il secolo xvi e il nostro designava come
filosofia trascendentale. Se invece assumo la connessione della
natura quale essa mi si offre come realtà nel mio apprendimen-
to naturale, e percepisco i fatti psichici come inseriti nella
successione temporale di questo mondo esterno nonché nella
sua suddivisione spaziale, troverò che le trasformazioni della
vita spirituale dipendono dall’intervento della natura o dell’e-
sperimento, consistente in trasformazioni materiali provocate
agendo sul sistema nervoso: un'osservazione dello sviluppo del-
la vita e degli stati morbosi allarga queste esperienze in un
quadro complessivo del condizionamento dell’elemento spiri-
tuale da parte dell’elemento corporeo. Sorge allora il modo di
concepire proprio dello scienziato che procede dall’esterno ver-
so l’interno, dalle trasformazioni materiali alle trasformazioni
spirituali. Così l’antagonismo tra il filosofo e lo scienziato è
condizionato dall’antitesi dei loro rispettivi punti di partenza.
‘Procediamo ora dal tipo di considerazione proprio della
scienza naturale. Finché questo tipo di considerazione rimane
consapevole dei propri limiti, i suoi risultati sono incontesta-
bili. Essi ricevono una più precisa determinazione del loro valo-
re conoscitivo soltanto dal punto di vista dell'esperienza inter-
na. La scienza della natura analizza la connessione causale del
corso naturale. Laddove quest’analisi ha raggiunto il punto in
cui una situazione o una trasformazione materiale è legata in
maniera regolare con una situazione o una trasformazione psi-
chica, senza che sia possibile rinvenire tra loro un ulteriore
elemento intermedio, allora si può soltanto constatare questa
relazione regolare, ma non si può applicare a tale relazione il
rapporto di causa ed effetto. Noi scopriamo che le uniformità
di un ambito di vita sono regolarmente collegate con uniformi-
tà dell’altro, e l’espressione di questo rapporto è dato dal concet-
to matematico di funzione. Una concezione di tale rapporto,
che consenta di paragonare il corso delle trasformazioni spiri-
tuali e di quelle corporee alla marcia di due orologi caricati in
modo identico, è in accordo con l’esperienza tanto quanto una
concezione che assuma come base esplicativa uno solo dei due
orologi, considerando entrambi gli ambiti di esperienza come
manifestazioni diverse di uno stesso fondamento. La dipenden-
DI
za dell’elemento spirituale dalla connessione della natura è
106 WILHELM DILTHEY
quindi il rapporto secondo il quale la connessione universale
della natura condiziona causalmente quelle situazioni e trasfor-
mazioni materiali che sono per noi collegate regolarmente, e
senza un’ulteriore mediazione, con situazioni e trasformazioni
spirituali. In tal modo la conoscenza naturale vede la concatena-
zione delle cause spingere i suoi effetti fino alla vita psico-fisi-
ca; qui sorge una trasformazione in cui la relazione tra materia-
le e psichico si sottrae alla concezione causale, e questa trasfor-
mazione ne richiama a sua volta una nel mondo materiale. In
questo contesto l’importanza della struttura del sistema ner-
voso si rivela all’esperimento del fisiologo. I confusi fenomeni
della vita vengono dipanati in una chiara rappresentazione dei
rapporti di dipendenza, nella cui successione il corso naturale
spinge le sue trasformazioni fino all’uomo; queste poi penetra-
no, attraverso le porte degli organi di senso, nel sistema nervo-
so: sorgono la sensazione, la rappresentazione, il sentimento e
il desiderio, che hanno poi un’azione retroattiva sul corso della
natura. La stessa unità vivente, che ci riempie col sentimento
immediato della nostra inscindibile esistenza, viene risolta in
un sistema di relazioni tra i fatti della nostra coscienza e la
struttura e le funzioni del sistema nervoso che possono essere
empiricamente accertate: infatti ogni azione psichica si mostra
collegata con una trasformazione all’interno del nostro corpo
soltanto attraverso il sistema nervoso, e da parte sua la trasfor-
mazione corporea è accompagnata da un mutamento del nostro
stato psichico soltanto attraverso l’effetto che ha sul sistema
nervoso.
Da quest’analisi delle viventi unità psico-fisiche sorge ora
una più chiara rappresentazione della loro dipendenza dalla
connessione complessiva della natura, all’interno della quale
esse compaiono e operano, e dalla quale nuovamente si ritraggo-
no, nonché dalla dipendenza dello studio della realtà storico-so-
ciale dalla conoscenza della natura. Su questa base si può stabi-
lire il grado di attendibilità delle teorie di Comte e di Spencer
in merito alla posizione di queste scienze all’interno della gerar-
chia della scienza nel suo insieme, da essi formulata. Poiché
questo scritto si propone di fondare la relativa autonomia delle
scienze dello spirito, esso deve pure sviluppare — in quanto
aspetto complementare della loro posizione nel complesso delle
WILHELM DILTHEY 107
scienze — il sistema delle dipendenze in virtù del quale esse
sono condizionate dalla conoscenza naturale e costituiscono
quindi il momento ultimo e supremo della costruzione che ha
inizio con la fondazione matematica. I fatti dello spirito sono i
limiti superiori dei fatti della natura; i fatti della natura costi-
tuiscono le condizioni inferiori della vita spirituale. Proprio
perché il regno delle persone, cioè la società umana, è la mani-
festazione suprema del mondo dell’esperienza terrena, la sua
conoscenza ha bisogno in innumerevoli punti della conoscenza
del sistema di presupposti che risiedono, per il suo sviluppo,
nella natura.
E invero l’uomo, in virtù della sua posizione entro la con-
nessione causale della natura, è condizionato da questa secon-
do una duplice relazione.
Come abbiamo visto, l’unità psico-fisica riceve continuamen-
te influenze, per il tramite del sistema nervoso, dal corso uni-
versale della natura, e a sua volta agisce su di esso. È tuttavia
proprio della sua natura che le influenze che da essa procedono
assumano principalmente la forma di un agire diretto da scopi.
Per questa unità psico-fisica il corso della natura e la sua quali-
tà da un lato determina la formazione degli scopi, dall'altro
contribuisce al raggiungimento di questi scopi come un sistema
di mezzi. E perciò noi stessi esistiamo là dove vogliamo, dove
operiamo sulla natura, appunto perché non siamo forze cieche,
bensì volontà che stabiliscono riflessivamente i loro scopi indi-
pendenti dalla connessione della natura. Pertanto le unità psi-
co-fisiche si trovano in una duplice dipendenza rispetto al corso
naturale. Da una parte questo condiziona, in quanto sistema di
cause — a partire dal posto della terra nell'insieme del cosmo
— la realtà storico-sociale, e il grande problema del rapporto
tra connessione naturale e libertà all'interno di tale realtà si
scompone, per lo scienziato empirico, in innumerevoli questio-
ni particolari riguardanti il rapporto tra fatti dello spirito e
influenze della natura. D'altra parte, dagli scopi di questo re-
gno di persone scaturiscono effetti retroattivi sulla matura, sul-
la terra — che l’uomo considera in questo senso come propria
abitazione, e in cui agisce per accomodarvisi; anche questi
effetti retroattivi sono legati all’utilizzazione della connessione
legale della natura. Tutti gli scopi si presentano in definitiva
108 WILHELM DILTHEY
all'uomo soltanto all’interno del processo spirituale, giacché so-
lo in esso esiste qualcosa per lui; ma lo scopo cerca i suoi
mezzi nella connessione della natura. Quanto poco percepibile
è spesso la trasformazione prodotta nel mondo esterno dalla
potenza creatrice dello spirito! E tuttavia soltanto su di essa
poggia la mediazione in virtù della quale il valore così creato
esiste anche per gli altri. I pochi fogli che, come residuo mate-
riale di un più profondo lavoro intellettuale degli antichi nella
direzione dell’ipotesi di un movimento della terra, pervennero
nelle mani di Copernico, sono diventati il punto di partenza
di una rivoluzione nella nostra visione del mondo.
A questo punto si può intuire quanto sia relativa la recipro-
ca delimitazione di queste due classi di scienze. Polemiche co-
me quelle condotte a proposito della posizione della linguistica
generale sono infruttuose. In entrambi i luoghi di trapasso che
conducono dallo studio della natura a quello dello spirito, nei
punti in cui la connessione della natura influenza lo sviluppo
dell’elemento spirituale e negli altri in cui invece riceve l’in-
fluenza dell'elemento spirituale oppure costituisce il luogo di
passaggio per l’influenza su un altro elemento spirituale, le
conoscenze relative alle due classi di scienze si mescolano sem-
pre. Le conoscenze delle scienze naturali si mescolano con quel-
le delle scienze dello spirito. E infatti in questa connessione —
in conformità alla duplice relazione con cui il corso naturale
condiziona la vita dello spirito — la conoscenza dell'influenza
formativa della natura si intreccia spesso con la constatazione
dell’influenza che essa esercita come materiale dell’agire. Così
dalla conoscenza delle leggi naturali di formazione dei suoni
deriva una parte importante della grammatica e della teoria
musicale, e il genio del linguaggio o della musica è a sua volta
legato a queste leggi naturali: lo studio delle sue funzioni è
quindi condizionato dalla comprensione di tale dipendenza.
A questo punto si può inoltre intuire che la conoscen-
za delle condizioni presenti nella natura, e formulate dalla
scienza naturale, costituisce in larga misura il fondamento
dello studio dei fatti spirituali. Come lo sviluppo ‘dell’uomo
singolo, così anche la diffusione del genere umano sulla terra e
la formazione dei suoi destini nella storia sono condizionate
dall’intera connessione cosmica. Per esempio, le guerre costitui-
WILHELM DILTHEY 109
scono un elemento fondamentale di ogni storia: in quanto
storia politica, essa ha a che fare con la volontà di stati, ma
questa si presenta in armi e si impone per mezzo loro. La
teoria della guerra dipende però in primo luogo dalla conoscen-
za dell’elemento fisico, che offre terreno e mezzi alle volontà
in conflitto: la guerra persegue infatti lo scopo di imporre al
nemico la nostra volontà con i mezzi della violenza fisica. Ciò
implica che l’avversario dev'essere costretto, fino a essere privo
di difesa — che è lo scopo teorico di quell’atto di violenza
designato come guerra — cioè fino al punto in cui la sua
situazione diventa più svantaggiosa del sacrificio che gli si
richiede, e può essere scambiata soltanto con una situazione
ancor più svantaggiosa. In questo grande calcolo, dunque, i
numeri che risultano più importanti per la scienza, e di cui
essa si occupa in primo luogo, sono le condizioni e i mezzi
fisici, mentre c'è assai poco da dire circa i fattori psichici.
Le scienze dell’uomo, della società e della storia hanno dun-
que a loro fondamento le scienze della natura, anzitutto per-
ché le stesse unità psico-fisiche possono essere studiate soltanto
con l’aiuto della biologia, e inoltre perché il mezzo in cui ha
luogo il loro sviluppo e la loro attività teleologica, e al cui
dominio tale attività si riferisce in gran parte, è la natura.
Sotto il primo aspetto, il loro fondamento è costituito dalle
scienze dell’organismo, sotto il secondo prevalentemente da
quelle della natura inorganica. La connessione che si deve spie-
gare in questi termini poggia da una parte sul fatto che queste
condizioni naturali determinano lo sviluppo e la distribuzione
della vita spirituale sulla superficie terrestre, dall'altra sul fatto
che l’attività teologica dell’uomo è legata alle leggi della natura
e quindi condizionata dalla loro conoscenza e utilizzazione. Il
primo rapporto indica pertanto solo una dipendenza dell’uomo
dalla natura, mentre il secondo contiene questa dipendenza
soltanto come aspetto complementare della storia del suo cre-
scente dominio sulla terra. Quella parte del primo rapporto che
racchiude in sé le relazioni dell’uomo con la natura circostante
è stata sottoposta da Ritter al metodo comparativo. Brillanti
intuizioni, e in particolare la sua valutazione comparativa dei
continenti in base alla struttura dei loro contorni, lasciavano
intravvedere una predestinazione della storia universale fissata
II10 WILHELM DILTHEY
nei rapporti spaziali della terra. I lavori successivi non hanno
però confermato quest’intuizione, concepita da Ritter" come
una teleologia della storia universale, e poi posta da Buckle® al
servizio del naturalismo: al posto della rappresentazione di
una dipendenza uniforme dell’uomo dalle condizioni naturali è
subentrata la rappresentazione più prudente secondo cui la lot-
ta delle forze etico-spirituali contro le condizioni della morta
spazialità ha continuamente diminuito nei popoli storici — a
differenza dai popoli privi di storia — il rapporto di dipenden-
za. Anche qui si è affermata una scienza autonoma della realtà
storico-sociale, che utilizza a scopo di spiegazione le condi-
zioni naturali. L’altro rapporto mostra invece — con la dipen-
denza inerente all’adattamento alle condizioni naturali — che
il dominio della spazialità è così legato al pensiero scientifico e
alla tecnica che l'umanità nella sua storia riesce a prevalere
proprio in virtù della subordinazione. Natura enim non nisi
parendo vincitur®.
Il problema del rapporto delle scienze dello spirito con la
conoscenza della natura può quindi esser considerato risolto
soltanto se si risolve l’antitesi, dalla quale siamo partiti, tra il
punto di vista trascendentale, secondo cui la natura è sottoposta
alle condizioni della coscienza, e il punto di vista oggettivo-em-
pirico, secondo cui lo sviluppo dell’elemento spirituale è sotto-
posto alle condizioni della totalità della natura. Questo compito
costituisce un aspetto del problema della conoscenza. Se si isola
questo problema per le scienze dello spirito, non appare impos-
sibile una soluzione convincente per tutti. Le sue condizioni
sarebbero la dimostrazione della realtà oggettiva dell’esperienza
interna e la comprova dell’esistenza di un mondo esterno; per-
a. Bacone, De interpretatione naturae et regno hominis, aforisma 3.
8. Karl Ritter (1779-1859) fu uno dei maggiori gcografi tedeschi della prima me-
tà dell'Ottocento: la sua opera principale è Die ErdAunde im Verhiltnis zur Natur
und Geschichte des Menschen (1817-18, 2° cd. 1822-58), che offre una descrizione siste-
matica del Vecchio Mondo, ispirata al presupposto (di origine herderiana) dell’indivi-
dualità dei continenti e alla considerazione dell'azione trasformatrice dell'ambiente da
parte dell’uomo.
9. Henry Thomas Buckle (1821-1862), storico inglese, autore di una History of
Civilization in England (1857-61) di ispirazione positivistica.
WILHELM DILTHEY III
tanto in questo mondo esterno fatti ed esseri spirituali esistono
in virtù di un processo di trasposizione della nostra interiorità
in essi. Come l'occhio accecato dal sole ne ripete in modo
variopinto l’immagine nei luoghi più vari dello spazio, così il
nostro apprendimento moltiplica l’immagine della nostra vita
interiore e la colloca in svariate maniere nei più diversi luoghi
della natura circostante: questo processo può essere però espo-
sto e giustificato logicamente come un’inferenza analogica da
questa vita interiore originaliter data in modo immediato sol-
tanto a noi, attraverso le rappresentazioni delle manifestazioni
ad essa concatenate, a qualcosa di affine corrispondente a mani-
festazioni affini del mondo esterno, che sta a loro fondamento.
Qualunque cosa sia la natura in se stessa, lo studio delle cause
della realtà spirituale può accontentarsi del fatto che in ogni
caso i suoi fenomeni possono venir concepiti e utilizzati come
segni del reale, e le uniformità presenti nei suoi rapporti di
coesistenza e di successione possono venir concepite come segni
di uniformità presenti nel reale. Se però ci si introduce nel
mondo dello spirito e si indaga la natura o in quanto contenu-
to dello spirito o in quanto scopo o mezzo intessuto nelle
volontà, per lo spirito la natura è appunto ciò che essa è in lui,
e qui è del tutto indifferente quale possa essere in sé. È suf-
ficiente che lo spirito possa far conto nel suo agire, comunque
la natura gli sia data, sulla sua legalità, e possa gustare la
bella apparenza della sua esistenza.
III. PROSPETTIVE SULLE SCIENZE DELLO SPIRITO
Le scienze dello spirito non si sono ancora costituite a com-
plesso unitario; esse non sono ancora in grado di stabilire una
connessione in cui le singole verità siano ordinate secondo i
loro rapporti di dipendenza da altre verità e dall'esperienza.
Queste scienze sono cresciute nella prassi stessa della vita,
sviluppandosi in base alle esigenze della formazione professiona-
le, e la sistematicità delle facoltà al servizio di tale formazione
è quindi la forma spontanea della loro connessione. I loro
primi concetti e le loro prime regole sono state quindi trovate
112 WILHELM DILTHEY
per lo più nell’esercizio delle funzioni sociali. Jhering!® ha di-
mostrato che il pensiero giuridico ha prodotto i concetti fonda-
mentali del diritto romano mediante un cosciente lavoro spiri-
tuale compiutosi nella stessa vita del diritto. Anche l’analisi
delle più antiche costituzioni greche indica in esse i precipitati
dell’ammirevole forza di un pensiero politico consapevole fon-
dato su concetti e princìpi chiari. L'idea fondamentale in base
alla quale la libertà dell’individuo viene riposta nella sua parte-
cipazione al potere politico, ma questa è regolata dall’ordina-
mento statale in conformità alla funzione che l’individuo assol-
ve per il tutto, è stata dapprima decisiva per l’arte politica, e
soltanto in seguito è stata elaborata in forma scientifica dai
grandi teorici della scuola socratica. Il progredire verso teorie
scientifiche comprensive si appoggiava quindi prevalentemente
sul bisogno di una formazione professionale dei ceti dirigenti.
Così già nella Grecia, dai compiti di un insegnamento politico
superiore sorsero, nell’età dei Sofisti, la retorica e la politica; e
la storia della maggior parte delle scienze dello spirito nei
popoli moderni mostra l’influenza dominante del medesimo
rapporto fondamentale. La letteratura dei Romani riguardo al-
la loro comunità ricevette la sua struttura più antica dal fatto
di essersi sviluppata in forma di istruzioni per i sacerdoti e per
i singoli magistrati®. Perciò la sistematica di quelle scienze
dello spirito che contengono la base per la formazione professio-
nale degli organi dirigenti della società, come anche l’esposizio-
ne di tale sistematica in veste enciclopedica, è emersa in definiti-
va dal bisogno di un compendio su quanto occorre a tale prope-
deutica; e la forma più naturale delle enciclopedie sarà sempre
— come Schleiermacher ha magistralmente mostrato a proposi-
to della teologia — quella che si articola con la coscienza di
tale scopo. Con queste condizioni limitative, chi penetri nelle
a. Cir. T. Mommsen, Romisches Staatsrecht, Leipzig, vol. I, 1871, p.
3 SBg-
10. Rudolph von Jhering (1818-1892), giurista c filosofo del diritto tedesco, autore
di Der Geist des ròmischen Rechts (1852-65), di Der Kampf ums Recht (1872), di Der
Zweck im Recht (1877-84) c di numerose altre opere, alcune delle quali pubblicate po-
stume, diede un contributo fondamentale alla considerazione storico-istituzionale del
diritto c, in particolare, all'analisi del diritto romano.
WILHELM DILTHEY 113
scienze dello spirito troverà nelle opere enciclopediche uno
sguardo d’insieme sui singoli gruppi importanti di queste scien-
ze?.
Vari tentativi — che vanno al di là di queste funzioni — di
scoprire la struttura complessiva delle scienze che hanno per
oggetto la realtà storico-sociale hanno preso le mosse dalla filo-
sofia. In quanto cercavano di derivare questa connessione da
princìpi metafisici, essi sono ricaduti nel destino che tocca a
ogni metafisica. Già Bacone si servì di un metodo migliore,
ponendo le scienze dello spirito allora esistenti in relazio-
ne con il problema di una conoscenza della realtà sulla base
dell’esperienza, e commisurò a questo compito le loro funzioni
e i loro difetti. Comenio" si propose, con la sua « panso-
fia», di derivare dal rapporto di reciproca dipendenza interna
delle verità la successione di gradi in cui esse devono presen-
tarsi nell’insegnamento; e poiché in tal modo, opponendosi al
falso concetto di una istruzione formale, scoprì il principio
fondamentale di un’educazione futura (purtroppo al di là da
venire ancor oggi), con il principio della dipendenza reciproca
delle verità preparò anche una struttura appropriata delle scien-
ze. Comte, sottoponendo a indagine la relazione tra questo
rapporto logico di dipendenza in cui stanno tra loro le verità e
il rapporto storico di successione in cui esse compaiono, creò il
fondamento per un'autentica filosofia delle scienze. Egli consi-
a. Per uno sguardo d'insieme di questo tipo su particolari campi delle
scienze dello spirito, si rimanda alle seguenti enciclopedie: R. von MoHI,
Enzyklopidie der Staatswissenschaften, Tubingen, 1859, 2° ed. non rive-
duta 1873; 3* ed. 1881 (si veda inoltre la panoramica e la valutazione di
altre enciclopedie nella sua Geschichte und Literatur der Staatswissen-
schaften in Monographien dargestellt, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 111-46);
L. A. WarNnKONIG, /uristische EnzyKlopéidie oder organische Darstellung
der Rechtswissenschaft, Erlangen, 1853; F. E. D. ScHLErERMAcHER, Kurze
Darstellung des theologischen Studiums, Berlin, 1810, 2° ed. riveduta 1830;
A. Bòcgn, Enzyklopidie und Methodologie der philologischen Wissen-
schaften (a cura di E. Bratuschek), Leipzig, 1877.
11. Jan Amos Komensky, lat. Comenius (1592-1670), filosofo e pedagogista mora-
vo, autore della Didactica magna (1631) e di varie altre opere, appartenne alla comu-
nità dei Fratelli Boemi e fu coinvolto nelle guerre di religione, che lo costrinsero
all'esilio. Il suo pensiero, ispirato all'ideale della « pansofia », ha ispirato un largo
movimento di riforma educativa, in Germania e fuori.
8. STORICISMO TEDESCO.
114 WILHELM DILTHEY
derò la costituzione delle scienze delle realtà storico-sociali co-
me il fine del suo grande lavoro, e di fatto la sua opera diede
luogo a un forte movimento in questa direzione: John Stuart
Mill, Littré!”, Herbert Spencer hanno ripreso il problema
della connessione delle scienze storico-sociali®. Questi lavori
assicurano a colui che si introduca nelle scienze dello spirito
uno sguardo d'insieme di tipo completamente diverso da quello
che offre la sistematica degli studi professionali. Essi collocano
le scienze dello spirito nella connessione della conoscenza, ne
colgono il problema nel suo ambito complessivo e ne intrapren-
dono la soluzione entro una costruzione scientifica che com-
prende tutta la realtà storico-sociale. Però, pieni della smania
temeraria di costruzione scientifica oggi dominante in Inghilter-
ra e in Francia, privi dell’intimo sentimento della realtà sto-
rica che si forma solamente in base a una consuetudine plurien-
a. Uno sguardo d'insieme sui problemi delle scienze dello spirito, se-
condo la connessione interna in cui stanno tra loro in rapporto sotto il pro-
filo metodologico e in cui si può quindi ottenerne una coerente soluzione,
si trova abbozzata in A. Comte, Cours de philosophie positive, Paris, 1820-
42 (nei volumi IV-VI). Le sue opere successive, che contengono un punto
di vista modificato, non possono servire a questo scopo. Il più importante
abbozzo di sistema delle scienze ad esso opposto è quello di Herbert Spen-
cer. Al primo attacco a Comte (in Essays, prima serie, London, 1858) Spen-
cer faceva seguire un'esposizione più precisa in The Classification of the
Sciences, London, 1864 (cfr. la difesa di Comte in E. Lirtré, Auguste
Comte et la philosophie positive, Paris, 1863). Ma la più compiuta esposi-
zione del complesso delle scienze dello spirito è ora offerta dal suo System
of Synthetic Philosophy, del quale sono apparsi per primi, nel 1855, i Prin-
ciples of Psychology, e poi a partire dal ’76 i Principles of Sociology (in
relazione all'opera Descriptive Sociology); la parte conclusiva, i Principles
of Ethics — e Spencer stesso dichiara di «ritenerli quelli per cui tutti
i precedenti costituiscono soltanto il fondamento » — tratta nel primo vo-
lume, apparso nel 1879, i « fatti dell'etica » [The Data of Ethics, London,
1879]. Accanto a questo tentativo di delineare una teoria della realtà sto-
rico-sociale, merita ancora di essere menzionato quello di John Stuart Mill,
contenuto nel sesto libro di A System of Logic, Ratiocinative and Inductive,
London, 1851 (che tratta della logica delle scienze dello spirito o scienze
morali), e nello scritto August Comte and Positivism, London, 1866.
12. Maximilien-Paul-Emile Littré (1801-1881), scienziato e filosofo francese, fu al-
lievo e divulgatore del pensiero di Comte, a cui dedicò vari scritti; si distaccò tuttavia
dal maestro, rifiutando l'esito religioso della filosofia comtiana,
WILHELM DILTHEY 115
nale con questa realtà nella ricerca particolare, i positivisti non
hanno trovato quel punto di partenza per i loro lavori che
avrebbe dovuto corrispondere al loro principio della connessio-
ne delle scienze particolari. Essi avrebbero dovuto cominciare
il loro lavoro studiando l’architettonica dell'immenso edificio
delle scienze positive, continuamente ampliato da aggiunte,
sempre trasformato dall'interno, sorto a poco a poco attraverso
i millenni, renderlo comprensibile attraverso l’approfondimento
del suo piano di costruzione e così render giustizia — con
un’intuizione feconda per la ragione della storia — alla molte-
plicità di aspetti con cui si sono effettivamente sviluppate que-
ste scienze. Essi hanno invece innalzato un edificio provvisorio
che non è sostenibile più di quanto lo siano le temerarie specu-
lazioni di Schelling o di un Oken” sulla natura. È così accadu-
to che le filosofie dello spirito tedesche — sviluppate sulla base
di un principio metafisico — di Hegel, di Schleiermacher e del
tardo Schelling impieghino l’acquisizione delle scienze positive
dello spirito con una penetrazione più profonda dei lavori di
questi filosofi positivi.
Dall’approfondimento dei compiti delle scienze dello stato
hanno preso le mosse in Germania altri tentativi di fornire
una struttura comprensiva nel campo delle scienze dello spiri-
to, provocando però ovviamente un'unilateralità del punto di
vista ?.
Le scienze dello spirito non costituiscono un complesso for-
nito di una costituzione logica analoga alla struttura della cono-
a. Il punto di partenza è rappresentato dalle discussioni sul concetto
di società e sul compito delle scienze sociali, nelle quali si è cercata un'in-
tegrazione alle scienze dello stato. La spinta è stata data da L. von STEIN,
Der Sozialismus und Communismus des heutigen Frankreichs, Leipzig, 2°
ed. 1848, e da R. von Mont, Gesellschafts-Wissenschaften und Staats-Wis-
senschaften, « Zeitschrift fr die gesamte Staatswissenschaft », VII, 1851,
PP. 3-71, ripreso nella sua Geschichte und Literatur der Staatswissenschaf-
ten, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 67-110. Indichiamo come particolarmente
rilevanti due tentativi di articolazione, cioè quelli di L. von STEIN, System
der Staatswissenschaft, Stuttgart, 1852-56, e di A. ScHarrLe, Bau und Leben
des sozialen Kòrpers, Tùbingen, 1875-78.
13. Lorenz Oken (1779-1851), naturalista, autore di numerose opere di filosofia
della natura che si ispirano all’organicismo schellinghiano.
116 WILHELM DILTHEY
scenza naturale. La loro connessione si è sviluppata diversamen-
te e deve quindi essere considerata ora così come è storicamen-
te cresciuta.
IV. IL MATERIALE DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO
Il materiale di queste scienze è costituito dalla realtà storico-'
sociale in quanto essa è conservata nella coscienza dell’umanità
come un insieme di conoscenze storiche, ed è stata resa accessi-
bile alla scienza sotto forma di una conoscenza sociale che va
al di là della situazione attuale. Per quanto sterminato sia
questo materiale, salta tuttavia agli occhi la sua incompiutezza.
Interessi in nessun modo corrispondenti all'esigenza della scien-
za e condizionati dalla tradizione — pure privi di qualsiasi
relazione con quest’esigenza — hanno determinato lo stato del-
la nostra conoscenza storica. Fin dall'epoca in cui, raccolti
intorno al fuoco dell’accampamento, i compagni di tribù e
d’arme narravano le gesta dei loro eroi e l’origine divina della
loro stirpe, il forte interesse della vita in comune ha salvato e
conservato alcuni fatti dall’oscuro fluire della vita umana abi-
tuale. L'interesse dell’epoca successiva e la vicenda storica han-
no deciso che cosa di questi fatti dovesse giungere fino a
noi. La storiografia come libera arte espositiva accoglie una
parte di questo sterminato complesso, cioè quella che appare
fornita di interesse da un qualche punto vista. Ne consegue che
la società odierna vive, per così dire, sugli strati e sulle rovine
del passato; i precipitati del lavoro culturale presenti nel lin-
guaggio e nella superstizione, nel costume e nel diritto, come
pure nelle trasformazioni materiali che vanno oltre le testimo-
nianze, contengono tutti una tradizione che sorregge le testimo-
nianze in modo inestimabile. Anche per la loro conservazione
ha deciso la mano della vicenda storica. Soltanto in due punti
si trova uno stato del materiale che corrisponde alle esigenze
della scienza. Il corso dei movimenti spirituali nell'Europa mo-
derna è conservato con sufficiente compiutezza negli scritti che
ne sono parte costitutiva. Così pure i lavori della statistica
consentono — per il breve periodo e il ristretto ambito di paesi
WILHELM DILTHEY II7
in cui sono stati applicati — di gettare uno sguardo numerica-
mente fondato nei fatti della società che quei lavori accolgo-
no: essi permettono di fornire alla conoscenza dello stato attua-
le della società un fondamento esatto.
L’impossibilità di penetrare nella connessione di questo ma-
teriale sterminato conduce a tale lacunosità; anzi ha contri-
buito non poco a rafforzarla. Non appena lo spirito umano
cominciò a sottoporre la realtà ai suoi principi, esso si rivolse
anzitutto, preso dallo stupore, al cielo; questa vòlta al di sopra
di noi, che sembra poggiare sul cerchio dell’orizzonte, lo occu-
pò tutto: una totalità spaziale in sé conclusa che sempre e
dovunque avvolge gli uomini. Così l’orientamento nell'edificio
del mondo fu il punto di partenza della ricerca scientifica, nei
paesi orientali come in Europa. Il cosmo dei fatti spirituali
non si offre invece alla vista nella sua immensità, ma si offre
soltanto allo spirito raccoglitore del ricercatore; esso emerge in
alcune parti singole, dove uno studioso collega dei fatti, li
esamina e li accerta: allora esso si costituisce nell’interiorità
dell'animo. Un vaglio critico delle tradizioni, l'accertamento
dei fatti e la loro raccolta costituiscono quindi un primo lavoro
comprensivo delle scienze dello spirito. Dopo che la filologia
elaborò una tecnica esemplare sulla materia più difficile e bella
della storia, l’antichità, questo lavoro in parte viene condotto
in innumerevoli ricerche particolari, in parte viene a costituire
un elemento di indagini ulteriori. La connessione di questa
pura descrizione della realtà storico-sociale — in quanto si
propone, sulla base della fisica della terra, con l'ausilio della
geografia, di descrivere la distribuzione dell’elemento spirituale
e delle sue differenze sulla terra, nel tempo e nello spazio —
può acquistare la sua capacità di penetrazione sempre soltanto
se la riconduce a chiare misure spaziali, a rapporti numerici, a
determinazioni temporali, con strumenti di rappresentazione
grafica. La semplice raccolta e il semplice vaglio del materiale
si trasformano qui gradualmente in una sua elaborazione e
articolazione concettuale. °
118 WILHELM DILTHEY
V. LE TRE CLASSI DI ASSERZIONI PRESENTI NELLE SCIENZE DELLO
SPIRITO
Le scienze dello spirito, così come esse sono e operano, in
virtù della ragione immanente che agisce nella loro storia —
non già nel modo che desiderano alcuni architetti temerari, i
quali vorrebbero costruirle su nuova base — congiungono in sé
tre distinte classi di asserzioni. Le asserzioni della prima classe
esprimono un reale che è dato nella percezione: esse contengo-
no l’elemento storico della conoscenza. Le asserzioni della se-
conda classe enunciano il comportamento uniforme delle parti
di questa realtà, isolate mediante un’astrazione: esse formano
l'elemento teorico di essa. Le asserzioni dell’ultima classe espri-
mono giudizi di valore e prescrivono regole: in esse è racchiu-
so l'elemento pratico delle scienze dello spirito. Fatti, teoremi,
giudizi di valore e regole — da queste tre classi di proposizioni
sono costituite le scienze dello spirito. E la relazione tra orienta-
mento storico, orientamento teorico astratto e orientamento pra-
tico si presenta come un rapporto fondamentalmente comune a
tutte queste discipline. La comprensione del singolare, dell’indi-
viduale rappresenta in esse uno scopo ultimo — e in ciò esse
sono la costante confutazione del principio spinoziano omnis
determinatio est negatio — al pari della formulazione di unifor-
mità astratte. Dalla sua prima radice nella coscienza fino alla
vetta suprema, la connessione dei giudizi di valore e degli
imperativi è indipendente dalla connessione delle prime due
classi. La relazione reciproca di questi tre compiti nella
scienza pensante può essere sviluppata soltanto nel corso di
un'analisi di teoria della conoscenza (o, in senso più ampio,
dell’auto-riflessione). In ogni caso le osservazioni concernenti la
realtà rimangono separate dai giudizi di valore e dagli imperati-
vi anche alla radice: sorgono così due tipi di proposizioni, che
sono distinte in linea di principio. Al tempo stesso si deve
riconoscere che questa distinzione all’interno delle scienze dello
spirito ha come conseguenza una loro duplice connessione. Una
volta sviluppate, le scienze dello spirito contengono, accanto
alla conoscenza di ciò che è, la coscienza della connessione dei
giudizi di valore e degli imperativi, nella quale si congiungono
WILHELM DILTHEY 119
valori, ideali, regole, nonché la tendenza alla formazione del
futuro. Un giudizio politico che respinge un'istituzione non è
né vero né falso, ma è giusto o ingiusto, in quanto se ne
valuta la tendenza, il fine; vero o falso può essere invece un
giudizio politico che illustri le relazioni di questa istituzione
con altre istituzioni. Soltanto se si assume questa prospettiva
per interpretare la proposizione, l’asserzione, il giudizio, si
può fondare una teoria della conoscenza che non comprima la
realtà oggettiva delle scienze dello spirito nei limiti ristretti di
una conoscenza di uniformità, secondo l’analogia con le scienze
della natura, venendo pertanto a mutilarle, ma che le compren-
da e dia loro un fondamento così com’esse si sono sviluppate.
VI. LA DISTINZIONE DELLE SCIENZE PARTICOLARI IN BASE ALLA
REALTÀ STORICO-SOCIALE
Gli scopi delle scienze dello spirito — cogliere l’aspetto sin-
golare e individuale delle realtà storico-sociale, conoscere le uni-
formità operanti della sua formazione, determinare fini e rego-
le per il suo ulteriore sviluppo — possono essere conseguiti
soltanto mediante gli strumenti del pensiero, cioè mediante
l’analisi e l’astrazione. L'espressione astratta in cui si prescinde
da determinati aspetti della situazione, mentre se ne sviluppano
altri, non è il fine ultimo esclusivo di queste scienze, ma è il
loro mezzo indispensabile. Come il conoscere che procede per
astrazione non può risolvere in sé l’autonomia degli altri scopi
di queste scienze, così né la conoscenza storica né quella teori-
ca né lo sviluppo delle regole che dirigono di fatto la società
possono far a meno di tale conoscere. La disputa tra la scuola
storica e la scuola astratta è sorta in quanto la scuola astratta
ha commesso il primo di questi errori, e la scuola storica l’al-
tro. Ogni scienza particolare sorge soltanto mediante l’artificio
dell'isolamento di una parte dall’insieme della realtà storico-so-
ciale. La storia prescinde da quei caratteri della vita di un
particolare uomo o di una particolare società che si presentano
identici, nell’epoca da essa indagata, con quelli di tutte le altre
epoche; il suo sguardo è diretto a quel che c’è di distintivo e di
singolare. In ciò il singolo storico può ingannarsi, in quanto da
120 WILHELM DILTHEY
tale direzione del suo sguardo già deriva la selezione di certi
aspetti nelle sue fonti; ma chi mette a confronto il procedimen-
to effettivo dello storico con il complesso della realtà storico-so-
ciale, dovrà ben riconoscerlo. Da ciò deriva l'importante princi-
pio che ogni scienza particolare dello spirito conosce la realtà
storico-sociale solo relativamente, in quanto ha coscienza della
propria relazione con le altre scienze dello spirito. L’organizza-
zione di queste scienze e il loro corretto sviluppo nella loro
particolarità dipendono pertanto dalla capacità di tener presen-
te la relazione di ognuna delle loro verità con il complesso
della realtà della quale fanno parte, nonché della costante con-
sapevolezza dell’astrazione in virtù della quale queste verità
sussistono e del limitato valore conoscitivo che ad esse spetta a
causa di questo loro carattere astratto.
LA COSTRUZIONE DEL MONDO STORICO
NELLE SCIENZE DELLO SPIRITO *
Tre diversi compiti deve assolvere la fondazione delle scien-
ze dello spirito. Essa determina il carattere generale della con-
nessione in cui, sulla base del dato, sorge in questo campo un
sapere universalmente valido: si tratta qui della struttura logi-
ca generale delle scienze dello spirito. Occorre poi illustrare la
costruzione del mondo spirituale nei suoi campi particolari,
quale avviene nelle scienze dello spirito attraverso l’intreccio
delle loro operazioni. Questo è il secondo compito, e nel corso
della sua soluzione verrà gradualmente in luce, per astrazione
dal loro stesso procedimento, la dottrina del metodo delle scien-
ze dello spirito. Infine si cercherà quale sia il valore conosci-
tivo di queste operazioni delle scienze dello spirito e in quale
misura sia possibile, mediante la loro cooperazione, un sapere
oggettivo intorno ai fenomeni spirituali.
Tra questi due ultimi compiti c'è una stretta connessione
interna. La distinzione delle varie operazioni rende possibile
provarne il valore conoscitivo, e questo esame mostra in quale
misura sia possibile, in virtù di esse, tradurre in sapere la
realtà che è oggetto delle scienze dello spirito e la connessione
reale in essa sussistente: in tale maniera si otterrà un fonda-
mento autonomo della conoscenza per il nostro campo, mentre
* Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, parte III:
Allgemeine Sitze fiber den Zusammenhang der Geisteswissenschaften, « Abhandlungen
der kSniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften » (Philosophisch-historische
Classe), 1910, pp. 49-123, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII,
1927, pp. 120-188 (La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, tr. it.
di Pietro Rossi, in Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, pp. 200-289).
122 WILHELM DILTHEY
si apre la possibilità di una connessione generale della teoria
della conoscenza, il cui punto di partenza risieda nelle scienze
dello spirito.
Il carattere generale della connessione nelle scienze dello
spirito è dunque il nostro prossimo problema. Il punto di
partenza è la dottrina della struttura dell’apprendimento ogget-
tivo in genere. Essa mostra in ogni apprendimento una linea
progressiva dal dato ai rapporti fondamentali della realtà, che
al di lù di quello si rivelano al pensiero concettuale. Le medesi-
me forme di pensiero e le medesime classi di operazioni di
pensiero, ad esse subordinate, rendono possibile la connessione
scientifica nelle scienze della natura e nelle scienze dello spiri-
to. Su questa base sorgono poi, nell’applicazione di quelle for-
me e di quelle operazioni di pensiero ai compiti particolari e
sotto le condizioni particolari delle scienze dello spirito, i meto-
di specifici di queste. E poiché i compiti delle scienze produco-
no i metodi di soluzione, i singoli procedimenti costituiscono
una connessione interna, condizionata dallo scopo del sapere.
SEZIONE I
L'APPRENDIMENTO OGGETTIVO
L'apprendimento oggettivo costituisce un sistema di relazio-
ni, nel quale sono contenuti percezioni ed Er/ebnisse, rappresen-
tazioni della memoria, giudizi, concetti, deduzioni, insieme al-
le loro forme composte. A tutte queste operazioni nel sistema del-
l'apprendimento oggettivo è comune la presenza in esse soltan-
to di relazioni di fatto: così nel sillogismo sono presenti soltan-
to i contenuti e le loro relazioni senza che lo accompagni
alcuna coscienza di operazioni di pensiero. Il procedimento che
suppone al di sotto del dato, come sue condizioni di coscienza,
singoli atti che vengono concepiti come corrispondenti alle rela-
zioni di fatto, derivando dalla loro cooperazione la realtà del-
l'apprendimento oggettivo, contiene un'ipotesi che non può
mai essere verificata.
WILHELM DILTHEY 123
I vari Erlebnisse entro questo apprendimento oggettivo so-
no elementi di una totalità determinata dalla connessione psi-
chica. In questa connessione psichica la conoscenza oggettiva
della realtà è la condizione per l’esatta constatazione dei valori
e per l’agire conforme allo scopo. Così il percepire, il rappresen-
tare, il giudicare, il dedurre sono operazioni che collaborano
nella teleologia della connessione dell’apprendimento, la quale
assume quindi il suo posto nella connessione della vita.
1. La prima operazione dell’apprendimento oggettivo sul da-
to eleva a coscienza distinta ciò che in esso è contenuto, senza
far subire un mutamento alla forma della datità. Io chiamo
primaria questa operazione, in quanto l’analisi che muove dal
pensiero discorsivo non ritrova nessuna operazione più sempli-
ce. Essa sta al di là del pensiero discorsivo, il quale è legato al
linguaggio e si svolge nei giudizi; poiché gli oggetti, su cui si
giudica, presuppongono già operazioni di pensiero.
Comincio qui con l’operazione della comparazione. Io trovo
il simile e il dissimile, concepisco gradi di distinzione. Davanti
a me stanno due foglioline di diverso colore grigio: si osserva la
diversità e il grado di diversità nel colore non in base a una
riflessione sul dato ma come un elemento di fatto, poiché il colo-
re stesso è uno stato di fatto. Del pari distinguo, nella mia espe-
rienza immediata, gradi di piacere, quando passo dal tocco di un
tono determinato e della sua ottava a una completa armonia. Que-
sta operazione di pensiero, con cui soltanto la logica ha che fare,
è semplice. E il suo risultato, in rapporto al suo valore di verità,
non è diverso dall’osservare un colore o un suono; qualcosa che
esiste diventa osservabile. Identità e differenza non sono qualità
delle cose come l’estensione o il colore: esse sorgono in quanto
l’unità psichica reca a coscienza rapporti che sono contenuti nel
dato. E poiché l’affermazione dell’identità e l'affermazione del-
la differenza trovano soltanto ciò che è dato, così come sono
dati l'estensione e il colore, esse costituiscono un analogo della
percezione stessa; ma in quanto creano concetti di rapporti
logici come quelli di identità, di differenza, di grado, di affini-
tà, contenuti nella percezione ma non dati in questa, esse appar-
tengono al pensiero. Sulla base della comparazione sorge un’al-
tra operazione. Quando separo due stati di fatto siamo di
124 WILHELM DILTHEY
fronte, dal punto di vista logico — e non si tratta affatto di
processi psicologici — a un'operazione di pensiero diversa dalla
distinzione. Nel dato sono contenuti separatamente due stati di
fatto, e viene colta la loro estraneità. Così in un bosco una voce
umana, il rumore del vento, il canto di un uccello vengono
colti non solo come distinti tra di loro, ma anche come una
pluralità. Quando un suono della stessa qualità, cioè della stes-
sa altezza, dello stesso timbro, della stessa intensità e della
stessa durata, ritorna una seconda volta in un altro punto del
corso temporale, in questa seconda operazione di pensiero sorge
la coscienza che il secondo suono è altro dal primo. Un ulterio-
re rapporto è concepito in un secondo caso di separazione. In
una foglia verde posso separare tra loro colore e forma, e
allora ciò che coerisce nell’unità dell’oggetto, e che non può
venir realmente separato, diventa tuttavia separabile idealmen-
te. Anche quando le condizioni preliminari di quest'operazione
di separazione sono molto complesse, l'operazione stessa è tutta-
via semplice. Essa è determinata, al pari della comparazione,
dal contenuto di fatto che reca a conoscenza.
E qui si apre la prospettiva sul processo di astrazione, così
importante per la costruzione della logica. La distinzione delle
membra di un corpo inerisce alla realtà concreta del corpo; in
ognuna delle sue parti è mantenuta questa realtà concreta, ma
quando estensione e colore vengono tra loro separati, e il pensie-
ro si rivolge al colore, allora da tale distinzione sorge l’operazio-
ne dell’astrazione: di ciò che è stato idealmente separato viene
posto in evidenza un aspetto.
L'unione di vari elementi distinti si può compiere solo sulla
base di una relazione tra questi vari elementi. Noi cogliamo il
rapporto spaziale tra stati di fatto distinti,o gli intervalli in
cui i processi si susseguono temporalmente. Anche questo colle-
gare e questo unire portano soltanto a coscienza rapporti che
già sussistono; ma ciò avviene mediante operazioni di pensiero
che hanno a base relazioni, come quelle di spazio e di tempo,
di fare e subire. Questo prendere insieme è la condizione per-
ché si costituisca l'intuizione del tempo. Quando il battito di
un orologio si succede varie volte, davanti a me sta soltanto il
susseguirsi di tali impressioni, ma solo prendendole insieme
diventa possibile comprendere questa successione. Questo pren-
WILHELM DILTHEY 125
dere insieme dà luogo al rapporto logico di una totalità con le
sue parti. Sulla base dei rapporti di separazione e della gradua-
le differenza delle relazioni contenute nel sistema di suoni
sorge, in questo collegamento, un complesso così condizionato
che viene però in luce soltanto nel collegamento stesso, e cioè
l'accordo o la melodia. Qui appare particolarmente chiaro co-
me il prendere insieme avviene entro ciò che è contenuto nel-
l’Erlebnis di percezione o di ricordo, e come tuttavia sorge in
esso qualcosa che non esisteva senza quel prendere insieme.
Noi ci troviamo qui ai limiti che conducono al di sopra della
constatazione di ciò che è contenuto in tali rapporti, nella
regione della libera fantasia.
Questi esempi — e non si tratta di nulla di più — dimostra-
no che le operazioni elementari del pensiero spiegazo il dato.
Precedendo il pensiero discorsivo, esse ne contengono le premes-
se, in quanto nella comparazione si preparano la formazione
dei giudizi e dei concetti generali e il procedimento comparati-
vo, nella separazione le astrazioni e il procedimento analitico,
e infine nelle relazioni ogni specie di operazioni sintetiche.
Così un’interna connessione fondante va dalle operazioni ele-
mentari di pensiero al pensiero discorsivo, dall’apprendimento
del contenuto di fatto degli oggetti ai giudizi su di essi.
Ciò che è percepito sensibilmente o immediatamente vissuto
trapassa, a un ulteriore grado di coscienza, nella rappresentazione
della memoria. In essa si compie un'ulteriore operazione del-
l'apprendimento oggettivo, a cui corrisponde un particolare rap-
porto della nuova formazione con il suo fondamento. Questo
rapporto della rappresentazione della memoria con il contenuto
dell’apprendimento sensibile e dell’Erlebnis è un rapporto di
riproduzione. Infatti la libera mobilità delle rappresentazioni
è, nel campo dell’apprendimento oggettivo, limitata dall’inten-
zione di adeguarsi alla realtà e tutti i modi di formazione
delle rappresentazioni sono determinati da questo orientamen-
to verso la realtà. In esso sorgono rappresentazioni totali e
rappresentazioni generali, preparando un nuovo grado della co-
scienza.
Questo nuovo grado viene alla luce nel pensiero discorsivo:
il rapporto di riproduzione cede qui il posto a un’altra relazio-
ne entro l'apprendimento oggettivo.
126 WILHELM DILTHEY
Il pensiero discorsivo è legato all’espressione, in primo luo-
go al linguaggio. In ciò consiste la relazione dell’espressione
con ciò che è espresso, mediante la quale sorgono forme
linguistiche sulla base dei movimenti degli organi linguistici e
delle rappresentazioni dei loro prodotti. La relazione con ciò
che in esse viene espresso costituisce la loro funzione: esse han-
no un significato come elementi della proposizione, mentre la
proposizione medesima ha un senso. La direzione dell’apprendi-
mento va dalla parola e dalla proposizione all'oggetto che esse
esprimono: in tal modo sorge la relazione tra Gi proposizione
grammaticale, o l’espressione effettuata mediante altri segni, e
il giudizio che produce tutte le parti del pensiero discorsivo.
Qual è ora il rapporto tra il dato o il contenuto rappresenta-
tivo, condizionato dalle precedenti operazioni degli Erlebnisse
di apprendimento, e il giudizio? In questo uno stato di fatto
viene predicato di un oggetto: da ciò deriva che non si può qui
parlare di una riproduzione del dato o del contenuto rappresen-
tativo. Dalla connessione di pensiero procedo alla determinazio-
ne positiva del rapporto. Ogni giudizio è analiticamente conte-
nuto in essa, e viene inteso come suo elemento. Nella connessio-
ne dell’apprendimento oggettivo ogni sua parte si riferisce, per
il tramite della connessione in cui è inserito, al fatto di essere
contenuto nella realtà. Questa è infatti la regola suprema a cui
sottostà ogni giudizio: esso deve essere contenuto nel dato se-
condo le leggi formali del pensiero e secondo le forme del
pensiero. Anche giudizi che esprimono qualità o azioni di Zeus
o di Amleto sono riferiti nella connessione del pensiero a
un dato.
Così tra il giudizio e le forme finora illustrate dell’apprendi-
mento oggettivo sorge un nuovo rapporto, il quale mostra due
aspetti. Questa duplicità è determinata dal fatto che il giudizio
da una parte è fondato nel dato, ma dall'altra rende esplicito
ciò che in questo è contenuto solo implicitamente, ma in forma
esplicitabile. Nella prima relazione sorge il rapporto di rappre-
sentazione: il giudizio rappresenta per mezzo di contenuti di
fatto, racchiusi nel dato, elementi del pensiero che soddisfano
le esigenze di costanza, chiarezza, distinzione, legame stabile
con i segni verbali che sono inerenti al sapere. D'altro lato, i
giudizi realizzano l’intenzione dell’apprendimento oggettivo di
WILHELM DILTHEY 127
avvicinarsi dal condizionato, dal particolare e dal mutevole ai
rapporti fondamentali della realtà.
Il rapporto di rappresentazione si estende all’intera connes-
sione del pensiero discorsivo entro l'apprendimento oggettivo,
in quanto questo si compie mediante il giudicare. Il dato nella
sua concreta intuitività e il mondo di rappresentazioni che lo
riproduce sono in ogni forma del pensiero discorsivo rappresen-
tati da un sistema di relazioni tra elementi stabili del pensiero.
E a ciò corrisponde, nella direzione inversa, che quando si
ritorna all’oggetto questo conferma e verifica, nella pienezza
della sua esistenza intuitiva, il giudizio o il concetto. Proprio
per le scienze dello spirito è particolarmente importante che
l’intera freschezza e l’intera forza dell’Er/ebris ritornino poi
direttamente, o nella direzione dall’intendere all'Erleden. Il rap-
porto di rappresentazione implica che, in determinati limiti,
il dato e il pensato discorsivo siano scambiabili.
Se si sottopone ad analisi la connessione del pensiero discor-
sivo, si presentano in questa dei modi di relazione, i quali
ritornano regolarmente prescindendo dal mutamento dei conte-
nuti del pensiero e sussistono al tempo stesso in ogni luogo
della connessione del pensiero, nonché in rapporto interno tra
di loro; tali forme del pensiero sono il giudizio, il concet-
to e il sillogismo, che si presentano in ogni parte della connes-
sione del pensiero discorsivo e formano la sua intelaiatura. Ma
anche le classi di operazioni del pensiero discorsivo, subordina-
te a queste forme elementari — la comparazione, l'analogia,
l’induzione, la partizione, la definizione, e infine la connessio-
ne fondante — sono indipendenti dalla delimitazione dei singo-
li campi del pensiero, in particolare dalla reciproca delimitazio-
ne delle scienze della natura e delle scienze dello spirito. Esse
si distinguono secondo i compiti dell’intera connessione del
pensiero, che la realtà pone secondo i suoi rapporti generali,
mentre sono le forme particolari del metodo a esser condiziona-
te dalle qualità dei singoli campi.
Alla regolarità di queste forme corrisponde la validità del
loro lavoro concettuale, e di questa acquistiamo certezza me-
diante la coscienza dell’evidenza. E le qualità più generali a
cui è legata la validità di queste diverse forme, indipendente
dal mutare degli oggetti e costante nel venire e nell’andare
128 WILHELM DILTHEY
degli Erlebnisse di pensiero e dei loro soggetti, si esprimono
nelle leggi del pensiero. Noi non abbiamo bisogno di superare
il rapporto di rappresentazione, quando passiamo dai giudizi
di realtà ai giudizi necessari. Un assioma di geometria è neces-
sario in quanto esso esprime i rapporti fondamentali ovunque
constatabili con l’analisi dell’intuizione spaziale, e del pari il
carattere di necessità delle leggi del pensiero è abbastanza spie-
gato dal fatto che esse sono ovunque contenute analiticamente
nella connessione del pensiero.
Un metodo scientifico sorge in quanto le forme e le operazio-
ne generali del pensiero vengono collegate in un tutto compo-
sto mediante lo scopo racchiuso nella soluzione di un determi-
nato compito scientifico. Se si presentano problemi simili a
questo compito, allora il metodo applicato a un campo limitato
si rivelerà fecondo anche per un campo più ampio. Spesso un
metodo, nello spirito del suo scopritore, non è ancora legato
alla coscienza del carattere logico e della portata che lo carat-
terizzano: questa coscienza sorge soltanto in seguito. Essendosi il
concetto di metodo sviluppato per secoli particolarmente nell’u-
so linguistico dello studioso della natura, anche il procedimen-
to che tratta una questione di dettaglio, ed è quindi assai più
complesso, può venir designato come metodo. Quando si apro-
no differenti vie per la soluzione dello stesso problema, esse
vengono differenziate come metodi diversi. Dove le forme di
procedere di uno spirito mostrano qualità comuni, la storia
delle scienze parla di un metodo di Cuvier! nella paleontolo-
gia o di un metodo di Niebuhr? nella critica storica. Con la
dottrina del metodo entriamo nel campo in cui comincia a farsi
valere il carattere particolare delle scienze dello spirito.
1. Gcorges-Léopold-Chrétien-Frédéric Dagobert barone di Cuvier (1769-1832), na-
turalista frapcese, autore del Tableau élfmentaire de l'histoire naturelle (1798), delle
Legons d’anatomie comparée (1800), delle Recherches sur les ossements fossiles des qua-
drupèdes (1812), de Le règne animal distribué après son organisation (1817) e di nume-
rose altre opere, si dedicò a studi di zoologia, con particolare riguardo all'analisi della
struttura dci molluschi e dei pesci, e di paleontologia. Le sue indagini hanno aperto la
strada all'esplorazione degli animali fossili.
2. Barthold Georg Niebuhr (1776-1831), storico tedesco, autore di una fondamen-
tale Rémische Geschichte (1811-32), impostò la propria analisi del mondo antico sulla
base di una critica sistematica delle fonti; il suo « scetticismo » mise capo a una radi-
cale svalutazione delle testimonianze antiche sulla storia romana.
WILHELM DILTHEY 129
Tutti gli Erlebnisse dell’apprendimento oggettivo sono, en-
tro la sua connessione teleologica, diretti alla penetrazione di
ciò che è, vale a dire della realtà. Il sapere forma una graduali-
tà di operazioni: il dato è spiegato nelle operazioni elementari
del pensiero, riprodotto nelle rappresentazioni, tradotto nel pen-
siero discorsivo e così rappresentato in differenti modi. Perciò
la spiegazione del dato mediante le operazioni elementari del
pensiero, la riproduzione nella rappresentazione rammemorata
e la traduzione nel pensiero discorsivo possono venir racchiuse
entro il più ampio concetto di rappresentazione. Tempo e ricor-
do liberano l'apprendimento della dipendenza dal dato e com-
piono una scelta di ciò che è significativo per l’apprendimen-
to; il particolare viene sottoposto agli scopi dell’apprendi-
mento della realtà mediante la relazione col tutto e mediante
la subordinazione sotto il generale; la mutabilità del dato intui-
tivo viene elevata a rappresentazione universalmente valida in
una relazione concettuale; mediante l’astrazione e il procedi-
mento analitico il concreto viene inserito in serie uniformi che
consentono asserzioni di regolarità, oppure penetrato nella sua
articolazione attraverso un’opera di suddivisione. L’apprendi-
mento tende così a esaurire sempre di più ciò che ci è accessibile
nel dato.
2. In due direzioni sono logicamente collegati gli Er/ebnisse
che appartengono all’apprendimento oggettivo: nell’una gli Er-
lebnisse sono in rapporto tra loro in quanto, come gradi nell’ap-
prendimento del medesimo oggetto, cercano di esaurire me-
diante esso ciò che è contenuto nell’Erlebez o nell’intuire, e
nell'altra l'apprendimento collega un elemento di fatto con l’al-
tro mediante le relazioni reciproche che vengono colte. Là si
ha un approfondimento nell’oggetto particolare e qui un’esten-
sione universale: approfondimento ed estensione che sono in
dipendenza reciproca.
Intuizione, ricordo, rappresentazione totale, denominazione,
giudizio, subordinazione del particolare all’universale, collega-
mento delle parti in un tutto — queste sono forme dell’appren-
dimento: senza che l’oggetto debba mutare, cambia il modo e
la forma di coscienza in cui esso esiste per noi, quando si
passa dall'intuizione al ricordo o al giudizio. La direzione ver-
9. STORICISMO TEDESCO,
130 WILHELM DILTHEY
so lo stesso oggetto, che è loro comune, le collega in una
connessione teleologica, in cui hanno posto solo quegli Erlebnis-
se che compiono qualche operazione nella tendenza a cogliere
questo determinato elemento oggettivo. Questo carattere teleolo-
gico della connessione, che qui si presenta, condiziona il passag-
gio da un elemento all’altro entro di essa. E finché l’Erlebnis
non è pienamente esaurito, o l’oggettività data parzialmente e
unilateralmente nelle intuizioni particolari non è ancora perve-
nuta a pieno apprendimento e a compiuta espressione, vi è
sempre un clemento di insoddisfazione, e questo esige che si
proceda oltre. Le percezioni che riguardano lo stesso oggetto
sono tra loro legate in una connessione teleologica, in quanto
procedono riferendosi al medesimo oggetto. Così una particola-
re osservazione sensibile ne richiede sempre più altre, che ven-
gono a completare l'apprendimento dell’oggetto; e in questo
processo di completamento si esige già il ricordo, come ulterio-
re forma di apprendimento. Esso sta, entro la connessione del-
l'apprendimento oggettivo, in un saldo rapporto con il fonda-
mento intuitivo, in maniera che ha la funzione di riprodurre,
ricordare e mantenere così utilizzabile questo fondamento per
l'apprendimento oggettivo. Qui appare assai chiaramente la di-
stinzione tra l'apprendimento dell’Erlebris della memoria che
studia il processo che sta a base di esso nelle sue uniformità, e
la nostra considerazione della memoria secondo la sua funzione
nella connessione dell’apprendimento, per cui esso riproduce
ciò che è immediatamente vissuto o appreso. La memoria può
accogliere in sé, sotto un’impressione o sotto l'influenza
di uno stato d'animo, molteplici contenuti distinti dal loro fon-
damento, e proprio qui hanno la loro origine le immagini
estetiche della fantasia: ma la memoria presente in tale connes-
sione teleologica, basata sulla penetrazione dell’oggetto, possie-
de la tendenza verso l’identità con il contenuto intuitivo o
vissuto dell’apprendimento oggettivo. E che la memoria abbia
compiuto la sua funzione nell’apprendimento oggettivo risulta
dalla possibilità di constatare la sua somiglianza con il fonda-
mento percettivo dell’apprendimento. In questa tendenza degli
Erlebnisse conoscitivi verso un oggetto particolare è già presen-
te il procedere verso qualcosa di sempre nuovo. I mutamenti
nell’oggetto mostrano la connessione dinamica in cui esso si
WILHELM DILTHEY 13I
trova, e, in quanto il contenuto di fatto può venir spiegato
solo mediante nomi, concetti, giudizi, è richiesto un ulteriore
passaggio dall’intuizione particolare all’universale. A questa
tendenza verso la totalità, l’elemento attivo, l’universale, corri-
sponde il procedere delle relazioni rintracciabili nel singolo og-
getto a quelle che hanno luogo in più grandi connessioni ogget-
tive. In tal modo la prima tendenza delle relazioni conduce
alla seconda.
Nella prima tendenza erano tra loro collegati quegli Erleb-
nisse di apprendimento che tendono a cogliere in maniera sem-
pre più adeguata lo stesso oggetto mediante diverse forme di
rappresentazione. Nella seconda sono invece collegati gli Er/eb-
nisse che si estendono a sempre nuovi oggetti e penetrano le
loro relazioni reciproche, sia nella stessa forma di apprendimen-
to sia attraverso l’unione di diverse sue forme. Sorgono così
rapporti complessi, i quali risultano particolarmente chiari nei
sistemi omogenei, che rappresentano cioè rapporti di spazio, di
suono o di numero ®. Ogni scienza si riferisce a un’oggettività
suscettibile di delimitazione, in cui risiede la sua unità, e la
connessione del campo scientifico dà ai principi che esso rac-
chiude la loro coerenza reciproca. Il completamento di tutte le
relazioni contenute in ciò che è immediatamente vissuto o intui-
to costituirebbe il concetto di mondo: in esso è racchiusa la
pretesa di esprimere tutto ciò che può venir immediatamente
vissuto o intuito mediante la connessione delle relazioni di
fatto in esso racchiuse. Questo concetto di mondo è l’esplicazio-
ne che è data anzitutto nell'orizzonte spaziale.
Spiegazione, riproduzione e rappresentazione sono gradi del-
la relazione col dato, in cui l’apprendimento oggettivo si ap-
prossima al concetto di mondo. Essi sono gradi, poiché in ognu-
na di queste posizioni dell’apprendimento oggettivo quella pre-
cedente costituisce la base di quella successiva.
a. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, « Sitz-
ungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften »,
1894, p. 1352 (ora in Gesammelte Schriften, vol. V, p. 132].
b. Qui lo sguardo si dirige anche al compito logico di riduzione delle
forme del pensiero discorsivo a forme di espressione dei rapporti presenti
nel dato, così come vengono posti in luce dalle operazioni elementari del
pensiero. Dai fatti contenuti nel campo dell’apprendimento sensibile noi
132 WILHELM DILTHEY
Sezione II
LA STRUTTURA DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO
Allorché questa connessione dell’apprendimento oggettivo
sottostà alle condizioni contenute nelle scienze dello spirito,
viene a delinearsi la particolare struttura di tali discipline.
Sulla base delle forme e delle operazioni generali del pensiero
si fanno qui valere compiti specifici, che trovano la loro solu-
zione nell’intreccio di metodi propri.
Nell’elaborazione di queste forme di procedimento le scien-
ze dello spirito sono state ovunque influenzate dalle scienze
della natura; e poiché queste hanno elaborato prima i loro
metodi, si è avuto in larga misura un adattamento di essi ai
compiti delle scienze dello spirito. In due punti ciò risulta
particolarmente evidente: nella biologia sono stati scoperti per
siamo condotti a considerare l’immanenza dell'ordine entro la materia del-
la nostra esperienza sensibile, e la distinzione della materia delle impres-
sioni dalle forme di collegamento si rivela un mero strumento di astra-
zione. Il principio di identità dice che ogni proposizione vale indipenden-
temente dal posto mutevole che essa occupa entro la connessione del pen-
siero e dal mutamento che avviene nei soggetti delle asserzioni; e il prin-
cipio di contraddizione ha a suo fondamento quello di identità. In questo
al principio di identità si aggiunge la negazione, che è soltanto il rifiuto
di un'assunzione che si presenta in noi o al di fuori di noi, e si riferisce
sempre a un’asserzione già formulata, sia questa contenuta in un atto co-
sciente del pensiero o in un'altra forma. Il principio di identità esige per
la proposizione una validità costante; e perciò viene esclusa l'eliminazione
di tale proposizione. Noi non possiamo al tempo stesso affermarla e ne-
garla, in quanto viene alla coscienza il rapporto di contraddizione. E
quando dichiaro falso il giudizio negativo, io rifiuto di eliminare la pro-
posizione, e ne risulta confermata l’'asserzione affermativa: il principio
del terzo escluso esprime questo fatto. Così le leggi del pensiero non de-
signano alcuna condizione aprioristica per il nostro pensiero; e i rapporti
racchiusi nella comparazione, nella separazione, nell’astrazione, nella re-
lazione, si ritrovano poi nelle operazioni del pensiero discorsivo e nelle
categorie formali, di cui si parlerà poi. Non è necessario ritenere che il
giudizio presupponga il subentrare del rapporto categoriale tra cosa e
qualità, poiché questo può venir inteso in base alla relazione tra l'ogget-
to e ciò che da esso è predicato.
WILHELM DILTHEY 133
la prima volta i metodi comparativi poi sempre maggiormente
applicati alle scienze sistematiche dello spirito, e i metodi speri-
mentali elaborati dall’astronomia e dalla fisiologia sono stati
trasferiti alla psicologia, all'estetica e alla pedagogia. Anche
oggi, nello sforzo di soluzione di compiti particolari, lo studio-
so di psicologia di pedagogia, di linguistica o di estetica si
chiederà spesso se i mezzi e i metodi scoperti nelle scienze
della natura per la soluzione di problemi analoghi possano
venir sfruttati nel proprio campo.
Ma, nonostante tali punti particolari di contatto, la connes-
sione delle forme di procedimento delle scienze dello spirito è,
fin dal suo inizio, diversa dalla connessione delle scienze della
natura.
I. LA VITA E LE SCIENZE DELLO SPIRITO
Qui vengono considerati soltanto i principi generali necessa-
ri per la penetrazione della connessione delle scienze dello spiri-
to, mentre la trattazione dei metodi appartiene allo studio della
costruzione delle scienze dello spirito. Due spiegazioni termino-
logiche devono essere qui anticipate: per unità della vita psichi-
ca intendo gli elementi del mondo storico-sociale, e con struttu-
ra psichica designo la connessione in cui, nelle unità della
Vita psichica, sono tra loro legate diverse operazioni.
1. La vita.
Le scienze dello spirito poggiano sul rapporto di Erledn:s,
espressione e intendere. Così il loro sviluppo dipende sia dal-
l’approfondimento degli Erlebnisse sia dalla crescente tendenza
all'esaurimento del loro contenuto, ed è nel medesimo tempo
condizionato dall’estensione dell’intendere all'intera oggettiva
zione dello spirito e dalla capacità di cogliere in modo sempre
più compiuto e metodico il contenuto spirituale delle diverse
manifestazioni della vita.
Il complesso di ciò che ci si rivela nell’Erleden e nell’inten-
dere è la vita come connessione che comprende il genere uma-
no. E quando per la prima volta ci troviamo di fronte a que-
134 WILHELM DILTHEY
sto grande fatto, che per noi è il punto di partenza non soltan-
to delle scienze dello spirito ma anche della filosofia, occorre
andar oltre la sua elaborazione scientifica e penetrare il fatto
stesso nella sua costituzione grezza.
Infatti, dove la vita ci si presenta come uno stato di fatto
proprio del mondo umano, noi incontriamo le sue determinazio-
ni nelle varie unità della vita; incontriamo rapporti vitali, pre-
sa di posizione, l’atteggiamento, la creazione effettuata sulle
cose e sugli uomini e la sofferenza che ne deriva. Nello sfondo
permanente da cui emergono le operazioni differenziate, non
c'è nulla che non contenga un rapporto vitale dell'io. Come
tutto ha qui una posizione di fronte ad esso, altrettanto viene
però a mutare la situazione dell’io secondo il rapporto che le
cose e gli uomini hanno con esso: non esistono nessun uomo e
nessuna cosa che siano soltanto oggetti per me, e che non
racchiudano una pressione o un vantaggio, il fine di una ten-
denza o un’obbligazione del volere, un'importanza, una prete-
sa di esser preso in considerazione, una vicinanza interna o
una resistenza, una distanza e una estraneità. Il rapporto vi-
tale, sia esso limitato a un dato momento o duraturo, fa sì che
tali uomini e tali oggetti mi rechino felicità, estendano la mia
esistenza, accrescano la mia forza, oppure vengano a limitare
in questo rapporto lo spazio della mia esistenza, a esercitare
una pressione su di me, a diminuire la mia forza. E ai predica-
ti che le cose acquistano soltanto nel rapporto vitale con me
corrisponde il mutare degli stati in me stesso che ne scaturisce.
Su questo sfondo della vita emergono poi l'apprendimento og-
gettivo, la valutazione, la posizione di scopi, come tipi di atteg-
giamento che hanno luogo in innumerevoli sfumature che pas-
sano l’una nell'altra: essi sono legati nel corso della vita in
interne connessioni, le quali comprendono e determinano ogni
occupazione e ogni sviluppo.
Se illustriamo ciò con il modo in cui il poeta lirico reca a
espressione l’Erlebnis, si vede che egli muove da una situazio-
ne e raffigura uomini e cose nel rapporto vitale con un io
ideale, in cui la sua esistenza e entro di essa il corso della sua
esperienza vengono accentuate nella fantasia; questo rapporto
di vita determina ciò che il vero lirico vede ed esprime degli
uomini e delle cose e di se stesso. Anche il poeta epico può dire
WILHELM DILTHEY 135
soltanto ciò che emerge in un rapporto di vita da lui raffigura-
to. Oppure, quando lo storico descrive situazioni e persone
storiche, egli desterà un'impressione della vita reale, tanto più
forte quanto meglio raffigura tali rapporti di vita. Egli deve
porre in luce le qualità degli uomini e delle cose che scaturisco-
no e operano in tali rapporti di vita — e, si potrebbe dire, dare
alle persone, alle cose, ai processi, la forma e il colore in cui
essi hanno dato forma, dal punto di vista del rapporto di vita,
a percezioni e a immagini di memoria nella vita stessa.
2. L'esperienza della vita.
L'apprendimento oggettivo scorre nel tempo, e così in esso
sono già contenute immagini di memoria. E in quanto ciò che
è immediatamente vissuto cresce continuamente e sempre più
svanisce con il progredire del tempo, sorge il ricordo del corso
della propria vita. Parimenti, sulla base della comprensione di
altre persone, si formano i ricordi dei loro stati e le immagini
esistenziali delle diverse situazioni; e certo in tutti questi ricor-
di la situazione è sempre legata con il suo ambiente di contenu-
ti di fatto, di avvenimenti e di persone. Dalla generalizzazione
di ciò che in tal modo si presenta insieme sorge l’esperienza di
vita dell’individuo. Essa sorge in forme di procedimento equiva-
lenti a quelle dell’induzione. Il numero dei casi, in base ai
quali questa induzione decide, cresce di continuo nel corso
della vita; e le generalizzazioni che si formano vengono sem-
pre corrette. La sicurezza che spetta all'esperienza personale
della vita è distinta dalla validità universale di tipo scientifico:
infatti queste generalizzazioni non sono compiute metodica-
mente e non possono venir racchiuse in formule rigorose.
Il punto di vista individuale, inerente all’esperienza persona-
le della vita, si corregge e si amplia nell’esperienza generale
della vita: con questa io intendo i princìpi che si formano in
qualsiasi ambito di persone in rapporto reciproco e che sono
comuni ad esse. Si tratta di asserzioni sul corso della vita, di
giudizi di valore, di regole della condotta di vita, di determina-
zioni di scopi e di beni: il loro contrassegno sta nel fatto che
esse sono creazioni della vita collettiva, le quali riguardano
tanto la vita dell’uomo singolo quanto la vita delle comunità.
136 WILHELM DILTHEY
Sotto il primo aspetto, in quanto costume, abitudine e, in riferi-
mento alla persona individuale, come opinione pubblica, esse
esercitano, per il prevalere del numero e per il sopravvivere
della comunità alla persona singola, un potere su di questa e
sulla sua esperienza o forza di vita, che sovrasta di solito la
volontà di vita dell’individuo. La sicurezza di questa esperienza
generale della vita rispetto a quella personale è maggiore, in
quanto i punti di vista individuali pervengono in essa a un
equilibrio e cresce il numero dei casi che stanno a base dell’in-
duzione. D'altra parte in questa esperienza generale si rivela,
in modo ancor più forte che in quella individuale, l’incontrolla-
bilità dell'origine del suo sapere dalla vita.
3. La distinzione delle forme di atteggiamento nella vita e le
classi di asserzioni nell'esperienza della vita.
Nell’esperienza della vita si presentano ora diverse classi di
asserzioni, le quali si rifanno alla distinzione di atteggiamento
nella vita. Infatti la vita non è solo la fonte del sapere, conside-
rata nel suo contenuto d'esperienza; le tipiche forme di atteg-
giamento dell’uomo condizionano pure le diverse classi di asser-
zioni. Qui si deve soltanto constatare per adesso il fatto di
questa relazione tra la diversità di atteggiamento della vita e
le asserzioni dell’esperienza della vita.
Nei singoli rapporti di fatto della vita, che si presentano tra
l'io da un lato e le cose e gli uomini dall’altro, sorgono i
diversi stati della vita: situazioni differenziate dell’io, sentimen-
ti di pressione o di accrescimento dell’esistenza, desiderio di un
oggetto, timore o speranza. E come cose o uomini esercitanti
una pretesa sull'io assumono uno spazio nella sua esistenza,
come sono portatori di vantaggi o di impedimenti, come sono
oggetti di desiderio, di aspirazione, di distacco, così da questi
rapporti vitali derivano le determinazioni a essi relative, che si
aggiungono all’apprendimento oggettivo di uomini e di cose.
Tutte queste determinazioni dell’io e degli oggetti o delle perso-
ne, quali scaturiscono dai rapporti della vita, vengono elevate a
riflessione ed espresse nel linguaggio: così nascono in esso di-
stinzioni come asserzioni di realtà, desiderio, esclamazione, im-
WILHELM DILTHEY 137
erativo. Se si prendono ora in esame le espressioni che si
riferiscono alle forme di atteggiamento, cioè alle varie prese di
posizione dell'io di fronte agli uomini e alle cose, risulta che
esse rientrano in certe classi supreme. Esse constatano una real-
tà, valutano, designano una posizione di scopo, formulano una
regola, esprimono il significato di un fatto in base alla più
ampia connessione in cui esso è inserito. Inoltre vengono in
luce Je relazioni tra queste forme di asserzione contenute nell’e-
sperienza della vita: gli atti di penetrazione della realtà forma-
no uno strato sul quale poggiano le valutazioni, e questo strato
è a sua volta la base per le posizioni di scopo.
Le forme di atteggiamento contenute nei rapporti vitali e i
loro prodotti vengono oggettivati nelle asserzioni che constata-
no tali forme in quanto stati di fatto; analogamente vengono
rese indipendenti le predicazioni di uomini e di cose, che scatu-
riscono dai rapporti vitali. Questi stati di fatto sono nell’espe-
rienza della vita elevati a sapere universale mediante un proce-
dimento equivalente all’induzione: così sorgono le molteplici
proposizioni, poste in luce nella saggezza generalizzante del
popolo e nella letteratura sotto forma di proverbi, di regole di
vita, di riflessioni sulle passioni, sui caratteri e sui valori della
vita. Anche in queste ritornano le differenze che si sono osserva-
te nell’espressione delle nostre prese di posizione o delle nostre
forme di atteggiamento.
Ancora nuove distinzioni si fanno valere nelle asserzioni
dell’esperienza della vita. Già nella vita medesima la conoscen-
za della realtà, la valutazione, l’elaborazione di regole, la posi-
zione di scopi si sviluppano in differenti gradi, di cui ognuno è
il presupposto del successivo. Essi sono stati indicati per l’ap-
prendimento oggettivo; ma sussistono del pari nelle altre forme
di atteggiamento. Così la stima dei valori dinamici di cose o di
uomini presuppone che siano state constatate le possibilità di
recar utile o danno racchiuse negli oggetti, e una decisione
diventa possibile solo mediante la ponderazione del rapporto
delle rappresentazioni di fine con la realtà e i mezzi, in essa
dati, di realizzare tali rappresentazioni.
138 WILHELM DILTHEY
4. Le unità ideali come sostegni della vita e dell'esperienza
della vita.
Un’infinita ricchezza di vita si sviluppa nell’esistenza indivi
duale delle varie persone, attraverso i loro rapporti con l’am-
biente, gli altri uomini e le cose. Ma ogni singolo individuo è
nel medesimo tempo un punto di incrocio di connessioni che
pervadono gli individui e sussistono in essi, ma sovrastano la
loro vita e posseggono un'esistenza autonoma e un proprio
sviluppo per il contenuto, il valore, lo scopo che vi si realizza.
Sono cioè soggetti di tipo ideale: a essi è intrinseco qualche
sapere intorno alla realtà; in essi si sviluppano punti di vista
di valutazione; in essi si realizzano scopi; per cui acquistano e
mantengono un significato nella connessione del mondo spiri-
tuale.
Ciò avviene già in alcuni sistemi di cultura nei quali non
c'è un’organizzazione che racchiuda i suoi elementi, come in
generale nell'arte e nella filosofia. Altrove sorgono però unioni
organizzate. Così la vita economica crea le sue associazioni, e
nella scienza nascono centri per la realizzazione dei suoi compi-
ti, e le religioni dànno vita alle organizzazioni più salde tra
tutti i sistemi di cultura. Nella famiglia, nelle varie forme
intermedie tra questa e lo stato, nello stato medesimo si trova
poi la suprema elaborazione di un’unitaria posizione di scopi
entro una comunità.
Ogni unità organizzata di uno stato sviluppa una conoscen-
za di se stesso e delle regole, a cui è legata la sua sussistenza,
così come della sua situazione di fronte al tutto. Essa gode dei
valori sviluppatisi nel suo grembo; essa attua gli scopi che
riposano sul suo essere e che servono alla conservazione e alla
promozione della sua esistenza. Essa stessa è un bene dell’uma-
nità, realizza beni e acquista un significato specifico entro la
connessione dell'umanità.
Arriva ora il punto in cui si presentano al nostro sguardo la
società e la storia. Sarebbe però erroneo voler limitare la storia
al cooperare degli uomini in vista di scopi comuni. L'uomo
singolo, nella sua esistenza individuale che poggia su se stessa,
è un essere storico. Egli è determinato dalla sua posizione nella
linea del tempo, dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazio-
WILHELM DILTHEY 139
ne nell’azione reciproca dei sistemi di cultura e delle comuni-
tà. Lo storico deve quindi intendere l’intera vita degli indivi-
dui com’essa si manifesta in un determinato tempo e in un
determinato luogo. Proprio l’intera connessione che va dagli
individui, in quanto orientati verso lo sviluppo della propria
esistenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, e infine all’uma-
nità, costituisce la natura della società e della storia. I soggetti
logici, a cui ci si riferisce nella storia, sono tanto gli individui
particolari quanto le comunità e le connessioni.
5. Lo scaturire delle scienze dello spirito dalla vita degli indivi-
dui e delle comunità.
La vita, l’esperienza della vita e le scienze dello spirito
stanno dunque in una costante connessione interna e in un
costante scambio reciproco. Non un procedimento concettuale
costituisce il fondamento delle scienze dello spirito, ma la con-
sapevolezza di uno stato psichico nella sua totalità e il suo
ritrovamento nel rivivere. La vita coglie qui la vita, e la forza
con cui vengono compiute le due operazioni elementari delle
scienze dello spirito è la condizione preliminare della loro com-
piutezza in ogni parte di esse.
Così anche in questo punto si nota una differenza decisiva
tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. In
quelle la distinzione del nostro rapporto con il mondo esterno
avviene sulla base del pensiero naturalistico, le cui operazioni
produttive hanno un riferimento esterno, mentre in queste si
mantiene una connessione tra vita e scienza, per cui il lavoro
della vita nell’elaborazione del pensiero costituisce la base per
la creazione scientifica. L’approfondimento in se stesso pervie-
ne nella vita, sotto certe circostanze, a una perfezione a cui
neppure Carlyle? è pervenuto, e la comprensione degli altri
viene qui condotta a un livello di virtuosismo che neppur Ran-
3. Thomas Carlyle (1795-1881), storico e filosofo romantico inglese, autore del Sar-
tor Resartus (1833-34), della History of the French Revolution (1838), di On Heroes,
Hero-Worship, and the Heroic in History (1841) c di varie altre opere, contribuì in mi-
sura rilevante all’introduzione dell'idealismo tedesco, in particolare del pensiero di
Schelling, nella cultura inglese. La sua concezione della storia mette in risalto l’impor-
tanza decisiva degli « eroi ».
140 WILHELM DILTHEY
ke' ha raggiunto. Da una parte le grandi nature religiose,
come Agostino e Pascal, sono gli eterni modelli per l’esperien-
za che si nutre del proprio Erlebnis, e dall’altra, nella compren-
sione delle altre persone, la corte e la politica educano a un'arte
che guarda al di là di ogni apparenza; un uomo di azione
come Bismarck, al quale sono sempre presenti per natura i
suoi fini in ogni lettera che scrive e in ogni colloquio, non può
venir eguagliato da nessun interprete di atti politici e da nes-
sun critico di narrazioni storiche per ciò che riguarda l’arte di
leggere le intenzioni che stanno al di là dell’espressione. Tra la
penetrazione di un dramma da parte di un ascoltatore di forte
sensibilità poetica e la più eccellente analisi di storia letteraria
non c’è, in parecchi casi, alcuna distanza. E anche l’elaborazio-
ne concettuale è continuamente determinata, nelle scienze stori-
co-sociali, dalla vita medesima: mi riferisco alla connessione
che conduce continuamente dalla vita, dall’elaborazione concet-
tuale intorno al destino, ai caratteri, alle passioni, ai valori e
agli scopi dell’esistenza, fino alla storia come disciplina scientifi-
ca. Nell’epoca in cui, in Francia, l’azione politica era fondata
più sulla conoscenza degli uomini e delle personalità eminenti
che su uno studio scientifico del diritto, dell'economia e dello
stato, e la posizione nella vita di corte poggiava su tale arte,
anche la forma letteraria delle memorie e degli scritti sui carat-
teri e sulle passioni è pervenuta a un’altezza non più raggiunta
in seguito, ed è stata coltivata da persone poco influenzate
dallo studio scientifico della psicologia e della storia. Una con-
nessione interna unisce qui l'osservazione della società illu-
stre, i letterati e i poeti che da essa imparano, i filosofi sistema-
tici o gli storici scientifici che si formano sulla base della poe-
sia e della letteratura. Si è visto, agli inizi della scienza poli-
tica in Grecia, che lo sviluppo dei concetti relativi alle costitu-
zioni e alle funzioni politiche ha preso le mosse dallo stesso
4. Leopold von Ranke (1795-1886), storico tedesco, autore della Geschichte der
romanischen und germanischen Vélker von 1494 bis 1535 (1824) seguita dalla celebre
dissertazione Zur Kritik neuerer Geschichtsschreiber, di Die ròmischen Pùpste, ihre
Kirche und ihr Staat im 16. und 17. Jahrhundert (1834-36), della Deutsche Geschich-
te im Zeitalter der Reformation (1839-47) e di numerose altre opere, è la principale
figura della scuola storica tedesca. La sua attività storiografica culmina nelle conferenze
dedicate alle Epochen der neueren Geschichte (1854) e nella Weltgeschichte (1881-1885),
rimasta incompleta.
WILHELM DILTHEY I4I
sviluppo della vita statale, e che muove creazioni in questa
hanno poi condotto a nuove teorie. Questo rapporto risulta
quanto mai evidente nei più antichi stadi della scienza giuridi-
ca tanto romana quanto germanica.
6. La connessione delle scienze dello spirito con la vita e il
loro compito di validità universale.
Così il sorgere dalla vita e la perdurante connessione con
essa costituisce il primo tratto fondamentale della struttura del-
le scienze dello spirito; esse poggiano infatti sull’Er/eden, sul-
l’intendere e sull’esperienza della vita. Questo rapporto imme-
diato, in cui stanno tra loro la vita e le scienze dello spirito,
conduce in tali discipline a un’antitesi tra le tendenze della
vita e il loro fine scientifico. Dal momento che gli storici, gli
economisti, i teorici del diritto pubblico, gli studiosi della reli-
gione sono inseriti nella vita, vogliono anche influire su di essa.
Essi sottopongono al loro giudizio persone storiche, movimenti
di massa, tendenze, ma tale giudizio è condizionato dalla loro
individualità, dalla nazione a cui appartengono, dal tempo in
cui vivono. Anche quando credono di procedere senza presup-
posti, essi sono determinati da questo loro orizzonte: ogni
analisi intrapresa sui concetti di una generazione passata mo-
stra che in questi sono contenuti elementi, i quali derivano dai
presupposti dell’epoca. Però nel medesimo tempo in ogni scien-
za come tale è contenuta l'esigenza della validità universa-
le. Se debbono esserci scienze dello spirito nel significato ristret-
to del termine, esse debbono porsi questo fine in maniera sem-
pre più cosciente e più critica.
Sull’antitesi di queste due tendenze si basa gran parte dei
contrasti scientifici che si sono manifestati, negli ultimi tempi,
nella logica delle scienze dello spirito. Tale antitesi si esprime
nella maniera più forte entro la scienza storica, che è diventata
il punto centrale in questa discussione.
La soluzione di questa antitesi si compie soltanto nella co-
struzione delle scienze dello spirito; gli ulteriori principi gene-
rali sulla connessione delle scienze dello spirito già contengono
il principio di tale soluzione. Il risultato finora da noi consegui-
to permane. La vita e l’esperienza della vita sono le fonti
142 WILHELM DILTHEY
sempre nuove della comprensione del mondo storico-sociale; la
comprensione procede dalla vita verso sempre maggiori profon-
dità; e soltanto nella reazione sulla vita e sulla società le scien-
ze dello spirito pervengono al loro più alto significato, che è in
continuo accrescimento. Ma la strada verso questa azione deve
passare attraverso l’oggettività della conoscenza scientifica. La
coscienza di ciò era già operante nella grande epoca creatrice
delle scienze dello spirito. In seguito a vari disturbi che si
possono riscontrare nel corso del nostro sviluppo nazionale, ma
anche nell’applicazione di un ideale culturale unilaterale dopo
Burckhardt®, noi cerchiamo ora di elaborare questa oggettività
delle scienze dello spirito in maniera sempre più priva di pre-
supposti, più critica, più rigorosa. Io trovo il principio per la
soluzione dell’antitesi che si presenta in queste scienze nella
comprensione del mondo storico come una connessione dinami-
ca, la quale è centrata in se stessa, in quanto ogni connessione
dinamica particolare in essa contenuta ha in sé, in virtù della
posizione e della realizzazione di valori, il proprio centro, ma
tutte sono strutturalmente unite in una totalità nella quale il
senso della connessione del mondo storico-sociale deriva dalla
significatività delle singole parti; cosicché ogni giudizio di valo-
re e ogni posizione di scopi diretta verso il futuro, devono
essere fondati esclusivamente su questa connessione strutturale.
A questo principio ideale ci avviciniamo ora nei seguenti princì-
pi generali sulla connessione delle scienze dello spirito.
II. LE FORME DI PROCEDIMENTO IN CUI È DATO IL MONDO SPIRI-
TUALE
La connessione delle scienze dello spirito è determinata dal
suo fondamento nell’Erlebden e nell’intendere, e tanto nell’uno
5. Jacob Burckhardt (1818-1897), storico svizzero, autore di Die Zeit Constantins
des Grossen (1853), di Die Cultur der Renaissance in Italien (1860) e di una postuma
Griechische Kulturgeschichte (1898-1902), nonché di varie altre opere, è uno dei mag-
giori esponenti della storiografia post-romantica; il suo libro sulla civiltà del Rinasci-
mento ha rinnovato l'interpretazione di questo periodo storico. Le sue idee sulla sto-
ria sono esposte nel corso di lezioni Uber das Studium der Geschichte, pubblicato postu-
mo col titolo Weltgeschichiliche Betrachtungen (1905).
WILHELM DILTHEY 143
quanto nell’altro si fanno subito valere importanti differenze
rispetto alle scienze della natura, le quali dànno un carattere
proprio alla costruzione di tali discipline.
1. La linca delle rappresentazioni che procede dall’Erlebnis.
Ogni immagine ottica è diversa da un’altra, che si riferisca
al medesimo oggetto, per il punto di vista e le condizioni
dell’apprendimento: queste immagini sono legate in un siste-
ma di relazioni interne in virtù dei vari modi di apprendimen-
to oggettivo. La rappresentazione totale, che così sorge dalla
serie delle immagini secondo i rapporti fondamentali racchiusi
nel contenuto di fatto, è qualcosa di rappresentato e di pensato
in aggiunta. Gli Erlebrisse sono invece legati tra loro in un’uni-
tà di vita entro il corso temporale; e ognuno di essi ha così il
suo posto in un corso i cui elementi sono uniti reciprocamente
nella memoria. Non parlo qui ancora del problema della realtà
di questi Er/ebrisse, e tanto meno delle difficoltà inerenti all’ap-
prendimento di un Er/ebnis: basta che il modo in cui l’Erleb-
nis esiste per me sia del tutto diverso dal modo in cui stanno
davanti a me le immagini. La coscienza di un Erlebnis e della
sua qualità, il suo esistere-per-me e ciò che in esso esiste per
me, sono la stessa cosa: l’Er/ebrnis non si contrappone a chi lo
apprende come un oggetto, ma la sua esistenza per me non è
distinta da ciò che in esso esiste per me. Non vi sono diverse
posizioni spaziali da cui possa venir visto ciò che in esso esi-
ste; e differenti punti di vista, da cui esso può venir appreso,
possono sorgere soltanto in seguito, mediante la riflessione, e
non incidono sul suo carattere di Erlebris. Esso è sottratto alla
relatività di ciò che è dato sensibilmente, per cui le immagini si
riferiscono all'elemento oggettivo soltanto nella relazione con il
soggetto conoscente, con la sua posizione nello spazio e con ciò
che sta in mezzo tra lui e gli oggetti. Dall’Erlebris una linea
diretta di rappresentazioni procede fino all’ordine dei concetti
in cui esso viene appreso pensando. Esso viene anzitutto spiega-
to mediante le operazioni elementari del pensiero; e qui trova-
no il loro significato specifico i ricordi, in cui esso viene poi
appreso. E che cosa accade quando l’Erlebnis diviene oggetto
della mia riflessione? Io sto sveglio di notte, mi preoccupo
144 WILHELM DILTHEY
della possibilità di terminare nella mia vecchiaia i lavori inizia-
ti, rifletto su ciò che vi è da fare. In questo Erlebris c'è una
connessione strutturale di coscienza: l’apprendimento oggettivo
costituisce il suo fondamento, su questo poggia una presa di
posizione come preoccupazione e come sofferenza provocata dal-
l'elemento soggettivamente appreso, e come tendenza a andare
oltre di esso. E tutto ciò esiste per me in questa sua connes-
sione strutturale. Io reco a coscienza distinta un certo stato,
pongo in luce ciò che in esso è strutturalmente collegato, lo
isolo: ma tutto ciò che vengo in tal modo a trarne fuori è
contenuto nell’Erlebris stesso e viene in tal modo solo spie-
gato. Il mio apprendimento dell’Erlebris stesso viene però svi-
luppato, sulla base dei momenti in esso contenuti, in Er/ebrisse
che, sebbene separati da un lungo spazio di tempo, sono legati
strutturalmente nel corso della vita con tali momenti: io ho
coscienza dei miei lavori in virtù di un esame precedente, e con
questo stanno in relazione, in un passato ancor più lontano, i
processi da cui sono sorti tali lavori.
Un altro momento si dirige verso il futuro; ciò che ora
sussiste richiederà ancora un lavoro incalcolabile da parte mia;
io ne sono preoccupato e mi oriento internamente a tale opera-
zione. Tutto questo s, di e a, tutte queste relazioni di ciò
che è immediatamente vissuto con ciò che è ricordato e anche
con il futuro, mi spinge — indietro e avanti. Essere trascinato
in questa serie poggia sull’esigenza di sempre nuovi elementi,
richiesti, dall’Erleden; a ciò può cooperare pure un interesse
che deriva dalla forza emotiva di questo. È un essere trascina-
to, non una volizione, tanto meno quell’astratta volontà di
sapere a cui si è fatto ricorso dopo la dialettica di Schleierma-
cher. Nella serie, che in tal modo sorge, tanto il passato quanto
il futuro o il possibile sono trascendenti rispetto al momento
riempito dall'Erlebnis: ma entrambi, il passato e il futuro,
sono legati all’Er/ebris in una serie che si articola mediante tali
relazioni in una totalità. Ogni passato è legato strutturalmente
come riproduzione a un Er/ebnis trascorso, in quanto il suo
ricordo implica un riconoscimento. Anche il possibile da venire
è legato a tale serie mediante l’ambito di possibilità da essa
determinate. Così in questo processo sorge l’intuizione della
connessione psichica nel tempo, la quale costituisce il corso
WILHELM DILTHEY 145
della vita, in cui ogni singolo Erlebnis è legato a una totalità.
E tale connessione della vita non è una somma o un complesso
di momenti successivi, ma un’unità costituita da relazioni che
uniscono tutte le parti. Muovendo dal presente noi percorriamo
indietro una serie di ricordi fin dove il nostro piccolo, debole
e informe io si perde nel crepuscolo, e ci spingiamo innanzi,
da questo presente, verso possibilità in esso racchiuse, che assu-
mono vaghe ed ampie dimensioni.
Da ciò deriva un risultato importante per la connessione
delle scienze dello spirito. Gli elementi, le regolarità, le relazio-
ni che costituiscono l’intuizione del corso della vita, sono insie-
me contenuti nel corso della vita; e al sapere relativo al corso
della vita spetta quindi lo stesso carattere di realtà proprio
dell’Er/ebnis.
2. Il rapporto di reciproca dipendenza nell’intendere.
Se negli Erlebnisse cogliamo la realtà della vita nella molte-
plicità dei suoi rapporti, quel che ci appare, in questa prospetti-
va, è sempre soltanto qualcosa di singolare, cioè la nostra pro-
pria vita di cui siamo coscienti nell’Erleden. Tale sapere resta
un sapere relativo a qualcosa di irripetibile, e nessun strumento
logico può superare la limitazione alla singolarità contenuta
nella forma di esperienza dell’Erleden. Soltanto l’intendere eli-
mina tale limitazione dell’Erlebnis individuale, come d’altro
lato conferisce agli Erlebnisse della persona il carattere di espe-
rienza della vita. Estendendosi a più uomini, a varie creazioni
spirituali e a varie comunità, esso amplia l’orizzonte della vita
individuale e apre nelle scienze dello spirito la via che reca,
attraverso ciò che è comune, al generale.
L’intendersi reciproco ci assicura del rapporto di comunaz-
za che sussiste tra gli individui: questi sono infatti tra loro
legati da una comunanza in cui sono intrecciate appartenenza
reciproca o connessione, uniformità o affinità. La stessa relazio-
ne di connessione e di uniformità pervade tutte le cerchie del
mondo umano. Questa comunanza si esprime nell’identità del-
la ragione, nella simpatia presente nella vita affettiva, nell’obbli-
gazione reciproca del dovere e del diritto, accompagnata dalla
coscienza di ciò che deve essere.
10. STORICISMO TEDESCO.
146 WILHELM DILTHEY
La comunanza delle unità viventi è il punto di partenza per
tutte le relazioni tra particolare e universale nelle scienze dello
spirito. L'esperienza fondamentale della comunanza pervade
l’intero apprendimento del mondo spirituale, collegando la co-
scienza dell’io unitario e la coscienza dell’uniformità con gli
altri, l'identità della natura umana e l’individualità. Essa costi-
tuisce il presupposto dell’intendere. Dall’interpretazione elemen-
tare, che richiede soltanto Ia conoscenza del significato delle
parole e delle regolarità con cui esse sono legate in proposizio-
ni dotate di senso, cioè la comunanza del linguaggio e del
pensare, l'ambito di ciò che è comune si estende di continuo,
rendendo possibile il processo di comprensione nella misura in
cui il suo oggetto è costituito da nessi superiori di manifestazio-
ni della vita.
Dall'analisi dell’intendere risulta però un secondo rapporto
fondamentale, che è determinante per la struttura della connes-
sione delle scienze dello spirito. Noi abbiamo visto come le
verità delle scienze dello spirito poggiano sull’Erlede e sull’in-
tendere: ma l’intendere presuppone d'altra parte l’utilizzazio-
ne delle verità delle scienze dello spirito. Per illustrare ciò con
un esempio si prenda il compito di comprendere Bismarck:
una straordinaria quantità di lettere, di documenti, di narrazio-
ni e di racconti su di lui costituisce il materiale che si riferisce
al corso della sua vita. Lo storico deve ampliare il confine di
questo materiale, per cogliere ciò che ha influito sul grande
uomo di stato e ciò che egli ha prodotto. Fin quando dura il
processo dell’intendere, la delimitazione del materiale non è
ancora conclusa. Già per conoscere uomini, avvenimenti, situa-
zioni come appartenenti a questa connessione dinamica, egli ha
bisogno di princìpi generali, i quali stanno anche a base della
sua comprensione di Bismarck, estendendosi dalle qualità comu-
ni dell’uomo alle qualità di classi particolari. Lo storico darà a
Bismarck un posto tra gli uomini d’azione in base alla psicolo-
gia individuale, seguendo in lui la specifica combinazione dei
tratti che sono loro comuni. Da un altro punto di vista si
ritroveranno nella sovranità del suo essere, nell’abitudine a co-
mandare e a dirigere, nell’inflessibilità del volere, le qualità
fondamentali del nobile prussiano latifondista. E, in quanto la
sua lunga vita ha occupato un posto determinato nel corso
WILHELM DILTHEY 147
della storia prussiana, ecco di nuovo un altro gruppo di princì-
pi generali da cui sono determinati i tratti comuni agli uomini
di questo tempo. L'enorme pressione che si esercitava, secondo
la situazione dello stato, sulla consapevolezza politica produce-
va naturalmente le più diverse forme di reazione. La compren-
sione di queste esige princìpi generali sulla pressione che una
certa situazione esercita su una totalità politica e sui suoi ele-
menti, nonché sulle sue ripercussioni. I gradi di sicurezza meto-
dica nella comprensione dipendono dallo sviluppo delle verità
generali mediante cui tale rapporto consegue il suo fondamen-
to. Risulta ora chiaramente che questo grande uomo di azione,
il quale ha avuto le sue radici completamente nella Prussia c
nel suo regno, dovrà sentire in modo particolare la pressione
che si esercita su di essa dall’esterno. Egli dovrà pure valutare
le questioni interne della costituzione di questo stato principal-
mente dal punto di vista del potere statale. In quanto poi è il
punto di incontro di comunità quali lo stato, la religione,
l'ordine giuridico, e in quanto ha pure, come personalità stori-
ca, determinato e mosso în modo eminente una di queste comu-
nità, e nel medesimo tempo opera in esse, egli richiede da
parte dello storico una conoscenza generale intorno a queste
comunità. In breve, il suo intendimento giungerà a compimen-
to solo in virtù della relazione col complesso di tutte le scienze
dello spirito. Ogni relazione, che deve essere elaborata nella
rappresentazione di questa personalità storica, acquista la massi-
ma sicurezza e distinzione solo attraverso la sua determinazio-
ne mediante i concetti scientifici relativi ai vari campi. E il
rapporto reciproco di questi campi è fondato infine su una
intuizione totale del mondo storico.
Così il nostro esempio ci illustra la duplice relazione insita
nell’intendere: l’intendere presuppone l’Erleben, e l’Erleb-
nis si eleva a esperienza della vita solo in quanto l’intendere
conduce al di fuori della ristrettezza e della soggettività dell’Er-
leben, nella regione della totalità e dell’universale. Inoltre, la
comprensione della personalità singola esige per la sua compiu-
tezza il sapere sistematico, come d'altra parte il sapere sistemati-
co dipende dalla viva penetrazione della singola unità vitale.
La conoscenza della natura inorganica si compie in una costru-
148 WILHELM DILTHEY
zione scientifica nella quale il grado sottostante è sempre indi-
pendente da quello che esso fonda: invece nelle scienze dello
spirito tutto, a partire dal processo dell’intendere, è determi-
nato dal rapporto di reciproca dipendenza.
A ciò corrisponde il corso storico di queste discipline. La
storiografia è in ogni punto condizionata dalla conoscenza delle
connessioni sistematiche che si intrecciano nel corso storico, e
la cui profonda investigazione determina il progredire dell’in-
tendere storico. Tucidide si fondava sul sapere politico sorto
nella prassi dei liberi stati greci, e sulle dottrine intorno allo
stato sviluppatesi nel periodo sofistico. Polibio ha riunito in sé
l'intera saggezza politica dell’aristocrazia romana, che in que-
sto tempo era al culmine del suo sviluppo sociale e spirituale,
con lo studio delle opere politiche greche da Platone fino allo
Stoicismo. L’unione della saggezza politica fiorentina e venezia-
na, sviluppatasi in una élite assai evoluta e piena di vivaci
dibattiti politici, con il rinnovamento e la prosecuzione delle
dottrine antiche ha reso possibile la storiografia di Machiavelli
e di Guicciardini. La storiografia ecclesiastica di Eusebio”, dei
sostenitori e degli avversari della Riforma, come Neander” e
Ritschl*, è piena di concetti sistematici riguardanti il processo
religioso e il diritto ecclesiastico. E infine la fondazione della
storiografia moderna nella scuola storica e in Hegel aveva die-
tro di sé da un lato il legame della scienza giuridica moderna
con le esperienze dell’età rivoluzionaria e dall’altro l’intera si-
stematica delle scienze dello spirito sorte da poco. Quando
Ranke sembra avvicinarsi alle cose con ingenua gioia di narra-
6. Eusebio di Cesarca (265-339), padre della Chiesa ispirato dal neoplatonismo, au-
tore del Chronicon, della Historia ecclesiastica, della Praeparatio evangelica, della De-
monstratio evangelica, del De ecclesiastica theologia e di vari altri scritti, è una delle
fonti principali per la storia del Cristianesimo primitivo. Scrisse parecchi pampAlets di
polemica anti-pagana, e prese parte alla controversia tra Ario e Alessandro sull’inter-
pretazione della trinità.
7. Johann August Wilhelm Neander (1789-1850), storico della chiesa e teologo te-
desco, autore di diversi volumi sull’imperatore Giuliano, su Bernardo di Chiaravalle,
su Giovanni Crisostomo, su Tertulliano, nonché di una Allgemeine Geschichte der
christlichen Religion und Kirche (1825-45) rimasta incompiuta.
8. Albrecht Ritschl (1822-1889), teologo protestante tedesco, autore di Die Ent
stehung der altkatholischen Kirche (1850), di Die christliche Lehre von Rechifertigung
und Versohnung (1870-74), della Geschichte des Pietismus (1880-86), di Theologie und
Metaphysik (1881) e di varie altre opere.
WILHELM DILTHEY 149
tore, la sua storiografia può venir tuttavia intesa solo se si
ripercorrono le molteplici fonti di pensiero sistematico, che si
sono incontrate nella sua formazione. E questa reciproca dipen-
denza dell’elemento storico e dell’elemento sistematico cresce
sempre di più avvicinandoci al presente.
Proprio la critica storica, nei suoi lavori fondamentali, ha
mostrato la sua dipendenza non solo dallo sviluppo formale dei
metodi ma anche dalla più profonda penetrazione delle connes-
sioni sistematiche, dai progressi della grammatica, dallo studio
della connessione del discorso, quale si è sviluppato dapprima
nella retorica, e inoltre dalla nuova concezione della poesia —
come ci appare sempre più chiaramente nel caso dei precursori
di Wolf° che hanno derivato le loro conclusioni su Omero da
una nuova poetica — e dalla nuova cultura estetica nel medesi-
mo F. A. Wolf, dalle considerazioni economiche, giuridiche e
politiche in Niebuhr, dalla nuova filosofia congeniale con Plato-
ne in Schleiermacher, e in Baur!° dalla comprensione del pro-
cesso in cui si sono formati i dogmi, come l’avevano sviluppata
Schleiermacher e Hegel.
E, viceversa, il progresso nelle scienze sistematiche dello spi-
rito è stato sempre condizionato dal movimento dell’Er/ebez
verso nuove profondità, dall’allargarsi dell’intendere in un mag-
giore ambito di manifestazioni della vita storica, dalla scoperta
di fonti storiche fin allora ignote o dall’emergere di grandi
masse di esperienze in nuove situazioni storiche. Ciò è già
dimostrato dalla formazione delle prime linee di una scienza
politica nell’età dei Sofisti, di Platone e di Aristotele, così
9. Friedrich August Wolf (1759-1824), pedagogista e filologo tedesco, autore della
Geschichte der ròmischen Literatur (1787), dei Prolecomena ad Homerum (1794), di
una Enzyklopidie der Philologie pubblicata postuma (1830), nonché di diversi altri vo-
lumi di argomento classicistico 0 pedagogico, occupa un posto importante nella storia
della critica omerica.
1o. Ferdinand Christian Baur (1792-1860), storico e teologo tedesco, autore di Das
manichdische Religionssystem (1831), di Die christliche Gnosis oder die christliche Reli-
gionsphilosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklune (1835), del LeArbuch der christ-
lichen Dogmengeschichte (1837), di Paulus der Apostel Jesu Christi (1845), di Die
Epochen der kirchlichen Geschichtsschreibung (1852-55) e di numerose altre opere, tra
cui le postume Vorlesungen ùber die christliche Dogmengeschichte (1865-67), è il mag-
giore esponente dell'atteggiamento razionalistico nella storiografia religiosa della pri-
ma metà dell'Ottocento, La sua concezione della religione e della storia della religione
si ispira in larga misura a Hegel.
150 WILHELM DILTHEY
come dall’origine di una retorica e di una poetica in quanto
teoria della creazione spirituale nella medesima epoca.
Sempre tale intreccio dell’Erleben con la comprensione di
persone singole o di comunità come soggetti sovra-individuali è
stata determinante nei grandi progressi delle scienze dello spiri-
to. I geni dell’arte narrativa come Tucidide, Guicciardini, Gib-
bon, Macaulay ", Ranke producono anche nella loro limitazio-
ne opere storiche non soggette al tempo; e nella totalità delle
scienze dello spirito vi è dunque un progresso, in quanto viene
gradualmente conquistata alla coscienza storica la penetrazione
delle connessioni che cooperano nella storia, la storiografia si
immerge nelle loro relazioni che costituiscono una nazione,
un'epoca, una linea di sviluppo storico, e di qui si dischiudono
poi profondità della vita, quali sono esistite nelle varie situazio-
ni storiche, che vanno al di Îà di ogni intendere precedente.
Come potrebbe venir comparata quella passata con la compren-
sione che uno storico odierno ha di artisti, poeti, scrittori?
3. La spiegazione graduale delle manifestazioni della vita attra-
verso la costante azione reciproca deî due orientamenti scien-
tifici.
Il rapporto di condizionamento reciproco ci appare dunque
come rapporto fondamentale tra l’Erleden e l’intendere. Più
da vicino, esso viene a determinarsi come rapporto di spiegazio-
ne graduale nella costante azione reciproca tra le due classi di
verità. L’oscurità dell’Erlebris viene chiarita, gli errori derivan-
ti dalla ristretta comprensione del soggetto vengono corretti,
l’Erlebnis medesimo è ampliato e completato nell’intendimento
di altre persone, come d’altra parte le altre persone sono intese
mediante i propri Erlebnisse. L'intendere allarga sempre più
l'ambito del sapere storico mediante la più intensa utilizzazio-
ne delle fonti, mediante il ritorno indietro nel passato finora
non compreso, e infine mediante il progredire della storia me-
desima, che produce sempre nuovi avvenimenti estendendo così
11. Thomas Babington Macaulay (1800-1859), uomo politico e storico inglese, au-
tore della History of England from the Accession of James II (1849-61), nonché di nu-
merosi Essays e Biographical Essays, recò nella sua storiografia un'impostazione libe-
rale: Dilthey si riferisce qui soprattutto alle suc grandi qualità narrative.
WILHELM DILTHEY ISI
l'oggetto dell’intendere. In tale procedere l'ampliamento di am-
bito richiede sempre nuove verità generali per la penetrazione
di questo mondo della singolarità; e l’estensione dell’orizzonte
storico rende nel medesimo tempo possibile l'elaborazione di
concetti sempre più generali e sempre più fecondi. Così in ogni
punto e in ogni tempo si presenta, nel lavoro delle scienze
dello spirito, una circolarità di Erleden, di intendere e di rap-
presentazione del mondo spirituale in concetti generali. E ogni
grado di questo lavoro possiede un’unità interna nel suo appren-
dimento del mondo spirituale, poiché la conoscenza storica del
singolare e le verità generali si sviluppano in un'azione recipro-
ca e quindi appartengono alla stessa unità dell’apprendimento.
A ogni grado l’intendimento del mondo spirituale è qualcosa
di omogeneo e unitario, dalla concezione del mondo spirituale
ai metodi di critica e di indagine particolare.
Qui possiamo rivolgere ancora uno sguardo all’epoca in cui
è sorta la moderna coscienza storica. Essa è stata realizzata
quando l'elaborazione concettuale delle scienze sistematiche si è
coscientemente fondata sullo studio della vita storica, e la cono-
scenza del singolare è stata coscientemente fecondata dalle disci-
pline sistematiche dell'economia politica, del diritto, dello sta-
to, della religione. A questo punto poteva sorgere la compren-
sione metodica della connessione delle scienze dello spirito: il
medesimo mondo spirituale diventa, secondo la diversità del
punto di vista da cui è considerato, oggetto di due classi di
discipline. La storia universale come connessione singolare, il
cui oggetto è l’umanità, e il sistema di scienze dello spirito
indipendenti che si riferiscono all’uomo, al linguaggio, all’eco-
nomia, allo stato, al diritto, alla religione e all’arte, si completa-
no reciprocamente. Esse sono distinte dal fine e dai metodi che
questo determina, ma al tempo stesso cooperano nel loro costan-
te legame alla costruzione del sapere relativo al mondo spiritua-
le: Erleben, rivivere e verità generali sono legati dall’operazio-
ne fondamentale dell’intendere. L'elaborazione concettuale non
è fondata su norme o valori che si presentano al di lì dell’ap-
prendimento oggettivo, ma sorge dal carattere dominante di
ogni pensiero concettuale, cioè dalla tendenza a porre in luce
ciò che è stabile e duraturo entro il corso del divenire, Il
metodo si muove così in una duplice direzione: nella tendenza
152 WILHELM DILTHEY
verso il singolare procede dalla parte al tutto e da questo di
nuovo alla parte, e nella tendenza verso il generale tra questo
e il particolare ha luogo la medesima azione reciproca.
III. L’OGGETTIVAZIONE DELLA VITA
1. Se abbracciamo l’insieme di tutte le operazioni dell’inten-
dere, allora appare in esso, di fronte alla soggettività dell'Er/ed-
nis, l’oggettivazione della vita. Accanto all’Erlebris l’intuizio-
ne dell’oggettività della vita, e del suo manifestarsi in moltepli-
ci connessioni strutturali, diventa il fondamento delle scienze
dello spirito. L'individuo, le comunità e le opere in cui si sono
trasposti la vita e lo spirito, costituiscono il dominio esterno
dello spirito. Queste manifestazioni della vita, quali si presenta-
no nel mondo esterno alla comprensione, sono per così dire
inserite nella connessione della natura. Questa grande realtà
esterna dello spirito ci circonda sempre: essa è una realizzazio-
ne dello spirito nel mondo sensibile, a partire dall’espressione
fuggevole fino al dominio secolare di una costituzione o di un
testo giuridico. Ogni manifestazione particolare della vita rap-
presenta, nel campo di tale spirito oggettivo, ur elemento co-
mune. Ogni parola, ogni proposizione, ogni gesto e ogni for-
mula di cortesia, ogni opera d’arte e ogni impresa storica sono
comprensibili solamente in quanto un rapporto di comunanza
unisce chi in essi si esprime con chi li intende; l’indivi-
duo vive, pensa e agisce di continuo in una sfera di comunan-
za, e solo in questa può intendere. Tutto ciò che viene inteso
reca, per così dire, il marchio della sua conoscibilità in base a
questa comunanza: noi viviamo in questa atmosfera, che ci
circonda costantemente, e siamo immersi in essa. Noi siamo
ovunque a casa in questo mondo storico che intendiamo, ne
penetriamo il senso e il significato, siamo coinvolti in questi
rapporti di comunanza.
Il mutare delle manifestazioni della vita, che agiscono su di
Noi, ci spinge di continuo a una nuova comprensione; ma nel
medesimo tempo anche nell’intendere si ha, poiché ogni mani-
festazione della vita e la sua comprensione sono legate ad
altre, un movimento che progredisce secondo i rapporti di
WILHELM DILTHEY 153
affinità dal singolo individuo dato verso il tutto. E, crescendo
le relazioni tra ciò che è affine, aumentano nel medesimo tem-
po le possibilità di generalizzazione già racchiuse nella comu-
nanza come determinazione di ciò che è inteso.
Nell’intendere si fa valere anche un'ulteriore qualità dell’og-
gettivazione della vita, che determina tanto l'articolazione se-
condo affinità quanto la tendenza della generalizzazione. L’og-
gettivazione della vita contiene in sé una molteplicità di ordini
articolati. Dalla distinzione delle razze fino alla diversità delle
forme di espressione e dei costumi in una stirpe, in una città,
vi è un'articolazione di differenze spirituali condizionata su
base naturale. Differenze di altro tipo si presentano nei sistemi
di cultura, altre separano tra loro le epoche — in breve, molte
linee che delimitano da qualche punto di vista ambiti di vita
affine attraversano il mondo dello spirito oggettivo e si incrocia-
no in esso. La pienezza della vita si manifesta in innumerevoli
sfumature e viene compresa mediante il ricorrere di tali diffe-
renze.
Mediante l’idea dell’oggettivazione della vita noi pervenia-
mo per la prima volta a gettare uno sguardo sull’essenza di
ciò che è storico. Tutto è qui sorto dall’attività spirituale
e reca quindi il carattere della storicità: perfino nel mondo
sensibile esso si inserisce come prodotto della storia. Dalla distri-
buzione degli alberi in un parco, dalla disposizione delle case
in una strada, dallo strumento appropriato di un artigiano fino
alla sentenza del tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora,
storicamente divenuto. Ciò che lo spirito immette oggi del
proprio carattere nella sua manifestazione di vita, è domani,
quando ci sta dinanzi, storia. Col procedere del tempo noi
siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, dai ca-
stelli della monarchia assoluta. La storia non è nulla di separa-
to dalla vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua
distanza nel tempo.
Guardiamo il risultato: le scienze dello spirito hanno, come
loro datità complessiva, l’oggettivazione della vita. Ma in quan-
to l’oggettivazione della vita diventa per noi qualcosa di inte-
so, essa racchiude sempre, in quanto tale, la relazione dell’ester-
no all’interno. Perciò tale oggettivazione è ovunque legata nel-
l’intendere all’Er/eben, in cui all'unità della vita si dischiude
154 WILHELM DILTHEY
il suo contenuto, permettendo così ad essa di interpretare quel-
lo di tutte le altre. Dal momento che qui stanno i dati delle
scienze dello spirito, risulta pure che tutto ciò che è stabile
ed estraneo, in quanto proprio alle immagini del mondo fisico,
deve venir eliminato dal concetto del dato proprio di questo
campo. Tutto il dato è qui venuto alla luce, e quindi è storico;
è inteso, e quindi contiene in sé un elemento comune; è noto
in quanto è inteso, e contiene in sé un raggruppamento del
molteplice, poiché già l’interpretazione del manifestarsi della
vita nell’intendere superiore poggia su un raggruppamento. An-
che il procedimento di classificazione di tali manifestazioni è
quindi già presente nei dati delle scienze dello spirito.
E qui viene a completarsi il concetto delle scienze dello
spirito. Il loro ambito si estende quanto l’intendere, e l’intende-
re ha il suo oggetto unitario nell’oggettivazione della vita. Così
il concetto di scienza dello spirito è determinato, in base all’am-
bito dei fenomeni che rientrano in essa, mediante l’oggettivazio-
ne della vita nel mondo esterno. Lo spirito intende soltanto ciò
che esso stesso ha creato. La natura, cioè l’oggetto della scienza
naturale, comprende la realtà prodotta indipendentemente dall’o-
pera dello spirito. Tutto ciò in cui l'uomo ha impresso, operan-
do, la sua impronta, costituisce l’oggetto delle scienze dello
spirito.
E anche l’espressione « scienza dello spirito » riceve a questo
punto la sua giustificazione. Si è nel passato discorso dello
spirito delle leggi, del diritto, della costituzione: ora possiamo
dire che tutto ciò in cui lo spirito si è oggettivato, rientra
nell’ambito delle scienze dello spirito.
2. Io ho finora designato questa oggettivazione della vita
anche con il nome di spirito oggettivo: tale termine è stato
profondamente e felicemente coniato da Hegel. Debbo però
indicare anche con precisione il senso in cui lo uso, distinguen-
dolo da quello che Hegel gli attribuisce. Tale distinzione ri-
guarda tanto il posto sistematico del concetto quanto la sua
finalità e il suo ambito.
Nel sistema hegeliano il termine designa un grado nello
sviluppo dello spirito, un grado posto tra lo spirito soggetti-
vo e lo spirito assoluto. Il concetto di spirito oggettivo ha
WILHELM DILTHEY 155
pertanto presso di lui il suo posto nella costruzione ideale dello
sviluppo dello spirito, la quale trova il suo substrato reale nella
realtà storica e nelle relazioni che in essa sussistono e si propo-
ne di comprenderla speculativamente, lasciando così alle sue
spalle le relazioni temporali, empiriche, storiche. L'idea, la qua-
le nella natura si manifesta nel suo essere altro, estraniandosi
da sé, ritorna in se stessa nello spirito, sul fondamento di tale
natura. Lo spirito del mondo ritorna alla sua pura idealità,
realizzando la sua libertà nel suo sviluppo.
Come spirito soggettivo esso è la molteplicità degli spiriti
individuali; e poiché in questa il volere si realizza sulla base
della conoscenza dello scopo razionale attuantesi nel mondo,
nello spirito individuale si compie il passaggio alla libertà. In
tal modo è dato il fondamento per la filosofia dello spirito
oggettivo. Questa mostra come la volontà libera razionale, e
quindi in sé universale, viene a oggettivarsi in un mondo eti-
co: «questa libertà, che ha il contenuto e lo scopo della li-
bertà, è anzitutto soltanto concetto, principio dello spirito e
del cuore, ed è destinata a svilupparsi come oggettività, come
realtà giuridica, etica e religiosa e come realtà scientifica » *. In
tal modo è posto lo sviluppo dallo spirito oggettivo allo spirito
assoluto: «lo spirito oggettivo è l’idea assoluta, ma solo come
idea che è in sé; e in quanto esso è sul terreno della finitudine,
la sua razionalità reale conserva in sé l’aspetto dell’apparenza
esterna » È.
L'oggettivazione dello spirito si compie nel diritto, nella
moralità e nell’eticità. L’eticità realizza la volontà razionale
universale nella famiglia, nella società civile e nello stato; e lo
stato realizza nella storia universale la sua essenza, in quanto
realtà esterna dell'idea etica.
In tal modo la costruzione ideale del mondo storico ha rag-
giunto il punto in cui i due gradi dello spirito, la volontà
razionale universale del soggetto singolo e la sua oggettivazione
nel mondo etico come sua superiore unità, rendono possibile
a. Hecet, Werke, vol. VII, parte II (1845), p. 375 [EnzyK/opadie der
philosophischen Wissenschaften, parte III, $ 482].
b. Op. cit., p. 376 [EnzyKWopidie der philosophischen Wissenschaften,
parte III, $ 483].
156 WILHELM DILTHEY
l’ultimo e massimo grado: il sapere che lo spirito ha di se
stesso come forza creatrice di ogni realtà nell’arte, nella religio-
ne e nella filosofia. «Lo spirito soggettivo e oggettivo devono
esser considerati il cammino su cui si» costituisce la suprema
realtà dello spirito, lo spirito assoluto.
Qual è stata la posizione e l’importanza storica di questo
concetto dello spirito oggettivo, scoperto da Hegel? L’Illumini-
smo tedesco, troppo spesso disconosciuto, aveva posto in luce il
significato dello stato come il più ampio ente collettivo che
realizza l’eticità intrinseca degli individui. Mai dopo i giorni
dei Greci e dei Romani la comprensione dello stato e del
diritto è stata più fortemente e profondamente espressa come in
Carmen, Svarez, Klein, Zedlitz, Herzberg, i massimi funziona-
ri dello stato federiciano!. Questa intuizione dell’essenza e del
valore dello stato si è unita in Hegel con le idee antiche di
eticità e di stato, e con la penetrazione della realtà di queste
idee nel mondo antico: egli ha fatto così valere il significato
dei rapporti di comunanza nella storia. La scuola storica perve-
niva nello stesso tempo, sulla strada della ricerca storica, alla
scoperta dello spirito collettivo, a cui Hegel era giunto median-
te una propria specie di intuizione storico-metafisica. Anch'essa
perveniva a una comprensione, che andava oltre i filosofi ideali-
stici greci, dell’essenza della comunità, quale si manifesta nel
costume, nello stato, nel diritto e nella fede, e che non può
venir derivata dal cooperare degli individui. In tal modo sorge-
va in Germania la coscienza storica.
Hegel ha raccolto il risultato di tutto questo movimento in
un solo concetto — nel concetto di spirito oggettivo. Ma i
12. Johann Heinrich Casimir barone von Carmer (1720-1801), fu dal 1779 al 1795
gran cancelliere e presidente della Commissione Icgislativa dello stato prussiano; sot-
to la sua direzione fu pubblicato, nel 1780-81, il primo volume del Corpus iuris Frie-
dericianum. — Karl Gottlieb Svarez (1746-1798), collaborò alla redazione del codice
prussiano, — Ernst Ferdinand Klein (1744-1810), anch'egli collaboratore di Carmer nel-
la redazione del codicc prussiano, autore dei Grundsùtze des gemeinen deutschen pein-
lichen Rechts (1799) e di mumerose altre opere giuridiche, soprattutto di carattere pe-
nalistico. — Karl Abraham barone von Zedlitz (1731-1793), ministro di Federico II,
ebbe gran parte nella riforma del sistema scolastico prussiano. — Ewald Herzberg (1725-
1795), anch'egli ministro sotto il regno di Federico II, autore del Mémoire raisonné
con cui il sovrano cercò di giustificare nel 1756 l'invasione della Sassonia, che diede ini-
zio alla Guerra dei sette anni.
WILHELM DILTHEY 157
presupposti sui quali Hegel ha fondato questo concetto non
possono più venir mantenuti. Egli ha costruito le comunità
sulla base della volontà universale della ragione: noi dobbiamo
oggi muovere dalla realtà della vita, poiché nella vita opera la
totalità della connessione psichica. Hegel ha costruito metafisi-
camente; noi analizziamo il dato. E l’analisi attuale dell’esisten-
za umana suscita in tutti noi la coscienza della fragilità, della
forza dell'impulso oscuro, della sofferenza derivante dalle tene-
bre e dalle illusioni, della finitudine presente in tutto ciò che è
vita, anche dove da essa derivano le supreme forme della vita
della comunità. Non possiamo quindi intendere lo spirito ogget-
tivo sulla base della ragione, ma dobbiamo rifarci alla connes-
sione strutturale delle unità viventi che si continua nelle comu-
nità. E non possiamo costringere lo spirito oggettivo entro una
costruzione ideale, ma dobbiamo piuttosto porre a base la sua
realtà nella storia. Noi cerchiamo di intendere e di rappresenta-
re con concetti adeguati questa realtà. E in quanto lo spirito
oggettivo viene così liberato dalla sua fondazione unilaterale in
una ragione universale, che esprimeva l’essenza dello spirito del
mondo, e liberato anche dalla costruzione ideale, diventa allora
possibile un nuovo concetto di esso, il quale comprende il
linguaggio, il costume, ogni specie di forma della vita e di
stile di vita al pari della famiglia, della società civile, dello
stato e del diritto. Così cade anche quello che Hegel ha distin-
to, rispetto allo spirito oggettivo, come spirito assoluto: arte,
religione e filosofia rientrano in questo concetto, poiché proprio
in esse l'individuo creatore si mostra nel medesimo tempo co-
me rappresentante della comunanza spirituale, e lo spirito si
oggettiva proprio in tali forme vigorose, e può esservi ricono-
sciuto.
Questo spirito oggettivo contiene certo in sé un’articolazio-
ne, che va dall’umanità fino ai tipi di minore estensione: in
esso agisce questa articolazione, cioè il principio di individua-
zione. E quando l’individuale viene appreso nell’intendere, in
base a ciò che è universalmente umano e attraverso la sua
mediazione, si ha un rivivere della connessione interna che
conduce da ciò che è universalmente umano alla sua individua-
zione. Questo movimento viene appreso nella riflessione, e la
158 WILHELM DILTHEY
psicologia individuale abbozza la teoria che fonda la possibi-
lità dell’individuazione *.
A base delle scienze sistematiche dello spirito sta pertanto
lo stesso rapporto tra le uniformità, che stanno a fondamento,
e l'individuazione che sorge sulla loro base — cioè il rapporto
tra teorie generali e procedimenti comparativi. Le verità genera-
li, quali possono esservi accertate a proposito della vita etica
o della poesia, diventano così il fondamento per la penetrazio-
ne delle differenze dell’ideale morale o dell’attività poetica.
E in questo spirito oggettivo tutte le realtà del passato, in
cui si sono formate le grandi forze totali della storia, sono
diventate presente. L'individuo, come portatore e rappresentan-
te dei rapporti di comunanza che in lui sono intrecciati, gode
e penetra la storia in cui essi sono sorti. Esso intende la storia
perché è un essere storico.
In un ultimo punto il concetto qui formulato di spirito
oggettivo si distingue da quello di Hegel. Sostituendo alla ra-
gione universale di Hegel la vita nella sua totalità, l’Er/ebnis,
l’intendere, la connessione della vita storica, la forza dell’irra-
zionale in essa presente, sorge il problema della possibilità della
scienza storica. Per Hegel questo problema non esisteva: la sua
metafisica, nella quale lo spirito del mondo, la natura come sua
alienazione, lo spirito oggettivo come sua realizzazione e lo
spirito assoluto fino alla filosofia come attuazione della sua
autocoscienza interiore sono identici, lascia alle sue spalle que-
sto problema. Ma oggi occorre viceversa riconoscere il dato del-
le manifestazioni storiche della vita come il vero fondamento
del sapere storico, e trovare un metodo per affrontare la questio-
ne della possibilità di un sapere universalmente valido intorno
al mondo storico sulla base di questo dato.
IV. IL MonDo SPIRITUALE COME CONNESSIONE DINAMICA
Così nell’Erleben e nell’intendere — attraverso l’oggettiva-
zione della vita — si apre dinanzi a noi il mondo spirituale. E
a. Cfr. il mio saggio Beitrige zum Studium der Individualitàt, « Sitz-
ungsberichte der koniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften »,
1896, pp. 295-335 [ora in Ges. Schr., vol. V, pp. 241-316].
WILHELM DILTHEY 159
il nostro compito è ora quello di determinare più da vicino
nella sua essenza questo mondo dello spirito, questo mondo
storico e sociale, in quanto oggetto delle scienze dello spirito.
Riprendiamo anzitutto i risultati delle indagini precedenti
in rapporto alla connessione delle scienze dello spirito. Questa
connessione poggia sul rapporto tra Erleben e intendere, e da
ciò derivano tre princìpi fondamentali. L'ampliamento del no-
stro sapere intorno a ciò che è dato nell’Erleder si compie
mediante l’interpretazione delle oggettivazioni della vita, e que-
sta interpretazione è a sua volta possibile soltanto sulla base
della profondità soggettiva dell’Erledez. Così pure la compren-
sione del singolare è possibile soltanto mediante la presenza in
esso del sapere generale, e questo ha a sua volta il proprio
presupposto nell’intendere. Infine, la comprensione di una parte
del corso storico si compie pienamente solo mediante la relazio-
ne della parte col tutto, e l’analisi storico-universale della totali-
tà presuppone la comprensione delle parti che sono in essa
unite.
In tal modo viene in luce la reciproca dipendenza in cui
stanno tra loro l'apprendimento di ogni particolare elemento
oggettivo delle scienze dello spirito nella totalità storico-sociale
di cui l'elemento fa parte, e la rappresentazione concettuale di
questa totalità nelle scienze sistematiche dello spirito. Così nel
progresso delle scienze dello spirito, in ogni punto del loro
corso, si rivelano l’azione reciproca dell’Erleben e dell'intende-
re nell’apprendimento del mondo spirituale, la dipendenza reci-
proca del sapere generale e del sapere singolare, e infine la
graduale spiegazione del mondo spirituale. Perciò noi li ritro-
viamo in tutte le operazioni delle scienze dello spirito, in quan-
to formano in generale il substrato della loro struttura. Così
noi dovremo riconoscere la dipendenza reciproca di interpreta-
zione, critica, collegamento delle fonti, sintesi di una connessio-
ne storica: un rapporto simile sussiste nella formazione dei
concetti di soggetti quali l'economia, il diritto, la filosofia,
l’arte, la religione, che designano le connessioni dinamiche di
diverse persone in una operazione comune. Ogni volta che il
pensiero scientifico cerca di compiere un’elaborazione concettua-
le, la determinazione dei segni distintivi costituenti il concetto
presuppone pure la constatazione degli stati di fatto che devono
160 WILHELM DILTHEY
esser compresi nel concetto; e la constatazione e la scelta di
questi stati di fatto esige segni distintivi, sulla base dei quali
poter decidere sulla loro appartenenza all'ambito del concetto.
Per determinare il concetto di poesia, io debbo trarlo da quegli
stati di fatto che costituiscono l’ambito di tale concetto, e per
constatare quali opere appartengano alla poesia debbo già posse-
dere un segno distintivo sulla base del quale l’opera può venir
riconosciuta come poetica.
Questo rapporto è quindi il carattere più generale della
struttura delle scienze dello spirito.
1. Carattere generale della connessione dinamica del mondo spi-
rituale.
Da ciò deriva il compito di concepire il mondo spirituale
come una connessione dinamica, cioè come una connessione
contenuta nei suoi prodozti duraturi. Le scienze dello spirito
hanno il loro oggetto in questa connessione dinamica e nelle
sue creazioni. Esse analizzano sia tale connessione sia quella
logica, estetica, religiosa, che si manifesta in solide formazioni
e che caratterizza i vari tipi di queste, sia la connessione presen-
te in una costituzione o in un libro giuridico, che si riferisce
poi appunto alla connessione dinamica da cui è sorta.
Questa connessione dinamica si distingue dalla connessione
causale della natura in quanto, conformemente alla struttura
della vita psichica, essa produce valori e realizza scopi. E inve-
ro non è un fatto occasionale, ma dipende dalla struttura stessa
dello spirito che questo produca valori e realizzi scopi nella
propria connessione dinamica, sulla base dell’apprendimento:
tale carattere può venir definito il carattere teleologico imma-
nente delle connessioni dinamiche dello spirito. Con ciò inten-
do una connessione di operazioni, che è fondata nella struttura
di una connessione dinamica. La vita storica crea; essa è conti-
nuamente attiva nella produzione di beni e di valori, e tutti i
concetti relativi sono soltanto riflessi di questa sua attività.
I portatori di questa costante creazione di valori e di beni
nel mondo spirituale sono individui, comunità e sistemi di
cultura in cui gli individui agiscono insieme. La cooperazione
tra gli individui è determinata dal fatto che essi si sottopongo-
Wilhelm Dilthey intorno al 190
WILHELM DILTHEY 16I
no a regole per la realizzazione dei valori e si prefiggono degli
scopi. Così in ogni specie di questa cooperazione c’è un rappor-
to vitale, che inerisce all’essenza dell’uomo e lega tra loro gli
individui — quasi come un nucleo che non si può afferrare
psicologicamente, ma che si manifesta in ogni sistema di rela-
zioni tra uomini. L’azione entro di esso è condizionata dalla
connessione strutturale tra l'apprendimento, gli stati psichici
che si esprimono nella scelta di valori e quelli che consistono
nella posizione di scopi, di beni e di norme. Questa connessio-
ne dinamica si rivela in primo luogo negli individui. In quanto
poi essi sono punti di incrocio tra sistemi di relazioni, di cui
ognuno costituisce un centro permanente di attività, entro tali
sistemi vengono a svilupparsi beni comuni e forme di attuazio-
ne di tali beni secondo regole, a cui viene attribuita una specie
di validità incondizionata. Ogni relazione permanente tra indi-
vidui racchiude perciò in sé uno sviluppo nel quale valori,
regole e scopi vengono prodotti, elevati a coscienza e consolida-
ti nel corso dei processi del pensiero. Questa creazione che si
compie in individui, comunità, sistemi di cultura, nazioni, sot-
to le condizioni naturali che sempre offrono a essa il suo mate-
riale e la sua spinta, perviene nelle scienze dello spirito alla
riflessione su se stessa.
Da tale connessione strutturale deriva poi che ogni unità
spirituale 4a il suo centro in se stessa. Come l’individuo, così
anche ogni sistema di cultura e ogni comunità ha il suo centro
entro di sé; in virtù di esso l’apprendimento della realtà, la
valutazione e la produzione di beni sono collegati in un com-
plesso unitario.
Ora si presenta un nuovo rapporto fondamentale nella con-
nessione dinamica che costituisce l'oggetto delle scienze dello
spirito. I diversi soggetti creativi sono intrecciati in più ampie
connessioni storico-sociali, come le nazioni, le età, i periodi
storici. Così sorgono forme più complicate di connessione sto-
rica. I valori, gli scopi, i nessi che in esse si presentano,
portati da individui, comunità, sistemi di relazioni, debbono
essere compenetrati dallo storico. Essi debbono venir comparati,
ponendo in luce l'elemento comune che è in essi e raccogliendo
le diverse connessioni dinamiche in sintesi. E qui dall’autocen-
tralità, intrinseca a ogni unità storica, deriva un’altra forma di
11. STORICISMO TEDESCO.
162 WILHELM DILTHEY
unità. Ciò che opera nel medesimo tempo in un nesso recipro-
co, come individui e sistemi di cultura e comunità, vive in un
continuo scambio spirituale e completa anzitutto la sua vita
psichica con quella altrui: già le nazioni vivono più sovente in
una forte chiusura reciproca e hanno perciò il loro orizzonte
proprio; se però considero un periodo come quello medievale,
il suo ambito visuale è separato da quello dei periodi preceden-
ti. Anche quando i risultati di tali periodi mantengono la loro
influenza, essi vengono tuttavia assimilati nel sistema del mon-
do medievale. Questo ha così un orizzonte chiuso. E un'epoca
è così incentrata in se stessa în un muovo senso. Le varie
persone dell’epoca hanno il criterio di misura del loro operare
in un elemento comune. Il nesso delle connessioni dinamiche
nella società dell’epoca ha tratti simili. Le relazioni dell’appren-
dimento oggettivo mostrano in essa una interna affinità; il
modo di sentire, la vita dell'animo, gli impulsi che ne deri-
vano sono affini tra loro. E così anche il volere si sceglie scopi
uniformi, mira agli stessi beni e si trova vincolato in maniera
simile. È compito dell’analisi storica ritrovare negli scopi, nei
valori, nei modi di pensare concreti la concordanza in un ele-
mento comune che domina l’epoca. Proprio da questo elemento
comune sono determinate anche le antitesi che qui si presenta-
no. Così ogni azione, ogni pensiero, ogni creazione comune, in
breve ogni parte di questa totalità storica acquista la propria
significatività in virtù del suo rapporto con la totalità dell’epo-
ca o dell’età. E quando lo storico giudica, egli constata ciò che
l'individuo ha compiuto in tale connessione, e anche in quale
misura il suo sguardo e il suo operare sono andati già oltre di
essa.
Il mondo storico come una totalità, questa totalità come una
connessione dinamica, questa connessione dinamica come pro-
duttrice di valori e di scopi, cioè creatrice, quindi la compren-
sione di questa totalità in base a se stessa, infine l’autocentrali-
tà dei valori e degli scopi nelle età, nelle epoche, nella storia
universale — questi sono i punti di vista da cui deve essere
concepita la connessione, a cui dobbiamo pervenire, delle scien-
ze dello spirito. Così il rapporto immediato della vita, dei suoi
valori e dei suoi scopi con l’oggetto storico viene gradualmente
sostituito nella scienza, in base alla sua tendenza alla validità
WILHELM DILTHEY 163
universale, dall'esperienza delle relazioni immanenti che sussi-
stono nella connessione dinamica del mondo storico tra la forza
attiva, i valori, gli scopi, il significato e il senso. Soltanto
su questo terreno della storia oggettiva può sorgere il proble-
ma se e come siano possibili le previsioni sul futuro e sulla
subordinazione della nostra vita a fini comuni dell’umanità.
L’apprendimento della connessione dinamica si forma in pri-
mo luogo in chi ne ha coscienza immediata, per il quale la
successione del divenire interiore si sviluppa in relazioni struttu-
rali. E tale connessione è poi ritrovata, mediante l’intendere, in
altri individui. La forma fondamentale della connessione sorge
così nell’individuo, riunendo il presente, il passato e le possibili-
tà del futuro in un corso vitale: questo corso si riproduce poi
nel corso storico, in cui sono inserite le unità della vita. In
quanto lo spettatore di un avvenimento vede connessioni più
ampie o una narrazione le racconta, sorge l'apprendimento dei
fatti storici. E in quanto questi assumono un posto nel corso
temporale, presupponendo in ogni punto l’azione del passato e
spingendo le loro conseguenze fin nel futuro, ogni avvenimen-
to implica un movimento ulteriore e il presente conduce avan-
ti verso il futuro.
Altri modi di connessione sussistono in opere che, scisse dai
loro autori, recano in sé la propria vita e la propria legge.
Prima di spingerci entro la connessione dinamica da cui esse
sono sorte, noi cogliamo le connessioni sussistenti nell’opera
compiuta. Nell’intendere sorge la connessione logica in cui so-
no legati tra di loro i princìpi giuridici che formano un libro
di diritto. Se leggiamo una commedia di Shakespeare, trovia-
mo che gli elementi di un accadimento, legati secondo i rappor-
ti di tempo e di azione, sono qui elevati secondo le leggi della
composizione poetica a un’unità che li solleva, all’inizio e alla
fine, al di fuori del corso dinamico collegando le loro parti in
una totalità.
2. La connessione dinamica come concetto fondamentale delle
scienze dello spirito.
Nelle scienze dello spirito noi cogliamo il mondo spirituale
sotto forma di connessioni che si formano nel corso temporale.
164 WILHELM DILTHEY
Operare, energia, corso temporale, accadere sono quindi i mo-
menti che caratterizzano l’elaborazione concettuale delle scien-
ze dello spirito. Da queste determinazioni di contenuto non
dipende però la funzione generale del concetto nella connessio-
ne delle scienze dello spirito, la quale richiede determinatezza
e costanza in tutti i giudizi. I caratteri di un concetto, il cui
nesso ne forma il contenuto, debbono soddisfare tali esigenze; e
le asserzioni, in cui i concetti sono collegati, non debbono conte-
nere contraddizioni né entro di sé né tra di loro. Questa validi-
tà indipendente dal corso temporale, che sussiste in tal modo
nella connessione del pensiero e determina la forma dei concet-
ti, non ha alcun rapporto con il fatto che il contenuto dei con-
cetti propri delle scienze dello spirito può rappresentare il corso
temporale, l’operare, l'energia e l’accadere.
Noi vediamo operante nella struttura dell'individuo una ten-
denza o una forza impulsiva che si partecipa a tutte le forme
più complesse del mondo spirituale. In questo mondo si presen-
tano forze collettive che si fanno valere in una determinata
direzione nella connessione storica. Tutti i concetti delle scien-
ze dello spirito, in quanto rappresentano qualche elemento del-
la connessione dinamica, contengono in sé questo carattere di
processo, di corso, di accadere o di agire. E quando le oggetti-
vazioni della vita spirituale vengono analizzate come qualcosa
di compiuto, quasi di fisso, resta sempre il compito ulteriore
di penetrare la connessione dinamica in cui tali oggettivazioni
sono sorte. In un ambito più vasto i concetti delle scienze dello
spirito sono rappresentazioni fissate di un procedere, e costitui-
scono la solidificazione nel pensiero di ciò che è corso o direzio-
ne di movimento. Pure le scienze sistematiche dello spirito
racchiudono il compito di un'elaborazione concettuale, che
esprime la tendenza insita nella vita, la sua mutabilità e la sua
mobilità, ma soprattutto la finalità che vi si realizza. E nelle
scienze dello spirito, sia storiche sia sistematiche, si presenta il
compito ulteriore di dare alle relazioni una corrispondente ela-
borazione concettuale.
È stato merito di Hegel aver cercato di esprimere nella sua
logica l'incessante corrente dell’accadere. Ma è stato suo errore
ritenere che tale esigenza fosse inconciliabile con il principio
di contraddizione: contraddizioni non risolubili sorgono soltan-
WILHELM DILTHEY 165
to se si vuol spiegare il fatto del fluire della vita. E altrettanto
erroneo è stato, ed è, giungere da tale presupposto al rifiuto
dell’elaborazione concettuale sistematica nel campo storico. Co-
sì nel metodo dialettico di Hegel la varietà della vita storica è
venuta a irrigidirsi, mentre gli avversari dell’elaborazione con-
cettuale sistematica nel campo storico lasciano sprofondare in
una profondità irrappresentabile della vita la molteplicità dell’e-
sistenza.
A questo punto si può comprendere la più profonda inten-
zione di Fichte. Nel faticoso approfondirsi dell’io in se medesi-
mo, esso si ritrova non come sostanza, essere, datità, ma come
vita, attività, energia. In tale modo egli aveva già elaborato i
concetti che esprimono l’energia del mondo storico.
3. Il procedimento di determinazione delle connessioni dinami-
che particolari.
La connessione dinamica è in sé sempre complessa. Il punto
di partenza è un’azione particolare, per la quale cerchiamo —
procedendo indietro — i momenti causanti. Tra i molti fattori,
ne è determinabile soltanto un numero limitato che abbia im-
portanza per questa azione. Quando ricerchiamo l'intreccio del-
le cause del mutamento della nostra letteratura, in virtù del
quale è stato superato l’Illuminismo, distinguiamo allora grup-
pi di cause, ci sforziamo di misurarne l'influenza, e delimitia-
mo in qualche modo lo sconfinato contesto causale secondo il
significato dei momenti e secondo i nostri scopi. Così poniamo
in luce una connessione dinamica per spiegare il mutamento in
questione. D'altra parte noi distinguiamo, in un'analisi metodi-
ca condotta da diversi punti di vista, le connessioni particolari
presenti nella concreta connessione dinamica; e su questa anali-
si poggia precisamente il progresso che ha luogo sia nelle scien-
ze sistematiche dello spirito sia nella storia.
L’induzione, che constata i fatti e i nessi causali, la sintesi
che lega tra loro con l’aiuto dell’induzione le connessioni causa-
li, l’analisi che distingue tra loro singole connessioni dinami-
che, la comparazione — questi, o equivalenti, sono i modi in
cui si costituisce in prevalenza la nostra conoscenza della con-
nessione dinamica. E noi applichiamo gli stessi metodi quando
166 WILHELM DILTHEY
indaghiamo le creazioni durature scaturite da questa connessio-
ne dinamica — quadri, statue, drammi, sistemi filosofici, scrit-
ti religiosi, libri giuridici. La connessione in essi presente è
diversa secondo il loro carattere, ma anche qui l’analisi dell’in-
sieme dell’opera su base induttiva e la ricostruzione sintetica
della totalità in base alla relazione delle sue parti, sempre su
base induttiva, si intrecciano tra loro con la costante presenza
di verità generali. A questa tendenza del pensiero verso la
connessione è legata nelle scienze dello spirito un’altra tenden-
za che, procedendo dal particolare al generale e viceversa, inda-
ga le regolarità presenti nelle connessioni dinamiche. Qui si
manifesta il più ampio rapporto di reciproca dipendenza tra le
forme di procedimento. Le generalizzazioni servono a formare
delle connessioni, e l’analisi della concreta connessione universa-
le in connessioni particolari è la strada più feconda per la
scoperta di verità generali.
Se si tiene presente il procedimento di constatazione delle
connessioni dinamiche nelle scienze dello spirito, viene in luce
la grande differenza che lo separa da quello che ha reso possibi-
li gli enormi successi delle scienze della natura. Le scienze
della natura hanno a proprio fondamento la connessione spazia-
le dei fenomeni: la numerabilità e la misurabilità di ciò che si
estende spazialmente o si muove nello spazio rendono in esse
possibile la scoperta di leggi generali esatte. Ma l’interna con-
nessione dinamica è solo aggiunta dal pensiero, e i suoi elemen-
ti ultimi non possono venir indicati. Invece, come abbiamo
visto, le unità ultime del mondo storico sono date nell’Erleden
e nell’intendere. Il loro carattere di unità è fondato nella con-
nessione strutturale in cui sono collegati l'apprendimento ogget-
tivo, i valori e la posizione di scopi. Noi abbiamo un’esperien-
za vissuta di questo carattere dell'unità vivente anche per il
fatto che può costituire uno scopo soltanto ciò che è posto nel
suo volere, che è vero soltanto ciò che trova conferma di fronte
al suo pensiero, e che possiede valore per essa soltanto ciò che
ha un rapporto positivo con il suo sentire. Il correlato di questa
unità vivente è il corpo che si muove e opera in base a un
impulso interno. Il mondo storico-sociale dell’uomo è costitui-
to da queste viventi unità psico-fisiche: tale è il risultato sicuro
dell’analisi. E anche la connessione dinamica di queste unità
WILHELM DILTHEY 167
mostra poi qualità particolari che non sono esaurite dai rappor-
ti di unità e di pluralità, di tutto e di parte, di composizione e
di azione reciproca.
Procedendo, l’unità vivente risulta una connessione dinami-
ca che si pone al di là della natura in quanto viene immediata-
mente vissuta, ma le cui parti attive non possono venir misura-
te secondo la loro intensità bensì solo valutate, e la cui indivi-
dualità non può venir scissa dall’elemento umano comune, di
modo che l’umanità è soltanto un tipo indeterminato. Pertanto
ogni stato particolare nella vita psichica è una nuova posizione
dell’intera unità vivente, un rapporto della sua totalità con le
cose e con gli uomini; e, in quanto ogni manifestazione della
vita procedente da una comunità o appartenente alla connessio-
ne dinamica di un sistema di cultura è il prodotto del coopera-
re di varie unità viventi, gli elementi di queste forme compo-
ste rivestono un carattere corrispondente. Per quanto ogni pro-
cesso psichico appartenente a tale totalità possa dipendere dal-
l'intenzione della connessione dinamica, tuttavia questo proces-
so non è mai determinato da essa in maniera esclusiva. L'indivi-
duo, in cui esso si compie, si inserisce come unità vivente nella
connessione dinamica; e nella sua manifestazione esso opera
come totalità. La natura, per la differenziazione dei sensi di
cui ognuno racchiude un ambito di qualità sensibili omogenee,
è distinta in diversi sistemi ognuno dei quali è internamente
omogeneo. Lo stesso oggetto, una campana ad esempio, è duro,
bronzeo, capace di produrre al rintocco una serie di suoni; e
ognuna delle sue proprietà occupa un posto in uno dei sistemi
dell’apprendimento sensibile, senza che ci sia data una connes-
sione interna tra queste qualità. Nell’Erlebder io esisto a me
stesso come connessione. Ogni situazione mutata produce una
nuova posizione della vita intera. Del pari in ogni manifestazio-
ne della vita, che appare dinanzi alla nostra comprensione,
opera sempre tutta la vita. Perciò né nell’Erleden né nell’inten-
dere ci sono dati sistemi omogenei, che ci consentano scoprire
leggi di mutamento. Comunanza e affinità si presentano a noi
nell’intendere, e questo ci porta d’altro lato a cogliere innume-
revoli sfumature di differenziazione, dalle grandi distinzioni
tra razze, stirpi e popoli, fino all’infinita molteplicità degli
individui. Perciò nelle scienze della natura domina la legge dei
168 WILHELM DILTHEY
mutamenti, mentre nel mondo spirituale domina la comprensio-
ne dell’individualità, dalla persona singola all'umanità intera,
nonché il procedimento comparativo, che cerca di ordinare con-
cettualmente questa molteplicità individuale.
Da questi rapporti derivano i limiti della conoscenza spiri-
tuale in rapporto sia allo studio della psicologia sia alle discipli-
ne sistematiche, che dovranno essere illustrati più da vicino
nella dottrina del metodo. Da un punto di vista generale è
evidente che sia la psicologia sia le singole discipline sistemati-
che avranno un prevalente carattere descrittivo e analitico; e
qui possono servire le mie precedenti considerazioni sul procedi-
mento analitico nella psicologia e nelle scienze sistematiche del-
lo spirito, a cui mi rifaccio nell’insieme *.
4. La storia e la sua comprensione per mezzo delle scienze
sistematiche dello spirito: il sapere storico.
La conoscenza spirituale si compie, come si è visto, attraver-
so la reciproca dipendenza della storia e delle discipline sistema-
tiche; e poiché l'intenzione dell’intendere precede in ogni caso
l'elaborazione concettuale, noi cominciamo con le proprietà ge-
nerali del sapere storico.
L'apprendimento della connessione dinamica, costituita dal-
la storia, sorge anzitutto in base a punti particolari, in cui i
resti raccolti del passato vengono tra loro collegati nell’intende-
re mediante la relazione con l’esperienza della vita; ciò che ci
circonda da vicino diventa mezzo per comprendere ciò che sta
lontano ed è passato. La condizione di questa interpretazione
dei resti storici risiede nel carattere di persistenza nel tempo e
di universale validità umana di ciò che noi vi rechiamo dentro.
Così noi vi trasponiamo la nostra conoscenza dei costumi, delle
abitudini, delle connessioni politiche, dei processi religiosi; e il
a. Cfr. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie,
« Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaf-
ten », 1894, pp. 1309-1407 [ora in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 139-
237]. Si vedano inoltre le Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaf-
ten: Erste Studie, « Sitzungsberichte » cit., 1905, vol. II, pp. 322-43 [ora in
Gesammelte Schriften, vol. VII, pp. 3-23], l’Eiz/eitung in die Geistewissen-
schaften, e C. Siwart, Logik, Tubingen, vol. II, 3° ed. 1904, p. 633 sgg.
WILHELM DILTHEY 169
presupposto ultimo di questa trasposizione è costituito sempre
dalle connessioni che lo storico ha vissuto in sé. La cellula
originaria del mondo storico è l’Erlebnis, nel quale il soggetto
si trova in rapporto al suo ambiente nella connessione dinamica
della vita. Questo ambiente opera sul soggetto e ne subisce
l'influenza: esso è composto dall'ambiente fisico e spirituale. In
ogni parte del mondo storico vi è quindi la medesima connes-
sione del corso di un accadere psichico in rapporto dinamico
con il suo ambiente. Qui sorge il problema di valutare le
influenze naturali sull'uomo e di constatare pure l’azione che
su di lui esercita l’ambiente spirituale.
Come la materia prima viene nell’industria sottoposta a di-
versi modi di lavorazione, così anche i resti del passato vengo-
no elevati a piena comprensione storica mediante diverse proce-
dure. La critica, l’interpretazione e il procedimento che reca
unità nella comprensione di un processo storico si collegano tra
di loro. L'aspetto caratteristico sta però anche qui nel fatto che
non si ha una semplice fondazione di un’operazione sull’altra:
la critica, l’interpretazione e il collegamento concettuale hanno
compiti diversi; ma la soluzione di ogni compito richiede conti-
nuamente cognizioni ottenute per altre vie.
Proprio questo rapporto ha però come conseguenza che la
fondazione della connessione storica dipende sempre da un in-
treccio di operazioni che non può venir illustrato logicamente
in modo completo, e che mai può giustificarsi di fronte allo
scetticismo storico mediante prove incontestabili. Si pensi alle
grandi scoperte di Niebuhr sull’antica storia romana. La sua
critica è in ogni punto inseparabile dalla sua ricostruzione del
corso effettivo. Egli ha dovuto constatare come sia sorta la
tradizione della più antica storia romana e quali conclusioni si
possano trarre sul suo valore storico in base a tale origine. Egli
ha dovuto nel medesimo tempo cercar di trarre da un’argomen-
tazione oggettiva i lineamenti fondamentali della storia reale.
Senza dubbio questo procedimento metodico si muove in un
circolo, se si applicano le regole di una dimostrazione rigo-
rosa. E quando Niebuhr si è contemporaneamente servito della
conclusione analogica da processi di sviluppo affini, la conoscen-
za di tali processi sottostà allo stesso circolo, e la conclusione
analogica qui impiegata non dà nessuna certezza rigorosa.
170 WILHELM DILTHEY
Anche le narrazioni contemporanee debbono prima venir
esaminate in riferimento alla concezione dell’autore, alla sua
attendibilità e al suo rapporto con il processo in questione. E
quanto più le narrazioni vengono a distare temporalmente dal-
l'avvenimento, tanto più diminuisce la loro credibilità, se il
loro valore non può venir accertato mediante una riduzione ad
altre più antiche e contemporanee all’avvenimento stesso. La
storia politica del mondo antico ha una base sicura dove esisto-
no dei documenti, e così pure la storia politica del mondo
moderno dove sono conservati gli atti che fanno parte del
corso di un avvenimento storico. Con le raccolte critico-metodi-
che dei documenti e il libero accesso degli storici agli archivi
è cominciata per la prima volta una conoscenza sicura della
storia politica. Questo può arrestare completamente lo scettici-
smo storico di fronte ai fatti, di modo che su tali fondamenti
sicuri viene a costruirsi, con l’aiuto dell’analisi delle narrazioni
in rapporto alle loro fonti, e dell'esame dei punti di vista dei
narratori, una ricostruzione che possiede probabilità storica e la
cui utilità può venir negata soltanto da menti spiritose ma non
scientifiche. Questa ricostruzione non perviene certo a un sape-
re sicuro intorno ai motivi delle persone che agiscono, ma vi
perviene intorno alle azioni e agli avvenimenti, e gli errori a
cui sempre rimaniamo esposti per i fatti particolari non metto-
no in dubbio l'insieme.
In posizione assai più favorevole che nella comprensione del
corso politico la storiografia si trova di fronte ai fenomeni di
massa, ma soprattutto quando si tratta di opere artistiche o
scientifiche che si possono sottoporre ad analisi.
5. I gradi della comprensione storica.
Il graduale assoggettamento del materiale storico si compie
per diversi gradi, che sono sempre più immersi nelle profondi-
tà della storia.
Molteplici interessi spingono anzitutto alla narrazione di
ciò che è accaduto. Qui viene in primo luogo soddisfatto il
bisogno originario di curiosità per le cose umane, in particola-
re per quelle della propria patria; e si fa pure valere la consape-
volezza della nazione e dello stato. In tal modo sorge l’arte
WILHELM DILTHEY 171
narrativa, il cui modello per ogni tempo resta Erodoto. Ma poi
viene in primo piano la tendenza alla spiegazione. La cultura
ateniese nell’età di Tucidide ha per la prima volta offerto le
condizioni indispensabili per tale spiegazione. Le azioni sono
state derivate, mediante un’acuta osservazione, da motivi psico-
logici; le lotte tra gli stati, il loro corso e il loro esito so-
no stati spiegati in base alle forze militari e politiche, e sono
stati studiati gli effetti delle costituzioni statali. E quando un
grande pensatore politico come Tucidide spiega il passato me-
diante il sobrio studio della connessione dinamica in esso presen-
te, ne deriva contemporaneamente che la storia ammaestra anche
intorno al futuro. Per conclusione analogica, quando si è ricono-
sciuto un corso dinamico antecedente e si è mostrata l'affinità
con esso dei primi stadi di un processo, si può prevedere il
ripresentarsi di un simile corso in seguito. Questa conclusione,
sulla quale Tucidide ha fondato la capacità della storia di amma-
estrare sul futuro, è infatti di decisiva importanza per il pensie-
ro politico. Come nelle scienze naturali, così anche nella storia
una regolarità entro la connessione dinamica consente di effet-
tuare asserzioni € di svolgere un’azione fondata sul sapere. Se
già il contemporaneo dei Sofisti aveva studiato le costituzioni
come forze politiche, in Polibio ci si presenta una storiografia
in cui la trasposizione metodica delle scienze sistematiche del-
lo spirito nella spiegazione della connessione dinamica della
storia consente di introdurre nel procedimento esplicativo l’azio-
ne di forze permanenti, come la costituzione e l’organizzazione
militare o le finanze. L'oggetto di Polibio è stata l’azione reci-
proca degli stati che, dall’inizio della lotta tra Roma e Cartagi-
ne fino alla distruzione di Cartagine e di Corinto, costituirono
per lo spirito europeo il mondo storico; egli ha quindi cercato
di derivare dallo studio delle forze permanenti in essi operanti i
singoli processi politici. Il suo punto di vista diventa storico-uni-
versale, in quanto egli riunisce in sé la cultura teoretica greca,
lo studio della raffinata politica e della condotta militare della
sua patria, con una conoscenza di Roma che era resa possibile
soltanto dal contatto con i maggiori uomini di stato della nuo-
va potenza mondiale. E numerose forze spirituali operano nel
tempo da Polibio fino a Machiavelli e a Guicciardini, in primo
luogo l’approfondirsi senza fine del soggetto in se medesimo e
172 WILHELM DILTHEY
nello stesso tempo l'estensione dell’orizzonte storico; ma i due
grandi storici italiani restano affini a Polibio nel loro procedi-
mento.
Un nuovo livello è stato raggiunto dalla storiografia soltan-
to nel secolo xvitr. Allora sono stati introdotti due grandi
princìpi, in quanto la connessione dinamica concreta, estratta
come oggetto storico dal grande fluire della storia, è stata 424
lizzata in connessioni particolari, come quelle del diritto, della
religione, della poesia, comprese nell’unità di un’epoca. Ciò
presupponeva che lo sguardo dello storico mirasse, al di là
della storia politica, alla storia della civiltà, che per ogni suo
campo fosse già conosciuta, mediante le scienze sistematiche
dello spirito, la funzione che esso esercita, e che si fosse già
formata una comprensione del cooperare di tali sistemi di cultu-
ra. La storiografia moderna ha avuto inizio nell'età di Voltai-
re. E in seguito è stato introdotto un nuovo principio, quello
di sviluppo, a opera di Winckelmann”, di Justus Méser" e di
Herder: esso afferma che in una connessione dinamica storica
è racchiusa, come nuova qualità fondamentale che essa percor-
ra — in virtù della sua essenza — una serie di mutamenti di
cui ognuno è possibile soltanto sulla base dei precedenti.
Questi diversi gradi designano momenti che, una volta con-
quistati, sono rimasti vitali nella storiografia. L'arte narrativa
di intrattenimento, la spiegazione acuta, l’applicazione ad essa
del sapere sistematico, l’analisi in connessioni dinamiche parti-
colari e il principio dello sviluppo — questi momenti sono
venuti a sommarsi e a rafforzarsi reciprocamente.
13. Johann. Joachim Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte te-
desco, autore della Geschichte der Kunst des Altertums (1764) e di varie altre opere,
fu il maggior teorico del classicismo settecentesco: la sua dottrina del bello ebbe larga
influenza sull'estetica di fine Settecento c della prima metà dell'Ottocento.
14. Justus Mser (1720-1794), storico tedesco, autore della Osnabriickische Ge-
schichte (1768-1824) e di altre opere, fu un rappresentante della reazione anti-illumini-
stica del pensiero tedesco della seconda metà del Settecento: la sua impostazione sto-
riografica, fondata suli’csaltazione della struttura feudale e patrimoniale della vecchia
Germania c quindi orientata in senso fortemente conservatore, è stata considerata un
importante momento preparatorio dello storicismo romantico.
WILHELM DILTHEY 173
6. L’isolamento di una connessione dinamica dal punto di vista
dell'oggetto storico.
Sempre più chiaro ci appare il significato dell’analisi della
concreta connessione dinamica e della sintesi scientifica delle
singole connessioni dinamiche in essa contenute.
Lo storico non segue all’infinito, partendo da un punto, il
nesso degli avvenimenti in tutte le direzioni; piuttosto nell’uni-
tà di un oggetto, che costituisce il suo tema, risiede un princi-
pio di selezione che è dato proprio insieme al compito dell’ap-
prendimento di tale oggetto. Infatti la trattazione dell’oggetto
storico non richiede soltanto il suo isolamento dalla vastità
della concreta connessione dinamica, ma l’oggetto contiene al
tempo stesso un principio di selezione. La caduta di Roma, la
liberazione dell'Olanda, la Rivoluzione francese richiedono la
selezione di processi e di connessioni che racchiudano le cause
tanto particolari quanto generali, cioè le forze operanti in tut-
te le loro trasformazioni, per la rovina dell’Impero romano o
per la liberazione dell'Olanda o per il compiersi della rivoluzio-
ne. Lo storico che lavora con connessioni dinamiche deve distin-
guerle e collegarle in maniera che nessun dettaglio vada smarri-
to, poiché ogni particolare viene rappresentato nei forti tratti
della connessione dinamica complessiva. In ciò non consiste
soltanto la sua capacità rappresentativa, ma questa è piuttosto
il risultato di un determinato modo di vedere. Quando si inda-
gano queste salde e profonde connessioni, risulta anche qui
che la loro comprensione deriva dal nesso tra il progredire
dell’intendere storico delle fonti con una sempre più profonda
penetrazione delle connessioni della vita psichica. Se ci si avvici-
na poi alla specie di connessione dinamica che sì presenta nei
maggiori avvenimenti storici, le origini del Cristianesimo o la
Riforma o la Rivoluzione francese o le guerre di liberazione
nazionale, la si può concepire come opera di una forza totale
che supera, nella sua tendenza unitaria, tutti gli ostacoli. E si
troverà sempre che in essa operano due specie di forze. L'una è
costituita da tensioni che risiedono nel sentimento di bisogni
imperiosi e non soddisfatti dalla situazione presente, in nostal-
gie di ogni specie, nell’accrescersi degli attriti e delle lotte, e
anche nella coscienza di un'insufficienza delle capacità di difen-
174 WILHELM DILTHEY
dere ciò che esiste. L’altra è costituita dalle energie che spingo-
no in avanti, da un volere e un potere e un credere di carattere
positivo. Esse riposano sugli istinti vigorosi di molti, ma sono
manifestati e rafforzati da Erlebnisse di personalità importan-
ti. In quanto tali tendenze positive derivano dal passato per
dirigersi verso il futuro, esse sono creatrici: racchiudono in sé
degli ideali, la loro forma è l’entusiasmo, e in questo è insita
una forma peculiare di parteciparsi e di estendersi.
Da ciò deriviamo il principio generale che nella connessione
dinamica di grandi avvenimenti storici i rapporti tra pressione,
tensione, sentimento di insufficienza dello stato di fatto — cioè
sentimenti con segni negativi e con forme di rifiuto — costitui-
scono il fondamento per l’azione, sorretta da sentimenti positi-
vi di valore, da fini da raggiungere e da determinazioni di
scopo. Quando entrambi gli elementi cooperano, si verificano i
grandi mutamenti del mondo. Nella connessione dinamica l’a-
gente peculiare è perciò costituito dagli stati psichici che si
esprimono nel valore, nel bene e nello scopo, e tra i quali non
si debbono considerare come forze operanti soltanto le tenden-
ze verso i beni di cultura, ma anche la volontà di potenza,
anche l’inclinazione a opprimere gli altri.
7. I sistemi di cultura.
Da ciò risulta che già la determinazione dell’oggetto di
un’opera storica implica una selezione degli avvenimenti e del-
le connessioni. Ma la storia racchiude un sistema coerente per
cui la sua concreta connessione dinamica riposa su campi parti-
colari isolabili, in cui sono compiute operazioni separate, di
modo che i processi svolgentisi negli individui in rapporto a
un’operazione comune costituiscono una connessione dinamica
unitaria e omogenea. Tale relazione è già stata illustrata da me
in precedenza ®: su di essa poggia l'elaborazione concettua-
le mediante cui diventano conoscibili, nell’indagine storica, con-
nessioni di carattere generale. L’analisi e l'isolamento mediante
cui vengono poste in luce tali connessioni dinamiche è quindi il
a. Einleitung in die Geistestissenschaften, p. 52 sgg. [ora in Gesam-
melte Schriften, vol. I, p. 42 sgg.].
WILHELM DILTHEY 175
procedimento decisivo che l’analisi logica delle scienze dello
spirito deve prendere in esame. Appare subito evidente l’affini-
tà di tale analisi con quella in cui viene scoperta la connes-
sione strutturale dell’unità della vita psichica.
Le più semplici e omogenee connessioni dinamiche, che
compiono una funzione culturale, sono l’educazione, la vita
economica, il diritto, le funzioni politiche, le religioni, la socia-
lità, l’arte, la filosofia, la scienza. Io prendo ora in esame le
qualità di un sistema siffatto.
In esso viene compiuta un’operazione. Così il diritto realiz-
za le condizioni coercitive per l’attuazione dei rapporti della
vita. La poesia ha la sua essenza nell’espressione di ciò che è
immediatamente vissuto e nella rappresentazione dell’oggettiva-
zione della vita, in maniera tale che l'avvenimento isolato dal
poeta si presenta, nel suo significato per la totalità della vita,
ricco di conseguenze. In questa operazione gli individui sono
legati tra di loro. I processi particolari, che in essi hanno
luogo, si riferiscono alla connessione dinamica costituita da tale
operazione e le appartengono: così essi sono membri di una
connessione che realizza l'operazione.
Le regole giuridiche del testo legislativo, il processo in cui
le parti avverse discutono, dinanzi a un tribunale, intorno a
un'eredità, secondo le regole del testo legislativo, la decisione
del tribunale e la sua esecuzione costituiscono una lunga serie
di processi psichici particolari, che si distribuiscono e si intrec-
ciano in diverse persone, per risolvere infine il compito ineren-
te al diritto relativamente a un determinato rapporto della vita.
Il compimento della funzione poetica è, in grado assai mag-
giore, legato al processo unitario che avviene nell’animo del
poeta; ma nessun poeta è il creatore esclusivo della sua opera,
in quanto egli trae un avvenimento dalla saga, si trova davanti
la forma epica in cui lo eleva a poesia, studia l’efficacia di
scene particolari nei suoi predecessori, impiega una misura me-
trica, deriva la sua concezione del significato della vita dalla
coscienza popolare o da individui eminenti, ha bisogno di ascol-
tatori che godano nell’accogliere in sé l'impressione dei suoi
versi e nell’attuare così il suo sogno di influenza. Così la funzio-
ne del diritto, della poesia o di un altro sistema di scopi della
cultura si realizza in una connessione dinamica che riposa su
176 WILHELM DILTHEY
determinati processi, legati da tale operazione, i quali hanna
luogo in certi individui.
Nella connessione dinamica di un sistema di cultura si fa
valere anche una seconda qualità. Il giudice, oltre a esplica-
re la sua funzione nell’ordine giuridico, è inserito anche in
varie altre connessioni dinamiche; agisce nell’interesse della sua
famiglia, deve realizzare una funzione economica, esercita la
sua finzione politica, forse scrive pure dei versi. Perciò gli
individui non sono legati nella loro totalità a tale connessione
dinamica, ma nella molteplicità dei rapporti dinamici sono uni-
ti tra loro soltanto quei processi che appartengono a un deter-
minato sistema, e l’individuo è inserito in diverse connessioni
dinamiche.
La connessione dinamica di un tale sistema di cultura si
realizza mediante una posizione differenziata dei suoi membri.
La solida impalcatura di ognuno di essi è formata da persone
in cui i processi, che servono a tale funzione, costituiscono
l’occupazione principale della loro vita, sia per inclinazione sia
per motivo professionale. Tra di esse emergono poi le persone
che incorporano in sé, per così dire, l'intenzione verso tale
funzione, e che per la loro unione di talento e di professione
diventano i rappresentanti di questo sistema di cultura. E infi-
ne i portatori veri e propri della creazione che ha luogo in tale
campo sono le nature produttive — i fondatori delle religioni,
gli scopritori di una nuova intuizione filosofica del mondo, gli
scopritori scientifici.
Così in una connessione dinamica siffatta ha luogo un intrec-
cio: le tensioni, accumulate in un vasto ambito, spingono al
soddisfacimeno del bisogno; l'energia produttiva trova la stra-
da per la quale si compie tale soddisfacimento o suscita l’idea
creatrice che spinge in avanti la società; infine si aggiungono
i collaboratori e poi i molti che l’accolgono.
Procedendo nell’analisi, ognuno di tali sistemi di cultura,
che realizza un’operazione, attua un valore comune a tutti
coloro che sono ad essa indirizzati. Ciò di cui l’individuo ha
bisogno, e che non può mai realizzare, gli proviene dall’ agire
della totalità: un valore creato in comune, a cui egli può
partecipare. L'individuo ha bisogno delia sicurezza della sua
vita, della sua proprietà, dell'insieme della sua famiglia; ma
WILHELM DILTHEY 177
soltanto una forza indipendente della comunità soddisfa il suo
bisogno mediante il mantenimento di regole coercitive della
vita comune, che rendono possibile la protezione di questi be-
ni. L'individuo soffre, nei tempi primitivi, sotto la pressione
di forze indomabili intorno a lui, di forze cioè che stanno al
di là dell’ambito ristretto di attività della sua stirpe o del suo
popolo; ma una diminuzione di tale pressione è ottenuta solo
mediante la creazione della fede da parte dello spirito colletti-
vo. In ognuno di tali sistemi di cultura, dall'operazione a cui
mira la connessione dinamica deriva un ordine dei valori; que-
sto viene creato nel lavoro comune compiuto in vista di essa;
sorgono oggettivazioni della vita in cui il lavoro si è condensa-
to; e sorgono pure organizzazioni che servono alla realizzazio-
ne delle varie operazioni nei sistemi di cultura — libri giuridi-
ci, opere filosofiche, poesie. Il bene, che la funzione doveva
realizzare, è ora creato e sarà sempre più perfezionato.
Le parti di tale connessione dinamica acquistano una signifi-
catività nel loro rapporto con la totalità quale portatrice di
valori e di scopi. Anzitutto le parti del corso della vita hanno
un significato in base al loro rapporto con la vita, con i suoi
valori e con i suoi scopi, con lo spazio che qualcosa occupa in
essa. E quindi gli avvenimenti storici diventano significativi in
quanto sono elementi di una connessione dinamica, cooperando
alla realizzazione di valori e di scopi della totalità insieme ad
altre parti.
Mentre noi ci troviamo perplessi di fronte alla complessa
connessione dell’accadere storico, senza percepire in esso né
una struttura né delle regolarità né uno sviluppo, ogni connes-
sione dinamica, che realizza una funzione culturale, ha una
propria struttura. Se concepiamo la filosofia come connessione
dinamica, essa si presenta anzitutto come una molteplicità di
operazioni: elevazione delle intuizioni del mondo a validità
universale, riflessione del sapere su se stesso, relazione della
nostra attività conforme a uno scopo e del sapere pratico con la
connessione della conoscenza, spirito critico sempre presente
nell’intera cultura, opera di collegamento e di fondazione. L’in-
dagine storica mostra però che abbiamo qui da fare ovunque
con specifiche funzioni che si presentano sotto certe condizioni
storiche, ma che sono alla fine fondate su una funzione unita-
12. STORICISMO TEDESCO.
178 WILHELM DILTHEY
ria propria della filosofia. Essa è riflessione universale che proce-
de continuamente verso le più alte generalizzazioni e le fonda-
zioni ultime. La struttura della filosofia sta quindi nel rappor-
to di questo suo carattere fondamentale con le funzioni partico-
lari, in base alle condizioni temporali. Così la metafisica si
sviluppa sempre nell’interna connessione della vita, dell’espe-
rienza della vita e dell’intuizione del mondo. In quanto la
tendenza a un saldo fondamento, che in noi lotta continuamen-
te contro l’accidentalità della nostra esistenza, non trova
alcuna soddisfazione duratura nelle forme religiose e poetiche
di intuizione del mondo, sorge allora il tentativo di elevare
l'intuizione del mondo a sapere universalmente valido. Inoltre
nella connessione dinamica di un sistema di cultura si può ogni
volta rintracciare un’articolazione in forme particolari.
Ogni sistema di cultura ha uno sviluppo che si compie sulla
base della sua funzione, della sua struttura, delle sue regola-
rità. Mentre nel concreto corso dell’accadere non si può trova-
re nessuna legge di sviluppo, la sua analisi in connessioni dina-
miche particolari e omogenee rivela la successione di stati deter-
minati dall’interno, che si presuppongono l’un l’altro in manie-
ra che dallo strato sottostante ne emerge ogni volta uno superio-
re, e che procedono a una crescente differenziazione e a un
crescente collegamento.
8. Le organizzazioni esterne e l'insieme politico: le nazioni
organizzate politicamente.
a) Sulla base dell’articolazione naturale dell'umanità e dei
processi storici si sviluppano gli stati del mondo civile, ognuno
dei quali riunisce in sé connessioni dinamiche di sistemi di
cultura, e soprattutto le nazioni organizzate in forma statale.
L'analisi si limita qui a questa forma tipica dell’attuale organiz-
zazione politica.
Ognuno di questi stati è un’organizzazione composta da
varie comunità: la coesione delle comunità in esso racchiuse è
quindi il potere sovrano dello stato, al di sopra del quale non
esiste nessun'altra istanza. E chi potrebbe negare che il senso
della storia, fondato nella vita, venga a esplicarsi tanto nella
volontà di potenza che riempie questi stati, nel bisogno di
WILHELM DILTHEY 179
dominio verso l’interno e verso l’esterno, quanto nei sistemi di
cultura? E a tutto questo aspetto di brutalità, di temibilità, di
distruzione, che è contenuto nella volontà di potenza, a tutta la
pressione e a tutta la coercizione intrinseche al rapporto di
dominio e di obbedienza, non è forse legata la coscienza della
comunità, dell’appartenenza reciproca, la gioiosa partecipazio-
ne al potere dell'insieme politico, tutti Erlebrisse propri dei
supremi valori umani? Il lamento sulla brutalità del potere
dello stato è fuori luogo poiché, come Kant ha visto, il più
difficile compito del genere umano sta proprio nel riuscire a
contenere il volere individuale e la sua tendenza a estendere la
propria sfera di potenza e di godimento mediante la volontà
collettiva e la coercizione che essa esercita, e inoltre perché per
tale volontà, in caso di conflitto, la decisione risiede soltanto
nella guerra, e anche all’interno la coercizione resta l’ultima
istanza. Sul terreno di questa volontà di potenza, intrinseca
all’organizzazione politica, sorgono le condizioni che rendono
possibili i sistemi di cultura. Così si presenta qui una struttura
complessa, nella quale i rapporti di forza e le relazioni dei
sistemi di scopo sono legati in un’unità superiore, e la comunan-
za sorge anzitutto dall’azione reciproca dei sistemi di cultura.
Io cerco ora di illustrare tutto questo rifacendomi alla più anti-
ca società germanica a noi nota, quale ce la descrivono Cesare e
Tacito. Qui la vita economica, lo stato e il diritto si trovano
legati alla lingua, al mito, alla religiosità e alla poesia proprio
come in ogni epoca successiva: tra le qualità dei singoli campi
della vita c'è un’azione reciproca che pervade in un dato tempo
la totalità. Così, nella Germania di Tacito, dallo spirito guerrie-
ro è sorta la poesia eroica che già magnificava Arminio"! nei
suoi canti, e questa poesia a sua volta rafforzava lo spirito
guerriero. Da questo spirito guerriero è derivata pure l’inumani-
tà presente nella sfera religiosa, come mostrano il sacrificio dei
prigionieri e l’impiccagione dei loro cadaveri in luoghi sacri.
Proprio tale spirito influiva sulla posizione del dio della guerra
15. Arminio (17 a. C.-21 d. C.), principe dei Cherusci, sconfisse le legioni romane,
guidate da Quintilio Varo, nella Foresta di Teutoburgo nel 9 d. C., e in seguito gui-
dò la resistenza germanica contro l'invasore, costringendo i Romani ad abbandonare la
frontiera dell'Elba per ritirarsi sul Reno. La sua figura fu esaltata come quella di un
eroe nazionale tedesco.
180 WILHELM DILTHEY
entro il mondo divino, e da ciò risultava di nuovo una ripercus-
sione sul sentimento bellico. Così viene a costituirsi una concor-
danza tra i diversi campi della vita, la quale è così forte che
dallo stato di uno di essi possiamo compiere un’illazione sullo
stato di un altro. Ma quest’azione reciproca non spiega com-
piutamente i rapporti di comunanza che collegano tra loro le
diverse operazioni di una nazione. Che tra economia, guerra,
costituzione, diritto, linguaggio, mito, religiosità e poesia
vi sia in questa età una straordinaria concordanza e una straor-
dinaria armonia, non deriva dal fatto che una funzione fonda-
mentale qualsiasi, sia essa anche la vita economica o l’attività
bellica, abbia condizionato le altre. Il fatto non può venir consi-
derato neppure come prodotto dell’azione reciproca dei diversi
campi nella loro situazione in quel dato periodo. In termini
generali, quali che siano le influenze derivanti dalla forza €
dalle proprietà di certe operazioni, tuttavia l’affinità che lega
tra loro i diversi campi della vita entro una nazione deriva da
una profondità comune che nessuna descrizione può esaurire.
Essa esiste per noi soltanto nelle manifestazioni della vita che
scaturiscono da tale profondità e che la esprimono. È l’uomo,
facente parte di una certa nazione in un dato tempo, che inseri-
sce in ogni manifestazione della vita entro un determinato cam-
po della civiltà qualcosa della sua particolare essenza; poiché i
momenti della vita degli individui, legati nella connessione del-
le operazioni, non procedono da essa esclusivamente come abbia-
mo visto, ma l’uomo intero è sempre operante in ognuna di
queste attività e partecipa loro le proprie qualità peculiari. E
poiché l’organizzazione statale racchiude in sé diverse comuni-
tà fin giù alla famiglia, l'ambito più vasto della vita naziona-
le racchiude pure piccole connessioni e comunità che hanno
propri movimenti, e tutte queste connessioni dinamiche si incro-
ciano nei singoli individui. Più ancora lo stato attrae l’attività
che ha luogo nei sistemi di cultura; e la Prussia di Federico è
l'esempio tipico di tale estremo aumento di intensità e di esten-
sione dell’influenza statale. Accanto alle forze indipendenti,
che collaborano nei sistemi di cultura, agiscono in essi anche
le attività che procedono dallo stato; e nei processi appartenen-
ti a tale totalità statale, l’attività autonoma e il condizionamen-
to da parte della totalità sono sempre legati tra loro.
WILHELM DILTHEY 181
5) Il movimento proprio di ogni cerchia particolare in que-
sta grande connessione dinamica è determinato dalla tendenza
a compiere la propria funzione. Questa forza attiva ha in sé la
duplicità della tensione e di un’energia positiva volta alla posi-
zione di scopi: tutte le connessioni dinamiche concordano in
ciò, ma ognuna ha pure la sua peculiare struttura, dipendente
dall’operazione che compie. Molto differente è infatti la struttu-
ra di un sistema di cultura, in cui si realizza una connessione
articolata di operazioni, in cui i processi individuali vengono
mossi da tale connessione, in cui lo sviluppo dei valori, dei
beni, delle regole, degli scopi è determinato dall’essenza imma-
nente di questa funzione, da quella propria della connessione
dinamica di un’organizzazione politica, poiché in questa non
esiste tale legge di sviluppo immanente in una funzione, i fini
mutano in genere secondo la natura delle organizzazioni, la
macchina è per così dire impiegata per attuare un altro compi-
to, mentre vengono risolti compiti del tutto eterogenei e realiz-
zati valori di classe totalmente differente.
Da tale articolazione del mondo storico in connessioni dina-
miche particolari risulta una conclusione, che ci fornisce l’indi-
cazione per l'ulteriore soluzione del problema contenuto nel
mondo storico. La conoscenza del significato e del senso del mon-
do storico è stata spesso ottenuta, per esempio da Hegel o da
Comte, mediante la determinazione di una direzione generale
del movimento della storia universale; questa operazione riuni-
sce il cooperare di diversi momenti in un'intuizione indetermi-
nata. In realtà risulta che il movimento storico si compie nelle
connessioni dinamiche particolari; e inoltre appare chiaro che
l’intera problematica diretta a porre in luce un fine della sto-
ria è del tutto unilaterale. Il senso manifesto della storia deve
essere cercato anzitutto in ciò che sussiste sempre, in ciò che
ricorre nelle relazioni strutturali, nelle connessioni dinamiche,
nella formazione di valori e di scopi entro di esse, nell'ordine
interno in cui stanno tra loro — dalla struttura della vita
individuale fino all’ultima più vasta unità: questo è il senso
che la storia ha sempre e ovunque, che poggia sulla struttura
dell’esistenza individuale e che si manifesta nella struttura
delle connessioni dinamiche più complesse entro l’oggettivazio
ne della vita. Tale regolarità ha determinato anche lo sviluppo
182 WILHELM DILTHEY
passato e ad essa è sottoposto il futuro. L'analisi della costruzio-
ne del mondo spirituale avrà soprattutto il compito di mostrare
tali uniformità nella struttura del mondo storico.
In tal modo viene pure eliminata la concezione che ha visto
il compito della storia nel progresso da valori, obbligazioni,
norme, beni relativi ad altri incondizionati: con essa ci trasferi-
remmo dal campo delle scienze empiriche al campo della specu-
lazione. Infatti la storia assiste pure alla posizione di un ele-
mento incondizionato, sotto forma di valore, di norma o di
bene. Elementi del genere si presentano sempre in essa — sia
come dati nella volontà divina, sia come dati in un concetto
razionale di perfezione, in una connessione teleologica del mon-
do, in una norma universalmente valida del nostro agire, fonda-
ta su base trascendentale. Ma l’esperienza storica ha conoscen-
za soltanto dei processi, per essa così importanti, in virtù dei
quali questi elementi vengono posti: essa non sa nulla, di per
sé, in merito a una loro validità universale. Seguendo il corso
in cui si elaborano tali valori, beni o norme incondizionate,
essa osserva per diversi di essi il modo in cui la vita li ha
prodotti; la posizione incondizionata è stata possibile solo in
virtù della limitazione dell’orizzonte temporale. Essa guarda di
qui alla totalità della vita nella pienezza delle sue manifestazio-
ni storiche, e osserva la disputa mai appianata che si svolge tra
queste posizioni incondizionate. La questione se la subordina-
zione a tale elemento incondizionato, che è appunto un fatto
storico, debba essere ricondotta in maniera logicamente necessa-
ria a una condizione generale, non limitata temporalmente,
insita nell'uomo, o se sia da considerare come prodotto della
storia, conduce alle estreme profondità della filosofia trascen-
dentale, che stanno al di là dall’ambito dell’esperienza storica e a
cui neppur la filosofia è in grado di fornire una risposta sicura. E
se anche tale questione fosse decisa nel primo, ciò non potreb-
be servire allo storico per la selezione, la comprensione, la
scoperta di qualche connessione, qualora non potesse venir de-
terminato il contenuto di tale elemento incondizionato: così
l'intervento della speculazione nel campo di esperienza dello
storico difficilmente potrà avere successo. Lo storico non può
rinunciare al tentativo di intendere la storia in base a se stessa,
in base all’analisi delle varie connessioni dinamiche.
WILHELM DILTHEY 183
c) Così una nazione organizzata in forma statale può venir
concepita come un’unità strutturale individualmente determina-
ta di connessioni dinamiche. Il carattere comune delle nazioni
organizzate in forma statale poggia su regolarità che consisto-
no nella forma di movimento delle connessioni dinamiche, nel-
le loro relazioni reciproche e, poiché esse sono creatrici di
valori e di scopi, nel rapporto tra connessione dinamica, deter-
minazione di valori, posizione di scopi e connessione di signifi-
cato entro un’organizzazione politica. Ognuna di queste connes-
sioni dinamiche è incentrata in se stessa in un modo particola-
re, e su ciò è fondata la regola interna del suo sviluppo. Sulla
base di tali regolarità, che pervadono tutte le nazioni organizza-
te statalmente, si elevano le loro forme individuali, lottando e
cooperando nella storia per la loro vita e la loro validità.
In ogni nazione organizzata in forma statale l’analisi — e
soltanto questa, non già la storia dell'origine delle nazioni inter-
viene in tale connessione — distingue vari momenti. Tra gli
individui in essa racchiusi, che stanno tra loro in un rapporto
di azione reciproca, esistono uniformità di carattere e di manife-
stazioni della vita; essi hanno coscienza di queste uniformità e
dell’appartenenza reciproca che su queste riposa; in essi vive
perciò una tendenza a rafforzare tale appartenenza reciproca.
Queste uniformità possono venir constatate negli individui sin-
goli, ma pervadono e caratterizzano anche tutte le connessioni
esistenti entro la nazione. L'analisi mostra inoltre in ogni nazio-
ne un nesso di connessioni dinamiche particolari. Il potere ester-
no e interno dello stato fa della nazione un'unità che opera in
forma autonoma. Entro questa unità si sovrappongono vari
gruppi sociali, e ognuno costituisce una connessione dinamica
relativamente indipendente. I sistemi strutturali, che procedo-
no al di là della singola nazione, si presentano qui in rapporto
con altre connessioni dinamiche, e sono modificati dalle unifor-
mità che pervadono l’intero popolo; e la forza della loro azio-
ne è accresciuta dai gruppi che si costituiscono in base alla loro
tendenza a una determinata funzione. Così sorge la complessa
struttura di una nazione organizzata in forma statale: ad essa
corrisponde una nuova interna disposizione di questa totalità. In
essa viene vissuto un valore per tutti; l’agire degli individui ha
in essa un fine comune. La sua unità si oggettiva nella letteratu-
184 WILHELM DILTHEY
ra, nei costumi, nell'ordinamento giuridico e negli organi della
volontà collettiva, manifestandosi pure nella connessione dello
sviluppo nazionale.
Voglio ora illustrare in alcuni punti fondamentali la coope-
razione dei diversi momenti che fanno parte di una totalità
statale organizzata, così come sono stati determinati, nella vita
nazionale di una certa epoca.
A tale scopo mi rifaccio ai Germani dell’età di Tacito.
Quando Tacito scriveva, il fondamento della vita germanica
era sempre l'unione della guerra con lo sfruttamento del terre-
no, della caccia con l’allevamento del bestiame e con l’agricoltu-
ra. L’'arrestarsi della diffusione delle stirpi germaniche ha acce-
lerato il corso naturale verso la fissazione del domicilio, e la
Germania è divenuta un paese agricolo. Da questo rapporto
con il suolo e il terreno nella caccia, nell'allevamento del bestia-
me e nell’agricoltura, è derivato il legame dei Germani di
allora con la terra e con ciò che su di essa-cresce e vive: tale
legame è il primo momento decisivo per la vita spirituale dei
Germani in questa epoca, Altrettanto chiara è l’influenza del-
l’altro fattore sociale, prima accennato, di questa età, cioè
dello spirito guerriero delle stirpi germaniche nella vita politi-
ca, negli ordinamenti sociali e nella cultura intellettuale del
tempo. I compiti della guerra pervadevano tutti i settori della
vita; si facevano valere nel rapporto delle famiglie con l’ordina-
mento militare, cioè nelle centurie; incidevano sulla posizione
dei capi e dei prìncipi. Dallo spirito guerriero è sorto poi
anche il sistema del seguito, di importanza decisiva per lo svi-
luppo militare e politico. Il principe è circondato da un segui-
to composto da gente libera, che costituisce la sua corte milita-
re: soltanto la guerra poteva nutrire tale seguito. Esso era
legato quindi al principe dal più saldo rapporto di fedeltà, da
un rapporto che a noi si rivela nel canto eroico e nell’epica
popolare con la sua bellezza propriamente germanica. Dalla
guerra scaturisce poi il regno militare di un Marbod".
A questi fattori si aggiunge l’individualità dello spirito na-
zionale. Le sue uniformità si fanno valere nel risultato delle
connessioni dinamiche. Lo spirito guerriero, che le stirpi germa-
16. Marbod, principe dei Marcomanni, contemporanco e avversario di Arminio.
WILHELM DILTHEY 185
niche di quest'epoca hanno in comune con gli stadi primitivi di
altri popoli, mostra tuttavia presso di esse una forza e un
carattere particolare. Il valore della vita di una persona singola
è riposto nelle sue qualità belliche. Da Tacito appare che i
migliori di essi vivevano in modo completo soltanto in guerra;
la cura della casa, del focolare e del campo era lasciata alle
donne e agli individui inadatti alla guerra. Un carattere peculia-
re spinge questi Germani a operare nella pienezza del loro
essere e ad abbandonarsi senza riserve alla lotta. Il loro agire
non è determinato e limitato da una posizione razionale di
scopi; in esso c'è una sovrabbondanza di energia che li spinge
al di là dello scopo, c'è qualcosa di irrazionale. Nella loro
passione inconsumabile e indomabile essi mettono in gioco con
i dadi la loro persona e la loro libertà. Nella battaglia si
rallegrano del pericolo; dopo la lotta cadono in una pigra
quiete. Il loro mito e Ia loro saga eroica sono totalmente perva-
si da questo carattere ingenuo e inconscio che ripone il valore e
il piacere maggiore dell’esistenza non già nella serena intuizio-
ne del mondo propria dei Greci, non già nella razionale deter-
minazione di scopi propria dei Romani, ma nella manifestazio-
ne illimitata della forza in quanto tale, nella scossa e nell’esten-
sione e nell’elevazione che ne deriva per la personalità. Questo
aspetto, che trova la sua suprema espressione nella gioia della
lotta, esercita la sua influenza sull'intero sviluppo dei nostri
ordinamenti politici e della nostra vita spirituale.
L’ultimo tra i momenti contenuti in una totalità nazionale,
e che determinano il suo sviluppo, risiede nella subordinazione
dei gruppi minori alla totalità politica, quale essa sorge in
virtù dei rapporti di dominio e di obbedienza e dei rapporti di
comunità compresi in una volontà statale sovrana. Così in Ger-
mania vengono a susseguirsi il regno popolare in piccole comu-
nità di struttura imperfettamente differenziata, poi, sulla base
della crescente divisione del lavoro, l’articolazione professio
nale e la distinzione dei ceti in una totalità nazionale poco
solida, la formazione della signoria indipendente con la sua
intensiva ed estesa attività statale negli stati territoriali, che
gradualmente stritola, in mezzo ai diritti individuali e alla
volontà di potenza dei prìncipi, l’ordinamento fondato sulle
professioni e sui ceti, e infine lo sviluppo di tali stati verso
186 WILHELM DILTHEY
un continuo ampliamento dei diritti individuali, dei diritti del-
la comunità popolare nel sistema rappresentativo, conforme a
ordinamenti democratici, e d’altra parte la subordinazione dei
diritti principeschi all’impero nazionale. Se si guarda a tale
sviluppo, esso appare ovunque condizionato in duplice modo:
da un lato esso dipende dal rapporto mutevole delle forze
entro il sistema statale, e dall’altro è condizionato dai fattori
dello sviluppo interno, propri dello stato particolare, che noi
abbiamo seguito.
Così risulta chiara la possibilità di sottoporre ad analisi la
connessione dinamica che condiziona i momenti particolari del-
lo sviluppo di una nazione e lo sviluppo totale di essa, distin-
guendola nei suoi fattori. Le regolarità presenti nella struttura
della totalità politica determinano le situazioni della totalità c
i suoi mutamenti. Vi sono quasi degli strati successivi nell’ordi-
namento di vita di questa totalità, di cui il posteriore presuppo-
ne il precedente, come abbiamo visto dai mutamenti dell’orga-
nizzazione politica. Ognuno mostra un ordine interno in cui,
a partire dall’individuo, le connessioni dinamiche formano valo-
ri, realizzano scopi, raccolgono beni, sviluppano regole di con-
dotta. I portatori e i fini di tali operazioni sono però differenti.
Così sorge il problema dell’interna relazione reciproca tra tutte
queste operazioni, dalla quale esse traggono il loro significato.
Pertanto l’analisi della connessione logica delle scienze dello
spirito ci conduce di fronte a un compito ulteriore, sulla cui
soluzione getterà luce la costruzione delle scienze dello spirito
in virtù del collegamento dei loro vari metodi.
9. Età ed epoche.
In un determinato periodo di tempo si possono quindi porre
in luce analiticamente singole connessioni dinamiche e mostra-
re i momenti di sviluppo in esse contenuti, determinando inol-
tre le relazioni che uniscono tali connessioni in una totalità
strutturale e le uniformità presenti nelle parti di un insieme
politico: così noi possiamo pure intendere l’altro aspetto del
mondo storico, la linea del corso temporale e dei mutamenti
che esso racchiude in riferimento alle connessioni dinamiche,
come una totalità continua e tuttavia separabile in sezioni tem-
WILHELM DILTHEY 187
porali. Ciò che caratterizza anzitutto le generazioni, le età, le
epoche *, sono tendenze dominanti di profonda incidenza. Ciò
che le caratterizza è la concentrazione dell’intera cultura di un
periodo in se stessa, cosicché nella determinazione di valori,
nella posizione di scopi, nelle regole di vita dell’epoca risiede
il criterio di giudizio, di valutazione e di stima delle persone e
degli orientamenti che attribuisce a una determinata epoca il
suo carattere. Un individuo, una tendenza, una comunità acqui-
stano il proprio significato in questa totalità in base al loro
rapporto interno con lo spirito del tempo. E in quanto ogni
individuo è inserito in tale periodo, ne deriva pure che il suo
significato per la storia consiste in questo suo rapporto con
l'età. Quelle persone che procedono vigorosamente innanzi in
un certo periodo sono gli esponenti dell’età, i suoi rappre-
sentanti.
In questo senso si parla di spirito di un’epoca, per esempio
dello spirito del Medioevo o dell’Illuminismo. Da ciò risulta
pure che ognuna di tali epoche trova una limitazione in un
orizzonte di vita: con questo intendo la limitazione per cui gli
uomini di un'età vivono in rapporto al suo pensiero, al suo
modo di sentire, alla sua volontà. In essa c'è una relazione di
vita, rapporti vitali, esperienza della vita e formazione intellet-
tuale, che mantiene e lega gli individui in un determinato
ambito di modificazioni dell’apprendimento, della formazione
di valori e della posizione di scopi. Elementi inevitabili sovra-
stano qui gli individui particolari.
Accanto alla grande tendenza che domina e pervade un'inte-
ra età, dando a quel periodo il suo carattere, ve ne sono altre
che si contrappongono a essa. Esse mirano a conservare l’anti-
co, osservano le conseguenze dannose dell’unilateralità dello spi-
a. Già nel 1865, nel saggio su Novalis [ora in Er/ebnis und Dichtung]
ho illustrato e impiegato il concetto storico di generazione, usandolo più
ampiamente nel primo volume del Leben Schleiermachers e poi, nel 1875,
nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Men-
schen, der Gesellschaft und dem Staat [ora in Gesammelte Schriften, vol.
V, pp. 31-73], sviluppandolo insieme ai concetti ad esso collegati. L’ulterio-
re determinazione dei concetti di « continuità storica », « movimento sto
rico », « generazione », «età », «epoca » è possibile soltanto nell’illustra-
zione della costruzione delle scienze dello spirito.
188 WILHELM DILTHEY
rito dell’epoca e si rivolgono contro di questo; se invece si
presenta qualcosa di creativo e di nuovo, che sorge da un altro
sentimento della vita, allora comincia entro questo periodo il
movimento indirizzato a produrre una nuova età. Ogni con-
trapposizione resta quindi sul terreno dell’età o dell’epoca; ciò
che in essa si oppone ha nel medesimo tempo la struttura di
quell'età. In questo elemento creativo ha allora inizio un nuo-
vo rapporto di vita, di relazioni vitali, di esperienza della vita
e di formazione intellettuale.
Così i rapporti di significato che esistono in un periodo tra
le forze storiche sono fondati in quella relazione reciproca
delle uniformità e delle connessioni dinamiche, che si possono
designare come tendenze, correnti, movimenti. Da esse si pervie-
ne per la prima volta al problema più complicato di determina-
re analiticamente la connessione strutturale di un’età o di un
periodo.
Tale problema può venire illustrato considerando l’Illumini-
smo tedesco dal punto di vista di questa interna connessione:
compiendo l’analisi di un’età anzitutto in una nazione particola-
re, si viene infatti a semplificare il compito.
La scienza si era costituita nel secolo xvi. Dalla scoperta
di un ordine legale della natura e dall’applicazione di questa
conoscenza causale al dominio sulla natura era sorta la fiducia
dello spirito in un regolare progresso della conoscenza. In que-
sto lavoro di indagine le varie nazioni civili erano unite tra
loro: così è sorta l’idea di un’umanità unita nel progresso. Si
formò l’ideale di un dominio della ragione sulla società; esso
ispirò le forze migliori; così queste si unirono in uno scopo
comune, lavorando in base agli stessi metodi e attendendo dal
progresso del sapere il miglioramento dell’intero ordinamento
sociale. L'antico edificio alla cui costruzione avevano cooperato
il dominio della chiesa, i rapporti feudali, il dispotismo illimita-
to, i capricci dei principi, l'inganno pretesco — edificio sempre
trasformato dai tempi e sempre bisognoso di nuovi restauri —
doveva venir mutato in una costruzione razionale chiara e sim-
metrica. Questa è l’unità interna in cui sono legate in una
totalità la vita spirituale degli individui, la scienza, la reli-
gione, la filosofia e l’arte nella connessione europea dell’Illumi-
nismo.
WILHELM DILTHEY 189
Questa unità si compì in modo differente nei vari paesi,
atteggiandosi in maniera particolarmente felice e solida in Ger-
mania. Qui una tendenza generale si fece valere nella sua più
alta vita spirituale. Se ci si rifà indietro in Germania si può
trovare, a partire da Freidank”, la tendenza a subordinare
coscientemente la vita a salde regole; e se si volesse designarle
come morali, il fatto sarebbe rappresentato da un punto di
vista unilaterale e determinato entro un ambito troppo ristret-
to. La serietà dei popoli nordici è qui legata a un bisogno di
riflessione, che deriva da un orientamento verso l’interiorità
della vita ed è senza dubbio connesso con le situazioni politi-
che. Come nell’immobilità della vita statale le clausole giuridi-
che, i privilegi, gli accordi ostacolano il libero movimento del-
la vita, così anche nell’individuo il sentimento dell’obbligazio-
ne sovrasta la libera posizione di scopi: nel godimento della
vita si scorge sempre qualcosa di illecito. I potenti lo arraffano
per sé, ma in esso c'è qualcosa che mette in crisi la loro
coscienza. Così nella filosofia tedesca del secolo xviti vi è un
tratto fondamentale che unisce tra loro Leibniz, Thomasius *,
Wolff”, Lessing, Federico il Grande, Kant e innumerevoli altri
minori. Tale tendenza all’obbligazione e al dovere era stata
promossa dallo sviluppo del Luteranesimo e della sua morale
fin da Melantone. Essa era favorita dall’articolazione della so-
17, Freidank, nome o (più probabilmente) pseudonimo di un poeta didattico te-
desco della prima metà del secolo x1tr, che seguì Federico II in Palestina: il suo poema
Bescheidenheit (pubblicato nel 1508) ebbc larga fortuna.
18. Christian Thomasius (1655-1728), giurista e filosofo tedesco, autore di tre libri
Institutionum iurisprudentiue divinae (1688), della Introductio in philosophiam ratio.
nalem (1701), dei Fundamenta iuris naturae et gentium (1705) e di numerose altre ope-
re soprattutto di etica, fu uno dei maggiori esponenti della scuola del diritto naturale
alla fine del Seicento: la sua opera si ispira in larga misura all'insegnamento di Pu-
fendorf.
19. Christian Wolff (1679-1754), filosofo tedesco, è il principale rappresentante del-
l'Illuminismo di derivazione Icibniziana: fu autore di numerosi manuali scientifici e di
opere filosofiche come la Philosophia rationalis, sive logica methodo scientifico pertrac-
tata (1728), la Philosophia prima sive Ontologia (1729), la Cosmologia generalis (1731),
la Psychologia empirica (1732), la Psychologia rationalis (1734), la Theologia naturalis
(1736-37), la Plilosophia practica universalis (1738-39), lo Jus naturae methodo scien-
tifico pertractatum (1740-48), lo Ius gentium (1749), le Institutiones suris naturae (1750),
la Philosophia moralis sive Ethica (1750-53) e l'Oeconomica (1750). Il suo lavoro di si-
stemazione del sapere filosofico ebbe larga influenza nella cultura tedesca del Settecento,
e ad esso si richiamerà anche Kant.
190 WILHELM DILTHEY
cietà in base al concetto di professione e di ufficio, che Lutero
aveva introdotto nell’età moderna. E nella misura in cui la
tendenza all’autonomia della persona progrediva nell’Illumini-
smo, la perfezione diventava dovere: nella ragione vi è una
legge naturale dello spirito, che richiede dall’individuo la realiz-
zazione della perfezione in sé e negli altri. Questa esigenza è
dovere: un dovere che non è imposto dalla divinità, ma che
deriva dalla legge della nostra propria natura e può venir stabi-
lito su basi razionali. Soltanto in seguito la regola razionale
può venir riferita al fondamento delle cose: questa è la dottri-
na di Wolff, che si rifà indietro a Pufendorf ”, Leibniz, Thoma-
sius, e che procede in avanti fino a Kant, riempiendo tutta la
letteratura dell’Illuminismo tedesco. In questa dottrina risiede
il legame che unisce i Tedeschi dell’Illuminismo con i Tedeschi
del secolo xvi, producendo uno spirito unitario in quest’epo-
ca, un qualcosa di imponderabile che, ovunque modificato e
pur sempre il medesimo, pervade l’intera nazione: una determi-
nazione del valore della vita, che sta a base della connessione
vitale dell’Illuminismo tedesco. Il nuovo schema di movimento
dell’anima verso il suo valore supremo è fondato nel carattere
razionale dell’uomo. La persona individuale realizza il suo sco-
po in quanto divenuta maggiorenne in virtù delle sue capacità
razionali, realizza in sé il dominio della ragione sulle passioni,
e questo della ragione si manifesta come perfezione. In quanto
la ragione è poi universalmente valida e a tutti comune, e la
perfezione della totalità mediante la ragione è superiore alla
perfezione dell'individuo — nel senso che la perfezione di tutti
ha un valore superiore a quella di una persona sola — e sorge
qui l'obbligazione suprema in virtù della quale l’individuo è
legato al bene della totalità, ne deriva la più precisa determina-
zione di questo principio come principio di perfezione di tutti
gli individui, da raggiungersi mediante il progresso della totali-
tà. Questo principio dell'Illuminismo non ha la sua base nel
puro pensiero, e il suo dominio non poggia su questo, ma in
20. Samuel von Pufendorf (1632-1694), giurista e filosofo tedesco, autore dei De
iure naturae ei gentium libri octo (1672), dei De officio hominis et civis iuxta legem
natttralem libri duo (1673) c di Eris scandica (1686), nonché di varie altre opere di ar-
gomento storico e giuridico, è la maggiore figura del giusnaturalismo seicentesco.
WILHELM DILTHEY 19I
esso pervengono a un'espressione astratta tutti i valori della
vita di cui hanno esperienza gli uomini dell’Illuminismo. Per
queste menti, Wolff soprattutto, la perfezione diventa quindi,
in modo abbastanza strano, un dovere, la tendenza verso di
essa diventa una legge vincolante per l'individuo, e infine la
divinità diventa per Wolff e i suoi scolari oggetto di doveri i
quali hanno il loro centro di riferimento nella tendenza alla
perfezione. La stessa esperienza della vita, in cui sono fondate
queste idee, può venir studiata in Leibniz nel modo migliore.
Essa poggia sull’Erlebnis della felicità dello sviluppo. E il gran-
de pensatore, come poi anche Lessing, ripone nel progredire
medesimo la suprema felicità dell’uomo, in quanto essa non
può mai essergli offerta dal contenuto del momento. E che tale
progredire non si riferisca a questo o a quello scopo partico-
lare, ma allo sviluppo della persona individuale, comprenden-
do e legando tutto ciò che vi è in essa, Leibniz per primo lo
esprime mediante il suo Er/eden. Questo Erlebnis è stato ovun-
que preparato dal fatto che l’individuo nell’infelicità della vita
nazionale veniva spinto sempre verso se stesso, e indirizzato ai
compiti culturali comuni. E così come Leibniz lo aveva enuncia-
to, esso agì dappertutto. Con i concetti di valore derivanti
dalla vita stessa, che Leibniz accoglieva, è determinato anche
il compito che egli poneva alla sua filosofia, cioè quello di deri-
vare il significato della vita e il senso del mondo dalla connes-
sione dei valori individuali dell’esistenza.
Così nell’età dell’Illuminismo una connessione unitaria con-
duce dalla forma della vita all'esperienza della vita, dagli Erleb-
nisse in essa contenuti alla loro rappresentazione in concetti di
valore, in imperativi del dovere, in determinazioni di scopo,
nella coscienza del significato della vita e del senso del mondo.
In questa connessione cresce la coscienza che tale epoca ha di
sé, e nel passaggio a formule astratte queste pervengono, me-
diante la dimostrazione razionale, a un carattere assoluto; ven-
gono formulati valori, obbligazioni, doveri, beni incondiziona-
ti, mentre proprio qui lo storico percepisce chiaramente la loro
origine dalla vita medesima.
Se nella riflessione dell'individuo sulla vita troviamo in Ger-
mania una tendenza alla sua formazione razionale, una tenden-
za analoga si sviluppa nel medesimo tempo nella vita statale,
192 WILHELM DILTHEY
sulla base delle condizioni particolari della connessione dinami-
ca della vita politica.
Sempre più invadente diventava l’attività statale nello svilup-
po europeo dell’età moderna, in tutti i vari campi della cultu-
ra: nella burocrazia, nella classe militare, nelle istituzioni finan-
ziarie risiede il centro di organizzazione di tutti i rapporti di
forza, e l’attività dello stato diventa una forza propulsiva del
movimento culturale. Su questo processo influiscono ovunque
la lotta reciproca dei grandi stati per la potenza e per l'amplia-
mento, e il bisogno interno di trasformare in una totalità unita-
ria le parti messe insieme attraverso le guerre e le successioni
ereditarie. L'unità degli stati moderni si concentra nel monar-
ca, nella sua burocrazia e nel suo esercito. Ma essi debbono
pervenire a una più salda articolazione dei loro organi e a un
impiego più intensivo delle loro forze. Ciò diventa possibile
soltanto con una più razionale condotta degli affari; il progres-
so politico non avviene spontaneamente ma viene prodotto.
Ogni attività dell’insieme è determinata da una razionale posi-
zione di scopi. Questo insieme include sempre in sé vari compi-
ti culturali — la scuola, la scienza, anche la vita ecclesiastica,
ove essa può venir raggiunta. I prìncipi rappresentano in sé
non solo l’unità, ma anche l’orientamento culturale di tutto lo
stato. Le libere forze irrazionali della fedeltà della persona alla
persona vengono sostituite da altre operanti in modo più calco-
labile e più sicuro. Così anche nella vita statale si attua la
relazione di forze che dà all’età illuministica la sua unità.
All’ordine razionale della vita e all’utilizzazione razionale della
natura, di cui lo stato ha bisogno, viene incontro il movimento
scientifico fondato nel secolo xvII, e questo trova a sua volta
nello stato l'organo necessario per sottoporre tutti i settori
della vita a una regolamentazione razionale, dall'impresa eco-
nomica alle regole del buon gusto nelle arti.
Nessun paese era politicamente preparato come la Germania
a questa interna relazione, nella quale risiedeva l’essenza dell’Il-
luminismo. I suoi piccoli stati dipendevano dallo sviluppo della
cultura, e la Prussia anche dal progredire delle forze spirituali
necessarie alla lotta per il potere. La circolazione delle forze
religiose e scientifiche, dalla vita delle comunità protestanti al
sistema scolastico e alle università, da queste allo sviluppo del
WILHELM DILTHEY 193
pensiero religioso presso il clero e alle teorie giuridiche presso
i giuristi, e poi di nuovo giù giù fino al popolo, non fu mai in
alcun paese sviluppata come in esso.
Nell’Illuminismo tedesco cooperano forze di origine assai
diversa, e connessioni dinamiche colte in stati assai differenti
del loro sviluppo.
Mentre l’unità dello spirito dell’Illuminismo si realizza nel-
la scienza e nella riflessione filosofica come nella vita sociale,
essa viene ad attuarsi pure mediante l’efficacia di questo spirito
in tutti i singoli campi della vita spirituale. Nello sviluppo del
diritto troviamo in Germania un interessante esempio di tale
fenomeno nell’origine della più compiuta legislazione dell’epoca,
il diritto territoriale. A Halle, dallo spirito dello stato prussia-
no si forma un indirizzo autonomo del diritto naturale e della
giurisprudenza che su esso si fonda. Thomasius, Wolff, B6h-
mer? e vari seguaci diffondono dappertutto, con i loro scritti,
la concezione giuridica di tale scuola. Essi formano i funziona-
ri adatti, per l’unità e il carattere nazionale del loro orienta-
mento spirituale, a compiere l’opera legislativa, a lungo blocca-
ta, della Prussia. Sotto l’influenza di questo diritto naturale
stanno il re, che promuove tale opera, e i ministri e i consiglie-
ri che la eseguono. La stessa connessione interna si trova nel
movimento religioso dell’età illuministica: anch'esso mostra la
duplicità peculiare dell’Illuminismo tedesco, in quanto è a un
tempo polemico e costruttivo. La storia ecclesiastica, il diritto
naturale e il diritto ecclesiastico cooperano nel Protestantesimo
tedesco a formare una visione del Cristianesimo primitivo che
in Bòhmer, Semler ”, Lessing, Pfaff” diventa la forza produtti-
21. Johann Samuel Friedrich von Bòhmer (1704-1772), giurista tedesco, autore de-
gli Elementa iurisprudentiae criminalis (1733), delle Observationes selectae ad B. Carp-
zovii Practicam novam rerum criminalium (1759) e di Meditationes sulle recenti leggi
penali (1770), fu uno dei più importanti studiosi di diritto penale del Settecento.
22. Johann Salomon Semler (1725-1791), teologo protestante tedesco, autore delle
Vorbereitungen zur theologischen Hermeneutik (1760-69), della /nstiturio brevior ad
liberalem eruditionem theologicam (1765-66), dell'Apparatus ad liberalem Novi Testa-
menti interpretationem (1769), delle Asketische Vorlesungen zur Beforderung einer
verniinftiger Anwendung der christlichen Religion (1722) e di altre operc, sostenne —
in polemica col Pietismo — una teologia liberale, fondata sulla distinzione della paro-
la divina dalla parola della Bibbia.
23. Christoph Matthàus Pfaff (1686-1760), teologo protestante tedesco, autore delle
Institutiones theologiae dogmaticae et moralis (1719), del De origine iuris ecclesiastici
13. STORICISMO TEDESCO.
194 WILHELM DILTHEY
va di un nuovo ideale della religiosità e dell'ordinamento della
chiesa. E anche qui si ha la medesima circolazione delle idee
che dall’insoddisfazione per lo stato presente e dalla forza posi-
tiva delle nuove idee universali, attraverso le scuole e le univer-
sità che sono indipendenti dal potere dell'ortodossia ecclesiasti-
ca e che stanno in connessione con lo spirito scientifico, condu-
ce alla formazione del singolo sacerdote che fa valere nella
città o nella campagna un Cristianesimo illuminato, affine allo
spirito dell’epoca. La religiosità cristiana non ha mai esercitato
in nessun altro tempo all’infuori dell’Illuminismo tedesco un’in-
fluenza così schietta, così coerente, così orientata verso le supre-
me idee morali e religiose, e nel medesimo tempo così concorde
con il teismo cristiano. Nuovi valori religiosi di grande portata
si sono allora formati nella vita ecclesiastica e religiosa. Anche
la poesia tedesca dell’epoca è determinata dalla trasformazione
dei valori e degli scopi che si compie nell’età dell’Illuminismo.
Negli stati indipendenti tedeschi l’Illuminismo incide sulla crea-
zione poetica. Muovendo dalla Francia, anche in Germania
viene elaborata la prosa moderna in rapporto con la società
colta. Vengono assegnati ai generi poetici le loro regole, e
queste disciplinano la forma superiore di arte fantastica di
Shakespeare e di Cervantes in componimenti poetici articolati
in maniera strettamente logica. L'ideale di questa poesia diven-
ta l’uomo determinato dall’idea della perfezione e dell’Illumini-
smo; e la sua intuizione del mondo è la fede nell’ordine teleolo-
gico del mondo a partire dalla natura. La diretta espressione di
questo ideale e di questa intuizione del mondo diviene la poe-
sia didattica; ad essa seguono l’idillio e l’elegia. Non viene
afferrato il carattere tragico della vita: la commedia, il dram-
ma e soprattutto il romanzo diventano la suprema espressione
poetica dell’epoca, e acquistano una struttura corrispondente:
un realismo guidato da idee ottimistiche pervade ogni opera
poetica.
Questa connessione unitaria, nella quale si esprime nei di-
versi campi della vita l'orientamento dominante dell’Illumini-
smo tedesco, non determina però tutti gli uomini che apparten-
(1719), delle Institutiones iuris ecclesiastici (1727) e di varie altre opere, fu uno dei
maggiori rappresentanti della dottrina teologica della prima metà del Settecento.
WILHELM DILTHEY 195
gono a tale età; e anche là dove essa influisce, trova accanto a
sé altre forze. Si fanno valere le opposizioni delle età preceden-
ti: particolarmente efficaci si mostrano le forze che si riallaccia-
no a situazioni e a idee antiche, cercando però di dare loro una
nuova forma.
Nella sfera religiosa si è presentato così il Pietismo. Esso è
stato la più robusta tra le forze in cui l’antico ha assunto
forme nuove. Esso è affine all’Illuminismo nella crescente in-
differenza per tutte le forme ecclesiastiche esteriori e nell’esigen-
za di tolleranza, ma soprattutto nel fatto che, al di là della
tradizione e dell’autorità distrutte dalla critica, cerca un sempli-
ce e chiaro fondamento di legittimità per la fede. Tale fonda-
mento risiede nel contatto con Dio e nell’esperienza religiosa
che ne deriva. Soltanto il convertito intende la Bibbia; a lui si
rivela la parola divina che gli è partecipata in essa; egli è in
grado di fare delle scoperte, per così dire, nel campo del Cristia-
nesimo. La tolleranza del Pietismo sta nel riconoscimento di
ogni fede cristiana fondata sulla conversione: il Pietista risve-
gliato da essa deve completare la propria esperienza religiosa
mediante la storia di conversioni altrui. E così vediamo che il
Pietismo appartiene al grande movimento individualistico, poi-
ché esso procede oltre il Luteranesimo escludendo la chiesa dal
processo interiore della persona. Ma nel medesimo tempo si
contrappone all’Illuminismo per la sua adesione alla fiducia di
Lutero nell’esperienza religiosa derivante dal contatto con
Dio. Il Pietismo si ritrova poi in un rapporto interno con la
compiutezza raggiunta dalla nostra musica religiosa in J. S.
Bach. Certo, Bach non era pietista, ma i canti dell'anima cri-
stiana, che accompagnano la rappresentazione della vita di Cri-
sto, mostrano già di per sé abbastanza chiaramente la sua con-
nessione con la soggettiva interiorità religiosa, che era venuta
in luce nel movimento pietistico.
La medesima tendenza verso lo stato di cose esistente si
manifesta di fronte alle tendenze politiche del governo illumi-
nato. Essa è diretta al mantenimento del regno e dei privilegi
di ceto nei singoli stati, e alla conservazione degli antichi dirit-
ti. Ma anche queste tendenze raggiungono la loro più alta
coscienza e la loro fondazione mediante lo studio della lettera-
tura illuministica di teoria dello stato, e Ie proposte di Schlos-
196 WILHELM DILTHEY
ser e di Méser cercano anche di soddisfare i nuovi bisogni e
lo spirito dell'Illuminismo. Le idee politiche dell'Illuminismo
dovevano circondare Méser quando egli, in base alla situazione
presente, sviluppava la sua comprensione di essa e le sue ten-
denze pratiche.
Dall’esempio dell’Illuminismo tedesco si comprende quindi
la relazione interna delle tendenze che hanno determinato le
antitesi c la mutabilità in tale periodo, allorquando si constata-
no i momenti che, entro il suo orientamento fondamentale,
rendono possibile rivolgersi verso il futuro. Proprio la ten-
denza illuministica verso ciò che è regolare ha prodotto in
diversi campi una penetrazione degli avvenimenti storici, in cui
sembrava essersi realizzata la regola. Così nel Cristianesimo
primitivo si trovava il tipo di una religiosità più libera e que-
sta rafforzava la tendenza al suo studio in Thomasius, in B6h-
mer e in Semler. Le regole, che la critica contemporanea stabili-
va nell’arte, erano rafforzate dall’analisi approfondita del tipo
dell’arte antica, e da questo punto di vista Winckelmann e
Lessing illustravano l’arte antica e le leggi della creazione arti-
stica, spiegando l’un termine con l’altro. Un altro momento
dell’orientamento verso i compiti del futuro stava nel fatto che
la comprensione della persona singola conduceva a porre l’ac-
cento sull'individualità della creazione e del genio.
Se ci chiediamo poi come, in mezzo al corso degli eventi
che trascina la Germania e procede dando luogo a ininterrotti,
continui mutamenti, possa venir delimitata tale unità, la rispo-
sta è anzitutto questa: che ogni connessione dinamica reca in
sé la sua legge, e le sue epoche sono del tutto diverse da quelle
delle altre in virtù di tale legge. Così la musica ha un movi-
mento peculiare, secondo cui lo stile religioso che scaturiva
dalla massima forza dell’ErleBnis cristiano raggiungeva il suo
culmine nella stessa età con Bach e con Hiindel, quando l’Illu-
minismo era già la tendenza dominante in Germania. E nella
stessa epoca in cui sorgono le più importanti opere di Lessing
24. Johann Georg Schlosser (1739-1799), giurista c uomo politico tedesco, autore
del Kasechismus der Sittenlehre fiirs Landvolk (1771), dell’Anti-Pope, oder Versuch
tiber den natiirlichen Menschen (1776), dei Politische Fragmente (1777), del saggio Uber
Scelenwanderung (1781), fu esponente dell'Illuminismo tedesco; polemizzò contro la
filosofia kantiana,
WILHELM DILTHEY 197
nasce il nuovo movimento creatore dello Sturm «nd Drang,
che segna l’inizio di un'epoca successiva nella letteratura.
E se ci chiediamo quali siano i legami che creano un’unità tra
le diverse connessioni dinamiche, la risposta è questa: essa non
è un’unità esprimibile in un pensiero fondamentale, ma piutto-
sto una connessione tra le tendenze della vita medesima, che si
costituisce nel suo corso.
Nel corso storico si possono delimitare periodi nei quali,
dalla costituzione della vita fino alle idee supreme, un'unità
spirituale si forma, raggiunge il suo culmine e di nuovo si
dissolve. In ognuno di tali periodi vi è una struttura interna
che esso ha in comune con gli altri, e che determina la connes-
sione delle parti del tutto, il corso e le modificazioni nelle
tendenze: noi vedremo in seguito a che cosa può servire il
metodo di comparazione per l'apprendimento della struttura.
Nell’efficacia costante dei rapporti strutturali generali ci si rive-
la anzitutto il significato e il senso della storia. Nel modo in
cui questi dominano in ogni punto e in ogni età, determinando
la vita dell’uomo, risiede in primo luogo il senso del mondo
spirituale. Il compito è ora quello di studiare sistematicamente
le regolarità che costituiscono la struttura della connessione di-
namica nei suoi portatori, a partire dall’individuo. In qual modo
queste leggi strutturali consentano di formulare asserzioni sul
futuro, può venir determinato solo se è posto tale fondamento.
L'aspetto immutabile e regolare dei processi storici è il primo
oggetto di studio, e da ciò dipende la risposta a tutte le questio-
ni sul progresso nella storia, e sulla direzione in cui si muove
l'umanità. La struttura di una certa età si mostra quindi come
una connessione delle connessioni e dei movimenti particolari
entro il grande complesso dinamico di tale età. In base a mo-
menti quanto mai molteplici e mutevoli viene a costituirsi una
totalità più complicata; e questa determina il significato che
riveste tutto ciò che agisce nell’epoca. Quando lo spirito di tale
età è nato da dolori e dissonanze, allora ogni individuo ha in
esso e mediante esso il suo significato. Da questa connessione
sono in primo luogo determinati i grandi uomini storici: la
loro creazione non si muove a distanza storica, ma assume i
suoi fini dai valori e dalla connessione di significato dell'età
medesima. L'energia produttiva di una nazione in un dato
198 WILHELM DILTHEY
tempo riceve la sua forza maggiore proprio in quanto gli uomi-
ni di tale età sono limitati entro il suo orizzonte; il loro lavoro
serve alla realizzazione di ciò che costituisce la tendenza fonda-
mentale dell’ epoca. Così essi diventano i loro rappresentanti.
Tutto in un'età acquista il suo significato dalla relazione
con l’energia che dà ad essa il suo orientamento fondamentale.
Essa si esprime nella pietra, sulla tela, nelle azioni o nelle
parole; e si oggettiva nella costituzione e nella legislazione
delle nazioni. Pieno di essa, lo storico penetra le epoche passa-
te, e il filosofo cerca in base ad essa di interpretare il senso del
mondo. Tutte le manifestazioni dell'energia che determina l’e-
poca sono imparentate tra di loro. Qui si presenta il compito
dell’analisi, cioè il compito di riconoscere nelle diverse manife-
stazioni della vita l’unità della determinazione di valore e della
tendenza verso uno scopo. E in quanto le manifestazioni di
vita di questa tendenza spingono verso valori e scopi assoluti,
si chiude il cerchio in cui sono racchiusi gli uomini di questa
età; poiché in esso sono contenute pure le tendenze che vi si
contrappongono. Si è visto come il tempo imprime anche su di
esse la propria impronta e come la tendenza dominante ostaco-
la il loro libero sviluppo. Così l’intera connessione dinamica
dell’epoca è determinata in forma immanente dal nesso della
vita, del mondo affettivo, della formazione di valori e delle
relative idee di scopo. È storico ogni agire che si inserisca in
questa connessione: essa costituisce l'orizzonte dell’età, e da
essa è determinato infine il significato di ogni parte in questo
sistema dell’epoca. Tale è l’autocentralità delle età e delle epo-
che, in cui si risolve il problema del significato e del senso che
sì possono trovare nella storia.
Ogni età contiene il riferimento retrospettivo a quella prece-
dente e continua le forze sviluppatesi in quella, ma nel medesi-
mo tempo è già presente in essa la tendenza creativa che prepa-
ra l’età successiva. Come essa è sorta dall’insufficienza dell'età
che la precede, così reca con sé i limiti, le tensioni e la sofferen-
za che preparano l’età posteriore. E poiché ogni forma della
vita storica è finita, deve esservi contenuta una mescolanza di
forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esistenza e di
ristrettezza della vita, di soddisfacimento e di bisogno. Il culmi-
ne degli effetti della sua tendenza fondamentale è breve; e da
WILHELM DILTHEY 199
un'età all’altra Ia fame passa attraverso tutti i modi di soddisfa-
cimento, senza mai poter essere saziata.
Qualsiasi cosa ci risulti in merito al rapporto delle età e dei
periodi storici tra loro, in relazione alla crescente complessità
della struttura della vita storica, è proprio della natura finita di
tutte le forme della storia che esse siano accompagnate dall’atro-
fia e dalla schiavitù, cioè da una brama insoddisfatta: e questo
soprattutto in quanto i rapporti di potere non possono venir
eliminati dalla vita comune degli esseri psico-fisici. Come lo
stato sovrano dell’età illuministica produceva pure le guerre di
gabinetto e lo sfruttamento dei sudditi per il godimento della
corte, al pari della tendenza allo sviluppo razionale delle for-
ze, così ogni altro ordinamento dei rapporti di potere racchiude
pure una siffatta duplicità di effetti. E il senso della storia può
venir cercato soltanto nel rapporto di significato di tutte le
forze legate nella connessione delle varie età.
10. L'elaborazione sistematica delle connessioni dinamiche e dei
rapporti di comunanza.
In quanto la comprensione della storia avviene mediante
l'applicazione ad essa delle scienze sistematiche dello spirito,
l’illustrazione precedente della connessione logica della storia
ha già rivelato i caratteri generali della sistematica delle scien-
ze dello spirito. Infatti l'elaborazione sistematica delle connes-
sioni dinamiche, poste in luce entro la storia, ha come proprio
fine la scoperta dell’essenza di tali connessioni dinamiche. Per
ora mi limito a stabilire solo i seguenti tre punti di vista per
l'elaborazione sistematica.
Lo studio della società poggia sull’analisi delle connessioni
dinamiche contenute nella storia. Quest’analisi procede dal con-
creto all’astratto, dallo studio scientifico dell’articolazione natu-
rale dell'umanità e dei popoli verso la distinzione delle singole
scienze della cultura e la separazione dei campi dell’organizza-
zione esterna della società *.
Ogni sistema di cultura forma una connessione dinamica
a. Ciò è trattato più ampiamente nell’Einleitung in die Geisteswissen-
schaften, p. 44 sgg. [ora in Gesammelte Schriften, vol. I, p. 35 sgg.]-
200 WILHELM DILTHEY
che poggia su rapporti di comunanza; poiché la connessione
compie un'operazione, essa ha un carattere teleologico. Ma qui
si presenta una difficoltà riguardante l’elaborazione concettuale
che avviene in queste scienze. Gli individui, che cooperano in
tale operazione, appartengono alla connessione soltanto nei pro-
cessi in cui collaborano a realizzare l’operazione stessa, ma
tuttavia agiscono con tutto il loro essere, e quindi un campo
siffatto non si può mai costruire in base allo scopo dell’operazio-
ne, poiché accanto all’energia orientata verso tale operazione
stanno sempre anche gli altri aspetti della matura umana; e si
fa valere la sua mutabilità storica. Qui risiede il problema
logico fondamentale della scienza dei sistemi di cultura; e ve-
dremo come per la sua soluzione si sono formati e combattuti
metodi differenti.
A questa difficoltà si aggiunge un limite che riguarda l’ela-
borazione concettuale delle scienze dello spirito: esso deriva
dal fatto che le connessioni dinamiche realizzano operazioni e
hanno un carattere teleologico. L'elaborazione concettuale non
è pertanto qui una semplice generalizzazione che ricavi l’ele-
mento comune dalla serie dei casi particolari. Il concetto espri-
me un tipo, e sorge nel procedimento comparativo. Ad esem-
pio, io cerco di precisare il concetto di scienza, comprendendo
sotto di essa ogni connessione diretta a ottenere una conoscen-
za. Tuttavia entro i libri dedicati a lavori scientifici vi è molto
di infruttuoso e di illogico, cioè di erroneo: ciò contraddice
all’intenzione orientata verso la loro funzione. L'elaborazione
concettuale pone in luce quei tratti in cui è realizzata la funzio-
ne di tale connessione: questo è il compito della dottrina della
scienza. Oppure, se voglio precisare il concetto di poesia, an-
che qui ha luogo una costruzione concettuale a cui non tutti i
versi possono venir subordinati. La molteplicità dei fenomeni
in un campo siffatto si raggruppa intorno a un punto centrale,
costituito dal caso ideale in cui l'operazione è realizzata in
modo compiuto.
La discussione intorno alla connessione generale delle scien-
ze dello spirito è pertanto conclusa. L'analisi seguente della
costruzione delle scienze dello spirito illustrerà i metodi partico-
lari in cui si realizza la connessione logica generale.
IL MONDO STORICO *
1. L'uomo storico!.
Il mondo storico esiste sempre, e l’individuo non lo conside-
ra soltanto dall’esterno, ma è intrecciato in esso; né è possibile
scindere queste relazioni. Ciò che rimarrebbe sarebbe soltanto
la condizione inafferrabile dalla quale si dovrebbero derivare,
astratte dal corso storico, le condizioni necessarie di questo
corso in tutte le età insieme con il dato: problema insolubile al
pari di quello della possibilità della conoscenza prima o indi-
pendentemente dal conoscere stesso. Noi siamo esseri storici
prima di considerare la storia, e soltanto perché siamo quelli
diveniamo questi.
Tutte le scienze dello spirito poggiano sullo studio della
storia trascorsa fino a ciò che sussiste nel presente, in quanto
questo è il limite di ciò che rientra nella nostra esperienza
relativa all'oggetto costituito dall’umanità. Quello che può ve-
nir immediatamente vissuto, inteso e tratto fuori dal passato
nella coscienza, viene qui compreso: in tutto questo noi cerchia-
mo l’uomo, e anche la psicologia è soltanto una ricerca dell’uo-
* Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswis-
senschaften: Zweîtes Projekt einer Fortsetzung, in Gesammelte Schriften, Leipzig und
Berlin, vol. VII, 1927, pp. 277-282, 287-291 (Secondo progetto: il problema della sto-
ria, tr. it. di Pietro Rossi, in Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954,
PP. 372-384). — Non sono stati tradotti alcuni paragrafi che, per il loro carattere di
puri e semplici appunti, nonché per le frequenti interruzioni del discorso, sarebbero
risultati di troppo difficile lettura. I passi omessi vengono indicati di volta in volta
nelle note.
1. Non è stata tradotta la parte iniziale del paragrafo (Gesammelte Schriften, vol.
VII, p. 276-77).
202 WILHELM DILTHEY
mo in ciò che viene immediatamente vissuto e inteso, nelle
espressioni e negli effetti che ne derivano. Perciò ho indicato
come compito fondamentale di ogni riflessione sulle scienze
dello spirito quello di una critica della ragione storica. Occorre
che la ragione storica risolva il compito rimasto fuori dall’ambi-
to visuale della critica della ragione di Kant, il cui problema è
stato determinato in riferimento ad Aristotele, secondo cui la
conoscenza avviene nel giudizio.
Noi dobbiamo uscire dall’aria pura e raffinata della critica
della ragione kantiana per adeguarci alla natura del tutto diffe-
rente degli oggetti storici. Qui si presentano le questioni se-
guenti: io ho esperienza immediata delle mie situazioni e sono
intrecciato nelle azioni reciproche della società come punto di
incrocio dei suoi diversi sistemi, i quali sono sorti dalla stessa
natura umana che io vivo in me e intendo negli altri. La
lingua in cui penso è sorta nel tempo, i miei concetti si sono
formati in esso: io sono, fino alla profondità non più penetrabi-
le del mio io, un essere storico. In tal modo si presenta il primo
importante momento per la soluzione del problema conoscitivo
della storia: la prima condizione di possibilità della scienza
storica risiede nel fatto che io stesso sono un essere storico, €
che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la storia.
Così sono possibili giudizi storici sintetici e universalmente vali-
di. Ma i princìpi della scienza storica non possono essere
formulati in princìpi astratti che esprimano equivalenze, poi-
ché, in conformità alla natura del loro oggetto, debbono poggia-
re su rapporti fondati nell’Erleden. Nell'Erleben vi è la
totalità del nostro essere, che riproduciamo poi nell’intendere:
qui è dato il principio della reciproca affinità tra gli individui.
2. Il concetto storico.
L’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante l’in-
trospezione. In fondo noi tutti lo cerchiamo nella storia, anzi
vi cerchiamo anche l’elemento umano quale si manifesta nella
religione, ecc.: noi vogliamo sapere che cosa esso sia. Se vi
fosse una scienza dell’uomo, questa sarebbe un’antropologia ca-
pace di intendere la totalità degli Erlebnisse secondo la loro
connessione strutturale. L’uomo singolo realizza sempre una
WILHELM DILTHEY 203
sola possibilità del suo sviluppo, che poteva sempre assumere
un’altra direzione in base all'orientamento del suo volere. L’uo-
mo in generale esiste per noi solo sotto la condizione di certe
possibilità realizzate. Anche nei sistemi di cultura noi cerchia-
mo una struttura antropologicamente determinata, nella quale
si attua un x; e noi lo diciamo essenza, ma questa è soltanto
una parola per designare un procedimento spirituale che costi-
tuisce una connessione concettuale in questo campo. Anche qui
le possibilità di tale campo non vengono esaurite.
L'orizzonte si allarga. Infatti, anche quando lo storico ha
dinanzi a sé un materiale limitato, mille fili lo conducono
sempre più avanti nell’illimitatezza di tutti i ricordi del ge-
nere umano. La storiografia comincia in quanto, muovendo dal
presente e dal proprio stato, si rappresenta ciò che ancora qua-
si vive nella memoria della generazione presente; ciò costitui-
sce un ricordo ancora in senso proprio. Oppure vengono stesi
degli annali in cui si registra, procedendo negli anni, ciò che è
accaduto. Col procedere della storia lo sguardo si allarga al di là
del proprio stato, e una sezione sempre più vasta del passato
entra nel regno dei morti della memoria. Di tutto ciò è rimasta
l’espressione dopo che la vita stessa è trascorsa, sia sotto forma
di espressione diretta, con la quale certe anime hanno manife-
stato ciò che sono state, sia sotto forma di narrazioni relative
ad azioni e a situazioni di individui, di comunità e di stati. E
lo storico sta in mezzo a tutti questi resti di cose passate, e di
manifestazioni di anime racchiuse in fatti, parole, suoni, imma-
gini di anime che da tempo non sono più. Come deve egli
evocarle? Tutto il suo lavoro diretto a tal fine poggia sull’inter-
pretazione dei resti conservati. Si pensi a un uomo che non
abbia alcun ricordo del suo passato, ma che pensi o agisca
soltanto in base a ciò che questo passato ha prodotto in lui,
senza esser cosciente di alcuna sua parte: tale sarebbe anche la
situazione delle nazioni, delle comunità, dell'umanità medesi-
ma se essa non riuscisse a completare i resti, a interpretare le
espressioni, a ricondurre la narrazione dei fatti dal loro isola-
mento alla connessione in cui sono sorti. Tutto questo è inter-
pretazione, ossia un’arte ermeneutica.
Il problema è ora di vedere quale forma questa assuma
quando essa è completamente staccata dall’esistenza individua-
204 WILHELM DILTHEY
le, e si debbono formulare asserzioni su soggetti che costituisco-
no in qualche senso delle connessioni di persone, cioè su sistemi
di cultura, nazioni o stati.
Anzitutto occorre qui un metodo per ritrovare, in questa
illimitata azione reciproca tra esistenze individuali, delle rigoro-
se delimitazioni, quando queste mancano invece nell’unità vi-
vente della persona. È come se si dovessero tirare linee e
disegnare figure che rimangono ferme nella corrente continua
di un fiume. Tra questa realtà e l’intelletto non sembra possibi-
le alcun rapporto conoscitivo, poiché il concetto separa ciò che
è legato nel fluire della vita e rappresenta qualcosa di valido
universalmente e per sempre, indipendentemente dalla mente
che lo ha formulato, mentre il fluire della vita è ovunque
soltanto singolare, e ogni onda va e viene entro di esso. Questa
difficoltà, dopo che Hegel contrappose per primo la conoscenza
intellettuale, caratteristica dell’Illuminismo, all'essenza del mon-
do storico € umano, costituisce il problema proprio del metodo
storico. Ma questo problema può venir risolto: non abbiamo
bisogno di rifugiarci nell’intuizione e di rinunciare ai concetti,
ma dobbiamo invece rielaborare i concetti storici e psicologici.
È stato merito geniale di Fichte aver formulato tali concetti
adatti alla vita psichica e in generale allo spirito, mettendo
l'energia al posto della sostanza, e ponendo le attività spirituali
in relazione con le precedenti e in antitesi con quelle contempo-
ranee, in modo che venga a delinearsi un progredire che diven-
ta possibile in virtù del tempo, dell’energia che in questo
opera e dell’unità che si differenzia. Tuttavia egli si è limitato a
formulare questo schema di dinamica psichica, ma la sua realiz-
zazione si richiama ai concetti kantiani anziché alla realtà. Her-
bart e Hegel non sono pervenuti neppur essi all'aria aperta del
mondo storico reale. Tuttavia ciò è stato l’inizio di uno sconvol-
gimento di tutto il pensiero relativo al mondo storico, in una
connessione interna che scaturisce nella maniera più chiara nel
Romanticismo, prima con Niebuhr e poi con Hegel e con Ran-
ke, conducendo così alla moderna storiografia. Noi possiamo
liberarci dalla confusione concettuale in cui quest’antitesi tra
realtà storica e conoscenza intellettuale si esprimeva allora me-
diante concetti ispirati al principio di identità, in quanto guar-
diamo alla natura stessa dei concetti storici. Il loro carattere
WILHELM DILTHEY 205
logico è l'indipendenza dell’asserzione dal soggetto in cui si
presentano e dal momento in cui essa ha luogo: la loro validità
è indipendente dal luogo e dal tempo in senso psicologico. Il
loro contenuto è invece l’accadere, il corso di qualsiasi specie;
l’asserzione è indipendente dal tempo, mentre ciò che viene
espresso è il corso temporale. Anzi, non tutti i concetti storici ri-
sultano correttamente formulati da questo punto di vista; ma,
soltanto in quanto lo sono, possono occupare un posto nell’ap-
prendimento del mondo storico. Nel medesimo tempo i concet-
ti esistenti debbono spesso venir rielaborati in modo che possa
esprimersi in essi ciò che è mutevole e dinamico.
In fondo il problema appare simile a quello della matematica
superiore, che cerca di dominare i mutamenti della natura. Ogni
parte della storia, ad esempio un'età, non può venir colta me-
diante concetti che esprimano qualcosa di stabile in essa, cioè in
un sistema di relazioni tra qualità definite, quali sarebbero state
per l’età illuministica l'autonomia nello stato o l’Illuminismo
nella vita spirituale. In tal modo non si coglie la natura specifi-
ca del tempo, ma si tratta piuttosto di un sistema di relazioni
le cui parti sono dinamiche e inoltre mostrano continui muta-
menti qualitativi nell'azione reciproca. Infatti le relazioni me-
desime, poggiando sull’azione reciproca tra forze, sono mutevo-
li, cioè ognuna di esse racchiude in sé una regola di mutamen-
to. Applicando questo al periodo illuministico risulta che l’'ordi-
ne sociale che era esistito fino al termine del secolo xvi e all’ini-
zio del xvi diventa impossibile poiché i contrasti tra gli interessi
particolari della nobiltà, dei ceti e del governo, e quelli tra gli
interessi delle province tra di loro e in rapporto all'insieme,
non consentono in Germania il sorgere di una volontà statale
unitaria, una cura comune per il tutto e un continuo persegui-
mento degli scopi statali. Diverse sono invece le epoche nelle
quali, in Inghilterra, in Francia e in Italia, si fa valere la
medesima insufficienza dell’esistenza politica. Essa diventava
insopportabile verso l’esterno, poiché l'aspirazione alla potenza
in questi stati concorrenti si manifestava assai diversamente che
in qualsiasi epoca precedente. Essi erano sorti l’uno accanto
all’altro, condizionati nella loro forma soprattutto dall’eredità
e dalla guerra, senza ancora esser legati da nessuna letteratura
206 WILHELM DILTHEY
unitaria e da nessuna lingua comune sviluppatasi entro di que-
sta. Tale letteratura, e tale lingua, fu creata per la prima volta
per gli Italiani da Dante. In tal modo sorse la tendenza all’uni-
tà nazionale, che però non trovò alcuna possibilità di attuazio-
ne per la politica contrastante dei tiranni e delle repubbliche,
secondo la situazione delle forze. Tale sviluppo ha avuto luogo
altrimenti sia in Inghilterra sia in Francia; mentre per la Ger-
mania il momento decisivo è stata la terribile pressione che
grandi stati quali la monarchia universale spagnola e la poten-
za francese hanno esercitato su un paese che è stato in tal
modo costretto a cercare la sua unità nazionale.
Sorge però ora la questione del modo in cui può formarsi nel-
lo storico una connessione che non è prodotta da una mente né è
immediatamente vissuta, e neppure può venir ricondotta all’Er-
lebnis di una persona, in base alle sue espressioni e alle asserzioni
relative ad esse. Ciò ha come presupposto la possibilità di for-
mare soggetti logici, e non psicologici. Devono quindi esserci
strumenti per delimitarli e un fondamento di legittimità per ap-
prenderli come unità o connessione. Noi cerchiamo l’anima:
questo è l’ultimo punto a cui siamo pervenuti nel lungo sviluppo
della storiografia. Ma qui si pone il problema: certamente ogni
azione reciproca avviene tra unità psichiche, ma per quale via
noi troviamo un’anima dove non c'è anima individuale? La
base più profonda è offerta dalla vita e da ciò che da essa
procede, dal raggiungimento della vitalità e, per così dire,
dalla melodia della vita psichica nell’eliminazione di ogni rego-
la rigida”.
3. Il progresso.
Quando si parla della storia, il presupposto dell’intendere
storico sta nel fatto che vi sia un significato dei momenti
storici e un senso del corso storico. Secondo questo presuppo-
sto, anche se lo scopo della sua esistenza è posto nell’individuo
stesso, nella storia dovrebbe tuttavia esserci un progredire della
2. Non sono stati tradotti i paragrafi sulle nazioni e sullc ctà (Gesammelte Schrif-
ten, vol, VII, p. 282-87).
WILHELM DILTHEY 207
felicità individuale e un estendersi della felicità a molti: questa
è insomma la concezione dei moderni storici inglesi. Ma tale
concezione procede al di là di se stessa: anche se qui il progres-
so della vita individuale di generazione in generazione è conce-
pito come un’azione quasi meccanica di accumulazione di valo-
ri, viene in tal modo presupposto un modo di azione nella cui
natura è insito un progresso. Proprio in questa maniera agisce
nella storia un rapporto in virtù del quale il suo corso ha un
senso; infatti questo termine designa soltanto il presupposto in
base al quale può venir inteso il corso storico, ma non un’affer-
mazione su qualche forza distinguibile dal modo di agire mede-
simo, la quale possa conferire alle varie parti del corso il loro
significato core un'essenza immanente a questo corso.
In ciò risiede soltanto la condizione sotto cui può venir
intesa la storia, e il prodotto e il risultato di questa è la
storia universale. Ma anche qui non c’è alcun presupposto ulte-
riore su qualsiasi agente unitario nella storia, sia esso un
agente immanente o una condizione reale, il quale possa venir
considerato nella filosofia della storia come provvidenza o co-
me scopo immanente o come forza di svolgimento storico.
4. La connessione storica universale: dalla fatticità all’ideale.
Le epoche sono differenti tra loro per struttura. Ad esem-
pio, il Medioevo contiene una connessione di idee affini che
dominano nei suoi vari campi, quali le idee di fedeltà nel
feudalesimo, la successione di Cristo come principio di obbe-
dienza, il cui contenuto è costituito dalla trascendenza dello
spirito rispetto alla natura in virtù dell’abnegazione, la succes-
sione teleologica di gradi nella scienza. Ma si deve riconoscere
che lo sfondo di queste idee è la violenza, che questo mondo
più alto non può superare.
E ovunque è così: la fatticità della razza, dello spazio e dei
rapporti di violenza costituisce la base che non può mai venir
elevata spiritualmente. È stato un sogno di Hegel credere che
queste età costituiscano un grado dello sviluppo della ragione:
rappresentare un’età implica sempre un chiaro sguardo su tale
fatticità, Ma c’è tuttavia una connessione interna, la quale con-
208 WILHELM DILTHEY
duce dai rapporti condizionanti, dalla fatticità, dalla lotta delle
forze allo sviluppo degli ideali.
Ogni situazione data in questa serie senza fine condiziona un
mutamento, poiché i bisogni, che trasformano le energie esistenti
în attività, non possono mai venir soddisfatti, e il desiderio di
ogni specie di soddisfacimento non può mai venir saziato.
Ogni forma della vita storica è finita, e contiene perciò un
insieme di forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esisten-
za e di ristrettezza della vita, di soddisfazione e di penuria,
provocando così le tensioni di forza e una nuova distribuzione
da cui derivano di continuo altre azioni. Inoltre, soltanto in
pochi punti della vita storica vi è un temporaneo stato di
quiete, le cui cause sono diverse — equilibrio, forze opposte,
ecc.: ma la storia è movimento.
Anche nello stesso procedere c’è una felicità, poiché in esso
si risolve la tensione e si realizza l’ideale. Tra la morta necessi-
tà di fatto e Ja più alta vita spirituale sta il continuo sviluppo
dell’organizzazione, dell’istituzione, dell'impiego regolato della
forza: l'intelletto crea, per così dire, meccanismi che servono al
soddisfacimento dei bisogni, perfezionandoli di continuo. Lo
scopo, che l’intelletto pone, dà luogo a tali meccanismi, che
possono essere tanto ferrovie quanto armate, tanto fabbriche
quanto miglioramenti costituzionali: essi costituiscono il cam-
po proprio dell'intelletto, che cerca mezzi per certi scopi e
calcola le azioni come cause.
Qui appare una combinazione, la quale rivela propriamente
l’essenza della storia. La sua base è la fatticità irrazionale, da
cui deriva da un lato il parteciparsi della tensione fino ai
meccanismi e dall’altro la differenziazione in nazioni, in costu-
mi, in forme di pensiero, fino all’individualità su cui riposa la
vera e propria storia dello spirito.
5. Realtà, valori, cultura.
Gli avvenimenti diventano significativi in quanto si riferisco
no a una connessione per la quale essi lo sono. Se mi formo un
concetto di connessione di valore fondata sovra-individualmente
e trascendentalmente — poiché trascendentale è ogni determina-
zione avente la sua base nel sovra-individuale — allora sorge la
WILHELM DILTHEY 209
questione se tale procedimento sia possibile, anche se si inten-
dessero soltanto punti di riferimento formali, dotati di caratte-
re incondizionato, per ciò che è empirico. Ma se si lascia da
parte tale fondazione mediante la filosofia trascendentale, non
c’è più alcun metodo per stabilire norme, valori o scopi incondi-
zionati: ve ne sono soltanto di quelli che avanzano la pretesa a
una validità incondizionata, ma che, per la loro origine, sono
inficiati di relatività.
Noi attribuiamo invece un significato effettivo a qualsiasi
connessione di tipo reale o ideale, in rapporto a cui un uomo o
un avvenimento acquisti questo carattere. Quando considero
nella connessione dinamica un luogo in quanto tale, come fa
Meyer?, e lo valuto in conformità al presente, dovrei però
avere prima un criterio che serva a determinare ciò che è
significativo nel presente, perché altrimenti sarebbe significati-
vo tutto ciò che ha agito sull’infinita serie delle situazioni
presenti. E una cosa è chiara: che io trovo significativo nel
presente ciò che è fecondo per il futuro, per la mia azione in
esso, per il progredire della società verso tale futuro.
E qui vedo in maniera assai chiara, nella mia posizione pra-
tica, che, se voglio regolare il futuro, io parto da giudizi univer-
salmente validi su ciò che deve essere realizzato. Il presente non
contiene situazioni, ma processi e connessioni dinamiche, che
racchiudono anche il procedere verso il futuro di qualcosa che
può venir prodotto. La frase di Bismarck, secondo cui egli sareb-
be stato collocato dalla sua religione e dal suo stato in una posizio-
ne nella quale il servizio di tale stato era più importante di
ogni altro compito culturale, aveva per lui una validità univer-
sale in virtù del suo fondamento religioso. Da ciò deriva che
noi dobbiamo ammettere tale rapporto anche per il passato. In
un’età si sviluppano norme, valori, scopi universali, in rap-
porto ai quali deve esser anzitutto compreso il significato delle
azioni. Se questi debbano venir determinati solo in una limita-
zione o incondizionatamente, è una questione ulteriore. Sembra
3. Eduard Meyer (1855-1930), storico tedesco autore di una monumentale Ge-
schichte des Altertums (1884-1902), nonché di altri importanti volumi sulla cronologia
dell'antico Egitto, su Cesare e Pompeo, sulle origini del Cristianesimo. Dilchey si ri-
ferisce qui alla tesi sostenuta in Zur TAcorie und Methodik der Geschichte, Halle, 1902.
14. STORICISMO TEDESCO.
210 WILHELM DILTHEY
che anche in una nazione abbia luogo un antagonismo a propo-
sito dei valori.
In questa maniera si perviene al principio che lo svilu
po di tali idee si muove entro contrapposizioni (Kant, Hegel)
che sono contenute entro il corso dello svolgimento delle istitu-
zioni, di modo che il loro rapporto reciproco rende sempre
possibile un’altra posizione più ampia e più libera. Anzitutto
non vi sono valori che valgano per tutte le nazioni. Nell'Impe-
ro romano si è sviluppata una concezione aristocratica dell’uma-
nità come sostegno dell’humanitas; nel Cristianesimo l’umani-
tà è divenuta soggetto di valore; tale concezione si è poi trasfor-
mata nell’Illuminismo. La storia è essa medesima la forza pro-
duttiva delle determinazioni di valore, degli ideali e degli sco-
pi, in base a cui viene commisurato il significato di uomini e di
avvenimenti. In tale processo questo rapporto mostra una dupli-
ce direzione, verso le epoche e verso il progresso dell'umanità.
6. Il problema del valore nella storia.
Si dice che in tal modo sorga soltanto la coscienza della
relatività storica. Senza dubbio la relatività è propria di ogni
fenomeno storico per fatto che esso è finito... Si pone però il
problema seguente: ciò che viene espresso nelle categorie stori-
che sussiste soltanto come momento del movimento storico? in
altri termini, nella storia è contenuto qualcosa che ha valore
solamente in quanto sorge, agisce e tramonta in questa connes-
sione? ed è possibile per caso una determinazione di valori
separata da questo corso?
L’ultimo problema di una critica della ragione storica su
questa direzione è il seguente. Ovunque nella storia c’è formu-
lazione e selezione nella ricerca della connessione interna, ovun-
que c'è un progresso secondo i rapporti di finitudine, dolore,
forza, antitesi, accumulazione, che lega una parte della storia
con le altre, e la forza, il valore, il significato e lo scopo sono
ovunque gli elementi a cui è legata la connessione storica: ma
la connessione, il valore, il significato, lo scopo, quali essi
vengono colti nell’esperienza, costituiscono l’ultima parola del-
lo storico?
La strada che imbocco è determinata dai seguenti princìpi:
WILHELM DILTHEY 2II
il concetto di valore deriva dalla vita, e il criterio per ogni
giudizio è offerto da concetti relativi di valore, di significato e
di scopo, propri di certe nazioni e di certe epoche. Occorre
perciò illustrare come questi si siano ampliati in qualcosa di
assoluto: ciò vuol dire, insomma, il pieno riconoscimento del-
l’immanenza dei valori e delle norme, anche presentantisi come
incondizionati, nella coscienza storica.
7. Conclusione.
La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno stori-
co, di ogni situazione umana o sociale, la coscienza della relati-
vità di ogni specie di fede è l’ultimo passo verso la liberazione
dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla sovranità di trovare
in ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a questo completa-
mente, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o religioso.
La vita si libera dalla conoscenza concettuale; lo spirito diven-
ta sovrano rispetto a tutte le ragnatele del pensiero dogmatico.
Ogni bellezza, ogni santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpre-
tati, schiudono delle prospettive che rivelano una realtà. E così
pure accogliamo in noi tutto ciò che c’è di malvagio, di terribi-
le, di brutto, riconoscendo che occupa un posto nel mondo e
che racchiude in sé una realtà, la quale dev'essere giustificata
nella connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può
illudere. E di fronte alla relatività si fa valere, come il fatto
storico essenziale, la continuità della forza creatrice.
Così dall’Erleden, dall’intendere, dalla poesia e dalla storia
deriva un'intuizione della vita, la quale esiste sempre in e con
questa. La riflessione la eleva a distinzione e a chiarezza concet-
tuale. La considerazione teleologica del mondo e della vita viene
riconosciuta come una metafisica che poggia su una visione
unilaterale, non arbitraria cioè ma parziale, della vita, e la dottri-
na di un valore oggettivo della vita come una metafisica che va
oltre ogni possibile esperienza. Ma noi abbiamo esperienza di una
connessione della vita e della storia, in cui ogni parte ha un
significato. Come le lettere di una parola, la vita e la storia
hanno un senso, e come una particella o una coniugazione,
nella vita e nella storia vi sono momenti sintattici che hanno
un significato. Ogni uomo procede alla sua ricerca. Nel passato
212 WILHELM DILTHEY
si è cercato di penetrare la vita in base al mondo; ma c'è solo
la via che procede dall’interpretazione della vita al mondo, e la
vita esiste solo nell’Erleben, nell’intendere e nella compren-
sione storica. Noi non rechiamo nella vita nessun senso del
mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che senso e significato
sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uo-
mo singolo, bensì nell’uomo storico, poiché l’uomo è un essere
Storico...
I TIPI DI INTUIZIONE DEL MONDO
E LA LORO ELABORAZIONE NEI SISTEMI METAFISICI *
INTRODUZIONE
SULL’ANTITESI TRA I SISTEMI
Tra i motivi che sempre dànno nuovo alimento allo scettici-
smo, l’anarchia dei sistemi filosofici è uno dei più potenti. Tra
la coscienza storica della loro illimitata molteplicità e la pre-
tesa di ognuno di essi a una validità universale sussiste una
contraddizione che sostiene lo spirito scettico in misura maggio-
re di qualsiasi dimostrazione sistematica. Illimitata, caotica, la
molteplicità dei sistemi filosofici sta alle nostre spalle e si esten-
de intorno a noi: in ogni tempo, fin da quando esistono, essi si
sono esclusi e combattuti a vicenda. E non si intravvede alcuna
speranza che si possa giungere a una decisione tra di essi.
La storia della filosofia conferma questo effetto che l’antitesi
dei sistemi filosofici, delle intuizioni religiose e dei princìpi
etici ha sull’incremento della scepsi. La lotta tra le spiegazioni
del mondo del pensiero greco più antico produsse la filosofia
del dubbio all’epoca dell’illuminismo greco. Quando le campa-
gne di Alessandro e l’unione di differenti popoli in regni più
grandi misero davanti agli occhi dei Greci le diversità dei
costumi, delle religioni, delle visioni della vita e del mondo, si
* Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen
Systemen, nella raccolta Weltanschauung, Philosophie und Religion in Darstellungen
(a cura di M. Frischeisen-Kéhler), Berlin, Verlag Reichl und Co., 1911, pp. 1-51, ora
in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VIII, 1931, pp. 75-118 (tradu-
zione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
214 WILHELM DILTHEY
formarono le scuole scettiche, le quali estesero le loro operazio-
ni corrosive anche ai problemi della teologia — il male e la
teodicea, il conflitto tra la personalità divina e la sua infinitez-
za e perfezione — e alle assunzioni concernenti il fine etico
dell'uomo. Anche il sistema di credenze dei popoli europei
moderni e la loro dogmatica filosofica vennero seriamente scos-
si, nella loro universale validità, dal momento in cui — alla
corte di Federico II Hohenstaufen — Maomettani e Cristiani
pervennero a un raffronto reciproco delle loro convinzioni e
nell'orizzonte del pensiero scolastico penetrò la filosofia di
Averroè e di Aristotele. E quando l’antichità risorse, quando
gli scrittori greci e romani furono compresi nei loro autentici
motivi e l'epoca delle scoperte geografiche pervenne a conosce-
re in misura crescente la varietà dei climi, dei popoli e dei
loro modi di pensare presenti sul nostro pianeta, scomparve
del tutto la fiducia degli uomini nelle credenze fin allora salda-
mente delimitate. Oggi i viaggiatori accertano e annotano con
cura i più diversi tipi di fede; noi registriamo e analizziamo i
potenti, grandi fenomeni delle convinzioni religiose e metafisi-
che che si trovano presso i ceti sacerdotali dell'Oriente, nelle
città-stato greche, nella cultura araba. Noi guardiamo indietro
alla sconfinata distesa di rovine delle tradizioni religiose, delle
affermazioni metafisiche, dei sistemi dimostrati: lo spirito uma-
no ha tentato e saggiato, nel corso di molti secoli, possibili-
tà di ogni tipo per fondare scientificamente la connessione
delle cose, per rappresentarla poeticamente o per annunciarla
religiosamente; e la ricerca storica condotta con metodo critico
indaga ogni frammento, ogni residuo di questo lungo lavoro
compiuto dalla nostra specie. Ogni sistema esclude l’altro, lo
confuta; e nessuno riesce a dimostrare se stesso. Nelle fonti
storiche non ci è dato trovare nulla di analogo al sereno dialo-
go che caratterizza la Scuola d’Atene dipinta da Raffaello,
espressione della tendenza eclettica di quel tempo. In tal modo
la contraddizione tra la crescente coscienza storica e la pretesa
delle filosofie a una validità universale è diventata sempre più
aspra, e sempre più generale la disposizione alla curiosità dilet-
tevole nei confronti di nuovi sistemi filosofici, quale che sia il
pubblico che possono raccogliere intorno a sé e il tempo per cui
possono trattenerlo.
WILHELM DILTHEY 215
2.
Assai più in profondo delle conclusioni scettiche che muo-
vono dal carattere antitetico delle opinioni umane giungono però
i dubbi cresciuti sul terreno della progressiva formazione della
coscienza storica. Era un tipo d’uomo compiuto, dotato di un
contenuto spirituale determinato, che costituiva il presupposto
dominante del pensiero storico dei Greci e dei Romani. Questo
stesso tipo stava alla base della dottrina cristiana del primo e
del secondo Adamo, del figlio dell'uomo. Il sistema naturale
del secolo xvi era sorretto dal medesimo presupposto. Il siste-
ma naturale scoprì nel Cristianesimo un paradigma astratto e
durevole di religione — la teologia naturale; dalla giurispruden-
za romana astrasse la dottrina del diritto naturale e dalla produ-
zione artistica greca un modello di gusto. Secondo questo siste-
ma naturale, in ogni diversità storica erano quindi contenute
forme fondamentali, costanti e universali, di ordinamenti socia-
li e giuridici, di fede religiosa e di eticità. II metodo di de-
rivare dalla comparazione delle forme di vita storica un ele-
mento comune, di estrarre dalla molteplicità dei costumi, delle
proposizioni giuridiche e delle teologie, attraverso il concetto
di un tipo supremo, un diritto naturale, una teologia naturale e
una morale razionale — secondo un procedimento che, a parti-
re da Ippia!, si era sviluppato attraverso lo Stoicismo e il
pensiero romano — dominava ancora il secolo della filosofia
costruttiva. La dissoluzione del sistema naturale ebbe ini-
zio con lo spirito analitico del secolo xvi. Esso prese l’avvìo
dall'Inghilterra, dove la più libera prospettiva su forme di vita,
costumi e modi di pensare barbari e stranieri si incontrerà con
le teorie empiristiche e con l'applicazione del metodo analitico
alla teoria della conoscenza, alla morale, all'estetica. Con Vol-
taire e Montesquieu questo spirito passò poi in Francia. Hume
e d’Alembert, Condillac e Destutt de Tracy? videro nel fascio
I. Ippia di Elide, sofista vissuto tra la seconda metà del secolo v e la prima del
secolo Iv a. C., si occupò di problemi matematici e astronomici, nonché di grammati-
ca, di retorica e di dialettica. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra « leggi scritte »,
proprie delle singole città, e le « leggi non scritte », comuni a tutti gli uomini e aventi
il loro fondamento nella natura.
2. Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754-1836), sviluppò la teoria della co-
noscenza di Condillac nell'« ideologia », concepita come analisi delle facoltà e del pro-
216 WILHELM DILTHEY
di impulsi e di associazioni — così concepirono l’uomo — illi-
mitate possibilità di far emergere le forme più svariate tra la
diversità di clima, di costumi e di educazione.
L'espressione classica di questo modo di considerazione stori-
ca furono la Natural History of Religion e i Dialogues concer-
ning Natural Religion di Hume. E dai lavori di questo secolo
xvi scaturì già l’idea dello sviluppo, che doveva poi dominare il
secolo xix. Da Buffon? fino a Kant e a Lamarck* viene acqui-
sita la conoscenza dello sviluppo della terra, del succedersi su
di essa di differenti forme di vita. D'altra parte si formava, in
lavori di importanza decisiva, lo studio dei popoli civili: a
partire da Winckelman, Lessing e Herder, questi lavori applica-
rono ovunque l’idea di sviluppo. Da ultimo, nello studio dei
popoli primitivi si trovò l’elemento intermedio tra la dottrina
scientifica dello sviluppo e le conoscenze storico-evolutive fonda-
te sulla vita statale, sulla religione, sul diritto, sui costumi, sul
linguaggio, sulla poesia e sulla letteratura dei popoli. In tal
modo il punto di vista storico-evolutivo poteva venir realizzato
nello studio dell’intero sviluppo naturale e storico dell’uomo, e
il tipo «uomo» si risolveva in questo processo di sviluppo.
La dottrina dello sviluppo così formatasi è necessariamente
legata alla conoscenza della relatività di ogni forma di vita
storica. Di fronte allo sguardo che abbraccia la terra e tutto il
passato scompare la validità assoluta di qualsiasi singola forma
di vita, costituzione, religione o filosofia. Così la formazione
della coscienza storica distrugge, ancora più radicalmente della
disputa tra i vari sistemi, la fede nella validità universale di
qualsiasi filosofia che abbia voluto esprimere in modo rigoroso
la connessione del mondo mediante una connessione concettua-
cesso di formazione e di combinazione delle idec. La sua opera principale è rappre-
sentata dagli E/4ments d'idéologie (1801-17).
3. Gcorges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), grande naturalista autore
di una monumentale Histoire naturelle, générale et particuliòre (1749-1804), intraprese
per primo un tentativo di classificazione sisternatica delle specie viventi affermando la
loro continuità nell’ambito della « catena » degli esseri.
4. Jcan-Baptiste-Pierre-Antoine de Monet de Lamarck (1744-1829), naturalista au-
tore di numerose opere tra cui la Philosophie zoologique (1809) e la Histoire naturelle
des animaux sans vertèbres (1815-22), fu tra i fondatori della teoria evoluzionistica: egli
affermò la capacità di trasformazione delle specie biologiche in conseguenza del rap-
porto con l'ambiente, nonché la trasmissibilità dei caratteri acquisiti nel corso della
trasformazione.
WILHELM DILTHEY 217
le. La filosofia deve cercare non già nel mondo ma nell’uomo
la connessione interna delle proprie conoscenze. Intendere la
vita vissuta dell’uomo — questa è l’aspirazione dell’uomo mo-
derno. La molteplicità dei sistemi, che hanno cercato di coglie-
re la connessione del mondo, è in connessione manifesta con la
vita; essa è una delle sue creazioni più importanti e più istrutti-
ve, per cui la stessa formazione della coscienza storica, che ha
esercitato una funzione così distruttiva rispetto ai grandi siste-
mi, dovrà fornirci gli strumenti per eliminare l’aspra contraddi-
zione esistente tra la pretesa di validità universale di ogni
sistema filosofico e l'anarchia storica di questi sistemi.
I. VITA E INTUIZIONE DEL MONDO
1. La vita.
La radice ultima dell’intuizione del mondo è la vita. Diffu-
sa sulla terra in innumerevoli corsi di vita particolari, rivissuta
in ogni individuo, saldamente assicurata nella risonanza del
ricordo — dal momento che, in quanto mero attimo del presen-
te, si sottrae all’osservazione — e d’altra parte afferrabile più
compiutamente in tutta la sua profondità, così come essa si è
oggettivata nelle sue manifestazioni, da parte dell’intendere e
dell’interpretazione che non in qualsiasi percezione interiore e in
qualsiasi apprendimento del proprio Er/ebris, la vita ci è presen-
te nel nostro sapere in innumerevoli forme, e mostra tuttavia o-
vunque gli stessi tratti comuni. Tra le sue diverse forme ne met-
to in rilievo «24. Non spiego, non separo in parti; mi limito a
descrivere lo stato che ognuno può osservare in se stesso. Ogni
pensiero, ogni azione interna o esterna emerge come una punta
raccolta e penetra avanti. Mi è però anche possibile rivivere
uno stato di quiete interiore; esso è sogno, gioco, distrazione,
sguardo all’intorno e lieve agilità — come sostrato della vita.
In esso comprendo altri uomini e altre cose non soltanto come
realtà che stanno con me e tra di loro in una connessione
causale: da me si dipartono in ogni direzione relazioni vitali,
io mi rapporto a uomini e cose, prendo posizione nei loro
confronti, soddisfo le loro esigenze verso di me e mi attendo
218 WILHELM DILTHEY
da essi qualcosa. Le une mi rendono felice, ampliano la mia
esistenza, accrescono la mia forza; le altre esercitano su di me
una pressione e mi limitano, E dove la determinatezza della
singola tendenza che spinge in avanti lascia spazio all’uomo,
egli nota e sente queste relazioni. L'amico è per lui una forza
che innalza la sua esistenza, ogni membro della famiglia ha un
posto determinato nella sua vita, e tutto quanto lo circonda
viene da lui inteso come vita e come spirito che si sono oggetti-
vati. La panca davanti alla porta di casa, l’albero ombroso, la
casa e il giardino hanno in questa oggettivazione la loro essen-
za e il loro significato. È in questo modo che la vita di ogni
individuo crea da sé il proprio mondo.
2. L'esperienza della vita.
Dalla riflessione sulla vita sorge l’esperienza della vita. I
singoli eventi, che il fascio di impulsi e di sentimenti richiama
in noi all'atto dell’incontro con il mondo circostante e col
destino, vengono in essa raccolti in un sapere oggettivo e uni-
versale. Nello stesso modo in cui la natura umana è sempre la
medesima, sono comuni a tutti anche i tratti fondamentali
dell'esperienza della vita: la transitorietà delle cose umane e
la nostra forza di godere l’attimo; la tendenza delle nature
forti o anche limitate a superare questa transitorietà con la
costruzione di una solida impalcatura della loro esistenza; l’in-
soddisfazione delle nature meno resistenti o più pensierose di
fronte ad essa e la nostalgia per un elemento realmente duratu-
ro in un mondo invisibile; la penetrante potenza delle passioni
che, come un sogno, creano immagini fantastiche finché in esse
si smarrisce l'illusione. Così l’esperienza della vita si forma in
maniera differente nei singoli individui. Il loro substrato comu-
ne in tutti è formato dalle intuizioni della potenza del caso,
della corruttibilità di tutto ciò che possediamo, amiamo o an-
che odiamo e temiamo, della costante presenza della morte, che
determina onnipotente per ciascuno di noi il significato e il
senso della vita.
Nella catena degli individui sorge l’esperienza universale
della vita. Sulla base della ripetizione regolare delle singole
esperienze si forma — nella coesistenza e nella successione de-
WILHELM DILTHEY 219
gli uomini — una tradizione di espressioni, che col trascorrere
del tempo acquistano una precisione e sicurezza sempre mag-
giore. La loro sicurezza poggia sul numero sempre crescente
dei casi da cui perveniamo a una conclusione, sulla loro subor-
dinazione a generalizzazioni precedenti e su una continua veri-
fica. Anche dove, in un singolo caso, i princìpi dell’esperienza
della vita non vengono recati a coscienza, essi agiscono su di noi.
Tutto quanto ci domina sotto forma di costume, di consuetudi-
ne, di tradizione, è fondato su tali esperienze della vita. Ma
sempre, nelle esperienze particolari come in quelle universali,
il tipo di certezza e il carattere della formulazione è assoluta-
mente diverso dalla validità universale propria della scienza. Il
pensiero scientifico può controllare il procedimento sul quale
poggia la sua sicurezza, può formulare esattamente e fondare
le sue proposizioni: la nascita del nostro sapere dalla vita non
può essere controllato nello stesso modo, e non possiamo proget-
tare formule fisse per esprimerla.
A queste esperienze della vita appartiene anche il saldo siste-
ma di relazioni entro cui l’identità dell'io è collegata con le
altre persone e con gli oggetti esterni. La realtà di se stesso,
delle persone estranee, delle cose intorno a noi, e le loro relazio-
ni regolari formano l’impalcatura dell’esperienza della vita e
della coscienza empirica che in essa si forma. L’io, le persone,
le cose circostanti possono essere designati come fattori della
coscienza empirica, che ha la sua consistenza nelle relazioni
reciproche di questi fattori. E quali che siano le procedure del
pensiero filosofico mediante cui esso astrae dai singoli fattori o
dalle loro relazioni, questi rimangono i presupposti determinan-
ti della vita stessa, indistruttibili al pari di essa e non modifica-
bili da alcun pensiero, in quanto sono fondati nell'esperienza
della vita di innumerevoli generazioni. Tra queste esperienze
della vita le più importanti sono quelle che fondano la realtà
del mondo esterno e le mie relazioni con esso, poiché limitano
la mia esistenza, esercitano su di essa una pressione che non
posso eliminare e ostacolano le mie intenzioni in una maniera
inattesa e non modificabile. L’insieme delle mie induzioni, la
somma del mio sapere riposa su questi presupposti fondati
nella coscienza empirica.
220 WILHELM DILTHEY
3. Il mistero della vita.
Dalle mutevoli esperienze della vita emerge, di fronte all’ap-
prendimento orientato verso la totalità, il volto della vita: vol-
to contraddittorio, vitalità e al tempo stesso legge, ragione e
arbitrio, volto che offre aspetti sempre nuovi, e quindi chiaro
forse nei particolari ma completamente misterioso nell’insieme.
L’anima cerca di raccogliere in un complesso le relazioni della
vita e le esperienze in esse fondate, ma non vi riesce. Al
centro di tutte le cose incomprensibili stanno la procreazione,
la nascita, lo sviluppo e la morte. Il vivente sa della morte, e
non è tuttavia in grado di intenderla. Già dal primo sguardo a
un morto, la morte risulta incomprensibile alla vita: su ciò
poggia anzitutto la nostra posizione di fronte al mondo come a
qualcosa di altro, di estraneo e di terribile. Nel fatto della
morte vi è quindi una forza che costringe a rappresentazioni
fantastiche che hanno il compito di rendere intelligibile questo
fatto; fede nei morti, culto degli antenati, culto dei trapassati
generano le rappresentazioni fondamentali della fede religiosa
e della metafisica. E l’estraneità della vita si accresce nella
misura in cui l’uomo sperimenta nella società e nella natura
una lotta permanente, l’annientamento continuo di una creatu-
ra da parte di un’altra, la spietatezza di ciò che opera nella
natura. Emergono strane contraddizioni che nell'esperienza del-
la vita vengono sempre più forti alla coscienza e non sono mai
risolte: tra l’universale transitorietà e la volontà in noi pre-
sente verso qualcosa di saldo, tra la potenza della natura e
l'autonomia del nostro volere, tra la limitatezza di ogni cosa
nello spazio e nel tempo e la nostra facoltà di oltrepassare ogni
limite. Questi misteri hanno impegnato i sacerdoti egizi e babi-
lonesi al pari della predicazione cristiana, Eraclito al pari di
Hegel, il Prometeo eschileo al pari del Faust di Goethe.
4. La legge di formazione delle intuizioni del mondo.
Ogni grande impressione mostra all'uomo la vita in un
aspetto particolare; il mondo appare in una luce diversa; dal
momento che queste esperienze si repetono e si connettono,
sorgono le nostre disposizioni interiori nei confronti della vita.
WILHELM DILTHEY 221
Da una relazione vitale la vita intera riceve una colorazione e
un’interpretazione nelle anime affettive o pensierose — così
sorgono le disposizioni universali. Esse cambiano man mano
che la vita mostra all'uomo aspetti sempre nuovi; ma nei diver-
si individui predominano, secondo la loro essenza, determinate
disposizioni di vita. Gli uni si attaccano alle cose concrete,
sensibili, e vivono nel godimento immediato; altri perseguono,
attraverso il caso e il destino, grandi scopi che dànno durata
alla loro esistenza; vi sono nature gravi che non sopportano la
transitorietà di ciò che amano e posseggono, e alle quali la
vita appare quindi priva di valore e quasi intessuta da vanità e
da sogni, oppure che cercano qualcosa di permanente al di là
di questa terra. Le più universali tra le grandi disposizioni di
vita sono l’ottimismo e il pessimismo. Essi si differenziano però
in svariate sfumature. A chi lo contempla in qualità di spettato-
re, il mondo — estraneo — appare come uno spettacolo vario-
pinto e fuggevole; a chi governa ordinatamente la propria vita
secondo un progetto, lo stesso mondo appare invece familiare, di
casa: egli sta nel mondo a pie’ fermo e appartiene ad esso.
Queste disposizioni di vita, le innumerevoli sfumature della
posizione di fronte al mondo, costituiscono il terreno per la
formazione delle intuizioni del mondo. In queste si compiono,
sulla base delle esperienze di vita in cui sono operanti le molte-
plici relazioni vitali degli individui nei confronti del mondo, i
tentativi per risolvere il mistero della vita. E proprio nelle loro
forme superiori si fa valere in modo particolare un procedimen-
to: la comprensione di un dato incomprensibile mediante uno
più chiaro. Ciò che è chiaro diventa mezzo di comprensione o
fondamento di spiegazione di ciò che è incomprensibile. La
scienza analizza, e quindi sviluppa relazioni generali dalle si-
tuazioni omogenee così isolate; religione, poesia e metafisica
originaria esprimono il significato e il senso della totalità. Quel-
la conosce, queste intendono. Una tale interpretazione del mon-
do, che rende trasparente la sua essenza molteplice attraverso
un'essenza più semplice, comincia già col linguaggio, per svi-
lupparsi poi nella metafora in quanto sostituzione di un'intui-
zione mediante un’altra affine che la rende in qualche senso
più chiara, nella personificazione che avvicina e rende com-
prensibile umanizzando, oppure attraverso ragionamenti analo-
222 WILHELM DILTHEY
gici, che determinano il meno noto a partire dal più noto sulla
base dell’affinità e così si accostano ormai al pensiero scientifi-
co. Ovunque la religione, il mito, la poesia e la metafisica
originaria cercano di rendere qualcosa intelligibile e capace di
suscitare impressione, ciò avviene mediante il medesimo proce-
dimento. |,
5. La struttura dell’intuizione del mondo.
Tutte le intuizioni del mondo, quando si propongono di
fornire una soluzione compiuta del mistero della vita, contengo-
no di regola la stessa struttura. Questa struttura è sempre una
connessione in cui, sulla base di un'immagine del mondo, ven-
gono decise le questioni relative al significato e al senso del
mondo, e da essa vengono derivati l’ideale, il sommo bene, i
princìpi supremi della condotta della vita. Essa è determinata
dalla legalità psichica in virtù della quale l'apprendimento del-
la realtà nel corso della vita costituisce la base per la valutazio-
ne delle situazioni e degli oggetti secondo i criteri di piacere e
di dispiacere, di gradevole e di sgradevole, di approvazione e di
disapprovazione; e questa valutazione della vita forma quindi a
sua volta il substrato delle determinazioni del volere. Il nostro
comportamento attraversa regolarmente queste tre posizioni del-
la coscienza, e la natura peculiare della vita psichica si fa
valere nel fatto che in tale connessione dinamica persiste lo
strato sottostante: le relazioni presenti negli atteggiamenti in
base a cui io giudico gli oggetti, provo piacere di fronte ad essi
e sono indirizzato alla realizzazione di qualcosa in essi, deter-
minano la costruzione di questi diversi strati e costituiscono in
tal modo la struttura delle formazioni in cui la connessione
dinamica della vita psichica. trova la propria espressione. La
lirica mostra nella forma più semplice questa connessione —
una situazione, una successione di sentimenti da cui spesso sca-
turisce un desiderio, una tensione, un'azione. Ogni rapporto
vitale si sviluppa verso una connessione in cui le medesime
forme di atteggiamento sono legate strutturalmente. Così anche
le intuizioni del mondo sono formazioni regolari in cui si
esprime questa struttura della vita psichica. Il loro substrato è
sempre un'immagine del mondo; essa sorge dall’atteggiamento
WILHELM DILTHEY 223
dell’apprendere quale si presenta nella successione regolare dei
gradi del conoscere. Noi osserviamo processi interiori e oggetti
esterni. Noi spieghiamo le percezioni che in questo modo sorgo-
no rendendo in esse trasparenti, mediante le funzioni clementa-
ri del pensiero, i rapporti fondamentali del reale; quando le
percezioni svaniscono, esse vengono tuttavia riprodotte e ordina-
te nel nostro universo di rappresentazioni, che ci solleva al di
sopra dell’accidentalità delle percezioni; la saldezza e la libertà
che lo spirito acquisisce a questo livello, il suo dominio sulla
realtà giungono poi a compimento nella regione dei giudizi e
dei concetti, dove la connessione e l’essenza del reale vengono
colte come fornite di validità universale. Quando un’intuizione
del mondo giunge al suo pieno sviluppo, ciò avviene di regola
a questi gradi di conoscenza della realtà. A questo punto su di
essa si costruisce un altro atteggiamento tipico, in un’analoga
regolare successione di livelli. Nel sentimento di noi stessi assa-
poriamo il valore della nostra esistenza, attribuiamo a persone
e a oggetti che ci circondano una capacità di influenza sulla
nostra esistenza, in quanto la elevano e la estendono: quindi
determiniamo questi valori secondo le possibilità di recar giova-
mento 0 danno che sono contenute negli oggetti, valutiamo tali
possibilità e cerchiamo per questa valutazione una misura in-
condizionata. In tal modo situazioni, persone e cose acquistano
un significato in rapporto al complesso della realtà, e questo ne
riceve un senso. Percorrendo questi gradi nell’ atteggiamento
del sentire si forma per così dire, nella struttura dell’intui-
zione del mondo, un secondo strato; l’immagine del mondo
diventa fondamento della vita e della comprensione del mon-
do. Secondo la medesima legalità della vita psichica, dall’ap-
prezzamento della vita e dalla comprensione del mondo emer-
ge uno stato supremo della coscienza: gli ideali, il sommo
bene e i princìpi supremi in cui l'intuizione del mondo ottiene
la sua energia pratica — come dire, la punta con cui essa si
apre un varco nella vita umana, nel mondo esterno e nella
profondità dell'anima. L’intuizione del mondo si fa ora forma-
trice, plasmatrice. riformatrice! E anche questo stato supremo
dell’intuizione del mondo si sviluppa attraverso gradi differen-
ti. Dall’intenzione, dalla tensione, dalla tendenza si sviluppa-
no le posizioni di scopo durevoli indirizzate alla realizzazione
224 WILHELM DILTHEY
di una rappresentazione, il rapporto tra scopi e mezzi, la scelta
tra gli scopi, la selezione dei mezzi e infine la connessione
delle posizioni di scopo in un ordinamento supremo del nostro
comportamento pratico — in un progetto complessivo di vita,
in un sommo bene, in norme supreme dell’agire, in un ideale
di formazione della vita personale e della società.
Questa è la struttura dell’intuizione del mondo. Ciò che è
confusamente contenuto come un fascio di compiti nel mistero
della vita, viene qui elevato a una connessione consapevole e
necessaria di problemi e di soluzioni. Questa progressione si
svolge secondo gradi determinati in maniera regolare dall’inter-
no: ne consegue che ogni intuizione del mondo ha uno svilup-
po e nel corso di questo perviene all’esplicazione del suo conte-
nuto; essa ottiene così gradualmente durata, saldezza e poten-
za, nel corso del tempo: essa è un prodotto della storia.
6. La molteplicità delle intuizioni del mondo.
Le intuizioni del mondo si sviluppano in condizioni diffe-
renti. Il clima, le razze, le nazioni determinate attraverso la
storia e la formazione degli stati, le delimitazioni temporalmen-
te condizionate secondo epoche ed età in cui le nazioni coopera-
no, si collegano alle condizioni specifiche che producono la
molteplicità delle intuizioni del mondo. La vita, che nasce in
queste condizioni specificate, ha moltissimi aspetti; lo stesso
vale per l’uomo che apprende la vita. A queste differenze tipi-
che si aggiungono quelle delle singole individualità, del loro
ambiente e della loro esperienza di vita. Nello stesso modo in
cui la terra è ricoperta di innumerevoli forme viventi, tra le
quali ha luogo una lotta continua per la sopravvivenza e per lo
spazio vitale, nel mondo umano si sviluppano le forme di
intuizione del mondo, contendendosi tra loro il potere sul-
l’anima.
Si fa così valere un rapporto regolare per cui l’anima,
spinta dall’incessante mutamento delle impressioni e dei desti-
ni, nonché dalla potenza del mondo esterno, deve tendere a
una saldezza interiore per potersi contrapporre a tutto ciò:
essa viene condotta dal mutamento, dalla discontinuità, dallo
scivolare e dal fluire della sua costituzione, delle sue intuizioni
WILHELM DILTHEY 225
della vita, a una valutazione durevole della vita e a fini ben
definiti. Le intuizioni del mondo che promuovono la compren-
sione della vita e conducono a fini utili, si conservano e sop-
piantano quelle che meno rispondono a queste esigenze. Si
compie così una selezione tra di esse. E nella successione delle
generazioni le intuizioni del mondo più vitali si sviluppano
verso una forma sempre più compiuta. E come nella molteplici-
tà della vita organica opera la stessa struttura, così anche le intui-
zioni del mondo sono formate secondo un medesimo schema.
Il profondo mistero della loro specificazione ha la sua base
nella regolarità che la connessione teleologica della vita psichi-
ca imprime alla particolare struttura delle formazioni di intui-
zione del mondo. i
AI centro dell’apparente accidentalità di queste formazioni
vi è, in ognuna di esse, una connessione teleologica che scaturi-
sce dalla reciproca dipendenza delle questioni contenute nel
mistero della vita, e in modo particolare dal rapporto costante
tra immagine del mondo, apprezzamento della vita e fini della
volontà. Una comune natura umana e un ordine dell’individua-
zione stanno in salde relazioni vitali con la realtà; e quest'ulti-
ma è sempre e dovunque la stessa, la vita mostra sempre gli
stessi aspetti.
In questa regolarità della struttura dell’intuizione del mon-
do e del suo differenziarsi in forme particolari si presenta un
momento impercettibile: le variazioni della vita, il mutamento
delle epoche, le trasformazioni della situazione scientifica, il
genio delle nazioni e degli individui. In virtù di ciò cambia
incessantemente l’interesse ai problemi, la potenza di determi-
nate idee che sorgono dalla vita storica e che la dominano;
nelle intuizioni del mondo si fanno valere, secondo il luogo
storico che occupano, combinazioni sempre nuove dell’esperien-
za della vita, disposizioni interiori e pensieri sempre nuovi:
esse sono irregolari in conformità ai loro elementi, alla forza e
al significato che questi ultimi assumono nel complesso. Tuttavia,
a causa della legalità che opera nel profondo della struttura e del-
la regolarità logica, esse non sono aggregati ma formazioni.
A questo punto, sottoponendo queste formazioni a un proce-
dimento comparativo, risulta inoltre che esse si ordinano in grup-
pi all’interno dei quali sussiste una certa affinità. Come le lingue,
15. STORICISMO TEDESCO.
226 WILHELM DILTHEY
le religioni, gli stati rivelano — in virtù del metodo comparativo
— certi tipi, certe linee di sviluppo e regole di trasformazione, la
stessa cosa si può mostrare anche nelle intuizioni del mondo.
Questi tipi attraversano la singolarità storica delle formazioni
particolari. Essi sono sempre condizionati dalla particolarità
propria del campo in cui sorgono. Ma volerli derivare da tale
particolarità è stato un grave errore, proprio del metodo costrut-
tivo. Soltanto il procedimento storico comparativo può accostar-
si alla determinazione di questi tipi, delle loro variazioni, dei
loro sviluppi e incroci. La ricerca deve pertanto tener sempre
aperta, nei confronti dei suoi risultati, ogni possibilità di prose-
cuzione. Qualsiasi analisi è solamente provvisoria. Essa è e
rimane nient’altro che uno strumento per vedere in modo stori-
camente più profondo. E al procedimento storico comparativo
si collega sempre la sua preparazione mediante l’osservazione
sistematica e l’interpretazione dell’elemento storico che ne scatu-
risce. Anche quest’interpretazione psicologica e storico-sistemati-
ca della realtà storica è esposta all'errore del pensiero costrutti-
vo, che in ogni campo dell’ordinamento vuol porre alla base un
rapporto semplice, come se fosse un impulso formativo in esso
presente.
Riassumiamo ora quanto è stato fin qui posto in luce in un
principio, che la considerazione storica comparativa conferma
in ogni punto. Le intuizioni del mondo non sono prodotti del
pensiero; esse non nascono dalla mera volontà di conoscenza.
L'apprendimento della realtà è certo un momento importante,
ma è soltanto un momento. Esse scaturiscono dall’atteggiamen-
to di vita, dall'esperienza della vita, dalla struttura della
nostra totalità psichica. L’elevazione della vita a coscienza
nella conoscenza della realtà, nella valutazione della vita e
nell'operazione della volontà è il lungo e difficile lavoro che
l'umanità ha compiuto nello sviluppo delle intuizioni della vita.
Questo principio della dottrina delle intuizioni del mondo
riceve conferma se poniamo mente al corso della storia nel suo
insieme: mediante tale corso risulta confermata una conseguen-
za importante del nostro principio, che ci riporta al punto di
partenza di questo saggio. La formazione delle intuizioni del
mondo è determinata dalla volontà rivolta alla stabilità dell’im-
magine del mondo, della valutazione della vita, dell’azione del-
WILHELM DILTHEY 227
la volontà, derivante dal carattere fondamentale — sopra de-
scritto — della successione di gradi dello sviluppo psichico. Sia
la religione sia la filosofia cercano la stabilità, l’efficacia, il
dominio, la validità universale. Ma su questa via l'umanità non
ha fatto un solo passo avanti. La lotta reciproca tra le intuizio-
ni del mondo non è pervenuta ad alcuna decisione in nessuno
dei suoi punti nodali. Certamente la storia compie una selezio-
ne tra di esse, ma i grandi tipi permangono autosufficienti,
indimostrabili e indistruttibili, gli uni accanto agli altri. Essi
non devono la loro origine ad alcuna dimostrazione, perché
non possono essere risolti da alcuna dimostrazione. I singoli
gradi e le formazioni specifiche di un tipo vengono sì confuta-
te, ma la loro radice nella vita perdura, continua ad agire e
produce sempre nuove formazioni.
II. I TIPI DI INTUIZIONE DEL MONDO NELLA RELIGIONE, NELLA POE-
SIA E NELLA METAFISICA
Prendo le mosse da una distinzione tra le intuizioni del
mondo che è condizionata dai campi della cultura in cui esse
compaiono.
Il fondamento della cultura è formato dall’economia, dalla
vita sociale, dal diritto e dallo stato. In ciascun campo domina
una divisione del lavoro in virtù della quale la singola persona
assolve, in un determinato luogo storico del suo operare, una
funzione determinata. Qui la volontà è inquadrata in compiti
delimitati che vengono ad essa assegnati dalla connessione teleo-
logica propria di un dato campo. La scienza introduce in que-
sta connessione pratica della vita, mediante la conoscenza, una
regolamentazione razionale del lavoro; in questo modo sta in
connessione strettissima con la prassi e, poiché anch'essa sotto-
stà alla legge della divisione del lavoro, ogni scienziato si pre-
figge, in un determinato campo e in un determinato punto del
lavoro conoscitivo, un compito limitato. La stessa filosofia è
sottomessa, in una parte dalle sue funzioni, a questa divisione
del lavoro. Invece il genio religioso, poetico o metafisico vive
in una regione in cui è sottratto al vincolo sociale, al lavoro
racchiuso in compiti delimitati, alla subordinazione a ciò che
228 WILHELM DILTHEY
può venir raggiunto nei limiti del tempo e della situazione
storica. Ogni riguardo a tale vincolo falsifica anzi la sua com-
prensione della vita, che deve porsi di fronte a ciò che è dato
in piena spontaneità e sovranità. Essa diventa non vera già a
causa della limitazione della prospettiva, del riferimento a una
situazione temporale — a causa di una qualsiasi tendenza. In
questa regione della libertà sorgono e si formano le intuizioni
del mondo più valide e più potenti.
Le intuizioni del mondo sono però distinte nel genio religio-
so, in quello artistico e in quello metafisico secondo la loro
legge di formazione, la loro struttura e i loro tipi.
1. L'intutzione religiosa del mondo.
Le intuizioni religiose del mondo scaturiscono da un partico-
lare rapporto di vita dell’uomo. Al di là della realtà dominabi-
le in cui l’uomo primitivo — in quanto guerriero, cacciatore, la-
voratore e fruitore del suolo — produce trasformazioni nel mon-
do esterno, mediante il suo agire fisico, in una razionale posizio-
ne di scopi, il campo di tale operare si estende fino all’inaccessi-
bile, a ciò che non è attingibile da parte della conoscenza.
E in quanto di qui gli sembrano procedere effetti che gli
procurano fortuna nella caccia, successo nella guerra, mentre
nella malattia, nella follia, nella vecchiaia, nella morte, nella
perdita della moglie, dei figli, del gregge, si scopre dipendente
da qualcosa di sconosciuto, nasce allora la tecnica diretta a
influenzare questa realtà incomprensibile — che non si lascia
dominare dall’attività fisica — con le proprie preghiere, con le
proprie offerte, con la propria subordinazione. Egli vuole acco-
gliere in sé le forze di esseri superiori, stabilire un buon rappor-
to con essi, unirsi ad essi. Le azioni dirette a questo fine
costituiscono il culto originario. Nasce la professione dello stre-
gone, del guaritore o del sacerdote; man mano che questo ceto
si organizza sempre più saldamente, in esso si concentrano
abilità, esperienza, sapere, e vi si forma un modo di vita parti-
colare che lo separa dagli altri membri della società. In questo
modo nelle piccole comunità chiuse dell’orda e della tribù na-
sce una tradizione di esperienza religiosa della vita, che si è
sviluppata nel rapporto con gli esseri superiori, e di ordinamen-
WILHELM DILTHEY 229
to spirituale di vita; e dalle pratiche del culto magico lo svilup-
po di questa religiosità superstiziosa perviene a poco a poco
fino al processo religioso, nel quale l'animo e la volontà dell’uo-
mo vengono assoggettate mediante una disciplina interiore al
volere divino. II momento decisivo risiede nel modo in cui le
idee religiose primitive si sviluppano sulla base degli Er/ebnis-
se, sempre e dovunque ricorrenti, della nascita, della morte,
della malattia, dei sogni, della follia, sulla base di interventi
malvagi o benefici dell'elemento demoniaco sul corso della vita,
sulla base di strane commistioni di ordine nella natura — che
comporta sempre un rapporto teleologico di colui che apprende
nei confronti di essa — e infine sulla base del caso, della forza
distruttiva e del conflitto. Il secondo io presente nell’uomo, le
forze divine del cielo, nel sole e nelle stelle, il demoniaco nella
foresta, nella palude e nelle acque — queste rappresentazioni
fondamentali determinate da rapporti vitali costituiscono i pun-
ti di partenza di una vita fantastica condizionata affettivamen-
te, che viene alimentata da esperienze religiose sempre nuove.
L'influenza dell’invisibile è la categoria fondamentale della vi-
ta religiosa elementare. Il pensiero analogico combina poi le
idee religiose fino a tradurle in dottrine concernenti l’origine
del mondo, dell’uomo e dell’anima.
L'influenza del soprasensibile, presente nelle cose e negli
uomini, conferisce loro un significato religioso. Queste cose e
questi uomini sono sensibili, visibili, distruttibili, limitati, e
tuttavia sono una sede di influenze divine o demoniache. Il
mondo è pervaso da un rapporto religioso di cose e persone
singole, concrete e finite, con l’invisibile, in virtù del quale il
loro significato religioso risiede nell'influenza dell’invisibile ce-
lata in esse. Luoghi e persone sacri, immagini della divinità,
simboli, sacramenti sono tutti casi particolari di questo rappor-
to: nella religione esso ha lo stesso significato che possiede il
simbolico nell'arte e il concettuale nella metafisica. E la tradu-
zione diventa, all’interno del rapporto religioso — proprio a
causa dell’oscurità della sua origine — una potenza di eccezio-
nale efficacia.
Questa è la base di tutto l’ulteriore sviluppo religioso. Men-
tre negli stadi primitivi opera in prevalenza lo spirito della
comunità, il passaggio verso gradi superiori si compie in virtù
230 WILHELM DILTHEY
del genio religioso — nei misteri, nella vita dell’eremita, nel
profetismo. A influenze particolari tra l'uomo e gli esseri supe-
riori subentra, nel genio religioso, un rapporto dell’uomo nella
sua totalità nei confronti di essi. Questa esperienza religiosa
concentrata raccoglie quindi le idee religiose elementari per
tradurle in intuizioni religiose del mondo, le quali hanno la
loro essenza nel fatto che qui l’interpretazione della realtà,
l'apprezzamento della vita e l'ideale pratico scaturiscono dal
rapporto con l’invisibile. Esse sono contenute nel discorso meta-
fisico e nelle dottrine della fede; poggiano su una costituzione
della vita; si sviluppano nella preghiera e nella meditazione.
Tutte le formazioni tipiche di queste intuizioni religiose del
mondo comportano, fin dal loro inizio, l’antitesi tra esseri bene-
fici ed esseri malvagi, tra esistenza sensibile e mondo superiore.
L’immanenza della religione universale negli ordinamenti
della vita e nel corso naturale, l’Uno-Tutto spirituale che costi-
tuisce la verità, la connessione e il valore di tutte le cose
particolari e a cui l’esistenza particolare deve quindi fare ritor-
no, la volontà divina creatrice che produce il mondo e che crea
gli uomini secondo la sua immagine o che sta in opposizione a
un regno del male e per combatterlo prende al suo servizio gli
uomini pii — questi sono i tipi principali delle varie intuizioni
religiose del mondo. E come fin dall'inizio il rapporto con
l'invisibile è separato dal lavoro e dal godimento inerenti all’esi-
stenza sociale terrena, così queste intuizioni religiose del mon-
do sono in contrasto permanente con la concezione mondana
della vita: in questa si fa spesso valere, all’interno di tale
antitesi, un naturalismo originario che trae la sua energia e la
sua potenza proprio dall’antitesi nei confronti delle intuizioni
religiose del mondo.
Nelle epoche religiose troviamo quindi la lotta tra tipi diver-
si che mostrano una chiara affinità con quelli della metafisica.
Il monoteismo giudaico-cristiano, la forma cinese e indiana di
panenteismo e — per contro — la posizione e il modo di
pensare naturalistici sono i gradi preliminari e i punti di par-
tenza per l'ulteriore sviluppo della metafisica. Ma il rapporto
religioso, con la sua magia, con le sue forze, le sue figure e i
suoi luoghi di culto religiosi, con le immagini del simbolismo
religioso, costituisce sempre il substrato delle intuizioni religio-
WILHELM DILTHEY 231
se del mondo, nello stesso modo in cui il popolo costituisce
l'ampio strato inferiore della vita comunitaria della chiesa. In
queste intuizioni del mondo si conserva sempre un nucleo oscu-
ro, specificamente religioso, che il lavoro concettuale dei
teologi non è mai in grado di spiegare e di giustificare. Mai
può essere superata l’unilateralità di un’esperienza che scaturi-
sce dal rapporto di preghiera, di sollecitazione, di sacrificio di
sé con esseri superiori e che dalle relazioni dell'anima con essi
perviene a coglierne i predicati.
Di qui nasce un rapporto per cui l’intuizione religiosa del
mondo è sì la preparazione di quella metafisica, ma non può
mai risolversi completamente in quest’ultima. La dottrina giu-
daico-cristiana del dio puramente spirituale, che crea liberamen-
te, e delle anime formate a sua immagine si è trasformata
nell’idealismo monoteistico della libertà; le differenti forme del-
la dottrina religiosa dell’Uno-Tutto hanno preparato il panen-
teismo metafisico; nella speculazione indiana, nei misteri e nel-
la Gnosi si è sviluppato lo schema dell’emanazione della molte-
plicità del mondo dall’Uno e del ritorno in esso, qual è stato
elaborato dai neoplatonici, da Bruno, da Spinoza e da Schopen-
hauer. Altrettanto chiara è la connessione che dal monotei-
smo conduce alla teologia scolastica dei pensatori giudaici, ara-
bi e cristiani, e da essa a Descartes, a Wolff, a Kant e ai filosofi
dell'età della Restaurazione nel secolo xrx. Ma per quanto il
lavoro concettuale che la teologia compie nelle intuizioni reli-
giose del mondo possa accostarle alla metafisica, la loro legge
di formazione e la loro struttura le separano pur sempre dal
pensiero metafisico. Il punto di vista unilaterale della costituzio-
ne religiosa della vita e dell’intuizione religiosa del mondo
costituisce il loro limite. L’animo religioso è sempre, con le sue
esperienze, nel giusto. Lo spirito progressivo riconosce che il
fissarsi dell'anima al mondo sopra-sensibile — questo prodotto
storico della tecnica sacerdotale — manteneva in piedi l’ideali-
smo, sia pure in virtù di una trasposizione artificiosa, e impone-
va un disciplinamento della vita, sia pure con ascetica rigidi-
tà, ma anche che il procedere dello spirito nella storia deve
cercare posizioni più libere nei confronti della vita e del mon-
do, le quali non devono essere legate a tradizioni che scaturisco-
no da discutibili origini misteriose.
232 WILHELM DILTHEY
2. Le posizioni dell’intuizione del mondo nella poesia.
Nella religione cose e uomini acquistavano la loro significati-
vità in virtà della fede nella presenza in essi di un forma
soprasensibile. La significatività dell’opera d’arte consiste nel
fatto che un elemento singolare, un dato sensibile viene separa-
to dal nesso dei rapporti di causa ed effetto ed elevato a espres-
sione ideale delle relazioni vitali così come esse ci parlano con
il colore e la forma, la simmetria e la proporzione, gli accordi
dei suoni e il ritmo, il processo psichico e l’accadimento. C'è
in tutto questo una tendenza a formare un’intuizione del mon-
do? In sé, la produzione artistica non ha niente in comune
con l’intuizione del mondo; ma il rapporto della costituzione
vitale dell’artista con la sua opera ha qui tuttavia dato luogo a
una relazione secondaria tra opera d’arte e intuizione del mon-
do. L’arte si è sviluppata, in un primo momento, sotto l’influen-
za della religione. L'ambito delle cose sacre è il suo oggetto
più prossimo; gli scopi della comunità religiosa si fanno valere
nell’architettura e nella musica; in questa connessione l’arte ha
elevato il contenuto della religiosità all’eternità in cui scompaio-
no i dogmi transitori, e da questo contenuto è scaturita la
forma interna dell’arte più alta — come mostrano l’epica reli-
giosa di Giotto nella pittura, la grande architettura ecclesia-
stica e la musica di Bach e di Handel. Ciò che costituisce
quindi l'andamento storico del rapporto dell’arte con le intui-
zioni del mondo è il fatto che la costituzione vitale dell’artista
è pervenuta a una libera espressione sulla base di questo appro-
fondimento religioso dell’arte. Questo non dev'essere cercato
nell’introduzione di un’intuizione della vita nell’opera d’arte,
bensì nella forma interna delle formazioni artistiche. È stato
compiuto uno sforzo considerevole per comprovare la presenza
di tale elemento nella pittura e per mostrare l’influenza delle
tipiche costituzioni vitali — da cui scaturiscono l’intuizione
naturalistica del mondo, quella eroica e quella panenteistica —
sulla forma delle opere pittoriche. Un analogo rapporto si po-
trebbe mostrare anche nella creazione musicale. E quando arti-
sti della potenza spirituale di un Michelangelo, di Becthoven,
di Richard Wagner arrivano, in virtù di un impulso interiore,
a formare un'intuizione del mondo, questa contribuirà a raffor-
WILHELM DILTHEY 233
zare l’espressione della loro costituzione vitale nella forma arti-
stica.
Tra le arti, però, la poesia ha un rapporto particolare con
l'intuizione del mondo. Infatti il mezzo in cui essa opera, il
linguaggio, le consente un'espressione lirica o una rappresenta-
zione epica o drammatica di tutto ciò che può venir visto,
udito, vissuto. Io non voglio qui tentare di definire l'essenza e
la funzione della poesia. Svincolando un avvenimento dal nesso
delle relazioni della volontà, e trasformando la sua rappresenta-
zione in questo mondo dell’apparenza in un’espressione del-
la natura della vita, la poesia libera l’anima dal peso della
realtà e nel medesimo tempo ne rivela ad essa il significato.
Soddisfacendo la segreta aspirazione dell’uomo, imprigionato
dal destino e dalle proprie decisioni nei confini di una vita
determinata, ad attuare nella fantasia quelle possibilità di vita
che non ha potuto realizzare, essa amplia l’io dell'uomo e
l'orizzonte delle sue esperienze di vita. Essa gli apre lo sguar-
do verso un mondo più alto e più forte. In tutto questo si
esprime però il rapporto fondamentale su cui poggia la poesia:
la vita costituisce il suo punto di partenza; i rapporti vitali
con gli uomini, le cose, la natura diventano il suo nucleo; nel
bisogno di raccogliere le esperienze che scaturiscono dai rapporti
di vita sorgono così le disposizioni universali della vita, e la
connessione di ciò che si è esperito nei singoli rapporti di vita
è la coscienza poetica del significato della vita. Queste disposi-
zioni universali stanno alla base del libro di Giobbe e dei
Salmi, dei cori della tragedia attica, dei sonetti di Dante e di
Shakespeare, della grandiosa conclusione della Divina Comme-
dia, della grande lirica di Goethe, di Schiller e dei romantici,
nonché del Faust di Goethe, dei Nibelunghi di Wagner e del-
l'’Empedocle di Hòlderlin. La poesia non vuole quindi conosce-
re la realtà così come fa la scienza, ma vuol mostrare la
significatività dell’accadimento, degli uomini e delle cose, pre-
sente nelle relazioni vitali; così il mistero della vita si con-
centra qui in una connessione interna di tali relazioni, intessu-
ta di uomini, di destini, di circostanze. In ogni grande epoca
poetica si compie di nuovo, secondo una successione regolare, il
passaggio dalla fede e dai costumi ad essa relativi, che si forma-
no sulla base dell’universale esperienza di vita della comunità,
234 WILHELM DILTHEY
al compito di rendere nuovamente intelligibile la vita in base
ad essa stessa. Questa fu la via che ha condotto da Omero ai
tragici attici, dalla fede cattolica alla lirica cavalleresca e all’epi-
ca, dalla vita moderna a Schiller, Balzac, Ibsen. A questo
passaggio corrisponde la successione delle forme poetiche nella
quale dapprima si forma l’epica e quindi il dramma realizza la
massima concentrazione, elaborando in una concezione della
vita la connessione dei rapporti di azione, di carattere e di
destino creati dalla vita, mentre il romanzo dispiega infine
l’illimitata pienezza della vita ed esprime una coscienza del
significato della vita.
Concludiamo. L’emergere della poesia dalla vita la porta
direttamente a esprimere nell’accadimento un'intuizione della
vita stessa, concepita sulla base della sua particolare costituzio-
ne. Essa si sviluppa poi nella storia della poesia, in cui questa
si accosta gradualmente al suo fine di intendere la vita in base
a essa stessa, esponendosi con piena libertà alle grandi impres-
sioni vitali. Pertanto la vita mostra alla poesia aspetti sempre
nuovi. La poesia indica in tal modo le possibilità illimitate di
vedere la vita, di valutarla, di dare ad essa una nuova forma.
L'accadimento diventa così simbolo, ma non di un pensiero,
bensì di una connessione osservata nella vita — osservata a
partire dall’esperienza di vita del poeta. È così che Stendhal e
Balzac vedono nella vita un tessuto — creato senza finalità
dalla natura stessa, in virtù di un oscuro impulso — di illusio-
ni, di passioni, di bellezza e di corruzione, in cui la volontà
forte si acquista la vittoria; Goethe vi scorge invece una forza
formatrice che riunisce in una connessione dotata di valore le
forme organiche, lo sviluppo umano e gli ordinamenti sociali;
Corneille e Schiller vedono in essa il teatro di azioni eroiche.
Ognuna di queste costituzioni vitali corrisponde a una forma
interna della poesia. Di qui ai grandi tipi di intuizione del
mondo non c’è che un passo, e il legame della letteratura con i
movimenti filosofici conduce un Balzac, un Goethe, uno Schil-
ler a questa perfezione suprema della comprensione della vita.
In tal modo i tipi dell’intuizione poetica del mondo preparano
quelli della metafisica, oppure trasmettono la loro influenza a
tutta la società.
WILHELM DILTHEY 235
3. 1 tipi di intuizione del mondo nella metafisica.
Tutti i fili del discorso si intrecciano nella dottrina della
struttura, dei tipi e dello sviluppo delle intuizioni del mondo
nella metafisica. Riassumo i rapporti che sono qui decisivi.
I. Il processo complessivo del sorgere e del consolidamento
delle intuizioni del mondo spinge all’esigenza di elevarle a un
sapere universalmente valido. Anche nei poeti di maggiore ca-
pacità di pensiero le grandi impressioni sembrano illuminare
sempre la vita sotto nuovi aspetti: la tendenza al consolidamen-
to conduce al di là di esse. Nel nucleo delle religioni univer-
sali rimane qualcosa di bizzarro e di estremo, che scaturisce
dai più accentuati degli Erlebnisse religiosi, dalla fissazione
dell'anima nell’invisibile propria della tecnica sacerdotale, e che
è inaccessibile alla religione. L’ortodossia si irrigidisce su que-
sto; la mistica e lo spiritualismo tentano di riportarlo all’Erle-
ben; il razionalismo vuole afferrarlo concettualmente e si vede
costretto a dissolverlo: così la volontà di dominio presente nel-
le religioni universali — che si era appoggiata all'esperienza
interiore dei credenti, alla tradizione e all’autorità — viene
sostituita dall’esigenza della ragione di trasformare in conformi-
tà a se stessa le intuizioni del mondo e di fondare razionalmen-
te la propria validità. Quando l’intuizione del mondo viene
così elevata a una connessione concettuale, e quando questa
viene fondata scientificamente, presentandosi così con la pretesa
di validità universale, allora nasce la metafisica. La storia mostra
che, dovunque essa compaia, lo sviluppo religioso l’ha prepara-
ta, che la poesia la influenza e che la costituzione vitale delle
nazioni, il loro apprezzamento della vita e i loro ideali agisco-
no su di essa. L’aspirazione a un sapere universalmente valido
dà a questa nuova forma di intuizione del mondo la sua struttu-
ra propria.
Chi è in grado di dire quali siano i punti in cui la tenden-
za al conoscere, che opera in tutte le connessioni teleologiche
della società, diventa scienza? Il sapere matematico e astronomi-
co dei Babilonesi e degli Egizi si è svincolato dai compiti
pratici e dal legame con la casta sacerdotale, ed è così diventato
autonomo, soltanto nelle colonie ioniche. E quando la ricerca
236 WILHELM DILTHEY
prese a suo oggetto la totalità del mondo, la nascente filosofia
e le scienze entrarono in una relazione strettissima. Matemati-
ca, astronomia, geografia diventarono mezzi di conoscenza del
mondo. L'antico problema della soluzione del mistero della
vita impegnò i Pitagorici o Eraclito così come aveva impegnato
i sacerdoti dell'Oriente. E se la potenza avanzante delle
scienze naturali fece del problema della spiegazione della natu-
ra il centro della filosofia nelle colonie, nel suo sviluppo ulterio-
re tutte le grandi questioni inerenti al mistero del mondo ven-
nero discusse nelle scuole filosofiche, le quali erano appunto
orientate verso la relazione interna tra conoscenza della realtà,
direzione della vita e volontà negli individui e nella società,
ossia verso la formazione di un’intuizione del mondo.
La struttura delle intuizioni del mondo nella metafisica è
stata determinata anzitutto dalla loro connessione con la scien-
za. L'immagine sensibile del mondo si trasformò in immagine
astronomica; il mondo del sentimento e delle azioni della vo-
lontà fu oggettivato in concetti di valori, di beni, di scopi e di
regole; l'esigenza di forma concettuale e di fondazione portò
gli indagatori del mistero del mondo a fare della logica e della
teoria della conoscenza la loro base: lo stesso sforzo di soluzio-
ne condusse dai dati condizionati e limitati a un essere universa-
le, a una causa prima, a un sommo bene, a uno scopo ultimo;
la metafisica diventò sistema e quest’ultimo procedette, attraver-
so l'elaborazione di rappresentazioni e concetti insufficienti che
si erano formati nella vita e nella scienza, a formare concetti
ausiliari che oltrepassavano qualsiasi esperienza.
Al rapporto della metafisica con la scienza si aggiunse quel-
lo con la cultura mondana. In quanto la filosofia si trasmette
allo spirito di ogni connessione teleologica presente nella cultu-
ra, essa ne riceve nuove forze e al tempo stesso partecipa a
questa l’energia della sua idea fondamentale. La filosofia conso-
lida i procedimenti e il valore conoscitivo delle scienze; ela-
bora le esperienze non metodiche della vita e la letteratura che
le riguarda, traducendole in un apprezzamento generale della
vita; eleva a una connessione unitaria i concetti fondamentali
del diritto, scaturiti dalla prassi del negozio giuridico; pone i
princìpi relativi alle funzioni dello stato, alle forme di costitu-
zione e alla loro successione, sorti dalla tecnica della vita politi-
WILHELM DILTHEY 237
ca, in rapporto con i compiti supremi della società umana;
intraprende a dimostrare i dogmi oppure, quando il loro nu-
cleo oscuro risulta inaccessibile al pensiero concettuale, esercita
su di esso la sua opera universale di distruzione; razionalizza
le forme e le regole della pratica artistica sulla base di uno
scopo proprio all’arte: ovunque essa vuol imporre la direzione
della società da parte del pensiero.
Infine, un’ultima cosa. Oguno di questi sistemi metafisici è
condizionato dal posto che occupa nella storia della filosofia;
esso dipende da un certo stato del problema ed è condizionato dai
concetti che ne scaturiscono.
Così nasce la struttura di questi sistemi metafisici — la
connessione logica in essi presente e nel medesimo tempo la
loro irregolarità condizionata in varie maniere, l'elemento rap-
presentativo che esprime in determinati sistemi un determinato
stato del pensiero scientifico, e nel medesimo tempo l'elemento
della singolarità. Pertanto ogni grande sistema metafisico diven-
ta un complesso che irradia in molteplici direzioni, che illumi-
na ogni parte della vita a cui appartiene.
Un unico sistema metafisico universalmente valido — tale è
la tendenza di tutto questo grande movimento. Il differenziar-
si della metafisica che scaturisce dalla profondità della vita
appare a questi pensatori come un’aggiunta accidentale e sog-
gettiva, che dev'essere eliminata. Il lavoro sterminato rivolto
alla creazione di una connessione concettuale dimostrabile in
maniera concorde — nella quale sarebbe quindi possibile risol-
vere metodicamente il mistero della vita — acquista un signifi-
cato autonomo; nello sviluppo verso questo fine ogni sistema
trova il suo posto in base allo stato del lavoro concettuale. Il
corso di questo lavoro si compie nei paesi civili dell'Europa,
dapprima negli stati mediterranei e poi, a partire dal Rinasci-
mento, negli stati romano-germanici — in uno strato superiore
che soltanto di tempo in tempo viene influenzato dalla religiosi-
tà prevalente al di sotto di esso, e che cerca sempre più di
sottrarsi a tale influenza.
2. In questa connessione compaiono distinzioni tra i sistemi
che sono fondate sul carattere razionale del lavoro metafisico.
Alcune indicano certi stadi del suo sviluppo, come quella tra
238 WILHELM DILTHEY
dogmatismo e criticismo. Altre percorrono l’intero processo:
esse scaturiscono dallo sforzo che la metafisica compie di rap-
presentare in una connessione unitaria quanto è contenuto nel-
l'apprendimento della realtà, nell’apprezzamento della vita e
nella posizione di scopi; e il loro oggetto è costituito dalle
possibilità di risolvere questi problemi fondamentali. Se ponia-
mo mente alle fondazioni della metafisica, ci si presentano le
antitesi tra empirismo e razionalismo, tra realismo e ideali
smo. L'elaborazione della realtà data viene compiuta sulla base
degli opposti concetti dell’uno e dei molti, del divenire e dell’es-
sere, della causalità e della teleologia, e a tutto ciò corrispondono
differenze tra i sistemi. I differenti punti di vista a partire dai
quali viene concepito il rapporto tra il fondamento del mondo
e il mondo, tra l’anima e il corpo, si esprimono nelle prospetti-
ve del deismo e del panteismo, del materialismo e dello spiritua-
lismo. E in base ai problemi della filosofia pratica si producono
altre differenze, tra cui si deve sottolineare quella tra l’eudemo-
nismo — e la sua prosecuzione nell’utilitarismo — e la dottrina
di una regola incondizionata del mondo morale. Tutte queste
differenze trovano il loro posto nei campi particolari della meta-
fisica e designano le varie possibilità di sottoporre questi cam-
pi — sulla base di concetti opposti — al pensiero razionale. Tutte
quante possono essere considerate, nel contesto di tale lavoro
sistematico, come ipotesi in virtù delle quali lo spirito metafisi-
co si avvicina a un sistema universamente valido.
Sono così sorti infine i tentativi di classificare i sistemi
metafisici da questo punto di vista. Alle prevalenti contrapposi-
zioni dei concetti nella riflessione, fondata sulla natura della
stessa elaborazione concettuale della metafisica, corrisponde per-
ciò nel migliore dei casi una duplicazione dei sistemi, con l’anti-
tesi tra punto di vista realistico e idealistico, o un’altra analoga.
A chi potrebbe sfuggire il significato che il lavoro concettua-
le della filosofia ha compiuto nei campi più diversi? Esso prepa-
ra le scienze indipendenti; essa le abbraccia. Di questo punto
ho già detto prima in maniera dettagliata. Ma ciò che distin-
gue l’attività metafisica dal lavoro delle scienze positive è la
volontà di sottomettere ai metodi scientifici — che si sono
formati per i singoli campi del sapere — la connessione dell’u-
niverso e della vita stessa. Questi metodi superano i limiti dei
WILHELM DILTHEY 239
procedimenti delle scienze particolari mirando all’incondizio-
nato.
3. A questo punto è possibile chiarire l’idea fondamentale
da cui ha preso le mosse in generale il nostro tentativo di una
dottrina dell’intuizione del mondo, e che definisce anche que-
sto lavoro. La coscienza storica ci riporta al di qua della tenden-
za dei metafisici a un sistema unitario universalmente valido, al
di qua delle differenze da essa derivanti che dividono i pensato-
ri, e infine al di qua del collegamento di queste differenze in
forma di classificazioni. La coscienza storica assume a proprio
oggetto l’antitesi effettivamente esistente tra i sistemi nella loro
costituzione complessiva. Essa vede queste costituzioni comples-
sive nella loro connessione con il corso delle religioni e della
poesia. Essa mostra inoltre come tutto il lavoro concettuale
della metafisica non abbia fatto un solo passo in direzione di
un sistema unitario. In tal modo essa considera l’antitesi tra i
sistemi metafisici come fondata sulla vita stessa, sull'esperienza
della vita, sulle posizioni nei confronti del problema della vita.
Su tali posizioni poggia la molteplicità dei sistemi e al tempo
stesso la possibilità di distinguere al loro interno determinati
tipi. Ognuno di questi tipi abbraccia la conoscenza della realtà,
l'apprezzamento della vita e la posizione di scopi. Essi sono
indipendenti dalla forma dell’antitesi in cui, in base a punti di
vista contrapposti, vengono risolti i problemi fondamentali.
L'essenza di questi tipi si manifesta chiaramente se si guar-
da ai grandi geni metafisici che hanno espresso la loro costitu-
zione personale in sistemi concettuali con pretesa di validità. La
loro tipica costituzione vitale è tutt'uno con il loro carattere:
essa si esprime nel loro ordinamento della vita; riempie ogni
loro azione; si manifesta nel loro stile. E se i loro sistemi sono
ovviamente condizionati dallo stato dei concetti in cui vengono
alla luce, tuttavia i loro concetti — storicamente considerati —
sono soltanto strumenti ausiliari per la costruzione e la dimo-
strazione della loro intuizione del mondo.
Spinoza comincia il suo trattato sulla via per arrivare alla
conoscenza perfetta con l’esperienza vitale della nullità dei dolo-
ri e delle gioie, della paura e della speranza della vita quotidia-
na; prende la decisione di cercare il vero bene, che garantisce
240 WILHELM DILTHEY
una gioia eterna, e risolve quindi questo compito nella sua
Ethica attraverso il superamento della schiavitù verso le passioni
nella conoscenza di Dio come fondamento immanente della
molteplicità delle cose transeunti, e attraverso l’amore intellet-
tuale infinito di Dio che procede da questa conoscenza, e in
virtù del quale Dio, l’infinito, ama se stesso nei limitati spiriti
umani. L'intero sviluppo di Fichte è l’espressione di una tipica
costituzione dell'anima — dell’autonomia morale della persona
di fronte alla natura e a tutto il corso del mondo; e così la sua
parola ultima, con cui si chiude la grande azione di volontà di
questa vita tempestosa, è l'ideale dell'uomo eroico, in cui la
funzione suprema della natura umana — che si compie nella
storia in quanto teatro della vita morale — è legata all'ordine
sopra-terreno delle cose. E l'enorme influenza storica di Epicu-
ro — che pure dal punto di vista intellettuale rimase molto al
di sotto dei massimi pensatori — sta nella pura chiarezza con
cui egli ha espresso una tipica costituzione dell’anima. Essa
consiste nella serena subordinazione dell’uomo alla connessione
regolare della natura e nel godimento sensibilmente gioioso, e
tuttavia riflessivo, dei suoi doni.
Così intesa, ogni genuina intuizione del mondo è un’intui-
zione che nasce dallo stare entro la vita stessa. Le giovanili
annotazioni di Hegel, sorte dal contatto delle sue esperienze
metafisico-religiose con l’interpretazione dei documenti del Cri-
stianesimo primitivo, costituiscono un esempio di siffatte intui-
zioni. Questo stare dentro la vita si compie nelle prese di
posizione nei suoi confronti, nelle relazioni vitali. È questo,
del resto, il significato profondo del detto ardito, secondo cui il
poeta sarebbe il vero uomo. A queste prese di posizione si
rivelano dunque certi aspetti del mondo. Non ci azzardiamo
qui a continuare. Noi non conosciamo la legge di formazione
in base a cui dalla vita scaturisce il differenziarsi dei sistemi
metafisici. Se vogliamo accostarci alla comprensione dei tipi di
intuizione del mondo dobbiamo rivolgerci alla storia. E ciò che
di essenziale la storia ha qui da insegnarci è la possibilità di
cogliere la connessione tra vita e metafisica, il collocarsi nella
vita come centro di questi sistemi, la coscienza delle grandi
connessioni dei sistemi che percorrono la storia e in cui esiste
un atteggiamento tipico — per quanto si voglia poi limitarli o
WILHELM DILTHEY 24I
frammentarli. Si tratta cioè di vedere in profondità sulla base
della vita, di seguire le grandi intenzioni della metafisica.
È questo il senso nel quale proponiamo una distinzione di
tre tipi principali. Per tale distinzione non c’è altro strumento
che la comparazione storica. Il suo punto di partenza è che
ogni mente metafisica si pone di fronte al mistero della vita da
un determinato punto di vista, quasi dovesse dipanarne l’intri-
co: questo punto è condizionato dalla posizione rispetto alla
vita, e a partire da esso si forma la struttura specifica del suo
sistema. Possiamo quindi ordinare i sistemi in gruppi secondo
il loro rapporto di dipendenza, di affinità, di attrazione e di
repulsione reciproca. Ma qui si presenta una difficoltà propria
di ogni comparazione storica. La comparazione, infatti, deve
presupporre un criterio di selezione delle caratteristiche presen-
ti in ciò che si compara, e questo criterio determina poi l’ulte-
riore procedimento. Pertanto ciò che qui propongo ha un carat-
tere del tutto provvisorio. Il nucleo di questo può essere soltan-
to l’intuizione che è scaturita da una lunga consuetudine con i
sistemi metafisici. La loro stessa comprensione in una formula
storica può avere un carattere solamente soggettivo. Rimane
aperta la possibilità di disporre logicamente la cosa in modo
diverso, unificando per esempio le due forme di idealismo op-
pure legando l’idealismo al naturalismo, oppure procedendo in
altre maniere. Questa distinzione di tipi deve servire soltanto a
vedere più profondamente nella storia, e ciò a partire dal-
la vita.
III. IL NATURALISMO
I.
L’uomo si trova determinato dalla natura. Essa comprende
il suo corpo non meno del mondo esterno. E proprio la situa-
zione oggettiva del corpo, i potenti impulsi animali che lo
scuotono, determinano il suo sentimento della vita. Quella visio-
ne e quella considerazione della vita che ne esauriscono il
corso nel soddisfacimento degli impulsi animali e nella subordi-
nazione al mondo esterno, da cui traggono il loro nutrimento,
sono vecchie come l’umanità stessa. Nella fame, nell’impulso
16. STORICISMO TEDESCO.
242 WILHELM DILTHEY
sessuale, nella vecchiaia e nella morte l’uomo si vede sottopo-
sto alle potenze demoniache della vita della natura. Egli stesso
è natura. Eraclito e l’apostolo Paolo la descrivono entrambi,
con analoghe parole piene di disprezzo, come la concezione
della vita propria della massa legata ai sensi. Essa è permanen-
te; non c’è periodo in cui non abbia dominato una parte degli
uomini. Anche al tempo del più rigido dominio della casta
sacerdotale orientale esisteva questa filosofia della vita dell’uo-
mo sensibile; e anche quando il Cattolicesimo reprimeva ogni
espressione teorica di questo punto di vista si parlava molto di
« Epicurei »; ciò che non era consentito di esprimere in princì-
pi filosofici risuonava tuttavia nelle canzoni dei Provenzali, in
alcune poesie di corte tedesche, nelle epopee francesi e tedesche
di Tristano. E proprio ciò che Platone dipingeva come la vita
di piacere e la dottrina edonistica dei proprietari e dei commer-
cianti, si ripresenta ai nostri occhi come la filosofia della vita
della gente di mondo del secolo xvii. Al soddisfacimento
dell’animalità si aggiunge un elemento nel quale l’uomo è mmag-
giormente dipendente dal suo ambiente: la gioia del proprio
rango e del proprio onore. Alla base di questa concezione del
mondo sta sempre lo stesso atteggiamento: la subordinazione
della volontà alla vita animale dell’impulso che domina il cor-
po e alle sue relazioni con il mondo esterno. Il pensiero e
l’attività teleologica da esso diretta sono qui al servizio di
quest’animalità, si realizzano nel suo soddisfacimento.
Questa costituzione della vita trova la sua espressione anzi-
tutto in una parte considerevole della letteratura di tutti i
popoli — a volte come forza intatta dell’animalità, più spesso
in lotta con l'intuizione religiosa del mondo. Il suo grido di
battaglia è l'emancipazione della carne. In quest’antitesi contro
il necessario ma tremendo disciplinamento dell'umanità da par-
te della religione consiste il diritto storico, relativo, della reazio-
ne di un'affermazione sempre risorgente e operante nella vita
naturale. Quando questa costituzione della vita diventa filoso-
fia, allora sorge il naturalismo. Questo afferma teoricamente
ciò che in essa è vita: il processo della natura è la realtà unica
e intera; fuori di esso non esiste nulla; la vita spirituale è
distinta soltanto formalmente, in quanto coscienza, dalla natu-
ra fisica, secondo le qualità contenute in questa, e tale determi-
WILHELM DILTHEY 243
natezza della coscienza, vuota di contenuto, deriva dalla realtà
fisica secondo la causalità naturale.
La struttura del naturalismo — da Democrito a Hobbes e
da questo al Sistème de la natureS — è uniforme: il sensismo
come teoria della conoscenza, il materialismo come metafisica e
un duplice atteggiamento pratico — da un lato la volontà di
godimento, dall’altro la conciliazione con il corso prepotente
ed estraneo del mondo, attuata sottomettendosi ad esso nell’os-
servazione.
La legittimità filosofica del naturalismo poggia su due pro-
prietà fondamentali del mondo fisico. Come sono preponderan-
ti all’interno della realtà data nella nostra esperienza l’estensio-
ne e la forza delle masse fisiche! Esse circondano come qualco-
sa di smisurato e continuamente più esteso le rare manifestazio-
ni spirituali; così considerate, queste appaiono come interpola-
zioni nel grande testo dell’ordine fisico. Perciò l’uomo natura-
le, nella considerazione teorica di tali rapporti, deve trovarsi
totalmente soggetto a quest'ordine. Al tempo stesso la natura è
la sede originaria di ogni conoscenza delle uniformità. Già le
esperienze della vita quotidiana insegnano a constatare queste
uniformità e a contare su di esse; le scienze positive del mondo
fisico si accostano, attraverso lo studio di queste uniformità,
alla conoscenza della loro connessione regolare. Così esse realiz-
zano un ideale di conoscenza irraggiungibile per le scienze
dello spirito, fondate sull’Er/edez e sull’intendere.
A questo punto, però, le difficoltà inerenti a questo punto
di vista spingono il naturalismo, in una dialettica incessante,
verso formulazioni sempre nuove della sua posizione nei con-
fronti del mondo e della vita. La materia da cui il naturalismo
procede è un fenomeno della coscienza; in tal modo esso cade
nel circolo vizioso di voler derivare da ciò che è dato sola-
mente come fenomeno per la coscienza la coscienza stessa. È
impossibile derivare dal movimento, che ci è dato come fenome-
no della coscienza, la sensibilità e il pensiero. L’incompara-
bilità di questi due fatti conduce — dopo che il problema si è
rivelato insolubile nei più disparati tentativi compiuti dal mate-
5. È il titolo dell'opera principale di Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach
(1723-1789), pubblicata nel 1770, in cui sono sistematicamente esposti i princìpi del ma-
terialismo illuministico.
244 WILHELM DILTHEY
rialismo antico fino al Sistème de la nature — alla tesi positivi-
stica della corrispondenza tra fisico e spirituale. Anche questa è
esposta a forti obiezioni. Infine, la morale del naturalismo origi-
nario si mostra incapace di spiegare lo sviluppo della società.
2.
Cominciamo con l'aspetto gnoseologico del naturalismo. Il
naturalismo ha il suo fondamento gnoseologico nel sensismo.
Col termine « sensismo » intendo il riconducimento del proces-
so della coscienza o delle funzioni all'esperienza sensibile ester-
na, delle determinazioni di valore e di scopo al criterio del
piacere e del dispiacere sensibile. Il sensismo costituisce l’espres-
sione filosofica diretta della costituzione naturalistica dell’ani-
ma. È qui dato, fin dal suo porsi, il problema psico-genetico
del naturalismo, quello di derivare dalle singole impressioni
l’unità della vita psichica come una unitas composttionis. Il
sensista non rifiuta né il fatto dell’esperienza interna né l’elabo-
razione concettuale del dato, ma trova nell’ordine fisico la base
di ogni conoscenza della connessione regolare del reale, e le
proprietà del pensiero diventano per lui, in maniera immediata
o per il tramite di una teoria, una parte dell’esperienza sensibile.
La prima teoria sensistica è stata formulata da Protagora*.
Nella metafisica precedente la forza universale della ragione
operante nel pensiero umano non era stata ancora separata
dalle proprietà fisiche dell’uomo, dal processo di respirazione e
dalle immagini dei sensi concepite come corporee. Protagora
insegnò che la percezione nasce dalla cooperazione di due movi-
menti, l'uno esterno e l’altro organico, che ha luogo nell’uo-
mo; dato che per lui la percezione e il pensiero erano insepara-
bili, egli derivò dalle percezioni sorte in tal modo l’intera vita
dell'anima. Egli spiegò anche il piacere, il dispiacere e l’impul-
so sulla base della cooperazione dei due movimenti. Era dun-
que senza dubbio un sensista. Egli scoprì inoltre fin da allora,
muovendo da questo punto di vista, le conseguenze fenomenisti-
che e relativistiche in esso implicite. La dottrina relativistica di
6. Protagora di Abdera, il maggiore rappresentante della Sofistica, vissuto nella se-
conda metà del secolo v a. C., elaborò una teoria sensistica della conoscenza e formu-
lò il principio secondo cui «l’uomo è misura di tutte le cose », tradizionalmente in-
terpretato — come anche qui da Dilthey — in senso relativistico.
WILHELM DILTHEY 245
Protagora considera ogni conoscenza, ogni posizione di valore
e ogni determinazione di scopo determinato dall'elemento pura-
mente empirico dell’organizzazione umana; essa esclude quindi
che sia possibile comparare queste funzioni con i processi ester-
ni a cui esse si riferiscono. In tale maniera la conoscenza, la
determinazione di valore e la posizione di scopo posseggono
una validità soltanto relativa, cioè nella correlazione con
questa organizzazione. È qui eliminato il legame tra il sogget-
to e il suo oggetto, presente nell’assunzione di un’identica ragio-
ne universale che agisce nell’universo, e che in quanto simile
riconosce il simile. L'organizzazione sensibile mostra nel regno
dell’animalità — che giunge fino all'uomo — le forme più
diverse, e da ognuna di esse deve sorgere un mondo totalmen-
te differente. La fattualità meramente empirica dell’organizza-
zione sensibile, il fatto che ogni pensiero è vincolato ad essa e
l'inserimento di tale organizzazione nella connessione fisica co-
stituiscono il fondamento di tutte le dottrine relativistiche del-
l'antichità.
Com'è possibile, sulla base di questi presupposti, un’esperien-
za e una scienza empirica? Questo era il problema successivo.
Matematica, astronomia, geografia, biologia si sviluppavano
continuamente, e la scepsi sensistica doveva rendere comprensi-
bile la loro possibilità. Già il probabilismo di Carneade” conte-
neva in sé la tendenza a istituire un equilibrio positivo tra i
presupposti sensistici e le scienze empiriche. Nella sua scepsi la
validità della coscienza viene riposta, anziché nei rapporti (così
conformi allo spirito greco) di riproduzione di una realtà ester-
na oggettiva da parte delle rappresentazioni, nell’accordo inter-
no delle percezioni tra di loro e con i concetti, in una connessio-
ne priva di contraddizioni. Nell’ideale della massima probabili-
tà raggiungibile, nella distinzione dei suoi livelli, si otteneva
un punto di vista in base al quale si poteva contemporaneamen-
te combattere la metafisica e assicurare al sapere empirico una
misura, anche se modesta, di validità.
Ma soltanto quando la grande epoca della fondazione della
scienza matematica della natura riconobbe, nel secolo xvi,
l’esistenza di un ordine della natura secondo leggi, il sensismo
7. Carneade (219-129 a. C.), filosofo della Media Accademia.
246 WILHELM DILTHEY
entrò nel suo ultimo e decisivo periodo. La scienza naturale si
era costituita come sapere empirico inattaccabile; il sensismo
era costretto a riconoscere questo fatto, a collegarsi ad esso e a
superare le conseguenze scettiche dell'epoca antecedente. Fu
questa la grande impresa di David Hume. Egli stesso ha consi-
derato la sua filosofia come una prosecuzione della scepsi acca-
demica. E infatti in lui ricorrono i caratteri principali di
questa scepsi: la fattualità meramente empirica della nostra
organizzazione sensibile e del pensiero ad essa connesso; di
qui l’eliminazione di qualsiasi rapporto di riproduzione tra lo
spirito che apprende e il mondo oggettivo, e quindi lo sposta-
mento della conoscenza nel mero accordo interno delle perce-
zioni tra di loro e con i concetti. Ma questi princìpi acqui-
stano nella sua analisi il loro sviluppo più fecondo: dalle rego-
larità dell’accadere nascono le abitudini di determinate associa-
zioni; nella capacità di associazione ad esse inerenti risiede il
fondamento esclusivo dei concetti di sostanza e di causalità. Ne
derivano conseguenze che avrebbero costituito i fondamenti del
positivismo. La connessione del mondo diventa, in virtù dei
legami di sostanza e di causalità, un effetto secondario dei fatti
animali dell’abitudine e dell’associazione; la scienza empirica
viene limitata alle uniformità di coesistenza e di successione
dei fenomeni, escludendo ogni sapere concernente le relazioni
interne, l’essenza, la sostanza o la causalità; queste uniformità co-
stituiscono l'oggetto del nostro sapere riguardo ai fatti spirituali
e fisici: tutte le‘parti del mondo sono legate in un’unica legalità.
Il sensismo è l’intimo spirito del sistema di David Hume;
ma i suoi grandi risultati si sono svincolati dai presupposti
metafisici nella teoria positivistica della conoscenza di D’Alem-
bert. Il positivismo diventò un metodo, e nei confronti di
questo punto di vista fenomenistico il naturalismo stesso fece
valere — con Feuerbach, Moleschott*, Biichner? — la « solare
evidenza del sensibile », e con Comte la reciproca connessione
8. Jakob Moleschott (1822-1893), biologo e fisiologo, autore della Physiologie des
Stoffwechsels in Pflanzen und Tieren (1857) e di Der Kreislaut des Lebens (1852), è
uno dei più noti esponenti del positivismo materialistico tedesco.
9. Ludwig Biichner (1824-1899), medico e filosofo, autore di Kraft nad Stoff (1855),
di Natur und Geist (1857), di Die Stellung des Menschen in der Natur (1869), è un al-
tro importante esponente del positivismo materialistico tedesco.
WILHELM DILTHEY 247
dei fatti fisici e la dipendenza da essi di quelli psichici, così
come insegnava la nuova fisiologia del cervello.
La metafisica del naturalismo trovò il suo fondamento mec-
canicistico nell’età successiva a Protagora. La spiegazione mec-
canicistica è, in sé e per sé, un procedimento proprio delle
scienze positive, e quindi è compatibile con diverse visioni del
mondo: la metafisica meccanicistica sorge soltanto quando nel-
la realtà non si vede altro che il meccanismo, quando certi
concetti che, per la conoscenza della natura, sono strumenti del
suo procedimento vengono considerati come entità. Le cause
dei movimenti vengono riposte nei singoli elementi materiali
dell'universo, e a questi elementi vengono ricondotti, secondo
un metodo qualsiasi, i fatti spirituali. Dalla natura viene espul-
sa quell’interiorità che la religione, il mito e la poesia vi aveva-
no collocata: ora la natura è diventata senza anima, e da
nessuna parte una connessione unitaria pone limite alla sua
interpretazione tecnica. Soltanto questo punto di vista permette
di dare al naturalismo una forma rigorosamente scientifica. Il
suo problema diventa ora quello di derivare il mondo spirituale
dalla disposizione meccanica delle parti corporee ordinate se-
condo leggi.
Una letteratura sterminata si è proposta di risolvere questo
compito. I suoi culmini sono il sistema epicureo e la splendida
esposizione datane da Lucrezio; il tenebroso e possente sistema
di Hobbes, che concepì in modo coerente l’intero mondo spiri-
tuale dal punto di vista dell’impulso da cui scaturisce la lotta
per il potere degli individui, dei ceti e degli stati; nella Fran-
cia del secolo xvrri il sistema della natura, che espresse nelle
sue fredde formule il mistero degli uomini più miscredenti e
dei libertini di tutti i tempi; infine la fanatica dottrina materia-
listica di Feuerbach, Biichner, Moleschott e compagni.
La potenza di queste dottrine poggiava sul fatto che esse
erano state costruite sul terreno della realtà esterna spaziale
che cade sotto i sensi, accessibile al pensiero esatto delle
scienze della natura. In nessun luogo esse contenevano un oscu-
ro residuo di forze impenetrabili. Non c’era angolo in cui
248 WILHELM DILTHEY
potesse celarsi un elemento spirituale autonomo o un elemento
trascendente. Tutto era razionale e naturale. Infatti l’anima di
questa metafisica materialistica è la lotta contro la potenza
della religiosità e della metafisica spiritualistica con le loro oscu-
rità. E la sua legittimità storica risiedeva nello sforzo di supera-
re l’alleanza della chiesa con il dispostismo all’interno della
società.
In un tale ordinamento delle cose non c'è spazio alcuno per
la considerazione del mondo dal punto di vista del valore e
dello scopo. Valori e scopi sono qui ciechi prodotti del corso
della natura, i quali hanno un interesse particolare soltanto per
l’uomo, poiché l’uomo è per se stesso, in virtù della sua vita
interiore, centro del mondo e tutto misura in conformità ai
suoi sentimenti, alle sue aspirazioni, ai suoi fini.
di
L’ideale di vita del naturalismo doveva essere duplice, in
base al suo doppio rapporto con il corso della natura. A causa
della sua passione l’uomo è schiavo del corso della natura —
ma uno schiavo accorto e calcolatore che si pone al di sopra di
esso in virtù della potenza del pensiero.
Già l’antichità sviluppò entrambi gli aspetti dell’ideale natu-
ralistico. Il sensismo di Protagora aveva già in sé le condizioni
dell’edonismo di Aristippo! Per quest’ultimo, infatti, tanto
le percezioni sensibili quanto i sentimenti e i desideri sorgono
nei contatti dell'organizzazione sensibile con il mondo esterno;
essi non possono quindi esprimere i valori oggettivi contenuti
nella realtà ma soltanto il rapporto in cui il soggetto, con il
suo sentimento, si pone nei loro confronti. Da ciò Aristippo
concludeva che nel piacere — inteso come il movimento
migliore che abbia luogo nella nostra organizzazione sensibile
— risiede il criterio e il fine del giusto agire. Nella connes-
sione fisica della nostra animalità con la natura esterna, quale
si palesa nei movimenti sensibili, dev'essere ricercato il criterio
e il fine dell’arte di vivere. La riflessione socratica diventa qui
gioco sovrano del pensiero formale che calcola i valori del
10. Aristippo di Cirene (435-366 a. C.), filosofo socratico, fu il maggiore rappre-
sentante dell’edonismo nel pensiero greco.
WILHELM DILTHEY 249
piacere e che si eleva al di sopra delle convenzioni, cioè sopra
gli ordinamenti oggettivi della vita. Ma nell’apprendimento ot-
tico e nel godimento estetico — che tanta importanza rivestiva
per lo spirito greco — c'era un altro ideale, e anche questo si
collocava nell’ambito di quella metafisica naturalistica che ha i
suoi rappresentanti in Democrito, in Epicuro, in Lucrezio. Ad
esso condussero le esperienze dell'impulso vitale. Si tratta della
tranquillità d'animo che nasce in colui che accoglie in sé la
connessione sempre salda e duratura dell’universo. Tale costitu-
zione dell'anima trovò la sua espressione nel poema didattico
di Lucrezio. Egli riviveva in sé la potenza liberatrice della
grande visione cosmica, astronomica e geografica del mondo
creata dalla scienza greca.
L'universo smisurato e le sue leggi eterne, la nascita dei
sistemi del mondo, la storia della terra che si copre di piante
e di animali e che infine produce l’uomo — questa concezione
gli consentì di osservare molto al di sotto di sé gli intrighi
politici e le povere marionette divine adorate dal suo popolo.
Anzi la stessa vita dell'individuo, con la sua sete di godimento
e di potere, la lotta delle esistenze particolari sul teatro dell’Im-
pero romano si rimpiccioliva da questo punto di vista cosmico:
« pio è chi guarda all’universo con spirito sereno ».
Già nell’antichità l’esperienza che, nel corso del mondo,
compie l’uomo che desidera la felicità dei sensi aveva dissolto
la rigidità della dottrina del piacere sensibile come fine della
vita. Accanto a quello sensibile si era affermato il durevole
piacere spirituale. Già allora la scuola epicurea si era proposta
di risolvere — mediante l’assunzione di uno sviluppo progressi
vo — il compito decisivo di derivare la cultura, in tutta la sua
ricchezza e grandezza, dai sentimenti del piacere e del dispiace-
re sensibile. Ma solamente l’epoca moderna approntò strumenti
scientificamente validi per la spiegazione naturalistica dello svi-
luppo spirituale: la comprensione della vita spirituale in base
all'ambiente, la derivazione della vita economica dagli interessi
dell'individuo, la derivazione della cultura intellettuale dal pro-
gresso economico e infine la teoria dell'evoluzione, che consentì
di porre a fondamento delle caratteristiche intellettuali e morali
degli uomini l’accumularsi di trasformazioni minime avvenute
nel corso di smisurati spazi di tempo. L'ideale naturalistico
250 WILHELM DILTHEY
quale fu enunciato, al termine di un lungo sviluppo culturale,
da Ludwig Feuerbach — l’idea dell’uomo libero che in Dio,
nell’immortalità e nell’ordine invisibile delle cose riconosce i
fantasmi delle sue aspirazioni — ha esercitato un'influenza po-
tente sulle idee politiche, sulla letteratura e sulla poesia.
IV. L’IDEALISMO DELLA LIBERTÀ
Prendiamo nuovamente le mosse dal fatto dell’affinità tra
un gran numero di sistemi che, essendo fondata su una costitu-
zione vitale e su una posizione nei confronti del mondo, rac-
chiude in sé la soluzione dei problemi inerenti al mistero della
vita secondo una determinata tendenza, e in tal modo riunisce
questi sistemi in un secondo tipo di intuizione del mondo.
I.
L’idealismo della libertà è una creazione dello spirito atenie-
se. L'energia formatrice, plasmatrice, sovrana in esso presente
diventa con Anassagora !, Socrate, Platone e Aristotele princi-
pio di comprensione del mondo. Cicerone ha espresso con vigo-
re il suo accordo, il suo sentimento di affinità con Socrate e
tutta la scuola socratica della storia greca successiva. I grandi
apologisti e padri della Chiesa cristiana si trovano in un consa-
pevole accordo sia con lo spirito socratico sia con la filosofia
romana. La scuola scozzese poggia completamente sull’orienta-
mento di pensiero di Cicerone ed è al tempo stesso consapevo-
le della propria comunanza con gli antichi scrittori cristiani. E
proprio la coscienza di tale affinità collega a questi scrittori
precedenti Kant e Jacobi !, Maine de Biran" e i filosofi france-
si a lui imparentati fino a Bergson.
rt. Anassagora di Clazomene (500 circa-428 a. C.), filosofo ionico, elaborò la teo-
ria del nous, ossia dell'intelletto divino che regola la mescolanza degli clementi i qua-
li costituiscono la realtà fisica, inserendo in essa un principio ordinatore: a questa
dottrina si riferisce esplicitamente Socrate, nel Fedone platonico.
12. Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), autore di una seric di lettere polemiche
contro Moses Mendelssohn Uber die Lehre des Spinoza (1785), traduttore di Bruno,
claborò una « filosofia dell'identità » criticando sia Kant sia l’idcalismo post-kantiano.
È una figura centrale nel dibattito sullo spinozismo che caratterizza il pensiero tede-
sco verso la fine del secolo xvi.
13. Frangois-Pierre Maine de Biran (1766-1824), autore dell’Essui sur les fonde-
WILHELM DILTHEY 251
La coscienza di tale affinità è accompagnata da un'aspra
polemica dei rappresentanti di questo indirizzo contro il siste-
ma naturalistico. La coscienza della completa diversità dal natu-
ralismo nella concezione della vita, nell’intuizione del mondo e
nell’ideale ispira ognuno di questi pensatori, e si afferma con
la massima intensità nei più profondi. Ma anche l’opposizione
al panteismo fu resa sempre più consapevole da questo ideali-
smo della personalità. Se il panteismo greco più antico si era
distaccato dalla personificazione religiosa della divinità e dal
rapporto personale con essa, Socrate si oppose a questo pantei-
smo, e la filosofia romana dominante insistette sull’affinità con
Socrate. Anche la più antica filosofia cristiana si sente unita ai
rappresentanti dell’idealismo della libertà e della personalità in
antitesi sia al naturalismo sia al panteismo. La stessa posizione
emerge nella polemica della più tarda filosofia cristiana contro
l’idealismo oggettivo di Averroè. Essa si manifesta poi durante
il Rinascimento nella lotta di Giordano Bruno contro ogni
forma di filosofia cristiana e di quest’ultima contro il nuovo
panteismo bruniano. A partire da questo periodo essa prosegue
poi nel conflitto tra Spinoza e tutte le dottrine della persona-
lità o della libertà, o tra Leibniz e numerosi esponenti della
dottrina della libertà, infine nelle lotte tra Kant, Fichte, Jaco-
bi, Fries e Herbart da un lato, Schelling, Hegel e Schleierma-
cher dall'altro. Tutte le grandi polemiche filosofiche degli ulti-
mi secoli acquistavano un carattere appassionato in virtù del
legame in cui le varie soluzioni autentiche di un problema
stanno con le diverse intuizioni del mondo. Il conflitto di
Bayle! con Spinoza ha alla radice un’esigenza di libertà nei
confronti del determinismo. Il conflitto di Voltaire con Leibniz
ments de la psychologie (1812), del saggio Des rapports des sciences naturelles avec la
psycologie (1813) e di numerosi altri scritti — tra cui il Journal intime, pubblicato po-
stumo — è il capostipite dello spiritualismo francese dell'Ottocento: la sua posizione
esercitò una larga influenza sul pensicro spiritualistico, fin verso gli inizi del nuovo
secolo.
14. Jakob Friedrich Fries (1773-1843), autore di una Neue Kntik der Vernunfe
(1807) e di numerose altre opere, in cui è formulata un'interpretazione in chiave psi-
cologica della filosofia kantiana.
15. Pierre Bayle (1647-1706), autore delle Pensées diverses sur la comète (1682) e
soprattutto del celebre Dictionnaire historique et critique (1695-97, 2° ed. 1702), fu una
delle grandi fonti di ispirazione della cultura illuministica francese, che da lui derivò
il suo atteggiamento critico nei confronti della tradizione e il ricorso all'analisi erudita
252 WILHELM DILTHEY
si richiama a una presa di posizione pratica della coscienza che
muove dall'uomo e che tende quindi in un primo luogo a
garantire la libertà contro la metafisica contemplativa fondata
sull’intuizione dell'universo. Rousseau contrappone con enorme
successo alle forme più diverse di naturalismo o di monismo
una filosofia della personalità e della libertà. La discussione tra
Jacobi e Schelling tocca i principali problemi che separano idea-
lismo oggetttivo e filosofia della personalità; e nessuna disputa
è stata mai condotta con tanta passionalità. Anche la polemica
di Herbart contro la filosofia monistica deriva la propria vee-
menza dalla convinzione che il monismo poneva in questione
le grandi verità del sistema teistico, mentre egli si ergeva a
difensore della visione cristiana del mondo, che nelle sue radici
più profonde è teistica. L’asprezza con cui Fries e Apelt'‘
conducono la loro battaglia contro la speculazione monistica è
condizionata in egual misura dall’odio verso la deformazione
delle scienze sperimentali della natura compiuta da Schelling
e da Hegel e dall’odio verso la dissoluzione del teismo cri-
stiano sotto il manto di una difesa del Cristianesimo.
De
A questa coscienza di comunanza reciproca e di antitesi,
che rispettivamente unisce tra loro i rappresentanti dell’idealismo
della libertà e li separa sia dall’idealismo oggettivo sia dal
naturalismo, corrisponde l’effettiva affinità tra i diversi sistemi
di questo tipo. Il legame che in questi sistemi tiene insieme
l'intuizione del mondo, il metodo e la metafisica consiste nel
fatto che l’atteggiamento, che con sovrana autosufficienza si
contrappone a ogni datità, contiene in sé l'indipendenza dello
spirituale da tale datità: lo spirito è consapevole della sua essen-
za come distinta da ogni causalità fisica. Con profonda penetra-
zione etica Fichte ha colto la connessione tra il carattere di un
certo gruppo di pensatori e l’idealismo della libertà, in antitesi
a ogni sistema della natura. Questa libera potenza dell'io si
come strumento critico. Dilthey si riferisce qui alla polemica con Spinoza, condotta
nella voce « Spinoza » del Dictionnaire.
16. Ernst Friedrich Apelt (1812-1859), allievo c continuatore di Frics, del cui pen-
siero diede un'esposizione nella Mezaphysik (1857).
WILHELM DILTHEY 253
trova quindi legata nel rapporto con altre persone non già
fisicamente, bensì nella forma e nell’obbligazione morale; nasce
così il concetto di un regno di persone in cui gli individui
sono vincolati da norme e tuttavia interiormente liberi. A que-
ste premesse è poi sempre connessa la relazione degli individui
liberi, responsabili e interiormente legati in virtù della legge,
nonché del regno delle persone, con una causa originaria perso-
nale e libera. In base alla costituzione vitale ciò è fondato sul
fatto che la spontanea e libera vitalità si scopre come una forza
che determina altre persone secondo la loro libertà, ma nel
medesimo tempo avverte che in essa stessa altre persone sono
divenute una forza da cui essa viene determinata in modo
corrispondente alla propria spontaneità. Così questa vivente for-
ma di determinazione attiva e passiva diventa lo schema della
connessione universale in generale: essa viene per così dire
proiettata nella stessa connessione universale, la si ritrova in
ogni rapporto in cui sta il soggetto del pensiero sistematico,
fino al più comprensivo. In tal modo la divinità viene sottratta
alla connessione della causalità fisica e concepita come qualcosa
che la governa — come una proiezione della ragione che pone
scopi, fornita di potenza autonoma nei confronti della datità.
Anassagora e Aristotele hanno determinato filosoficamente ed
espresso con precisione questo concetto di divinità mediante il
rapporto della divinità con la materia. Quest'idea di un dio
personale acquista la sua formulazione metafisica più radicale
nel concetto cristiano della creazione del mondo dal nulla, dal
non-esistente; essa esprime infatti la trascendenza della divini-
tà rispetto alla legge causale, che regna nel mondo naturale
secondo la regola ex ni/tilo nihil. La trascendenza di Dio rispet-
to alla coscienza del mondo, la quale connette le sue verità in
base al principio di ragion sufficiente, viene poi giustificata
criticamente da Kant: Dio è presente soltanto alla volontà, che
lo richiede in virtù della sua libertà.
Sorge così la struttura comune a tutti i sistemi che rientrano
in questo tipo di intuizione del mondo. Dal punto di vista gno-
seologico questo tipo si fonderà, non appena diventa filosofica-
254 WILHELM DILTHEY
mente consapevole del suo presupposto, sui fatti della coscien-
za. Nella metafisica questa intuizione del mondo passa attraver-
so diverse forme. Essa compare dapprima nella filosofia attica
come concezione della ragione formatrice, che plasma il mondo
della materia. La grande scoperta di un pensiero concettuale e
di una volontà morale indipendenti dalla connessione naturale,
e della loro connessione con un ordine spirituale, costituisce in
Platone il punto di partenza di tale concezione, e anche in
Aristotele ne rimane il fondamento. Preparata dalla nozione
romana di volontà e dall’intuizione, anch'essa romana, di un
rapporto di governo di Dio nei confronti del mondo, si forma
nel Cristianesimo la seconda concezione, cioè la dottrina della
creazione. Essa costruisce un mondo trascendente sulla base
delle relazioni esperite nell’atteggiamento del valore. I concetti
di Dio propri della coscienza cristiana sono il rapporto del
padre con i suoi figli, il contatto con Dio, la provvidenza come
simbolo del governo del mondo, la giustizia, la misericordia.
Un lungo cammino è stato poi percorso da qui fino al supremo
raffinamento a cui tale coscienza di Dio perviene nella filosofia
trascendentale tedesca. In un’asciutta ed eroica grandezza l’idea-
lismo della libertà costruisce qui — come appare nel mondo
più compiuto in Schiller — il mondo soprasensibile che esiste
soltanto per la volontà, poiché è posto dal suo ideale di un’aspi-
razione infinita.
4.
Questa intuizione del mondo possiede un fondamento uni-
versalmente valido nei fatti della coscienza. In quanto coscien-
za metafisica dell’uomo eroico, essa è indistruttibile: si rinnove-
rà sempre in ogni grande natura attiva.
Essa non può tuttavia definire e fondare il suo principio in
maniera scientificamente valida. Anche qui si mette però in
moto una dialettica incessante che procede di possibilità in pos-
sibilità, ma che è incapace di pervenire a una soluzione del suo
problema. La volontà operante consapevolmente nella famiglia,
nel diritto e nello stato fu sviluppata dal pensiero romano in
concetti di vita, e questi vennero alla fine ricondotti a un’inna-
ta predisposizione verso la condotta della vita. In tal modo la
WILHELM DILTHEY 255
sicurezza della condotta della vita poggiava su un elemento
irraggiungibile e indimostrabile. La regolarità dell’ordinamen-
to della vita fu fondata su presupposti innatistici, che tuttavia
potevano essere provati soltanto sulla base degli ordinamenti
della vita, sulla base del reciproco accordo dei popoli. In que-
sto modo la filosofia romana della vita fondò il suo idealismo
della personalità. Su di esso la coscienza cristiana determinò
come principio di tale punto di vista la trascendenza dello
spirito, la sua indipendenza da qualsiasi ordine naturale. Ma la
trascendenza è soltanto un'espressione simbolica della volontà
nel sacrificio, nel procedere oltre il nesso naturale della motiva-
zione attraverso l’abbandono della vita, ossia della forza di
vivere in vista della realizzazione di un ordine di vita soprasen-
sibile. L'ideale del sacro vale come prova di se stesso, ma
nessuna formula consente di elevarlo a coscienza logica. Kant e
la filosofia trascendentale si proposero quindi di determinare e
di fondare in maniera universalmente valida questa volontà
ideale. Si fece valere, rispetto al corso del mondo, un elemento
indeterminato come norma suprema e supremo valore. Il tenta-
tivo falli. Ma esso si rinnovò nell’idealismo personalistico fran-
cese, da Maine de Biran a Bergson, e nella forma idealistica del
pragmatismo quale si presentò in James e nei pensatori a lui
affini, nonché nella grande corrente della filosofia trascendenta-
le tedesca. La sua potenza è indistruttibile; cambiano solamen-
te le sue forme e i modi di dimostrazione. Questa potenza
poggia su una costituzione vitale che prende le mosse dall’uo-
mo che agisce ed esige una regola salda per la posizione
di scopi.
Schiller è il poeta di questo idealismo della libertà, così
come Carlyle è il suo storico:
Umiliato a servire un vile, Alcide
viveva un tempo un'aspra dura vita
in un’eterna guerra: contro l'Idra
ebbe a lottare ed abbatté il leone,
per liberar gli amici si gettò
vivo dentro la barca del nocchiero
dei morti. Ogni gravame, ogni tormento
getta l'inganno della Dea implacata
256 WILHELM DILTHEY
sulle docili spalle dell’odiato,
finché finisce il suo cammino
finché, spogliato il suo terreno involucro,
il Dio fiammante sciogliesi dall'uomo
e beve le sottili aure dell'etere.
Lieto del nuovo, insolito aleggiare
si leva in alto, e la visione cupa
della vita terrena, cade e cade!?,
V. L’IDEALISMO OGGETTIVO
Legati da una connessione reciproca si presentano poi altri
sistemi che divergono dai due tipi finora descritti. Essi forma-
no la massa principale di ogni metafisica, si estendono per
l’intera storia della filosofia, e il loro stretto legame con i
grandi fenomeni affini della fede e dell’arte rimanda a un'intui-
zione del mondo che attraversa la religione, la concezione arti-
stica, e il pensiero metafisico.
I.
Intendiamo determinare l'ambito in cui questo tipo si pre-
senta all’interno della metafisica. La massa centrale dei sistemi
filosofici non può venir assegnata né al naturalismo né all’idea-
lismo della libertà. Senofane!, Eraclito, Parmenide e i loro
continuatori, il sistema stoico, Giordano Bruno, Spinoza, Shaf-
tesbury ', Herder, Goethe, Schelling, Hegel, Schopenhauer e
Schleiermacher — tutti questi sistemi rivelano un tipo chiara-
17. Scuuter, Gedichte, Das Ideal und das Leben, vv. 131-46 (tr. it. di G. A.
Alfero). e
18. Scnofane di Colofone, filosofo ionico vissuto tra la scconda metà del secolo
vi e l’inizio del secolo v a. C., critico della concezione antropomorfica della divinità:
alcune testimonianze, molto discusse, ne fanno il maestro di Parmenide e il fondatore
della scuola eleatica.
19. Anthony Ashley Cooper conte di Shaftesbury (1671-1713), filosofo inglese, au-
tore dell'Inquiry Concerning Virtue or Merit (1699), della Letter Concerning Enthu-
siasm (1708), della Characteristics of Men, Manners, Opinions, and Times (1711) e di
numerosi altri scritti, fu uno dei principali rappresentanti del deismo; elaborò la teoria
del senso morale come base e criterio di valutazione del comportamento umano.
WILHELM DILTHEY 257
mente comune, che diverge completamente dagli altri che ab-
biamo già esposti.
Essi sono reciprocamente legati da un rapporto di dipenden-
za e dalla più definita coscienza della loro affinità. Lo stoici-
smo era consapevole della propria dipendenza da Eraclito. Gior-
dano Bruno ha utilizzato in un ambito più vasto i concetti
fondamentali degli Stoici; Spinoza è condizionato dallo Stoici-
smo e dal complesso di idee filosofiche che aveva come centro
Giordano Bruno. In Leibniz la grande prospettiva spirituale
del Rinascimento trova la sua espressione più compiuta, in anti-
tesi al rigido monismo spinoziano. Dopo la dissoluzione delle
forme sostanziali, nel Rinascimento non viene più riconosciuta
alcuna realtà in mezzo tra la connessione divina e le cose
particolari: il mondo è l’esplicazione di Dio, che si è scompo-
sto in esso nella forma di una molteplicità illimitata; ogni cosa
particolare rispecchia in sé l’universo. Questa è anche la pro-
spettiva di Leibniz. Se la sua dipendenza dalla situazione intel-
lettuale del tempo gli consente di concepire la divinità come
individuo, la dipendenza dalla sua cultura teologica lo ha indot-
to a mettere in primo piano le relazioni con la teologia: il
panenteismo rimane la sua intuizione fondamentale, e la nuova
grande idea del suo sistema è la concezione dell'universo come
una totalità singolare in cui ogni parte è determinata dalla
connessione ideale di significato del tutto. Tale sistema è intera-
mente determinato dalla questione del senso e del significato
del mondo. Il suo parente più prossimo è Shaftesbury, influen-
zato sia dallo Stoicismo sia da Giordano Bruno. I grandi ideali-
sti oggettivi tedeschi vivono nella sfera di influenza di Leib-
niz, sono condizionati da Shaftesbury attraverso il movimento
poetico tedesco, in modo particolare per il tramite di Goethe e
di Herder; e la loro dipendenza da Spinoza, in parte diretta,
in parte mediata dal precedente movimento letterario, è prova-
ta e può esser dimostrata in un ambito ancor più ampio. Questi
sistemi costituiscono così una connessione storica non meno sal-
damente conclusa di quella del naturalismo e dell’idealismo
della libertà.
Essi hanno sempre espresso nel modo più deciso anche la
loro antitesi verso gli altri due tipi di intuizione del mondo.
Con quanta durezza Eraclito giudica il materialismo della ple-
17. STORICISMO TEDESCO.
258 WILHELM DILTHEY
bel In quale netta opposizione lo Stoicismo si pone nei confron-
ti del sensismo epicureol Esso è però al tempo stesso consapevo-
le, in quanto rinnova l’ilozoismo, del proprio distacco da Plato-
ne e Aristotele. Giordano Bruno ha condotto, con una passione
senza pari, la lotta contro ogni forma di visione cristiana del
mondo e di ideale di vita cristiano. La stessa passionalità irrom-
pe in Spinoza, tra le catene delle dimostrazioni, in quelle ap-
pendici stilisticamente libere che erano state originariamente
composte in forma autonoma, come manifestazioni della sua
disposizione di vita. Schelling e Hegel indirizzano manifesti e
pamphlets contro l’idealismo della libertà e in particolare con-
tro Kant, Fichte e Jacobi, in quanto filosofi della riflessio-
ne. Prescindendo dall’invettiva di Schopenhauer, la critica di
Schleiermacher alla dottrina etica è fondamentalmente un unico
grande scritto polemico contro l’etica sensistica e contro la limi-
tativa etica dualistica di Kant e di Fichte, in favore dell’ideali-
smo oggettivo.
Se il procedimento comparativo segue questi indizi, esso è
in grado di riconoscere l'affinità dei membri di questo gruppo,
reciprocamente così legati, e la struttura ad essi comune in
virtù della quale sono riuniti a formare un medesimo tipo di
intuizione del mondo. La connessione di princìpi che costitui-
sce la struttura di questo tipo comprende una posizione gnoseo-
logico-metodologica della coscienza, una formula metafisica che
contiene varie possibilità di formazione di sistemi metafisici, e
infine un principio di formazione della vita.
La posizione gnoseologica-metodologica della coscienza nei
confronti del mistero del mondo consisteva, nella prima delle
tre intuizioni, nel passaggio dalla conoscenza delle uniformità
presenti nel mondo fisico a generalizzazioni che permettevano
di subordinare anche i fatti spirituali a questa legalità meccani-
ca esterna. Per contro l’idealismo della libertà ha trovato nei
fatti della coscienza il punto saldo per una risoluzione univer-
salmente valida del mistero del mondo; esso richiedeva l’esisten-
za e la possibilità di constatare determinazioni universali della
coscienza, non ulteriormente risolvibili, che con forza sponta-
WILHELM DILTHEY 259
nea producono la formazione della vita e dell’intuizione del
mondo nella materia della realtà esterna. Il terzo tipo di atteg-
giamento gnoseologico-metodologico è completamente distinto
dagli altri due. Esso può venir rintracciato in egual misura in
Fraclito come nello Stoicismo, in Giordano Bruno come in
Spinoza e Shaftesbury, in Schelling, Hegel, Schopenhauer e
Schleiermacher. Esso è fondato infatti sulla costituzione vitale
di questi pensatori. Diciamo che un atteggiamento è di tipo
contemplativo, estetico o artistico quando in esso il soggetto si
riposa, per così dire, dal lavoro conoscitivo delle scienze natura-
li e dall’agire in riferimento ai nostri bisogni, agli scopi che ne
derivano e alla loro realizzazione nel mondo esterno. In questo
atteggiamento contemplativo la vita del sentire, in cui la ric-
chezza della vita, il valore e la felicità dell’esistenza vengono
avvertiti anzitutto in modo personale, si allarga in una specie
di simpatia universale. In virtù di tale ampliamento del nostro
io nella simpatia universale noi riempiamo e animiamo la real-
tà intera con i valori che sentiamo, con l’operare in cui realiz-
ziamo la nostra vita, con le idee supreme del bello, del bene e
del vero. Le disposizioni che la realtà suscita in noi, le ritrovia-
mo nuovamente in essa. E nella misura in cui allarghiamo il
nostro sentimento particolare della vita nella partecipazione al-
la totalità del mondo e avvertiamo la nostra affinità con tutte
le manifestazioni del reale, la gioia della vita si rinsalda e
cresce la coscienza della propria forza. È questa la costituzione
dell’anima in cui l’individuo si sente tutt'uno con la connessio-
ne divina delle cose e in tal modo affine a qualsiasi altro
membro di questa connessione. Nessuno ha espresso questa co-
stituzione dell'anima in modo più bello di Goethe. Egli loda
la fortuna di poter « sentire e godere » la natura.
.. Né tu
m’accordi appena il freddo stupore d'un ospite
ma, come nel cuore a un amico, mi dai
di fissare nel fondo del suo essere.
Guidi davanti a me la schiera dei viventi
e a riconoscere m'insegni i miei fratelli
fra piante mute, in aria c in acqua 2.
20. GoetHE, Fasst, vv. 3221-27 (tr. it. di F. Fortini).
260 WILHELM DILTHEY
Questa costituzione dell'animo trova la soluzione di tutte le
dissonanze della vita nell’armonia universale delle cose. Il senti-
mento tragico delle contraddizioni dell’esistenza, la disposizio-
ne pessimistica, l'umorismo che coglie realisticamente la limita-
tezza e l’angustia opprimente dei fenomeni, ma nella loro pro-
fondità scopre l’idealità vittoriosa del reale, sono soltanto gradi-
ni che conducono alla percezione di una connessione universale
di esistenza e di valore.
La forma di apprendimento è nell’idealismo oggettivo sem-
pre la medesima: non già l’ordinamento dei casi secondo rap-
porti di affinità o di uniformità, ma l’intuizione complessiva
delle parti in un tutto, l'elevazione della connessione della vita
a connessione del mondo.
Il primo tra questi pensatori a riflettere sul suo procedimen-
to filosofico fu — a quanto ne sappiamo — Eraclito. Egli ha
avuto una profonda coscienza dell’atteggiamento contemplati-
vo e ha espresso la sua antitesi nei confronti del pensiero perso-
nificante della fede, nei confronti della percezione sensibile —
che, presa da sola, egli tiene in scarso conto — e nei confronti
della cosmologia scientifica. Il filosofo fa oggetto della sua ri-
flessione ciò che lo circonda da vicino, costantemente, giorno
per giorno, dove egli ritrova dunque sempre le medesime cose.
Essere presente a ciò che ci accade: con questa espressione
viene genialmente raffigurata la profonda saggezza in virtù del-
la quale i fenomeni del corso del mondo, evidenti agli occhi
della massa, diventano invece per il filosofo autentico oggetto
di stupore e di meditazione. In base a questo atteggiamento
contemplativo Eraclito concepiva il corso del mondo come sem-
pre identico — come il continuo fluire e la corruttibilità di
ogni cosa, ma anche come un ordine concettuale presente in
ogni suo punto. In tal modo il sentimento tragico del trascorre-
re incessante del tempo, in cui il presente è sempre e non è
più, si risolve ai suoi occhi nella coscienza di una regolarità
nell'universo che permane in mezzo a tale fuga.
Nello Stoicismo domina la stessa intuizione dell’universo co-
me un tutto di cui le cose particolari sono parti, c in cui esse
vengono tenute insieme da una forza unitaria. Esso ha elimina-
to il rapporto di subordinazione dei fatti a unità concettuali
astratte, che prevaleva in Platone e Aristotele; in luogo della
WILHELM DILTHEY 261
relazione logica del particolare con l’universale subentra, nel
suo sistema, il rapporto organico di un tutto con i suoi elemen-
ti — cioè quella forma di apprendimento che Kant ha posto in
stretta relazione, come intuizione del finalismo immanente del-
la realtà organica, con la forma dell’intuizione estetica.
E dopo che erano scomparse la sillogistica e la sisternatica
scolastica — che avevano impiegato le forme sostanziali al
servizio della teologia cristiana, per fondare un mondo trascen-
dentale — le medesime categorie di intuizione del mondo si
presentano nel periodo di transizione dal Medioevo all’età mo-
derna: l’intero e le sue parti, l’individualità di queste par-
ti fino alle più piccole. Già in Nicola Cusano compare quella
finissima concezione estetica dell’universo secondo cui la cosa
particolare, in quanto contrazione del tutto, rispecchia in sé
l'universo. Spinoza è il rappresentante di questa dottrina dell’u-
niverso come uzità, e anche l’intuizione leibniziana del mondo
è scaturita — nonostante il suo concetto di Dio, fondato sulla
monadologia e connesso con la sua tendenza teologica — da
questa costituzione dell’anima. La piena consapevolezza gnoseo-
logica di tale atteggiamento contemplativo si ha in Schelling,
Schopenhauer e Schleiermacher. L’intuizione intellettuale di
Schelling, l'atteggiamento estetico contemplativo, libero dal vo-
lere, di Schopenhauer — in cui il soggetto non segue più le
relazioni reciproche delle cose in base al principio di ragion
sufficiente, ma coglie nei fenomeni ciò che ne costituisce l'essen-
za — e infine la religione come intuizione e sentimento dell’u-
niverso nei Discorsi di Schleiermacher: queste sono le diverse
forme nelle quali si esprimono i vari aspetti del medesimo atteg-
giamento, che è proprio di questo tipo di intuizione del
mondo.
Da tale atteggiamento deriva la formula metafisica comune
a tutta questa classe di sistemi. Tutti i fenomeni dell’universo
sono duplici: da un lato, cioè nella percezione esterna, essi
sono dati come oggetti sensibili e stanno, in quanto tali, in una
connessione fisica; d’altro lato recano in sé, considerati per
così dire dall'interno, una connessione vitale che può essere
262 WILHELM DILTHEY
rivissuta nella nostra interiorità. Questo principio può essere
quindi espresso anche come affinità di tutte le parti dell’univer-
so con il fondamento divino e tra di loro. Esso corrisponde alla
concezione di una simpatia universale che nel reale, in ciò che
si manifesta nello spazio, avverte ovunque la presenza della
divinità. La coscienza di quest’affinità è il carattere metafisico
fondamentale comune alla religiosità degli Indiani, dei Greci e
dei Germani; e da essa deriva, nella metafisica, l’immanenza di
tutte le cose — come parti di un tutto — in un fondamento
universale e di tutti i valori in una connessione di significato
che costituisce il senso del mondo. La contemplazione, l’intui-
zione, che nella propria vita rivive quella del tutto — in qual-
siasi modo possa interpretarla — coglie nei fenomeni dati ester-
namente un’interna connessione divina. Da questo medesimo
atteggiamento sorge infine di regola la concezione deterministi-
ca; qui il singolo si scopre determinato dal tutto, e la connessio-
ne dei fenomeni viene concepita come caratteristica interna,
quali che siano le determinazioni che vengono ad essa at-
tribute.
4.
Ciò che è contenuto in questa formula dell’idealismo oggetti-
vo come costituzione della connessione del mondo, la religiosi-
tà, la poesia e la metafisica lo esprimono tutte soltanto in modo
simbolico. Esso è assolutamente inconoscibile. La metafisica se-
para soltanto aspetti particolari dalla vitalità del soggetto,
dalla connessione vitale della persona, proiettandoli nell’immen-
sità come connessione del mondo. Ne scaturisce una nuova
incessante dialettica che conduce di sistema in sistema finché,
esaurite tutte le possibilità, viene riconosciuta l’insolubilità del
problema.
È questo fondamento del mondo volontà oppure ragione?
Se lo determiniamo come pensiero, occorre però una volontà
perché qualcosa nasca. Se lo si concepisce invece come volontà,
essa presuppone un pensiero che ne determini lo scopo. Volon-
tà e pensiero non si lasciano però ridurre l’uno all’altro. A
questo punto la possibilità di pensare logicamente il fondamen-
to del mondo si arresta, e ciò che rimane è soltanto il rispec-
WILHELM DILTHEY 263
chiamento in esso della vita mediante la mistica. Se si concepi-
sce il fondamento del mondo in maniera personale, questa me-
tafora esige tuttavia di essere delimitata da determinazioni con-
crete. Se invece si applica ad essa l’idea dell’infinito, scompaio-
no di nuovo tutte le sue determinazioni, e anche qui rimane
soltanto l’impenetrabile, l’inconcepibile, l’oscurità e la mistica.
Se è fornito di coscienza, esso ricade sotto l’antitesi di soggetto
e oggetto; d° altra parte non possiamo comprendere come qual-
cosa di inconscio possa produrre la coscienza che gli è superio-
re; siamo nuovamente di fronte a qualcosa di inafferrabile.
Non ci è possibile pensare come dall’unità del mondo possa
nascere una molteplicità, dall’eterno qualcosa di mutevole: ciò
è logicamente inconcepibile. Il rapporto di essere e pensare, di
estensione e pensiero non viene reso comprensibile dalla parola
magica dell’« identità ». Così, anche di questi sistemi metafisi-
ci ciò che rimane è soltanto una costituzione dell’anima e un’in-
tuizione del mondo. Goethe ha dato l’espressione più alta di
questa intuizione del mondo.
« Che sarebbe un Dio che agisse soltanto dall'esterno,
facesse rotare intorno al dito l'universo!
A Lui s’addice di muovere il mondo dall’interno,
di albergare la Natura in Sé, Sé nella Natura,
così che il mondo, che in Lui vive, vibra ed è,
mai senta mancanza della Sua forza, del suo spirito » %!.
21. GoetHE, Gort und IVelt, procmio, vv. 1-6 (tr. it. di F. Amoroso).
WILHELM WINDELBAND
NOTA BIOGRAFICA
Wilhelm Windelband nacque a Potsdam l’rt maggio 1848. Frequen-
tò dapprima l’Università di Jena, poi quelle di Berlino e di Gòttingen,
dedicandosi inizialmente a studi storici e sviluppando in seguito i suoi
interessi — sotto la duplice influenza di Kuno Fischer e di Hermann
Lotze — in direzione della filosofia. Dopo aver conseguito il dottorato a
Gòttingen con la dissertazione Die Lehren vom Zufall (Berlin, 1870),
Windelband ottiene l’abilitazione a Lipsia nel 1873, con il volume Uber
die Gewissheit der Erkenntnis (Berlin, 1873), nel quale emerge chiara-
mente la sua adesione al movimento neocriticistico e, in particolare,
all'interpretazione della filosofia in chiave di teoria della conoscenza. Nel
1876 diventa professore all’Università di Zurigo, da dove si trasferisce
l'anno seguente a Friburgo e nel 1882 a Strasburgo; nel 1903, infine,
viene chiamato all’Università di Heidelberg quale successore di Kuno
Fischer, e qui insegnerà fino al momento della morte, sopraggiunta il 22
ottobre 1915.
La parte più cospicua della produzione di Windelband è costituita
da numerose opere di storia della filosofia, che hanno avuto larga
diffusione e risonanza anche al di fuori dei paesi di lingua tedesca. La
prima di queste opere, Die Geschichte der neueren Philosophie in ihrem
Zusammenhange mit der allgemeinen Kultur und den besonderen Wis-
senschaften (Leipzig, 1878-80; tr. it. Firenze, 1925), rappresenta un mo-
dello di interpretazione neocriticistica della storia della filosofia moder-
na, considerata come avente il proprio centro nello sviluppo della teoria
della conoscenza. Il carattere specifico del pensiero moderno rispetto a
quello antico e medievale viene individuato nel distacco dalla metafisica
e nello sforzo di pervenire a un'indagine critica; cosicché l'opera di
Kant viene presentata come il punto di confluenza dei suoi principali
indirizzi, ossia come la sintesi tra razionalismo ed empirismo. Nella
successiva Geschichte der Philosophie (1889-92), poi ripubblicata con il
titolo di LeArbuch der Geschichte der Philosophie (Freiburg i.B., 1903; tr.
it, Firenze, 1910-12), si riflette invece il passaggio dall’originaria prospetti-
va neocriticistica alla teoria dei valori: il presupposto della centralità del
problema gnoseologico viene messo in disparte, e la filosofia si allarga ad
abbracciare una molteplicità di problemi teoretici e pratici, studiati nel
263 WILHELM WINDELBAND
loro rapporto con la vita culturale e con la vita politico-sociale. Lo
stesso vale per la Geschichte der alten Philosophie (Miinchen, 1883) e
per la monografia P/aton (Stuttgart, 1900; tr. it. Palermo, 1914).
Negli anni successivi al 1880 Windelband è pervenuto a elaborare,
sulla base del richiamo a Kant, i presupposti di quell’impostazione
filosofica che sarà indicata come «teoria dei valori». Attribuendo alla
filosofia il compito di determinare i princìpi 4 priori che garantiscono la
validità del conoscere, egli li interpreta come valori forniti del duplice
carattere dell'universalità e della necessità, ossia come valori incondizio
nati: in riferimento alla conoscenza, la filosofia si configura come teoria
critica in quanto si pone il problema della validità del conoscere e
individua i valori su cui essa si fonda. Ma tale tipo di considerazione
non è limitato al campo della conoscenza, bensì si estende anche alla
moralità e all'arte. In una serie di saggi raccolti col titolo di Préludien
(Freiburg i.B.-Tiibingen, 1883) e via via arricchita nelle successive edizio-
ni (Tiibingen, 19027, 1907°, 1911*, 1914%; tr. it. Milano, 1947) Windel-
band delinea una concezione della filosofia come ricerca e individuazio-
ne dei valori che costituiscono la norma intrinseca dell'attività umana
nei suoi diversi campi, distinguendo così la validità normativa dei valori
dalla validità empirica delle leggi naturali. Ciò che è proprio dei valori
non è l’esistenza di fatto, bensì il « dover essere »; anche se non trovano
una realizzazione empirica, non per questo i valori cessano di valere
incondizionatamente. Essi fanno parte di una « coscienza normale » che si
colloca su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, e sul
quale questa non può incidere. Il compito della filosofia diventa perciò
quello di stabilire i valori che stanno a base rispettivamente del conosce-
re, dell'agire e del sentire — secondo la tripartizione kantiana delle
facoltà umane. In questa prospettiva Windelband ha affrontato, nel
discorso rettorale di Strasburgo Geschichte und Naturwissenschaft
(1894), il problema della conoscenza storica; e l’ha affrontato in aperta
polemica con Dilthey. Egli respinge infatti la distinzione tra scienze
della natura e scienze dello spirito a causa del suo fondamento oggetti
vo, e vi sostituisce una distinzione puramente metodologica tra due
gruppi di discipline differenziate in base al loro orientamento conosciti-
vo: le scienze nomotetiche, dirette alla determinazione di leggi generali,
e le scienze idiografiche, rivolte alla comprensione dell’individuale. In
quanto insieme delle scienze idiografiche, la conoscenza storica appare
quindi caratterizzata dallo sforzo di determinare la fisionomia individua-
le di ogni avvenimento, poco importa che esso appartenga alla natura o
all'ambito dei fenomeni spirituali.
Nell'ultimo periodo della sua vita Windelband ha sviluppato le
implicazioni metafisiche della teoria dei valori, affiancando all'esigenza
del ritorno a Kant il richiamo alla visione storica del mondo elaborata
WILHELM WINDELBAND 269
dall'idealismo post-kantiano. Nel volume Die Philosophie im deutschen
Geistesleben des 19. Jahrhunderts (Tiibingen, 1909) e in alcuni saggi
del 1908-10, poi raccolti nei Pràludien, egli addita nell’orientamento
storico dell'idealismo post-kantiano l’eredità principale della filosofia del-
l'Ottocento, riprendendo su tale base la polemica contro il naturalismo e
contro il tentativo di ridurre la storia a natura. Nell’Ein/eitung in die
Philosophie (Tiibingen, 1914) egli formula la distinzione tra scienza
naturale e conoscenza storica da un altro punto di vista, cioè in riferi-
mento al rapporto tra realtà empirica e valori: la scienza naturale si
presenta come una conoscenza priva di rapporto con i valori, mentre la
conoscenza storica diventa una conoscenza in relazione ai valori, dal mo-
mento che la realtà storica è il terreno della realizzazione empirica dei
valori. Nella postuma e incompiuta « lezione di guerra » sulla Geschickts-
philosophie (Berlin, 1916), infine, il senso della storia viene definito in
base all'idea di umanità, kantianamente intesa come principio regolativo
e quindi come postulato che deve consentire la valutazione dei singoli
avvenimenti.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Non esiste alcuna raccolta delle opere filosofiche di Windelband, né
esse sono state ristampate in epoca recente. Si dispone invece di ristampe
aggiornate dei manuali di storia della filosofia: il Lehrbuch der Geschichte
der Philosophie (completato da H. Heimsoeth fin dalla 13? ed., del 1935),
è stato ancora pubblicato dalla casa editrice Mohr, Tiibingen, 1957!, e
così pure la Geschichte der abendlindischen Philosophie im Altertum
(a cura A. Goedeckenmeyer), Miinchen, 1963.
Limitata è anche la letteratura critica sulla filosofia di Windelband,
spesso considerata insieme con quella di Rickert. Tra gli studi in propo-
sito segnaliamo i più importanti:
H. Ricxert, Wilhelm Windelband, Tiibingen, 1915.
A. Ruce, Wilhelm Windelband, « Zeitschrift fir Philosophie und philo-
sophische Kritik », CLXII, 1916-17, pp. 54-71 e 188-221.
K. WieperHoLt, Wertbegriff und Wertphilosophie, « Erginzungshefte »
alle « Kantstudien », Berlin, 1920.
B. W. ScHescHicHs, Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen
Schule, Berlin, 1938.
B. JarowenKgo, Wilhelm Windelband: ein Nachruf, Prag, 1941.
C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia dei valori, Torino, 1949, e Na-
poli, 1973 ?, cap. V.
CHE COS’È LA FILOSOFIA?
(CONCETTO E STORIA DELLA FILOSOFIA)*
I nomi hanno un loro destino — di rado, però, strano
come quello del termine « filosofia ». Se ci rivolgiamo alla sto-
ria chiedendo che cosa propriamente sia la filosofia, e ci guar-
diamo intorno tra quelli che sono stati definiti, e ancora vengo-
no definiti, « filosofi », per sapere come concepiscono ciò che
hanno fatto e fanno, ne otteniamo risposte così diverse e diver-
genti tra loro che sarebbe un'impresa disperata voler ricondurre
questa variopinta e cangiante molteplicità a un’espressione sem-
plice, e costringere la pienezza di tali mutevoli fenomeni sotto
un concetto unitario ".
Certamente un tentativo di questo genere è stato compiuto
abbastanza spesso dagli storici della filosofia. Si è voluto pre-
scindere dalle particolari determinazioni di contenuto con cui
ogni filosofo è solito porre — già nell’esposizione del compito
che si prefigge — la quintessenza dei punti di vista che ha
acquisito. Si pensava di poter così pervenire a una definizione
puramente formale, indipendente sia dal mutare delle intuizio-
ni temporali e nazionali, sia dall’unilateralità delle convinzioni
personali, e quindi adatta a comprendere tutto quanto è stato
chiamato « filosofia ». Ma sia che s’intenda designare la filoso-
a. Sulle definizioni della filosofia si veda più particolarmente W. Win-
DELBAND, Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, Tibingen und Leipzig,
4° ed. 1907, $$ 1€2.
* Was ist Philosophie? Uber Begriff und Geschichte der Philosophie (1882), in
Pràludien, Freiburg i.B. und Tibingen, Akademische Verlag von ]. C. B. Mohr, 1884,
Pp. 1-53 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
272 WILHELM WINDELBAND
fia come saggezza, o come scienza dei princìpi, o come dottri-
na dell’assoluto, o come auto-conoscenza dello spirito umano,
o in qualsiasi altra maniera, la definizione rimarrà pur sempre
troppo ampia o troppo ristretta: sempre ci saranno formazioni
storiche che, indicate col nome di filosofia, non si lasceranno
subordinare all’una o all’altra di quelle determinazioni for-
mali.
Sarebbe inutile ripetere cose spesso dette ed esibire le istan-
ze negative (che è facile far emergere dalla storia) contro simi-
li tentativi. Vale invece la pena indagare con un po’ più di
precisione i motivi di questo fenomeno. È noto che, per ottene-
re una definizione valida, la logica pretende l’indicazione del
concetto di genere prossimo superiore e dell’attributo specifico:
entrambe le esigenze non possono però venir soddisfatte in
questo caso.
Anzitutto si affermerà subito che il concetto superiore nel
quale rientra la filosofia è quello di scienza. Sarebbe un’obiezio-
ne ben debole dire che nel nostro caso la specie coincide talora
completamente col genere: così per esempio alle origini del
pensiero greco, dove appunto ancora non c’è che una scienza
indivisa, o più tardi, in certi periodi, quando la tendenza uni-
versalistica di un Descartes o di uno Hegel riconosce le altre
«scienze » soltanto nella misura in cui si lasciano ridurre a
parti della filosofia. Ciò dimostra soltanto che il rapporto tra
questa specie e il genere non è costante; ma lascia inalterato il
carattere della filosofia come scienza. Tantomeno sarebbe possi-
bile confutare la subordinazione della filosofia al concetto di
scienza con la dimostrazione che nella maggior parte delle
dottrine filosofiche sono sempre presenti elementi e procedimen-
ti non scientifici. Anche quest’obiezione dimostrerebbe solo
quanto poco la filosofia reale abbia finora assolto il suo compi-
to. Del .resto la storia delle altre «scienze» offre fenomeni
paralleli a questo, come l’epoca fabulatoria della storia, la fan-
ciullezza alchimistica della chimica o il fanatico periodo astrolo-
gico dell'astronomia. Nonostante ogni imperfezione, quindi, la
filosofia meriterebbe la qualifica di scienza a patto di poter
stabilire che tutto quanto si definisce come filosofia vuole essere
scienza, e può anche — con una corretta esecuzione — esserlo.
Ma non accade così. Una simile subordinazione sarebbe già pro-
WILHELM WINDELBAND 273
blematica se si mostrasse — ed è possibile, anzi è stato mo-
strato — che i compiti che i filosofi si sono imposti non soltan-
to occasionalmente, ma che hanno indicato come loro autentico
fine, mai e poi mai possono essere risolti per via di conoscenza
scientifica. Se la dimostrazione — introdotta per la prima volta
da Kant, e da allora ripetuta in mille varianti — dell’impossibi-
lità di una fondazione scientifica della metafisica è giusta, tut-
te le «filosofie » di tendenza essenzialmente metafisica escono
dall’ambito della « scienza »; e ciò colpisce seriamente non feno-
meni subordinati, ma proprio quelle vette della storia della filo-
sofia i cui nomi sono sulla bocca di tutti. I loro « poemi concet-
tuali » non possono quindi venir sussunti sotto il concetto di
scienza in senso oggettivo, ma soltanto in senso soggettivo:
essi si proponevano di compiere, e credevano di aver compiuto
scientificamente ciò che non si può affatto compiere scientifica-
mente. Ma neppure è possibile trovare tra i rappresentanti
della filosofia l'universalità di questa pretesa soggettiva, che
cioè la filosofia debba essere scienza. Per non pochi tra di essi,
intanto, l'elemento scientifico vale al massimo come mezzo, più
o meno inevitabile, per lo scopo vero e proprio della filosofia.
Chi vede in quest’ultima un’arte della vita — come i filosofi
dell’epoca ellenistica e romana — non cerca più il sapere per il
sapere, come invece conviene a una scienza. Se poi al sapere
scientifico si chiede soltanto un prestito, è del tutto indifferen-
te dal punto di vista della scientificità che lo si faccia per scopi
politici, tecnici, morali, religiosi o di qualsiasi altro tipo. An-
che tra quelli che intendono la filosofia come conoscenza, molti
sono chiaramente consapevoli che non possono acquisire tale co-
noscenza mediante la ricerca scientifica: senza pensare ai mistici
(per i quali tutta la filosofia è illuminazione), quanto spesso si
ripete nella storia la confessione che le radici ultime di una
convinzione filosofica non devono essere ricercate in un procedi-
mento dimostrativo di tipo scientifico! Come ancoraggio a cui
la filosofia deve tenersi stretta, sopra le onde del movimento
scientifico, viene indicata a volte la coscienza con i suoi postula-
ti, a volte la ragione come percezione di un’insondabile profon-
dità vitale, talora l’arte come organo della filosofia, talora una
comprensione di tipo geniale, un’« intuizione » originaria, talo-
ra una rivelazione divina: Schopenhauer, l’uomo in cui molti
18. STORICISMO TEDESCO.
274 WILHELM WINDELBAND
contemporanei onorano il filosofo par excellence, confessa più
volte che la sua dottrina non è stata acquisita, né può essere
dimostrata, mediante un lavoro metodico, ma prende forma
soltanto davanti allo «sguardo» d'insieme che solo riesce a
dare un’interpretazione complessiva ai risultati conoscitivi del-
la scienza.
La filosofia è quindi ben lungi dal poter essere semplicemen-
te subordinata al concetto di scienza, come spesso ci si immagi-
na, sviati da tendenze posteriori e definizioni consuete. Certa-
mente il singolo può ben costruirsi un concetto di filosofia che
consenta tale subordinazione: ciò è accaduto, accadrà sempre, e
noi stessi vogliamo tentarlo. Ma quando si considera la filosofia
come una formazione storica reale, quando si confronta tutto
quanto è stato indicato come filosofia nei movimenti spirituali
dei popoli europei, una sussunzione del genere non è consenti-
ta. La consapevolezza di questo fatto si manifesta in varie
forme. Nella storia della filosofia essa assume la forma per cui,
di tempo in tempo, riappaiono aspirazioni a «elevare a scien-
za», finalmente, la filosofia. A ciò si connette il fatto che,
anche laddove vi sia sempre conflitto tra indirizzi filosofici,
ognuno di essi mostra la tendenza a pretendere per sé solo il
carattere della scientificità, negandolo alla prospettiva avversa.
La distinzione tra filosofia scientifica e filosofia non scientifica
è un'espressione di battaglia di cui da sempre ci si compiace.
Platone e Aristotele hanno contrapposto la loro filosofia, in
quanto scienza (èriotiUn), alla Sofistica come opinione (865x)
ascientifica e piena di pregiudizi; e con un capovolgimento che
si potrebbe quasi dire uno scherzo della storia, oggi i rinnovatori
positivistici e relativistici della Sofistica tentano di contrapporre
la loro dottrina, in quanto filosofia « scientifica », a quelli che
ancora accreditano la grande conquista della scienza greca. Tra
chi sta al di fuori della mischia, non considerano scienza la
filosofia coloro che nella sua storia non vedono altro che la
«storia degli errori umani ». Infine colui al quale la superficia-
le presunzione del moderno enciclopedismo non ha ancora fatto
perdere il rispetto per la storia, chi sta ancora pieno di stupore
di fronte alle grandi formazioni concettuali della filosofia, do-
vrà diventare consapevole che non è sempre il significato scien-
tifico della filosofia ciò a cui rende il suo tributo, bensì qui
WILHELM WINDELBAND 275
l'energia di una più nobile intuizione della vita, là l’artistica
armonizzazione di idee contrastanti — qui l'ampiezza di rap-
presentazioni di portata universale, là Ia forza ordinatrice del
lavoro combinatorio del pensiero.
In realtà i fatti storici esigono di prendere le distanze da
una subordinazione così incondizionata della filosofia al concet-
to di scienza, quale viene quasi ovunque ammessa. L’aperto
sguardo dello storico sarà piuttosto costretto a vedere in es-
sa un fenomeno culturale ramificato e proteiforme che non si
lascia schematizzare o rubricare con semplicità. Egli compren-
derà che con quella usuale sussunzione si fa torto alla scienza
non meno che alla filosofia: alla filosofia in quanto si costringe
in un ambito troppo stretto la sua aspirazione verso un ambito
sempre più vasto, e alla scienza in quanto la si rende così
responsabile di tutto quanto confluisce da molte altre fonti
nella filosofia.
Anche ammesso che si possa sussumere il fenomeno storico
della filosofia sotto il concetto di scienza e attribuire tutto quan-
to vi si oppone all’imperfezione delle singole filosofie, sorge la
questione non meno ardua di come si debba distinguere, all’in-
terno di questo genere, la filosofia, in quanto specie particola-
re, dalle altre scienze. Anche a questa seconda questione la
storia — e soltanto di questa stiamo in definitiva parlando —
non dà nessuna risposta universalmente valida. Le scienze pos-
sono distinguersi in parte secondo i loro oggetti, in parte secon-
do i loro metodi; ma in nessuna di queste due prospettive è
possibile rintracciare un segno distintivo permanente per tutte
le manifestazioni storiche della filosofia.
Per quanto riguarda gli oggetti, accanto a sistemi filosofici
che fanno oggetto della loro indagine tutto quanto esiste o
perfino tutto quanto «è possibile», ve ne sono altri, altret-
tanto significativi, che delimitano strettamente il loro campo
d'indagine, per esempio ai « fondamenti ultimi» dell’essere e
del pensiero, o alla dottrina dello spirito, o alla teoria della
scienza, e così via. Interi campi del sapere che per l’uno sono,
se non l’unico, almeno il terreno principale dell’elaborazione
filosofica, vengono invece dall’altro espressamente esclusi dal
dominio della filosofia. Vi sono sistemi che non vogliono esser
altro che etica; ve ne sono altri che, delimitando la filosofia
276 WILITELM WINDELBAND
alla teoria della conoscenza, si propongono di lasciare l’indagi-
ne dei problemi morali ed estetici alla storia dell’evoluzione
psicologica e biologica. Vi sono sistemi in cui la filosofia viene
totalmente risolta in psicologia; ve ne sono altri che tracciano
uno scrupoloso confine rispetto alla psicologia, considerata co-
me una scienza empirica. Di molti « filosofi » presocratici non
conosciamo che alcune osservazioni e teorie, che al giorno d’og-
gi releghiamo nella fisica, nell’astronomia, nella metereologia
ecc., ma che nessuno designerebbe mai come filosofiche: nei
sistemi successivi compare talora come elemento integrante
una propria visione della natura: talora, invece, vien fatta una
rinuncia di principio ad essa. In ogni filosofia del Medioevo il
centro di gravità dell'interesse sta in problemi che sono oggi
oggetto della teologia; lo sviluppo della filosofia moderna allon-
tana sempre più da sé, di secolo in secolo, tali questioni. I
problemi del diritto o dell’arte rappresentano qui gli oggetti
più importanti della filosofia; là si negava invece la possibilità
di una loro trattazione filosofica. Tutta l’antichità, e anche la
maggior parte dei sistemi metafisici anteriori a Kant, non ha
avuto sentore di una filosofia della storia: oggi essa è diventa-
ta una delle discipline più importanti.
Da questa diversità degli oggetti della filosofia risulta ora
per lo storico una difficoltà non irrilevante, e finora quasi mai
trattata in linea di principio®: con quale estensione e in quali
limiti, cioè, egli debba assumere nella storia della filosofia le
dottrine e i punti di vista formulati da un filosofo, prescinden-
do dal significato biografico che possono avere per la caratteriz-
zazione della sua personalità. Qui sembrano aprirsi soltanto
due vie pienamente coerenti: o si segue la storia in tutte le
stranezze delle sue denominazioni e si lascia che l'esposizione
storica vaghi, allo stesso modo dell’interesse « filosofico», da
un oggetto all’altro, oppure si pone a fondamento una determi-
nata definizione della filosofia e in base ad essa si compie la
scelta e la distinzione delle singole dottrine. Nel primo caso si
paga l’« oggettività storica » con una molteplicità sconcertante e
a. Cfr. il mio saggio Geschichte der Philosophie, in Die Philosophie im
Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts (Festschrift fiv Kuno Fischer), Hei-
delberg, 1904-5, vol. II, p. 190 sgg.
WILHELM WINDELBAND 277
con la mancanza di connessione tra gli oggetti; nel secondo
caso l’unitarietà e la capacità di penetrazione così acquisite
poggiano sull’unilateralità con cui si impone come schema un
presupposto, determinato personalmente, nel movimento stori-
co. La maggior parte degli storici della filosofia hanno im-
boccato, senza rendersene conto (o anche senza poterlo fare),
una via di mezzo, sviluppando le teorie di quei filosofi che si
addentrano nel dettaglio delle scienze particolari soltanto nella
loro connessione di principio con il complesso della dottrina e
rinunciando in misura maggiore o minore (secondo l'estensione
del loro lavoro) a riprodurre la realizzazione specifica. Siccome
non esiste per questo un criterio determinato, e nemmeno può
esistere in una maniera che possegga una validità universale di
per sé evidente, al posto di esso sono subentrati per lo più
l’arbitrio dell’interesse personale o l’accidentalità di una certa
sensibilità.
Di fatto, per il modo con cui si configurano i rapporti
storici, questa difficoltà non può essere superata in linea di
principio; essa viene rammentata qui soltanto come conseguen-
za necessaria del fatto che non è possibile stabilire in modo
universalmente valido l’oggetto della filosofia in base alla com-
parazione storica. La storia dimostra piuttosto che nell’ambito
in cui si può indirizzare la conoscenza non vi è nulla che non
sia già stato incluso una volta nella filosofia, e così pure nulla
che non ne sia stato una volta escluso.
Tanto più comprensibile appare allora la tendenza a cercare
il carattere specifico della filosofia non già nell'oggetto ma nel
metodo, e a ritenere che la filosofia tratti bensì gli stessi og-
getti delle altre scienze, ma con un metodo suo proprio: di qui
il fatto che essa respinge da sé determinati oggetti inaccessibili
al suo metodo, mentre deve esercitare una pretesa permanente
di possesso su altri, particolarmente appropriati al suo modo
di procedere. Un tentativo di tal genere — compiuto su larga
scala da Wolff, che per ogni gruppo di oggetti della conoscen-
za scientifica accostava una disciplina filosofica a una disci-
plina « storica » (come si diceva allora: oggi si direbbe « empiri-
ca») — può essere teoricamente formulato molto bene come
progetto. Ma anch'esso non basta a una determinazione storica
del concetto di filosofia — per il semplice motivo che anche tra
278 WILHELM WINDELBAND
i filosofi che assumono per la loro scienza un metodo particola-
re (e sono una piccola parte) non c'è il minimo accordo riguar-
do a questo « metodo filosofico ». Non è quindi possibile parla
re con validità storica universale di un particolare modo di
trattazione scientifica il cui impiego costituisca l'essenza della
filosofia, né si può sostenere che tale essenza possa trovarsi
nell’aspirazione, anche incompiuta, a questo metodo. Giacché
da un lato tutti quelli secondo cui la filosofia oltrepassa il
lavoro scientifico non vogliono, conseguentemente, saperne di
un metodo filosofico; d’altra parte proprio coloro che vogliono
«elevare a scienza » la filosofia cedono molto spesso al deside-
rio di comprimerla entro metodi di altre scienze sperimentati
in campi particolari, per esempio entro i metodi della matema-
tica o dello studio induttivo della natura. Infine, laddove si è
imposto un metodo specifico della filosofia, quanto esso è lonta-
no dall’essere universalmente riconosciuto! Il metodo dialettico
della filosofia tedesca appare ai più un capriccio stravagante e
stupido; e se Kant credeva di aver stabilito per la filosofia il
metodo «critico », gli storici non si sono messi ancor oggi
d’accordo su ciò che voleva dire.
Queste osservazioni potrebbero essere tirate in lungo con
un'infinità di esempi. Ma per quanto riguarda il significato
logico inerente a un'istanza negativa, anche quando essa abbia
un'estensione minima, i casi qui menzionati bastano a dimostra-
re che è impossibile — qualunque sia la via imboccata — trova-
re mediante l’induzione storica un concetto universale di filoso-
fia che comprenda se non altro tutti i fenomeni storici che
vengono chiamati «filosofia». Se non è possibile sussumere
senza residui la filosofia sotto il concetto generico di scienza,
tanto meno è possibile farlo rispetto ad altri concetti generici
di attività culturali come l’arte o la poesia: bisogna perciò
rinunciare alla possibilità di trovare per via storica il concetto
superiore prossimo comprensivo della filosofia. Nessuno mette-
rà in dubbio che ogni filosofia è un prodotto spirituale, una
formazione della rappresentazione; ma nessuno vorrà conside-
rarlo come un punto di vista in qualche modo utilizzabile.
Sembra che ai filosofi accada come a tutti gli individui umani
che si chiamano Paolo, e nei quali non è assolutamente possibi-
le indicare un segno comune ir virtà del quale essi recano
WILHELM WINDELBAND 279
tutti questo nome. Ogni denominazione si fonda sull’arbitrio
storico e può quindi rimanere più o meno indipendente e di-
stante dall’essenza di ciò che deve denominare: così sembra
valere, se si considera l’intero corso temporale, anche per il
termine « filosofia », poiché la comunanza della parola non cor-
risponde a un’unitarietà dell'essenza da determinare concettual-
mente. Se ci si limita a brevi periodi e a singoli ambiti cultura-
li, si potrà forse trovare al loro interno un significato costante
connesso col nome di filosofia: ma esso cessa di valere non
appena si segue il termine nella sua applicazione attraverso
tutta la storia.
Certamente, questo risultato della considerazione storica ap-
pare quanto mai preoccupante: se esso rimanesse privo di inte-
grazione, una storia universale della filosofia risulterebbe priva
di senso. Avrebbe, appunto, lo stesso valore — per tornare al
paragone di prima — del tentativo di scrivere la storia di tutti
gli uomini che si chiamano Paolo. È chiaro allora che proprio
a quei « pensatori autonomi » che hanno costruito un loro con-
cetto di filosofia rigidamente determinato, come Kant e Her-
bart, la consueta storia della filosofia — che doveva offrire loro
elementi così poco affini — è rimasta estranea e antipatica,
mentre le epoche di eclettismo (che non sanno mai che cosa si
debba propriamente denominare filosofia) sono state anche quel-
le in cui più si è occupati storicamente di filosofia. Se però la
riflessione storica deve mantenere un senso razionale, essa presup-
pone (anche se non è in grado di mostrare un concetto universa-
le di filosofia) che il mutamento sperimentato nel corso dei
secoli dal termine « filosofia» non significhi mero arbitrio e
accidentalità, ma anzi abbia un senso razionale e un valore
specifico. Se nonostante le stranezze delle digressioni individua-
li la storia del termine « filosofia » è l’espressione di uno svilup-
po profondamente significativo nella connessione della vita cul-
turale dell'umanità europea, allora la storia di questo e dei
fenomeni particolari in esso compresi acquisisce un senso auto-
nomo e fornito di valore non già malgrado, ma proprio in
virtù di questo mutamento di significato.
Del resto le cose non stanno, di fatto, diversamente; e solo
quando si è chiarita la storia del termine « filosofia » si è an-
che in grado di determinare ciò che nel futuro, aspirando a
280 WILHELM WINDELBAND
una validità più che individuale, possa essere legittimato a por-
tare questo nome.
Dobbiamo ai Greci sia il termine sia il primo significato di
qriocepla. Divenuto denominazione tecnica — pare — ai tem-
pi di Platone, il termine significa esattamente ciò che oggi
noi Tedeschi designamo col termine « scienza »* che, per fortu-
na, è molto più comprensiva di quanto non lo sia la science
dei Francesi e degli Inglesi. È il nome che assume un bambino
appena nato. Saggezza, che si tramanda di generazione in gene-
razione nella forma di antichissime narrazioni mitiche; dottri-
na morale, espressione riflessa dell'anima popolare; intelligen-
za pratica che, accostando esperienza a esperienza, agevola alla
nuova generazione il cammino della vita; conoscenze pratiche
acquisite nella lotta per l’esistenza in singoli compiti e nella
loro soluzione, e accumulate col trascorrere dei tempi in un
potere e in un sapere imponente — tutto ciò è esistito da
sempre in tutti i tempi. Ma la «curiosità» dello spirito di
cultura liberato dalla necessità della vita, che nella nobiltà del-
l’ozio comincia a indagare per possedere il sapere soltanto di
per se stesso, senza alcun scopo pratico, senza guardare all’edifi-
cazione religiosa o alla nobilitazione morale, per trovare godi-
mento in esso come valore assoluto e completamente indipen-
dente — questo puro impulso al sapere è stato sviluppato per
la prima volta dai Greci, che sono così diventati i creatori
della scienza. Analogamente all’«impulso al gioco », essi han-
o
no tratto fuori dagli intrecci delle rappresentazioni mitiche,
a. Non bisognerebbe mai dimenticare che nelle traduzioni sorgono pa-
recchi fraintendimenti quando si rende piXogopfa con « filosofia », incor-
rendo così nel pericolo che il lettore moderno intenda il termine nel sen-
so attuale, assai più ristretto. Basterà un esempio tra i molti. Un noto pas-
so di Platone viene facilmente tradotto nel modo seguente: « La sventura
dell'umanità non avrà termine finché i governanti non filosoferanno o i
filosofi non governeranno, ossia finché potere politico e filosofia non coin-
cideranno ». È comodo sorridere sc per « filosofia » si pensa alle fantasti-
cherie metafisiche e per « filosofi » ai professori sprovvisti di senso pratico
e ai dotti solitari! Ma si traduca correttamente; e quando allora si trova
che Platone non ha preteso altro se non che il governo stia nelle mani della
cultura scientifica, si vedrà forse come egli abbia profeticamente precorso,
con quella massima, lo sviluppo della vita europea.
WILHELM WINDELBAND 281
dalla dipendenza a bisogni etici e quotidiani l'impulso al sape-
re, trasformando così la scienza, al pari dell’arte, in organi
autonomi della vita culturale. Nella nebulosità fantastica della
natura orientale gli esordi dell’impulso artistico e scientifico si
rdono nel tessuto di una vita complessiva indistinta: i Greci,
come guide dell’occidentalismo, cominciano a distinguere l’indi-
stinto, a differenziare quanto è ancora embrionalmente non di-
spiegato e a introdurre, per le supreme attività dell’uomo civi-
le, la divisione del lavoro. La storia della filosofia greca è così
la storia della nascita della scienza: tale è il suo senso più
profondo e il suo significato intramontabile. Lentamente l’im-
pulso scientifico si svincola dai fondamenti generali in cui è
originariamente incapsulato; allora esso si comprende, si espri-
me con fierezza e petulanza e infine giunge a compimento
producendo, in completa chiarezza e in tutta la sua estensione,
il concetto di scienza. Dalla ricerca di Talete! sul fondamento
primo delle cose fino alla logica di Aristotele, è tutto un gran-
de sviluppo tipico il cui tema è la scienza.
Questa scienza si indirizza perciò a tutto quanto può diven-
tare oggetto del sapere, o sembra poterlo diventare: abbraccia
il Tutto, l’intero mondo della rappresentazione. Ciò che l’im-
pulso al sapere divenuto autonomo trova davanti a sé come mate-
riale per la propria attività nei racconti mitici del passa-
to, nelle regole di vita dei saggi e dei poeti, nelle conoscenze
pratiche di un popolo di commercianti impegnato in svariate
attività — tutto ciò è ancora così poca cosa che può essere
agevolmente riunito in una sola testa ed elaborato con pochi
concetti fondamentali. Così, in Grecia la filosofia è scienza
unica e indivisa.
Ma il processo di differenziazione già avviato deve necessa-
riamente procedere. Il materiale cresce, e di fronte allo spirito
conoscente e ordinatore si articola in diversi gruppi di oggetti,
che appunto perciò esigono una trattazione differenziata. La
filosofia comincia a dividersi: le singole « filosofie » si separa-
no e ognuna di esse pretende ora per sé sola il lavoro di una
vita di un ricercatore. Lo spirito greco entra nell'età delle scien-
1. Talete di Mileto, filosofo ionico vissuto tra il secolo vil e il secolo vi a. C., è
tradizionalmente considerato il punto di partenza della speculazione filosofica greca.
282 WILHELM WINDELBAND
ze specialistiche. Se ora ogni disciplina assume il nome del
proprio oggetto, dove rimane il nome di filosofia?
In un primo tempo esso si lega all’universale. Il possente
spirito sistematizzatore di Aristotele, in cui quel processo di
differenziazione ha trovato il suo compimento, creò tra le altre
anche una filosofia «prima », cioè una scienza fondamentale
che — detta anche, più tardi, metafisica — trattava della connes-
sione suprema e ultima di tutte le conoscenze. Qui tutti i con-
cetti prodotti nei singoli compiti della scienza si unificavano in
un quadro complessivo dell’universo, e per questa suprema fun-
zione onnicomprensiva fu quindi mantenuto il nome originario
della scienza complessiva.
Soltanto che, nello stesso tempo, comparve un altro elemen-
to che aveva la sua base non in un movimento puramente
scientifico, ma in un movimento culturale generale. Quella divi-
sione del lavoro scientifico avvenne nell'epoca di decadenza
della Grecità. Alle culture nazionali subentrò una cultura uni-
versale in cui la scienza greca costituiva sì un vincolo essenzia-
le, ma retrocedeva rispetto ad altre esigenze, oppure si poneva
al loro servizio. Dalla Grecità si passò all’Ellenismo, dall’Elleni-
smo all’Impero romano. Si andava istituendo un enorme mecca-
nismo sociale, che divorava la vita nazionale con i suoi in-
teressi particolari, che contrapponeva l’individuo, come atomo
effimero, a una totalità impenetrabile ed estranea, che con l’acu-
rizzarsi della lotta sociale costringeva infine il singolo a render-
si il più possibile indipendente, e a preservare per sé il massimo
di felicità e di serenità, sottraendolo al grande strepito, nella
quiete dell’esistenza individuale. Dove i destini del mondo ester-
no passavano annientando interi popoli e potenti imperi, la
felicità e il godimento sembravano rifugiarsi nell’interiorità del-
la persona, e così per tutti i migliori la questione della giusta
direzione da dare alla vita personale divenne la più importante
e scottante. Di fronte alla vivacità di questo interesse si indebo-
liva il puro impulso al sapere: la scienza veniva ancora apprez-
zata soltanto nella misura in cui poteva servire a questo interes-
se, e quella « filosofia prima » sembrava offrire la sua immagi-
ne scientifica del mondo solo allo scopo di comprendere quale
posizione spetta all’uomo nella connessione universale, e come
egli possa di conseguenza indirizzare la propria vita. L’esem-
WILHELM WINDELBAND 283
pio tipico di questo movimento lo vediamo nello Stoicismo. La
subordinazione del sapere alla vita è il carattere universale del-
l’epoca: per essa la filosofia è quindi arte di vivere ed esercizio
di virtù. La scienza non è più uno scopo in sé; essa è il più
nobile strumento di felicità. Il nuovo organo dello spirito uma-
no sviluppato dai Greci entra in uno stato di dipendenza desti-
nato a durare a lungo.
Col trascorrere dei secoli esso cambia padrone. Mentre le
scienze particolari entrano al servizio dei singoli bisogni sociali
— tecnica, insegnamento, medicina, legislazione ecc. — la filo-
sofia è anzitutto quella scienza complessiva che deve insegnare
come l’uomo possa diventare al tempo stesso virtuoso e felice.
Ma quanto più il mondo perdura in questa situazione, quanto
più una sfrenata ricerca del godimento e la mancanza di con-
vinzione invadono la società, tanto più si frantuma l’orgoglio
della virtù, tanto più il desiderio di felicità dell'individuo appa-
re privo di prospettive. Con tutto il suo splendore e con tutto il
suo desiderio di piacere il mondo esterno si spopola, e sempre
più l’ideale si sposta dalla regione mondana in una regione
trascendente, più alta, più pura. L'idea etica si trasforma in
idea religiosa, e ora «filosofia» significa conoscenza di Dio.
L’intero apparato della scienza greca, il suo schema logico, il
suo sistema di concetti metafisici sembra ora destinato soltanto
a fornire un’espressione conoscitiva adeguata all’aspirazione reli-
giosa e a una convinzione piena di fede. Nella teosofia e nella
teurgia che si trasmettono dagli agonizzanti secoli di transizio-
ne alla mistica del Medioevo questo nuovo carattere della « filo-
sofia» emerge non meno di quanto emerga nel duro lavoro
concettuale con cui tre grandi religioni tentarono di assimilare
a sé la scienza greca. In questa forma, come ancella della fede,
la filosofia si manifesta nei lunghi e difficili secoli di apprendi-
stato dei popoli germanici: l'impulso al sapere sì è fuso nell’im-
pulso religioso e non ha, accanto ad esso, un suo autonomo
diritto. La filosofia è il tentativo di sviluppo scientifico e di
fondazione delle convinzioni religiose.
Nell’emancipazione dal dominio esclusivo della coscienza re-
ligiosa risiedono le radici del pensiero moderno, che affondano
profondamente nel cosiddetto Medioevo. Anche l'impulso al
sapere si rifà libero, riconosce e afferma il proprio valore specifi-
284 WILHELM WINDELBAND
co. Mentre le scienze specialistiche seguono, con compiti e me-
todi in parte nuovi, la loro strada, la filosofia ritrova negli
ideali della Grecia il puro sapere fine a se stesso. Essa si scrolla
di dosso la finalità etica e religiosa diventando di nuovo la
scienza complessiva della totalità del mondo, di cui vuole acqui-
sire la conoscenza per proprio conto e per se stessa, senza
appoggio estraneo. La « filosofia » diventa metafisica in senso
stretto, sia che riproduca i sistemi dei grandi filosofi Greci, sia
che intenda poetizzare in una combinazione fantastica le nuove
intuizioni offerte dalle scoperte dell’epoca, sia che vada alla
rigorosa scuola di una matematica fornita di antica dignità
eppure ancor giovane, sia che voglia cautamente costituirsi con le
conoscenze della nuova indagine della natura. In tutti i casi
essa vuole fornire, indipendentemente dal conflitto delle opinio-
ni religiose, una conoscenza autonoma del mondo fondata sulla
«ragione naturale », e si contrappone così alla fede in qualità
di «sapienza mondana ».
Ma accanto a questo interesse metafisico ne compare fin
dall'inizio un altro, che prende gradualmente il sopravvento.
Sorta in opposizione alla scienza tutelata dalla Chiesa, questa
nuova filosofia deve anzitutto mostrare come intenda produrre
il suo nuovo sapere. Essa procede da indagini sull’essenza
della scienza, sul processo del conoscere, sull’adattamento del
pensiero ai suoi oggetti. Se questa tendenza è inizialmente me-
todologica, assume però sempre di più il carattere di teoria
della conoscenza. Non indaga più soltanto sulle vie, ma sui
limiti della conoscenza. E proprio l’antitesi, che ora si ripete e
si approfondisce, tra i sistemi metafisici suscita la questione se
sia in generale possibile la metafisica, cioè se la filosofia abbia
un proprio oggetto, se abbia diritto a esistere accanto alle scien-
ze particolari.
E alla questione si dà risposta negativa! Il secolo che nella
sua suprema fiducia nel sapere pensava di padroneggiare la
storia con la sua filosofia — il secolo xvi — è quello che
riconosce e confessa che la forza conoscitiva dell’uomo non
basta per abbracciare la totalità del mondo e per penetrare i
fondamenti ultimi delle cose. Non esiste metafisica: la filosofia
ha distrutto se stessa. Che cosa può ancora significare il suo
vuoto nome? Tutti i singoli oggetti sono divisi tra le scienze
WILHELM WINDELBAND 285
particolari; la filosofia è come il poeta, giunto troppo tardi alla
spartizione del mondo. Infatti l’attività di ricucitura dei risulta-
ti ultimi delle scienze specialistiche è ben lungi dal costituire la
scienza dell’universo: essa è compito di una diligente compila-
zione o di una combinazione artistica, non della scienza. La
filosofia è come il re Lear, che ha suddiviso tutto il suo tra i
figli e ora è costretto a subire di farsi gettare sulla strada come
un mendicante.
Però dove massimo è il pericolo, l’aiuto è vicinissimo. Se è
stato possibile dimostrare che la filosofia che voleva essere meta-
fisica è impossibile, con queste indagini è sorto un nuovo ramo
del sapere, il quale ha bisogno di un nome. Anche se tutti gli
altri oggetti sono stati divisi senza residuo tra le scienze speciali-
stiche e si è dovuto definitivamente rinunciare a una scienza
dell’intuizione del mondo, quelle stesse scienze sono però un
“- forse uno dei più significativi, e pretendono di essere
oggetto di una scienza specifica che stia con esse nello stesso
rapporto in cui queste stanno con le cose. Accanto alle altre
scienze compare come disciplina particolare e chiaramente de-
terminata una zeoria della scienza. Se non è una conoscenza
del mondo che riunisce tutti gli altri punti di vista, ora è però
l’auto-conoscenza della scienza, l'indagine centrale in cui tutte
le altre scienze trovano la loro fondazione. A questa « dottrina
della scienza » si trasmette il nome, divenuto privo di oggetto,
di filosofia: essa non è più la dottrina della totalità del mondo
o della condotta della vita, ma è la dottrina del sapere — non è
più una metafisica delle cose, ma è una « metafisica del sapere ».
Se si fa attenzione al mutamento che si è così compiuto
attraverso due millenni nel significato del termine, appare chia-
ro che la filosofia — anche se non è mai stata completamente
scienza e, quando pur voleva essere scienza, non si è costante-
mente rivolta al medesimo oggetto — si è tuttavia mantenuta
in una determinata relazione con la conoscenza scientifica; e
che — questa è la cosa più importante — il mutare di tale
relazione dipende dal cambiamento di valutazione, avvenuto
nello sviluppo della cultura europea, nei riguardi della cono-
scenza scientifica. La storia del termine filosofia è la storia del
significato culturale della scienza. Non appena il pensiero scien-
tifico si rende autonomo come impulso del conoscere in vista
286 WILHELM WINDELBAND
soltanto del sapere, esso assume il nome di filosofia; quando
poi la scienza unitaria si divide nei suoi rami, la filosofia diven-
ta conoscenza del mondo connettiva, conclusiva, universale.
Non appena poi il pensiero scientifico viene di nuovo ridotto a
strumento della riflessione etica e della contemplazione religio-
sa, la filosofia si trasforma in arte di vita o in formulazione di
convinzioni religiose. Quando la vita scientifica ridiventa libe-
ra, anche la filosofia ritrova il carattere di conoscenza autono-
ma del mondo, e quando comincia a rinunciare alla soluzione
di questo compito si trasforma in una teoria della scienza.
All’inizio scienza complessiva e indifferenziata, nella diffe-
renziazione delle scienze particolari la filosofia diventa in par-
te quell’organo che connette le operazioni di tutte le altre
scienze in conoscenza complessiva, in parte uno strumento al
servizio di una condotta di vita etica o religiosa, in parte in-
fine l'organo nervoso centrale in cui deve pervenire alla coscien-
za il processo vitale degli altri organi. Dapprima identica con
la scienza, la filosofia è in seguito il risultato di tutte le
scienze particolari o la dottrina di ciò in vista di cui la scienza
esiste, o infine la teoria della scienza medesima. Sempre la
concezione di ciò che vien chiamato filosofia è caratterizzante
rispetto alla posizione che la conoscenza scientifica assume
nella valutazione dei beni culturali di ogni epoca. Sia che la si
consideri come un bene assoluto oppure soltanto come un mez-
zo in vista di scopi superiori, sia che la si ritenga o no in
grado di comprendere il fondamento vitale ultimo delle cose,
ciò si manifesta nel senso che di volta in volta si collega col
termine « filosofia ». La filosofia di un'epoca è il termometro
del valore che questa attribuisce alla scienza: proprio per-
ciò la filosofia appare ora essa stessa come scienza, ora come
qualcosa che procede al di là di questa, e quando viene conside-
rata come scienza, essa abbraccia la totalità del mondo, oppure
è l'indagine sull’essenza della conoscenza scientifica. Quanto
diversa è la posizione che la scienza assume nella connessione
della vita culturale, altrettanto equivoca e multiforme è la filo-
sofia; e da ciò si comprende che dalla storia non si può ottene-
re nessun concetto unitario di essa.
S'intende che questo sguardo d'insieme alla storia del termi-
ne « filosofia » è una considerazione di massima che si concen-
WILHELM WINDELBAND 287
tra sull’interesse principale delle diverse epoche e che non vuol
negare né dimenticare il fatto che le quattro tendenze particola-
ri qui distinte scorrono parallele in tutti i periodi per ognuno
dei quali è stato abbozzato uno specifico significato complessivo
di «filosofia ». Già nella filosofia greca si fanno valere certe
tendenze a trasformare la filosofia in arte di vita o in critica
della conoscenza; e d’altra parte l'ideale di una conoscenza fine
a se stessa non è mai scomparso completamente dall’orizzonte
dell'umanità europea. Ma le inclinazioni dei singoli cedono il
passo al predominio della coscienza complessiva: perciò è sol-
tanto possibile proporre una tale considerazione di massima.
Quanto però gli individui procedano tuttavia per la loro strada,
risulta particolarmente chiaro se si tiene presente che nella
nostra epoca si sono ancor sempre rinnovate quelle quattro
concezioni della filosofia, dopo che erano state messe in ombra
da quella più importante.
Infatti non si è ancora presa in esame la trasformazione più
importante che la filosofia ha subìto, ossia quella che si ricolle-
ga al nome di Kant. Essa si colloca immediatamente dopo
quella quarta fase, in cui la filosofia si è configurata come
teoria della scienza. Che cosa vuol dire teoria della scienza?
Rispetto ad altri oggetti teoria vuol dire la spiegazione di dati
fenomeni in base alle loro cause e la determinazione delle leggi
secondo cui si compiono i processi causali del gruppo di feno-
meni in questione. Nel medesimo senso si concepiva prima di
Kant anche il compito della filosofia: essa doveva comprendere
la scienza. Essa doveva cioè spiegare l'origine delle rappresenta-
zioni e mostrare le leggi secondo cui esse si trasformano in
prospettive scientifiche, in concetti generali e in relazioni tra
concetti fondate su giudizi. È del tutto evidente che, se la
filosofia viene così intesa come una scienza che deve spiegare
geneticamente il pensiero scientifico, si risolve completamente
in indagini sulle leggi di sviluppo dello spirito: essa è allora
per metà psicologia individuale, per metà storia della cultura
— vale a dire quello che i Francesi chiamano ideologia”. Essa
2. Il termine, coniato da Destutt de Tracy negli El4ments d’idbologie (1801-4),
designa quella corrente filosofica che, richiamandosi a Condillac, ne sviluppa l’imposta-
zione gnoscologica nel senso di un'analisi del processo di formazione delle idee, dei
loro rapporti e della loro combinazione.
288 WILHELM WINDELBAND
mostra in base a quali leggi generali viene a formarsi, secondo
una necessità naturale, la certezza dell’individuo e il modo di
rappresentazione dei popoli civili. Da ciò si comprende la ten-
denza psicologica che caratterizza tutte le manifestazioni signi-
ficative della filosofia nel secolo precedente Kant. Questa filoso-
fia è quindi essenzialmente un'applicazione di conoscenze psico-
logiche e storiche al concetto della scienza: essa si propone di
spiegarla nello stesso modo degli altri fatti spirituali.
È però facile trovare che tale trattazione, fondata sul proce-
dimento delle altre scienze, non soddisfa affatto lo scopo per
cui si andava alla ricerca di quella « teoria della scienza ». Infat-
ti il compito di una teoria del genere dovrebbe appunto essere
non soltanto quello di distinguere e di descrivere, tra l’intera
massa delle rappresentazioni e dei nessi delle rappresentazioni,
quelle che sono di solito designate come scientifiche, ma di
mostrare perché proprio a queste competa un valore di verità,
in modo che non solo vengano generalmente riconosciute di
fatto come scientifiche, ma meritino di essere riconosciute
come tali. Si voleva appunto sapere da che cosa dipende il
fatto che le conoscenze acquisite dalla scienza posseggono un
valore necessario che oltrepassa la loro origine accidentale, e in
quale modo la scienza debba procedere per assicurare ai suoi
risultati tale valore. Questo problema non può essere risolto
indicando il processo conforme alle leggi naturali attraverso cui
viene prodotto, negli individui o nella specie, ciò che pretende
al titolo di scienza. Tale necessità naturale di origine psicologi-
ca si ritrova infatti senza eccezione in tutte le rappresentazioni
e i rapporti tra rappresentazioni; in essa non c'è mai un crite-
rio per decidere sulla questione del valore. Se la filosofia pre-
kantiana trattava quindi sempre il problema gnoseologico nel
senso di cercare l’origine delle rappresentazioni, e portava avan-
ti il dibattito sulla questione se le nostre conoscenze siano fon-
date, per quanto riguarda la loro origine, sull’esperienza o su
concetti innati, o su entrambi (e secondo quali rapporti tra i
due termini), sul terreno di questa impostazione psicologica il
problema non poteva mai essere deciso. Per la psicologia può
essere interessante stabilire se una rappresentazione è sorta per
l'una o per l’altra via: ma per la teoria della conoscenza la
WILHELM WINDELBAND 289
questione è soltanto se le rappresentazioni siano valide, cioè se
possano essere riconosciute come vere.
La grandezza di Kant risiede proprio nel fatto che, con un
lavoro intellettuale indicibilmente arduo e complicato, si è ele-
vato al di sopra dei pregiudizi della filosofia della sua epoca
fino al punto di vista secondo cui per il valore di verità di una
rappresentazione è del tutto indifferente il processo naturale del
suo pervenire alla coscienza. Il modo e la maniera in cui, sulla
base di leggi psicologiche, perveniamo come individui, come
popoli, come genere umano alla produzione di determinate
rappresentazioni e alla fede nella loro correttezza, non deci-
dono per nulla del loro valore assoluto di verità. Il processo
naturale del corso della rappresentazione può, nell’individuo
come in tutti, condurre egualmente all’errore come alla verità;
esso domina dovunque, e perciò la sua indicazione non costitui-
sce una prova della validità di certe rappresentazioni in anti-
tesi ad altre.
Se in definitiva anche Kant si è visto quindi costretto, nella
sua rinuncia alla precedente metafisica, a definire la filosofia
come metafisica non delle cose ma del sapere, per lui questa
teoria della conoscenza non era una storia dello sviluppo indivi-
duale o storico-culturale, e neppure una teoria genetico-psicolo-
gica, bensì un’indagine critica. Poco importa come, per quali
motivi e secondo quali leggi sono pervenuti alla coscienza,
nell’individuo o nel genere umano, quei giudizi per i quali si
pretende una validità universale e necessaria — la filosofia non
indaga la loro causalità, bensì la loro fondazione: essa non è
spiegazione, ma critica.
Non è qui il luogo* di approfondire con quali mezzi e in
a. A. questo proposito l’autore rimanda all’esposizione della filosofia
kantiana, condotta dal punto di vista sopra sviluppato, che è contenuta
nella sua Geschichte der neueren Philosophie, Leipzig, 4° ed. 1907, vol. II.
Per coloro che si occupano più da vicino di questa difficile questione, ag-
giungo esplicitamente che la soluzione del problema, i suoi presupposti e
il suo metodo devono essere tratti unicamente dalla Critica della ragion pu-
ra, mentre i Prolegomeni espongono soltanto la storia della scoperta kantia-
na, cioè il processo psicologico attraverso cui egli è stato condotto alla com-
prensione di questa « verità ». Cfr. anche la mia Geschichte der Philosophie
cit., $$ 38-40.
19. STORICISMO TEDESCO.
290 WILHELM WINDELBAND
quale modo Kant abbia compiuto questa critica, o mostrare
come abbia faticosamente elaborato il nuovo principio per sot-
trarlo agli intrecci di una considerazione psicologistica. Qui è
sufficiente far risalire in piena chiarezza il concetto assolu-
tamente nuovo di filosofia che la critica kantiana ha inaugu-
rato. In quanto filosofia teoretica, essa vuol essere soltanto
un’indagine sulla legittimità con cui si attribuisce a certe rap-
presentazioni e rapporti tra rappresentazioni il carattere di una
superiore necessità e validità universale, che oltrepassano la ne-
cessità dell’origine empirica. Le rappresentazioni vanno e ven-
gono; come ciò avvenga, può spiegarlo la psicologia: la filoso-
fia indaga quale sia il valore che ad esse spetta dal punto di
vista critico della verità.
Questo principio, sviluppato dapprima per la teoria della
conoscenza e nell’elaborazione del suo compito specifico, viene
da Kant esteso con grande consequenzialità. La conoscenza
scientifica non è l’unico campo della vita psichica in cui noi
distinguiamo — tra i fenomeni condizionati per quanto ri-
guarda il loro processo causale in modo conforme a leggi na-
turali — quelli a cui si attribuisce un valore necessario e univer-
salmente valido e quelli in cui ciò non avviene. Nel campo
morale assumiamo lo stesso valore, completamente indipenden-
te dal modo di origine psicologica, per valutare la bontà o la
cattiveria delle azioni, dei sentimenti e dei caratteri; nel cam-
po estetico lo assumiamo per valutare quei sentimenti particola-
ri che, senza alcun riferimento a scopi consapevoli o a interessi
di qualsiasi specie, caratterizzano il loro oggetto come gradevo-
le o sgradevole. In entrambi questi campi spetta quindi alla
filosofia il compito, del tutto parallelo al compito della teoria
della conoscenza, di indagare la legittimità di tali pretese. An-
che qui non si tratta di una quaestio facti, ma di quaestio iuris.
In questa generalizzazione la filosofia « critica » si manifesta
come la scienza delle determinazioni di valore necessario e
universalmente validi. Essa indaga se esista una scienza, cioè
un pensiero che possegga con validità universale e necessaria il
valore della verità; indaga se esista una morale, cioè un volere
e un agire che posseggano con validità universale e necessaria il
valore del bene; indaga se esista un'arte, cioè un intuire e un
sentire che posseggano con validità universale e necessaria il
WILHELM WINDELBAND 29I
valore della bellezza. In tutte queste tre parti la filosofia sta
dinanzi al suo oggetto — e quindi nella prima parte, quella
teoretica, anche dinanzi alla scienza — non come le altre scien-
ze stanno di fronte ai loro oggetti particolari, bensì criticamen-
te, cioè in modo da sottoporre a esame il materiale effettivo del
pensare, del volere, del sentire in base allo scopo della validità
universale e necessaria, e in modo da escludere e da respingere
tutto quanto non regge a questo esame. In tal modo — per
citare soltanto l’esempio più eminente e più noto — Kant
dimostra che la metafisica nel vecchio senso di scienza dell’in-
tuizione del mondo non può essere stabilita con validità univer-
sale, per quanto necessariamente l'impulso psicologico del sape-
re possa condurre a ciò.
È facile capire in quale rapporto specifico, di comprensività
e tuttavia di completa trasformazione, questa nuova determina-
zione concettuale della filosofia stia con quelle precedenti. Que-
sta filosofia lascia cadere completamente la pretesa di costituire
tutta la scienza; ma in quanto indaga nella sua parte teoretica i
fondamenti su cui poggia la validità universale di ogni pensie-
ro scientifico, assume l’intero ambito delle scienze come pro-
prio oggetto. Essa lascia però a una scienza particolare — alla
psicologia — il compito di comprendere la storia evolutiva e la
conformità alle leggi di questo suo oggetto, per indagare da
parte sua su che cosa si fonda il valore di verità delle rappresen-
tazioni, quale che ne sia l’origine. In quanto però estende
questa sua critica a tutte le determinazioni di valore universal-
mente valide dello spirito razionale, essa appare come indagine
generale sui valori supremi; e se la trasformazione successiva
del senso del termine « filosofia » era caratterizzante del signift-
cato attribuito nelle varie epoche alla conoscenza scientifica,
nella risposta complessiva alle questioni critiche fornita con le
sue tre grandi opere Kant diede anche una formulazione total-
mente nuova di questo interesse, cioè una formulazione adegua-
ta alle condizioni della cultura contemporanea *?.
Come si è già ricordato, molto tempo doveva trascorrere
prima che il principio kantiano fosse inteso e pervenisse a un
a. Si veda, in questo stesso volume, il discorso su Kant [Immanuel
Kant: zur Sikularfeser seiner Philosophie, in Praludien, 1° ed., pp. 112-45].
292 WILHELM WINDELBAND
predominio esclusivo. Tra i suoi successori Herbart è stato quel-
lo che vi si è maggiormente attenuto dal punto di vista forma-
le. Altri hanno immediatamente tradotto i suoi risultati in una
metafisica o in una scienza filosofica universale, le cui determi-
nazioni ultime essi dovevano poi, per esplicita ammissione,
cercare in postulati etici o in intuizioni estetiche. Molti hanno
pensato di limitare nuovamente la filosofia a una teoria della
conoscenza, e la maggior parte di questi sono ricaduti, o con
indagini autonome o riproducendo teorie del secolo xvni,
nella tendenza psicologica. Non sono mancate neppure le ri-
chieste di ricondurre la filosofia a un’indagine esclusiva di ciò
che ha significato per gli scopi pratici della vita umana.
Tutti questi tentativi sottostanno all’uno o all’altro perico-
lo: essi negano il carattere specifico della filosofia facendone o
una scienza in generale o una scienza delimitata in modo preci-
so rispetto alle altre. Nel primo caso fanno della filosofia un
«romanzo » di concetti, nell’altro un ragù composto di rifiuti
provenienti dalla psicologia e dalla storia della cultura. La filo-
sofia può rimanere o diventare scienza autonoma soltanto se
porta alle estreme conseguenze, con pienezza e rigore, il princi-
pio kantiano. Senza quindi disconoscere la mutevolezza storica
del significato del termine «filosofia », senza rifiutare a nessu-
no il diritto di chiamare «filosofia » ciò che gli aggrada, fac-
cio per l'appunto uso di questo diritto derivante dalla mancan-
za di un saldo significato storico — sulla base dell’analisi stori-
ca sviluppata — intendendo per filosofia in senso sistematico, e
non storico, la scienza critica dei valori universalmente validi.
La scienza dei valori universalmente validi designa gli oggetti;
la scienza critica designa il metodo della filosofia.
Sono convinto che tale concezione non è che Ja realizzazio-
ne compiuta dell'idea fondamentale di Kant. Ma non mi sarei
mai permesso di pretendere per questa definizione il nome di
« filosofia » se non potessi dimostrare in modo convincente —
indipendentemente dallo sviluppo storico, e senza fare uso
delle formule della dottrina kantiana — la necessità di una
scienza particolare del genere, in cui il nome svolazzante di
« filosofia » possa trovare un solido appiglio. Da quando Kant
ha fatto stare in piedi l’uovo di Colombo, non è difficile
ripetere il trucco.
WILHELM WINDELBAND 293
Tutte le proposizioni in cui esprimiamo i nostri punti di
vista si distinguono, nonostante l'apparente identità grammati-
cale, in due classi che devono essere esattamente separate l’una
dall’altra: i giudizi e le valutazioni. Nei primi viene espressa
la connessione tra due contenuti rappresentativi, nelle seconde
è espresso un rapporto della coscienza giudicante con l'oggetto
rappresentato. Vi è una fondamentale differenza tra le due
proposizioni « questa cosa è bianca» e «questa cosa è buo-
na », nonostante che la loro forma grammaticale sia del tutto
identica. In entrambi i casi al soggetto (secondo la forma gram-
maticale) viene attribuito un predicato; ma questo predicato è
in un caso — in quanto predicato del giudizio — una determi-
nazione compiuta in sé, ricavata dal contenuto di ciò che è
oggettivamente rappresentato, nell'altro è — in quanto predica-
to della valutazione — una relazione che rimanda a una co-
scienza la quale pone uno scopo. In un giudizio si esprime
ogni volta il fatto che una determinata rappresentazione (il
soggetto del giudizio) viene pensata in una relazione, diversa
secondo le diverse forme di giudizio, con un’altra determinata
rappresentazione (predicato del giudizio). In una valutazione,
invece, a un oggetto rappresentato nella sua completezza, e
quindi presupposto come conosciuto (il soggetto della proposi-
zione valutativa), viene aggiunto il predicato della valutazione,
mediante il quale non si accresce affatto la conoscenza del
soggetto in questione, ma si esprime il sentimento di approva-
zione o di disapprovazione con cui la coscienza valutante sta
in rapporto con l’oggetto rappresentato. Tutti i predicati del
giudizio sono quindi rappresentazioni positive, le quali si riferi-
scono al mondo rappresentato come concetti di genere, come
qualità, attività, stati, rapporti ecc. Una cosa è il corpo, che è
grande, duro, dolce ecc., che si muove, urta, si arresta, ne
trascina altri ecc. Tutti i predicati della valutazione sono inve-
ce espressioni dell'accordo o disaccordo da parte della coscienza
rappresentante: una cosa è gradevole o sgradevole, un concetto
è vero o falso, un'azione è buona o cattiva, un paesaggio è
bello o brutto ecc. È chiaro che una valutazione non contribui-
sce affatto alla comprensione dell'essenza dell’oggetto valutato.
La cosa deve anzi essere presupposta come nota, cioè come
compiutamente rappresentata, prima che abbia un senso dire di
294 WILHELM WINDELBAND
essa che è gradevole, buona, bella ecc. E tutti questi modi di
predicare della valutazione hanno senso soltanto nella misura
in cui si prende in esame se l'oggetto rappresentato corrispon-
da o no a uno scopo in base al quale la coscienza valutante lo
concepisce. Ogni valutazione presuppone, come sua misura,
uno scopo determinato, e ha senso e significato soltanto per
chi riconosce tale scopo. Ogni valutazione compare quindi nel-
la forma alternativa dell’approvazione o della disapprovazione.
Il soggetto rappresentato della proposizione corrisponde o non
corrisponde allo scopo, e per quanto diversi siano i gradi di
corrispondenza o di non corrispondenza (cioè di contraddizio-
ne), e altrettanto diversi siano quindi i gradi di approvazio-
ne e di disapprovazione, dev’esserci o accordo o disaccordo se
si vuol parlare in generale di una valutazione conseguente.
Questa distinzione tra giudizi e valutazioni sarebbe meglio
compresa nel suo significato fondamentale e di ampia portata
se non effettuassimo sempre una particolare combinazione tra i
due elementi. I giudizi, cioè le connessioni puramente teoreti-
che tra rappresentazioni, che si compiono in forme diverse,
vengono formulati — nel processo della rappresentazione comu-
ne come nella vita scientifica — solamente in quanto viene ad
essi accordato o negato un valore che supera la necessità dell’as-
sociazione, conforme alle leggi naturali, cioè in quanto vengo-
no dichiarati veri o falsi, affermati o negati. Nella misura in
cui il nostro pensiero è orientato verso la conoscenza, cioè
verso la verità, tutti i nostri giudizi sottostanno subito a una
valutazione che esprime la validità o non validità della connes-
sione tra rappresentazioni compiuta nel giudizio. Il giudizio
puramente teoretico è dato propriamente soltanto nella doman-
da o nel cosiddetto giudizio problematico, nei quali si compie
solamente un certo collegamento tra rappresentazioni, ma non
ci si esprime sul loro valore di verità. Non appena un giudizio
viene affermato o negato, insieme con la funzione teoretica si è
compiuta anche quella di una valutazione dal punto di vista
della verità. A questa valutazione che si aggiunge al giudizio
non diamo nessuna espressione linguistica quando la valutazio-
ne è affermativa, poiché la tendenza al valore di verità dei
giudizi viene presupposta come ovvia nella comunicazione, men-
tre la disapprovazione si esprime mediante la negazione. Ogni
WILHELM WINDELBAND 295
asserzione cosiddetta affermativa (A è B) implica quindi l’opi-
nione che il giudizio, il quale connette le rappresentazioni A e
B nel modo espresso, deve valere come vero; e ogni asserzione
negativa (4 non è B) implica l’opinione che quel giudizio già
espresso, o di cui si teme la formulazione, dev'essere ritenuto
falso. Tutte le proposizioni conoscitive contengono quindi im-
mediatamente una combinazione di giudizio e di valutazione:
sono connessioni tra rappresentazioni del cui valore di verità si
decide affermando o negando?*.
La distinzione tra giudizio e valutazione è quindi della mas-
sima importanza, poiché su di essa si fonda l’unica possibilità
che ci è rimasta di determinare la filosofia come scienza partico-
lare, profondamente distinta dalle altre già in virtù dell’ogget-
to. Tutte le altre scienze devono infatti stabilire un giudizio
teoretico: l'oggetto della filosofia è costituito invece dalle valuta-
zioni.
Le scienze particolari devono, in quanto scienze storiche o
descrittive, formare giudizi che attribuiscano a determinati og-
getti, dati all’interno dell'esperienza, determinati predicati —
in parte singolari e in parte costanti — di qualità, di stati, di
attività, di rapporti con altri oggetti; oppure, in quanto scienze
esplicative, devono ricercare quei giudizi generali da cui è possi-
bile derivare, come casi specifici, tutte le qualità, gli stati, le
attività e le relazioni delle cose particolari. Una scienza natura-
le descrittiva constata che a una determinata cosa — per esem-
a. Questa distinzione — estremamente importante, anzi fondamentale
per la logica — tra i due elementi del « giudizio », appena sfiorata da
Descartes nella quarta Meditazione e trattata di sfuggita da J. F. Fries
(Neue Kritik, Heidelberg, 1807, vol. I, p. 208 sgg.), è stata recata a una
precisa comprensione soltanto nella logica moderna in virtù delle indagini
sul giudizio negativo di C. Stowart (Logik, Tiibingen, 1873-78, vol. I, $
20), di R. H. Lotze (Logik, Leipzig, 1874, p. 61) e specialmente di J. Berc-
Mann (Reine Logik, Berlin, 1879, vol. I, p. 177 sgg.). Dal punto di vista
psicologico ha richiamato l’attenzione su di essa, anche se in forma baroc-
ca, F. Brentano (Psychologie, Wien, 1874, vol. I, p. 266 sgg.). Sull'argo-
mento si vedano i mici Beitràge zur Lehre vom negativen Urteil, nelle
Strassburger Abhandlungen zur Philosophie: Eduard Zeller zu seinem
stebenzigsten Geburstage, Freiburg i.B. - Tiibingen, 1884, pp. 165-95, e il
saggio Vom System der Kategorien, nelle Philosophische Abhandlungen,
C. Sigwart zu seinem siebzigsten Geburtstage, Tibingen, 1900, pp. 41-58.
296 WILHELM WINDELBAND
pio a una pianta o a un organismo psichico — spettano questi
o quei predicati, o in modo costante o subordinatamente a
certe condizioni; una scienza storica deve accertare che singoli
uomini o popoli si sono trovati in questi o quei rapporti, hanno
compiuto queste 0 quelle azioni, hanno vissuto questi o quei
destini. Una scienza esplicativa stabilisce col nome di leggi
quei giudizi generali dai quali, nella loro qualità di premesse
maggiori, deriva come conseguenza necessaria il corso dei muta-
menti in cui le cose reali e le loro situazioni stanno in rap-
porto reciproco di causa o effetto. Le scienze matematiche,
infine, formulano — indipendentemente da qualsiasi evento
temporale — giudizi generali sulla necessità intuitiva con
cui le forme spaziali e numeriche stanno tra loro in relazioni
determinate.
Tutti questi giudizi, per quanto siano particolari in un caso
e generali nell’altro, per quanto variamente e diversamente si
configuri il loro significato gnoseologico, contengono connessio-
ni tra rappresentazioni, cioè connessioni tra un soggetto rappre-
sentato e un predicato rappresentato, il cui valore di verità
deve venir determinato dalla scienza. In base al presupposto
che ad alcuni dei giudizi possibili si attribuisce la verità e ad
altri no, le scienze cercano di stabilire l'ambito complessivo di
quanto dev'essere oggetto di affermazione, e a tale scopo di
negare con una motivazione esplicita ciò che rischia di essere
affermato erroneamente. Esse compiono quindi nel campo del
conoscere affermazioni e negazioni, approvazioni e disapprova-
zioni, e nella loro articolazione estendono tale attività a tutti
gli oggetti accessibili in generale alla comprensione umana.
Da questo punto di vista alla filosofia non rimane più nien-
te da fare. Essa non può voler essere né una scienza descrit-
tiva, né una scienza esplicativa, né una scienza matematica:
trova tutti i gruppi di oggetti già occupati dalle scienze partico-
lari, che si riferiscono ad essi in una di queste tre maniere, e
consisterebbe soltanto di prestiti se volesse, con scelta arbitra-
ria, abbracciarne qualcuno. Il compito della filosofia non può
consistere nell’affermare o nel negare, come fanno le altre scien-
ze, giudizi in cui devono venir riconosciuti, descritti o spiegati
determinati oggetti.
L'oggetto che ad essa rimane è costituito dalle valutazioni.
WILHELM WINDELBAND 297
Ma anche nei loro confronti deve, se vuol essere autonoma,
porsi in un rapporto totalmente diverso da quello che le altre
scienze hanno con i loro oggetti. La filosofia non deve né
descrivere né spiegare le valutazioni: questo è compito della
psicologia e della storia della cultura. Ogni valutazione è la
reazione di un individuo che vuole e sente di fronte a un
determinato contenuto rappresentativo. È un processo della vi-
ta psichica che risulta necessariamente per un verso dallo stato
di bisogno, per l’altro dal contenuto della rappresentazione. Ma
sia il contenuto della rappresentazione sia lo stato di bisogno
sono a loro volta prodotti necessari del movimento complessivo
della vita, Come tali essi devono venir compresi; e dal momen-
to che non basta a spiegarli la psicologia individuale — poiché
gli scopi e i bisogni in base a cui l'individuo sottopone a
esame il proprio contenuto rappresentativo per approvarlo o
disapprovarlo sono per molti versi comprensibili soltanto in ba-
se al movimento della società — bisogna far intervenire la
storia dello sviluppo della cultura umana per comprendere in
tutta la sua estensione l’origine conforme a leggi delle valutazioni
e per riconoscere le leggi secondo cui procedono tali valutazioni.
La trattazione psicologica e storico-evolutiva delle valutazio-
ni e della loro conformità a leggi costituisce quindi di per sé
un problema del tutto legittimo della scienza esplicativa dello
spirito. La scienza esplicativa assolverebbe il suo compito soltan-
to in modo incompleto se si arrestasse di fronte a questi fatti.
In base alle leggi psicologiche e ai movimenti dello spirito
sociale è necessario spiegare in quale modo le forme di valuta-
zione riconosciute nella nostra coscienza comune siano sorte
attraverso il suo sviluppo naturale, come noi abbiamo imparato
a distinguere il vero, il bene, il bello dai loro contrari, e come
il modo e la maniera particolare in cui effettuiamo tali valuta-
zioni, cioè la configurazione specifica che abbiamo assegnato a
questi scopi supremi che determinano la misura e il valore,
siano condizionati dalla necessità della nostra storia. Queste
indagini corrispondono perciò a un compito incontestabile della
scienza: non costituiscono una disciplina autonoma, ma devono
essere messe insieme da vari capitoli della psicologia e della
storia della cultura. Chi voglia chiamare «filosofia » queste
combinazioni quanto mai interessanti — come fanno fin dall’e-
298 WILHELM WINDELBAND
tà illuministica i « filosofi » inglesi e francesi e come, imitando-
li, è accaduto qua e là anche da noi — /adeat sibi: non
intendiamo discutere sui nomi. Però dobbiamo protestare in
nome della filosofia tedesca inaugurata da Kant se con tale
denominazione si vuol importare anche da noi l’opinione super-
ficiale che non esista, al di là di questa storia dello sviluppo
psicologico e storico-culturale, nessun compito scientifico supe-
riore.
La filosofia, quale noi la intendiamo, ha un punto di parten-
za del tutto diverso. Tutte le valutazioni che si compiono
negli individui e nella società sono prodotti necessari della vita
psichica. Da questo punto di vista esse sono tutte egualmente
legittime: comunque siano apparse, hanno tutte — una volta
apparse — una causa sufficiente. Senza di queste, infatti, non
sarebbero apparse. Come fatti empirici, quali vengono spiegati
dalla psicologia e dalla storia evolutiva, esse semplicemente esi-
stono alla stessa stregua. Appartengono alla realtà empirica e, co-
me oggi ogni altra cosa, hanno cause sufficienti di esistenza e le
loro leggi di origine e di movimento; sottostanno a tali leggi
come gli oggetti a cui le valutazioni si riferiscono e che, in
quanto fatti empirici, sono sottoposti alla stessa necessità natura-
le conforme a leggi. Le sensazioni e le rappresentazioni con i
sentimenti di piacere e dispiacere che esse suscitano; le connes-
sioni tra rappresentazioni insieme alla certezza con cui vengo-
no dichiarate vere o false; le determinazioni della volontà e le
azioni, come le valutazioni in virtù delle quali vengono caratte-
rizzate come buone o cattive; le intuizioni e i sentimenti che le
valutano come belle o brutte — tutto questo è, come fatto
empirico dello spirito umano individuale o generale, prodotto
necessario di condizioni e leggi date. Tuttavia — e questo è il
fatto fondamentale della filosofia — siamo incrollabilmente
convinti che, accanto a questa necessità naturale che coinvolge
tutte le valutazioni e i loro oggetti senza eccezione, vi sono
certe valutazioni le quali valgono in modo assoluto anche se di
fatto non pervengono a un riconoscimento 0 per lo meno non
pervengono a un riconoscimento generale. Certamente ognuno
pensa necessariamente così come pensa, e ritiene vere le rappre-
sentazioni sue o di altri perché tali deve necessariamente rite-
nerle: tuttavia siamo convinti che di fronte a questa necessità
WILHELM WINDELBAND 299
del ritenere vero, che si compie secondo una legalità naturale,
vi è wna determinazione di valore assoluta in base a cui si deve
decidere del vero o del falso, non importa che ciò accada o no
di fatto.
Noi tutti abbiamo questa convinzione: infatti nella misura
in cui dichiariamo vera una qualsiasi rappresentazione in base
al corso necessario del nostro rappresentare, questa dichiarazio-
ne non significa altro se non la pretesa che ciò debba valere
non soltanto per noi, ma per tutti gli altri. Non importa se
tale pretesa venga soddisfatta nel caso singolo, se sia giustifi-
cata nel caso singolo: ma è chiaro che la valutazione delle
rappresentazioni dal punto di vista della verità presuppone un
criterio assoluto di questo genere, che deve valere per tutti. La
stessa cosa vale per i campi dell'etica e dell’estetica. Certamen-
te ciò che uno giudica buono o cattivo da un lato, bello o brutto
dall’altro, è condizionato secondo leggi dalla situazione cultura-
le e dal corso della vita personale di ciascuno; ma in entrambi i
casi le predicazioni in tal modo espresse implicano la pretesa di
valere per tutti e di essere necessariamente riconosciute da ognu-
no nello stesso modo. Per quanto queste valutazioni si configu-
rino in modo relativo nella loro realtà empirica, si elevano pur
sempre alla pretesa di una validità assoluta, e trovano il loro
senso nel presupporre la possibilità di una valutazione assoluta.
Sono questa pretesa e questo presupposto a distinguere le tre
forme caratteristiche di valutazione — che possiamo chiamare
di valutazione logica, etica ed estetica — da tutte le mille forme
di valutazione in cui si esprime soltanto il sentimento individua-
le di piacere o dispiacere per un oggetto rappresentato. A chi
prova piacere per un colore, a chi gusta una cosa *, a chi prova
gioia in un oggetto perché ne trae un qualche vantaggio non
capiterà mai, purché sia provvisto di buon senso, di pretendere
che tutti gli altri facciano propria la sua valutazione. La confor-
mità alle leggi delle funzioni psicologiche comporta certamente
il fatto che in esseri organizzati in modo eguale o analogo
tendano a comparire le stesse sensazioni, e con la stessa intensi-
a. Il modo di esprimersi abituale parla, con la fluidità delle sue desi-
gnazioni, anche di un gustare e di un odorare « buono » o « bello ». È au-
spicabile che nell’espresssione scientifica si eviti sempre questa negligenza.
300 WILHELM WINDELBAND
tà di sentimento. Ma se, in virtù di qualche disturbo abituale
o di una disposizione momentanea, questo o quell’individuo
diverge da questa maniera generale di sentire, in ciò non vedia-
mo una cosa degna di particolare attenzione e non ce ne stupia-
mo affatto. Quanto più però risaliamo da queste tonalità ele-
mentari del sentire ai sentimenti molto più vari e complessi di
piacere e dispiacere, che sono connessi a rappresentazioni com-
poste di cose e di rapporti tra cose, tanto più si restringe —
senza che ciò ci meravigli o ci colpisca — l’accordo tra gli
individui. La molteplicità delle combinazioni non consente, no-
nostante l’identità conforme a leggi dei processi fondamentali,
un'identità di risultati. Nessuno presuppone una validità univer-
sale per i propri sentimenti di piacere o di dispiacere; nessuno
pensa neppure che vi sia un criterio assoluto con cui determina-
re per chiunque la valutazione del carattere gradevole delle
cose. Una pretesa siffatta non ha senso, e un’edonistica, cioè
una dottrina del piacere, può essere soltanto un capitolo della
psicologia e della storia evolutiva, mai una disciplina filosofica.
Chi addossa quindi alla filosofia Ia responsabilità di decide-
re nella polemica tra ottimismo e pessimismo, chi esige da essa
che pronunci un verdetto assoluto sulla questione se il mondo
sia più adatto alla produzione di piacere che di dispiacere o
viceversa, costui lavora — supposto che proceda a un livello
superiore al dilettantismo — in base all’illusione di trovare
una determinazione assoluta per un campo in cui nessun uomo
ragionevole l’ha mai cercata. Di una valutazione dell’universo
dal punto di vista edonistico si potrebbe infatti parlare soltanto
se esistesse un metro di legittimazione per i sentimenti soggetti-
vi di piacere e dispiacere. Ma siccome questo manca, agli otti-
misti e ai pessimisti non rimane che mettersi a fare un calcolo
approssimativo dei singoli sentimenti empirici di piacere e di
dispiacere e una valutazione dei loro rapporti di quantità e di
intensità, che è priva di qualsiasi base solida. Se qualcuno vuol
chiamare tutto ciò filosofia, fabeat sibi; io lo considero una
scarica dell'impulso al piacere, che appartiene alla storia della
patologia del pensiero umano?.
a. Cfr. il mio Der Pessimnismus und die Wissenschaft, « Der Salon »,
1877, nn. 7-8.
WILHELM WINDELBAND 301
Una volta esclusa l’edonistica rimangono soltanto tre forme
di valutazione in cui la pretesa di universalità si impone come
elemento essenziale — cioè le forme caratterizzate dalle tre
coppie di concetti del vero e del falso, del bene e del male, del
bello e del brutto. Vi sono dunque soltanto tre scienze fonda-
mentali propriamente filosofiche: la logica, l’etica e l'estetica.
La psicologia * è una scienza empirica in parte descrittiva e in
parte esplicativa; la metafisica nel vecchio senso di un sapere
dogmatico concernente i fondamenti ultimi di tutta la realtà è
un’assurdità: invece la teoria della conoscenza, la filosofia del-
la natura, la filosofia della società e della storia, la filosofia
dell’arte e la filosofia della religione sono legittimate solamente
in quanto vengano trattate non in senso metafisico ma in senso
critico, dal punto di vista di quelle tre scienze filosofiche fonda-
mentali, come loro ramificazioni, applicazioni o integrazioni.
In tutte e tre occorre quindi prendere in esame la pretesa
della valutazione logica, etica ed estetica a una validità univer-
sale. Bisogna osservare subito che a un’identica impostazione
problematica corrisponde un’indagine metodologicamente iden-
tica e sistematicamente parallela per le tre discipline; ma non
per questo viene minimamente condizionata o pregiudicata
un'identità del risultato e della risposta. Si potrebbe per esem-
pio pensare che la filosofia critica confermi il diritto della
valutazione logica a una validità universale, e che invece si
veda costretta o a respingere del tutto o a riconoscere soltanto
con limitazioni assai rilevanti la pretesa corrispondente in uno
degli altri due campi. In questo caso il campo in questione sa-
rebbe totalmente abbandonato, proprio a causa della mancanza
di un criterio assoluto, alla trattazione psicologica e storico-evolu-
tiva. Ma poiché è presente la pretesa a una validità universale, e
poiché tale pretesa non può venir presa in esame né dalla
scienza descrittiva né dalla scienza esplicativa, dev’esserci assolu-
tamente un'indagine filosofica, anche se questa dovesse portare
a risultati semplicemente negativi. Anche chi dovesse dunque
pervenire con indagini critiche o anche mediante una prevenzio-
a. Ho già difeso la causa della completa separazione della psicologia
dalla filosofia nella mia prolusione zurighese Uber den gegenivàrtigen Stand
der psychologischen Forschung, Leipzig, 1876.
302 WILHELM WINDELBAND
ne più o meno chiara alla convinzione che nell’uno o nell’altro
di questi campi — o anche in tutti e tre — sono possibili
sempre e soltanto valutazioni relative (come avviene nel campo
dell’edonistica) e mai valutazioni assolute, sarebbe tuttavia co-
stretto ad ammettere il fatto della pretesa a quest'ultime, e
pertanto a concedere la legittimità dell’impostazione filosofica.
E solo di questo qui si tratta: non si debbono anticipare i
risultati della filosofia.
Se l’oggetto della filosofia è così determinato, ci si domanda
in che cosa consista la critica a cui esso deve venir sottoposto, e
quale sia il procedimento scientifico che la rende possibile.
Se qui si è sempre parlato anzitutto della pretesa alla validi-
tà universale e alla necessità delle valutazioni logiche, etiche
ed estetiche, occorre indicare con maggiore esattezza che questa
validità universale non è una validità di fatto e che la necessità
non è necessità causale. Chi è convinto della verità di un giudi-
zio è di solito ben lontano dal credere che questo giudizio sia
riconosciuto, o anche soltanto possa venir riconosciuto, da tutti.
Nella nostra lotta per la verità, l’universalità effettiva del rico-
noscimento è una prospettiva del tutto esclusa. D'altra parte,
per situazioni culturali inferiori c'è senza dubbio una validità
universale effettiva di rappresentazioni e di modi di valutazio-
ne che sono manifestamente erronee e sbagliate. L'importante
non è quindi che tutti gli esemplari della specie Homo sapiens
siano unanimi nel riconoscimento di un giudizio; e neppure è
possibile trovare, attraverso un’induzione comparativa delle va-
lutazioni reali, una validità universale in senso filosofico. Poi-
ché cause identiche hanno effetti identici è possibile — e accade
di fatto in mille modi — che gli stessi motivi provochino
ovunque lo stesso errore. Per la verità o la falsità di una rappre-
sentazione è del tutto indifferente il numero degli uomini che
la riconoscono o la respingono. La validità universale di cui
qui si tratta non è una validità di fatto, bensì ideale; non è
una validità reale, ma una validità che dovrebbe essere.
Lo stesso discorso vale per la necessità di queste valutazio-
ni. Causalmente necessarie sono sia la pazzia sia la saggezza,
sia il peccato sia la virtù, sia il sentimento della bellezza sia il
suo contrario. Il sole della necessità naturale splende sui giusti
come sugli ingiusti. La necessità con cui sentiamo la validità
WILHELM WINDELBAND 303
delle determinazioni logiche, etiche ed estetiche è anch'essa una
necessità ideale: non è una necessità dell’essere costretti e del
non poter altrimenti, ma del dover essere e del non dover fare
altrimenti. È quella necessità superiore che non si esaurisce
completamente nella necessità naturale a cui sono sottoposti il
nostro rappresentare, il nostro volere e il nostro sentire; è la
necessità del dover essere. Nessuna legge naturale costringe l’uo-
mo a pensare, a volere e a sentire nel modo in cui dovrebbe
sempre pensare, volere e sentire secondo la necessità logica,
etica ed estetical
Se quindi la filosofia deve stabilire i princìpi della valutazio-
ne logica, etica ed estetica, non può limitarsi a chiedersi quali
determinazioni abbiano in questi campi una validità universale,
oppure a indagare quali si facciano valere o si siano fatte valere
con una necessità psicologica e storico-evolutiva. In nessuna di
queste due direzioni si può trovare un criterio di ciò che deve
avere validità. La massa, o anche soltanto la maggioranza, non
è il tribunale di fronte a cui si decide il valore assoluto, e
la dimostrazione delle cause del suo comportamento non è una
fondazione della sua legittimità.
D'altra parte nell’energia con cui il singolo si attiene, con-
tro un mondo che lo contraddice, a ciò che ha riconosciuto per
vero, buono o bello, non si manifesta l’ostinazione dell’arbitrio
individuale ma un impulso della convinzione che in lui si è
fatto strada qualcosa che dovrebbe valere per tutti e di cui non
può fare a meno. Entro la necessità naturale del movimento
della storia umana, certamente, la difesa di questa convinzione
può sembrare disperatamente analoga all’illusione personale: lo
scopritore di una nuova verità, il riformatore della vita etica,
il creatore di una nuova arte appare ai suoi contemporanei — e
forse anche a molte generazioni di posteri — come un infatua-
to. Ma per quanto sia difficile, anzi impossibile decidere nel
singolo caso quale dei due fenomeni sia presente in un dato
momento, tuttavia noi tutti crediamo nella possibilità di distin-
guere, noi tutti siamo convinti che — anche se non sempre lo
comprendiamo, e soprattutto se non lo comprendiamo subito
— esiste un diritto del necessario in senso superiore che dovreb-
be valere per tutti. Noi crediamo in una legge superiore a
304 WILHELM WINDELBAND
quella dell'origine naturale di tutte le nostre valutazioni: cre-
diamo a un diritto che ne determina il valore.
Ho detto che tutti ci crediamo. Non dimentico così quei
teorici del relativismo che in tutte queste determinazioni e con-
vinzioni non vedono altro che prodotti necessari della società
umana? Ma essi non intendono presentare la loro teoria soltan-
to come si trattasse di una semplice opinione; vogliono anzi
provarla e dimostrarla. E che cosa significa dimostrare? Signifi-
ca presupporre che al di sopra della necessità del movimento
delle rappresentazioni c'è una necessità superiore che tutti do-
vrebbero riconoscere. Chi dimostra il relativismo, lo annienta.
Il relativismo è una teoria in cui nessuno ha ancora veramente
creduto, in cui nessuno potrebbe credere: è una fable conve-
nue?.
Perciò ovunque la coscienza empirica scopre in sé questa
necessità ideale di ciò che deve valere universalmente, si imbat-
te in una coscienza normale, la cui essenza consiste per no: nel
fatto che noi siamo convinti che essa debba essere reale, del
tutto indipendentemente dalla realtà che riveste nel dispie-
garsi della coscienza empirica, sottoposto alla necessità natura-
le. Per quanto ristretto sia il grado e l’ambito in cui questa
coscienza normale penetra quella empirica e si fa valere all’in-
terno di essa, ciononostante tutte le valutazioni logiche, etiche
ed estetiche sono costruite in base alla convinzione che esista
una coscienza normale a cui dobbiamo elevarci se le nostre
valutazioni debbono pretendere una validità universale necessa-
ria: una coscienza normale che non vale nel senso del riconosci-
mento fattuale, ma che dovrebbe valere — e che perciò costitui-
sce non già una realtà empirica, ma un ideale in base a cui
dev'essere commisurato il valore di ogni realtà empirica. Le
leggi di questa «coscienza in generale » — secondo l’espressio-
ne kantiana — non sono più leggi naturali, che valgono in
ogni circostanza e secondo cui devono configurarsi i singoli
fatti, ma sono invece norme, che devono appunto valere e la
cui realizzazione determina il valore di ciò che è empirico.
a. Su questo, come su ciò che segue, si veda più particolarmente il sag-
gio Kritische oder genetische Methode?, raccolto in questo stesso volume
[Préludien, 1° cd., pp. 247-79]-
WILHELM WINDELBAND 305
La filosofia non è quindi altro che la riflessione su questa
coscienza normale, l'indagine scientifica intorno a quelle, tra
le determinazioni di contenuto e le forme della coscienza empi-
rica, che rivestono valore di coscienza normale. Nella coscien-
za empirica di un individuo, dei popoli, dell’umanità esse sor-
gono necessariamente così come sorgono stupidità, abiezioni,
mancanza di gusto: compito della filosofia è di rintracciare,
entro il caos dei valori individuali o effettivamente universali,
quelli a cui inerisce la necessità della coscienza normale. In
nessun caso è possibile derivare tale necessità da qualcosa: la si
può soltanto indicare; essa non viene prodotta, ma solo recata
alla coscienza. L'unica cosa che la filosofia può fare è di la-
sciar scaturire questa coscienza normale dai movimenti della
coscienza empirica e di confidare nell’evidenza immediata con
cui la sua normalità, non appena giunta a chiara coscienza, si
mostra operante e valida in ogni individuo, così come essa deve
valere. Un principio come il principio logico di non contraddi-
zione, o un principio come il principio morale della coscienza del
dovere, non sono dimostrabili. Nella vita reale delle rappresenta-
zioni e della volontà si può soltanto recarli alla coscienza, a una
chiara formulazione, e occorre confidare che in ognuno, purché
si rifletta seriamente, la coscienza normale si faccia valere e
riconoscere con evidenza immediata. Non potremmo più avere
alcun rapporto logico e scientifico con chi rifiutasse la validità
delle leggi del pensiero; non potremmo intenderci moralmente
con chi rifiutasse qualsiasi dovere. Il riconoscimento della co-
scienza normale è il presupposto della filosofia: è, in astratto,
il medesimo presupposto che sta in concreto a fondamento di
tutta la vita scientifica, etica ed estetica. Ogni intesa su qualco-
sa che gli individui debbono riconoscere al di sopra di sé come
norma valida, presuppone questa coscienza normale.
La filosofia è quindi la scienza della coscienza normale.
Essa penetra la coscienza empirica per stabilire in quali punti
emerga in questa tale validità universale normativa. È essa
stessa un prodotto della coscienza empirica, e non si contrappo-
ne a questa come qualcosa di proveniente dall’esterno; ma pog-
gia sulla convinzione — costitutiva di ogni valore della vita
umana — che in mezzo ai movimenti naturali della coscienza
20. STORICISMO TEDESCO.
306 WILHELM WINDELBAND
empirica abbia una necessità superiore, e indaga i punti in cui
questa viene alla luce.
Questa «coscienza in generale» è quindi un sistema di
norme che, come valgono oggettivamente, così devono pure
valere soggettivamente, e tuttavia soltanto in parte valgono nel-
la realtà empirica della vita spirituale dell’uomo. Solamente in
base ad essa si determina il valore del reale. Queste norme
rendono pertanto possibile formulare valutazioni universalmen-
te valide per la totalità degli oggetti che vengono conosciuti,
descritti e spiegati nei giudizi delle altre scienze. La filosofia è
la scienza dei princìpi della valutazione assoluta.
Non si incorrerebbe in contraddizione se si sostenesse che
questa coscienza normale è ciò che il linguaggio popolare inten-
de propriamente col termine «ragione », cioè l'elemento sovra-
individuale che deve valere universalmente, e perciò si potrebbe
chiamare la filosofia scienza della ragione. Ma preferisco rinun-
ciare a questa denominazione perché il termine «ragione» è
stato usato dai filosofi tedeschi con significati così diversi che
il suo impiego in una definizione sarebbe equivoco e darebbe
luogo a vari malintesi.
La filosofia come scienza della coscienza normale è essa
stessa un concetto ideale che non è realizzato e la cui realizza-
zione — come risulterà anche in seguito — è possibile solo
entro certi limiti: le fondamenta per la sua costruzione sono
state poste dalla filosofia kantiana. Ma dal punto di vista di
questo concetto anche ciò che si chiama storia della filosofia, e
che dev'essere trattato come tale, acquista subito un altro aspet-
to ben definito.
La validità della coscienza normale come misura assoluta di
valutazione logica, etica ed estetica sta sì, come presupposto
imprescindibile, a base di tutte le funzioni superiori dell’uomo
e soprattutto di quelle che, in quanto prodotti della cultura
sociale, hanno come contenuto la creazione e la conservazione
di ciò che sta al di sopra dell’arbitrio degli individui; ma si
manifesta in primo luogo come impregiudicata e ovvia subordi-
nazione a una coscienza complessiva prodotta dal processo ne-
cessario dell'anima del popolo. Soltanto in seguito alla scossa
che questo subisce subentra la riflessione su una misura ideale a
cui tutti dovrebbero piegarsi, e da tale riflessione si sviluppa la
WILHELM WINDELBAND 307
tendenza a elevarsi a questa coscienza normale, a farla valere
nella coscienza empirica. Ma lo spirito umano non si identifica
con questa coscienza ideale: esso sottostà alle leggi del suo
movimento naturale, e soltanto a tratti conduce a un risultato
in cui si afferma l’evidenza immediata della validità normativa.
Il processo storico dello spirito umano può quindi essere
considerato dal punto di vista secondo cui si è gradualmente
manifestata in esso — in mezzo al lavoro sui singoli problemi,
al mutare dei suoi interessi, all’intreccio dei suoi fili particolari
— la coscienza delle norme, e secondo cui esso rappresenta, nel
suo movimento progressivo, una penetrazione sempre più pro-
fonda e comprensiva della coscienza normale. Nulla impedisce
di concepire, in base a questa determinazione del concetto di
filosofia, la progressiva consapevolezza delle norme come il
senso autentico della storia della filosofia. Questa è appunto
una delle linee che, muovendo da un saldo concetto della filoso-
fia, si può ricostruire all’interno della storia, senza però preten-
dere di abbracciare in tal modo tutto il suo contenuto così
ramificato. Questa linea corre lungo le vette che, sull’ampio
sfondo delle altre rappresentazioni, hanno raggiunto l’etere del-
la coscienza normale, e designa anche le più alte frastagliature
dello sviluppo storico-culturale. Infatti la riflessione sulle nor-
me assolute è semplicemente il prodotto di ogni attività cultura-
le, e alla filosofia rivendichiamo soltanto il compito di recarle
alla coscienza nella loro connessione e nella loro articolazione
necessaria, attraverso una indagine scientifica.
Una storia della filosofia di questo genere sarebbe quindi
una scelta che dovrebbe mostrare il progresso graduale in cui
lo spirito scientifico ha lavorato alla soluzione del compito che
abbiamo qui formulato.
Perciò essa non cessa affatto di essere una scienza empirica,
come dev'essere appunto ogni disciplina storica. Se si conside-
ra la storia dal punto di vista di un compito da risolvere,
allora si ha soprattutto il dovere di indicare il processo causale
attraverso cui essa ha proceduto per fasi successive alla sua
soluzione. I compiti non si realizzano da soli; essi vengono
realizzati. Anche le determinazioni della coscienza normale a
cui il pensiero filosofico si innalza sono venute alla luce nel
processo naturale del movimento storico del pensiero, come
308 WILHELM WINDELBAND
determinazioni di contenuto della coscienza empirica. La sto-
ria della filosofia deve cogliere questa loro origine empirica,
senza pregiudizio del valore che ad esse spetta quando sono
penetrate nella coscienza empirica in virtù della loro evidenza
normativa ?.
Perciò questa concezione non dev'essere interpretata nel sen-
so che essa statuisca — per esempio secondo la ricetta hegelia-
na — una misteriosa auto-realizzazione delle «idee », in virtù
della quale le mediazioni empiriche appaiano come un accesso-
rio non necessario. Nella conoscenza empirica non abbiamo
altro luogo in cui trasportare le idee all’infuori delle te-
ste degli uomini pensanti, e soltanto in queste esse sono, se
pervenute alla coscienza, forze determinanti e operanti. La sto-
ria della filosofia non deve considerarle come fattori, ma deve
spiegarle come prodotti. Il « principio » che il filosofo trova
diventa una forza operante nel movimento empirico dello spiri-
to solamente per il fatto che egli lo reca alla coscienza come
risultato del suo lavoro.
Oppure il filosofo è forse qualcosa di diverso che un uomo
tra uomini? In realtà non gli è concessa una forza di pensiero
di tipo differente da tutti gli altri; ed egli stesso lo dimostra
nel modo migliore quando, con la pubblicazione delle sue ope-
re, esprime il desiderio di far pensare gli altri come lui e
procede pertanto — nonostante l’intuizione intellettuale e simi-
li doti mistiche — dall’assunzione che gli altri debbano compie
re, sotto la sua guida, lo stesso suo movimento di pensiero. Ma
le sue idee non sono sorte in modo diverso da quelle degli
altri. Come tutti quanti, egli passa da una fanciullezza senza
idee a una lenta maturazione; dall'ambiente in cui è nato ed è
stato educato assorbe conoscenze e punti di vista che si fissano
in lui come un tesoro di « verità » originario, ed egli le arricchi-
sce con la propria ricerca e il proprio giudizio. Ma l’orizzonte
di pensiero e la direzione d'interesse che gli pongono le questio-
a. L'autore ha cercato di trattare la storia della filosofia da questo pun-
to di vista, abbozzato nel 1884, nel suo LeArbuch der Geschichte der Phi-
losophie. Si vedano, nella quarta edizione (Tibingen und Leipzig, 1907),
l'introduzione e i paragrafi conclusivi, e inoltre il saggio Geschichte der
Philosophie, sopra citato.
WILHELM WINDELBAND 309
ni rimangono pur sempre tracciati in modo inevitabile dalla
somma complessiva di ciò che ha fino a quel momento pensato
e vissuto. Così dai lati più diversi, dalle premesse più remo-
te si forma — come avviene in ogni uomo — una massa di
rappresentazioni spesso eterogenea ma fusa in tutte le direzio-
ni, un sistema psichico che tende, come sempre, all’unificazio-
ne. Ma invece di accontentarsi, come avviene nella maggior
parte degli uomini, del compromesso superficiale tra le rappre-
sentazioni più visibilmente contrastanti, e invece di lasciarsi
imporre da una delle opinioni dominanti le linee più generali
della concezione del mondo, il quadro delle singole prospetti-
ve, l'individuo la cui attività designamo come filosofia è in
grado di cercare mediante il proprio sforzo di riflessione — in
virtù della situazione personale, delle doti spirituali e dell’ener-
gia del carattere — una connessione unitaria delle sue rappre-
sentazioni. Non si deve però mai dimenticare che quest'attività
di ricerca è completamente condizionata in tutta la sua direzio-
ne e in tutta l’estensione del contenuto rappresentativo, e quin-
di naturalmente anche nel suo risultato, dall'intera massa del
materiale di pensiero già esistente. Nessun principio filosofico
cade dal cielo o piove in grembo al filosofo, ma è il risultato
conclusivo della sua molteplice attività di pensiero. Che nella
realizzazione definitiva di uno stato di equilibrio certe rappre-
sentazioni si dimostrino più potenti e significative di altre, è
cosa ovvia; ma questa forza e questa significatività competono
ad esse 12 primo luogo anche soltanto nelle condizioni statiche
di questo sistema individuale di rappresentazioni. Se al filosofo
è capitato di trovare, con uno sforzo maggiore o minore, un
principio unitario per disporre tutto il suo materiale ideale, le
varie parti di questo materiale staranno però chiaramente in un
rapporto assai diverso con esso. Alcune — e soprattutto quelle
che sono determinanti per cogliere tale principio — si connetto-
no facilmente e quasi per proprio conto all'immagine del mon-
do così costituita; altre si dimostrano invece più o meno refrat-
tarie. Infatti altre opinioni, che provengono da regioni comple-
tamente diverse e hanno un aspetto del tutto indifferente, devo-
no a volte accettare di essere spostate e trasformate a profit-
to di quel principio fondamentale; questo apre ora anche nuovi
ambiti di rappresentazione e nuove conoscenze; di fronte ad
310 WILHELM WINDELBAND
esse le vecchie idee vengono relegate sullo sfondo e, se non
soppiantate del tutto, almeno parzialmente trasformate, conti-
nuando però a costituire il materiale su cui soltanto può farsi
0 l’attività assimilatrice e trasformatrice della nuova for-
a. Ma di rado vedremo un filosofo nella felice situazione di
mr disporre tutto il suo materiale rappresentativo in un’inti-
ma relazione uniforme con il principio da lui scoperto; e tra le
idee contrastanti ve ne saranno sempre alcune che non cedono
al nuovo principio, ma sono talmente radicate nell’anima con
la loro forza originaria che — ad onta della loro mancanza di
relazione, o addirittura della loro contraddizione rispetto a
quel principio — si conservano accanto ad esso e pretendono,
con non minore forza, un posto spesso assai significativo nell’in-
tuizione umana del mondo. Ne derivano smagliature e spacca-
ture nel sistema, ma esse sono superate e nascoste nella
certezza soggettiva del filosofo. E quanto più energicamente
egli cerca di mantenere insieme le sue diverse convinzioni,
tanto più lo vedremo incline a cedere all’illusione di considerar-
le in accordo laddove in realtà non lo sono affatto né possono
diventarlo, oppure a ipotizzare tra di esse una connessione che
mai, per la loro stessa natura, possono acquisire. Si spiega così
l’eterogeneità degli elementi che, in numero più o meno gran-
de, si trovano — in ogni sistema filosofico — in un’antitesi
altrimenti incomprensibile rispetto al cosiddetto principio fon-
damentale. Anche la caratteristica circostanza che proprio in
questi punti i filosofi siano soliti insistere nel modo più rigido
sulla necessaria omogeneità di concezioni disparate, risulterà
comprensibile se riflettiamo che soltanto le convinzioni intima-
mente legate con la personalità del filosofo possono mantenersi
indipendenti dal principio appena scoperto, e che un sentimen-
to di certezza altrettanto salda fonde ora insieme rappresenta-
zioni altrimenti diverse, di modo che ne viene straordinaria-
mente rafforzata la capacità di scoprire, sotto la spinta di que-
sto interesse, passaggi e connessioni apparenti. Ma tutte queste
mancanze di connessione e queste contraddizioni con i loro
artificiosi intrecci non potrebbero esistere se un sistema filosofi-
co crescesse in modo organico fin dall’inizio completamente
indipendente, in base all'impulso del suo principio fondamenta-
le. Esse sono invece del tutto comprensibili se abbiamo chiaro
WILHELM WINDELBAND Z1I
il fatto che il molteplice materiale ideale, prodotto e trasmesso
dai lati più diversi, deve raccogliersi e fissarsi nella testa del
filosofo molto tempo prima che questi abbia anche soltanto
pensato alla ricerca del suo principio; e che quindi tale princi-
pio deve compiere più tardi, nell’assoggettare a sé il materiale
preesistente, un lavoro di difficoltà assai diversa e talora comple-
tamente insolubile.
La concezione teleologica della storia della filosofia dal pun-
to di vista della soluzione successiva di un compito espresso in
un saldo concetto di filosofia è quindi una considerazione che è
giustificata in quanto tale, ed è forse necessaria e auspicabile
nell’interesse della filosofia così determinata. Ma essa non costi-
tuisce di per sé sola tutta la storia della filosofia. La storia è
constatazione empirica e spiegazione empirica. Se anche nei
confronti di tale oggetto questo compito deve mantenere la sua
purezza, esso richiede una trattazione psicologica e storico-cul-
turale.
D'altra parte, però — occorre metterlo ancor più in risalto
di fronte alle inclinazioni e alle tendenze attuali — la filosofia
ha l’interesse più vivo a saper conosciuto e riconosciuto il fatto
che questo processo naturale ha condotto, in virtù della riflessio-
ne sulla coscienza normale, a convinzioni che non esistono sem-
plicemente come ne esistono anche altre e che non sono perve-
nute a validità soltanto perché tale è stato il risultato del corso
delle rappresentazioni, ma che posseggono l’assoluto valore di
dover avere validità. Non bisogna dimenticare che questo pro-
dotto della necessità naturale si identifica con una necessità
superiore, quella normativa.
Il movimento empirico del pensiero umano conquista alla
coscienza normale, l’una dopo l’altra, le sue determinazioni.
Noi non sappiamo se esso arriverà a un termine; ancor meno
sappiamo se la successione storica, in cui ci appropriamo di
alcune di queste determinazioni, abbia un significato che indi-
chi una loro connessione interna. Per la nostra conoscenza, la
coscienza normale rimane un ideale di cui riusciamo a cogliere
soltanto il margine. Il pensiero umano può soltanto o, come
scienza empirica, comprendere il singolo dato nella sua connes-
sione causale e nella sua determinatezza fornita di valore, oppu-
re, come filosofia, riflettere, con l’aiuto dell’esperienza, sui prin-
312 WILHELM WINDELBAND
cìpi evidenti di una valutazione assoluta. Una comprensione
completa della totalità della coscienza normale da un punto di
vista scientifico ci è negata. Nell’ambito della nostra esperien-
za traluce a tratti l’ideale; e se dobbiamo essere convinti della
realtà di una coscienza normale assoluta, ciò riguarda la fede
personale, non più la conoscenza scientifica.
STORIA E SCIENZA DELLA NATURA *
È un prezioso privilegio del rettore quello di poter intratte-
nere gli ospiti e i colleghi nell’anniversario della fondazione
dell’università, su un oggetto tratto dall’ambito della disciplina
di cui egli si occupa: ma il dovere che corrisponde a tale
privilegio crea particolari preoccupazioni al filosofo. Certamen-
te, gli è relativamente facile trovare un tema che possa contare
con sicurezza su un interesse generale. Ma su questo vantaggio
prevalgono di gran lunga le difficoltà che comporta il modo
specifico di indagine della filosofia. Ogni lavoro scientifico è
rivolto a collocare il suo oggetto particolare in un ambito più
vasto e a decidere le singole questioni sulla base di prospettive
più generali. E fin qui la filosofia si comporta come le altre
scienze; ma, mentre queste possono considerare, con una sicu-
rezza sufficiente per l'indagine specialistica, tali principi come
saldi e dati, alla filosofia è essenziale il fatto che il suo speci-
fico oggetto di ricerca è costituito appunto dai princìpi stessi
e che quindi non può derivare le sue decisioni da qualcosa di
più generale, ma deve di volta in volta determinarsi nel modo
più generale. Per la filosofia in senso stretto non esiste alcuna
indagine specialistica: ogni suo problema particolare estende
spontaneamente le sue direttrici fino alle questioni ultime e
supreme. Chi vuol parlare filosoficamente di cose filosofiche
deve avere sempre il coraggio di prendere posizione in modo
complessivo, e deve anche avere il coraggio, difficile da conser-
* Geschichte und Naturwissenschaft (discorso rettorale tenuto all'Università di
Strasburgo, 1894), in Pràludien, Tiibingen, Verlag von J. C. B. Mohr, 3° cd. 1907,
PP. 355-379 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
314 WILHELM WINDELBAND
vare, di condurre i suoi uditori nell’alto mare delle riflessioni
più generali, dove la terraferma minaccia di scomparire al-
la vista.
Da tali riserve il rappresentante della filosofia potrebbe sen-
tirsi tentato o a tracciare soltanto un quadro storico della sua
disciplina o a trovare rifugio nella particolare scienza empirica
che gli indirizzi e le consuetudini accademiche ancora gli asse-
gnano — la psicologia. Anch’essa offre una quantità di oggetti
che toccano chiunque e la cui trattazione promette un bottino
tanto più sicuro quanto più vari sono i punti di vista metodolo-
gici e oggettivi che il vivace movimento di questa disciplina
ha recato in luce negli ultimi decenni. Ma rinuncio a entrambe
le vie d’uscita: non voglio né sostenere l’idea che non esiste
più filosofia ma soltanto storia della filosofia, né quell’altra
secondo cui la filosofia — come Kant l’ha nuovamente fondata
— potrebbe restringersi nell’angusta cornice della scienza spe-
cialistica il cui valore conoscitivo è quello che Kant stesso stima-
va di meno tra le discipline teoretiche. In un'occasione come
l'odierna mi sembra invece doveroso testimoniare che, anche
nella sua forma attuale di rifiuto di ogni pretesa metafisica, la
filosofia si sente all’altezza di quelle grandi questioni a cui
deve non soltanto il contenuto significativo della sua storia, ma
anche il suo valore nella letteratura e la sua posizione nell’inse-
gnamento accademico. Così il rischio insito nel compito mi
stimola a illustrare con un esempio quell’impulso dell'indagine
filosofica per cui ogni problema specifico si allarga fino agli
enigmi ultimi della visione umana del mondo e della vita, e a
mostrare qui la necessità con cui ogni tentativo di recare a intelli-
genza piena quanto è apparentemente noto con chiarezza €
semplicità ci spinge, rapidamente e inarrestabilmente, fino ai
confini estremi della nostra facoltà conoscitiva, circondati di
oscuri misteri.
Se a questo scopo scelgo un tema tratto dalla logica, e in
particolare dalla metodologia, dalla teoria della scienza, è per-
ché penso che in questo modo possa venire in luce in modo
particolarmente chiaro e comprensibile l’intima connessione
tra il lavoro filosofico e il lavoro delle altre scienze. La
filosofia non è mai stata né vive estranea alla scienza in un
mondo inventato col pensiero, ma è esistita e sussiste in un
WILHELM WINDELBAND 315
ricco scambio reciproco con ogni conoscenza vitale della realtà
e con tutti i contenuti di valore della vita reale dello spiri-
to. Se la sua storia è stata la storia degli errori umani, il
motivo risiede nel fatto che essa assumeva in buona fede come
compiute e certe, dalle teorie delle scienze particolari, ciò che
anche all’interno della scienza poteva valere al massimo come
verità in divenire. Questa connessione vitale tra la filosofia e le
altre discipline appare nel modo più chiaro proprio nello svilup-
po della logica, che non è mai stata altro se non la riflessione
critica sulle forme di conoscenza reale ad essa preesistenti. Mai
un metodo fecondo si è sviluppato sulla base di una costruzione
astratta o di riflessioni meramente formali dei logici: ad essi
spetta soltanto il compito di recare alla sua forma universale
ciò che è stato eseguito con successo nelle singole scienze e di
determinare in tal modo il suo significato, il suo valore conosci-
tivo e i limiti della sua applicazione. Da dove la logica moder-
na ha preso — per menzionare l'esempio più eminente — in
antitesi con la sua progenitrice greca, la rappresentazione
matura dell’essenza dell’induzione? Non dall’enfasi program-
matica con cui l’ha raccomandata e scolasticamente descritta
Bacone, bensì dalla riflessione sull’efficace applicazione che que-
sta forma di pensiero ha ottenuto dai tempi di Keplero e di
Galilei nel lavoro specifico della ricerca naturale, raffinandosi
e rafforzandosi da un problema particolare all’altro.
Sulle medesime connessioni riposano però ovviamente anche
i tentativi della logica moderna di tracciare, nel dominio del
sapere umano sviluppatosi in modo così vario, linee concettual-
mente determinate al fine di delimitarne le singole province.
Il mutevole predominio esercitato negli interessi scientifici del-
l'età moderna dalla filologia, dalla matematica, dalla scienza
naturale, dalla psicologia, dalla storia, si rispecchia nei diversi
abbozzi di un «sistema delle scienze», come si diceva una
volta, o di una « classificazione delle scienze », come viene chia-
mata oggi. Gran parte di responsabilità spetta alla tendenza
universalistica che, disconoscendo l’autonomia dei singoli cam-
pi del sapere, voleva sottoporre tutti gli oggetti alla costrizione
di un unico metodo, di modo che per l’articolazione delle
scienze restavano soltanto punti di vista oggettivi, cioè metafisi-
ci. L’uno dopo l’altro il metodo meccanicistico, il metodo geo-
316 WILHELM WINDELBAND
metrico, il metodo psicologico, il metodo dialettico, e da ulti-
mo il metodo storico-evolutivo hanno preteso di ampliare il
loro dominio, dallo stretto campo della loro feconda applicazio-
ne originaria, possibilmente a tutto l’ambito della conoscenza
umana. Quanto più grande appare il contrasto di queste diver-
se tendenze, tanto più cresce per la riflessione della teoria logi-
ca il vasto compito di realizzare una giusta ponderazione di
quelle pretese e una separazione equilibrata dei loro ambiti di
validità attraverso le determinazioni universali della dottrina
della conoscenza. Grazie a Kant si è compiuta la differenziazio-
ne metodologica della filosofia dalla matematica e, nelle linee
generali, anche dalla psicologia. Da allora il secolo xix ha
sperimentato accanto a una certa paralisi dell’impulso filosofi-
co, all’inizio sovraeccitato, una più varia molteplicità di tenden-
ze e di movimenti nelle scienze particolari: nell’appropriarsi di
numerosi problemi di specie nuova l’apparato metodologico si è
modificato da tutte le parti, estendendosi e raffinandosi in misu-
ra prima sconosciuta. Intanto i diversi procedimenti si sono
variamente intrecciati tra di loro, e nel momento in cui ognuno
di essi pretendeva una posizione dominante nella visione del
mondo e della vita dei nostri giorni, per la filosofia teoretica
sorgevano nuove questioni. Su tali questioni, senza pretendere
affatto di esaurirle, intendo attirare la vostra attenzione.
Non occorre quasi menzionare il fatto che le divisioni alle
quali qui miro non possono riflettere l’articolazione che Ie scien-
ze trovano nella separazione delle facoltà universitarie. Questa
è infatti sorta dai compiti pratici delle università e dal loro
sviluppo storico. Lo scopo pratico ha spesso unificato ciò che da
un punto di vista puramente teoretico doveva essere separato, e
ha staccato ciò che doveva essere strettamente unificato: lo
stesso motivo ha mescolato per vari versi le discipline propria-
mente scientifiche con quelle pratiche e tecniche. Non si deve
però pensare che ciò sia andato a tutto detrimento dell’attività
scientifica. Piuttosto, le relazioni pratiche hanno anche qui avu-
to la conseguenza di provocare uno scambio tra i diversi campi
del sapere più ricco e vitale di quello prodotto nel caso delle
più astratte combinazioni di un materiale omogeneo, quali av-
vengono nelle accademie. Tuttavia i mutamenti che gli ordina-
menti delle facoltà delle università tedesche hanno subito negli
WILHELM WINDELBAND 317
ultimi decenni, in modo particolare per quanto riguarda quella
che una volta era la facultas artium, indicano una certa tenden-
za ad attribuire un'importanza maggiore ai motivi metodologi-
ci di articolazione.
Se si seguono questi motivi con un interesse soltanto teoreti-
co, si può anzitutto assumere come valido il fatto di contrappor-
re la filosofia — e quindi, come sempre, anche la matematica —
alle scienze empiriche. Le prime due possono essere raccolte
sotto il vecchio nome di scienze «razionali », anche se in un
significato del termine assai differente e che non si può qui
discutere più da vicino. Basti per ora esprimere il loro caratte-
re comune in forma negativa, dicendo che non sono indirizzate
immediatamente alla conoscenza di qualcosa che è dato nell’e-
sperienza, anche se le prospettive da esse acquisite possono e
debbono essere impiegate a tale scopo nelle altre scienze. A
questo momento oggettivo corrisponde, dal lato formale, un
comune carattere logico, in quanto entrambe — la filosofia
come la matematica — non poggiano mai le loro affermazioni
su singole percezioni o su masse di percezioni, anche se l’occa-
sione di fatto, psico-genetica, delle loro indagini e delle loro
scoperte può risiedere in motivi empirici. Per scienze empiriche
intendiamo invece quelle che hanno il compito di conoscere
una realtà comunque data e accessibile alla percezione: la loro
caratteristica formale consiste quindi nel fatto che per la fonda-
zione dei loro risultati hanno in ogni caso bisogno, accanto ai
presupposti assiomatici universali e alla correttezza del normale
procedimento di pensiero parimenti richiesta per ogni tipo di
conoscenze, di una constatazione dei fatti attraverso la per-
cezione.
Per la divisione di queste discipline dirette alla conoscenza
del reale è attualmente corrente la distinzione tra scienze della
natura e scienze dello spirito: io la considero però, in questa
forma, poco felice. Quella tra natura e spirito è un’antitesi
oggettiva che è pervenuta a una posizione predominante al
tramonto del pensiero antico e agli inizi di quello medievale, e
che nella metafisica moderna si è fatta valere, con la massima
decisione, da Descartes e da Spinoza fino a Schelling e a He-
gel. Se giudico correttamente la disposizione della filosofia più
recente e le conseguenze della critica gnoseologica, questa sepa-
318 WILHELM WINDELBAND
razione rimasta aderente al modo generale di rappresentazione
e di espressione non può più ora venir ritenuta così sicura e
ovvia da diventare senza riesame il fondamento di una classifi-
cazione. A ciò si aggiunga il fatto che a quest’antitesi tra
oggetti non corrisponde un’antitesi tra modi di conoscenza. Se
Locke tradusse il dualismo cartesiano in una formula soggetti-
va, contrapponendo percezione esterna a percezione interna
(sensation e reffection) come organi distinti di conoscenza da
un lato del mondo corporeo esterno, della natura, dall'altro del
mondo spirituale interno, la critica della conoscenza dell’epoca
più recente ha fatto sempre più vacillare questa concezione e
ha per lo meno posto fortemente in dubbio la legittimità dell’as-
sunzione di una « percezione interna» come modo particolare
di conoscenza. Non è neppure ormai possibile ammettere che i
fatti delle cosiddette scienze dello spirito siano fondati semplice-
mente sulla percezione interna. Ma l’incongruenza tra un prin-
cipio oggettivo e un principio formale di divisione si manifesta
soprattutto nel fatto che tra la scienza della natura e la scienza
dello spirito non è possibile inserire una disciplina empirica di
tanta importanza come la psicologia, la quale dev'essere caratte-
rizzata in base all'oggetto solo come scienza dello spirito e, in
certo senso, come il fondamento di tutte le altre scienze, men-
tre il suo intero procedimento, il suo comportamento metodolo-
gico, è dall’inizio alla fine quello delle scienze della natura.
Perciò essa ha dovuto accettare talvolta la designazione di
« scienza naturale del senso interno » o anche quella di « scien-
za della natura spirituale ».
Una divisione che mostri difficoltà di tal genere non ha alcu-
na consistenza dal punto di vista sistematico: ma per ottenerla ha
forse bisogno soltanto di piccole trasformazioni nella sua formu-
lazione concettuale. In che cosa consiste l'affinità metodologica
della psicologia con le scienze naturali? Evidentemente nel
fatto che anch'essa, al pari di queste, constata, raccoglie ed
elabora i fatti soltanto dal punto di vista e allo scopo di intende-
re la conformità a leggi generali a cui questi fatti sono sot-
toposti. Certamente la diversità degli oggetti comporta che i
metodi particolari di accertamento dei fatti, nonché il modo
della loro utilizzazione induttiva e la formulazione alla quale
possono venir ricondotte le leggi scoperte, siano molto differen-
WILHELM WINDELBAND 319
ti; e sotto questo aspetto la distanza della psicologia, per esem-
pio, dalla chimica è di poco maggiore a quella che intercorre
tra la meccanica e la biologia. Ma — ed è questo che qui
importa — tutte queste differenze di carattere oggettivo stanno
in secondo piano rispetto all'identità logica che tali discipline
posseggono per quanto riguarda il carattere formale dei loro
fini conoscitivi: esse cercano sempre leggi dell’accadere — sia
che si tratti di un movimento di corpi, di una trasformazione
di materia, di uno sviluppo della vita organica o di un proces-
so del rappresentare, del sentire e del volere.
Viceversa, la maggior parte delle discipline empiriche, che
sono state da parte di altri designate come scienze dello spiri-
to, è decisamente diretta a rappresentare nel modo più compiu-
to ed esauriente un evento singolo, più o meno esteso, con una
sua realtà singolare e limitata nel tempo. Anche da questo lato
gli oggetti e gli strumenti tecnici particolari con cui è assicura-
ta la loro comprensione sono quanto mai diversi. Si può infatti
trattare di un singolo avvenimento o di una serie complessiva
di azioni e di vicende, dell'essenza e della vita di un singolo
uomo o di un intero popolo, del carattere specifico e dello
sviluppo di una lingua, di una religione, di un ordinamento
giuridico, oppure di un prodotto letterario, artistico, scientifico
— e ognuno di questi oggetti richiede una trattazione adeguata
alla sua particolare fisionomia. Ma sempre lo scopo conoscitivo
rimane quello di riprodurre e di intendere nella sua realtà di
fatto una formazione della vita umana, che si è presentata nella
sua configurazione singolare. È chiaro che con ciò si designa
l’intero ambito delle discipline storiche.
Noi ci troviamo quindi di fronte a una divisione puramente
metodologica delle scienze empiriche, che deve essere fondata
su concetti logici sicuri. Il principio di divisione è costitui-
to dal carattere formale dei loro fini conoscitivi. Le une cerca-
no leggi generali, le altre fatti storici particolari: per esprimer-
ci nel linguaggio della logica formale, il fine delle une è il
giudizio generale, apodittico, mentre quello delle altre è la
proposizione singolare, assertoria. Questa distinzione si ricolle-
ga così a quell’importantissimo e decisivo rapporto presente
nell’intelletto umano, che fu riconosciuto da Socrate come la
relazione fondamentale di ogni pensiero scientifico: il rapporto
320 WILHELM WINDELBAND
dell’universale con il particolare. A partire da questo punto si
è divisa la metafisica antica, in quanto Platone cercava la real-
tà negli immutabili concetti di genere, mentre Aristotele la
cercava nell’essere singolo che si sviluppa secondo uno scopo.
La moderna scienza della natura ci ha insegnato a definire ciò
che è in base alle necessità durevoli dell’accadere che in esso sì
compie; ha messo la legge naturale al posto dell’idea platonica.
Perciò possiamo dire che nella conoscenza del reale le scien-
ze empiriche cercano o il generale nella forma di legge di
natura o il singolare nella forma storicamente determinata;
esse considerano da un parte la forma sempre permanente,
dall’altra il contenuto singolare, in sé determinato, dell’accade-
re reale. Le prime sono scienze di leggi e le seconde sono
scienze di avvenimenti; quelle insegnano ciò che è sempre, e
queste ciò che è stato una volta. Il pensiero scientifico — se è
consentito elaborare nuove espressioni — è nel primo caso n0-
motetico, nel secondo idiografico. Se vogliamo attenerci alle
vecchie espressioni, possiamo pure parlare in questo senso di
un’antitesi tra discipline naturali e discipline storiche, fermo
restando che in questo senso metodologico lo psicologia dev’es-
sere senz’altro compresa tra le scienze naturali.
In generale, rimane da considerare che quest’antitesi meto-
dologica classifica solo il modo di trattazione e non il contenu-
to del sapere. Resta possibile — ed è di fatto vero — che gli
stessi oggetti possono essere sottoposti a un'indagine nomotetica
e al tempo stesso a un'indagine idiografica. Ciò dipende dal
fatto che l’antitesi tra il sempre eguale e il singolare è, per un
certo verso, relativa. Ciò che all’interno di periodi di tempo
assai grandi non subisce nessun mutamento immediatamente
percepibile e può quindi venir considerato nomoteticamente in
base alle sue forme immutabili, può tuttavia risultare da una
prospettiva ulteriore valido per un periodo di tempo pur sem-
pre limitato, cioè qualcosa di singolare. Così una lingua è
dominata, in tutte le applicazioni particolari, dalle sue leggi
formali, che rimangono le medesime in ogni mutamento dell’e-
spressione; ma d’altra parte questa stessa lingua particolare,
con le sue specifiche leggi formali, è soltanto una manifestazio-
ne singolare e transitoria nella vita linguistica dell’uomo. Lo
stesso vale per la fisiologia del corpo, per la geologia e in un
WILHELM WINDELBAND 32I
certo senso perfino per l'astronomia: con ciò il principio stori-
co viene trasferito nel campo delle scienze naturali.
L’esempio classico a questo proposito è costituito dalla scien-
za della natura organica. Come sistematica, essa riveste caratte-
re nomotetico in quanto, nel paio di millenni per cui è stata
finora condotta l’osservazione umana, può considerare i tipi
identici dell'essere vivente come la loro forma conforme a leg-
gi. In quanto storia dello sviluppo, che rappresenta l’intera
successione degli organismi terrestri come un processo di discen-
denza o di trasformazione che si compie gradualmente nel
corso del tempo e la cui ripetizione su qualche altro pianeta
non soltanto non possiede nessuna garanzia di certezza, ma
neppure qualche probabilità, essa è invece una disciplina idio-
grafica, cioè storica. Già Kant, anticipando il concetto della
moderna teoria della discendenza, chiamava colui che avesse
osato affrontare quest’« avventura della ragione » col nome di
futuro « archeologo della natura ».
Se ci chiediamo come la teoria logica si sia finora atteggiata
nei confronti di quest’antitesi decisiva tra le scienze partico-
lari, ci imbattiamo esattamente nel punto in cui questa è rima-
sta più che altrove bisognosa di riforma. Il suo intero sviluppo
mostra la più decisa predilezione per le forme di pensiero no-
motetico. Certamente si tratta di un fatto ben spiegabile. Dal
momento che ogni ricerca e dimostrazione scientifica si svolge
nella forma del concetto, l’indagine sull’essenza, sulla fondazio-
ne e sull’applicazione di ciò che è generale rimane l'interesse
più prossimo e più importante della logica. A ciò si aggiunga
l'influenza del corso storico. La filosofia si è sviluppata muoven-
do da ricerche di scienza naturale, dalla questione della pbsic,
cioè dalla permanenza dell'essere nel mutare dei fenomeni; e
seguendo un corso parallelo — che non mancava neppure della
mediazione causale rappresentata dalla tradizione storica del
Rinascimento — la filosofia moderna è pervenuta alla propria
autonomia con l’aiuto della scienza della natura. Perciò non
poteva accadere se non che la riflessione logica si rivolgesse in
primo luogo alle forme di pensiero nomotetico, facendo dipen-
dere durevolmente da queste le sue teorie generali. Ciò vale
ancor sempre: tutta la nostra dottrina tradizionale del concet-
to, del giudizio e del sillogismo è ancor sempre ritagliata sul
21, STORICISMO TEDESCO.
322 WILHELM WINDELBAND
presupposto aristotelico che il principio generale sta al centro
dell'indagine logica. Basta aprire un qualsiasi manuale di logi-
ca per convincersi che non soltanto la grande maggioranza
degli esempi viene scelta dalle discipline matematiche e dalle
scienze naturali, ma che anche i logici che si mostrano piena-
mente sensibili al carattere specifico della ricerca storica cerca-
no pur sempre i punti di riferimento ultimi delle loro teorie
sul versante del pensiero nomotetico. Sarebbe auspicabile — ma
le premesse in questo senso sono ancora troppo scarse — che la
riflessione logica rendesse giustizia alla grande realtà presente
nel pensiero storico, nella stessa misura in cui ha inteso coglie-
re le forme dell'indagine naturale fin nei suoi particolari.
Concedetemi per ora di considerare un po’ da vicino il
rapporto tra sapere nomotetico e sapere idiografico. Come si è
detto, all’indagine naturale e alla conoscenza storica è comune
il carattere di scienza empirica: entrambe hanno cioè come
punto di partenza — o, in termini logici, come premesse delle
loro dimostrazioni — delle esperienze, dei fatti della percezio-
ne. Esse coincidono inoltre nel fatto che né l’una né l’altra
possono appagarsi di ciò che l’uomo ingenuo pensa solitamente
di esperire. Entrambe hanno bisogno, come loro fondamento,
di un'esperienza scientificamente purificata, criticamente vaglia-
ta e sottoposta a esame nel lavoro concettuale. Nella stessa
misura in cui bisogna disciplinare accuratamente i propri sensi
per stabilire le sottili distinzioni presenti nella conformazione
di esseri strettamente imparentati, per vedere con successo attra-
verso un microscopio, per cogliere con sicurezza Îa sincronia
dell’oscillazione di un pendolo e della posizione di una lancet-
ta, nello stesso modo occorre fatica per determinare il carattere
specifico di una scrittura, per osservare lo stile di uno scrittore
o per cogliere l'orizzonte spirituale e l'ambito di interessi di
una fonte storica. Per natura l’una e l’altra cosa possono essere
fatte soltanto in maniera imperfetta. Se quindi la tradizione
del lavoro scientifico ha fatto sorgere, in entrambe le direzio-
ni, una quantità di strumenti tecnici sempre più raffinati — di
cui il discepolo della scienza si appropria nella pratica — ogni
metodo specifico poggia da un lato su punti di vista oggettivi
già acquisiti o per lo meno accolti in via ipotetica, dall’altro su
connessioni logiche spesso assai complicate. Qui occorre osserva-
WILHELM WINDELBAND 323
re di nuovo che finora l’interesse della logica si è rivolto molto
di più alla tendenza nomotetica che alla tendenza idiografica.
Sul significato metodologico degli strumenti di precisione, sul-
la teoria dell’esperimento, sulla determinazione della probabili-
tà in base a molteplici osservazioni di un medesimo oggetto, e
su questioni analoghe, si hanno indagini logiche approfondite;
ma i problemi paralleli della metodologia storica non hanno
trovato eguale attenzione da parte della filosofia. Ciò è connes-
so con il fatto che — com'è nella natura stessa della cosa, e
come conferma la storia — l’ingegno e l’opera della filosofia e
della scienza naturale si sono incontrati molto più spesso di
quanto non sia avvenuto tra la filosofia e la storia. Eppure
sarebbe di estremo interesse per la dottrina generale della cono-
scenza portare alla luce le forme logiche in base alle quali si
compie, nella ricerca storica, la critica reciproca delle percezio-
ni, formulare le «massime di interpolazione » delle ipotesi e
determinare così anche qui quale parte assumono nell’edificio
della conoscenza del mondo, che si sorregge reciprocamente
con tutti i suoi elementi, da una parte i fatti e dall’altra i
presupposti generali con cui li interpretiamo.
Tutte le scienze empiriche coincidono in definitiva però nel
principio ultimo, che consiste nell’accordo senza contraddizio-
ne di tutti gli elementi della rappresentazione relativi al medesi-
mo oggetto: la distinzione tra indagine naturale e storia ha
inizio soltanto dove si tratta di utilizzare i fatti a scopo conosci-
tivo. Qui vediamo che l’una cerca leggi, l’altra forme. Nella
prima il pensiero conduce dall’accertamento del particolare al-
l'apprendimento di relazioni generali, mentre nella seconda es-
so si arresta alla caratterizzazione accurata del particolare. Per
lo scienziato naturale il singolo oggetto dato alla sua osservazio-
ne non possiede mai, in quanto tale, valore scientifico; esso gli
serve solo in quanto si ritiene giustificato a considerarlo come
un tipo, come un caso specifico di un concetto di genere, e a
trarne fuori questo concetto: in ciò egli riflette soltanto su
quei caratteri che sono appropriati alla comprensione di una
generalità conforme a leggi. Allo storico si pone invece il
compito di far rivivere una formazione del passato nella sua
intera configurazione individuale, rendendola idealmente pre-
sente. Egli deve compiere nei confronti di ciò che è realmente
324 WILHELM WINDELBAND
esistito un’opera analoga a quella dell’artista nei confronti di
ciò che è nella sua fantasia. Qui ha le sue radici l’affinità della
creazione storica con quella estetica, delle discipline storiche
con le Belles lettres.
Da ciò consegue che nel pensiero naturalistico predomina la
tendenza all’astrazione, nel pensiero storico quella all’intuitivi-
tà. Quest’affermazione risulterà inattesa soltanto a chi si è abi-
tuato a limitare materialisticamente il concetto di intuizione
alla recezione psichica di ciò che è presente in modo sensibile,
e ha dimenticato che c’è intuitività — cioè vitalità individuale
di ciò che è presente idealmente — tanto per l’occhio dello
spirito quanto per l'occhio del corpo. Certamente quella conce-
zione materialistica è al giorno d’oggi molto diffusa, ma susci-
ta serie riserve. Quanto più ci si abitua, ovunque si presentano
delle rappresentazioni, a mettere in evidenza il più possibile quel
che vi è da toccare e da vedere, tanto più si espone la sponta-
nea facoltà dell’intuizione — a causa del prevalere dell’intuizio-
ne ricettiva — al pericolo di rattrappirla per mancanza di
esercizio, e poi ci si meraviglia quando la fantasia sensibile
diventa pigra e incapace di funzionare non appena non può
più toccare e vedere in modo corporeo. Per la pedagogia vale
infatti lo stesso che per l’arte, e in particolare per l’arte dram-
matica, dove oggi ci si dà ogni pena per tenere impegnati gli
occhi, sicché non rimane più nulla per l’intuizione interiore
delle forme poetiche.
Che però la forza dell’indagine naturale consista nell’astra-
zione e invece quella della storia nell’intuitività, risalta ancor
più chiaramente se si comparano i risultati della loro ricerca.
Per quanto intricato possa essere il lavoro concettuale di cui la
critica storica ha bisogno per elaborare i dati della tradizione,
il suo fine ultimo è tuttavia quello di trarre fuori dalla massa
del materiale la vera forma del passato per tradurlo in chiarez-
Za piena di vita; ciò che essa fornisce sono immagini di uomini
e di vita umana, con tutta la ricchezza delle loro configurazio-
ni singolari, conservate nella loro piena vitalità individuale.
Così per bocca della storia ci parlano lingue e popoli passati,
sollevati dalla dimenticanza a nuova vita, e così pure la loro
fede e le loro figure, la loro lotta per il potere e per la libertà,
la loro poesia e il loro pensiero. Quanto diverso è il mondo che
WILHELM WINDELBAND 325
l'indagine naturale costruisce davanti ai nostri occhi! Per
quanto intuitivi possano essere i suoi punti di partenza, i suoi
scopi conoscitivi sono le teorie, sono le formulazioni — in ulti-
ma istanza matematiche — delle leggi del movimento: essa
lascia dietro di sé — in modo autenticamente platonico — la
singola cosa sensibile che nasce e perisce, in un’apparenza
priva di realtà, e aspira alla conoscenza della necessità legale
che domina, in un'immutabilità atemporale, ogni accadere. Dal
variopinto mondo dei sensi essa estrae un sistema di concetti
costruttivi entro cui vuol cogliere la vera essenza delle cose che
sta dietro i fenomeni, un mondo di atomi, incolore e muto,
senza la terrestre fragranza delle qualità sensibili — il trionfo
del pensiero sulla percezione. Indifferente a ciò che è transito-
rio, essa getta la sua àncora in ciò che rimane eternamente
eguale a se stesso. Non cerca il mutevole in quanto tale, ma la
forma immutabile del mutamento.
Ma se l’antitesi tra i due tipi di scienze empiriche è così
profonda, si comprende perché tra di esse deve scoppiare, ed è
di fatto scoppiata, la battaglia per esercitare un'influenza decisi-
va sulla visione generale del mondo e della vita. Ci si domanda
che cosa sia più prezioso per lo scopo complessivo della nostra
conoscenza, se il sapere concernente le leggi o quello riguardan-
te gli eventi, se la comprensione dell’universale essenza atempo-
rale o quella dei singoli fenomeni temporali. È chiaro fin dall’i-
nizio che questa questione può venir decisa soltanto in base a
una riflessione sui fini ultimi del lavoro scientifico.
Mi limito ad accennare di sfuggita alla valutazione che si
fonda sull’utilità. Di fronte ad essa entrambe le direzioni di
pensiero sono in egual misura legittime. Il sapere riguardante
leggi generali ha sempre il valore pratico di rendere possibile
la previsione di situazioni future e l’intervento in vista di scopi
dell’uomo nel corso delle cose. Ciò vale sia per i movimenti del
mondo interno sia per quelli del mondo materiale esterno:
nell’ultimo, in particolare, la conoscenza acquisita in virtù del
pensiero nomotetico consente la produzione degli strumenti
con cui si amplia in misura sempre crescente il dominio dell’'uo-
mo sulla natura. Ma l’attività diretta a scopi nella vita comune
dell’uomo dipende in grado non minore dalle esperienze del
sapere storico. L'uomo è — per variare un antico detto — l’ani-
326 WILHELM WINDELBAND
male che ha una storia. La sua vita culturale è una connessio-
ne storica che diventa più spessa di generazione in generazio-
ne: chi vuole entrare in questa per cooperarvi in modo attivo
deve possedere la comprensione del suo sviluppo. Una volta
spezzatosi questo filo bisogna poi — lo ha mostrato la storia
stessa — rintracciarlo e riannodarlo di nuovo con fatica. Se la
cultura contemporanea dovesse essere sepolta a causa di un
evento elementare — o nella configurazione esterna del nostro
pianeta o nella configurazione interna del mondo umano —
possiamo star certi che le generazioni successive ne scaveranno
con diligenza le vestigia così come noi facciamo con quelle
dell’antichità. Già per questi motivi l'umanità deve portare il
suo grande fardello storico, e se col trascorrere del tempo esso
minaccia di diventare sempre più pesante, al futuro non man-
cheranno i mezzi per alleggerirlo con cautela e senza danno.
Ma non è questo l’utile in questione: qui si tratta infatti
del valore intimo del sapere, non certamente della soddisfazio-
ne personale che il ricercatore ha nel suo conoscere, e soltanto
in virtù di esso. Questo godimento soggettivo che proviene
dalla scoperta e dall’accertamento è in definitiva presente in
egual modo in ogni tipo di sapere. La sua misura viene deter-
minata molto meno dall’importanza dell’oggetto che dalla dif-
ficoltà dell'indagine.
Senza dubbio vi sono accanto a ciò distinzioni oggettive, c
quindi puramente teoretiche, nel valore conoscitivo degli ogget-
ti: ma la loro misura non è altro che il grado in cui essi
contribuiscono alla conoscenza complessiva. L’elemento singolo
rimane oggetto di curiosità oziosa se non diventa pietra di
costruzione in una struttura più generale. In senso scientifico il
« fatto » è così già un concetto teleologico. Non una qualsiasi
realtà costituisce un fatto per la scienza, ma soltanto ciò da cui
— per dirla in breve — essa può apprendere qualcosa. Questo
vale soprattutto per la storia. Accadono molte cose che non
sono fatti storici. Che nel 1780 Goethe si sia fatto costruire una
campana di casa e una chiave, e il 22 febbraio una cassetta per
le lettere, è documentato dal conto di un fabbro tramandato in
modo assolutamente autentico: ciò è quindi accaduto del tutto
realmente e con certezza, ma non per questo è un fatto storico
— né storico-letterario, né biografico. Si deve d’altra parte obiet-
WILHELM WINDELBAND 327
tare che è impossibile, entro certi limiti, decidere in anticipo
se al singolo elemento, a ciò che si offre all’osservazione o alla
tradizione, spetti o no questo valore di «fatto». Perciò la
scienza deve fare come Goethe in tarda età: fare provvista,
raccogliere ciò di cui può impadronirsi, paga dell’idea di non
trascurare nulla di ciò che potrebbe utilizzare in seguito, e
della fiducia che il lavoro delle generazioni future — nella
misura in cui non ne sarà impedito dalle vicende esteriori
della tradizione — conserverà, come un grande setaccio, quan-
to è utilizzabile e lascierà cadere ciò che è inutile.
Ma questo scopo essenziale di ogni sapere particolare, cioè
lo scopo di inserirsi in un grande complesso unitario, non è
affatto limitato alla subordinazione induttiva del particolare al
concetto di genere o al giudizio universale: esso si realizza in
egual misura dove la caratteristica singola diventa elemento
significativo di un’intuizione complessiva. Quell’attenersi a ciò
che è conforme al genere è una unilateralità del pensiero greco,
diffusasi dagli Eleati fino a Platone, che trovava il vero essere,
come la vera conoscenza, soltanto nell’universale. Da lui si è
poi trasmessa fino ai giorni nostri, in cui Schopenhauer si è
fatto portavoce di questo pregiudizio rifiutando alla storia il
valore di scienza autentica perché essa coglierebbe sempre il
particolare, e mai l’universale. È certamente esatto che l'intellet-
to umano può rappresentarsi il molteplice soltanto perché co-
glie il contenuto comune dei singoli elementi dispersi; ma
quanto più aspira al concetto e alla legge, tanto più deve
lasciare dietro di sé il singolare in quanto tale, dimenticarlo e
abbandonarlo. È ciò che vediamo laddove si tenta, in modo
specificamente moderno, di « fare della storia una scienza natu-
rale », come si è proposta la cosiddetta filosofia della storia del
positivismo. Che cosa rimane in definitiva, in una simile indu-
zione di leggi, della vita dei popoli? Un paio di banali generali-
tà, che si fanno scusare soltanto se accompagnate da un’accura-
ta analisi delle loro numerose eccezioni.
Di fronte a ciò occorre tener fermo il fatto che ogni interes-
se e ogni valutazione, ogni determinazione di valore dell’uomo
si riferiscono al singolo e a ciò che è singolare. Pensiamo soltan-
to come si indebolisce presto il nostro sentimento non appena il
suo oggetto si moltiplica o si mostra come un caso eguale tra
328 WILHELM WINDELBAND
mille. «Non è la prima» — così suona uno dei passi più
crudeli del Faust!. Nella singolarità e nell’incomparabilità del-
l'oggetto si radicano tutti i nostri sentimenti di valore. Su ciò
poggia la dottrina spinoziana del superamento dei moti dell’ani-
mo attraverso la conoscenza: per essa la conoscenza è infatti
un tuffarsi del particolare nell’universale, del singolare nel-
l'eterno.
Ma che ogni valutazione vitale dell’uomo dipenda dall’unici-
tà dell’oggetto, risulta anzitutto dalla nostra relazione con le
personalità. Non è forse un'idea insopportabile che un essere
caro e amato possa esistere tal quale anche soltanto una seconda
volta? Non è pauroso e impensabile che debba esistere nella
realtà un secondo esemplare di noi stessi, con questa nostra
peculiarità individuale? Di qui l’orrore, la spettralità inerente
alla rappresentazione del sosia — anche se a una distanza tem-
porale molto grande. È sempre stato per me penoso il fatto che
un popolo pieno di gusto e di sentimenti raffinati come quello
greco si sia abbandonato alla dottrina, che attraversa tutta la
sua filosofia, secondo cui nel ricordo periodico di tutte le cose
deve ritornare anche la personalità, con tutto il suo agire e il
suo patire. Come è svalutata la vita se si conosce con esattezza
quante volte è già esistita e quante volte si ripeterà! com'è
spaventosa l’idea che già una volta io sono vissuto e ho sofferto,
ho desiderato e lottato, amato e odiato, pensato e voluto, e che
quando il grande anno cosmico è trascorso e il tempo ritorna,
devo recitare sempre di nuovo lo stesso ruolo sulla stessa sce-
nal E ciò che vale per la vita individuale dell’uomo vale ancor
più per l’insieme del processo storico: esso ha valore soltanto
se è singolare. Questo è il principio che la filosofia cristiana ha
vittoriosamente affermato nella Patristica contro l’Ellenismo.
Al centro della visione del mondo erano in primo piano la
caduta e la redenzione del genere umano come fatti singolari.
Si trattava della prima grande e forte percezione dell’inalienabi-
le diritto metafisico della conoscenza storica, ossia del diritto
di mantenere il passato, in questa sua realtà singolare, per il
ricordo dell’umanità.
1. GoerHE, parte I, scena « Giornata cupa - campagna » (è la scena in prosa, im-
mediatamente successiva al « Sogno della notte di Valpurga »).
WILHELM WINDELBAND 329
D'altra parte le scienze idiografiche hanno però bisogno a
ogni passo di princìpi generali, che possono prendere a pre-
stito in una fondazione completamente corretta soltanto dalle
discipline nomotetiche. Ogni spiegazione causale di un processo
storico presuppone rappresentazioni generali del corso delle co-
se; e se si vuol ricondurre le dimostrazioni storiche alla loro
pura forma logica, esse conservano sempre — come premesse
supreme — le leggi naturali dell’accadere, in particolare dell’ac-
cadere psichico. Chi non avesse alcuna notizia del modo in cui
gli uomini pensano, sentono e vogliono, non naufragherebbe
soltanto nell’abbracciare insieme i singoli eventi per giungere
alla conoscenza degli avvenimenti, ma già nell’accertamento
critico dei fatti. È certamente assai strano con quanta indulgen-
za siano state in fondo accolte le pretese della scienza dello
spirito nel campo della psicologia. Il grado notoriamente molto
imperfetto con cui sono state finora formulate le leggi della
vita psichica non è mai stato di impedimento agli storici: in
virtù di una conoscenza naturale dell’uomo, in virtù della sensi-
bilità e dell’intuizione geniale essi sapevano quel che basta a
intendere gli eroi e le loro azioni storiche. Ciò dà molto da
pensare e mette seriamente in dubbio se la concezione dei
processi psichici elementari, impostata dai moderni secondo
uno schema matematico-naturale, possa fornire un contributo
apprezzabile alla nostra comprensione della vita reale del-
l’uomo.
Nonostante tali insufficienze di realizzazione nel caso singo-
lo appare chiaramente che nella conoscenza complessiva, in cui
ogni lavoro scientifico deve in definitiva unificarsi, questi due
momenti rimangono l’uno accanto all’altro nella loro particolare
posizione metodologica. Quella conformità delle cose a leggi ge-
nerali offre il saldo quadro della nostra immagine del mondo
esprimendo, al di sopra di ogni mutamento, l'essenza eterna-
mente eguale del reale; e all’interno di questo quadro si dispie-
ga alla memoria della specie la connessione vivente di tutte le
singole configurazioni fornite di valore per l'umanità.
Questi due momenti del sapere umano non possono essere
ricondotti a una fonte comune. Certamente la spiegazione cau-
sale del singolo accadimento con la sua riduzione a leggi gene-
rali induce a ritenere che dovrebbe essere possibile, in ultima
330 WILHELM WINDELBAND
istanza, comprendere in base alla conformità delle cose a leggi
naturali anche la particolare configurazione storica dell’evento
reale. Così Leibniz riteneva che tutte le vérités de fai: abbiano
le loro cause sufficienti nelle vérizés eternelles. Ma egli poteva
postularlo soltanto per il pensiero divino, non realizzarlo per
quello umano.
È possibile illustrare questo punto con un semplice schema
logico. Nella considerazione causale qualsiasi evento partico-
lare assume la forma di un sillogismo in cui la premessa mag-
giore è una legge naturale, ossia un certo numero di necessità
legali, la premessa minore è una condizione data nel tempo o
un complesso unitario di condizioni del genere, e infine la
conclusione è il singolo avvenimento reale. Nello stesso modo
in cui la conclusione presuppone dal punto di vista logico le
due premesse, l’accadere presuppone due specie di cause: da un
lato la necessità atemporale in cui si esprime l’essenza durevo-
le delle cose, dall’altro la condizione particolare che si pre-
senta in un determinato momento del tempo. La causa di
un'esplosione è nel primo significato — quello nomotetico —
la natura del materiale esplosivo che esprimiamo in forma di
leggi fisico-chimiche, mentre nell’altro significato — quello
idiografico — è un movimento singolo, cioè una scintilla, una
vibrazione o qualcosa di simile. Soltanto i due elementi presi
insieme causano e spiegano l'avvenimento, ma nessuno è una
conseguenza dell’altro: la loro connessione non appare fonda-
ta in essi stessi. Quanto poco la premessa minore presente
nella sussunzione sillogistica è una conseguenza di quella mag-
giore, altrettanto poco nel corso dell’accadere la condizione
che si aggiunge all’essenza universale della cosa può essere
derivata da questa essenza legale. Occorre piuttosto ricondurre
a sua volta questa condizione, in quanto evento temporale, a
un’altra condizione temporale da cui essa è derivata secondo
una necessità legale; e così via 17 infinitum. Non si può pensa-
re concettualmente un termine iniziale di questa serie infinita;
e anche quando si tenti di rappresentarlo, la situazione iniziale
risulterà pur sempre qualcosa di nuovo che si aggiunge all’es-
senza universale delle cose, senza derivare da essa. Spinoza ha
espresso questo punto attraverso la distinzione tra due forme di
causalità, quella infinita e quella finita, e ha così eliminato
WILHELM WINDELBAND 33I
con geniale semplicità molte obiezioni su cui i logici moderni
si sono affannati 2 proposito del « problema della pluralità del-
le cause». Nel linguaggio della scienza odierna si potrebbe
dire che lo stato presente del mondo consegue dalle leggi gene-
rali della natura soltanto presupponendo lo stato immediata-
mente precedente, e questo a sua volta presupponendo il suo
precedente, e così via; ma una particolare determinata disposi-
zione degli atomi non deriva mai dalle leggi generali del movi-
mento. Da nessuna « formula universale » si può pervenire im-
mediatamente alla particolarità di un singolo punto tempora-
le: a questo scopo occorrerebbe ancor sempre la subordinazio-
ne alla legge dello stato precedente.
Dal momento che non esiste alcun termine fondato su leggi
generali al quale si possa pervenire seguendo a ritroso la
catena causale delle condizioni, nessuna sussunzione sotto quel-
le leggi può aiutarci ad analizzare il dato temporale fino ai
suoi fondamenti ultimi. In ogni esperienza storica e individuale
rimane quindi per noi un residuo di incomprensibilità — qual-
cosa che non può essere espresso né definito. In tal modo
l'essenza ultima e intima della personalità resiste all’analisi
condotta con categorie generali; e questo elemento impenetrabi-
le si manifesta alla nostra coscienza come il sentimento dell’irri-
ducibilità causale del nostro essere, cioè come il sentimento
della libertà individuale.
A questo punto è già venuta fuori una quantità di concetti e
di problemi metafisici. Per quanto quelli possano essere infelici
e questi mal posti, ne sussiste pur sempre il motivo. L'insieme
del dato temporale si manifesta nella sua indeducibile autono-
mia accanto alla conformità a leggi generali in base alle quali
esso pure si realizza. Il contenuto dell’accadere del mondo non
può essere compreso in base alla sua forma. Su questo scoglio
sono naufragati tutti i tentativi di derivare concettualmente il
particolare dal generale, i «molti» dall’«uno», il «finito»
dall’« infinito », l’«esistenza» dall’« essenza ». Si tratta di una
frattura che i grandi sistemi di spiegazione filosofica del mon-
do sono soltanto riusciti a nascondere, ma non a riempire.
Ciò è quanto vide Leibniz allorché indicò l’origine delle
vérités eternelles nell’intelletto divino e l'origine delle vérités
de fait nella volontà divina. Ciò è quanto vide Kant allorché
332 WILHELM WINDELBAND
trovò nel felice ma inafferrabile fatto che tutto quanto è dato
nella percezione può essere ricondotto sotto le forme dell’intel-
letto, e quindi ordinato e compreso, un indizio di connessioni
teleologiche divine che va molto al di là del nostro sapere
teoretico.
Di fatto nessun pensiero può fornire risposte conclusive a ta-
li questioni. La filosofia può mostrare fin dove giunge la forza
conoscitiva delle singole discipline; ma al di là di queste, nep-
pure essa può conquistare un punto di vista oggettivo. La legge
e l'avvenimento rimangono l’una accanto all’altro come le gran-
dezze ultime e incommensurabili della nostra rappresentazione
del mondo. Qui sta uno dei punti-limite in cui il pensiero
scientifico può soltanto determinare il compito e porre la que-
stione, con la chiara coscienza che non sarà mai in grado di
risolverli.
HEINRICH RICKERT
NOTA BIOGRAFICA
Heinrich Rickert nacque a Danzica il 25 maggio 1863. Frequentò
dapprima l’Università di Berlino e poi quella di Strasburgo, dove nel
1888 conseguì il dottorato — sotto la guida di Windelband — con la
dissertazione Zur Lehre von der Definition (Freiburg i.B., 1888). Dopo
aver ottenuto l’abilitazione a Heidelberg, con il volume Der Gegenstand
der Erkenntnis (Tibingen, 1892), diventa professore all'Università di
Friburgo, dove nel 1894 succede al filosofo positivista Alois Riehl. In
questo periodo egli pubblica le sue opere più significative, da Die
Grenzen der naturwissenschafilichen Begriffsbildung (Tiibingen,
1896-1902, 19132, 1921°4, 19299) a Kulturwissenschaft und Naturwis-
senschaft (Tibingen, 1899, 1910°, 1915*, 192145, 192647), dal saggio
Geschichisphilosophie (Heidelberg, 1905) ad alcuni importanti articoli
sulla teoria dei valori apparsi nella rivista « Logos ». Nel 1916, dopo la
morte di Windelband, gli succede sulla cattedra di Heidelberg, dove
continuerà a insegnare fino alla morte, avvenuta il 28 luglio 1936.
Anche Rickert muove da un’impostazione neocriticistica, e in questa
prospettiva egli affronta, in Der Gegenstand der Erkenntnis, il proble
ma del rapporto tra soggetto e oggetto. Ma già in questo libro la
garanzia della validità della conoscenza viene individuata in un « dover
essere » che appare indipendente dalle condizioni psicologiche del cono-
scere, cosicché l’analisi gnoseologica risulta ricondotta ai presupposti
della teoria dei valori. Successivamente, in Die Grenzen der naturtwis-
senschaftlichen Begriffsbildung e in Kulturwissenschaft und Naturivis-
senschaft, Rickert riprende la distinzione windelbandiana tra scienze
nomotetiche e scienze idiografiche cercando di recuperare, al tempo
stesso, una distinzione oggettiva tra la natura e il mondo storico-sociale,
identificato con la cultura. Egli cerca infatti di derivare dalla distinzione
tra i due gruppi di discipline, e dalla diversità del loro orientamento
conoscitivo, le caratteristiche differenzianti della natura e della cultura.
La medesima realtà si presenta come natura oppure come cultura secon-
do il punto di vista dal quale essa è considerata: perciò la natura è la
realtà considerata in riferimento al generale, cioè determinata nella sua
struttura di leggi, mentre la cultura è la realtà considerata in riferimen-
to all’individuale, cioè costituita da un complesso di fatti e di rapporti
336 HEINRICH RICKERT
particolari. Ma l’individualità dell'oggetto storico non è altro, per Ri-
ckert, che la sua relazione con determinati valori culturali, i quali
presiedono all’elaborazione concettuale della conoscenza storica e valgono
come suoi criteri di scelta. Scienza naturale e conoscenza storica si
differenziano quindi non soltanto per il loro diverso orientamento cono-
scitivo e per il diverso modo di configurarsi della realtà che costituisce
il loro oggetto, ma anche per la presenza o l’assenza di un riferimento
ai valori: mentre la conoscenza della natura prescinde da qualsiasi
relazione di valore, cosicché la natura si presenta come un sistema di
rapporti regolati da leggi generali, la conoscenza storica seleziona il
dato empirico in base a criteri di valore. La cultura — oggetto della
conoscenza storica — è perciò la realizzazione storica dei valori, di
valori incondizionati che sussistono di per sé, indipendentemente dall’e-
ventuale riconoscimento che' possono ricevere da parte degli uomini.
Questo rapporto con i valori costituisce il « senso» della cultura, e dà
perciò significato all’azione storica degli individui e alle varie forme
storiche di cultura.
Negli anni successivi al 1g1o Rickert appare sempre più impegnato
nel tentativo di dare una formulazione sistematica della teoria dei
valori, alla quale fa riscontro un’interpretazione metafisica del processo
storico. E questo tentativo appare accompagnato, soprattutto in Die
Philosophie des Lebens (Tibingen, 1920), dalla presa di posizione pole-
mica contro i più svariati indirizzi della filosofia del Novecento, respon-
sabili ai suoi occhi di negare la trascendenza e l’assolutezza dei valori e
ricondotti all’etichetta della filosofia della vita — una designazione che
serve per qualificare tanto Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, quanto
James e Bergson, e che verrà in seguito estesa anche a Weber e a
Jaspers. Nel primo volume, il solo pubblicato, del System der Philoso-
phie (Tibingen, 1921), Rickert cerca di elaborare un sistema dei valori
fondato sulla distinzione di sei sfere di valori: tre sfere di carattere
contemplativo, che sono quelle della scienza, dell’arte e della religiosità,
e tre sfere di carattere pratico, che sono quelle della comunità etica,
della comunità erotica e della comunità religiosa con la divinità. In
questo quadro la storia viene interpretata come l'organo di riconoscimen-
to dei valori, in quanto questi, pur avendo una loro autonoma esistenza
su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, possono essere
individuati soltanto sulla base di determinati beni culturali storicamente
realizzati.
L'ultima fase del pensiero di Rickert — da Die Logik des Pridikats
und das Problem der Ontologie (Heidelberg, 1930) a Grundprobleme der
Philosophie (Tibingen, 1934) e ai saggi raccolti nel volume postumo
Unmittelbarkeit und Sinndeutung (Tibingen, 1939) — è caratterizzato
dall'accentuazione del carattere ontologico della teoria dei valori e dal
HEINRICH RICKERT 337
duplice richiamo a Hartmann e a Heidegger. I! problema del rapporto
tra cultura e mondo dei valori viene a configurarsi come il problema
del posto dell’uomo nel mondo; e l’analisi antropologica appare fondata
sulla determinazione del legame dell’uomo con i diversi modi dell’esse-
re. L'uomo nasce e cresce come essere naturale, e diventa «uomo
culturale » ponendosi in relazione con i valori, cioè con una realtà
trascendente che stabilisce il senso della sua esistenza e del suo sforzo
di realizzazione storica dei valori.
22. STORICISMO TEDESCO.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Ricordiamo qui le altre opere di Rickert: Psycho-physische Kausalitàt
und psycho-physischer Parallelismus, Tibingen, 1900; Das Eine, die Ein-
heit und die Eins: Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, Heidelberg,
1911, 1924?; Kant als Philosoph der modernen Kultur, Tiibingen, 1924;
Die Heidelberger Tradition und Kants Kritizismus, Berlin, 1934. Nume-
rosi sono gli articoli apparsi in « Logos », nelle « Kantstudien » e in va-
rie altre riviste, dei quali indichiamo qui soltanto i principali: Uber die
Aufgabe einer Logik der Geschichte, « Archiv fir systematische Philoso-
phie », VIII, 1902, pp. 137-63; Zwei Wege der Erkenninistheorie, « Kant-
studien », XIV, 1909, pp. 169-228; Vom Begriff der Philosophie, « Lo-
gos », I, I9I0, pp. 1-34; Lebenswerte und Kulturwerte, « Logos », II, 191I-
1912, pp. 131-142; Vom System der Werte, « Logos », IV, 1913, pp. 295-327;
Uber logische und ethische Geltung, « Kantstudien », XIX, 1914, pp. 182-
221; Psychologie der Weltanschauungen und Philosophie der Werte, « Lo-
gos », IX, 1920-21, pp. 1-42 (in polemica con Jaspers); Die Methode der
Philosophie und das Unmittelbare, «Logos», XII, 1923-24, pp. 235-80;
Vom Anfang der Philosophie, « Logos », XVI, 1925, pp. 121-62; Die Er-
kenninis der intelligibeln Welt und das Problem der Metaphysik, « Logos »,
XVI, 1927, pp. 162-203, e XVIII, 1929, pp. 36-82; Geschichte und System
der Philosophie, « Archiv fiir Geschichte der Philosophie », XL, 1931,
pp. 7-46 e 403-48; Wissenschaftliche Philosophie und Weltanschauung,
« Logos », XXII, 1933, pp. 37-57.
Le opere di Rickert non sono state più ristampate in epoca recente,
né di esse esistono traduzioni italiane.
Tra gli studi dedicati alla filosofia di Rickert segnaliamo i seguenti:
O. ScHLunke, Die Lehre vom Bewusstsein bei Heinrich Rickert, Leipzig,
IQII.
A. Faust, Heinrich Rickert und seine Stellung innerhalb der deutschen
Philosophie der Gegenwart, Tibingen, 1927.
F. FepeRIcI, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert, Firenze, 1933.
G. GurvitcH, La théorie des valeurs de H. Rickert, « Revue philosophique
de la France et de l’étranger », CKXIV, 1937, pp. 80-88.
HEINRICH RICKERT 339
B. W. ScHescHics, Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen
Schule, Berlin, 1938.
E. Pact, Pensiero esistenza e valore, Milano, 1940, pp. 47-53.
G. Rammino, Karl Jaspers und Heinrich Rickert. Existentialismus und
Wertphilosophie, Bern, 1948.
C. Rosso, Figure e dottrine della fiosofia dei valori, Torino, 1949, e Na-
poli, 1973”, cap. IX.
A. Mitter-Rostowsra, Das individuelle als Gegenstand der Erkenninis:
eine Studie zur Geschichtsmethodologie Heinrich Rickerts, Winterthur,
1955.
H. Sere, Wert und Wirklichkeit in der Philosophie Heinrich Rickerts,
Bonn, 1968.
Una bibliografia ormai invecchiata, ma che fornisce molte indicazioni
sugli scritti di Rickert e su Rickert nei primi decenni del secolo, si trova
in F. FeperIci, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert cit., pp. 99-106.
LA FILOSOFIA DELLA STORIA*
INTRODUZIONE
All’inizio del secolo xx le scienze filosofiche si trovano anco-
ra, in gran parte, sotto il segno della restaurazione. La loro
ultima fioritura è dipesa dal ridestarsi dell’interesse per Kant, e
anche le idee con cui la filosofia di orientamento kantiano deve
oggi combattere non sono sorte nella nostra epoca, ma derivano
da un periodo ancora precedente dello sviluppo filosofico. Si
tratta per lo più di respingere di nuovo il naturalismo illumini-
stico, su cui l’idealismo di Kant non è riuscito a riportare una
vittoria definitiva. Nello stesso modo, se qualcuno volesse soste-
nere che anche Kant è almeno in parte superato, non si potreb-
be dire che ciò sia avvenuto ad opera di idee elaborate di
recente: quasi tutti i progressi reali compiuti rispetto a Kant
risiedono essenzialmente nella direzione imboccata dai suoi im-
mediati successori, a cui oggi ci si comincia a rifare. Per
questo motivo lo studio della storia della filosofia riveste oggi
un grosso significato, e per questo motivo festeggiamo un uo-
mo come Kuno Fischer, che non soltanto ha molto contribui-
to a rianimare la comprensione di Kant, ma ha anche riavvici-
nato alla nostra epoca le idee dei suoi grandi discepoli. Non
bisogna temere di dover ripercorrere il processo di sviluppo che
* Geschichtsphilosophie, in Die Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhun-
derts: Festschrife fiir Kuno Fischer (a cura di W. Windelband), Heidelberg, Carl
Winter*s Universitàtsbuchhandlung, 1904-5, vol. II, pp. 51-133 (traduzione di San-
dro Barbera e Pietro Rossi).
1. Kuno Fischer (1824-1907), storico della filosofia di orientamento hegeliano, au-
tore di un'importante Geschichte der neueren Philosophie (1854-77) e della monografia
Hegels Leben, Werke und Lehre (1901): la sua opera ha largamente ispirato l'interpre-
tazione in senso idealistico dello sviluppo del pensiero filosofico moderno.
342 HEINRICH RICKERT
ha condotto da Kanta Fichte, da questi a Schelling o a Schopen-
hauer, e poi fino a Hegel. La nuova epoca comporta nuove
questioni, che esigono risposte nuove: nulla si è mai ripetuto
nella vita storica. Ma non si deve chiudere gli occhi dinanzi
alla prospettiva che l’idealismo kantiano e post-kantiano contie-
ne un tesoro di idee che è ancora lungi dall’esser stato utilizza-
to completamente e dal quale possiamo trarre, se dobbiamo
misurarci con i problemi filosofici della nostra epoca, una quan-
tità di idee preziose.
Ciò vale per nessun'altra disciplina filosofica più che per la
filosofia della storia. Benché negli ultimi tempi l’interesse per
essa sia straordinariamente aumentato, la filosofia della storia
non può, almeno per quanto riguarda i suoi concetti fondamen-
tali, avanzare la pretesa di insegnare qualcosa di mai udito, di
nuovo. Proprio le speculazioni che vengono considerate partico-
larmente « moderne » vivono quasi esclusivamente di idee che
hanno trovato la loro formulazione nell’Illuminismo; e anche
la tendenza che combatte questi indirizzi illuministici è costret-
ta a riconoscere con gratitudine che alcune delle sue armi
migliori sono state forgiate in parte da Kant, e in parte ancora
maggiore dagli idealisti post-kantiani, in particolare da Fichte
e da Hegel. Chi volesse quindi avere un quadro della situazio-
ne attuale della filosofia della storia e dei suoi movimenti, dei
suoi problemi principali e delle diverse direzioni che Ja loro
soluzione assume, potrebbe tentare — per acquisire i concetti
fondamentali — di seguire all’indietro i fili che portano all'i-
dealismo tedesco e più in là, procedendo verso il passato, fino
all’Illuminismo. Ma anche nell’ambito della filosofia della sto-
ria non si tratterà di una mera restaurazione dei precedenti.
Per rendersene conto basta pensare allo sviluppo della scienza
storica nel secolo xx; e in ogni caso nei sistemi del passato
dobbiamo distinguere ciò che è valido in modo durevole da ciò
che è « storicamente » divenuto. Per la filosofia della storia ciò
è stato fatto soltanto in parte. Occorreranno ancora varie inda-
gini, del tipo di quelle condotte da Lask? sull’idealismo di
2. Emil Lask (1875-1915), filosofo tedesco allievo di Windelband, autore di Die
Logik der Philosophie und die Kategorienlehre (1911) e di Die Lehre vom Urteil (1912).
Rickert si riferisce qui al volume Fichtes Idealismus und die Geschichte, Tibingen,
1902.
HEINRICH RICRKERT 343
Fichte e la storia, perché emerga il significato durevole di
queste idee. Già per questo motivo l’orientamento storico non
si presta a un rapido sguardo sul presente. E anche a prescinde-
re da ciò, qui non è consigliabile procedere in modo esclusiva-
mente storico. Nonostante tutta la gratitudine che proviamo
per il nostro passato filosofico, nonostante il riconoscimento
della sua superiorità di originalità creativa, occorre augurarsi
di venir fuori della nostra situazione di epigoni, di non procede-
re soltanto dall’epoca dell’Illuminismo all’epoca di Kant, ma di
tentare di percorrere la nostra via; e proprio la filosofia della
storia ha forse più occasioni per porre in rilievo che il filosofo
non può mai essere soltanto uno storico, che la filosofia non
può mai arrestarsi alla storia. Lasciamo quindi da parte il
passato e tentiamo di sviluppare un orientamento sistematico.
Ma anche su questa via ci imbattiamo in difficoltà. L’inten-
sa familiarità con la storia ha recato con sé non soltanto una
grande ricchezza di idee filosofiche, ma anche una confusione
considerevole e quindi un’insicurezza che si estende ai concetti
più elementari del nostro lavoro. Alla questione di che cosa sia
in generale la filosofa non esiste alcuna risposta che goda di
riconoscimento generale, e ciò che vale per la totalità varrà per
le sue parti. Se vogliamo procedere senza arbitrio, dobbiamo
anzitutto richiamare i diversi significati che si connettono all’e-
spressione « filosofia della storia » e giustificare il nostro concet-
to di tale scienza.
Anzitutto tre concetti emergono chiaramente. Della filosofia
in generale si dice che sarebbe la scienza dell’universale, in
antitesi alle scienze particolari. Filosofare vorrebbe quindi dire
cercare una conoscenza complessiva della realtà, fornire l’insie-
me di ogni conoscenza scientifica. Se su questa base si determi-
nano i compiti di una filosofia della storia, essa deve raccoglie-
re — mentre le scienze storiche particolari hanno a che fare
con i campi particolari della vita storica — ciò che quelle
singole discipline hanno scoperto in un quadro complessivo uni-
tario, in uno sguardo d’insieme sulla totalità, in breve, in una
storia universale. Filosofia della storia in questo primo significa-
to del termine equivarrebbe quindi a storia universale. Ma la
generalità di un’esposizione può essere intesa in modi diversi.
Se, per richiamarci nuovamente al concetto della filosofia in
344 HEINRICH RICKERT
generale, si pone ad essa il compito di fornire una conoscenza
complessiva della realtà, allora non si può ritenere che essa
possa accogliere in sé tutta la pienezza di contenuto del mate-
riale conosciuto dalle discipline particolari. La sua generalità
deve piuttosto essere sempre connessa con una generalizzazione
nel senso che il contenuto del sapere specialistico va perduto in
grado maggiore o minore, e in definitiva tale generalizzazione
può spingersi al punto che soltanto i « principi » generali diven-
tano oggetto di indagine. Di qui deriva anche un nuovo concet-
to della filosofia della storia. In questo modo tale disciplina
deve lasciar da parte il contenuto particolare della vita storica,
per indagare sul suo «senso» universale o sulle sue «leggi»
universali. Anche senza un’ulteriore determinazione dei concet-
ti di senso e di legge, sorge così il concetto di una scienza dei
princìpi storici, che si distingue nettamente dal concetto di
storia universale. E infine, se storia non significa ciò che è ac-
caduto, bensì rappresentazione di ciò che è accaduto o scien-
za della storia, si perviene a un terzo concetto. In ogni caso,
quest’ultimo concetto si accorda con un punto di vista, varia-
mente rappresentato, in merito ai compiti della filosofia in ge-
nerale, per cui essa — specialmente nella sua parte teoretica —
deve avere per oggetto non tanto le cose stesse, quanto il
sapere relativo alle cose. La filosofia della storia può quindi
essere considerata anche come scienza del conoscere storico o
come una parte della logica nel senso più ampio del termine.
Forse si sentirà ancora la mancanza di una disciplina che si
occupi del significato del pensiero storico per la trattazione dei
problemi generali dell’intuizione del mondo e della concezione
della vita. Ma a tali questioni sarà facile rispondere se il lavo-
ro finora solo indicato è stato compiuto e non c'è quindi moti-
vo di elencare un quarto tipo di filosofia della storia. Certamen-
te la storia universale, la dottrina dei princìpi della vita storica
e la logica della scienza storica sembrano essere, di fatto, tre
scienze egualmente legittime, ognuna delle quali ha i suoi
problemi particolari, e che hanno però tutte diritto al nome di
filosofia della storia.
Ma se si guarda con maggior precisione, si presenta subito
un quadro diverso. Come la storia universale deve sussistere
accanto alle singole discipline storiche? Dev’essere concepita
HEINRICH RICKERT 345
come una mera somma delle scoperte di quelle? Certamente
no. Da essa si esigerà al minimo che esponga in modo unitario
la totalità storica. Ma che cos’è questa totalità, in cui con-
siste il principio della sua unità e della sua articolazione? Attra-
verso questioni di questo genere il primo tipo di filosofia della
storia conduce, nella trattazione dei suoi concetti fondamenta-
li, al secondo tipo. Ma anche i concetti di cui la scienza dei
princìpi ha bisogno per determinare il suo compito non posso-
no venir presupposti come ovvi, sia che si pensi a «leggi»
universali a cui dev'essere sottoposta ogni vita storica, sia
che si voglia porre a fondamento della totalità dello sviluppo
storico un «senso» unitario. In questi concetti vi sono dei
problemi. Mentre ognuno ritiene ovvio cercare le leggi natura-
li, si contesta però decisamente la possibilità di indicare leggi
storiche; prescindendo da questo, perché nel campo delle scien-
ze naturali le leggi vengono ricercate dalle stesse discipline
particolari, mentre per la storia questo compito spetta a una
disciplina filosofica? Con quale diritto, inoltre, ipotizziamo un
senso del corso storico, e quali strumenti abbiamo per ricono-
scerlo? La filosofia della storia come scienza dei princìpi non
può cominciare il suo lavoro senza affrontare questioni di tal
genere; né potrà rispondere ad esse se non ha chiara l’essenza
del conoscere storico in generale, cioè se non possiede nozioni
logiche. Vediamo così la seconda delle tre discipline condurre
alla terza, nello stesso modo in cui la prima conduceva alla se-
conda. Da ciò deriva pertanto tra i diversi tipi di filosofia della
storia — che a prima vista sembravano costituire tre scienze
indipendenti, ognuna con problemi differenti — una connessio-
ne tale che la logica della storia deve costituire il punto di
partenza e il fondamento di tutte le indagini di filosofia della
storia. Fino a quale punto, poi, i problemi della scienza dei
princìpi e della storia universale debbano trasformarsi in proble-
mi logici, se devono poter essere risolti in generale, è cosa
che soltanto l’indagine concreta può stabilire. Ma già da ora è
certo che non è arbitrio, ma necessità, se prendiamo qui le
mosse da uno sguardo d'insieme sui problemi e sui dibattiti più
importanti della logica della storia.
346 HEINRICH RICKERT
I. LA LOGICA DELLA SCIENZA STORICA
Anteponendo questa parte entriamo immediatamente nel
campo della filosofia della storia, in cui la nostra epoca può
maggiormente pretendere una certa originalità. Per la formula-
zione e la trattazione logica dei problemi si trovano nella filoso-
fia dell’idealismo tedesco osservazioni sì molto valide, ma isola-
te e asistematiche; e nella filosofia pre-kantiana del passato e
del presente non si è fatto nulla per rispondere a tali questio-
ni. Nonostante l’evidente connessione tra logica della storia e
filosofia della storia in senso lato, i primi tentativi di compren-
dere a fondo, nel suo carattere specifico, l’essenza logica della
scienza storica non risalgono molto all’indietro di Paul*, di Navil-
le‘, di Simmel e soprattutto di Windelband. Anche sulle questio-
ni più elementari, infatti, domina finora in questo campo il
più violento contrasto di opinioni; anzi, una logica della storia
che meriti questo nome deve ancora combattere per la giustifi-
cazione della sua esistenza. Non soltanto si crede — come fa
per esempio Lindner® — di poter trattare scientificamente i
problemi della filosofia della storia senza una fondazione logi-
ca, ma si è addirittura contestato il diritto di esporre un concet-
to puramente logico della storia e del metodo storico. I moti-
vi non consistono soltanto nel fatto che in tali questioni sono
intervenuti molti ai quali fa difetto la preparazione necessa-
ria per trattare problemi del genere. E neppure derivano sol-
tanto dalle difficoltà che si presentano in questo campo: solo
che si imbocchi la via giusta, l'essenza logica della storia non è
più difficile da comprendere di quella di altre scienze. Ma
proprio su questa strada non esiste, stranamente, alcuna concor-
dia. Sembrerebbe ovvio che chi va alla ricerca di chiarezza in
questo campo cerchi un orientamento, almeno preliminare, nel-
3. Hermann Paul (1846-1921), glottologo tedesco, autore dei Prinzipien der Sprach-
geschichte (1880), fu un rappresentante del metodo storico nello studio della lin-
guistica.
4. Adrien Naville (1845-1930), filosofo svizzero di origine positivistica, autore del
volume De la classification des sciences, Paris, 1888 — al quale si riferisce qui Rickert
— e di altri scritti di teoria della conoscenza.
5. Theodor Lindner (1843-1919), filosofo e storico tedesco, autore della Geschichts-
philosophie: das Wesen der geschichtlichen Entwicklung (1901), e di una Weltgeschich-
te scit der Volkerivanderung (1901-16).
HEINRICH RICKERT 347
le opere dei grandi storici universalmente riconosciuti, e stabili-
sca anzitutto ciò che distingue il pensiero storico da quello
delle altre scienze. Sembrerebbe poi ovvio che debba essere
anzitutto compresa la struttura logica della scienza storica qua-
le essa esiste, prima di pronunciare un giudizio sul suo valore
scientifico. Ma in questo caso l’ovvio non coincide con ciò che
avviene di solito. Talvolta il riferimento alle opere dei grandi
storici viene piuttosto respinto — per esempio da Lamprecht* e
da Tònnies” — come non scientifico: queste esposizioni non
conterrebbero vera scienza. In particolare, proprio coloro che
per tutto il resto non si stancano di celebrare l’esperienza co-
me unico fondamento di ogni sapere, nell’indagine logica delle
scienze empiriche si mettono al lavoro utilizzando un concetto
di scienza storica fissato in precedenza e mai realizzato; e
poiché non trovano mai gli storici sulla via che conduce al loro
ideale, pensano che sia anzitutto necessario elevare a scienza la
storia. In teste di questo genere si è così fissata l’idea di
un’antitesi tra scienza e storia, e proprio questi pensatori si
sentono stranamente chiamati a istruire la scienza storica sui
suoi veri fini.
Non ci si deve meravigliare del fatto che la maggior parte
degli storici non vuole saperne di simili speculazioni estranee
alla storia. Così avviene che storia e filosofia spesso non si
comprendono più, ed entrambe soffrono di questa situazione.
L’astorica filosofia della storia che un tempo aveva avuto larga
risonanza soprattutto nella forma delle teorie (non della pras-
si) di un Taine® e di un Buckle e che oggi viene rinnovata,
6. Karl Lamprecht (1856-1915), storico tedesco, autore di importanti saggi meto-
dologici come Alte und neue Richtungen in der Geschichtswissenschaft (1896), Was
ist Kulturgeschichte? (1896-97), Die kulturhistorische Methode (1900) e della Einf@zhrung
in das historische Denken (1912), nonché di una monumentale Deutsche Geschichte
in dodici volumi (1891-1904), è il maggiore rappresentante dell’orientamento positivi.
stico nella storiografia tedesca dî fine Ottocento.
7. Ferdinand Tònnies (1855-1936), sociologo tedesco, autore di Gemeinschaft und
Gesellschaft (1887), di Die Sitte (1909), della Kritik der òffentlichen Meinung (1922), del-
la Einfiihrung in die Soziologie (1931), nonché di una nota monografia su Hobbes
(1896) e di vari scritto sul marxismo.
8. Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), storico e filosofo positivista francese, au-
tore della Philosophie de l'art (1865), del libro De l'intelligence (1870), di numerosi
saggi di critica e di storia letteraria, nonché di un'ampia opera, rimasta incompiuta,
su Les origines de la France contemporaine (1876-93), fu il maggiore rappresentante
dell'impostazione positivistica nell’ambito dell'estetica.
348 HEINRICH RICKERT
più con passione che con chiarezza, per esempio da Lamprecht,
è stata abbastanza respinta, per gli scopi della scienza storica
empirica, da Droysen’, Bernheim”, von Below", Eduard Me-
yer e altri. Ma in questo dibattito metodologico tra storici —
in cui sono state introdotte anche questioni come quelle della
libertà e della necessità, della conformità alle leggi e dell’acci-
dentalità, della teleologia e del meccanicismo — molto è rimasto
non chiarito da un punto di vista filosofico, nonostante alcuni
preziosi risultati: perciò anche gli storici si mostrano talvolta
assai perplessi quando, seguendo la «caratteristica dell’epoca »
che torna a farsi più filosofica, passano dalle loro indagini
specialistiche a considerazioni più generali. Ma di questa situa-
zione soffre molto di più la filosofia. A causa della incompren-
sione del pensiero storico, che proprio nella nostra epoca è
quanto mai importante, la filosofia è condannata a una profon-
da mancanza di influenza; e fino a qual punto tale mancanza
d’influenza sia connessa alla separazione dalla storia risulta in
modo particolarmente chiaro dal fatto che, se oggi si manifesta
talora un interesse filosofico nei rappresentanti delle cosiddette
scienze dello spirito, esso è per lo più mediato dal legame con
indagini di metodologia della storia.
Ai nostri giorni l’incomprensione dell’essenza del lavoro sto-
rico viene naturalmente in luce con la massima chiarezza nei
rappresentanti dei dogmi naturalistici, oggi nuovamente di mo-
da; e non fa una differenza essenziale se questo naturalismo si
presenta come materialismo o come psicologismo. In entrambi
i casi il riconoscimento della storia come scienza significhereb-
be uno scuotimento dei concetti naturalistici fondamentali. In-
fatti dove si identifica la realtà con la natura, vi è tanto meno
spazio per la storia quanto più si pensa in modo coerente. Ma
l’estraneità della nostra filosofia alla storia ha motivi ancor più
9- Johann Gustav Droysen (1808-1884), storico tedesco, autore della Geschichte
des Hellenismus (1836-43) e della Geschichte der preussischen Politik (1855-86), nonché
di un Grundriss der Historik (1868) che espone in forma sistematica i principi del me-
todo storico.
ro. Ernst Bernhcim (1850-1942), metodologo della storia tedesco, autore di un
fortunato Le/lrbuch der historischen Methode und der Geschichtsphilosophie (1889).
rt. Georg von Below (1858-1927), storico tedesco, autore di Der deutsche Staat des
Mittelalters (1914), di Die deutsche Geschichtsschreibung von den Befreiungskriegen an
bis zu unseren Tagen (1916), nonché di altri studi di storia costituzionale ed economica.
HEINRICH RICKERT 349
profondi. Per quanto il naturalismo come intuizione del mon-
do sia stato in linea di principio completamente superato per
merito di Kant, nella sostanza tale superamento non procede in
direzione del pensiero storico. Nel seguace di Newton vi sono
al massimo le premesse per una comprensione di questo pensie-
ro, e la metodologia di Kant è ancora dominata quasi del
tutto — e proprio nella sua più importante opera teoretica —
dall’interesse per la matematica e per la scienza naturale. Di
fatto, quindi, ci si può richiamare a Kant — come fa per
esempio Max Adler! — con una certa parvenza di legittimità
se si ricusa al lavoro storico un vero e proprio carattere scientifi-
co. Si aggiunga infine che tra le scienze della natura — nella
misura in cui sono scienze sistematiche — e la filosofia — che
anch'essa aspira a un sistema — c’è un’affinità formale maggio-
re di quella che esiste tra la filosofia e la storia, la quale non
può mai diventare una scienza sistematica. Si deve anzi parlare
di un antagonismo tra pensiero storico e pensiero filosofico, che
nessuno può anche soltanto desiderare di accantonare: la filoso-
fia dovrà sempre combattere lo storicismo come intuizione del
mondo. Ma tutto ciò fa apparire ancor più urgenti i compiti
di una logica della storia. Il naturalismo viene respinto non
meno dello storicismo, e la filosofia può sperare di aver ragione
dello storicismo soltanto se ha compreso a fondo l’essenza e il
significato del pensiero storico. Da tutto ciò deriva per la logi-
ca il compito di superare completamente nella sua unilateralità
il naturalismo metodologico, ancora rappresentato pure da Kant,
e di pervenire così a una comprensione di ogri lavoro scien-
tifico.
L'affermazione che finora poco si è fatto per la soluzione di
questo compito incontrerà forse opposizioni se si tengono pre-
senti le molte indagini sull’essenza delle «scienze dello spiri-
to» intraprese da Mill in poi; e certamente non si può dire che
12. Max Adler (1873-1937), sociologo e filosofo austriaco, autore di Marx als Denker
(1908), di Marxistische Probleme (1913), di Kant und der Marxismus (1925), di Das
Soziologische in Kants Erkenntniskritik (1925), del Lehrbuch der materialistischen Ge-
schichtsauffassung (1930) e di varie altre opere, fu uno dei maggiori esponenti
del cosiddetto austro-marxismo, orientato verso un’interpretazione in chiave kantiana
di Marx, Rickert si riferisce qui al volume Kausalitàt und Teleologie im Streite um
die Wissenschaft, Wien, 1904.
350 HEINRICH RICKERT
tutti questi lavori siano privi di valore. Ma nelle indagini (per
altro verso estremamente preziose) condotte per esempio da
Dilthey, Wundt!, Miinsterberg! e da altri, il punto decisivo,
che rende possibile una reale comprensione logica della storia,
non è stato affatto toccato (come da parte di Wundt e di
Miinsterberg) oppure (come in Dilthey) non è stato elaborato
in modo preciso e posto al centro, in modo da diventare real-
mente fecondo in una logica della storia. Ciò trova già espres-
sione nella terminologia consueta, che contrappone le scienze
dello spirito alle scienze della natura. L’antitesi tra natura e
spirito è oggi tutt'altro che univoca. I pensatori che si sono
occupati dell'essenza delle scienze dello spirito determinano in
modo assai diverso anche il concetto fondamentale di spirito, e
sono d'accordo soltanto su un punto, cioè che esistono in gene-
rale due gruppi diversi di scienze empiriche. E nemmeno si
può sperare che dal concetto di spirito si pervenga a un accor-
do sull’essenza del pensiero storico. Questi tentativi contengo-
no alla loro base troppi presupposti per lo più di carattere
metafisico, che offrono soltanto degli appigli a un naturalismo
estraneo alla storia. L'unico concetto di spirito con cui oggi si
può lavorare senza bisogno di una fondazione più precisa è
quello di realtà psichica in antitesi a quella fisica: che ciò che
chiamiamo piacere o ricordo o volontà non sia un corpo, è
infatti ammesso da tutti i pensatori che meritano di essere
presi in considerazione. Ma quest’unico concetto di spirito, sen-
z’altro utilizzabile, è del tutto inadeguato per una delimitazio-
ne delle diverse scienze e per la comprensione dell’essenza della
13. Wilhelm Wundt (1832-1920), psicologo e filosofo tedesco, autore dei Bei-
trige zur Theorie der Sinneswahrnehmung (1858-62), delle Vorlesungen fiber die Men-
schen- und Tierseele (1863-64), dei Grundziige der physiologischen Psychologie (1874),
della Logik (1880-83), della Eekik (1886), del Systera der Philosophie (1889), della
Einleitung in° die Philosophie (1901), della Volkerpsychologie (1904) e di varic altre
opere, fu il maggiore esponente del positivismo in Germania: è considerato il fonda-
tore della moderna psicologia scientifica, basata sul metodo sperimentale. Rickert si
riferisce qui alla terza parte della Logik, che reca il titolo Logi der Geisteswissen-
schaften (vol. Il-2, 2° cd. Stuttgart, 1895).
14. Hugo Miinsterberg (1863-1916), psicologo c filosofo tedesco, autore dei Grund-
zige der Psychologie (1900-1918), della Philosophie der Werte (1908), di Psychologie
und Wirtschaftsleben (1912), dei Grundzige der Psychotechnik (1914) e di varie altre
opere, si ispirò da una parte all'insegnamento di Wundt e dall'altra alla filosofia
dei valori.
HEINRICH RICRERT 35I
storia. Il naturalismo può a buon diritto sostenere che, se l’ele-
mento spirituale nel senso sopra indicato non è certamente
corpo, appartiene però del tutto alla natura, e dev'essere quin-
di indagato scientificamente allo stesso modo di tutti gli altri
oggetti naturali. Esso può sostenere che non si tratta soltanto
di una teoria, ma che la prassi della psicologia moderna eleva
questa certezza al di sopra del conflitto tra le diverse prospetti-
ve metodologiche. Di fronte a queste affermazioni i sostenitori
dell’antitesi tra scienze della natura e scienze dello spirito saran-
no disarmati finché non avranno determinato il loro concetto
fondamentale in modo incontestabile, e nel caso del concetto
di spirito ciò non sarà mai possibile con mezzi logici, o in
ogni caso lo sarà soltanto qualora si sia già acquisito il concet-
to logico della storia.
La dottrina del metodo non ha alcun bisogno di impegnarsi
dapprima in tutte queste questioni controverse, se rivolge la
sua attenzione soltanto a ciò che vuol porre in chiaro, cioè
al metodo. Il metodo consiste nelle forme utilizzate dalla scien-
za nell’elaborazione del suo materiale. Con ciò non si vuol
negare che il metodo sia variamente condizionato dal carattere
specifico del materiale. Anche un’indagine che rifletta sulla
diversità di contenuto delle singole scienze può condurre quin-
di a questo o a quel risultato, prezioso dal punto di vista
logico. Ma questi risultati si presenteranno in modo più o me-
no accidentale, e una logica che vuol raggiungere il suo fine
con sicurezza e per la via più breve prescinde pertanto da tutte
le distinzioni di contenuto delle singole scienze, per poter me-
glio comprendere le distinzioni metodologiche di carattere for-
male. Essa deve soltanto riflettere sul fatto che nelle scienze
empiriche agli oggetti si contrappone sempre un soggetto cono-
scente che — siano essi oggetti spirituali o corporei, processi
naturali o prodotti culturali — li assume come « dati », e che il
soggetto si prefigge il fine di conoscere questa o quella parte, o
anche la totalità del mondo dato. Si riconoscerà allora facilmen-
te che la conoscenza non consiste in una riproduzione o in una
copia, ma in una comprensione trasformatrice degli oggetti. A
dimostrarlo già basta, prescindendo da tutti gli altri motivi, la
semplice riflessione che la realtà data — da cui muove ogni
scienza empirica — si presenta, nella totalità come in ogni sua
352 HEINRICH RICKERT
parte, come una molteplicità sterminata che nessuno è in grado
di riprodurre. Il contenuto di ogni giudizio che asserisca qual-
cosa sulla realtà è necessariamente, in confronto alla realtà stes-
sa, una grossa semplificazione. La scienza può perciò anche
essere considerata come una trasposizione del materiale dato
intuitivamente in immagini di pensiero, per le quali si preferi-
sce usare il nome di concetto per distinguerle dall’intuizione.
In questo processo di trasformazione concettuale consiste il me-
todo della scienza. Inoltre — ed è questa la cosa principale —
le forme del lavoro scientifico, in quanto strumenti per il
conseguimento del fine scientifico, devono dipendere nel loro
carattere specifico dalla specificità formale dei fini a cui il
soggetto tende nel conoscere. La logica deve quindi indagare i
compiti, formalmente diversi tra loro, che le diverse scienze si
pongono e cercare di comprendere i metodi scientifici nella
loro diversità come gli strumenti, necessariamente differenti,
per il conseguimento di questi diversi fini o come i modi,
anch'essi necessariamente differenti, della trasformazione e del-
l’elaborazione concettuale del materiale intuitivamente dato.
Ovviamente, le distinzioni metodologiche che ne risultano so-
no, al pari delle distinzioni dei fini, puramente formali; ma
proprio in virtù di questo loro carattere puramente formale
esse devono valere come elementi fondamentali e decisivi per la
comprensione dell’essenza logica di un metodo scientifico. La
logica ha a che fare sempre e soltanto con le forme del pen-
siero.
Se da queste determinazioni generali del compito di una
logica delle scienze particolari ci volgiamo ai concetti fonda-
mentali che la logica della scienza storica deve sviluppare in
modo particolare, sarà necessario in primo luogo recare alla
coscienza la massima antitesi formale presente nella nostra con-
cezione della realtà empirica, cioè chiedersi che cosa significhi
logicamente quest’antitesi e indicare quale termine dell’antitesi
sia determinante per la rappresentazione storica della realtà.
Che vi siano due tipi sostanzialmente diversi di apprendimento
della realtà, si può forse comprenderlo nel modo migliore guar-
dando alle conoscenze pre-scientifiche che possediamo di una
parte più o meno grande del mondo. Sarebbe illusorio credere
di avere qui una copia della realtà quale essa è. Prima che la
HEINRICH RICKERT 353
scienza si accinga al suo lavoro è sorta già sempre qualche
specie di elaborazione concettuale, e la scienza trova come pro-
prio materiale i prodotti di questa elaborazione concettuale pre-
scientifica, non la realtà libera da interpretazioni. La massima
distinzione formale in questa elaborazione concettuale pre-scien-
tifica è però quella seguente. La maggior parte delle cose e
degli eventi ci interessano solamente per quello che hanno in
comune con altri; e quindi noi facciamo attenzione a questo
elemento comune, anche se di fatto ogni parte della realtà è
individualmente diversa da ogni altra e nulla nel mondo si
ripete esattamente. Poiché l’individualità della maggior parte
degli oggetti ci è del tutto indifferente, noi non la conosciamo;
per noi questi oggetti non sono che esemplari di un concetto di
genere, che possono essere sostituiti da altri esemplari dello
stesso concetto: anche se non sono mai identici, noi li vediamo
come tali e quindi li designamo soltanto con nomi di genere.
Questa delimitazione, a tutti nota, dell’interesse a ciò che è
generale (nel senso di ciò che è comune a un gruppo di ogget-
ti), o apprendimento generalizzante, sulla cui base riteniamo a
torto che nel mondo esista qualcosa come l’identità e la ripeti-
zione, è per noi al tempo stesso di grande valore pratico. Esso
articola in un modo determinato la molteplicità e la policro-
mia della realtà, e ci rende possibile di orientarci in essa.
D'altra parte l'apprendimento generalizzante non esaurisce
affatto ciò che ci interessa nel nostro ambiente, e che quindi
conosciamo di esso. Questo o quell’oggetto viene piuttosto pre-
so in considerazione proprio per quello che è ad esso peculia-
re, e che lo distingue da tutti gli altri oggetti. Il nostro in-
teresse e la nostra conoscenza si riferiscono quindi proprio alla
sua individualità, a ciò che lo rende insostituibile; e se anche
sappiamo che esso si lascia cogliere, al pari degli altri oggetti,
come esemplare di un concetto di genere, tuttavia non voglia-
mo considerarlo identico ad altre cose, ma vogliamo estrarlo
espressamente dal suo gruppo: ciò trova la sua espressione lin-
guistica nella designazione con un nome proprio anziché con
un sostantivo di genere. Anche questo tipo di articolazione, o
apprendimento individualizzante della realtà, è così corrente
che non richiede una ulteriore analisi. Ma una cosa è importan-
te e dev'essere sottolineata: la conoscenza dell’individualità di
23. STORICISMO TEDESCO.
354 HEINRICH RICKERT
un oggetto non costituisce neppur essa una copia nel senso che
noi conosciamo l’intera molteplicità del suo contenuto, ma an-
che qui si compie una determinata scelta e trasformazione,
cioè si estrae un complesso di elementi che, in questa partico-
lare composizione, appartiene soltanto a quell’urico oggetto de-
terminato. Dobbiamo quindi distinguere l’individualità che spet-
ta a qualsiasi cosa o evento — il cui contenuto coincide con la
sua realtà, e la cui conoscenza non può essere raggiunta né
merita di essere oggetto di aspirazione — dall’individualità
per noi significativa, e consistente di elementi determinati; e
dobbiamo aver chiaro che questa individualità in senso stretto
(la sola a cui di solito si allude) non costituisce una realtà,
al pari del concetto di genere, ma è soltanto un prodotto del
nostro apprendimento della realtà, della nostra elaborazione
concettuale pre-scientifica.
La distinzione qui illustrata deve suscitare in alto grado
l'interesse della logica. In primo luogo, non soltanto ogni lavo-
ro scientifico si richiama a processi pre-scientifici e ai loro risul-
tati, ma dev'essere in larga misura inteso come elaborazione
sistematica di ciò che è stato cominciato in modo non arbitra-
rio. Inoltre tale distinzione è particolarmente significativa sia
perché è puramente formale — in quanto qualsiasi oggetto può
essere appreso in modo generalizzante e in modo individualiz-
zante — sia perché, come antitesi tra generale e particolare,
rappresenta la massima distinzione che si possa pensare da un
punto di vista logico. Se deve avere un significato per i metodi
delle singole scienze, la logica deve anche fare di esse il punto
di partenza delle proprie indagini.
Per quanto riguarda la considerazione generalizzante degli
oggetti, non c'è alcun dubbio non soltanto sulla sua importan-
Za pratica, ma anche sulla sua importanza teoretica per la
scienza. Il metodo di molte scienze consiste in una subordina-
zione del particolare al generale, che coincide con la formazio-
ne di concetti di genere e con la considerazione degli oggetti
come esemplari di questi. Conoscere significa allora comprende-
re ciò che non è conosciuto come caso particolare di ciò che è
noto, in modo da eliminare l’individuale, il singolare, e da
accogliere nella scienza soltanto l'elemento comune. Il fine su-
premo di questa conoscenza è di ricondurre la realtà da cono-
HEINRICH RICRERT 355
scere sotto concetti universali in modo che questi ultimi si
uniscano, mediante rapporti di sovra-ordinazione e di subordi-
nazione, in un sistema unitario, e che si tenda — dove è
possibile — a concetti il cui contenuto valga ir modo incondi-
zionatamente universale per gli oggetti da indagare. Dove si
perviene a questo tipo di conoscenza, si è colto ciò che chiamia-
mo le leggi della realtà. Del tutto legittimo è poi anche il
tentativo di applicare questo metodo di comprensione a tutti i
campi della realtà e di andare quindi ovunque alla ricerca di
leggi, sia nella realtà spirituale o in quella corporea, sia nei
processi naturali o nella vita culturale. Ciò può essere certamen-
te più difficile in un campo che in un altro, e anzi qualche
volta i concetti incondizionatamente universali sono inconoscibi-
li all'uomo; ma la considerazione generalizzante non è mai
esclusa in linea di principio, e da ciò sembra risultare una
conseguenza metodologica fondamentale. Si può cioè conclude-
re che il pensiero scientifico coincide con la formazione di
concetti generali e che quindi, da un punto di vista puramente
formale, esiste soltanto “r metodo scientifico. L’antitesi tra ap-
prendimento generalizzante e apprendimento individualizzante
avrebbe allora significato per la logica soltanto nella misura in
cui la scienza elimina ovunque l’individuale mediante concetti
generali; e proprio perché nella nostra analisi non si è tenuto
alcun conto della peculiarità del materiale delle diverse scien-
ze, la divisione consueta in scienze della natura e scienze dello
spirito sembra svanire, almeno nel suo significato metodologico
formale. Piuttosto, la vita spirituale dev'essere trattata in modo
generalizzante al pari del mondo corporeo: perciò anche la
scienza storica è naturalmente costretta ad applicare il metodo
generalizzante.
Di fatto, sono questi i motivi migliori su cui poggiare la
proclamazione di un metodo universale, perché si tratta di
motivi puramente formali e, nella misura in cui l’apprendimen-
to generalizzante celebra i suoi massimi trionfi nelle scienze
della natura, qui abbiamo nel medesimo tempo il miglior fon-
damento del naturalismo metodologico. Ma una logica che vo-
glia comprendere le scienze così come realmente esistono
non si accontenterà di questo. Dal giusto principio che ogni
realtà può essere sottomessa a una considerazione generalizzan-
356 HEINRICH RICKERT
te essa non concluderà che la formazione di concetti generali è
senz'altro identica con il procedimento scientifico. Essa si chie-
derà piuttosto se tutte le scienze applicano effettivamente que-
sto procedimento e dovrà rispondere negativamente osservando
il lavoro scientifico che è presente nelle opere di tutti gli stori-
ci. Questo fatto è così evidente che anche i sostenitori di un
metodo universale di tipo generalizzante o del naturalismo me-
todologico non possono negarlo. Essi cercano di aiutarsi dicen-
do che la scienza storica è oggi ancora imperfetta e per questo
motivo non si adegua al sistema sopra indicato, ma che quanto
più progredirà, tanto più si servirà anch'essa dell’unico meto-
do scientifico, cioè del metodo generalizzante. Questo punto di
vista è però insostenibile, e non soltanto — come si deve sem-
pre sottolineare nel modo più energico — per il fatto che la
realtà di cui la storia tratta non può essere ricondotta sotto
concetti generali — e infatti questa è un’affermazione indimo-
strabile per la logica che procede in modo formale — ma
semplicemente perché rientra nell’essenza della scienza storica
che, non appena comprende se stessa, essa non vole compiere
un'elaborazione della realtà in riferimento a ciò che vi è di
comune negli oggetti, e non vuole compierla perché su questa
via non è mai possibile conseguire i fini che essa si pone in
quanto storia.
Ma quali sono questi fini, nel loro carattere formale? Se
l'oggetto storico — si tratti di una personalità, di un popo-
lo, di un’epoca, di un movimento economico o politico, religio-
so o artistico — dev'essere rappresentato come una totalità,
occorre in ogni caso coglierlo nella sua singolarità e nella sua
individualità irripetibile, e assumerlo nella rappresentazione co-
me se non potesse essere sostituito da nessun'altra realtà. Per-
ciò la storia non può servirsi, se si prende in considerazione il
suo fine ultimo, ossia la rappresentazione dell’oggetto nella sua
totalità, del procedimento generalizzante, poiché questo coinci-
de con un’esclusione dell’individuale e conduce così al contra-
rio logico di ciò a cui la storia aspira. È quindi ancora una
volta del tutto indifferente che l’oggetto storico sia un oggetto
corporeo o spirituale, un prodotto culturale o un processo natu-
rale; importa solo che, dove è presente in generale un interesse
storico per una qualsiasi realtà, si tende a una rappresentazione
HEINRICH RICKERT 357
con un contenuto individuale, perché questa soltanto si presta
alla soluzione del compito proprio della scienza storica. Ciò
non deve significare che la storia cerchi di fornire una copia
dell’individualità del suo oggetto: tanto poco essa potrebbe in-
fatti ottenerla, quanto poco nelle conoscenze pre-scientifiche
possediamo copie degli oggetti designati con nomi propri. Né
deve significare che la storia rappresenti il suo oggetto indivi-
dualizzandolo in tutte le sue parti, ma vuol dire che viene
anzitutto presa in considerazione soltanto l’individualità del
tutto e che questa non coincide affatto, se prescindiamo dall’i-
dea di una copia, con la somma delle individualità delle sue
parti. Infine, non si può negare che per raggiungere il suo fine
la storia ha bisogno di concetti generali e procede in modo
generalizzante, così come, all’inverso, nelle scienze generaliz-
zanti non si può fare a meno della rappresentazione dell’indivi-
duale come punto di partenza per la formazione di concetti
generali. Si deve provvisoriamente rendere consapevole il carat-
tere logico del fize ultimo di ogni rappresentazione storica,
e la struttura logica del risultato che necessariamente corrispon-
de a questo fine.
Se si va alla ricerca di esempi, è naturalmente del tutto
indifferente l’«indirizzo » a cui appartiene l’opera storica che
si prende in considerazione. Prendiamo la Weltgeschichte di
Ranke o Les origines de la France contemporaine di Taine, la
Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert di Treitschke! o la
History of Civilisatton in England di Buckle, la Begrindung
des Deutschen Reiches durch Wilhelm I di Sybel! o la Caltur
15. Heinrich von Treitschke (1834-1896), storico tedesco, autore del volume Die
Gesellschaftswissenschaft, ein kritischer Versuch (1858), della Deutsche Geschichte
im 19. Jahrkundert (1879-95), degli Historische und politische Aufsitze (1886-97),
delle Vorlesungen iiber Politi (pubblicate postume nel 1897-98) e di numerosi altri
scritti, fu il maggiore rappresentante della storiografia ottocentesca tedesca di ispi-
razione nazionalistica. Egli si richiama a Hegel per formulare una concezione dello
stato come fine supremo della società, polemizzando contro il liberalismo e negando
la possibilità di una scienza sociale autonoma nei confronti della scienza politica.
16. Heinrich von Sybel (1817-1895), storico tedesco, autore della Geschichte des
ersten Kreuzzuges (1841), di Die Entstchung des deutschen Konigtums (1844), della
Geschichte der Revolutionszeit, 1789-1800 (1853-79), di Die Begriindung des deut-
schen Reiches durch Wilhelm I (1889-94) e di varie altre opere, fu uno dei
principali rappresentanti del punto di vista nazionale-liberale nella storiografia
tedesca dell'Ottocento; nel 1856 fondò la « Historische Zeitschrift ». Sotto il profilo
358 HEINRICH RICKERT
der Renaissance in Italien di Burckhardt, lo Scharnhorst di
Max Lehmann" o la Deutsche Geschichte di Karl Lamprecht:
ovunque, in corrispondenza ai titoli delle opere, che indicano
la totalità storica, troviamo una serie di avvenimenti trattati
così come si sono svolti una sola volta nel mondo e — quale
che sia il modo in cui li ha plasmati lo storico — rappresentati
nella loro particolarità e individualità. Forse che la Deutsche
Geschichte di Lamprecht (il quale crede di lavorare con un
metodo nuovo) contiene come elemento costitutivo soltanto ciò
che è dato trovare in altri esemplari del concetto generico di
nazione, vale a dire nello sviluppo del popolo francese, inglese
o russo, e ciò che si è ripetuto spesso e si ripeterà in tempi
diversi e in luoghi diversi? Basta porre questa domanda per
vedere che anche uno storico che rifiuta in teoria la concezione
« individualistica », nella prassi tratta sempre il suo oggetto in
modo individualizzante. Ma tale procedimento, che appartiene
all'essenza di ogni rappresentazione storica, non è applicato in
nessun'opera di discipline non storiche — sia che si occupino di
corpi o della vita spirituale. La Lehre von den Tonempfindun-
gen di Helmbholtz ! o il Keimplasma di Weismann", la Medizi-
metodologico è importante il suo saggio Uber den Stand der neueren deutschen Ge-
schichtsschreibung (1856).
17. Max Lehmann (1845-1929), storico tedesco, fu allievo di Droysen e soprat-
tutto di Ranke; insegnò a Marburg e poi a Gòttingen. Le sue opere principali sono
Ja biografia di Scharnhorst (Leipzig, 1886-87) — alla quale si riferisce Rickert nel
testo — e un'altra importante biografia di Stein (apparsa nel 1902-1905).
18. Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-1894), fisico, anatomista
e fisiologo tedesco, autore del volume Uber die Erhaltung der Kraft (1847), dello
Handbuch der physiologischen Optik (1856-67), di Die Lehre von den Tonempfin-
dungen als physiologische Grundlage fiir die Theorie der Musik (1863), dei Populàre
wissenschafiliche Vortrige (1865-76), delle Wissenschafiliche Abhandiungen (1882-95),
e di numerosi altri scritti, fu uno dei maggiori scienziati della scconda metà del-
l’Ottocento. I suoi contributi vanno dalla fisica (scoprì la legge della conservazione
dell'energia) all'elettrologia, dalla geometria all'ottica geometrica, dall'anatomia alla
fisiologia del sistema nervoso.
19. August Weismann (1834-1914), zoologo e biologo tedesco, autore di Uber die
Berechtigung der Darwinschen Theorie (1868), di Uber den Einfluss der Isolierung auf
die Artbildung (1872), delle Studien zur Deszendenztheorie (1875-76), di Die Konti-
nuiràt des Keimplasmas als Grundlage einer Theorie der Vererbung (1885), di Uber den
Riickschritt in der Natur (1886), degli Aufsitze tiber Vererbung (1892), di Das Keim-
plasma (1892), di Die Allmacht der Naturziichtung (1893), di Uber Germinalselektion
(1896), dci Vortrige tiber Deszendenziheorie (1902) e di varie altre opere, si richiamò
a Darwin, di cui riprese e sviluppò la teoria della selezione naturale. È considerato
uno dei fondatori della genetica moderna.
HEINRICH RICKERT 359
nische Psychologie di Lotze”® o la Entwicklungsgeschichte der
Tiere di von Baer”, il Treatise on Electricity and Magnetism
di Maxwell? o Gemeinschaft und Gesellschaft di Tonnies —
nell’esposizione definitiva tutte queste opere considerano nei
loro oggetti — come risulta già dai titoli — soltanto ciò che
consente di ritenerli eguali ad altri esemplari dello stesso concet-
to di genere, e di cui si può quindi dire che si ripete a piaci-
mento. Che vi siano non soltanto scienze generalizzanti dello
spirito, ma anche scienze individualizzanti dei corpi, non ha
alcuna importanza in questo contesto. Noi non ci occupiamo
della differenza tra spirito e corpo, ma soltanto della diffe-
renza formale dei fini e dei metodi scientifici; e anche ai
fanatici del metodo scientifico sarà difficile rifiutare la differen-
za che abbiamo indicato. È quasi inconcepibile che si possa
ancora discuterne.
Stabiliamo quindi come punto di partenza di una logica
della storia che non soltanto nelle nostre conoscenze pre-scienti-
fiche vi sono due modi di apprendimento della realtà distinti
in linea di principio, quello generalizzante e quello individua-
lizzante, ma che ad essi corrispondono due modi di elaborazio-
ne scientifica della realtà differenti nei loro fini ultimi e così
pure nei loro risultati ultimi. Ciò non vuol dire ovviamente che
si debbano separare tra loro due gruppi di scienze, in modo
che ne risulti al tempo stesso il principio di una divisione del
lavoro scientifico. Distinzione logica non significa divisione
reale, e l’antitesi formale non deve né può servire alla divisione
reale, poiché quest’ultima si collega a differenze oggettive del
materiale, non già a differenze logiche. È quindi del tutto
erroneo combattere il valore logico dell’antitesi dicendo che
essa frantumerebbe il lavoro scientifico in modo contraddittorio
rispetto ai fatti e che vorrebbe separare ciò che di fatto è
20. Rickert si riferisce qui alla Medizinische Psychologie oder Physiologie der
Scele, Leipzig, 1852.
21. Karl Ernst von Bacr (1792-1876), zoologo c biologo tedesco, autore di Uber
Entwicklungsgeschichte der Tiere (1828-37), delle Reden und kleine Aufsàtze (1864-76),
del volume Zum Streit îîber den Darwinismus (1873), delle Studien auf dem Gebiete
der Naturwissenschaften (1874).
22. James Clerk Maxwell (1831-1879), fisico inglese, autore del Treatise on
Electricity and Magnetism (1873), di Matter and Motion (1876) c di varie altre opere,
diede un contributo decisivo alla formulazione della teoria elettromagnetica della luce.
360 HEINRICH RICKERT
ovunque in un rapporto di cooperazione. Si tratta soltanto del-
la distinzione concettuale di due diverse tendenze di apprendi-
mento nelle scienze, che possono molto spesso, e fors’anche
sempre, cooperare di fatto; e questa distinzione concettuale sa-
rebbe necessaria anche se non si potessero separare due tipi di
scienze neppure in riferimento ai loro fini ultimi.
Se si cerca ora di determinare in modo più preciso l'essenza
del procedimento individualizzante, occorre anzitutto porre in
rilievo che il metodo della scienza non coincide con quell’ap-
prendimento individualizzante della realtà che possediamo nel-
le nostre conoscenze pre-scientifiche. Anche nel caso dell’ap-
prendimento generalizzante noi parliamo di metodo soltanto
dove l'elaborazione concettuale viene compiuta sistematicamen-
te. Che cosa corrisponde nella storia a quella connessione siste-
matica di concetti più o meno generali? Nell’indicazione di
questi elementi che costituiscono la scientificità del metodo indi-
vidualizzante la logica della storia dovrà scorgere — una volta
che abbia trovato il suo punto di partenza — il suo ulteriore
compito. Qui si potranno naturalmente porre in luce soltanto
alcuni punti che in tempi recenti hanno dato occasione a que-
stioni controverse, e che sono particolarmente adatti a chiarire
la differenza del procedimento individualizzante da quello ge-
neralizzante. Cominciamo con un'ulteriore analisi del concetto
che abbiamo posto in risalto fin dall’inizio: il concetto di
totalità storica.
L'individualizzazione pre-scientifica estrae spesso gli oggetti
dal loro ambiente in modo da separarli l’un l’altro e quindi da
isolarli. Ma l'elemento isolato in quanto tale non è oggetto di
interesse scientifico, e nulla è più sbagliato che identificare il
metodo individualizzante con il mettere insieme fatti isolati —
così come fanno i suoi avversari. Piuttosto la storia, al pari
delle scienze generalizzanti, deve cogliere tutto in una connes-
sione. Ma in che cosa consiste la connessione storica? A parti-
re da ogni oggetto storico essa si estende in certo modo lungo
due dimensioni, che si potrebbero designare come la dimensione
della larghezza e quella della lunghezza; occorre cioè anzitut-
to stabilire le relazioni che uniscono l'oggetto con il suo a1-
biente e poi seguire nel loro legame reciproco i diversi stadi
che percorre dall'inizio alla fine, ossia, come si usa dire, impa-
HEINRICH RICKERT 361
rare a conoscerne lo sviluppo. Certamente, un oggetto così
rappresentato è poi, a sua volta, parte di un ambiente più
grande e di uno sviluppo anteriore, e lo stesso vale poi per
questa connessione più comprensiva, di modo che scorge una
serie a due dimensioni che conduce fino ai limiti della totalità
storica ultima. Dove stia questo limite, non è ancora possibile
chiarirlo con i concetti finora acquisiti. In una specifica ricerca
storica il punto dove si cessa di perseguire la connessione stori-
ca dipende dalla scelta del tema. Qui si tratta provvisoriamente
soltanto di fissare il concetto di una connessione storica in gene-
rale come connessione di una serie evolutiva di stadi diversi
reciprocamente connessi, concepita nel legame col proprio am-
biente.
Ciò è tanto più necessario quanto più sono derivati di qui
errori largamente diffusi sull'essenza del metodo storico. La
connessione può essere definita, in antitesi ai singoli oggetti,
come l’elemento generale della storia; e da ciò è poi sorto il
punto di vista secondo cui anche la scienza storica procederebbe
in modo generalizzante. L'inserimento di un oggetto nel suo
ambiente — così come lo storico lo compie — è un processo
estraneo al procedimento delle scienze generalizzanti. Il mi-
lieu è sempre individuale, e viene preso in considerazione
dallo storico nella sua individualità. Esso è generale soltanto
nel senso che i singoli individui in esso inseriti ne costituisco-
no le parti. Ma che il rapporto della parte con il tutto non sia
identico al rapporto tra l'esemplare e il concetto di genere ad
esso sovra-ordinato, è cosa che non dovrebbe richiedere discus-
sione. Proprio perché la storia deve sempre considerare il parti-
colare nel generale, cioè considerarlo come elemento di un tut-
to, essa deve venir assegnata (in riferimento ai suoi fini ulti-
mi) alle scienze individualizzanti: lo stesso risultato si ricava
da una considerazione dello sviluppo storico. Anche lo sviluppo
è generale soltanto nel senso che costituisce una totalità la
quale comprende le sue parti. Nella storia lo sviluppo significa
sempre il sorgere di qualcosa di nuovo, di qualcosa non mai
esistito finora; e poiché nei concetti di legge entra soltanto ciò
che può essere considerato come qualcosa che si ripete a piaci-
mento, i concetti di sviluppo storico e di legge si escludono a
vicenda. Soltanto l’equivocità del termine «sviluppo» rende
362 HEINRICH RICKERT
possibile unificare un procedimento storico-evolutivo con un
procedimento scientifico fondato su leggi e parlare di «leggi
dello sviluppo »; per esempio dove — come nell’embriologia sto-
rico-evolutiva » — si guarda alle serie evolutive per quel che han-
no di comune, e dove quindi z07 si deve prendere in considera-
zione il divenire storico del nuovo nel suo carattere specifico. In
breve, gli sviluppi storici non sono altro che individualità storiche
concepite nel loro divenire e nel loro crescere, e pertanto la
loro rappresentazione è possibile, analogamente a quella della
connessione con l’ambiente storico, soltanto con un metodo in-
dividualizzante. Anzi, la connessione storica « generale » non
è che la totalità storica stessa, non già un sistema di concetti
universali: la storia considera appunto sempre questa totalità
nella sua particolarità, nella sua singolarità e nella sua indivi-
dualità.
Se poi indaghiamo anche sul ruolo che i concetti generali
hanno nella scienza storica, ci imbattiamo anzitutto nel fatto
che tutti gli elementi dei giudizi e dei concetti storici sono
generali. E tali devono essere già perché li si indica con parole
generalmente comprensibili, e perché le parole debbono la loro
comprensibilità soltanto al fatto di possedere un significato ge-
nerale, cioè comune a più oggetti. La storia lavorerà quindi
sempre con concetti generali di realtà, che costituiscono gli
elementi ultimi dei propri concetti individuali, e perverrà alla
loro rappresentazione individualizzante solo mediante una de-
terminata combinazione di questi elementi generali. Ma ciò
non esaurisce ancora il significato dei concetti generali nella
storia. Essi risultano indispensabili proprio anche per istituire
la connessione storica. Il nesso reciproco dei diversi stadi di una
serie storico-evolutiva o di un oggetto storico con il suo ambiente
è sempre un legame causale, e la scienza storica deve rappresen-
tare questi rapporti di causa ed effetto per esprimere il legame
delle parti con la totalità. Certamente non di rado si afferma
che gli oggetti dell'indagine storica — o una parte di essi —
sono esseri « liberi » e che perciò lo storico non dovrebbe inda-
garne le connessioni causali. Tuttavia, anche prescindendo dal-
la questione se il concetto di libertà sia da identificare in gene-
re con quello di assenza di causa, e se il problema della libertà
non debba essere trasferito dalla filosofia teoretica all’etica, in
HEINRICH RICKERT 363
ogni caso il concetto di assenza di causa non ha alcun senso per
una scienza empirica. Anche la storia deve presupporre che
ogni suo oggetto sia l’effetto necessario di avvenimenti prece-
denti, e deve quindi indagare anche la connessione causale.
Ancora una volta ci imbattiamo in un punto che può suscita-
re molte questioni controverse. Si è cioè proclamata l’esistenza
di un « metodo causale » della storia che dovrebbe essere analo-
go al metodo delle scienze generalizzanti. Ciò può essere ritenu-
to esatto soltanto se si identifica il concetto di causalità con il
concetto di conformità a leggi. Se si fa questo, certamente ogni
scienza che indaghi connessioni causali — e quindi anche la
storia — è una scienza di leggi; ma questa identificazione non
ha alcuna legittimità. Per possedere realtà empirica, i legami
causali devono piuttosto essere realtà individuali, poiché non vi
sono altre realtà al di fuori di quelle empiriche individuali.
Invece le leggi sono sempre generali e possono perciò valere, se
devono essere più che concetti, soltanto come realtà metafisi-
che. Ma la dottrina del metodo deve mantenersi libera da pre-
supposti metafisici; essa può quindi parlare soltanto di legami
causali individuali in quanto realtà empiriche e di leggi in
quanto concetti generali. L'espressione « metodo causale» —
che è particolarmente usata come antitesi al procedimento « te-
leologico» — è perciò un'espressione polemica che non dice
nulla, proprio perché ogni scienza empirica ha a che fare con
connessioni causali, e le connessioni causali in quanto tali sono
ancora indifferenti rispetto alle differenze di metodo: esse per-
mettono, al pari di ogni altra realtà empirica e individuale, sia
un apprendimento generalizzante sia un apprendimento indivi-
dualizzante.
Ma — e con ciò ritorniamo al significato dei concetti genera-
li — anche se ogni connessione causale storica tra due stadi di
una serie storico-evolutiva è un processo in cui la causa produ-
ce qualcosa che non esisteva prima, la rappresentazione di que-
sti nessi causali storici è possibile, al pari di ogni rappresenta-
zione dell’individuale, soltanto utilizzando elementi concettuali
che abbiano ognuno per sé un contenuto generale e che solo nella
loro composizione particolare esprimono l’individualità del rea-
le; nella rappresentazione di legami causali individuali si ag-
giunge invece qualcosa che richiede di fatto l’uso di concetti
364 HEINRICH RICKERT
generali in un senso particolare. Lo storico non vuole cioè
indicare soltanto la successione temporale di causa ed effetto,
ma anche acquisire uno sguardo sulla recessità con cui da
questa causa individuale e irripetibile scaturisce quest’effetto in-
dividuale e irripetibile; e qui non si può evitare una deviazione
attraverso concetti generali di rapporti causali ed eventualmen-
te attraverso leggi causali. Per quanto il legame causale non
possa essere generalmente designato come realtà empirica, per
esprimere scientificamente la sua necessità noi possediamo soltan-
to lo «schema» spaziale e temporale del « dovunque» e del
« sempre », e perciò alla rappresentazione scientifica anche della
necessità causale individuale si collega sempre la formazione di
un concetto generale o (dove si può pervenire ad essa) di una
legge causale generale — circostanza che spiega al tempo stesso
il consueto scambio tra legge e causalità. Ciò costringe anche
la storia, se vuol gettare un ponte tra una causa individuale e
il suo effetto individuale in modo che la connessione causale si
lasci cogliere come necessaria, a impiegare concetti generali di
connessioni causali. Essa raggiunge il proprio fine scomponen-
do il concetto dell’oggetto individuale — che dev'essere colto
come effetto necessario — nei suoi elementi sempre generali e
poi connettendo questi elementi, egualmente generali, del con-
cetto della causa individuale, in modo che ognuno di questi
legami tra elementi concettuali generali esprima la connessione
causale necessaria delle realtà ad essi sottoposte. Fatto que-
sto, la storia ricompone gli elementi generali del concetto di
causa, considerati di per sé, in un concetto che rappresenta
l'individualità di questa causa: essa ottiene in tal modo,
mediante una deviazione attraverso concetti causali generali,
una prospettiva scientifica sul legame necessario della causa sto-
rica individuale con l’effetto storico individuale. Ovviamente,
in questo modo è stato indicato soltanto un ideale logico la cui
realizzaziorie può essere raggiunta solo parzialmente dove non
si riesce a collegare causalmente tutti gli elementi del concetto
di effetto a elementi del concetto di causa; e quindi soltanto di
rado potrà scomparire dalle rappresentazioni storiche un resi-
duo causalmente non derivabile. In casi del genere si parla
anche di libertà, perché manca la possibilità di scorgere la
necessità causale. Non sì può in questa sede discutere più da
HEINRICH RICKERT 365
vicino quali mezzi la storia possegga per cogliere nel modo più
compiuto possibile la necessità di un nesso causale storico, e in
quale rapporto stia quindi con le scienze generalizzanti. Ma è
fin d’ora chiaro che anche per lo storico è importante la cono-
scenza di leggi causali — circostanza che spiega perché si vuol
fare della storia una scienza di leggi. Altrettanto chiaro è però
che con questa importanza dei concetti di legge non cambiano
per nulla i fini della storia. I prodotti del pensiero generalizzan-
te sono per essa sempre soltanto deviazioni o strumenti e servo-
no, al pari degli elementi generali dei concetti storici, a una
rappresentazione che vuol cogliere la totalità storica in modo
individualizzante.
Neppure mediante un'esposizione di tutti i casi in cui il
procedimento generalizzante è soltanto mezzo di una rappre-
sentazione individualizzante si potrebbe esaurire il significato
che i concetti generali hanno nella storia. Ciò che si prende in
considerazione nella sua singolarità e individualità è sempre e
soltanto la totalità storica, non già tutte le sue parti. Molte di es-
se non vengono rappresentate dalla storia qualora non abbiano
alcun significato per l’individualità del tutto, e anche la mag-
gioranza delle parti rappresentate viene raccolta sotto concetti
generali di gruppo. Anzi, si può sostenere che in una rappresen-
tazione storica non c'è bisogno che siano presenti concetti di
oggetti parziali, i quali contengano soltanto ciò che è singolare
e individuale, e che in essa si formano esclusivamente concetti
di gruppo che contengono ciò che è comune a una pluralità di
oggetti. Tali concetti di gruppo sorgono necessariamente quan-
do lo storico non sa abbastanza degli avvenimenti che rappre-
senta per poter penetrare nella loro individualità, ed è perciò
costretto ad accontentarsi di un concetto generale. Ma in moltis-
simi casi, e forse anche in tutti, lo storico vuole formare di
fatto un unico concetto di gruppo, e allora sembra procedere,
anche riguardo al suo fine, in modo generalizzante. In relazio-
ne a ciò si può meglio comprendere anche una questione assai
dibattuta. Si è ritenuto che la « vecchia tendenza » della storio-
grafia sia «individualistica », ma soltanto perché attribuisce
troppo valore ad avvenimenti politici o di altro genere, e quin-
di a singole persone. La « nuova » tendenza dovrebbe, per non
rimanere in superficie, occuparsi di meno delle azioni politi-
366 HEINRICH RICKERT
che di singole personalità e di più dei movimenti di massa,
penetrando così l'essenza autentica dello sviluppo culturale. AI
vecchio metodo « individualistico » si contrappone pertanto un
nuovo metodo « collettivistico », e questo viene valutato, proprio
perché forma soltanto concetti generali, come il nuovo metodo
della storia, l’unico veramente scientifico e da tempo in uso nel-
le scienze naturali.
Ammettiamo pure, per comprendere il significato logico di
questo punto di vista, che sia vero che lo storico operi soltanto
con concetti di gruppo — infatti questa proposizione è logica-
mente assurda come quella secondo cui la storia dovrebbe for-
mare un sistema di concetti generali — e immaginiamoci per
esempio una rappresentazione della Rivoluzione francese che
tenga conto soltanto dei movimenti di massa, perché ciò che le
singole persone hanno compiuto appare inessenziale. Si potreb-
be allora dire che la storia procede realmente, in base al nuovo
metodo, in maniera non soltanto collettivistica ma anche gene-
ralizzante, come una scienza naturale? Tanto ovvia quest'idea
appare ai rappresentanti del nuovo metodo, altrettanto essa è
falsa, perché — e questo motivo è sempre determinante — sol-
tanto le parti della totalità possono essere ricondotte a concetti
generali. Anche una storia che proceda in maniera collettivisti-
ca considera sempre la totalità nella sua individualità, e anche
i concetti generali di gruppo devono venir formati in modo da
essere adatti alla rappresentazione dell’individualità del tutto.
Di metodo generalizzante si potrebbe parlare soltanto nel caso
che si dovesse rappresentare una rivoluzione qualsiasi e non
già — come presupponiamo e come dobbiamo presupporre fin-
ché la rappresentazione ha carattere di storia — questa determi-
nata Rivoluzione francese, che ha avuto inizio nel 1789 e così
via. La contrapposizione tra metodo « individualistico » e meto-
do « collettivistico » è quindi fuorviante. Tutti gli storici proce-
dono in modo più o meno collettivistico, e lo hanno sempre
fatto. La circostanza che oggi qualcuno lavora il più possibile
con espressioni generali come quelle di epoche e di movimenti
di massa, parlando soltanto di fattori psico-sociologici e dichia-
rando inutilizzabile ogni « psicologia individuale » (che del re-
sto soltanto i dilettanti possono porre in relazione con la conce-
zione « individualistica » della storia), per dare a intendere a
HEINRICH RICKERT 367
sé e agli altri di procedere al modo della scienza naturale, può
forse dar luogo a una storia vaga e indeterminata oppure con-
durre, trascurando le personalità essenziali, a una falsifica-
zione diretta dei fatti, ma non può cambiare per nulla il carat-
tere individualizzante del metodo storico. Dobbiamo anzi fare
un passo più in là. Anche i concetti generali di gruppo impiega-
ti dalla storia non sono — pur contenendo soltanto ciò che è
comune a una pluralità di oggetti — concetti generali nel senso
di quelli che forma una scienza generalizzante procedente in
modo sistematico. Lo storico può cioè ritenersi soddisfatto di
un concetto di gruppo soltanto se in esso è già contenuta nel
medesimo tempo l’individualità di tutti gli elementi di tale
gruppo, per lui significativa nella connessione storica. Perciò il
fine in riferimento al quale sono formati i concetti storici di
gruppo non costituisce una generalizzazione del tipo di quella
compiuta dalle scienze generalizzanti, bensì una rappresentazio-
ne dell’individualità di gruppo. Anche questi concetti generali
sono sempre prodotti di un procedimento individualizzante,
nella misura in cui il principio che determina i loro elementi
può essere compreso soltanto in base ai fini della storia indi-
vidualizzante. Si può anche designarli come concetti collettivi
individualizzanti, per distinguerli sia dai concetti collettivi ai
quali si tende nelle scienze generalizzanti, sia dai concetti gene-
rali impiegati strumentalmente nella storia.
Questa distinzione può forse suonare un po’ sofistica finché
non si sarà trattato di un altro aspetto del metodo storico.
Occorre cioè richiamare ora l’attenzione sulla circostanza, già
rammentata, che l'apprendimento individualizzante non consi-
dera tutta la molteplicità individuale di una realtà, ma compor-
ta una scelta trasformatrice. Alla base di questa scelta e di questa
trasformazione dev'esserci nella scienza storica un principio, e
soltanto il suo chiarimento esplicito completerà la comprensio-
ne dell’essenza logica del metodo storico.
Per pervenire a un tale principio riflettiamo nuovamente
sulle nostre conoscenze pre-scientifiche. Esse dipendono dall’inte-
resse che il nostro ambiente suscita in noi. Ma che cosa vuol
dire avere interesse per gli oggetti? Vuol dire che non ci li-
mitiamo a rappresentarceli, ma che li riferiamo al tempo stes-
so alla nostra volontà e li poniamo in relazione con le nostre
368 HEINRICH RICKERT
valutazioni. Dove apprendiamo qualcosa in modo individualiz-
zante, la particolarità dell'oggetto deve in qualche modo essere
collegata con valori che non sono collegati a loro volta con
nessun altro oggetto; se ci arrestiamo a un apprendimento gene-
ralizzante, il collegamento con il valore dipende soltanto da
ciò che è allo stesso modo presente in altri oggetti e che può
quindi essere sostituito da altri esemplari del medesimo concet-
to di genere. Questo è l’aspetto non ancora illustrato della
differenza tra apprendimento generalizzante e apprendimento
individualizzante: anche in riferimento ad esso i due metodi
scientifici mostrano un’antitesi di principio.
Se dalla generalizzazione pre-scientifica si procede a subordi-
nare scientificamente gli oggetti a un sistema di concetti genera-
li, non soltanto si astrae dall’interesse per ciò che è singolare e
individuale, ma si allenta sempre più, con il progredire del
processo di formazione del sistema, il legame dell’elemento co-
mune a più oggetti con i valori. Se cioè ogni concetto generale
è subordinato a un concetto ancor più generale, e se alla fine
tutti i concetti sono ricondotti al concetto generalissimo verso
cui tende l’indagine, allora anche gli oggetti per i quali il
sistema deve valere possono essere considerati come egualmente
forniti di valore o egualmente privi di valore: infatti il princi-
pio che determina ciò che è essenziale in un oggetto non può
più essere ora l'interesse originario, ma può essere soltanto la
posizione che l’oggetto assume nel sistema di concetti generali.
La divisione tra essenziale e inessenziale, originariamente com-
piuta sempre in base a punti di vista valutativi, viene così
respinta da una scienza generalizzante, e al tempo stesso sosti-
tuita dal fatto che l'elemento generale o comune coincide ora,
in quanto tale, con l’essenziale. Lo svincolarsi degli oggetti da
tutte le relazioni di valore costituisce perciò l’altro aspetto,
non ancora considerato, del metodo generalizzante, e ci indica
contemporaneamente l’altro aspetto, non ancora considerato, del-
l’individualizzazione scientifica. Può quest’ultima egualmente
distinguersi dall’individualizzazione pre-scientifica per il fatto
di svincolare gli oggetti da tutti i valori? Non si scorge in virtù
di quale principio diverso dalla relazione di valore debba sorgere
l'apprendimento individualizzante. Se sciogliamo un oggetto da
tutte le connessioni con i nostri interessi, esso potrà venir conside-
HEINRICH RICKERT 369
rato semplicemente come esemplare di un concetto generale.
L’individuale può diventare essenziale soltanto in riferimento a
un valore, e quindi eliminando ogni relazione di valore si elimi-
nerebbe anche l’interesse storico e la storia stessa. Viene così alla
luce non soltanto una connessione necessaria tra considerazione
generalizzante e considerazione avalutativa, ma anche una con-
nessione altrettanto necessaria tra apprendimento individualiz-
zante e apprendimento legato ai valori: per cogliere la struttu-
ra logica della storia anche sotto questo aspetto, occorre perciò
conoscere più da vicino il tipo dei valori e del loro legame con
gli oggetti storici. Anche qui è necessario, naturalmente, una
volta accertato l’elemento comune presente nella relazione di
valore pre-scientifica e scientifica, separarle nettamente tra loro.
Che i valori abbiano nella scienza un ruolo determinante,
anzi debbano essere princìpi dell’elaborazione concettuale, sem-
bra contraddire l’essenza della scienza. A buon diritto proprio
dallo storico si esige che rappresenti le cose il più « oggettiva-
mente » possibile, e per quanto questo fine non possa essere
raggiunto completamente da nessuno, si può però in ogni caso
indicarlo come ideale logico. Come si accorda con tutto ciò
l’affermazione che le relazioni di valore appartengono all’essen-
za del metodo storico? Per comprendere questo fatto occorre
chiarire che c’è un tipo di relazione di valore che non coincide
con una presa di posizione e con una valutazione pratica, e che
gli oggetti possono essere riferiti ai valori anche in maniera
puramente teoretica. Certamente, se dalla molteplicità del rea-
le si trae fuori questo elemento come essenziale, e si lascia
in disparte quell’ altro come inessenziale, si può sempre de-
signare tutto ciò come una presa di posizione nei confron-
ti della realtà, nella misura in cui l’essenziale è ciò che è
fornito di valore per la conoscenza scientifica. Ma questo tipo
di valutazione non manca in nessuna elaborazione concettuale
della scienza — sia essa generalizzante o storica — perché il
fine della scienza deve sempre valere come valore per conferire
un senso al lavoro scientifico. Se si vuol comprendere nella sua
particolarità l’essenza della relazione di valore nella scienza
storica si deve perciò prescindere totalmente da questa valuta-
zione, per quanto importante la sua presenza possa essere per
la trattazione di altri problemi filosofici. Qui importa soltanto
24. STORICISMO TEDESCO.
370 HEINRICH RICKERT
stabilire se, per il fatto che l’individualità di un oggetto di-
venta essenziale in virtù del riferimento a un valore, ne derivi
necessariamente anche una valutazione positiva o negativa del-
l'oggetto; e a tale domanda occorre rispondere in modo decisa-
mente negativo. La rappresentazione storica implica una rela-
zione di valore soltanto nella misura in cui l'oggetto, appreso
in modo individualizzante, ha un qualche significato per un
valore; ma non ha bisogno di pronunciarsi sul fatto se esso
possegga un valore positivo o negativo e può quindi prescinde-
re del tutto da ogni valutazione, che dev'essere sempre positiva
o negativa. Noi dobbiamo distinguere con precisione la valuta
zione pratica e la relazione puramente teoretica di valore. An-
zi, se pensiamo che non conosciamo mai la realtà così com’era,
ma che ogni conoscenza è già una trasformazione della realtà,
diventa chiaro che non si può disputare del valore positivo o
negativo di un’individualità se tra coloro che disputano non c’è
già un comune apprendimento individualizzante della realtà,
sorto da una relazione di valore puramente teoretica e indipen-
dente dalla diversità delle loro valutazioni pratiche; altrimenti
non si disputerebbe affatto della stesse individualità. Perciò,
quanto il conoscere teoretico e la valutazione positiva o negati-
va sono due processi distinti in linea di principio, tanto poco
la relazione puramente teoretica di valore è in contraddizione
con la conoscenza scientifica. Lo storico non valuta i suoi
oggetti in quanto storici, ma trova di fronte a sé dei valori —
come quelli dello stato, delle organizzazioni economiche, del-
l’arte, della religione ecc.; e in virtù della relazione teoretica
degli oggetti con questi valori, vale a dire in riferimento al
fatto se e come la loro individualità significhi qualcosa per
questi valori, la realtà si articola ai suoi occhi in elementi
essenziali e inessenziali, senza ch’egli debba pronunciare un
giudizio di valore diretto, positivo o negativo, sugli oggetti.
L'essenza della relazione di valore storica diventa del tutto
chiara se fissiamo ancora un secondo punto, in virtù del quale
l’individualizzazione scientifica si distingue da quella pre-scien-
tifica; e già i concetti di valore prima utilizzati come esempi
vi alludono. La relazione teoretica di valore nella storia non è
soltanto indipendente da una valutazione positiva o negativa,
ma deve anche essere 207 arbitraria sotto un altro punto di
HEINRICH RICKERT 371
vista, cioè in riferimento ai valori con cui gli oggetti vengono
posti in relazione. Ciò si consegue però solamente in quanto lo
storico articola la realtà in elementi essenziali e inessenziali in
relazione a valori universali, ossia a valori quali quelli incorpo-
rati negli esempi sopra indicati dello stato, dell’arte, della reli-
gione ecc. Per quanto ciò sia in fondo semplice, anche di qui
sono sorte molte contese e molte incomprensioni. In particola-
re, si è ancora una volta ritenuto che il metodo della storia sia
un metodo generalizzante a causa dell’universalità dei valori.
Certamente — così si può giustificare questo punto di vista —
lo stato è per esempio un concetto generale, e se gli eventi
storici vengono rappresentati come eventi politici, l’elemento
politico in essi presente, in virtù del quale sono storicamente
essenziali, è pur sempre l'elemento comune. Così essi vengono
ricondotti sotto il concetto generale di politico nello stesso mo-
do in cui nelle scienze generalizzanti gli oggetti vengono appre-
si come esemplari di un concetto di genere. È veramente giusto
questo? È esatto che valori universali sono nel medesimo tem-
po concetti generali. Ma, in primo luogo, la storia non si
prefigge mai di formare o anche soltanto di ordinare sistemati-
camente questi concetti universali di valore, come dovrebbe
fare se fosse una scienza generalizzante; essa si trova già di
fronte concetti universali di valore, e solamente la filosofia del-
la storia, non già la scienza storica empirica può — come
vedremo avanti — porsi il compito di pervenire a un sistema di
concetti universali di valore. Inoltre — e questa è la cosa princi-
pale — l’universalità del valore non ha per la storia il significa-
to di contenere ciò che è comune a più valori particolari:
importa soltanto il fatto che la storia riferisce i suoi oggetti a
valori i quali valgono come valori per tutti coloro a cui si
rivolge, o per lo meno vengono da tutti intesi come valori. Del
resto, il riferirsi degli oggetti ai valori conduce a un apprendi-
mento individualizzante, poco importa che i valori siano pura-
mente individuali oppure universali nel senso indicato: questa
differenza riguarda infatti soltanto la validità dei valori, non
già la struttura logica della relazione di valore. In breve, che
per giungere a risultati universalmente validi la scienza storica
abbia bisogno di valori universali non incide affatto sull’antitesi
tra il metodo storico individualizzante riferito ai valori e il
372 HEINRICH RICKERT
metodo generalizzante avalutativo delle scienze di leggi. Volen-
do, si può anzi dire che ogni scienza, per avere validità univer-
sale, deve sempre «subordinare » il particolare all’universale.
Ma questa frase è, per la sua indeterminatezza, molto equivoca
e in ogni caso non dice nulla. Se si vuole adoperarla nella
dottrina del metodo occorre distinguere rigorosamente una « su-
bordinazione » generalizzante a concetti avalutativi di genere
o di legge da una « subordinazione » individualizzante a concet-
ti universali di valore; e la cosa migliore sarà di impiegare il
termine « subordinazione » soltanto per designare il rapporto
reciproco dei concetti generali e il rapporto dell’esemplare con
il concetto di genere ad esso superiore, altrimenti possono sorge-
re soltanto errori.
Se con questa prospettiva più esatta sull’essenza del procedi-
mento individualizzante ritorniamo ancora una volta ai concet-
ti storici che sembravano costituire, per la generalità del loro
contenuto, un’istanza negativa contro la caratterizzazione della
storia come scienza individualizzante, è possibile comprendere
meglio i concetti storici di gruppo nella loro differenza dai con-
cetti storici di gruppo generalizzanti. Essi non hanno soltanto —
come tutti i concetti relativi a parti storiche — lo scopo di espri-
mere l’individualità del tutto storica a cui appartengono; ma an-
che la scelta di ciò che è essenziale è determinata, nella loro for-
mazione, dal valore universale dominante. In altri termini, non
già l'elemento comune in quanto tale costituisce di per sé l’essen-
ziale, ma la circostanza che il suo contenuto consiste dell’elemen-
to comune a una pluralità di oggetti ha per unico fondamento il
fatto che soltanto l’individualità del gruppo, e non l’individuali-
tà delle singole parti, riveste significato per il valore universa-
le, e che quindi già il concetto di gruppo contiene individualità
sufficiente a esprimere ciò che è essenziale per la rappresentazio-
ne individualizzante riferita ai valori. Il principio di elaborazio-
ne concettuale dei concetti storici collettivi è quindi esattamen-
te lo stesso che per tutti gli altri concetti storici: ancora una
volta risulta quanto poco senso abbia definire collettivistico il
procedimento della storia, in riferimento al suo carattere /ogi-
co. La polemica tra il cosiddetto metodo collettivistico e il
cosiddetto metodo individualistico è una polemica sul contenu-
to della scienza storica, e non ha nulla a che fare con i proble-
HEINRICH RICKERT 373
mi logici del metodo. Anche una rappresentazione che proceda
in modo puramente collettivistico non soltanto sarebbe — come
si è già visto — individualizzante, ma sarebbe anche guidata,
al pari di qualsiasi rappresentazione storica, da punti di vista
valutativi.
Il grosso ruolo che i punti di vista valutativi hanno nella
storia viene del resto sempre più riconosciuto e meglio compre-
so nei tempi recenti, anche se non sempre l’attenzione è rivol-
ta ai due punti più importanti, cioè alla distinzione della rela-
zione teoretica di valore dalla valutazione pratica e all’universa-
lità dei valori. Naturalmente qui non è possibile trattare in mo-
do esaustivo tutte le questioni connesse con i valori; ci limitere-
mo però a porre in rilievo almeno due punti.
Un'indagine logica non potrà mai proibire allo storico di
oltrepassare la relazione teoretica di valore per assumere una
posizione valutativa nei confronti dei suoi oggetti; e forse nessu-
na rappresentazione storica è mai del tutto libera da valutazio-
ni positive o negative. Si deve però anche stabilire che, dove
sembra essere presente un giudizio di valore, non sempre si
intendeva realmente formularlo. In ogni rappresentazione stori-
ca si troveranno cioè proposizioni che accompagnano soprattut-
to le azioni umane con un predicato di lode o di biasimo, che
constatano qui un atto di bontà o di coraggio, là un delitto; e
proprio questo sembra distinguere la storia dalle scienze di
leggi, per le quali il vizio e la virtù sono prodotti quanto lo
sono il vetriolo o lo zucchero. È anche chiaro che lo storico
può prendere posizione con proposizioni del genere. Ma in
moltissimi casi i predicati di valore servono soltanto all’accerta-
mento di fatti e alla caratterizzazione puramente teoretica degli
avvenimenti. Quando per esempio un’azione viene designata
come criminale, ciò può anche voler dire che le fonti costringo-
no ad assumere che siamo di fronte a un atto che generalmente
si definisce delitto; e se un altro storico accompagna quest’azio-
ne con un altro predicato, ciò non significa necessariamente che
egli valuti altrimenti lo stesso stato di fatto, ma che egli può
anche assumere un altro stato di fatto che poi deve, naturalmen-
te, designare in modo diverso. Nella trattazione dei fattori
valutativi presenti nella storia ci si dovrebbe porre in ogni caso
la domanda se il predicato di valore ha realmente l’intenzione
374 HEINRICH RICKERT
di valutare, o se non serva piuttosto soltanto allo scopo di
utilizzare il significato terminologico ad esso generalmente con-
nesso per stabilire un fatto, nello stesso modo in cui ciò av-
viene con significati che non possono essere impiegati a scopo
di valutazione.
Se quindi la comparsa di valutazioni può sembrare in parec-
chi casi più frequente di quanto non sia in realtà, occorre
d’altra parte porre in rilievo che in certo senso anche le valuta-
zioni sono un elemento indispensabile della scienza storica. Se
è certo che la relazione teoretica di valore non è una presa di
posizione pratica e che perciò lo storico può sempre astenersi
da qualsiasi valutazione dei suoi oggetti, altrettanto certo è che
nell’ambito dei valori a cui riferisce i suoi oggetti egli dev’esse-
re in qualche modo, anche come storico, un uomo che compie
valutazioni. Nessuno che non ponga i valori politici in relazio-
ne alle proprie valutazioni positive o negative, che non abbia
cioè un qualche rapporto valutativo nei confronti di questioni
politiche, scriverà o leggerà di storia politica: senza essere egli
stesso un uomo che compie valutazioni in questo campo, non
comprenderebbe infatti i valori che guidano la selezione del
materiale storico, e non avrebbe quindi il minimo interesse
storico per esso. Ma ciò che vale per la storia politica deve
parimenti valere per la storia dell’arte, della religione, dell’eco-
nomia ecc. Spesso ciò non viene neppur osservato, come certe
cose evidenti: vi sono anzi molti storici i quali credono non
soltanto di stare con i loro oggetti in un rapporto semplicemen-
te conoscitivo, ma anche di essere, in quanto storici, puri spetta-
tori. Di fatto lo storico si distingue dal ricercatore che procede
in modo generalizzante anche perché nel suo lavoro non soltan-
to deve riconoscere come valore il fine scientifico ch'egli perse-
gue, ma prende anche posizione se non verso gli oggetti storici,
almeno nei confronti dei valori universali a cui riferisce in
modo individualizzante i suoi oggetti. Quale significato abbia
per l’« oggettività » delle scienze storiche il fatto che c’è storia
soltanto per esseri capaci di valutazione, in quale rapporto que-
sta oggettività stia con l’oggettività delle scienze generalizzan-
ti o scienze di leggi, le quali non hanno bisogno di riconoscere
altro valore se non quello stesso della scienza generalizzante,
non può venir discusso in questa sede. Qui si deve soltanto
HEINRICH RICKERT 375
comprendere la struttura logica della scienza storica quale esi-
ste di fatto, e in particolare descrivere l’essenza del suo meto-
do riferito ai valori e individualizzante, così come viene real-
mente esercitato, e penetrare questo metodo nella sua necessità
logica che risulta dai fini della storia.
In base ai fondamenti indicati non si è finora parlato del
carattere specifico del materiale storico, e non si è quindi nep-
pure potuto rispondere alla questione del modo in cui pervenia-
mo a rappresentare non soltanto in modo generalizzante, ma
anche in modo individualizzante, il materiale di cui tratta-
no le scienze storiche. Il motivo di ciò dev'essere finalmente
indicato per rendere comprensibile l’essenza della scienza stori-
ca, e ciò in quanto lo specifico carattere materiale degli oggetti
storici può essere inteso in base all’essenza logica del metodo
storico. Decisiva è qui, ancora una volta, la connessione dell’ap-
prendimento individualizzante con l'apprendimento riferito ai
valori. La rappresentazione individualizzante costituisce cioè
un bisogno soprattutto dove più stretto è il nesso degli oggetti
con i valori. Se ripensiamo all’elaborazione concettuale pre-
scientifica, vediamo che essa è sempre caratterizzata dal fatto
che sono in prevalenza uomini quelli che vengono considerati
come individui, e che in questi uomini è particolarmente signifi-
cativo in virtù della sua individualità ciò che è espressione
della loro vita psichica. Anzi, il nostro apprendimento indivi-
dualizzante è talmente dominato dall’interesse per la vita psi-
chica degli uomini che equipara addirittura il concetto di indi-
viduo con quello di personalità, e si è costretti a riflettere
esplicitamente sul fatto che un qualsiasi oggetto mostra pari-
menti un’impronta assolutamente individuale. Se e fino a qual
punto la storia in quanto scienza che riferisce i suoi oggetti
non a valori individuali puramente personali, ma a valori uni-
versali, debba rappresentare le personalità, dipende soltanto da
ciò che le personalità significano nella loro singolarità per i
valori universali; perciò l’individualizzazione scientifica può al-
lontanarsi di molto da quella pre-scientifica. Dal momento pe-
rò che ogni storia viene fatta da uomini, anche la rappresenta-
zione scientifica del singolare e del particolare dev'essere preva-
lentemente rivolta alla vita psichica degli uomini; e questo è il
motivo per cui le scienze storiche sono sempre state inserite tra
376 HEINRICH RICKERT
le «scienze dello spirito». Comprendiamo ora con tutta chia-
rezza perché questa designazione esprime una caratteristica se-
condaria dal punto di vista logico e non è neppure adatta,
anche prescindendo da ciò, a caratterizzare in modo compiuto
il materiale della scienza storica. Infatti non è soltanto la vita
spirituale, ma è in misura prevalente Ja vita spirituale che
interessa lo storico nella connessione con i processi corporei;
inoltre non tutta la vita spirituale, e neppure tutta la vita
psichica dell’uomo, ma soltanto una determinata e relativamen-
te piccola parte della vita psichica degli uomini viene presa in
considerazione come materiale da parte della scienza storica.
Anche volendo limitare questa parte per conseguire una ca-
ratterizzazione ancor più esatta del materiale storico, ciò può
avvenire ancora una volta soltanto in base alla comprensione
che abbiamo realizzato dell’essenza del metodo storico, e cioè
appunto in riferimento alla particolarità dei punti di vista valu-
tativi che nell’elaborazione concettuale individualizzante sono
determinanti per la selezione di ciò che è essenziale. Il fatto
che si tratti sempre di valori umani universali può venir espres-
so anche dicendo che diventano storicamente essenziali soltanto
gli oggetti che posseggono un significato in relazione a interes-
si sociali. Perciò, in virtù della connessione storica delle parti
con la totalità storica o con la società, l’oggetto principale della
ricerca storica non è l’uomo in genere, concepito come svincola-
to da essa, ma è l’uomo come essere sociale — e ciò soprattutto
perché partecipa alla realizzazione dei valori sociali. Certamen-
te, il concetto di societas dev'essere qui preso in senso tanto
ampio da comprendere anche comunità come quelle degli scien-
ziati o degli artisti. Se chiamiamo con il nome di cultura il
processo con cui i valori sociali universali si realizzano nel
corso dello sviluppo storico, l’oggetto principale della storia
dev'essere la rappresentazione delle parti o della totalità della
vita culturale umana, e ogni materiale storicamente importante
deve avere un qualche legame con la vita culturale umana,
poiché soltanto allora vi è un motivo per riferirla ai valori
universali e indagarla nella sua particolarità e individualità. I
valori che guidano la selezione di ciò che è essenziale nella
storia devono perciò essere designati anche come valori cultura-
li universali — così come li abbiamo incontrati, per esempio,
HEINRICH RICKERT 377
nei concetti di valore dello stato, del diritto, dell’arte, della
religione, dell’organizzazione economica. S'intende che lo stori-
co non può dire che cosa sia progresso culturale o regresso
culturale, poiché in tal caso passerebbe dalla relazione teoreti-
ca di valore alla valutazione pratica. Non c'è bisogno che i
suoi ideali culturali assumano un'importanza determinante per
l'elaborazione del suo materiale; ma egli dev'essere in grado di
comprendere i valori culturali universali degli uomini e dei
popoli che rappresenta, per poter separare l’essenziale dall’ines-
senziale in virtù di una relazione puramente teoretica di valore.
Inoltre l'indagine storica non è limitata ai processi culturali.
Particolarmente quando occorre conoscere le cause degli avveni-
menti storici, possono risultare significativi anche oggetti che ap-
partengono semplicemente alla « natura », e che diventano im-
portanti proprio con riguardo alla loro individualità: per esempio
la particolarità del clima di una determinata regione, la posizio-
ne geografica di un paese, e così via. Ma per trovare posto in
una rappresentazione storica questi oggetti devono sempre sia
connettersi causalmente con processi culturali sia essere conside-
rati nel loro significato per i valori culturali; e al centro di
una scienza individualizzante resterà sempre una qualche parte
dello sviluppo singolare della vita culturale. Che con ciò non sì
intenda affatto vantare un particolare « metodo storico-cultura-
le», come oggi sovente vien fatto in antitesi al metodo della
storia politica, non richiede un’esplicita assicurazione. La logi-
ca non può decidere la questione del « campo di lavoro specifi-
co» della storia, e neppure perviene alla questione dell'essenza
del metodo storico. Se si vuol parlare di un’antitesi tra storia
politica e storia culturale in genere, l’una e l’altra devono però
applicare il medesimo procedimento individualizzante; può sol-
tanto darsi che la storia culturale, nel senso più ristretto in cui
oggi talvolta la si intende, applichi concetti di gruppo in misu-
ra più ampia di quanto non faccia la storia dei processi politi-
ci. Noi sappiamo però che un numero maggiore o minore di
concetti di gruppo non cambia per nulla l’essenza del metodo
storico. A prescindere da ciò, non è affatto stabilito che la
storia culturale sia configurata in modo più « collettivistico »
della storia politica.
Tali questioni hanno a che fare con la dottrina del metodo
378 HEINRICH RICKERT
soltanto nella misura in cui devono essere tenute scrupolosamen-
te lontane dalle indagini logiche. Il dilettantismo logico dei
giorni nostri ha anche qui prodotto disorientamento, ma non
possiede ancora un'importanza tale da giustificare un esame
più ravvicinato in questa sede. Il termine « cultura » viene qui
usato nel senso che la vita politica è una parte della vita cultu-
rale in genere. Esso non designa altro che l’insieme degli oggetti
che hanno un significato diretto per la realizzazione dei valori
universali e che, a causa di questa relazione di valore, non
possono mai essere rappresentati in modo esaustivo da una
scienza generalizzante, ma richiedono invece di essere appresi
da una scienza individualizzante. Con ciò è subito chiaro in
qual senso la scienza storica sia una necessità per gli uomini
civili. L'uomo civile riferirà sempre la realtà ai valori culturali
universali, cosicché deve sorgere la domanda relativa al modo
in cui si è compiuta la realizzazione della cultura nel suo
sviluppo singolare: a tale questione può dare risposta soltanto
la storia individualizzante, mai una scienza generalizzante.
II. I PRINCÌPI DELLA VITA STORICA
Se guardiamo ancora una volta indietro, utilizzando i con-
cetti che abbiamo fornito si può delineare un sistema delle
scienze empiriche in cui alla storia è assegnato — in riferimen-
to sia al suo metodo che al suo materiale — un posto stabile;
sulla base di questa prospettiva si possono comprendere e af-
frontare gli altri gruppi di problemi di filosofia della storia.
Dal punto di vista del metodo le scienze particolari procedono
o in modo generalizzante e sistematico o in modo individualiz-
zante e quindi non sistematico. Il loro materiale consiste o di
oggetti naturali, svincolati dai valori, o di processi culturali,
che sono invece riferiti a valori. Questo è soltanto uno schema
generalissimo: non si deve quindi dire — si dovrà sempre
sottolinearlo — che le diverse discipline lavorano in modo esclu-
sivamente generalizzante o esclusivamente individualizzante,
che trattano soltanto di oggetti naturali o soltanto di processi
culturali, e che gli oggetti naturali devono essere rappresentati
soltanto in forma generalizzante e i processi culturali soltanto
HEINRICH RICKERT 379
in forma individualizzante. Al contrario, i diversi metodi sono
strettamente congiunti nella trattazione dei diversi materiali, e
i princìpi di divisione qui forniti possono collegarsi in maniera
differente. Il procedimento generalizzante parte da fatti indivi-
duali, mentre quello individualizzante ha bisogno di concetti
generali come strumenti di rappresentazione e di connessione.
Accanto alle scienze naturali generalizzanti vi sono discipline
che trattano dei processi naturali in modo individualizzante e
quindi, anche se mediatamente e indirettamente, in riferimento
ai valori, come per esempio la storia dell'evoluzione degli orga-
nismi; e viceversa la vita culturale può, nonostante la relazio-
ne di valore, essere sottoposta a una rappresentazione generaliz-
zante. Anzi, anche prescindendo del tutto dalla psicologia, mol-
te delle cosiddette scienze dello spirito — come per esempio
almeno in parte la linguistica, la giurisprudenza, l'economia —
sono scienze culturali non certo storiche, ma sistematiche; il
loro metodo non coincide necessariamente con quello delle
scienze naturali generalizzanti, e la loro struttura logica costi-
tuisce quindi uno dei problemi più difficili e interessanti della
dottrina del metodo. Ma per quanto grande possa essere la
varietà delle aspirazioni scientifiche che la logica non deve
criticare, ma semplicemente riconoscere come fatti, e per quan-
to i princìpi logici di divisione debbano quindi limitarsi a
distinguere concettualmente ciò che è strettamente connesso nel-
la realtà, la storia — la quale tratta degli uomini, delle loro
istituzioni e delle loro imprese — può essere solamente designa-
ta, con riguardo ai suoi fini ultimi, come scienza individualiz-
zante della cultura. Il suo scopo è sempre la rappresentazione
di una serie di sviluppo singolare, più o meno comprensiva; e i
suoi oggetti sono essi stessi” processi culturali oppure stanno in
relazione con valori culturali. In tal modo questa scienza risul-
ta in linea di principio distinta per il suo contenuto da tutte
le scienze naturali, procedano esse in modo generalizzante o indi-
vidualizzante, e metodologicamente distinta anche da tutte le
scienze culturali che trattano i loro oggetti in modo sistematico.
La logica della storia deve muoversi entro questo quadro. Soltan-
to allora essa può penetrare che cosa è realmente la storia, e sol-
tanto così può essere utile a una filosofia che voglia comprendere
il significato della storia reale per la soluzione dei suoi problemi.
380 HEINRICH RICKERT
La costruzione di scienze del futuro, oggi particolarmente cara
alla logica della storia, non ha invece alcun valore né per la
ricerca particolare né per la filosofia, se non quello di un esem-
pio scoraggiante.
Anche la questione dei princìpi dell’accadere storico, che
prendiamo ora in esame, può trovare risposta soltanto se ci si
appoggia sul concetto di ciò che viene di fatto rappresentato
come storia dalle scienze storiche. Già sappiamo che questi
princìpi vengono cercati o in leggi generali o nel senso genera-
le della vita storica. Se si vuole pervenire a chiarezza sui compi-
ti della filosofia della storia come dottrina dei princìpi, occorre
determinare che cosa si può intendere quando si parla di legge
oppure di storia, e chiedersi che cosa meriti il nome di princi-
pio della storia. Ne risulterà che l’alternativa tra legge e senso
della storia, al pari della lotta tra metodo generalizzante e
metodo individualizzante, investe le due tendenze principali
contrapposte della filosofia della storia contemporanea, e che la
decisione in questo scontro dipende essenzialmente, ancora una
volta, dalla comprensione dell'essenza logica della scienza stori-
ca empirica.
Il termine «legge» appartiene a quelle espressioni la cui
equivocità ha dato occasione a molteplici oscurità e fraintendi-
menti. Mentre nell’identificazione tra legge e causalità la causa-
lità viene unilateralmente considerata come forma dell’appren-
dimento generalizzante, esiste d’altra parte un uso linguistico
secondo cui « conforme a legge » equivale senz'altro a « necessa-
rio ». Il termine può allora designare la necessità di ciò che è
singolare e particolare, e anche la necessità di un imperativo o
di un valore. Pretendere di vietare in ogni caso quest’uso sareb-
be pedantesco, e non avrebbe successo. Nella filosofia, però,
bisognerebbe evitarlo almeno nei punti decisivi; e in ogni caso,
se alla filosofia della storia viene posto il compito di cercare le
leggi della storia, ciò ha un senso chiaro soltanto se per legge
si intende la legge naturale. La necessità della legge non signifi-
ca allora la necessità di una realtà individuale, ma universalità
incondizionata di un concetto, e più precisamente il nesso ne-
cessario di almeno due concetti generali e il nesso necessario
delle realtà corrispondenti soltanto nella misura in cui la legge
dice che, quando un oggetto individuale mostra tra le altre
HEINRICH RICKERT 381
caratteristiche anche quelle che costituiscono gli elementi di un
concetto generale, con esso è dovunque e sempre connesso real-
mente un altro oggetto che, tra le altre caratteristiche, pos-
siede anche quelle che costituiscono gli elementi dell’altro con-
cetto generale. In breve, la conoscenza della legge è la forma di
apprendimento della realtà a cui tende, come ideale supremo,
ogni scienza generalizzante della natura.
Che la scienza storica empirica non si ponga mai il fine
ultimo di trovare leggi in quest’accezione, già lo sappiamo. Lo
storico che fa questo cessa di essere storico e di volere una
rappresentazione storica del suo oggetto. Perciò, dal momento
che scienza storica empirica e scienza di leggi si escludono
concettualmente tra loro, si può dire che il concetto di « legge
storica » contiene una contradictio in adiecto — dove ovviamen-
te il termine «storico» ha soltanto il senso formale o logico
già indicato, e questo principio riveste carattere logico anche
nella misura in cui è indipendente non soltanto da ogni idea
sul materiale della storia, ma anche da ogni visione sull’essen-
za della realtà in genere. Esso vale tanto presupponendo il
materialismo o il parallelismo psico-fisico quanto presupponen-
do una metafisica spiritualistica o una dottrina metafisica della
libertà. Anche la storia di un oggetto le cui leggi ci fossero
note senza alcun residuo non consisterebbe mai di queste leg-
gi, ma le utilizzerebbe soltanto come mezzi.
Ma ciò che vale per la scienza storica empirica non vale
necessariamente per la filosofia della storia. Poiché è logicamen-
te legittimo rivestire ogni realtà con un sistema di concetti
generali, e poiché non occorre essere seguaci del materialismo o
del parallelismo psico-fisico per ritenere possibile che ogni esse-
re accessibile alle scienze empiriche possa venir ricondotto a
leggi generali, sembra che si possa senz'altro ritenere che il
filosofo della storia — il quale, in quanto filosofo, non è uno
storico, ma ha sempre a che fare con l’universale — scopra
leggi valide per lo stesso materiale che le scienze storiche empi-
riche tendono ad apprendere in modo individualizzante. Dal
momento che tale materiale è costituito principalmente dalla
vita sociale degli uomini, da ciò sorge l’idea di una sociologia
come filosofia della storia che ricerca leggi — un'idea che è più
vecchia della terminologia di Comte, ma che trova molti segua-
382 HEINRICH RICKERT
ci anche ai giorni nostri. Per tale via, questi sociologi cercano
una conoscenza che conduca al di là delle singole rappresenta-
zioni storiche, con la loro aderenza al particolare, e penetri
l'essenza universale di tutto lo sviluppo storico. Evidentemente
— così ritengono almeno i più cauti rappresentanti di questo
punto di vista — la conoscenza storica di ciò che è singolare e
individuale non è priva di valore, ma costituisce, al contrario,
l'indispensabile fondamento di una considerazione ulteriore —
ossia costituisce, dal punto di vista della filosofia della storia,
soltanto il fondamento, il lavoro preparatorio. Su questa base si
deve poi innalzare l’edificio di una filosofia della storia com-
prensiva, che abbracci nelle sue leggi il ritmo e quindi i princì-
pi di tutta la vita storica.
Se passiamo a valutare questo punto di vista, vediamo infat-
ti che, se il termine «storico» designa non già il metodo,
ma il materiale della storia, il concetto di legge storica non
contiene per lo meno nessuna contraddizione logica; e in ogni
caso è un'impresa del tutto legittima ricercare le leggi della
vita sociale degli uomini. Del tutto diverso è però chiedersi se
abbia un senso designare come princìpi dell’accadere storico le
leggi eventualmente trovate attraverso la considerazione genera-
lizzante del materiale che la storia rappresenta in modo indivi-
dualizzante, e se sia quindi corretto chiamare la sociologia col
nome di filosofia della storia. Questa è qualcosa di più che una
questione terminologica; e se ad essa si risponde affermativa-
mente in base al principio che si possono trovare leggi per
ogni realtà, quindi anche per gli oggetti delle scienze storiche,
si trascurano due punti d'importanza decisiva. I princìpi storici
devono cioè essere in primo luogo princìpi della cultura e in
secondo luogo princìpi dell'universo storico. Sono appropriate
a tale scopo le leggi nel senso di leggi naturali?
Ciò che soprattutto importa può venir chiarito nel modo
migliore se si ripensa al fatto che né la conoscenza pre-scientifi-
ca, né una qualsiasi conoscenza scientifica della realtà empirica
riproduce questa realtà quale esiste indipendentemente dalla
nostra elaborazione concettuale, ma che ogni conoscenza si co-
stituisce soltanto in virtù di un apprendimento che trasforma
la realtà. Nel suo processo di formazione la scienza può essere
guidata soltanto dai fini che si è posta come scienza generaliz-
HEINRICH RICKERT 383
zante o individualizzante, e una scienza generalizzante potrà
quindi sperare di pervenire a leggi soltanto se si libera da tutti
gli interessi per la realtà che non siano quelli indirizzati a
determinare concetti incondizionatamente generali per il pro-
prio campo. Essa deve poter separare ciò che ad altri modi di
apprendimento appare connesso, e deve comprendere sotto un
concetto ciò che in rapporto ad altri interessi non sembra
avere assolutamente nulla in comune. Quanto essa si allontani
così dall’apprendimento pre-scientifico risulta particolarmente
chiaro allorché si determinano le leggi più comprensive. Basta
considerare che le scienze di leggi conducono a una separazio-
ne di principio dell’elemento fisico spaziale dall’elemento psi-
chico inesteso, e quindi alla rappresentazione di due mondi tra
i quali non è più possibile istituire alcuna connessione reale,
mentre per il nostro apprendimento pre-scientifico — e anche
per il nostro apprendimento storico — i due campi sono inscin-
dibilmente legati tra loro. Oppure si pensi come il trattamento
imposto dalle scienze di leggi faccia sempre più scomparire il
carattere di cosalità della nostra immagine del mondo e intro-
duca al suo posto, in misura crescente, concetti di relazione.
Una scienza della vita sociale degli uomini richiederà evidente-
mente, in linea di principio, la medesima libertà di trasforma-
re la realtà mediante l’elaborazione concettuale generalizzan-
te; se ciò viene applicato al suo rapporto con la vita storica, ne
risulta che la sociologia — nel caso che voglia essere al tempo
stesso filosofia della storia — non possiede questa libertà di
distruggere ogni forma di apprendimento della realtà diversa
da quella determinata dal suo fine di una conoscenza di leggi.
Se della sociologia si deve realmente poter dire che tratta il
medesimo materiale della storia, essa dovrà per lo meno cercare
le leggi della vita culturale, in quanto ogni scienza storica ha a
che fare o con processi culturali o con realtà che sono in relazio-
ne con questi. Ma la cultura non è affatto una realtà libera da
interpretazioni, che possa venir sottomessa a una qualsiasi elabo-
razione e trasformazione concettuale; da una parte la cultura è
una sezione determinata della realtà, di cui non si sa se per
essa, e soltanto per essa, valgano concetti di legge, dall’altra
tale sezione è una realtà già articolata e trasformata in modo
ben determinato da valori culturali. Chi può dire se questa
384 HEINRICH RICKERT
articolazione, dalla cui consistenza dipende se designamo una
realtà come cultura, si conserva allorché cerca di farsi valere
l'apprendimento generalizzante? Se però questo non avviene,
allora la sociologia in quanto scienza di leggi rappresenta insie-
me con l’altra vita sociale — non storica — anche la medesima
realtà trattata dalla storia, ma non l’apprende come la medesi-
ma realtà, ossia non la rappresenta come cultura; e quanto
poco importi da questo punto di vista la comunanza del mate-
riale, appare chiaro non appena si pensi che l'oggetto comune
non è che una parte di quella sterminata molteplicità che, in
quanto tale, non soltanto non può confluire in nessuna scienza,
ma di cui possiamo parlare solo in generale, mai in particola-
re, perché non la conosciamo libera da interpretazioni. C'è
perciò non soltanto un’inconciliabilità tra metodo generalizzan-
te e metodo individualizzante nelle scienze particolari, ma man-
ca pure ogni garanzia di conciliabilità tra la considerazione
delle scienze di leggi e la considerazione delle scienze della
cultura; anzi a causa della stretta relazione tra pensiero indivi-
dualizzante e pensiero riferito ai valori è, se non logicamente
impossibile, almeno molto improbabile che i concetti di legge
possano sempre coincidere nel loro contenuto con i concetti
culturali generali. Con ciò è tolto il terreno, già in linea di
principio, al programma di una sociologia intesa come filosofia
della storia, la quale poggi sul principio che dev'essere possibile
trovare leggi per una qualsiasi realtà. Il tentativo di determina-
re leggi della vita sociale mantiene ovviamente il suo buon
diritto, ma nulla ci autorizza a considerare queste leggi come
princìpi della vita culturale, semplicemente perché sono leggi
della medesima realtà libera da interpretazioni di cui tratta la
storia. A ciò si può credere soltanto se, indulgendo a un inge-
nuo realismo concettuale, si scambia il nostro apprendimento
pre-scientifico e scientifico della realtà con la realtà stessa.
Poiché in un certo senso qui non andiamo al di là delle
possibilità logiche e — almeno secondo quanto si è detto finora
— soltanto un caso miracoloso potrebbe far sì che i concetti di
legge e i concetti culturali coincidano sempre, per giungere a
chiarezza occorre ancora mostrare esplicitamente in quale caso
ogni ricerca di leggi della vita culturale è priva di senso. Il
punto decisivo sta nuovamente nel concetto del rapporto che la
HEINRICH RICKERT 385
totalità ha con le sue parti. Anzitutto, in quali casi l’apprendi-
mento della realtà come cultura può accompagnarsi con l’ap-
prendimento generalizzante? Dal momento che i valori cultura-
li sono sempre, in quanto valori universali, anche concetti di
contenuto generale, gli avvenimenti storici — i quali diventano
essenziali in virtù della loro individualità in riferimento a un
valore culturale universale — possono essere considerati come
esemplari di questo concetto generale. Infatti, anche se il proce-
dimento individualizzante è sempre riferito a valori, questo
principio non può essere rovesciato in modo da affermare che
ogni valore universale rende individualizzante la rappresenta-
zione. Anche quei processi che vengono in luce, per esempio,
in una storia dell’arte o del diritto possono essere visti come
esemplari del concetto generale di «arte » o di « diritto»; e se
in tal modo si deve sciogliere anche la relazione di valore che
le cose hanno, in virtù della loro individualità, con il valore
culturale di arte o di diritto, una rappresentazione generalizzan-
te di questo tipo rimane tuttavia rappresentazione di processi
culturali anche nel senso che essa considera gli oggetti co-
me cultura; infatti il concetto culturale di arte o di diritto
è ciò che delimita il campo e determina quali oggetti di-
ventano esemplari di tale sistema di concetti generali. Ciò
che vale per questi valori culturali può naturalmente valere
anche per tutti gli altri: si può quindi pensare che quelle
grandi unità della vita storica che chiamiamo popoli civili ven-
gano tutte concepite come esemplari di un sistema di concetti
generali in cui poi si esprimono le leggi che valgono per lo
sviluppo sempre ricorrente d’un qualsiasi popolo civile. Certa-
mente, per i motivi prima addotti, non si può mai chiamare
tutto questo col nome di storia; inoltre, se tale compito viene
indicato come possibile, si deve pensare soltanto alla possibilità
logica, lasciando da parte le difficoltà di fatto che si oppongono
a una siffatta impresa. Infatti qui importa solamente conce-
dere al programma di una scienza della vita culturale fondata
su leggi tutto quanto è pensabile per poi, fatto questo, poter
decidere con maggiore sicurezza se la scienza di leggi a cui si
aspira, concepita nella sua perfezione, sia in grado di soddisfa-
re le pretese di una filosofia della storia come dottrina dei
princìpi della vita storica.
25. STORICISMO TEDESCO.
386 HEINRICH IUCKERT
Se si vuol rispondere a questa domanda occorre tener presen-
te che la filosofia della storia, comunque si possa altrimenti
determinare il suo compito, non dev'essere filosofia dell’oggetto
di un'indagine storica particolare, bensì filosofia dell’oggetto
di una storia universale, e deve al tempo stesso stabilire i
princìpi dell’universo storico. Per universo storico si deve però
in ogni caso intendere — per quanto indeterminato possa essere
questo concetto — la totalità storica più comprensiva possibile,
e quindi qualcosa di singolare e di individuale nel suo concetto,
a cui ogni oggetto considerato da una scienza storica particola-
re appartiene come elemento individuale; inoltre, dai princìpi
della storia pretendiamo che siano i princìpi dell’unità di que-
sto universo. Già da questo risulta che una scienza di leggi, in
quanto dottrina dei princìpi storici, non soltanto incontra dif-
ficoltà più o meno grandi, ma è anche logicamente impossibile.
Non si obietti che anche la totalità dell’universo è, in base al
suo concetto, qualcosa di singolare e che quindi, se quest’argo-
mentazione fosse giusta, non dovrebbero esserci leggi che valgo-
no — come assumiamo per esempio nel caso della legge di
gravità — per la totalità dell’universo. Le scienze generalizzan-
ti non hanno mai a che fare con la totalità dell’universo nel-
lo stesso modo in cui la filosofia della storia ha a che fare
con l'universo storico. Esse vanno alla ricerca di leggi soltan-
to nel senso che vogliono stabilire ciò che vale per tutte le
sue parti. Mai però pensiamo di considerare queste parti come
elementi della totalità, e le leggi generali non possono affatto
essere princìpi dell’unità di questo tutto. Quanto più esse sono
generali, tanto più ogni parte è soltanto esemplare di un gene-
re, ed è quindi sciolta da tutte le determinazioni che la rendo-
no un elemento della totalità. Se assumiamo quindi che la
sociologia abbia raggiunto il suo fine supremo e abbia trovato
leggi per tutte le parti dell’universo storico, ad esempio per lo
sviluppo di tutti i popoli civili, allora questi sarebbero diventa-
ti per essa esemplari di un genere, e — in quanto esemplari —
concettualmente isolati l’uno dall’altro. Essi non potrebbero ve-
nir ricondotti all'unità dell’universo storico individuale, poiché
come elementi di una connessione storica dovrebbero sempre
essere individui, e le leggi trovate dalla sociologia non potrebbe-
ro venir utilizzate come princìpi dell’unità degli elementi indi-
HEINRICH RICKERT 387
viduali dell’universo individuale. Il concetto di legge come prin-
cipio dell'universo storico è quindi per la filosofia della storia
logicamente assurdo, tanto quanto lo è il concetto di legge
storica inteso come fine di una scienza storica empirica. Certa-
mente la filosofia della storia guarda al « generale », ma soltan-
to nella misura in cui essa ha a che fare con l'universo storico,
e proprio perciò il suo oggetto rimane sempre uno sviluppo
singolare e individuale, che ha come suoi elementi degli indivi-
dui. La sociologia come scienza di leggi può quindi, per quan-
to possa essere fornita di valore sotto altri aspetti, offrire alla
storia concetti ausiliari per l’analisi di connessioni causali, ma
non può mai prendere il posto della filosofia della storia.
Da questo punto di vista devono essere valutati anche tutti i
tentativi di riconoscere « fattori » o « forze » generali della vita
storica. Dal momento che ogni storia tratta di uomini, e in
ogni uomo si possono distinguere un aspetto corporeo e un
aspetto spirituale, è evidentemente possibile effettuare una divi-
sione di tali forze in fisiche e psichiche, e si potrà fors’anche
dare con successo uno sguardo d’insieme ancor più specializza-
to a quei fattori che agiscono nell’accadere storico. Ma, quale
che sia il giudizio che si può dare nel singolo caso sul valore
di tali sforzi, non soltanto è necessaria, a causa della separazio-
ne tra apprendimento naturale e apprendimento culturale della
realtà, la massima precauzione nell'impiego di tali teorie gene-
ralizzanti, ma soprattutto non ci si deve mai illudere che que-
ste forze e questi fattori generali siano — e neppure determini-
no — ciò che è storicamente essenziale. Si tratta piuttosto sol-
tanto di condizioni senza le quali non possono esserci avveni-
menti storici; ma proprio perché sono condizioni assolutamente
generali, non hanno interesse né per lo storico empirico né per
il filosofo della storia. Così, per esempio, il calore del sole è
un fattore che non possiamo eliminare da nessun avvenimento
storico; e tutta la storia avrebbe avuto un corso diverso — anzi
non ci sarebbe stata nessuna cultura — se gli uomini non si
fossero potuti capire con il linguaggio. Ma il calore del sole
e il linguaggio non sono certamente « princìpi storici ». È pro-
prio il carattere di incondizionata generalità che toglie ad essi
interesse storico. Anzi, prescindendo del tutto dal fatto che una
scienza delle forze e dei fattori generali della vita sociale possa
388 HEINRICH RICKERT
essere chiamata filosofia della storia, si può ben dubitare che
le molteplici conoscenze naturali, psicologiche e culturali che
vengono qui prese in considerazione possano congiungersi in
una scienza unitaria. Almeno finora questa scienza non esiste
affatto, né ci sarà in futuro; e se lo storico sente il bisogno di
una visione delle « forze » generali che agiscono nel campo di
cui egli tratta, si rivolge alle scienze particolari generalizzanti,
cioè all’antropologia, alla psicologia, alla sociologia e così via,
che lo informeranno nel modo più preciso.
Non recheremmo un contributo essenziale al chiarimento
del principio generale a cui dobbiamo qui limitarci se preten-
dessimo di approfondire nei particolari i diversi gruppi di pro-
blemi considerati; si deve soltanto sottolineare ancora che lo
storico può cercare insegnamento presso le scienze particolari
generalizzanti solamente per quanto riguarda i fattori più o
meno costanti della vita storica, mentre non deve attendersi
dalle scienze generalizzanti alcuna risposta per parecchie que-
stioni che si riferiscono all'essenza generale della vita storica
— e in particolare per le questioni che vengono qualificate
come problemi di filosofia della storia. Qui ci limitiamo a un
esempio sul quale le più diverse tendenze della scienza storica
empirica e della filosofia della storia cadono in errore. Si tratta
della questione concernente il ruolo che hanno nella storia gli
individui abitualmente designati in modo eminente come indivi-
duo, cioè le singole personalità. Qui proprio la concezione che
rifiuta sia la trattazione empirica sia la trattazione filosofica
della storia in favore di una scienza di leggi ha interesse a
sottolineare che questo problema non è suscettibile di una solu-
zione generale in senso cosiddetto « individualistico »; e ciò ri-
sulta ancora una volta da una prospettiva logica. Certamente è
del tutto sbagliato dire che nella storia non interessano affatto
le singole personalità, e che determinante è solamente la vita
« generale » delle masse; ma altrettanto falso è cercare sempre i
fattori decisivi nelle imprese di singole personalità e spiegare
la storia — seguendo Carlyle — come una somma di biografie.
Purtroppo, l’alternativa che qui viene in luce è molto spesso
posta in connessione con la questione dell’essenza logica della
storia, cosicché i rappresentanti del punto di vista secondo cui
la storia procede in modo individualizzante (nel senso da noi
HEINRICH RICKERT 389
indicato) vengono al tempo stesso ritenuti seguaci di una storia
di personalità; e invece il metodo individualizzante non ha il
minimo rapporto con il culto degli eroi. Al contrario, proprio
perché la storia è la scienza dell’individuale, la filosofia della
storia non può decidere in favore dei grandi uomini la questio-
ne del significato che posseggono le singole personalità. Il moti-
vo è lo stesso che vieta di cadere nell’estremo opposto e di fare
dell’elaborazione di concetti collettivi un principio di metodo.
L'affermazione che importano sempre le personalità sarebbe
anzi prodotto di un’elaborazione concettuale generalizzante, os-
sia una legge storica. Per ogni aspetto particolare dell’accadere
storico si deve indagare quali movimenti di massa e quali im-
prese meramente personali abbiano avuto un’importanza deci-
siva per i valori culturali dominanti: soltanto allora è possibile
rispondere alla questione del significato dei singoli uomini per
tutti gli aspetti particolari della storia. Di fatto, né le afferma-
zioni generali sull’importanza decisiva delle masse, né quelle
sul ruolo delle singole personalità devono la loro popolarità a
un'elaborazione concettuale generalizzante; esse devono venir
ricondotte a un’arbitraria unilateralità nel privilegiamento di
questi o quei valori culturali, e quindi a una scelta arbitraria
del materiale storicamente essenziale — come risulterà ancor
più chiaramente rispondendo alla domanda sui princìpi della
vita storica.
Per quanto riguarda la questione del significato delle leggi
storiche, concludiamo accennando ancora a un punto che ha
dato parimenti occasione a dispute. Si tratta cioè ancora di
mostrare che non soltanto certi problemi largamente trattati di
filosofia della storia non ammettono nessuna decisione genera-
le, ma che anche dove uno storico afferma un principio valido
per ogni vita storica, non è affatto detto che si tratti sempre di
un prodotto dell’apprendimento generalizzante. Prendiamo co-
me esempio una tesi di Ranke che ha avuto una parte rilevan-
te nella polemica sulle leggi storiche. Essa contiene — come
dice von Below — una «verità universale: la nozione che la
vita interna degli stati dipende in larga misura dai rapporti
reciproci tra gli stati, dai rapporti mondiali », e viene al tem-
po stesso designata come una scoperta scientifica di prim’ordi-
ne. Ci si può chiedere se questa verità universale non sia una
390 HEINRICH RICKERT
legge storica, anche se soltanto nel senso, logicamente privo di
contraddizione, di una legge valida per il materiale rappresenta-
to in modo individualizzante dalla storia. Chi conosce la conce-
zione storica di Ranke, risponderà negativamente a tale doman-
da. Per questo grande storico i « rapporti mondiali » costituisco-
no un complesso determinato di stati civili in connessione reci-
proca, e Ranke considera come facenti parte del suo « mondo »
storico soltanto gli stati che sono in connessione con questi
stati civili, e che quindi ne sono anche influenzati. Nel princi-
pio sopra menzionato — se esso deve valere in modo assoluta-
mente generale ed essere quindi libero da ogni contenuto pro-
priamente storico — abbiamo di fronte non già un prodotto
della scienza generalizzante e una «scoperta» scientifica, ma
soltanto la formulazione di un presupposto metodologico con
cui Ranke si accosta, e deve accostarsi — se vuole trattare
tutto in termini di storia universale, nel senso da lui inteso —
alla rappresentazione individualizzante dei singoli stati. Lo stes-
so vale per altre affermazioni generali, come per esempio quel-
la che ogni individuo, per quanto grande, è rinchiuso entro
confini dati dalla situazione culturale del suo popolo. Ciò è
assolutamente evidente, poiché anche qui non si afferma altro
che la connessione reale di ogni parte storica con la totalità
storica. Un sistema di princìpi generali siffatti non potrebbe
mai servire come scienza ausiliaria generalizzante della storia
nella ricerca di connessioni causali, ma può soltanto contenere i
presupposti che dobbiamo assumere se dev'essere in generale
possibile la storia in quanto rappresentazione scientifica di con-
nessioni storiche. Così si mostra nuovamente che non ha alcun
senso cercare nelle leggi i princìpi dell’accadere storico.
Ma proprio perché il rifiuto di una filosofia della storia
come scienza di leggi è risultato come conseguenza necessaria
della comprensione dell’essenza logica della storia, sembra con
ciò di essere andati troppo in là nella dimostrazione. Infatti,
per quanto false siano nel loro contenuto tutte le teorie sociolo-
giche che pretendono di essere filosofia della storia, esistono di
fatto dei tentativi di determinare leggi valide per la totalità
singolare dello sviluppo storico, e questi sarebbero senz’altro
impossibili se il concetto di una scienza di leggi come filosofia
della storia contenesse una contraddizione logica. Ciò è certa-
HEINRICH RICKERT 39I
mente esatto, e pertanto occorre ancora mostrare che, laddove i
princìpi dell’accadere storico sembrano determinati in forma di
leggi, essi non sono mai enunciati, da un punto di vista
formale, come leggi nel senso delle leggi naturali. E dal fatto
che intendiamo ciò che qui è realmente presente deriva al tempo
stesso una risposta alla questione di ciò che può essere designa-
to come principio della vita storica.
È caratteristico di quasi tutti i tentativi di trovare la legge
naturale dell’universo storico il fatto che tale legge debba conte-
nere contemporaneamente la formula del progresso della sto-
ria: con ciò è subito posto in chiaro l’elemento essenziale. Si
capisce quanto debba essere allettante abbracciare d’un solo col-
po legge naturale, legge di sviluppo e legge di progresso, come
credeva di aver fatto Comte con la sua legge dei tre stati —
teologico, metafisico e positivo — e quanta popolarità goda quin-
di ancor oggi questo tipo di sociologia, che promette di rende-
re tanto. Ma si capisce anche, non appena si sia ottenuta chia-
rezza sull’essenza logica della storia, che tali promesse non
potranno mai essere mantenute. In primo luogo, progresso o
regresso sono concetti di valore, più esattamente concetti che
esprimono un incremento o una diminuzione di valore; e di
progresso si può parlare soltanto se si possiede un criterio di
valore. In secondo luogo, il progresso indica il sorgere di qual-
cosa di nuovo, che non è mai esistito nella sua individualità.
Ma il concetto di un criterio di valore, come concetto di ciò
che dev'essere, non può mai coincidere con un concetto di
legge, che contiene sempre ciò che è o deve necessariamente
essere, e che non ha quindi alcun senso esigere. Dover essere
ed essere necessariamente si escludono l’un l’altro sotto il proft-
lo concettuale, e solamente a causa della già menzionata equivo-
cità del termine «legge » si può parlare di una legge di progres-
Inoltre il sorgere di qualcosa di nuovo, di non ancora
esistito, non rientra in alcuna legge, poiché una legge contiene
soltanto ciò che ricorre ripetutamente. Se per progresso si inten-
de quindi in primo luogo il sorgere di qualcosa di nuovo e in
secondo luogo un incremento di valore, e per legge una legge
naturale, allora il concetto di legge di progresso è due volte
logicamente assurdo. Quando l’universo storico è unificato in
virtù di una «legge», articolato in riferimento al sorgere di
392 HEINRICH RICKERT
qualcosa di nuovo e designato come progresso, la legge non
può mai essere una legge naturale. Perciò la «legge» di Com-
te è anche di fatto una formula valutativa. Per lui il positivo
vale come dover essere, come ideale assoluto. In base a questo
egli considera lo sviluppo dell’umanità e stabilisce ciò che i
suoi diversi stadi rappresentano di nuovo e di valido per la
realizzazione del suo ideale. Una scienza di leggi, che deve
sciogliere i propri oggetti da ogni vincolo valutativo e conside-
rarli come esemplari indifferenti di un genere, non può fare
nulla di simile.
Qui non è possibile — e neppure necessario per il chiarimen-
to del principio — illustrare criticamente i vari tentativi com-
piuti per porre in luce presunte leggi come princìpi dell’accade-
re storico e per dimostrare che queste leggi contengono, più o
meno celati, concetti di valore, e quindi non sono leggi. Basti
ricordare esplicitamente quello che è legato al nome di Darwin
e che può essere definito come il tentativo di dare al concetto
di sviluppo storico un carattere puramente naturalistico in vir-
tù della dimostrazione che proprio la legge naturale dello svi-
luppo garantisce il suo necessario incremento di valore. Ogni
progresso da un livello inferiore a uno superiore è condizionato
— così si sostiene — dalla legge universalmente valida della
selezione, che sempre più elimina ciò che è cattivo e aiuta ciò
che è buono a riportare la vittoria. Perciò tale legge deve nel
medesimo tempo essere il principio dello sviluppo storico e del
progresso. A parecchi ciò suona assai plausibile, ma non occor-
re pervenire a un'illustrazione più ravvicinata delle idee sulla
cui base si sono ottenuti i più diversi concetti di progresso per
mostrare che siamo qui dinanzi a un fraintendimento totale
della biologia di Darwin. Se questa teoria deve fornire una
spiegazione puramente naturalistica, essa deve rinunciare a qual-
siasi teleologia dei valori, e quindi anche evitare completamente
l'impiego di concetti valutativi come «superiore » e « inferio-
re». La selezione naturale non elimina affatto ciò che è cattivo
conservando il buono, ma aiuta semplicemente a far vincere il
più adatto alla vita in determinate condizioni; e questo proces-
so può essere chiamato progresso soltanto se si fa della vita in
quanto tale, in qualsiasi forma si manifesti, un valore assoluto.
Ma ciò sarebbe del tutto privo di senso, perché ogni vita ha
HEINRICH RICKERT 393
dimostrato capacità vitale per il fatto stesso di esistere, e
quindi da questo punto di vista cade ogni differenza di valore.
Sulla base dei concetti darwiniani non si può valutare la vita
umana superiore a quella animale, e quindi designare come un
progresso lo sviluppo che conduce all'uomo. Perciò è del tutto
impossibile formulare una qualsiasi distinzione di valore all’in-
terno della vita umana in base a punti di vista propri della
scienza naturale. Soltanto quando si è già presupposta come
fornita di valore — sulla base di un criterio di valore — una
determinata formazione, si può definire come progresso lo svi-
luppo che conduce ad essa. Ma non sarà mai possibile derivare
dalle leggi naturali del processo di sviluppo — che devono
essere le medesime per ogni stadio, se devono essere leggi
generali — il principio del progresso. La circostanza che certe
formazioni naturali, come per esempio gli uomini, vengono
valutate come «evidentemente » superiori rispetto ad altre for-
me ci spiega sì la possibilità di una storia evolutiva individualiz-
zante degli organismi e conduce i rappresentanti di una filoso-
fia naturalistica della storia a ingannarsi sull’uso che continua-
mente fanno di princìpi di valore, ma non cambia nulla al fatto
che dai concetti propri della scienza naturale non si può deriva-
re alcun valore. Da quest’illusione sono infine dominati anche
coloro che vogliono costruire una filosofia della storia sul con-
cetto di razza — per lo più ispirati dalla nozione darwiniana di
«razze favorite nella lotta per l’esistenza ». Essi trascurano il
fatto che, per edificare una qualsiasi filosofia della storia, sono
costretti a utilizzare questo concetto in modo del tutto acritico
e infondato, come concetto di valore; e tale procedimento è
tanto più sospetto in quanto con ciò discreditiamo il concetto —
estremamente importante per la filosofia della storia — di na-
zione, che è un concetto culturale e designa l’individualità di
un popolo. Il concetto di nazione civile non ha nulla in comu-
ne con il concetto naturalistico di razza — tutt'altro che esente
da obiezioni, del resto, anche dal punto di vista della scienza
naturale — di cui si fa oggi un abuso così dilettantesco. La
germanità non risiede nel sangue ma nell'animo — ha detto
Lagarde”, un uomo non sospettabile di apprezzare poco l’ele-
23. Paul Anton de Lagarde (1827-1891), orientalista c filosofo tedesco, autore
394 HEINRICH RICKERT
mento nazionale; e alla base di questa espressione sta la stessa
idea che proibisce di elevare concetti naturali, come quello di
razza, a princìpi di filosofia della storia.
La dimostrazione che le presunte leggi storiche sono formu-
le di valore ci ha al tempo stesso indicato la strada attraverso
cui devono essere effettivamente cercati i princìpi dell’accadere
storico: ancora una volta è qui decisiva la comprensione dell’es-
senza logica della scienza storica. L'universo storico non è nien-
t'altro che la totalità storica più ampia possibile, concepita in
modo individualizzante, e poiché la relazione di valore è la
conditio sine qua non dell’apprendimento individualizzante in
genere, possono essere solo concetti di valore quelli che costitui-
scono il concetto dell’universo storico. Ma soltanto ciò che ese-
gue questo lavoro e rende possibile connettere in unità — come
elementi individuali — le diverse parti dell’universo storico,
merita il nome di principio storico; perciò la filosofia della
storia in quanto scienza dei princìpi è, se deve avere un compi-
to, la dottrina dei valori da cui dipende l’unità e l’articola-
zione dell’universo storico. In riferimento a questi valori si
può anche interpretare il senso unitario dell’intero sviluppo.
L'’interpretazione di tale senso ha sempre rappresentato di fatto
l'aspirazione della filosofia della storia, anche quando si crede-
va di dover cercare leggi perché non si distingueva tra legge e
valore, tra essere necessariamente e dover essere, tra essere e
senso, e non si era consapevoli che ciò che non si può riferire
a valori è assolutamente privo di senso. Neppure il naturalismo
ha voluto rinunciare a interpretare il senso della storia, né del
resto sarebbe facile rinunciarvi. Tutta la vita culturale è vita
storica e gli uomini civili — a cui appartengono anche i natura-
listi — non possono in quanto tali tralasciare di rendersi conto
del senso della cultura, e quindi del senso della storia. Sorge
qui un compito che non può essere assolto né dal naturalismo,
che scioglie la realtà da ogni relazione di valore, né dalla
scienza storica empirica, che rappresenta il corso storico in base
di Uber das Verhdltnis des deutschen Staates zu Theologie, Kirche und Religion
{1873), dei Politische Aufsitze (1874), di Uber die gegenwirtige Lage des deutschen
Reiches (1876) e di vari altri scritti, cditore di Giordano Bruno, formulò una filoso-
fia della storia di ispirazione teologica.
HEINRICH RICKERT 395
a una relazione di valore puramente teoretica; perciò ci si
attende dalla filosofia della storia, come dottrina dei princìpi
dell’accadere storico, la soluzione di questo compito necessario
e inevitabile.
Meno semplice della questione dell'oggetto di questa filoso-
fia della storia è affrontare il problema del modo di trattazio-
ne. Qui è possibile prospettare soltanto #2 compito, contro la
cui possibilità di soluzione non vengono avanzate obiezioni di
rilievo. Esso si riallaccia alle operazioni effettive degli storici e
dei filosofi della storia, cercando di mostrarvi la funzione dei
valori culturali come princìpi della rappresentazione. Per qual-
che lavoro questo compito è, almeno in parte, di così facile
soluzione da non aver affatto bisogno di un’indagine particola-
re. In una storia dell’arte o della religione devono in ogni caso
esserci dei valori artistici e religiosi, ai quali vengono riferiti
gli oggetti da rappresentare. Ma non sempre le cose vanno nel
senso che un determinato punto di vista valutativo emerge subi-
to come elemento dominante. Soprattutto nelle opere più com-
prensive, le quali hanno per oggetto lo sviluppo di interi popo-
li o intere epoche, si incontrano i punti di vista più diversi, ed
è un’occupazione assai attraente quella di chiarire perché lo stori-
co tratti estesamente certi avvenimenti e soltanto brevemente
altri, e non tratti per nulla di processi altrettanto reali. Gli
storici stessi non sempre sono consapevoli dei motivi di questo
fatto. Non possono esserlo perché spesso non sanno nulla della
struttura logica della loro attività e credono di non stabilire
relazioni di valore in genere. Tanto più importante è allora
chiarire esplicitamente i loro presupposti e mostrare da che
cosa essi dipendano nell’elaborazione del loro materiale. Occor-
re perciò mostrare che ogni storico, specialmente quando non si
limita a indagini particolari, possiede una specie di filosofia
della storia che è decisiva per ciò che egli ritiene importante e
non importante; ed è certamente un compito che vale la pena
affrontare quello di porre in luce la filosofia della storia presen-
te soprattutto nei grandi storici. Anche in uno storico così
«oggettivo », com'è per esempio Ranke, agiscono presupposti
filosofici ben determinati intorno al senso della storia, e così
dev'essere per il fatto stesso che egli voleva trattare tutto dal
396 HEINRICH RICKERT
punto di vista della storia universale. Giustamente Dove ha
osservato che Ranke si è opposto alla partecipazione unilatera-
le non già mediante la neutralità, ma mediante l'universalità
del sentimento simpatetico, riconoscendo in tal modo implicita-
mente la relazione ai valori. Ma se le cose stanno così, non
ci si può limitare a questo. In che cosa consiste l'universo dei
sentimenti simpatetici in questo grande storico? Un’indagine
orientata in vista di tale scopo recherebbe forse maggiore luce
sulla questione riguardante le tanto discusse «idee » di Ranke.
Si potrebbe mostrare che la filosofia della storia di Ranke è
stata soggetta a trasformazioni, ma che tra i fattori di cui si
compongono queste idee tutt'altro che semplici hanno sempre
avuto un ruolo essenziale i punti di vista valutativi dominanti
della concezione della storia di Ranke. In tali indagini, e in
altre analoghe, storia e filosofia devono avere uno stretto con-
tatto.
Ancor più importante tra i punti di vista filosofici è però
l’analisi dei tentativi che procedono oltre la scienza storica em-
pirica in quanto stabiliscono esplicitamente princìpi della vita
storica, e cioè princìpi che servono alla comprensione dell’inte-
ro sviluppo umano e all’interpretazione del suo senso. Qui
occorre quindi non soltanto l’analisi, ma anche la critica; occor-
re cioè — dopo aver determinato fino a qual punto i principi
della vita storica siano valori, e in che cosa essi consistano —
indagare con quale diritto questi punti di vista valutativi venga-
no considerati decisivi per il senso generale dello sviluppo uni-
versale. Naturalmente anche qui possiamo di nuovo indicare
soltanto qualche esempio. Si prenda, come esempio particolar-
mente caratteristico, la cosiddetta concezione materialistica del-
la storia, proprio nella forma originaria del Manifesto comuni-
sta e nella misura in cui si limita — del tutto indipendentemen-
te dal materialismo teoretico o metafisico — a un’interpretazio-
ne della vita storica empirica. Già il fatto che essa sia sorta
come elemento di un programma politico indica dove devono
24. Alfred Dove (1844-1879), storico tedesco, autore della Deutsche Geschichte
im Zeitalter Friedrichs des Grossen und Joseph l (1883), della Kaiser Wilhelms
geschichtliche Gestalt (1888), di Grossherzog Friedrich von Baden als Landesherr
und deutscher Fiirst (1902) e di varie altre opere, editore delle opere complete di
Ranke.
HEINRICH RICKERT 397
essere cercati i punti di vista valutativi che la ispirano. Essa
può venir compresa soltanto se si considera che gli interessi dei
suoi fondatori si rivolgevano alla lotta del proletariato contro la
borghesia e che la vittoria del proletariato ne costituiva il valo-
re centrale, assoluto. Poiché la cosa essenziale in riferimento a
questo valore è oggi la lotta tra le due classi, si cerca di
comprendere l’intera storia come storia di lotte di classe e di
ricondurla in tal modo a unità. I nomi dei partiti in lotta
cambiano: liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della
gleba, artigiani e garzoni si contrappongono tra loro. Ma ogni
volta è essenziale, in riferimento al punto di vista valutativo
dominante, il fatto che si tratta di oppressori e oppressi, di
sfruttatori e sfruttati i quali lottano tra loro ai diversi gradi
dello sviluppo storico. Così si ottengono i princìpi generali
dell’accadere storico, e anche la formazione futura viene pari-
menti determinata dal valore assoluto, dall’auspicata vittoria
del proletariato sulla borghesia. Nella fase attuale di lotta la
cosa principale, l'elemento decisivo, è la lotta per i beni econo-
mici. Perciò nella storia la vita economica dev'essere sempre la
cosa principale, e le epoche della storia devono articolarsi in
base alle diverse formazioni economiche: da ciò deriva la conce-
zione « materialistica », cioè economica. Quanto tutta questa
concezione dipenda da punti di vista valutativi, è cosa che non
richiede un’ulteriore dimostrazione. Che poi non si accontenti
di considerare come elemento essenziale ciò che è riferito al
suo valore assoluto, ma faccia coincidere l'essenziale — secon-
do un realismo concettuale ingenuo a cui si aggiunge qui
ancora il realismo concettuale nient’affatto ingenuo degli hege-
liani — con ciò che è « propriamente reale », e conceda a tutta
la restante vita culturale soltanto un'esistenza di grado inferio-
re, non cambia in nulla il quadro che abbiamo delineato. Que-
sto errore è tipico delle costruzioni di filosofia della storia che
non sono consapevoli di utilizzare come punti di vista dominan-
ti dei valori, e al tempo stesso serve a mantenere l'oscurità sul
principio direttivo perché, una volta compiuta la separazione
tra due diversi tipi di reale e trovata nella vita economica —
in conseguenza di un platonismo con segno rovesciato — la
«causa vera e propria» di tutti gli altri avvenimenti storici,
deve poi necessariamente sorgere la parvenza che la concezio-
398 HEINRICH RICKERT
ne materialistica della storia constati semplicemente dei fatti,
partendo sempre dalla vita economica intesa come fondamento.
Queste ipostatizzazioni metafisiche dell’elemento economico so-
no però soltanto esagerazioni, e possono essere eliminate senza
intaccare il nucleo filosofico del materialismo storico. In ogni ca-
so, uno sguardo ai princìpi di valore di questa filosofia della sto-
ria fornisce anche il punto di vista da cui deve prendere le
mosse la critica. La questione decisiva consiste nel sapere se sia
legittimo scorgere il valore assoluto nella vittoria del proletaria-
to in campo economico, e quindi in un bene economico. Natu-
ralmente la questione non dev'essere decisa in questa sede. Si
potrà al massimo ritenere fin d’ora poco probabile il fatto che
princìpi di valore ottenuti in base a punti di vista politici di
partito siano adatti anche all’interpretazione del senso della
storia universale. Infatti una quantità sterminata di aspirazioni
e di imprese umane di tutti i secoli appare, da questo punto di
vista, del tutto priva di senso.
Non ci si può tuttavia limitare a queste supposizioni. Pro-
prio l’idea che la filosofia della storia non soltanto deve chiarifi-
care analiticamente i principi delle opere di storia empirica e
delle costruzioni di filosofia della storia, ma deve anche assume-
re criticamente posizione nei loro confronti non appena questi
princìpi avanzano una pretesa di validità universale, indica
che il compito principale di una scienza dei princìpi storici si
colloca in una direzione del tutto diversa. La critica è possibile
sempre soltanto sulla base di un criterio di valore; inoltre, per
poter definire unilaterale una concezione della storia, si deve
in qualche modo disporre di una concezione onnilaterale. La
dottrina dei princìpi dell’accadere storico si svilupperà quindi
in una scienza autonoma soltanto se nella determinazione dei
princìpi storici aspira tanto alla completezza sistematica
quanto a. una fondazione critica. Essa deve cioè porsi come fine
la determinazione di un sistema di valori; inoltre essa prende
in considerazione non soltanto la valutazione di fatto, ma an-
che la questione della validità dei valori culturali, e per questo
ha bisogno di un valore assoluto a cui poter commisurare le
valutazioni effettive. Questo valore fornirà al tempo stesso an-
che il punto di vista decisivo per la determinazione di un
sistema di valori, cosicché il problema della sistematizzazione
HEINRICH RICKERT 399
e quello della validità dei valori culturali si connettono stretta-
mente tra loro. Ma come la filosofia della storia deve pervenire
a un sistema di valori che renda ad essa possibile interpretare il
senso dell'intero corso storico? Con questa domanda pervenia-
mo all'ultima e più importante questione della dottrina dei
princìpi storici.
Si affaccia qui l’idea di attribuire questo compito a un tipo
particolare di indagine psicologica: certamente non alla psicolo-
gia «esplicativa» — sia che si tratti di « psicologia individua-
le » della vita psichica in generale oppure di psicologia della vita
sociale, condotta secondo un metodo naturalistico — ma soltanto
a una psicologia dei valori culturali. Tutta la storia non solo
tratta essenzialmente di uomini civili, ma è scritta esclusivamen-
te da uomini civili. I valori generalmente riconosciuti dall’uo-
mo civile devono — a quanto sembra — essere nel medesimo
tempo i princìpi di una storia universale dell'umanità civile. È
così possibile concepire una psicologia della cultura che indaghi
il complesso dei valori culturali universali e li rappresenti siste-
maticamente, fornendo contemporaneamente un sistema dei
princìpi dell’accadere storico in cui trovino il loro posto tutti i
sistemi di valore ottenuti analizzando le opere storiche e di
filosofia della storia, e a cui essi debbano essere commisurati. È
questo in ogni caso il senso più profondo, anzi l’unico, che si
può attribuire all’affermazione che la psicologia dev'essere la
base della filosofia della storia: esso sta anche alla radice dello
sforzo di Dilthey, totalmente incompreso dagli psicologi, per
delineare il programma di una « psicologia descrittiva e analiti-
ca» da affiancare alla psicologia esplicativa. Per quanto sugge-
stiva possa apparire l’idea di procurare in questo modo alla
filosofia della storia un fondamento puramente empirico, e
quindi sicuro, la sua realizzazione incontra una difficoltà insu-
perabile. Questa psicologia della cultura non può limitarsi al-
l’indagine « dell’uomo civile » nel senso di accertare e sistema-
tizzare le valutazioni comuni a tutti gli uomini civili, poiché
da questo procedimento generalizzante deriverebbe un sistema
di valori estremamente povero, in cui potrebbero essere contenu-
ti soltanto pochi dei princìpi di una storia dell’universo sto-
rico. La psicologia della cultura dovrebbe piuttosto rivolgersi
alla vita storica stessa in tutta la sua pienezza e molteplicità,
400 HEINRICH RICKERT
per conoscere tutti i valori culturali; e come potrebbe pervenire
in questo modo a punti di vista che rendano possibile un’artico-
lazione e un dominio di questo materiale? Per separare entro
la molteplicità della valutazione l’essenziale dall’inessenziale,
essa dovrebbe già possedere ciò che deve invece cercare: la
conoscenza dei valori che sono princìpi di una storia universale
e princìpi dello stesso universo storico. Così la psicologia della
cultura come filosofia della storia entra in un circolo da cui
non può sfuggire.
Non è possibile avvicinarsi al fine di una rappresentazione e
fondazione sistematica dei princìpi storici per via puramente
empirica, attraverso la mera analisi delle valutazioni effettive.
Occorre piuttosto in primo luogo riflettere, prescindendo del
tutto dalla molteplicità del materiale storico, su ciò che vale
assolutamente ed è presupposto di ogni giudizio di valore, ossia
che pretende a una validità più che individuale. Soltanto quan-
do si siano trovati valori validi atemporalmente si può riferire
ad essi tutti quanti i valori culturali empiricamente constatabi-
li, che si sono sviluppati nel corso della storia, e tentare così
una disposizione sistematica e al tempo stesso una presa di
posizione critica. Solamente se è possibile ottenere valori sopra-
storici, si può allora realizzare una filosofia della storia come
scienza particolare dei princìpi dell’universo storico e interpreta-
re il senso della storia dell’universo. Ma la riflessione sui valori
sopra-storici non appartiene più al campo della filosofia della
storia come disciplina filosofica particolare; essa può venir intra-
presa soltanto in connessione con la determinazione di un siste-
ma filosofico in generale. La filosofia della storia come dottrina
dei principi viene così a dipendere dal complesso delle indagi-
ni filosofiche, in particolare dalla dottrina del senso del mondo
o — nel caso che tale questione non sia una questione scientifi-
ca — dalla dottrina del senso della vita umana. I fondamenti
della filosofia della storia coincidono pertanto con i fondamen-
ti di una filosofia come scienza dei valori in generale.
L'indagine volta a determinare il concetto della filosofia
della storia come dottrina dei princìpi storici in generale può
essere condotta soltanto fino a questo punto. Non si può qui
rispondere alla questione se la determinazione di valori assolu-
ti possa ancora rientrare nei compiti della scienza, poiché es-
HEINRICH RICKERT 401
sa è identica alla questione riguardante il concetto di filosofia
scientifica in generale. Qui importava solamente mostrare che
le leggi non possono essere princìpi della storia, e quindi mo-
strare che, se possono ancora esserci problemi di filosofia della
storia al di fuori della logica della storia, questi devono riassu-
mersi nella questione del senso della storia, e inoltre che l’inter-
pretazione di questo senso richiede ancora un criterio di valore
fornito di validità sopra-storica. Si deve ancora aggiungere che
la filosofia come scienza critica e sistematica dei valori non ha
bisogno di presupporre come criterio nessun valore assoluto de-
terminato dal punto di vista del contenuto. Anche se si riesce
soltanto a ottenere un valore incondizionato puramente forma-
le, si può tuttavia trarre l’intero contenuto del sistema dei
valori dalla vita storica, per quanto questa sia asistematica per
definizione. Anzi, la filosofia della storia che ricerca il senso
della storia dovrà servirsi di princìpi di valore puramente for-
mali, proprio perché questi devono essere tali da valere per
tutta la vita storica. Certamente, in base a questo presupposto
si può concepire un sistema di valori che possegga completezza
sistematica soltanto sotto il profilo formale, mentre riguardo al
contenuto non può mai essere concluso perché la vita storica
continua a svilupparsi e quindi sorgono valori culturali sempre
nuovi, determinati nel contenuto, i quali devono trovare la loro
collocazione nel sistema. Perciò il sistema di valori può essere
definito sistematico in riferimento al suo contenuto soltanto
nella misura in cui la conclusione sistematica ci si presenta
come un compito altrettanto necessario quanto insolubile, e
l'oggetto della filosofia come scienza dei princìpi risulta pertan-
to un’« idea » nel senso kantiano — come sempre avviene quan-
do l'oggetto è l’incondizionato nella pienezza del suo contenu-
to. Alla realizzazione dell'idea di un siffatto sistema di valori
dovrebbero quindi contribuire tutte le epoche, con la coscienza
che esse non potranno mai condurlo a termine. Ciò non cancel-
la però il significato di questo lavoro. Al contrario, chi si
decide a compierlo trarrà coraggio tanto da uno sguardo sul
passato quanto da uno sguardo verso il futuro. Se prescindiamo
dai problemi che nel corso dei secoli si sono svincolati dalla
filosofia e sono stati attribuiti alle scienze particolari, ne risulta
che tutti i filosofi importanti hanno cercato di lavorare in vista
26. STORICISMO TEDESCO.
402 HEINRICH RICKERT
di un sistema di valori nel senso sopra indicato, poiché tutti
hanno indagato sul senso della vita, e già questa domanda
presuppone un criterio assoluto di valore. Essi devono quindi
venir considerati tutti come precursori. Ma il fatto che a tale
questione fondamentale per ogni filosofia non soltanto non si è
ancora risposto, ma non si potrà neppure mai rispondere con
una completezza di contenuto, finché sorgerà nuova vita stori-
ca, costituisce appunto soltanto un motivo che accresce l’impor-
tanza del lavoro diretto a risolverlo: infatti la coscienza tanto
della grande necessità quanto dell’insolubilità di un compito ci
dà la sicurezza della sua «eternità », e quindi il conforto fich-
tiano che coloro i quali collaborano alla soluzione della questio-
ne diventano, in virtù del loro lavoro, «eterni» come lo è il
compito stesso.
III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA COME STORIA UNIVERSALE
Ora possiamo finalmente rivolgerci ai problemi della terza
disciplina che pretende il nome di filosofia della storia. Essa
vuol fornire, in antitesi alle scienze storiche particolari, una
storia universale, cioè rappresentare il « mondo » storico o l’uni-
verso storico. Come può conseguire il suo fine? Il suo compito
consiste forse nell’abbracciare in una totalità le rappresentazio-
ni delle scienze particolari e — se per questa via non è possibile
ottenere una totalità realmente conclusa — nel riempire con
costruzioni più o meno ipotetiche le lacune che la ricerca delle
scienze particolari lascia ancora nella storia universale? Un sem-
plice riassunto non può avere valore come lavoro scientifico
autonomo, e il tentativo di formulare supposizioni laddove lo
sguardo dello specialista non perviene a ipotesi realmente fonda-
te susciterebbe lo scherno di tutti gli storici. Una filosofia della
storia del genere è superflua se non altro per il fatto che la
storia universale viene scritta dagli storici stessi. Come la filoso-
fia in generale non ha più, in quanto scienza dell'essere, compi-
ti autonomi che si riferiscano alla realtà empirica da quando
su ogni campo specifico della realtà ha avanzato le sue pretese
una scienza particolare, così una conoscenza complessiva della
totalità storica, la quale si distingua dalle indagini scientifiche
HEINRICH RICKERT 493
particolari soltanto per il fatto di non limitarsi a una parte,
non può certamente essere più compito della filosofia della
storia. Non soltanto la rappresentazione di ambiti storici parti-
colari, ma anche la storia universale dev'essere — come scienza
storica — lasciata esclusivamente agli storici, che ne sono i
soli competenti, nello stesso modo in cui soltanto gli addetti
alla ricerca empirica possono accertare scientificamente qualco-
sa in merito all’essere della natura, in generale come in partico-
lare. La filosofia si renderebbe ridicola se credesse di poter fare
in questo campo più delle scienze.
Ma con ciò il problema di una trattazione filosofica del
materiale rappresentato dal complesso delle scienze storiche em-
piriche è tutt'altro che deciso. Anche se considera non soltanto
le forme ma altresì il contenuto della totalità storica, la filoso-
fia ha nei confronti di essa un compito che non può essere
affrontato da nessuna scienza storica empirica; e proprio la
circostanza che la storia universale viene scritta in modo pura-
mente storico da storici può servire alla determinazione di
questo compito filosofico. Cerchiamo quindi, in base alla com-
prensione dell'essenza logica della scienza storica, di chiarire
anzitutto il concetto di una rappresentazione empirica della
storia universale, e poi di vedere quali questioni, a cui gli
storici non possono in quanto tali dare una risposta, rimangano
ancora alla filosofia.
La «storia universale » — così come l’ha scritta per esempio
Ranke — non si distingue affatto nel modo dalla rappresenta-
zione di oggetti particolari; e così ha voluto, del resto, il suo
autore. Egli era anzi convinto — come riferisce Dove? —
che «in ultima analisi non si può scrivere nient'altro che
storia universale »; e in ogni caso la «storia universale» è
scaturita in Ranke dal lavoro scientifico particolare, senza l’ag-
giunta di un principio nuovo. Per noi è qui soprattutto impor-
tante considerare che cosa Ranke, come storico, intenda per
«mondo » storico, cioè per la totalità di cui egli tratta. In un
passo egli dice che l'impulso alla conoscenza viene trascinato
25. La frase citata da Rickert si trova negli Aufsétze und Veròffentlichungen zur
Kenntnis Ranke, in Ausgewihlte Schriften vornelimlich historischen Inhalts, Leipzig,
1898, p. 170.
404 HEINRICH RICKERT
ad abbracciare l’intero ambito dei secoli e degli imperi dalla
convinzione che nulla di umano gli è distante ed estraneo. Ma,
di fatto, Ranke è ben lungi dal trattare nella sua storia universa-
le di tutti i secoli e di tutti gli imperi, e non l’avrebbe fatto
neppure se gli fosse stato concesso di portare a termine la sua
opera. Egli stesso lo osserva quando dice che, se la vocazione
di Alessandro non fosse stata quella di attraversare l’India e di
scoprire la parte orientale dell'Asia, questa regione « per secoli
ancora non sarebbe entrata a far parte dell'ambito della storia
universale ». L’« universo» di Ranke può essere determinato
soltanto come una parte della storia dell'umanità a noi nota, e
non come l’ultima più comprensiva totalità storica in senso
logico; anzi, la sua esigenza di una trattazione storico-universa-
le del materiale storico consiste essenzialmente solo nel fatto
che egli non vuole limitarsi a un popolo singolo, ma seguire le
connessioni che i diversi popoli appartenenti a un determinato
ambito culturale stringono tra di loro. Non soltanto Ranke non
ha mai tentato di fatto di stabilire concettualmente l’universo
storico, ma neppure poteva tentarlo, se voleva restare uno stori-
co. In primo luogo, un compito di questo genere può essere
risolto soltanto con l’ausilio di un sistema di valori culturali nel
senso già indicato, dalla cui determinazione lo storico è quanto
mai lontano; in secondo luogo il «senso storico» deve fare
resistenza non soltanto alle leggi storiche, ma a ogni altra
specie di sistematica, poiché questa lo priverebbe della libertà e
dell’ampiezza di considerazione di cui ha bisogno per un ap-
prendimento impregiudicato di ogni avvenimento storico nel
suo carattere specifico. Perciò tutti gli storici, anche quando
scrivono di storia universale rimanendo tuttavia storici, non
procederanno in linea di principio in maniera diversa da Ran-
ke. Tale supposto difetto è stato di recente sottolineato decisa-
mente in una «storia universale» su base «etno-geografica ».
Ma questo tentativo di trattare storicamente suite le parti della
terra ha realmente cambiato qualcosa da un punto di vista di
principio? Esso non può valere, in ogni caso, come delimitazio-
ne sistematica dell’universo storico. Anzi, ciò che la storia gua-
dagna in generalità esteriore e quantitativa, va necessariamente
perduto come unità interna, perché il principio direttivo non è
un concetto culturale.
HEINRICH RICKERT 405
L’inevitabile « difetto » di ogni rappresentazione puramente
storica della storia universale ci indica al tempo stesso i com-
piti di una trattazione filosofica dell’universo storico. In anti-
tesi alla storia, la filosofia non rinuncerà mai alla tendenza
alla sistematizzazione. Ovviamente, finché si tratta di fatti stori-
ci essa deve sempre appoggiarsi alla scienza storica empirica e
sottomettersi senza condizioni alla sua autorità. Ma per il resto
può vedere in tutte le rappresentazioni puramente storiche,
incluse le più ampie, soltanto del materiale che essa elabora
sistematicamente a modo suo. Certamente, essa può farlo solo
se ha risolto in misura maggiore o minore il suo compito di
scienza dei princìpi. Ma se è pervenuta anche soltanto all’ini-
zio di un sistema criticamente fondato dei valori culturali, nel
senso prima indicato, la filosofia può apprendere anche il conte-
nuto della storia in modo tale che non ne derivi un sistema di
concetti generali come in una scienza generalizzante, ma una
delimitazione e articolazione sistematica dell’universo storico.
Per quanto riguarda la delimitazione, nel concetto di totalità
storica ultima rientra così tutto ciò che è essenziale, per la
sua individualità, in riferimento ai valori culturali universali
suscettibili di venir fondati criticamente, e quindi più che empi-
rici. Certamente, l’universo storico che sorge in questo modo
può essere soltanto un’« idea » in senso kantiano, cioè non può
mai essere definitivamente concluso — al pari del sistema dei
valori culturali — dal punto di vista del contenuto; esso appar-
tiene quindi — per dirla con Medicus* — alla « dialettica
trascendentale » di una critica della ragione storica. Ma questa
circostanza non esclude l’autonomia della sua trattazione siste-
matica, in quanto filosofia della storia. Anzi, la relazione al
sistema di valori permette al tempo stesso un'articolazione del-
la totalità storica: è cioè possibile delimitare reciprocamente
determinate parti come suoi elementi più importanti, come le
26. Fritz Medicus (1876-1956), filosofo tedesco, autore di uno studio sulla
Kants Philosophie der Geschichte (1902) e di importanti lavori sulla vita e sul pen-
siero di Fichte, nonché di varie opere teoriche come le Grundfragen der Aestetik
(1917), Die Freiheit des Willens und ihre Grenzen (1826), Macht und Gerechtig-
Keit (1934), Vom Wahren, Guten und Schònen (1943), nonché editore delle opere
di Fichte. Rickert sì riferisce al saggio Kant und Ranke, «Kantstudien », VIII,
1903, pp. 129-92.
406 HEINRICH RICKERT
sue «epoche » o i suoi « periodi », ordinandole in modo che il
senso della storia non si esprima soltanto in un’astratta formula
di valore, ma anche nella rappresentazione dello sviluppo stes-
so. In una filosofia della storia siffatta anche la selezione di ciò
che è essenziale deve distinguersi da quella che compiono le
scienze empiriche: infatti non appena si considerano non già
tutti i valori culturali forniti di universalità empirica, ma sol-
tanto quelli che hanno trovato la loro fondazione nel sistema
dei valori, la ricchezza dei particolari storici retrocederà e si
parlerà soltanto delle « grandi» epoche o periodi.
Dove si vogliano scorgere i rappresentanti di queste epoche
— se in singole personalità o in movimenti di massa — può
naturalmente essere deciso, ancora una volta, soltanto caso per
caso. Così pure non si può rispondere pregiudizialmente rispet-
to all’ ‘indagine storica alla questione se gli elementi più com-
prensivi del processo di sviluppo singolare siano le diverse epo-
che che si susseguono, oppure le diverse individualità dei popo-
li che in parte cooperano nel medesimo tempo. Qui importa
soltanto chiarire il carattere sistematico di una trattazione filoso-
fica dello stesso oggetto che le scienze storiche trattano storica-
mente, e distinguere in tal modo nettamente la filosofia della
storia dalle scienze storiche empiriche. Anche con la storia la
filosofia, nel senso sopra indicato, deve procedere astoricamen-
te. Perciò Ranke aveva ragione quando si sentiva in opposizio-
ne alle costruzioni di storia universale intraprese dai filosofi, e
temeva un’irruzione della filosofia nel campo dello storico. T'ut-
tavia egli non ha reso giustizia, nel suo giudizio, alla filosofia
della storia, perché sentiva questa differenza più che formularla
concettualmente in modo netto. Egli stesso ha cercato — se non
nella Weltgeschichte, almeno nelle conferenze Uber die Epo-
chen der neueren Geschichte — qualcosa che si accosta per un
certo verso a una filosofia della storia. Ma questa rappresenta-
zione è impostata in modo troppo storico per essere una filoso-
fia e si presenta quindi come una forma di trapasso o una
forma mista, che evidentemente non perde affatto il valore
come manifestazione di una personalità geniale, ma che tutta-
via, riguardo alla sua struttura logica, dev'essere definita appun-
to come una forma di trapasso. Essa vuole cioè essere per un
certo verso sistematica, e nel medesimo tempo non riconosce
HEINRICH RICKERT 407
in parte i presupposti di cui nessuna sistematica di filosofia
della storia può fare a meno. In tal modo essa dimostra quanto
sia necessario distinguere concettualmente in modo netto tra
scienza storica empirica, non sistematica, e filosofia della sto-
ria. Se ciò è avvenuto, e se il filosofo della storia rinuncia a
fare irruzione nelle scienze storiche, la sua considerazione siste-
matica dello sviluppo storico complessivo possiede un diritto
incontestabile 4ccazzo alla rappresentazione storica e non siste-
matica della vista storica.
Ma affinché tale distinzione, e al tempo stesso anche la
necessità di questo tipo di filosofia della storia risulti perfetta-
mente chiara, bisogna ancora prendere in considerazione un
secondo punto, che è connesso nel modo più stretto con l’aspira-
zione alla sistematizzazione. All'essenza del senso storico non
appartiene soltanto la mancanza di sistematicità; l’apprendi-
mento impregiudicato del corso storico presuppone anche una
fede nel « diritto » di ogni realtà storica. Perciò lo storico deve
cercare, in quanto storico, di astenersi da un giudizio di valore
diretto sui suoi oggetti, e la logica della storia deve pertanto
separare nettamente la relazione teoretica di valore dalla valuta-
zione pratica. Invece la filosofia, che deve assumere criticamen-
te posizione nei confronti dei valori culturali, non sa nulla di
un «diritto» proprio dell'elemento storico in quanto tale; in
modo altrettanto deciso di quello in cui riconosce il procedi-
mento puramente storico dell'indagine specifica, lo storicismo
come intuizione del mondo appare ad essa un’assurdità. Que-
sto storicismo, che si crede così positivo, si manifesta come
una forma di relativismo e di scetticismo e, se pensato fino in
fondo in modo coerente, può condurre al nichilismo completo.
Si sottrae a quest'apparenza soltanto perché rimane aderente a
una qualche struttura della molteplicità storica, collegando ad
essa il « diritto di ciò che è storico» e traendone quindi una
ricchezza di vita positiva. Ciò lo distingue sì dal relativismo e
dal nichilismo formulati in modo astratto, ma in linea di prin-
cipio non lo innalza affatto al di sopra di questi. Se fosse
coerente, esso dovrebbe concedere a qualsiasi essere storico il
diritto di ciò che è storico; ma non è in grado di aderire a
nulla, proprio perché dovrebbe aderire a tutto. In quanto intui-
zione del mondo, esso assume come principio la completa assen-
408 HEINRICH RICKERT
za di princìpi, e quindi dev'essere combattuto nel modo più
deciso dalla filosofia della storia.
Nella concezione dell’universo storico l'opposizione allo sto-
ricismo si manifesta nel fatto che la filosofia della storia abban-
dona la considerazione storica, riferita ai valori in modo pura-
mente teoretico, in favore della valutazione critica. Che cosa
ciò significhi, risulta chiaro nel modo migliore per il fatto che
così riacquista il suo diritto il concetto di progresso. Tale cate-
goria non appartiene certamente ai princìpi della scienza stori-
ca empirica. Al pari della relazione a un sistema di valori,
questa categoria eliminerebbe la valutazione impregiudicata dei
processi storici nel loro carattere specifico e toglierebbe sovrani-
tà — come Ranke ha giustamente detto — al passato. La
filosofia della storia, invece, non può fare a meno di questa
categoria se vuol superare il nichilismo storicistico. Essa deve
giudicare, in connessione con l’articolazione dell’universo stori-
co, i diversi stadi del processo di sviluppo singolare con riguar-
do alla funzione che essi hanno assolto per la realizzazione dei
valori criticamente fondati. A tale scopo la filosofia della storia
deve non soltanto togliere sovranità al passato — in consapevo-
le antitesi rispetto alla considerazione puramente storica — in
vista del presente e del futuro, ma deve pure giudicarlo, cioè
commisurare il suo valore a ciò che dev'essere. Ovviamente,
alla questione se il corso della storia rappresenti ovunque, o
anche soltanto in alcune parti, una serie progressiva continua o
un incremento di valore, può rispondere solo l’indagine stessa.
All’inizio sussiste la possibilità sia di un regresso continuo sia
di un’oscillazione in su e in giù, cioè di un'alternativa di
progresso e di irrigidimento. Si può anzi pensare che nella
vita storica non sia possibile mostrare, in riferimento ai valori,
né un avanzamento né una decadenza. Ma, quale che possa
essere la decisione in proposito, in ogni caso tutti i filosofi che
si sono realmente occupati in modo individualizzante di storia,
cioè dello sviluppo culturale umano, e non hanno soltanto cer-
cato come sociologi le leggi della vita sociale, si sono accinti
alla considerazione del corso storico impiegando un criterio di
valore; e soltanto così hanno potuto articolare e giudicare le
epoche dell’universo storico. Anche un filosofo come Schopen-
hauer, che non voleva saperne di filosofia della storia perché
HEINRICH RICKERT 409
lo sviluppo storico non mostrava ai suoi occhi alcun progresso
e gli pareva quindi completamente privo di senso, ha contribui-
to a una filosofia della storia nel senso sopra indicato; e soltan-
to per il suo risultato puramente negativo — ma non riguardo
alla posizione del problema della filosofia della storia — è
differente, in linea di principio, dagli altri filosofi della storia.
Il carattere sistematico e al tempo stesso valutativo della tratta-
zione filosofica dell’universo storico può rimanere poco chiaro
soltanto dove, come spesso avviene, non si è in grado di distin-
guere tra essere e dover essere, tra realtà e valore, oppure
dove, a causa della diffidenza dominante contro la fondazione
scientifica dei valori, ci si azzarda solo in modo celato a esprime-
re giudizi di valore, per suscitare la parvenza di una trattazio-
ne puramente contemplativa. La ricerca dei giudizi di valore e
la dimostrazione della loro sostanziale inevitabilità diventa-
no, a causa dell’oscurità e dell’indeterminatezza oggi molto
diffuse in questo campo, un compito tanto più urgente della
filosofia.
Queste considerazioni hanno però soltanto lo scopo di mo-
strare quale compito si pone alla filosofia accanto alle scienze
storiche empiriche, non appena essa può presupporre come idea
un sistema di valori culturali. Un’indicazione in proposito sa-
rebbe possibile soltanto in connessione da un lato con un siste-
ma filosofico e dall'altro con i risultati delle scienze storiche
— cosa che non si può dare in questa sede. Perché l’esposizione
non rimanga troppo schematica, gettiamo ora uno sguardo in-
dietro sul passato della filosofia della storia. Una compara-
zione dei concetti prima enunciati di universo storico e di una
storia universale di carattere filosofico, che ne deriva, con la
configurazione attuale — ancor oggi sostenibile — di questa
disciplina può forse servire nel modo migliore a illuminare la
situazione odierna. Inoltre, collegarsi al passato è qui vantaggio-
so anche perché ora abbiamo a che fare con /a forma dei
problemi in cui la filosofia della storia ha occupato inizialmen-
te e prevalentemente gli uomini, e perché occorre nello stesso
tempo mostrare, mediante uno sguardo retrospettivo, quanto
poco arbitrario sia il mostro modo di considerare la filosofia
della storia, orientato in base alla logica. Ne risulterà infatti
che anche per questa via arriviamo alla fine ai problemi che
4I0 HEINRICH RICKERT
sono stati una volta i problemi principali della filosofia della
storia.
È stato sovente sottolineato — e l’ha mostrato soprattutto
Dilthey — che, se non il concetto di storia in generale, almeno
quello di universo storico era estraneo ai Greci, e che soltanto
il Cristianesimo ha reso possibile l’idea di una « storia universa-
le » nel senso rigoroso del termine. Decisiva è qui la rappresen-
tazione dell’unità del genere umano. Nel suo aspetto principa-
le, essa appare prodotta dalla relazione delle sue diverse parti
con Dio: infatti tutti i popoli devono cercare Dio, e in tal
modo il genere umano nel suo sviluppo singolare assurge all’i-
dea di una totalità conclusa. Dio ha creato il mondo e gli
uomini, e tutti gli uomini discendono da una sola coppia. Così
la storia universale ha inizio in un determinato momento del
tempo, e terminerà col giudizio universale. Quest'ultimo decide
in quale misura lo sviluppo abbia assolto il suo compito di
esprimere il suo significato. Peccato originale e redenzione sono
i due termini che articolano le epoche di questo processo in
modo tale che ne scaturisce una serie di gradi di sviluppo. È
chiaro come su tale base sia possibile delineare una storia univer-
sale in cui ogni avvenimento, che è significativo in riferimento
al senso della storia, diventa elemento della totalità, grado di
sviluppo di una connessione unitaria.
Manca però, per completare il quadro nei particolari, un
elemento essenziale. Per quanto all’inizio nella filosofia cristia-
na ci si dia poca pena dei problemi del mondo esterno, le
rappresentazioni religiose si legano gradualmente nel modo più
intimo con una determinata immagine del cosmo, tratta essen-
zialmente dall’antichità. Il corso del tutto è delimitato non
solo temporalmente dalla creazione e dal giudizio universale,
ma anche trasferito su una scena che si può abbracciare spazial-
mente. Si pensi per esempio al mondo di Dante — un mondo
che può essere disegnato nella sua totalità. Esso forma un
globo in sé concluso, in mezzo al quale sta il teatro del-
la storia universale, la terra. Sopra questo globo, spazialmente
separato da esso, vi è la sede di Dio, a cui sulla terra fa
riscontro Gerusalemme, e così via. Con questi presupposti si
può realmente parlare di una «storia universale » nel senso
rigoroso del termine, e nell’ambito esattamente delimitato di
HEINRICH RICKERT qII
tale rappresentazione si può anche abbozzare un quadro effica-
ce di tale storia universale. Mentre lo sguardo dei pensatori
greci si posava sul ritmo eterno dell’accadere, oppure doveva
rivolgersi all'immagine di un regno di forme soprannaturali,
ma in ogni caso del tutto astoriche e atemporali, ora l’essenza
vera e propria del mondo è vista nello sviluppo singolare del
mondo, riferito a Dio. La molteplicità dei tentativi di filosofia
della storia intrapresi su questo terreno comune non ci riguar-
da in questa sede. È lampante che il loro concetto e la loro
articolazione dell’universo storico mostrano logicamente la me-
desima struttura del concetto prima esaminato e dell’articolazio-
ne della totalità storica ultima; e che, in particolare, i loro
princìpi fondamentali siano concetti di valore risulta chiaro già
considerando il loro carattere filosofico-religioso — Dio è il
valore assoluto. La storia universale vuol essere una specie di
« giudizio universale », e proprio in un senso che questo termi-
ne non ha in Schiller. Essa vuol fornire in maniera provvisoria
un conto del valore del corso storico, che deve poi essere salda-
to in modo definitivo da Dio nel giudizio universale.
Qui ci interessa inoltre stabilire che cosa ha tolto il terreno
a tutti questi tentativi di filosofia della storia. Si tratta in larga
misura della trasformazione, avvenuta all’inizio del mondo mo-
derno, delle rappresentazioni del cosmo — di quella trasforma-
zione ancora oggi importante perché ha creato in linea di
principio l’immagine del mondo che dobbiamo ritenere definiti-
va, e in ogni caso l’unica finora scientificamente sostenibile.
Come ha mostrato soprattutto Riehl ”’, qui non è decisiva tanto la
sostituzione del punto di vista geocentrico con quello eliocentri-
co, poiché mutando la posizione della terra entro l'universo si
sarebbe ben potuto concludere un compromesso. Decisiva è piut-
tosto la distruzione dell’idea di un cosmo chiuso, che si può
abbracciare con un solo sguardo. La dottrina dell’infinità del
mondo di Giordano Bruno fu lo scoglio su cui doveva naufraga-
re ogni filosofia della storia che voleva essere « storia universa-
27. Alois Richl (1844-1924), filosofo austriaco, autore di Redlistische Grundziige
(1870), di Moral und Dogma (1871), di Uber Begriff und Form der Philosophte (1872),
di un'ampia opera su Der philosophische Kritizismus und scine Bedeutung fiir die
positive Wissenschaft (1876-87), di Zur Einfàhrung in die Philosophie der Gegenwart
(1903), nonché di vari volumi storici su Kane, Nietzsche, ecc.
412 HEINRICH RICKERT
le » nel senso rigoroso del termine. Di ciò che è temporalmente
e spazialmente illimitato vi è soltanto scienza di leggi; e la
storia universale perde così per sempre il suo significato vero e
proprio. Nel medesimo tempo diventa problematico anche il
concetto di una totalità storica in generale, e non sembrano
esserci vie di soluzione. Anche la storia del « mondo» umano
non è più quell’unità necessariamente riferita, nella sua indivi-
dualità, al valore assoluto. Il suo teatro, la terra, ha perduto il
suo significato nel cosmo infinito. Essa è diventata l’esemplare
indifferente di un genere, e altrettanto indifferente diventa,
nella prospettiva di una scienza di leggi, tutto quanto di singo-
lare e di particolare avviene su di essa. È importante sottolinea-
re che tutte queste trasformazioni sono avvenute, in linea di
principio, per opera delle dottrine di Copernico e di Giordano
Bruno e non già — come molti ritengono — per opera della
biologia moderna. La teoria dell’evoluzione ha certamente un
valore straordinario per la scienza. Abbiamo prima mostrato
che essa non è in grado di fornire princìpi filosofici positivi
per una considerazione storica; dobbiamo ora aggiungere che
essa non trova più da distruggere gli elementi essenziali della
vecchia filosofia della storia, almeno per chi abbia anche soltan-
to pensato fino in fondo l’idea dell’illimitatezza temporale del
mondo. Tra le scienze naturali è stata quindi realmente impor-
tante per le questioni relative all’intuizione del mondo non già
la biologia ma l'astronomia, e anche quest’ultima ha semplice-
mente avuto un significato negativo, almeno per i problemi di
filosofia della storia.
Possiamo anzi dire che il passo decisivo per la nuova svolta
positiva nella trattazione dei problemi di filosofia della storia
era già stato compiuto prima che la biologia evoluzionistica fosse
giunta anche soltanto ai suoi inizi: infatti questa trasformazione
prendeva le mosse — come sempre accade quando si tratta dei
fondamenti ultimi del nostro pensiero filosofico — da Kant,
che oggi si crede in modo alquanto sorprendente di poter con-
futare con il darwinismo, cioè partendo dalla funzione del
tutto particolare presente nella connessione tra problemi gnoseo-
logici e problemi etici. Kant stesso ha paragonato la sua teoria
della conoscenza all'impresa di Copernico, e noi possiamo segui-
re questo paragone anche in un’altra direzione. L'idealismo
HEINRICH RICRERT 413
trascendentale ha significato, proprio in virtù del « punto di
vista copernicano », una conversione nella via che la filosofia
credeva di dover imboccare sulla base della nuova immagine
del mondo fornita dall’astronomia: una conversione, però — e
questo è l'elemento decisivo — la quale lascia del tutto intatta
la nuova immagine del mondo e ciononostante rende possibile
riprendere i vecchi problemi. Grazie a Kant l’uomo viene po-
sto di nuovo — con il pieno riconoscimento della moderna
scienza della natura — al «centro» del mondo: certamente
non in senso spaziale, ma in modo ancor più significativo per
i problemi della filosofia della storia. Ora tutto «gira» nuo-
vamente intorno al soggetto. La «natura» non è la realtà
assoluta, ma è determinata nella sua essenza universale da
forme di apprendimento soggettive, e proprio la totalità « in-
finita» del mondo non è che un’«idea » del soggetto, l’idea
di un compito a lui necessariamente posto, ma nello stesso
tempo insolubile. In virtù di questo « soggettivismo » i fonda-
menti della scienza empirica della natura risultano non soltan-
to intatti, ma addirittura più saldi; completamente sepolti so-
no invece i fondamenti del naturalismo come intuizione del
mondo che rifiuta ogni senso a ciò che è storico. Questo lavoro
di distruzione, che sgombra anzitutto la via dagli impedimenti
che si frappongono a concepire un essere come storia, è tanto
più importante in quanto, dato lo stretto legame della teoria
della conoscenza con l’etica, comporta immediatamente la fon-
dazione di una costruzione positiva di filosofia della storia.
L'uomo non sta al centro della « natura » solamente con la sua
ragione teoretica, ma si comprende al tempo stesso, con la sua
ragione pratica, come ciò che dà un senso oggettivo alla vita
culturale, cioè come personalità consapevole del dovere, autono-
ma, «libera»; e questa ragione pratica possiede il primato.
Che cosa può ancora significare di fronte a questo il fatto che
il teatro della storia rappresenta spazialmente e temporalmente
una piccola particella destinata a scomparire, posta in un punto
qualsiasi dell'universo? Per il soggetto autonomo, teoricamente
e praticamente « legislatore », questi rapporti spaziali e tempo-
rali sono ora diventati del tutto indifferenti nella trattazione
delle questioni di valore. Nell'indagine della « natura », inclusa
la vita psichica, l’uomo autonomo lascia piena libertà alla scien-
414 HEINRICH RICKERT
za che ha distrutto la vecchia immagine del mondo. Ma egli
non concederà mai che questa scienza concernente l'essere
delle cose abbia qualcosa da dire sul valore o sul disvalore, sul
senso o sulla mancanza di senso del corso del mondo, poiché è
assolutamente certo — in quanto ragione pratica — della sua
« libertà », che costituisce il senso autentico del mondo e della
sua storia.
Kant non ha creato egli stesso un sistema di filosofia della
storia, ma sulla base del suo pensiero ne sono sorti uno dopo
l’altro, e in ciò dobbiamo riconoscere certo un'influenza non
inessenziale. Il corso singolare dello sviluppo dell'umanità ha
nuovamente potuto essere concepito — con l’aiuto dei concetti
assoluti di ragione e di libertà — come unità, e venir artico-
lato nei suoi diversi stadi in modo tale da misurare ogni stadio
in base al suo contributo specifico alla realizzazione del senso
del mondo. Questa possibilità di acquisire di nuovo un rappor-
to positivo con la vita storica è ciò che conferisce alla fi-
losofia dell’idealismo tedesco il suo significato predominante
e intramontabile per il futuro che possiamo prevedere. Una
filosofia che ne sia in linea di principio incapace potrà sì
compiere qualcosa di significativo per problemi specifici, ma
non produrrà mai un'intuizione del mondo veramente com-
prensiva, soddisfacente per gli uomini civili, e tanto meno po-
trà avanzare la pretesa di essere progredita al di là della filoso-
fia dell’idealismo tedesco. Dominato dall’idea che lo scopo del-
la vita terrena dell’umanità sia quello di orientare con la liber-
tà tutti i suoi rapporti secondo ragione, Fichte ha costruito
filosoficamente, per la prima volta dopo Kant, la «storia uni-
versale » come totalità unitaria; e anche Hegel ha abbozzato
in base al concetto di libertà il suo sistema di filosofia della
storia, che abbraccia molto più delle postume Vorlesungen,
raggiungendo in tal modo il culmine — ancor oggi per molti
versi incompreso — di questo tipo di considerazione filosofica
della storia. Non possiamo addentrarci qui nel contenuto del
suo sistema; e neppure importa sottolineare le differenze che
separano tra loro i concetti di libertà di Kant, di Fichte e di
Hegel. Qui importa soltanto che la filosofia dell’idealismo tede-
sco ha trovato un concetto di valore incondizionato che le ha
permesso di trattare filosoficamente, nel modo che si è detto, la
HEINRICH RICKERT 415
totalità del corso storico, che questo concetto di valore era al
tempo stesso abbastanza formale da servire come punto di riferi-
mento per la storia universale — come viene grandiosamente
espresso soprattutto da Hegel — e infine che non c’era più
bisogno, almeno in linea di principio, di presupposti del tipo
di quelli adoperati dalla filosofia della storia distrutta dalla
moderna scienza della natura. Per la filosofia della storia del
nostro tempo sorge così la questione se sia possibile, sul ter-
reno dell’idealismo fondato da Kant e nel pieno riconoscimento
di tutti i risultati della moderna scienza della natura, trovare
anzitutto un punto di vista valutativo che consenta di trattare
filosoficamente la storia universale, e quindi pervenire a una
filosofia della storia che in linea di principio mostri — con
riferimento al sapere storico del nostro tempo, e mantenendo
intatta ogni diversità di contenuto — la stessa struttura for-
male dei sistemi di filosofia della storia di Fichte e di Hegel.
Ma con questo, e proprio richiamandoci a quei pensatori, il
problema di una trattazione filosofica dell’universo storico non
sembra ancora sufficientemente chiarito. La filosofia della sto-
ria dell’idealismo tedesco è sì indipendente dalle dottrine della
scienza naturale, ma proprio per questo è tanto più dipendente
da presupposti sull'essenza merafisica che sta alla base del
«mondo fenomenico » della storia. Già la dottrina della libertà
di Kant è connessa con il suo concetto metafisico di un caratte-
re intelligibile, e in Hegel appare del tutto chiaro quanto la
sua filosofia della storia sia fondata metafisicamente. È possibi-
le svincolare la filosofia della storia dalla metafisica, oppure
essa presuppone sempre due specie di essere, cioè un mondo dei
fenomeni in cui si svolgono gli avvenimenti storici e un mondo
della realtà vera, posta al di là dei fenomeni, a cui gli avveni-
menti storici devono essere riferiti se devono raccogliersi in uno
sviluppo unitario e articolato? Soltanto ora siamo pervenuti al
punto decisivo, e in virtù della connessione che lega tra loro i di-
versi problemi di filosofia della storia l’importanza di tale que-
stione risale ancora più indietro. Abbiamo scoperto che l’inter-
pretazione del senso generale della storia presuppone l’idea di un
sistema di valori incondizionati, a cui sia possibile commisurare i
valori culturali forniti di generalità empirica. Questo sistema
non sarà forse realmente fondato soltanto se lo si è ancorato —
416 HEINRICH RICKERT
per così dire — metafisicamente e si può quindi essere certi che
l’essere storico, nel suo fondamento metafisico, è anche dispo-
sto alla realizzazione di ciò che dev'essere? Anche per la scien-
Za storica empirica i presupposti metafisici sembrano indispensa-
bili. Vi sono pensatori a cui la storia appare come qualcosa di
« spettrale » finché i suoi oggetti, e in particolare le personalità
storiche, vengono considerati semplicemente come realtà imma-
nenti. Quelle che agiscono sul teatro della storia devono essere
anime dotate di essenza, metafisiche, e noi dobbiamo poterle
pensare in certa misura inserite in una grande connessione
« spirituale », che si innalza al di sopra delle anime singole e
di cui nulla sa Ia semplice esperienza, ma che costituisce il
sostegno dei valori incondizionati e senza la quale tutta la
storia sarebbe un disordine senza senso, che non avrebbe nessun
significato indagare.
È necessario almeno accennare a una presa di posizione
anche nei confronti di questi problemi; e noi cominciamo con
la questione dei presupposti metafisici di cui neppure la scien-
za storica empirica può fare a meno, perché soltanto così si
può rispondere alla domanda sulla necessità di assunzioni meta-
fisiche per la ricerca del senso della storia e per la trattazione
filosofica della storia universale.
Bisogna in primo luogo ammettere incondizionatamente che
molti storici hanno una fede che, a volerla formulare concet-
tualmente, assumerebbe un carattere metafisico; altrettanto cer-
to è che questa fede contribuisce a far apparire loro veramente
significativa l'indagine della vita storica. Anche qui si può rin-
viare di nuovo a Ranke, il quale designa le grandi tendenze
della storia come idee di Dio, attraverso cui si realizza il piano
provvidenziale divino; e nel medesimo modo si potrebbe mo-
strare che altri storici assumono presupposti sovra-empirici.
Non ne sono certamente liberi soprattutto coloro che ritengono
di aver trovato le «leggi di sviluppo» di ogni vita storica:
infatti presso di loro tale fede assume sì, sotto l'influenza della
moda, un abito naturalistico, diventando la fede in concetti di
leggi intesi come forze operanti, ma non per questo cessa di
essere metafisica. Né si può respingere il problema presente in
una fede come quella manifestata da Ranke spiegando che
tutto ciò sta al di fuori della scienza e non esercita la minima
HEINRICH RICKERT 417
influenza su di essa, poiché quest'idea è giusta soltanto nel
senso che la fede — come dice Ranke della sua dottrina delle
idee — non fa mai violenza sulle particolarità della vita sto-
rica. Per il resto, anch'essa appartiene ai presupposti della ricer-
ca storica, nella misura in cui vi è presente la convinzione che,
quando conferiamo alla vita storica in genere un significato
«oggettivo », si tratta di qualcosa di più che di un'assunzione
arbitraria.
Ma con questo non si è ancora detto, d'altra parte, che
proprio l'elemento metafisico presente nella fede sia impor-
tante a tal fine. Lo storico in quanto storico farà bene in ogni
caso a considerare la sua fede come semplice fede e a guardarsi
dal pericolo di immettere nelle sue indagini una qualsiasi meta-
fisica formulata scientificamente. Egli si porterebbe altrimenti
sul terreno della teoria delle due specie di essere, a cui abbia-
mo già accennato, e si imbatterebbe subito in grandi difficoltà
se dovesse fare dichiarazioni sul rapporto degli avvenimenti
storici, che si svolgono soltanto nel mondo dell'esperienza, con
la realtà trascendente. Anzi, già l’idea che gli avvenimenti
storici siano semplici « fenomeni» di un essere metafisico ad
essi sottostante non è adatta a far apparire allo storico più
significativa la sua ricerca, ma al contrario gli guasta necessaria-
mente ogni gioia nel suo lavoro. Allo studioso di scienze
naturali può forse essere indifferente che i suoi oggetti sia-
no fenomeni o realtà assolute. Egli li considera soltanto co-
me esemplari di un genere, e i concetti generali di cui va in
cerca mantengono in ogni caso la loro validità. Invece gli
avvenimenti che sono essenziali nella loro individualità perdo-
no il loro significato se non possono venir considerati come
realtà, e se nell’essere immediatamente accessibile alla scienza
non si realizzano anche i valori a cui lo storico riferisce gli
oggetti. L'esigenza di una realtà autentica presente dietro di
essi non deve quindi mai la propria origine a un interesse della
scienza storica. Essa deve piuttosto venir ricondotta agli effetti
di quella strana « teoria della conoscenza » che riduce il mondo
dell’esperienza a mera parvenza, a velo di Maia, affermando
che il suo riconoscimento come realtà condurrebbe al sonnam-
bulismo o — come si dice oggi — all’illusionismo. Per il
pensiero non sfigurato in questa o in analoga maniera la vita
27. $TORICISMO TEDESCO.
418 HEINRICH RICKERT
data immediatamente non può mai essere un sogno o un fanta-
sma; e lo storico empirico deve in ogni caso attenersi al
mondo accessibile alla sua esperienza. In esso egli deve vedere
l’unica realtà che gli importa come storico, accantonando la
questione del suo « substrato » metafisico.
Ma possiamo arrestarci a un sistema di valori inteso come
definitivo anche se cerchiamo i princìpi della storia e ne inter-
pretiamo il senso? Oppure l’assunzione di una validità incondi-
zionata di questi valori include l'assunzione di una realtà tra-
scendente, e da ciò non deriva per la filosofia — che non può
lasciare in sospeso tali questioni — il compito di determina-
re il rapporto dei valori con questo mondo metafisico?
Anche qui si deve ammettere che il presupposto di una
validità incondizionata dei valori ci conduce fuori del mondo
immanente, e quindi nel trascendente, e che affinché nulla
rimanga oscuro si deve affermare — nei confronti di una filoso-
fia puramente immanente — la validità di valori trascendenti.
Ma assai poco si è fatto se si crede di dover andare oltre,
spiegando che questi valori indicano anche un qualche essere
trascendente. In primo luogo non ci si può spingere, con buona
coscienza scientifica, oltre questa indicazione del tutto indeter-
minata; inoltre ogni tentativo di determinare più da vicino la
realtà trascendente deve trarre il proprio materiale dalla realtà
immanente o arrestarsi a pure negazioni. Non c’è bisogno di
dimostrare che non si può asserire nulla di scientificamente
attendibile in merito al rapporto di una realtà del tutto indeter-
minata, o determinata in modo puramente negativo, con il
mondo immanente. La realtà trascendente rimane quindi un
concetto completamente vuoto e infecondo anche per la filoso-
fia della storia come dottrina dei princìpi. Questa disciplina ha
perciò fatto abbastanza chiarendo a se stessa questo punto e
accontentandosi dell’aspirazione a determinare un sistema di
valori incondizionati. Non si obietti che il concetto di un do-
ver essere trascendente, che è qui presupposto, potrebbe essere
dimostrato vuoto e infecondo con i medesimi argomenti impie-
gati per il concetto di essere trascendente. Certamente non è
possibile determinare che cosa significa un essere trascendente
se non dicendo che qui si tratta di valori forniti di validità
sopra-storica, atemporale, incondizionata; anche qui il concetto
HEINRICH RICKERT 419
viene perciò acquisito per mezzo della negazione, in quanto
partiamo dal valore condizionato e togliamo ad esso la condi-
zionatezza. Il concetto che ne deriva ha però un significato del
tutto differente da quello che sorge quando, per ottenere il
concetto di essere trascendente, partiamo dal concetto dell’esse-
re immanente e neghiamo la sua immanenza. Con questa nega-
zione togliamo all’essere ogni contenuto, mentre al dover
essere lasciamo il contenuto e gli togliamo soltanto una limita-
zione, che gli impedisce il pieno dispiegarsi di una tendenza in
esso presente — la tendenza a valere. Questa differenza tra
essere trascendente e dover essere trascendente può forse venir
chiarita nel modo migliore richiamandoci al concetto kantiano
di idea. Kant trasforma appunto il concetto di realtà trascen-
dente nel concetto di dover essere trascendente, stabilendo in
tal modo sia il diritto sia l'illegittimità di una scienza che
aspiri all’incondizionato. La stessa cosa avviene se ci arrestiamo
al dover essere trascendente e rifiutiamo un essere trascenden-
te: proprio la filosofia della storia come scienza dei princìpi
non ha alcun motivo di seguire l’indicazione dei valori trascen-
denti verso un essere trascendente. Sono, appunto, soltanto valo-
ri quelli che essa trova come princìpi della vita storica, e ad
essa interessa solamente la validità dei valori in quanto valori.
Inoltre, questa validità incondizionata deve già essere salda pri-
ma che si possa anche soltanto parlare di un’indicazione verso
una realtà trascendente; occorre cioè che l’unico problema signi-
ficativo per la dottrina dei princìpi storici sia già risolto prima
che si presenti il problema di una realtà trascendente in genera-
le. Perciò anche la filosofia della storia, nella misura in cui ha
a che fare con i princìpi della vita storica, può lasciare in
sospeso i problemi metafisici così come fa la scienza storica
empirica, perché in ogni caso tali problemi non appartengono
a questa parte della filosofia.
Ma che cosa accade allora con la storia universale filosofica
se siamo costretti ad arrestarci, dinanzi alla questione della
realtà trascendente e del suo rapporto con l’essere immanente,
a un won liquet, o addirittura a respingere l’idea di una realtà
metafisica in generale? Forse che la rappresentazione filosofica
sistematica dell’universo storico, la quale non si limita ai
valori ma li pone esplicitamente in collegamento con il contenu-
420 HEINRICH RICKERT
to dell’essere storico, non perde ogni senso se in certa misura
avvicina soltanto dall’esterno i suoi valori alla vita storica e
non può affatto presupporre se e come l’essere storico immanen-
te è connesso non soltanto mediante la relazione di valore, ma
anche realmente, con il proprio fine della realizzazione dei
valori? Non c’è dubbio che qui siamo di fronte a un problema
straordinariamente difficile, e che le aspirazioni metafisiche del-
la nostra epoca — così come si esprimono soprattutto nelle
opere di Eucken® — acquistano, da questo punto di vista, un
significato da non sottovalutare anche per la filosofia della sto-
ria. Neppure in questo contesto si può certamente ammettere
che il mondo dell’esperienza abbia bisogno di una struttura
metafisica, perché altrimenti il mondo non sarebbe, per così
dire, abbastanza reale e acquisterebbe qualcosa di spettrale.
Infatti, se non possiamo abbracciare abbastanza realtà nell’espe-
rienza immediata, nessun pensiero che si muova in concetti
astratti potrà riempire questa lacuna. Ma — ci si può effettiva-
mente chiedere — la relazione necessaria della realtà storica
con valori incondizionati non presuppone un legame superiore
tra essere e dover essere, e nel medesimo tempo una specie di
realtà che non possiamo più concepire come immanente? Qui
l’idea di una realtà metafisica sembra inevitabile, e quindi la
filosofia della storia appare connessa alla metafisica nel modo
in cui avviene, per esempio, in Hegel.
Ma non dobbiamo forse anche qui dire che con la semplice
idea di un'indicazione verso un legame metafisico dei valori
con la realtà empirica si esaurisce pure tutto ciò che la scienza
è in grado di pensare, e che è del tutto sufficiente assumere una
qualsiasi relazione necessaria — non ulteriormente determinabi-
le — della realtà con i valori? Se consideriamo ancora, per
28. Rudolf Christoph Eucken (1846-1926), filosofo tedesco, autore dei Prolego-
mena zu Forschungen tiber die Einhcit des Geisteslebens in Bewusstsein und Tat
der Menschhest (1885), del fortunato volume Die Lebensanschauungen der grossen
Denker (1890), di Der Kampf um einen geistigen Lebensinhalt (1896), di Der Wakr-
heitsgchalt der Religion (1901), delle Grundlinien einer neuen Lebensanschauung
(1907), di Der Sinn und der Wert des Lebens (1908), della Einfiihrung in cine Phi-
losophie des Geisteslebens (1908), di Mensch und Welt (1918) c di numerose altre opere,
anche di argomento storico, cbbe larghissima notorietà per le sue doti di scrittore
€ per il carattere al tempo stesso popolareggiante e retorico del suo idcalismo, Nel
1908 cbbe il premio Nobel per la letteratura.
HEINRICH RICKERT 421
esempio, la filosofia della storia di Hegel, troveremo che la
metafisica ha un peso molto limitato nella descrizione di tutte
le particolarità. Per delimitare e articolare l’universo storico è
importante solamente il concetto di libertà come concetto di
valore e la convinzione generalissima che lo sviluppo verso la
libertà è in qualche modo inerente all’essenza stessa del mondo.
Qui sono però presenti solo i due presupposti già accennati di
un valore assoluto e della sua necessaria relazione con la realtà
storica in generale. Per il resto la filosofia della storia di Hegel
si muove entro concetti che derivano dalla vita storica imma-
nente e che si riferiscono soltanto a questa vita immanente.
Non si procede così in tutti i tentativi di filosofia della storia
che hanno la forma di una storia universale? non dobbiamo
anzi dire che anche per il filosofo della storia una maggiore
quantità di metafisica non soltanto non è richiesta, ma può
addirittura diventare dannosa? A lui, come allo storico empiri-
co, ciò che interessa è lo sviluppo della cultura nel mondo
immanente, nel mondo spazio-temporale. Se questo mondo im-
manente viene perciò ridotto da qualche metafisica a una
realtà di secondo grado, se la vera realtà — in cui i valori
supremi coincidono con l’essere supremo — viene concepita
come atemporale e aspaziale, lo sviluppo spazio-temporale, sin-
golare e individuale, perde allora subito ogni senso anche dal
punto di vista della filosofia della storia, così come dal punto
di vista della storia empirica. A quale scopo tutto quel proces-
so di lotta dell'umanità, che nel corso dei millenni riesce a
realizzare solo approssimativamente e imperfettamente ciò che
è per sempre reale nella più profonda essenza del mondo? Se
nel tempo possiamo scorgere soltanto un filo del tessuto del
velo di Maia, allora non esiste più una filosofia positiva della
storia. In tal caso il suo compito consiste solo nel comprendere
la vanità di tutto ciò che è storico, in quanto scorre necessaria-
mente nel tempo, e nel negare con Schopenhauer ogni senso
alla storia. Se dev’esserci non soltanto una scienza storica empi-
rica, ma anche una filosofia della storia, proprio l’elemento
temporale presente nel mondo dev'essere in ogni caso assoluta-
mente reale.
Ma — ci si potrebbe infine ancora domandare — non si può
forse attribuire anche a ciò che è temporale una realtà metafisi-
422 HEINRICH RICKERT
ca, € l’essere trascendente deve proprio venir concepito come
necessariamente atemporale, se si vuole pensarlo? Qui sembra
aprirsi ancora un’ultima strada per la quale unificare tra loro
filosofia della storia e metafisica. Ma si tratta di una semplice
apparenza, perché nella filosofia della storia il nervo del pensie-
ro metafisico viene reciso dall'assunzione di una realtà metafisi-
ca di ciò che è temporale. Quel che ci dava soltanto un’indica-
zione sull’essenza trascendente del mondo era appunto la con-
vinzione della validità trascendente dei valori e l'esigenza del
loro nesso reale con la realtà storica. Ma la trascendenza del
valore significa proprio la sua validità atemporale, e soltanto
una realtà atemporale potrebbe essere il sostegno metafisico di
valori atemporali; ma per instaurare un legame necessario dello
sviluppo storico con valori atemporali non si può fondare la
validità dei valori su un essere metafisico che si esaurisce nel
tempo. Una metafisica che voglia essere la base della filosofia
della storia si imbatte quindi nelle maggiori difficoltà non appe-
na aspira a una formulazione concettuale dei suoi presupposti
trascendenti che sia in qualche modo diversa da quella con-
tenuta nel concetto di dover essere trascendente. Per trova-
re nel corso storico temporale un senso oggettivo, abbiamo biso-
gno dell’atemporale. Ma non appena poniamo questo elemento
atemporale come realtà metafisica e priviamo quindi della vera
realtà il corso storico, annulliamo ogni senso della storia e
ogni possibilità di una sua trattazione filosofica. C'è una via
per sfuggire a questo circolo, oppure ogni metafisica della sto-
ria deve naufragare in esso? Non siamo costretti, anche in una
trattazione filosofica della storia universale, a scorgere nei valo-
ri atemporali e nella loro relazione necessaria, ma scientifica-
mente indeterminabile, con la realtà temporale i presupposti
ultimi a cui dobbiamo arrestarci ?
Se si dovesse rispondere positivamente a questa domanda —
e almeno finora non vediamo alcuna via che ci permetta una
risposta negativa — i compiti della filosofia della storia, che
all’inizio sembrava scindersi in tre diverse discipline, si configu-
rerebbero in modo del tutto unitario. Dovendo lasciare all’inda-
gine delle scienze particolari l’intero campo dell’essere empi-
rico e rinunciare a cogliere l’essenza metafisica del mondo, alla
filosofia rimane come campo specifico il regno dei valori. Essa
HEINRICH RICKERT 423
deve trattare questi valori come valori, indagare sulla loro vali-
dità e penetrare le connessioni teleologiche di valore. Uno di
questi campi di valori è quello della scienza, in quanto essa
aspira alla realizzazione dei valori di verità, e la filosofia della
storia ha quindi a che fare anzitutto con l’essenza della scienza
storica. Essa la concepisce come la rappresentazione individua-
lizzante dello sviluppo singolare della cultura, vale a dire del-
l’essere e dell’accadere fornito di significato, nella sua individua-
lità, in riferimento ai valori culturali. Da ciò deriva allora che
i princìpi della vita storica sono essi stessi valori, e la trattazio-
ne di questi valori con riguardo alla loro validità diventa perciò
il secondo compito della filosofia della storia, che però coincide
in ultima analisi con il compito della filosofia come scienza dei
valori in generale. In tal modo le due indagini che risultano
necessarie stanno in una connessione sistematica, e in questa
connessione si inserisce infine anche il terzo gruppo di questio-
ni di filosofia della storia. Esso costituirà la conclusione dell’in-
tero sistema filosofico, poiché in esso si cerca di mostrare quan-
to dei valori criticamente fondati si è realizzato nel corso prece-
dente della storia, e quali sono state le grandi epoche di questa
realizzazione dei valori, per comprendere dove oggi stiamo in
questo processo di sviluppo e dove dobbiamo cercare il nostro
compito per il futuro. La filosofia della storia, partendo dalla
logica della storia, tratta perciò sempre di valori: in primo
luogo dei valori da cui si possono derivare le forme concettuali
e le norme della ricerca storico-empirica, quindi dei valori che
costituiscono — in quanto principi del materiale storicamente
essenziale — la storia stessa, infine dei valori la cui graduale
realizzazione si compie nel corso della storia.
GEORG SIMMEL
NOTA BIOGRAFICA
Georg Simmel nacque a Berlino il 1° marzo 1858, figlio di genitori
ebrei convertiti al Protestantesimo. Compì gli studi universitari all’Uni-
versità di Berlino, dove seguì i corsi di storici come Theodor Mommsen
e Heinrich von Treitschke, di psicologi come Moritz Lazarus e Her-
mann Steinthal, di etnologi come Adolf Bastian, nonché dello storico
della filosofia greca Eduard Zeller. Fin da questi anni la personalità di
Simmel rivela interessi culturali molteplici, che caratterizzeranno anche
in seguito la sua produzione filosofica. A Berlino egli consegue nel 1881
il dottorato, con la dissertazione Das Wesen der Materie nach Kants
Physischer Monadologie (Berlin, 1881), e tre anni dopo ottiene l’abilita-
zione. I pregiudizi razziali ancora largamente diffusi negli ambienti
universitari tedeschi, uniti all’impressione di dilettantismo che il suo
stile filosofico poteva a prima vista suscitare, resero lenta e difficile
(nonostante l’appoggio di amici influenti, come lo stesso Max Weber) la
carriera accademica di Simmel, relegandolo per molti anni nella posizio-
ne di libero docente; e soltanto nel 1901 egli ottenne la nomina a
professore straordinario. Ma le sue lezioni berlinesi furono largamente
frequentate, e da esse trassero spunto allievi destinati a diventare famo-
si, come per esempio il giovane Gyorgy Luk£4cs. Soltanto nel 1914 Simmel
fu chiamato a coprire una cattedra di filosofia, all’Università di Strasbur-
g0; e qui morì quattro anni dopo, il 28 settembre 1918.
Le prime opere di Simmel sono caratterizzate da un prevalente
interesse per le scienze sociali, che si traduce — sul piano filosofico —
nello sforzo di affrontare il problema critico delle scienze sociali e, in
connessione con queste, della conoscenza storica. Dal saggio Uber soziale
Differenzierung (Leipzig, 1890) alla Einleitung in die Moralwissenschaft
(Stuttgart-Berlin, 1892-93) e alla Philosophie des Geldes (Leipzig, 1900),
la ricerca positiva sui fenomeni sociali si intreccia con il tentativo di
determinare l'ambito e l'orientamento di indagine delle scienze sociali,
ponendo in luce la loro struttura logica e la loro relazione con altre
forme di conoscenza scientifica. Su questo terreno Simmel prende posi-
zione nei confronti della concezione positivistica delle scienze sociali,
affermandone il compito descrittivo e respingendo il postulato dell’esisten-
za di una struttura legale della realtà storico-sociale. Nello stesso tempo
428 GEORG SIMMEL
egli si propone, richiamandosi a una prospettiva kantiana, di determina-
re le categorie che stanno a base dell’elaborazione concettuale delle
scienze sociali. Ma queste categorie vengono da lui interpretate non già
come princìpi 2 priori, bensì come punti di vista relativi sulla base dei
quali le singole discipline si organizzano metodologicamente. Infatti
Simmel intende non tanto stabilire in linea generale il campo di ricerca
delle scienze sociali, quanto analizzarle nei loro procedimenti specifici e
nei loro rapporti reciproci. Nell'Einleitung in die Moralwissenschaft
egli affronta il problema dell’impostazione della scienza morale — consi-
derata come una scienza che si pone al confine tra psicologia, scienze
sociali e ricerca storica — nell’intento di svincolare l’etica dal domi-
nio di concetti generali per portarla sul terreno dell’osservazione empiri-
ca e quindi della descrizione dei comportamenti umani. Nella Philoso-
phie des Geldes egli analizza il significato del concetto di denaro in
relazione al concetto di valore, ponendo in luce la sua trasformazione da
valore sostanziale in valore funzionale, cioè in designazione simbolica
del diverso valore delle cose. Nell'ambito di questa prospettiva di origi-
ne kantiana, anche se profondamente modificata, Simmel si è pure
proposto, in Die Probleme der Geschichtsphilosophie (Leipzig, 1892,
19057, 1907°), di determinare le condizioni di validità della conoscenza
storica, considerata nelle sue basi psicologiche e nei suoi rapporti con le
scienze sociali. Egli ha individuato il fondamento della conoscenza stori-
ca nell'identità tra soggetto e oggetto — identità che rende appunto
possibile la comprensione; cosicché le categorie storiografiche diventano
presupposti psicologici, i quali assolvono la funzione di organizzare
concettualmente il dato empirico. Perciò la loro validità risulta relativa,
e parimenti relativi sono i risultati a cui pervengono sia le scienze
sociali sia la conoscenza storica.
Il culmine di questa prima fase della produzione simmeliana è
rappresentato dalla Soziologie: Untersuchungen iiber die Formen der
Vergesellschaftung (Leipzig, 1908), in cui Ja distinzione della sociologia
dalle altre scienze sociali viene formulata su una base puramente forma-
le, attribuendo a queste il compito di studiare i fenomeni sociali nel
loro diverso contenuto (morale, economico, politico, e così via) e a
quella l’analisi delle forme di associazione che costituiscono la struttura
propria della società in quanto tale. La sociologia così intesa prescinde
quindi dallo studio del contenuto della società, per limitare la sua
indagine ai modi di relazione tra gli individui; essa ha per oggetto la
maniera in cui i rapporti tra gli individui si costituiscono come fenome-
ni sociali. L'autonomia della sociologia dalle altre discipline storico-socia-
li viene perciò ottenuta attraverso la rigorosa determinazione del suo
carattere « formale ».
Già prima della Soziologie, attraverso la critica della nozione kantia-
GEORG SIMMEL 429
na di a priori e lo studio di Goethe, di Schopenhauer e di Nietzsche —
filosofi a lui particolarmente congeniali — Simmel veniva enunciando i
princìpi di quel relativismo destinato ben presto a tradursi in una
« filosofa della vita». Dal volume su Kant (Leipzig, 1904; tr. it.
Padova, 1953) a Schopenhauer und Nietzsche (Leipzig, 1907; tr. it.
Torino, 1923), fino a Hauptprobleme der Philosophie (Leipzig, 1910; tr.
it. Firenze, 1920) e ai saggi raccolti col titolo di Philosophische Kultur
(Potsdam, 1911), egli ha respinto il tentativo di cercare un fondamento
assoluto del conoscere, così come delle altre manifestazioni della vita
umana, affermando la necessità di riconoscere il carattere relativo dell’at-
tività dell’uomo in ogni campo — e quindi anche il carattere relativo
della verità filosofica. Nel periodo successivo, e soprattutto negli anni di
Strasburgo, questa prospettiva relativistica mette capo all'affermazione
dell’intrascendibilità della vita. In Der Konflikt der modernen Kultur
(Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Torino, 1925) e in Lebensanschauung
(Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Milano, 1938) la vita si configura come il
principio ultimo e incondizionato dal quale traggono origine tutte le forme
della realtà, le quali sono poste in essere dalla vita e tuttavia si contrappon-
gono al suo fluire. La vita è infatti un processo infinito, creatore di forme
finite che si organizzano su un piano trascendente rispetto alla vita, costi-
tuendo così i diversi mondi ideali dello spirito: la vita cerca di travolgere
queste forme, mentre esse cercano di sfuggire a una distruzione inevitabi-
le. La vita può essere quindi definita al tempo stesso come « più-vita » e
« più-che-vita »: « più-vita » in quanto processo temporale continuo che
cresce su se stessa, superando i limiti che essa si pone, e « più-che-vita »
in quanto produzione di forme finite che emergono da tale processo.
Simmel ha applicato questa impostazione all'analisi dei più svariati
fenomeni culturali, in particolare dei fenomeni artistici. Egli ha anche
ripreso in esame — in alcuni saggi che vanno da Das Problem der
historischen Zeit (1916) a Die historische Formung (1917-18) e a Vom
Wesen des historischen Verstehens (Berlin, 1918) — il problema della
storicità, considerata dal punto di vista della dialettica tra la vita e le
sue forme. Il rapporto tra la vita e la storia si presenta, in questi scritti,
come il rapporto tra il processo temporale della vita (che, in quanto tale,
non è ancora storico) e un mondo ideale che emerge da esso, contrappo-
nendosi alla vita e cercando di resistere alla sua opera distruttrice.
L'elaborazione concettuale della conoscenza storica coincide quindi con
lo sforzo di costituzione di questo mondo ideale, e il procedimento della
comprensione sul quale la storiografia si fonda appare qualificato non
già come un rapporto immediato, bensì come una relazione che presup-
pone il riferimento all’alterità di un diverso individuo.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Ricordiamo qui le altre opere di Simmel: Philosophie der Mode, Ber-
lin, 1905; Kan und Goethe, Berlin, 1906, e Leipzig, 1907 ?, 1916?, 19184;
Die Religion, Frankfurt a.M., 1906, 19122, 19225; Goethe, Leipzig, 1913;
Rembrandt: cin Runstphilosophischer Versuch, Leipzig, 1916; Grundfra-
gen der Soziologie: Individuum und Gesellschaft, Berlin-Leipzig, 1917;
Der Krieg und die geistigen Entscheidungen, Miinchen-Leipzig, 1917. Al-
tre raccolte di saggi sono le seguenti: Zur Philosophie der Kunst: Philo-
sophische und kunstphilosophische Aufsétze (a cura di Gertrud Simmel),
Potsdam, 1922; Schulpidagogik (lezioni a cura di K. Hauter), Osterwieck /
Harz, 1922; Fragmente und Aufsitze aus dem Nachlass und Veròffentli-
chungen der letzen Jahre (a cura di G. Kantorowicz), Miinchen, 1923;
Rembrandtstudien, Basel, 1953; Bricke und Tiìr: Essays des Philosophen
zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann,
in collaborazione con M. Susman), Stuttgart, 1957. Dei numerosi articoli
di Simmel ci limitiamo a segnalare quelli non compresi nelle raccolte che
abbiamo menzionato: Zur Metaphysik des Todes, « Logos », I, I9I0, pp.
57-70; Das individuelle Gesetz, « Logos », IV, 1913, pp. 117-60, poi anche
in forma di volume (a cura di M. Landmann), Frankfurt a.M., 1968; Der
Fragmentcharackter des Lebens, « Logos », VI, 1916-17, pp. 29-40; Frag-
ment iiber die Liebe, « Logos », X, 1921-22, pp. 1-54; tr. it. Milano, 1927.
Le opere di Simmel sono state largamente ripubblicate nel dopoguerra.
Tra le ristampe della Scientia Verlag citiamo quella della Einle:tung in
die Moralwissenschaft, Aalen, 1964‘, quella della Philosophie des Geldes,
Aalen, 1958, e quella della Soziologie, Aalen, 19584; sono stati inoltre
riediti Uber soziale Differenzierung, Amsterdam, 1966 2, e Haupitprobleme
der Philosophie, Berlin, 19507, 1966. Un'importante raccolta di documen-
ti è il Buch des Dankes an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Biblio-
graphie (a cura di K. Gassen e M. Landmann), Berlin, 1958, apparso in
occasione del centenario della nascita.
Oltre alle traduzioni italiane già pubblicate sono in preparazione quel-
la della Philosophie des Geldes (per i « Classici della sociologia » U.T.E.T.)
e della Soziologie (per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di Co-
munità).
GEORG SIMMEL 431
Dell’ampia letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Sim-
mel segnaliamo gli studi seguenti:
A. MAMELET, Le relativisme philosophique chez Georg Simmel, Paris, 1914.
M. Apter, Georg Simmels Bedeutung fiir die Geistesgeschichte, Wien-
Leipzig, 1919.
M. FriscHersen-KonLER, Georg Simmel, « Kantstudien », XXIV, 1919,
pp. 1-51.
W. Kwevets, Simmels Religionstheorie: ein Beitrag zum religibsen Pro-
blem der Gegenwart, Leipzig, 1920.
S. Kragaver, Georg Simmel, « Logos », IX, 1920-21, pp. 307-38.
W. Frost, Die Soziologie Simmels, « Acta Universitatis Latviensis » (Ri-
ga), XII, 1925, pp. 219-313, e XIII, 1926, pp. 149-225.
V. JANKÉLÉvITcH, Georg Simmel, philosophe de la vie, « Revue de méta-
physique et de morale », XXXII, 1925, pp. 213-57 e 373-86.
N. J. Sevrman, The Social Theory of Georg Simmel, Chicago, 1925, e
New York, 19662.
M. Srernuorr, Die Form als soziologische Grundkategorie bei Georg Sim-
mel, « Kélner Vierteljahrshefte fiir Soziologie », IV, 1925, pp. 214-59.
W. Fagran, Kritik der Lebensphilosophie Georg Simmels, Breslau, 1926.
G. Loose, Die Religionssoziologie Georg Simmels, Dresden, 1933.
H. MiLLEr, Georg Simmel als Deuter und Fortbildner Kants, Dresden,
1935.
R. Heserte, The Sociology of Georg Simmel: The Forms of Social In-
teraction, nel volume An Introduction to the History of Sociology (a
cura di H. E. Barnes), Chicago, 1948, pp. 249-73.
« American Journal of Sociology », LXIII, 1958, n. 2 (fascicolo commemo-
rativo del centenario della nascita di Durkheim e di Simmel), con ar-
ticoli di K, D, Narcete, K. H. Wotrr, L. A. Coser, T. M. Mis.
Georg Simmel, 1858-1918 (a cura di K. H. Wolff), Columbus (Ohio),
1959.
M. Susman, Die geistige Gestalt Georg Simmels, Tibingen, 1959.
H. Miier, Lebdensphilosophie und Religion bei Georg Simmel, Berlin-
Miinchen, 1960.
A Banri, Filosofi contemporanei (a cura di R. Cantoni), Milano-Firenze,
1961, cap. V.
432 GEORG SIMMEL
I. Bauer, Die Tragik in der Existenz des modernen Menschen bei G.
Simmel, Berlin, 1962.
R. H. WeincartNER, Experience and Nature: the Philosophy of Georg
Simmel, Middletown (Conn.), 1962.
P. Gorsen, Zur Phinomenologie des Bewusstseinsstroms: Bergson, Dilthey,
Husserl, Simmel und die lebensphilosophischen Antinomien, Bonn,
1966.
H. LiepescHùtz, Von Georg Simmel zu Franz Rosenzweig: Studien zum
jiidischen Denken im deutschen Kulturbereich, Tiibingen, 1970.
Un elenco completo degli scritti di Simmel è dato da E. RosenTHAL
e K. OsertaenDER, Books, Papers and Essays by Georg Simmel, « Ame-
rican Journal of Sociology », LI, 1945, pp. 238-47. Ma la bibliografia più
completa degli scritti di e su Simmel è quella di K. Gassen, in Buch des
Dankes an Georg Simmel cit., pp. 309-65, la cui ultima parte — concer-
nente la letteratura critica — è riprodotta in Georg Simmel, 1858-1958,
cit., pp. 357-75-
Georg Simmel nel 1901.
I PRESUPPOSTI PSICOLOGICI DELLA
RICERCA STORICA *
Se la teoria della conoscenza in generale muove dal fatto
che il conoscere — considerato da un punto di vista formale —
è un mero rappresentare e il suo soggetto è un’anima, la teoria
del conoscere storico è ulteriormente determinata dal fatto che
la sua materia è il rappresentare, il volere e il sentire di perso-
nalità, e che i suoi oggetti sono anime. Tutti i processi esterni —
politici e sociali, economici e religiosi, giuridici e tecnici —
non sarebbero per noi né interessanti né comprensibili se non
scaturissero da movimenti psichici, e non suscitassero altri movi-
menti psichici. Se non vuol essere un gioco di marionette, la
storia dev'essere storia di processi psichici, e tutti gli avvenimen-
ti esterni che essa descrive non sono che ponti gettati tra gli
impulsi e gli atti di volontà, da un lato, e i riflessi del sentimen-
to suscitato da quegli avvenimenti esterni, dall’altro. Questo
fatto non è cambiato neppure dalla concezione materialistica
della storia, la quale vuol derivare i movimenti storici dai
bisogni fisiologici degli uomini e dal loro ambiente geografico.
Infatti non c'è fame che metta mai in movimento la storia
universale se non fa male; e ogni lotta per i beni economici è
una lotta per le sensazioni di comodità e di godimento, dal cui
carattere di scopo trae il suo significato ogni possesso esteriore.
Anche le condizioni del terreno e del clima sarebbero indiffe-
renti per il corso della storia, tanto quanto il terreno e il clima
di Sirio, se non influenzassero direttamente e indirettamente
la costituzione psicologica dei popoli. Se vi fosse una psico-
* Die Probleme der Geschichtsphilosophie, cap. I: Von den Psychologischen Vor-
aussetzungen in der Geschichesforschung, Lcipizig, Verlag von Duncker und Hum-
blot, 1892, pp. 1-33 (traduzione di Sandro Barbera c Pietro Rossi).
28. STORICISMO TEDESCO.
434 GEORG SIMMEL
logia come scienza di leggi, la scienza storica sarebbe psico-
logia applicata nello stesso senso in cui l'astronomia è matemati-
ca applicata. Se il compito della filologia è quello di conoscere
ciò che è conosciuto, la ricerca storica ne costituisce soltanto
un ampliamento, in quanto accanto a ciò che è conosciuto —
ossia a ciò che è teoreticamente rappresentato — deve cono-
scere anche ciò che è sentito. Questo carattere di interiorità dei
processi storici, che fornisce il punto di partenza e il termine di
ogni descrizione della loro esteriorità, richiede una serie di
presupposti specifici che è compito della teoria della conoscenza
storica porre in luce.
Dietro l’4 priori assoluto dell’intelletto, da cui prendiamo le
mosse, c'è un secondo « priori valido all’interno dell'intelletto
e quindi relativo. Quando varie rappresentazioni particolari
vengono raccolte in un concetto generale, quando un soggetto e
un predicato vengono riuniti in un giudizio, più giudizi in una
massima, il materiale è separabile dalla forma che lo contiene,
e ciascuno dei due elementi può essere rappresentato da solo.
Per quanto in questo materiale possa già essere presente molto
o poco di aprioristico e di spontaneo, nella relazione che qui
consideriamo vi è un contenuto dato su cui l’intelletto compie
un'ulteriore funzione, la quale è da parte sua 4 priori nei
confronti di quel materiale; essa non è presente nel contenuto,
ma si aggiunge ad esso. Se però, secondo la schematizzazione
kantiana, esistono soltanto tre specie di 4 priori — quello della
sensibilità, che ha per materiale le sensazioni, quello dell’intel-
letto, che ha per materiale le intuizioni, e quello della ragione,
che ha per materiale i giudizi — o propriamente una sola
specie, poiché le altre devono essere ricondotte all’ priori
dell’intelletto, la considerazione empirica mostra facilmente l’in-
giustificata angustia di questa divisione. Vi sono chiaramente
moltissimi gradi di 4 priori, così come vi sono mescolanze
molto diverse tra la forma aggiunta e il contenuto preesistente.
In particolare, poi, non c'è alcun metodo che ci conduca a un
sistema saldamente concluso — e garantito da ogni spostamen-
to di confine — delle funzioni con cui elaboriamo il materiale
conoscitivo dato di volta in volta. Tra le forme più generali,
accessibili a ogni materiale e superiori all’esperienza individua-
le, e le forme specifiche, acquisite empiricamente e applicabili
GEORG SIMMEL 435
come a priori soltanto a certi contenuti, non vi sono distinzio-
ni nette e sistematiche, ma trapassi graduali: così per esempio
tra la legge causale o la connessione in un concetto di ciò che
è identico in oggetti diversi, da un lato, e i presupposti metodi-
ci (o di altro tipo) di un particolare settore della vita, di una
particolare scienza, dall’altro. Ogni formazione giuridica pre-
suppone l’aspirazione a un determinato stato. Che i rapporti
umani consentano il conseguimento di uno stato del genere
solamente mediante norme stabilite e determinazioni di pene
per la loro trasgressione è un 4 priori molto generale che ha
per conseguenza una certa formazione, cioè un legame di rap-
presentazioni preesistenti. Ma per la formazione di leggi que-
sta forma di connessione non è tanto generale quanto può
esserlo la connessione causale tra motivazione psichica e azione
esteriore, che — parimenti necessaria per l’elaborazione giuridi-
ca — può essere istituita tra i fenomeni, ma non tratta imme-
diatamente da essi. D'altra parte l’a priori che costituisce la
forma del diritto è, a sua volta, un elemento generale rispetto
ai presupposti da cui scaturisce nel caso particolare la formula-
zione giuridica. Così il principio che la prova spetta all’accusa-
tore, o la diversa validità del diritto consuetudinario, produce
un'elaborazione dei fatti in vista dello scopo di conoscere che
cosa sia giusto — un’elaborazione che non è presente nel mate-
riale stesso, ma che solo in esso compie la sua funzione interpre-
tativa,
Con pieno diritto Kant ha rivolto il proprio senso critico
contro gli empiristi che volevano limitare le loro ricerche alla
semplice recezione di impressioni sensibili, alla registrazione di
elementi di fatto comprovabili immediatamente. Egli ha mo-
strato che, senza neppure avvedersene, essi fanno continuamen-
te uso di proposizioni metafisiche non dimostrate e che sol-
tanto in base a queste istituiscono quella connessione tra i dati
sensibili che fa di quest'ultimi un'esperienza intelligibile. Ma
l'influenza e la necessità dei presupposti inconsci e indimostrati
si estende molto al di là di ciò che mostrano le indagini di
Kant. In ogni momento sia la teoria che la prassi fanno uso di
forme di connessione del materiale empirico, cioè di quella
facoltà plastica dello spirito in grado di fondere ogni contenu-
b ce)
to dato — attraverso il modo di ordinarlo, di accordarlo e di
436 GEORG SIMMEL
sottolinearlo — nelle più diverse forme definitive. Queste con-
nessioni che — espresse in forma di principi — appaiono come
presupposti 4 priori, rimangono inconscie nella misura in
cui la coscienza in generale si dirige più al dato, a ciò che è
relativamente esterno, che non alla propria funzione interna.
Infiniti contenuti di pensiero attraversano lo spirito, prima che
abbia coscienza del fatto che pensa; esso osserva gli oggetti del
mondo esterno molto prima dei processi che avvengono al suo
interno, e quanto più il processo è interno, ossia quanto più è
— si potrebbe dire — psichico, tanto più tardi esso ne consegue
la coscienza, che inerisce piuttosto ai suoi stimoli esterni. E
tanto più la coscienza inerisce a questi ultimi quanto più essi,
con la varietà del loro mutare e la nettezza delle loro antitesi,
stimolano continuamente la sensibilità psichica alla distinzione,
mentre le funzioni formali dell'anima sono di numero più limi-
tato e si offrono ai contenuti più diversi in modo sempre egua-
le, producendo in virtù della loro esistenza permanente e della
loro universalità endemica quella consuetudine ad esse che fa
scivolare la coscienza al di sopra di loro come su qualcosa di
assolutamente ovvio. Anche qui vale la profonda osservazione di
Aristotele che ciò che viene per primo nell’ordine razionale
delle cose — la funzione conoscitiva dello spirito — viene per
ultimo nella nostra considerazione e osservazione. Ma in quale
misura questo dominio inconscio delle forme di connessione si
estenda sul materiale dei fatti, non è stato riconosciuto da
Kant in tutta la sua ampiezza a causa della netta separazione
da lui operata tra l’a priori e ogni elemento empirico. Poiché
oggi estendiamo l’esperienza molto più in alto di quanto non
facesse Kant, per noi l’4 priori si estende anche molto più in
profondità. Nel rapporto reciproco tra gli uomini ognuno deve
in ogni momento presupporre negli altri la presenza di processi
spirituali che non può constatare immediatamente, ma senza i
quali le azioni di questi altri apparirebbero una mescolanza di
impulsi improvvisi, priva di senso e di connessione: noi li
completiamo così come completiamo la macchia cieca che inter-
rompe la nostra immagine, senza avvertire l'interruzione, dato
che tale integrazione ci appare cosa ovvia. Come comprendia-
mo l’interno soltanto per analogia con l’esterno — cosa che il
linguaggio già indica quando designa tutti i processi psichici
GEORG SIMMEL 437
con termini tratti dal mondo dell’intuizione esterna — così
d’altra parte intendiamo l’esteriorità degli uomini soltanto in
base all’interiorità sottostante. Ma proprio per questo motivo
integriamo anche l’esterno così come lo richiede la connessione
interna già postulata, cioè in quanto esiste in generale una
connessione interna. Si può ben affermare che nessun cronista
ci racconta in modo preciso ciò che ha visto dello sviluppo di
un avvenimento al quale ha assistito: lo conferma ogni interro-
gatorio giudiziario di testimoni, ogni narrazione di un tumul-
to. Pur con la migliore intenzione di attenersi alla verità, il
narratore aggiunge a ciò che ha immediatamente visto elementi
che completano l’avvenimento nel senso che egli ha tratto fuori
dal dato: e anche l’ascoltatore deve sempre vedere nel suo
spirito, in base alle sue esperienze e alla fantasia da esse deter-
minate, più di quanto gli viene effettivamente detto. La fisiolo-
gia dei sensi ci ha mostrato innumerevoli casi in cui integria-
mo inconsciamente, in oggetti e movimenti particolari, le im-
pressioni frammentarie dei sensi così come lo richiedono le
esperienze già fatte. Nel caso di avvenimenti complessi avviene
esattamente lo stesso; nel caso degli avvenimenti storici l’inte-
grazione esterna è essenzialmente determinata da ipotesi psichi-
che, dalle esperienze relative alla continuità e allo sviluppo
della vita psichica, alla correlazione esistente tra le sue ener-
gie, al corso dei processi teleologici. Non soltanto tutto questo
è presupposto per impulso da parte dei rapporti esterni, ma,
una volta che ciò sia presupposto, gli avvenimenti esterni vengo-
no integrati nella misura in cui anch'essi — commisurati alle
leggi dell’esperienza relative alla connessione tra interno ed
esterno — forniscono ora ai processi interni una serie parallela
ininterrotta. Proprio questa integrazione spontanea di ciò che è
esterno costituisce una delle prove più forti del fatto che anche
l'interno non è semplicemente derivato dai fatti, ma viene ag-
giunto ad essi sulla base di presupposti generali. Partendo dal-
l'aspetto puramente esterno che uno offre all'altro si inferisco-
no, in base a innumerevoli presupposti, le idee e i sentimenti
dell’altro — che al massimo rappresenta un’inferenza dall’ effetto
alla causa. Nelle faccende quotidiane troviamo sufficienti occa-
sioni di comprovare la correttezza di tale inferenza, poiché il
comportamento esterno dell’altro, previsto in anticipo, risponde
438 GEORG SIMMEL
realmente senza eccezione al nostro agire che giunge fino a lui.
Soltanto per processi psichici superiori e più complicati queste
inferenze diventano incerte, inducono a innumerevoli errori
e forniscono così la prova che anche nei casi più sicuri si
tratta solo di presupposti, i quali vengono collocati dinanzi al
dato e debbono la loro sicurezza all’utilità pratica, ma non a
un’interna necessità che li fa scaturire in maniera razionale da
quel dato.
Questi presupposti della vita quotidiana si ripetono ora nel-
la ricerca storica in modo più compiuto e più ricco di influenza
che in qualsiasi altra scienza, compresa perfino la psicologia.
Quest'ultima assume infatti i presupposti in questione come
oggetti d'indagine ®. La ricerca storica assume invece i presup-
posti psicologici senza che siano comprovati e in modo non
metodico. Anche se questi presupposti fossero così ovvi che
ogni fatto esterno potesse disporsi senza difficoltà e in modo
del tutto univoco sotto il presupposto ad esso adatto, la loro
determinazione costituirebbe già un compito considerevole. Que-
sto diventa però estremamente più sottile e più difficile in quan-
to talvolta vediamo connesse allo stesso avvenimento interno
conseguenze esterne totalmente differenti. Ciò è per noi com-
prensibile soltanto in virtù di una diversità degli elementi con-
comitanti o delle conseguenze psichiche di quel primo avveni-
mento, che dev'essere quindi ricondotto ora sotto una norma
psicologica, ora sotto un’altra del tutto opposta. Per esempio
Sybel® racconta, a proposito del rapporto tra il Comitato di
salute pubblica e gli hebertisti nel 1793: «Essi {gli hebertisti]
erano stati fin allora in rapporti eccellenti con Robespierre,
perché quest’ultimo si era appoggiato sulle loro forze e aveva
perciò assecondato i loro desideri. Ciò che però li separava fin
da allora in modo irrevocabile era la semplice circostanza che
Robespierre era diventato la guida del supremo potere statale,
mentre gli hebertisti erano rimasti in una posizione subordina-
a. Certamente essa assume, anche da parte sua, parecchi presupposti
che rimangono impliciti in tutte le conoscenze di altro genere da essa
dipendenti.
b. Cfr. H. von SyBet, Geschichte der Revolutionszeit von 1789 bis
1798, Diisseldorf, 1853-79, vol. II, p. 364.
GEORG SIMMEL 439
ta». I fatti esterni — Robespierre asseconda i desideri degli
hebertisti; essi si legano a lui; egli ottiene una posizione domi-
nante; essi si distaccano da lui — costituiscono, in base ai
presupposti psicologici sottostanti, una serie ben comprensibile.
E tuttavia tali presupposti non sono affatto così cogenti e univo-
ci come appaiono a prima vista. Abbastanza spesso accade che,
assecondando i desideri di qualcuno, dimostrandogli favore con
le proprie azioni, se ne ottenga la simpatia e la dedizione
pratica; ma accade anche il contrario. Così si racconta, nelle san-
guinose faide familiari del Trecento, di un nobile ravennate
che aveva riunito tutti i suoi nemici in una casa e che avrebbe
potuto senz'altro sopprimerli; invece di farlo, li lasciò liberi e
per di più fece loro ricchi doni: quelli avrebbero allora agito
contro di lui con raddoppiata violenza e malizia e non avrebbe-
ro avuto pace fino al suo annientamento — e ciò, aggiunge il
racconto, perché la vergogna per il beneficio ricevuto non li
avrebbe lasciati in pace. Anche qui la serie degli avvenimenti
esterni ci è pienamente comprensibile perché integriamo come
presupposto psicologico e come elemento di mediazione appun-
to quella depressione del sentimento di personalità che spesso
trasforma il beneficio ricevuto in un tarlo roditore nel benefica-
to, rendendolo nemico del benefattore. Per il nostro scopo è
indifferente il fatto che nell'esempio precedente siano tramanda-
te testimonianze dirette di partecipanti, che ne esprimano la
costituzione psicologica, di modo che lo storico aveva biso-
gno di addurle come presupposto: infatti non soltanto egli
deve accettare la tradizione immediata in. innumerevoli casi
analoghi, in cui viene riferito qualcosa di puramente esterno,
ma l’accetterebbe anche soltanto se riconosce come possibile sia
l’una sia l’altra costituzione psicologica e può ricostruirla in
virtù della propria esperienza connessa. Inoltre noi comprendia-
mo che l’assunzione di Robespierre a capo del governo compor-
tava azioni ostili degli hebertisti contro di lui, per il solo fatto
che ne suscitava l’odio e la gelosia. Accetteremmo però senz'al-
tro come probabile anche la narrazione del risultato opposto:
che cioè il pieno dispiegarsi della potente personalità di Robe-
spierre, la posizione dominante a cui era pervenuto, avesse
spezzato anche interiormente ogni opposizione di quel partito
te)
in quanto esso, sapendo di non poter far nulla contro, avrebbe
440 GEORG SIMMEL
voluto almeno mantenere con la docilità e la subordinazione
una qualche partecipazione al potere — un comportamento che
comprendiamo benissimo, in base alle norme psicologiche pre-
supposte se, per esempio, ci viene raccontato a proposito del
senato romano nell’epoca della dittatura militare.
Nell’un caso ci soddisfa il fatto che il beneficio o il consegui-
mento del potere abbia un effetto psichico di adesione, nell’al-
tro che abbia un effetto di distacco, senza però trovare in esso,
come atto esterno, il fondamento di questa diversità. Piuttosto,
sulla costituzione psicologica che ha deciso tra le due alternati-
ve ci informa soltanto l'avvenimento successivo, che però è
comprensibile solo in virtù dell’ipotesi di quella precedente affe-
zione psichica.
Facciamo ancora un secondo esempio. Knapp* dice, a pro-
posito della situazione agraria russa dopo l’abolizione della ser-
virtù della gleba: «I contadini si impegnarono a fornire al
signore fondiario determinate prestazioni in cambio di un sala-
rio. I contadini lo fecero molto mal volentieri, poiché il muta-
mento di base giuridica non consolava il contadino della conti-
nuità del fatto di lavorare per il signore; e neppure al signore
la cosa era di grande aiuto perché la prestazione dei contadini,
ora pattuita anziché obbligata, veniva effettuata malamente no-
nostante che fosse pagata ». La prima motivazione presuppone
come ovvio, o almeno tale da non richiedere un’ulteriore discus-
sione, che la conseguenza di una determinata situazione sul
modo di sentire non muta finché questa rimane esteriormente
la medesima, anche se è mutato del tutto l'elemento interno
che produceva in origine quella conseguenza. La seconda moti-
vazione presenta come cosa chiarissima il fatto che il conta-
dino su cui non si ha più un potere assoluto, ma con cui
bisogna scendere a patti, lavori peggio di prima. Se i fatti
mostrassero che in Russia i redditi economici sono costantemen-
te aumentati dopo il 1864, motivi psicologici esattamente opposti
avrebbero connesso causa ed effetto in modo non meno plausibi-
le; si sarebbe senz’altro considerato che non già l’agire e-
sterno, ma il fondamento etico e il motivo per cui ciò accade
a. G. F. Knapp, Die Bauern-Befreiung und der Ursprung der Landar-
beiter in den dlteren Theilen Preussens, Leipzig, 1887, p. 82.
GEORG SIMMEL 44I
sono decisivi riguardo al fatto di lavorare con piacere e amore
oppure con sentimenti opposti. E riguardo alla coercizione al
lavoro contadino, dalla Prussia ci giunge invece, prima dell’abo-
lizione della servitù della gleba, la lamentela costante che la
corvée è il lavoro peggiore, il più negligente e privo di coscien-
ziosità. Senza voler trarre da esempi di questo genere — che si
trovano in ogni parte di qualsiasi opera storica — uno scetticismo
a basso prezzo e ingiustificato nei confronti dell’interpretazione
psicologica in generale, tali differenze di interpretazione possibi-
le devono renderci attenti al fatto che non si può considerarle
come un fattore sempre eguale, e quindi trascurabile. Piuttosto,
la constatazione dell’una o dell’altra conseguenza, sulla base di
un ulteriore avvenimento esterno, è decisiva per stabilire la
costituzione psichica che dominava la situazione iniziale e per-
tanto — come la direzione di una retta è determinata da due
punti stabiliti — il carattere complessivo dello sviluppo. Ma
questi presupposti, e il significato della scelta tra di essi, rivesto-
no una particolare importanza negli innumerevoli casi in cui le
imprese esterne non sono tramandate in modo scevro di dubbio
e univoco, e in cui l'accertamento e l'ordinamento dipendono
dalla loro probabilità psicologica. Anche nei casi più sicuri,
però, non è il «semplice fatto» che decide dell’intelligibilità
della conseguenza, ma sono i principi psicologici a cui il « sem-
plice fatto » si subordina come premessa minore, per far appari-
re l'avvenimento successivo come possibile e intelligibile. Die-
tro le azioni visibili degli uomini si sottintendono scopi e senti-
menti invisibili, che sono necessari per connettere in modo
intelligibile quelle azioni. Se non potessimo procedere al di là
del materiale storico realmente constatabile, sarebbe in forse la
costruzione di un qualsiasi sviluppo, la possibilità di compren-
dere un qualsiasi elemento singolo in base a un altro. Helm-
holtz ha detto una volta che la dimostrazione della legge causa-
le sarebbe assai debole se dovesse venir derivata dall’esperien-
za; i casi della sua piena dimostrabilità sono rari in rapporto
al numero sterminato di quelli che si sottraggono a una più
completa penetrazione causale. Se ciò vale già per i processi
della natura sottostante la vita psichica, ancora più rara deve
diventare la dimostrazione della causalità in base alla stretta
esperienza laddove il complicato e oscuro elemento dei processi
442 GEORG SIMMEL
cerebrali si inserisce tra i processi visibili dei quali si indaga il
legame causale. È chiaro che avremmo una prospettiva comple-
ta se penetrassimo fino in fondo le influenze e le trasposizoni
esterne e corporee che hanno luogo tra i singoli atti di una
personalità storica, e conoscessimo inoltre il valore psichico di
ogni processo cerebrale presente in questa serie. Questo è però
un ideale irraggiungibile; cosicché noi ci aiutiamo almeno inse-
rendo dei processi psichici dietro e tra i processi esterni. Qui
l'elemento ipotetico, che esige una particolare considerazione
metodologica, non è tanto l’ipotesi di un elemento psichico in
generale, che risieda inafferrabile dietro i fenomeni, quanto il
contenuto specifico dei processi di coscienza supposti. Certamen-
te anche tale elemento — per quanto possa sembrare straordina-
rio considerarlo ancora come ipotesi — non è affatto un fonda-
mento così semplice e indiscutibile della narrazione storica; e
non lo è perché il rapporto tra processi coscienti e processi
inconsci in noi è assai incerto. In particolare, quando si tratta
di movimenti di interi gruppi che possiamo spiegare anche
soltanto in base a posizioni di scopo e a impulsi sentiti, sono
spesso determinanti processi organici che non hanno alcun
aspetto di coscienza. Tanto qui quanto negli individui singoli
moltissimo di ciò che, per la sua conformità formale a uno
scopo, viene ricondotto a cause interne alla coscienza accade
per suggestione, o per un meccanismo motorio ormai fissato da
cui sono da lungo tempo esclusi gli elementi coscienti, o per
uno stimolo inconsapevole. Come la formazione conforme a
scopi dell'essere vivente induce gli spiriti che riflettono ad am-
metterne una causa intelligente, perché si è abituati a considera-
re la conformità a scopi soltanto come conseguenza di una
volontà cosciente e pensante, così noi ci rappresentiamo — com-
piendo lo stesso errore — le più svariate azioni umane come
effetti di una posizione cosciente di scopi, anche se procedono
da tendenze del tutto meccaniche e da necessità inconscie. Se i
movimenti dei nostri organi interni, il lavoro del cuore, i pro-
cessi di digestione, avvengono nel modo più utile per il conse-
guimento degli scopi vitali, e senza che ne abbiamo affatto
coscienza, lo stesso sviluppo che ha regolato questi processi
poteva ben ordinare anche i nostri processi cerebrali in modo
tale da promuovere la vita senza bisogno di una coscienza.
GEORG SIMMEL 443
Anche se si affermasse che la scienza storica deve descrivere
soltanto la storia dei processi coscienti, tuttavia i processi incon-
sci si inseriscono in modo così vario tra quelli coscienti e ne
costituiscono così diffusamente il substrato che senza il ricorso
ad essi non si può conseguire una spiegazione sufficiente dell’e-
lemento cosciente; e questa spiegazione fallisce necessariamen-
te se alla base di ogni azione visibile si vogliono porre idee
chiare e una cosciente conformità a scopi. Stabilire se dietro
l’azione stia un processo psichico cosciente esprimibile con paro-
le — e una risposta positiva costituisce il presupposto di ogni
narrazione storica — è una questione particolarmente difficile
nel caso di quei processi che devono realmente a una coscienza
la conformità della loro forma a uno scopo e l’impulso alla
loro realizzazione in determinate situazioni, ma che in seguito
l'hanno perduta poiché l’azione si è gradualmente trasformata
in un’azione meramente riflessa e istintiva. Se per esempio la
conformità a scopi e la necessità hanno indotto un gruppo a
guerre ripetute, da ciò può svilupparsi una tendenza bellica, e
dinanzi alle sue successive manifestazioni sarebbe vano cercarne
la ragion sufficiente nella coscienza di chi agisce. Oppure, la
sottomissione e la servilità di un ceto rispetto a un altro posso-
no essere sorte da cause del tutto coscienti; se però queste sono
durate un lungo periodo, non si può più interrogare la coscien-
za degli individui per averne informazioni sullo scopo del parti-
colare comportamento in questione: per quanto uno scopo pos-
sa essere ancora sempre presente, la coscienza di esso è in ogni
caso tramontata e l’azione se ne presenta priva. È però evidente
che l’azione comparirà facilmente anche quando lo scopo non
sussiste più, e un qualsiasi impulso esterno o abitudine interna
produce uno stimolo formalmente affine a cui l’azione risponde
in modo riflesso. È perciò ben chiaro a base di quali errori stia
il presupposto ingenuo che cerca senz'altro in processi psichici
coscienti la connessione significativa tra le azioni dei singoli o
dei gruppi, facendole scaturire dal carattere teleologico di quei
processi.
Del resto la scienza storica lavora di fatto anche in base al
presupposto di un inconscio parziale o totale. Sentiamo parlare
dalla tendenza di parecchie stirpi a impadronirsi irresistibilmen-
te di ciò che sta intorno e a spostare in avanti senza sosta,
444 GEORG SIMMEL
come spinte da un impulso di crescita fisica, i loro confini; si
parla dell’oscura spinta dei popoli tedeschi verso l’Italia come
dell’istinto dell’uccello migratore, che impulsi del tutto incon-
sci spingono a seguire determinate direttrici del cielo; d'altro
lato si parla dell'immobilità e dell’indolenza di alcune stir-
pi, le quali certamente spesso non pervengono alla coscienza
del singolo ma determinano il suo comportamento come una
forza naturale, mentre egli crede di essere attivo e capace di
reazione. Occorre infine ricordare quelle formazioni oggettive
che fondano propriamente — come un possesso collettivo spiri-
tuale — la società: il diritto e il costume, il linguaggio e il
modo di pensare, il culto e la forma di commercio. Certamen-
te, tutto ciò non sarebbe mai sorto senza l’attività cosciente
degli individui; ma questa non si è quasi mai orientata verso la
formazione che alla fine ne risulta come se costituisse il suo
scopo. Ciascuno lavora piuttosto alla propria parte, mentre la
totalità di cui è parte si sottrae al suo sguardo; il confluire dei
contributi, il costituirsi della forma sociale che questo materiale
individuale assume non rientra più nella coscienza del singolo
lavoratore. Nella coesistenza con gli altri egli cerca l’espressio-
ne più adeguata per la sua inclinazione e per il suo ritegno, per
la sua indifferenza e per il suo interesse, scoprendo in tal modo
certe parti delle forme di rapporto speciale; il suo bisogno
religioso lo spinge a parole e ad azioni in cui crede di trovare i
ponti più sicuri verso il principio divino, e in questo modo
costruisce l’edificio del culto; mediante certe regole di pruden-
za cerca di proteggersi dalle soperchierie nella conduzione de-
gli affari, e così fonda le usanze commerciali comuni. Di ogni
azione mossa dall’interesse particolare che non abbia carattere
distruttivo, di qualsiasi relazione tra uomini rimane — quasi
come caput mortuum — un contributo alla formazione dello
spirito pubblico, dopo che i suoi effetti sono stati distillati
attraverso mille sottili canali sottratti alla coscienza dell’indivi-
duo, Ciò vale particolarmente per il tessuto della vita sociale:
nessun tessitore sa che cosa sta tessendo. Tuttavia le formazio-
no sociali superiori possono sorgere soltanto tra esseri che pos-
seggano una coscienza degli scopi; ma essc sorgono, per così
dire, accanto alla coscienza degli scopi propria degli individui,
in virtù di un processo formativo che non ha luogo in essa — e
GEORG SIMMEL 445
ciò già per il fatto che per ottenere quell’effetto sociale è richie-
sta la conformità e la contemporaneità di innumerevoli azioni
di altri, che l'individuo può prevedere soltanto in casi raris-
simi. In breve, dietro le manifestazioni storiche visibili non si
può ipotizzare come loro funzione costante una piena coscien-
za, al fine di interpretarle e di collegarle; ma sebbene una tale
coscienza debba costituire nel complesso il presupposto dello
storico, egli lo sospende abbastanza spesso. Una filosofia della
storia dovrebbe stabilire in quali casi Io storico — guidato dall’i-
stinto o dalla riflessione — astrae dalla conformità cosciente a
scopi nelle azioni umane. Essa dovrebbe cioè indagare quando
dobbiamo porre a base della spiegazione dell’accadere una vo-
lontà e un pensiero cosciente, e quando siamo soliti rinunciare
a tale ipotesi. Il compito specifico non consisterà qui nel deter-
minare per la storiografia leggi pratiche in merito alla giustifi-
cazione di questa o quell’ipotesi. Ciò sarebbe possibile soltanto
alla psicologia. La teoria della conoscenza dovrebbe piuttosto
soltanto stabilire in quali casi al nostro bisogno di spiegazione
basta l’una e in quali l’altra ipotesi. Le rappresentazioni stori-
che — non come devono essere, ma come esse sono realmente
— dovrebbero venir analizzate in base ai princìpi secondo cui,
anche inconsciamente, decidono sull’ipotesi di una coscienza o
di un’inconsapevolezza sottostante alle azioni fisiche.
Presupponendo questa coscienza, passiamo ora a ipotizzare i
suoi contenuti. Anzitutto, anche a questo proposito si tratta di
un presupposto molto generale. Che tali elementi psicologici di
connessione che lo storico aggiunge agli avvenimenti siano veri
oggettivamente, cioè valgano a indicare realmente gli atti di
coscienza delle persone che agiscono, non avrebbe alcun interes-
se per noi se non comprendessimo questi processi in base ai
loro contenuti e al loro corso. Se ciò non avvenisse, quella
interpretazione corretta potrebbe essere ottenuta con qualsiasi
mezzo — come per esempio quando essa non ha bisogno della
ricostruzione psicologica da parte dello storico, ma è in appa-
renza immediatamente data dalle manifestazioni e dalle confes-
sioni delle singole personalità; tuttavia non potremmo conce-
dere ad essa il carattere di verità. Che cosa significa allora
questo comprendere, e quali sono le sue condizioni? La prima
condizione consiste chiaramente nel fatto che quegli atti di
446 GEORG SIMMEL
coscienza vengono riprodotti in noi, cioè che possiamo (come si
dice) « trasferirci nell'anima delle persone ». Comprendere una
proposizione significa che i processi psichici di colui che parla,
consegnati nelle parole, vengono da queste appunto stimolati
nell’ascoltatore; non appena si ha una differenza essenziale tra
le rappresentazioni di due persone, la parola che va dall’una
all'altra viene fraintesa o non è compresa. Una riproduzione
diretta di questo genere ha luogo ed è sufficiente soltanto dove
si tratti di contenuti teoretici di pensiero, per i quali non è
essenziale che essi abbiano il loro punto di partenza nelle rap-
presentazioni proprio di questo individuo. Nelle conoscenze og-
gettive o logiche io mi rapporto all’oggetto del conoscere nell’i-
dentico modo di colui di cui « comprendo » le rappresentazio-
ni; egli me ne comunica soltanto il contenuto e dopo di ciò
viene di nuovo, per così dire, escluso. Da allora il contenuto è
presente parallelamente nel mio pensiero e nel suo, senza dover
subire trasposizioni o modificazioni per il fatto di avere in
questo la propria origine.
Questo rapporto già si modifica in qualche maniera laddove
si tratta non di un semplice processo teoretico di idee, che ci si
può rappresentare come rispecchiamento del comportamento og-
gettivo dello cose (che si offre a tutti nella stessa misura) nelle
forme logiche, ma è in questione la comprensione di processi
soggettivi. Noi pretendiamo tuttavia di comprendere ogni spe-
cie e ogni grado di amore e di odio, di coraggio e di disperazio-
ne, di volontà e di sentire, senza che le manifestazioni in base
a cui comprendiamo tali affetti ci pongano nella stessa parziali-
tà ad essi propria. Tuttavia quel processo psichico che chiamia-
mo comprensione può consistere solamente in una trasformazio-
ne psicologica, in una condensazione o anche in un rispecchia-
mento sbiadito di quegli affetti: in tale processo deve in qual-
che modo-esserci il loro contenuto. Se sopra abbiamo indicato
come compito della storia quello di conoscere non soltanto ciò
che è conosciuto, ma anche ciò che è voluto e sentito, questo
compito può essere risolto solamente in quanto esiste qualche
specie di trasposizione psichica per partecipare al voluto e al
sentito. Infatti quell’essere sentito reale, che ha avuto luogo in
qualche momento del passato, non costituirebbe altrimenti la
condizione sotto la quale avviene ciò che chiamiamo compren-
GEORG SIMMEL 447
sione. Chi non ha mai amato non comprenderà mai colui che
ama, il debole non comprenderà mai l’eroe, né il collerico
comprenderà il flemmatico; e viceversa la nostra comprensione
dei movimenti, dei tratti del volto e delle azioni altrui si
esprime tanto più facilmente quanto più sovente abbiamo noi
stessi sentito gli affetti di cui costituiscono il simbolo; si espri-
me anzi più o meno facilmente nella misura in cui la nostra
situazione interiore del momento ci dispone a sensazioni analo-
ghe o a sensazioni distanti, agevolando o rendendo difficile la
riproduzione psicologica. La ripetizione degli atti di coscienza
che si compiono nell’altro individuo è quindi presente in qual-
che forma — della cui origine non possiamo ancora farci un
quadro positivo — nella comprensione dei propri, ed è indi-
spensabile a questo scopo.
La trasformazione che diventa così necessaria mostra ora un
approfondimento significativo se, più che al contenuto della
comprensione, si guarda al fatto che si tratta del processo
di rappresentazione di un altro, di un non-io, che è appunto
un non-io. Certamente, nel caso di oggetti umani si pongono
in dubbio le conseguenze gnoseologiche della convinzione che
gli oggetti conoscitivi non ci sono dati nel loro in sé, ma
soltanto come rappresentazione. La storia — si potrebbe dire —
ci è accessibile in un modo completamente diverso dalla natura.
La distinzione tra io e non-io avrebbe un senso completamente
diverso se entrambi i termini fossero anime; infatti essi sarebbe-
ro differenti soltanto dal punto di vista numerico, e non in linea
generale, e se nessuno spirito può penetrare all’interno della
natura, potrebbe però penetrare all’interno di un altro spirito
che esso rispecchierebbe in sé in modo del tutto adeguato. Con
un pilastro così esile non è quindi ancora possibile gettare un
ponte sull’abisso tra io e non-io. Anzitutto, la loro identità
generale non elimina la necessità di esteriorizzazioni, di traspo-
sizioni e di simbolizzazioni di ogni sorta che servano a mediar-
li. Un rispecchiamento immediato, una comprensione immedia-
ta derivante dall’identità di natura sarebbe una lettura del pen-
siero e telepatia, oppure presupporrebbe un'armonia prestabilita
non meno mirabile di quella leibniziana. Piuttosto, la stessa cono-
scenza di un processo spirituale costituisce, da parte sua, un
processo che può venire soltanto stimolato e dev'essere compiu-
448 GEORG SIMMEL
to dal soggetto. Ma ciò trasformerebbe alla fine il parallelismo
di fatto da un rapporto diretto in un rapporto indiretto; in
definitiva, nonostante tutte le inevitabili complicazioni, un pro-
cesso psichico potrebbe rispecchiarsi in un’altra anima con la
medesima precisione con cui le parole affidate a un apparecchio
telegrafico si riproducono in quello della stazione ricevente,
anche se ciò che sta nel mezzo e che fa da tramite sono
processi completamenti eterogenei. Ma la difficoltà più profon-
da consiste nel fatto che i processi così prodotti in me, nel
medesimo tempo non sono i miei: io li penso come storici,
anche se li rappresento ed essi sono quindi mie rappresentazio-
ni come processi (e rappresentazioni) di un altro.
E neppure basta, se vogliamo conoscere un altro, che ripro-
duciamo in noi stessi i suoi processi psichici e aggiungiamo:
non sono io, è lui a sentire così! In primo luogo, infatti,
secondo questo presupposto io sento effettivamente così, e quel-
l'aggiunta non può essere i forma di supplemento al contenu-
to, di modo che entrambi rimangano reciprocamente isolati,
ma deve penetrare quel contenuto, accompagnarlo immediata-
mente come suo esponente. Questo sentire ciò che propriamen-
te non sento, questo riprodurre una soggettività che è però
possibile, ancora una volta, soltanto in una soggettività che si
contrappone oggettivamente a quella — ecco l'enigma del cono-
scere storico, per la cui comprensione le nostre categorie logi-
che e psicologiche sono chiaramente strumenti ancora troppo
grossolani. In questo conoscere sono certamente presenti en-
trambi gli elementi — vale a dire il compimento da parte
propria dell’atto in questione e la coscienza che è accaduto in
altri; ma questa è soltanto una scomposizione successiva in
elementi di cui il processo della conoscenza storica non mostra
coscienza alcuna. Qui non si tratta tanto di una scomposizione
successiva di elementi che preesistevano separati, così come nel-
l'intuizione del mondo esterno la sensazione e l'intuizione spa-
ziale non esistono separatamente per poi riunificarsi in quella.
La proiezione di un rappresentare e di un sentire sulla persona-
lità storica è un atto unitario, la cui condizione preliminare è
che io abbia provato nella mia vita soggettiva i processi psichici
in questione. Ma poiché vengono ora riprodotti come rappresen-
tazioni di un altro, essi subiscono una trasformazione psichica
GEORG SIMMEL 449
che li distacca dall’esperienza soggettiva della personalità cono-
scente così come vengono distaccati da quella della personalità
conosciuta. Anche se queste ultime due coincidono in linea
generale, anche se amore e odio, pensiero e volontà, piacere e
dolore sono — come avvenimenti personali nell'anima del sog-
getto conoscente — esattamente i medesimi che hanno avuto
luogo nell’anima dell’oggetto conosciuto, non già la cono-
scenza storica, bensì quel processo di rappresentazione trasfor-
mato dalla proiezione su un altro, costituisce questa identità
immediata. Una cosa del tutto analoga avviene nel rapporto tra
pensiero e materia: se il substrato trascendente dell'anima e
quello del mondo esterno fossero realmente identici, ciò non
comporterebbe ancora che le rappresentazioni che l’anima si fa
del mondo esterno siano effettivamente identiche a quelle che
formerebbe l’in sé del mondo o un suo immediato rispecchia-
mento. La conoscenza del mondo rimarrebbe sempre nelle for-
me di esperienza ad essa proprie, indipendentemente dall’iden-
tità dei substrati che la delimitano da entrambe le parti, anche
se quest’identità istituisce forse la possibilità del rappresentare
in generale. In esatta analogia, l’identità psicologica tra cono-
scente e conosciuto è sì il fondamento, nell’ambito storico, della
possibilità di conoscenza in generale, ma di per sé non significa
ancora che la rappresentazione proiettata fuori del soggetto pos-
segga un'identità di contenuto con i processi soggettivi presen-
ti nella personalità storica.
Non seguirò qui oltre questa metamorfosi, la quale procede
col contenuto psichico primario in quanto questo è reso oggettivo
e con esso sì conosce un’altra personalità: piuttosto, assumendola
come presupposto, metterò l’accento sull'identità psicologica di
contenuto tra il soggetto e l'oggetto del conoscere storico che
questo esige. Se si potessero comprendere i processi storici sem-
plicemente subordinando gli atti psichici i quali si distanziano
troppo da quelli che si compiono nell'anima dell’osservatore, di
fatto non li si comprenderebbe e la loro descrizione susciterebbe
nella nostra anima tanto poca reazione quanto un discorso fatto
in una lingua a noi sconosciuta. In primo luogo, quindi, lo
storico presuppone che la sua anima possa istituire in sé gli
stati psichici dei suoi personaggi, cioè che una qualche analo-
gia, per quanto remota, delle loro azioni accertate con le proprie
29. STORICISMO TEDESCO.
450 GEORG SIMMEL
azioni permetta di concludere che lo sfondo di coscienza, che le
stesse azioni hanno o avrebbero in lui, sia presente anche in
quelli. Quando Ranke esprime il desiderio di dissolvere il pro-
prio io per vedere le cose così come sono state in sé, il compi-
mento di tale desiderio eliminerebbe proprio il risultato che ci
si aspetta. Una volta dissoltosi l’io, non rimarrebbe nulla con
cui cogliere il non-io. L’intromissione dell’io non è un’imperfe-
zione della quale un tipo ideale di conoscenza possa fare a
meno; questa può eliminare soltanto certi aspetti dell'io, ma
voler dissolvere l'io in generale è una contraddizione logica
non soltanto perché esso costituisce, alla fine, il sostegno di
ogni rappresentare in generale — infatti anche Ranke aveva
limitato a questo la sua manifestazione — ma anche perché i
suoi contenuti specifici sono punti di passaggio indispensabili
di qualsiasi comprensione di altri individui. Questa partecipa-
zione simpatetica alle motivazioni delle persone, al complesso e
ai singoli aspetti del loro essere, del quale vengono tramandate
soltanto espressioni frammentarie, questo processo di trasposi-
zione in tutta la molteplicità di un enorme sistema di forze,
ognuna delle quali viene compresa soltanto perché la si rispec-
chia in sé — questo è il senso vero e proprio della pretesa che
lo storico sia e debba essere artista. La concezione comune
secondo la quale questa pretesa sarebbe giustificata solamente
una volta che si sia conclusa la ricerca dei fatti, e limitata-
mente all’esposizione per il lettore, è del tutto errata; infatti
anche il fisico, il filologo, il giurista, in breve ogni studioso che
scriva per gli altri, in particolare per cerchie più vaste, dev’esse-
re artista nell'esposizione. Ma già per il fatto che lo storico
interpreta, elabora, ordina i fatti in modo che producano l’im-
magine coerente di un processo psicologico, la sua attività si
avvicina a quella poetica, e ne risulta distinta soltanto di gra-
do, per la libertà che quest’ultima possiede nell’organizzione
del suo materiale. Una volta che il poeta si è deciso per un
determinato carattere, una volta che ha spinto i rapporti tra i
suoi personaggi in una determinata direzione, anch'egli non è
più libero, e tutto ciò che fa accadere si discosta soltanto in
misura limitata dall’esperienza psicologica media su uomini e
casi analoghi. Se il processo poetico che, muovendo dalla libe-
ra invenzione, deve legarne la successiva organizzazione nell’o-
GEORG SIMMEL 451
pera d’arte definitiva alle leggi conosciute dell’accadere ha per
motto «siamo liberi al primo momento, nel secondo siamo
schiavi», la ricerca storica si limita a rovesciarlo. Nel primo
momento, cioè rispetto al materiale di fatti con cui ha inizio il
suo lavoro, essa è vincolata; invece è libera nell’elaborazione di
tale materiale in una totalità del corso storico, cioè è lasciata
al funzionamento di categorie soggettive e al processo formati-
vo nell’anima dello storico. Ciò che Schopenhauer spiega a
proposito dell’essenza dell’attività estetica — che cioè l’intellet-
to si spoglia della preoccupazione del proprio io per trasferirsi
completamente nell’oggetto da cui non lo separa più nessuna
duplicità di essenza, ma che anzi si rispecchia senza residuo in
esso, cosicché in questo attimo non è affatto altro da quest’og-
getto — rappresenta di fatto, prescindendo dal rivestimento
metafisico, l'elemento decisivo anche per lo storico, anzi per
chiunque acquista una qualsiasi conoscenza storica. Ogni ripro-
duzione e ogni comprensione di un oggetto psicologico signifi-
ca che il soggetto comprendente percorre in sé il processo psi-
chico nella cui conoscenza si immerge e che esso è realmente
— nella misura in cui l’io consiste nel suo processo di rappre-
sentazione — in questo attimo *.
a. Per lo storico la difficoltà particolare consiste nel fatto che egli può
ricavare l'immagine complessiva di una personalità soltanto dalle sue ma-
nifestazioni specifiche, ma d'altro lato può interpretare e raggruppare cor-
rettamente questi elementi soltanto in base all'immagine complessiva della
personalità che sta a loro fondamento. Questo circolo logico viene, al pari
di molti altri simili, risolto nella prassi in quanto gli elementi che si pre-
suppongono a vicenda si sviluppano in un’azione reciproca e gradualmen-
te. La conoscenza assolutamente corretta del carattere e della tendenza com-
plessiva di una persona potrebbe naturalmente essere ottenuta soltanto sul-
la base di un’interpretazione assolutamente corretta delle sue espressioni, e
viceversa; se quindi occorresse l’incondizionata correttezza e completezza
di entrambe le conoscenze, non si potrebbe pervenire a nessuna delle due.
Soltanto perché sia l’una sia l’altra sono ottenute pezzo per pezzo, in quan-
to in entrambe si ha un incremento graduale che dalla congettura e dall'as-
sunzione ipotetica conduce fino alla certezza, ognuna delle due parti serve
all’altra come punto saldamente accertato per la determinazione di un ana-
logo punto dall’altra parte, la cui connessione con punti successivi con-
ferma ulteriormente il primo. Da qualche parte si deve cominciare in mo-
do dogmatico o ipotetico, e soltanto l'attendibilità delle indagini successive
che da esso procedono può decidere sulla verità del fondamento; nell’ele-
452 GEORG SIMMEL
Per quanto riguarda la questione generale attinente alla teo-
ria della conoscenza, non è che lo storico colga le personalità
storiche perché è identico ad esse — infatti questo è appunto
da stabilire — ma presuppone la propria identità con esse per-
ché vuole coglierle e non può farlo altrimenti. Si ha qui lo
stesso rapporto che Kant aveva affermato a proposito della co-
noscenza della natura: noi non conosciamo la realtà perché il
pensiero e l’essere coincidono, ma essi coincidono perché noi
conosciamo la realtà, ossia perché il nostro intelletto introduce
la sue forme conoscitive nell’essere, perché lo elabora come sua
rappresentazione secondo le leggi di cui ha bisogno in vista
dell'esperienza. Lo storico respinge come improbabili o non
vere le azioni tramandate quando esse fanno riferimento a una
base psichica che gli sembra insostenibile nel suo processo .di
penetrazione dello stato psicologico della persona altrimenti
presupposto, e che quindi urta contro la logica dei fatti psicolo-
gici. Nel caso di un’improbabilità esteriore, fisica, la differenza
rispetto al rifiuto della tradizione è chiaramente soltanto gra-
duale, ed esiste soltanto nella misura in cui le leggi fisiche
della natura sono da noi conosciute in modo più certo delle
leggi psichiche.
A proposito di questa riproduzione degli avvenimenti psichi-
ci da parte dello storico occorre considerare due aspetti: in
primo luogo le forze naturali e le categorie presenti nella sua
mento spirituale non solo il fondamento sorregge l'edificio, ma anche l’e-
dificio sorregge il fondamento. Il rapporto della totalità con il particolare,
che ovunque presenta alla metodica del conoscere gli enigmi più ardui,
mostra le proprie difficoltà anche dove si tratta della totalità e della sin-
golarità di un individuo. La medesima difficoltà conoscitiva si presenta in
riferimento all'essenza e alla tendenza di interi popoli e gruppi, di interi
periodi di tempo, oltre che di avvenimenti particolari. Uno dei compiti più
sottili della-teoria della conoscenza sarebbe quello di elevare alla coscien-
za, e di indicare nel caso singolo, il modo effettivo di questa reciprocità —
come la nostra interpretazione storica consideri gli elementi particolari che
sono ambigui, se non privi di senso senza un’immagine del tutto; quali
siano i mutamenti tipici a cui la tendenza generale, assunta a titolo di pro-
va, porta nell’apprendimento degli elementi particolari; se le conoscenze
orientate verso il particolare e verso la totalità siano collocate in modo
stratificato l'una sull’altra; in quale rapporto questi strati si estendano quan-
to più s'innalza l’edificio complessivo, e così via.
GEORG SIMMEL 453
anima, il cui campo di validità delimita l'ambito di ciò che può
in generale essere intelligibile e penetrato simpateticamente
mediante la sua coscienza; in secondo luogo le esperienze di
fatto che dànno contenuto a queste facoltà e a queste forme,
indicando alla coscienza quali, tra le sensazioni e le idee che
sono in generale possibili alla sua anima, vengono realizzate
nel mondo animato che lo circonda. La critica della conoscenza
deve distinguere per bene i due momenti. Lo storico può infatti
respingere alcuni avvenimenti come impossibili e ordinarne al-
tri soltanto in un determinato modo, perché i processi psichici
che dovrebbe altrimenti stabilire non gli sono intelligibili,
cioè non possono essere compiuti da lui stesso. Qui come altro-
ve non si tratterà ovviamente di idee o di impulsi particolari
dei personaggi storici, bensì della connessione tra di loro, del
comparire di un’idea o di un impulso a condizione che ne
siano già stati accolti altri. D'altro lato egli potrà sì seguire
interiormente tali avvenimenti psichici e determinate combina-
zioni tra di essi, che la tradizione sembra offrire, ma dovrà
modificarli perché la sua esperienza della vita gli mostra che è
possibile riprodurli nella fantasia, ma che non si presentano
nella realtà. Qui Ia filosofia della ricerca storica trova i suoi
oggetti di ricerca nelle influenze a cui sono sottoposte da en-
trambi i lati le immagini storiche, e che vengono di solito
osservate almeno nei casi in cui superano troppo la misura
media della soggettività. Le differenze che devono essere istitui-
te non soltanto nella rappresentazione storica, ma anche nella
determinazione, per esempio, del corso della vita di Cesare o di
Gregorio VII o di Mirabeau, a seconda che la natura dello
storico sia grande o limitata, risultano evidenti; lo stesso vale
per quelle che derivano dall'ambito di esperienza dello storico
— se cioè egli ha formato la sua intuizione della vita in base a
ristretti rapporti piccolo- borghesi o nel grande commercio mon-
diale, se in una comunità politicamente sottomessa o in una
comunità libera. In sostanza già lo sappiamo, perché possiamo
immaginarcelo anche senza una particolare considerazione, e
perché vi sono alcuni esempi flagranti che impediscono di tra-
scurare questo fatto. Ma la conoscenza scientifica richiede inda-
gini sul numero più grande possibile di casi, anche proprio su
quelli in cui la soggettività sembra ritrarsi del tutto — inda-
454 GEORG SIMMEL
gini che avrebbero bisogno di quella fine capacità investigativa
che ha prodotto risultati così splendidi soprattutto nella filolo-
gia classica.
Certamente, pregiudizi e toni soggettivi sono sempre correg-
gibili nel caso particolare. Nel momento stesso in cui si pongo-
no in luce e se ne mostra l’origine psicologica, si può anche
prescindere da essi. Ma con ciò si dimentica di solito che,
anche dopo aver rifiutato questa scorza, non rimane soltanto
oro puro, che la nuova conoscenza è sì libera da questo determi-
nato presupposto soggettivo, ma non da ogni presupposto in
generale. Si corregge una data concezione, ma la si corregge
solo introducendone un’altra. Non soltanto i presupposti del
conoscere in generale, dell’intellectus ipse nelle sue forme più
generali, devono essere accettati da ogni contenuto empirico
particolare, poiché a volerne prescindere nell'interesse di una
verità puramente oggettiva non si potrebbe più rappresentare
nulla; ma queste forme universalmente date esistono di nuovo
solo negli spiriti particolari, e quindi nella loro tonalità e modi-
ficazione individuale, di modo che questo spirito individuale
costituisce in certa misura, nella sua tendenza complessiva e
nella sua disposizione caratteriologica, l’a priori per l’a priori
generale nella sua momentanea realizzazione. Comunque ci
rappresentiamo sistematicamente quelle forme universali, esse
hanno soltanto il significato di concetti generali che non si
ritrovano tal quali nella realtà — e qui nella realtà del conosce-
re — ma che compaiono sempre e solo con una differenza
specifica, che si può certo mettere da parte, ma soltanto se se ne
pone al suo posto un’altra. Ciò che concepiamo come unità e
sviluppo del carattere, come coerenza tra scopo e mezzi, come
causazione psicologica, si presenta a ogni uomo che opera con
il loro aiuto non in una forma astratta ma in forma personale,
esercitando i suoi effetti sul materiale storico non come catego-
ria logica — questo sarebbe l’ideale irraggiungibile del conosce-
re — ma come forza psicologica, sostenuta dalla personalità
con il complesso delle sue esperienze, dei suoi istinti, dei suoi
sentimenti. Come nessun uomo è uomo in generale, né consiste
soltanto delle proprietà comuni a tutti gli uomini, così il cono-
scere non è mai un conoscere in generale, né consiste soltanto
dell’esercizio delle forme @ priori universali del pensiero. Si
GEORG SIMMEL 455
può certo costruire l'uomo in generale in modo astratto e sot-
traendo tutte le differenze specifiche, ma non appena si vuol
avere un uomo reale occorre nuovamente aggiungere qualcosa
di specifico e di individuale — anzi, soltanto nell’ambito
di questo lo si può rappresentare intuitivamente; ed esattamente
lo stesso avviene con le forme 4 priori del pensiero e con la
loro conferma pratica *.
Nell’organizzazione del materiale storico in base alle espe-
rienze interne ed esterne dello storico agisce certamente una
grandezza incommensurabile che ne rende assai difficile l’anali-
si gnoseologica. Noi possiamo, nonostante tutto, ricostruire ne-
gli altri — e con la sicura sensazione della loro piena esattezza
— processi psichici che non abbiamo provato né in noi né in
altri. È molto facile spiegare tutto questo come una semplice
trasformazione di esperienze reali. In primo luogo, infatti, il
a. Qui si tratta di un 2 priori singolare, e il cui carattere specifico non
è di facile comprensione. Se ammettiamo l’a priori nella teoria della cono-
scenza, pensiamo a rappresentazioni determinate nel contenuto e da stabi-
lire concettualmente, che si possano poi indicare in modo sempre eguale
nell'esperienza conclusa; cosicché l'universalità e necessità dell’4 priori ne
costituisce la caratteristica essenziale. Qui si tratta però di un « priori il
cui contenuto non è universale ma individuale, e in cui non c’è nulla di
universale e necessario se non il fatto che questa posizione della conoscen-
za viene riempita e determinata da qualche 4 priori, mentre rimane com-
pletamente indeterminato e accidentale quale degli infiniti compimenti pos-
sibili debba avere nel caso presente. La questione così importante per la
critica kantiana, se cioè l’4 priori del conoscere possa esso stesso venir co-
nosciuto 4 priori, trova in questo caso una soluzione in quanto resta ferma
la sua generale necessità 4 priori — cioè la conoscenza che le categorie lo-
giche agiscono soltanto nella tonalità di un’intera individualità — ma il
contenuto specifico di questo 4 priori dell'a priori è del tutto variabile e può
essere costruito solo caso per caso. Che la conoscenza storico-psicologica
accordi all’4 priori dell’individualità un'influenza molto maggiore della co-
noscenza della natura esterna, dipende dal fatto che sulle categorie dell’or-
dine e della valutazione (su cui esso manifesta la sua influenza) non si
può raggiungere, per motivi facilmente spiegabili, un accordo così largo
come quello che si ha in riferimento alle categorie relative al mondo ester-
no. Nel caso di quest'ultime l'individualità non si rileva nella tonalità del-
le categorie logiche perché in tale direzione si hanno soltanto differenze
individuali evanescenti, anche se ben nette per i grandi periodi culturali.
L'elemento logico e l'elemento psicologico possono qui concrescere in una
unità che non vi sarebbe ragione di scindere.
456 GEORG SIMMEL
confine tra forma e materia potrebbe, in questa prospettiva,
essere assai arbitrario e significare più una denominazione ag-
giunta dall’esterno che non una distinzione oggettiva — pre-
scindendo del tutto dal fatto che la formazione spontanea del-
la forma, oppure della materia, non sostituirebbe per noi un
enigma minore; inoltre rimarrebbe ancora da spiegare perché
una forma in cui rechiamo dall’interno il contenuto empirico
dato per altra via possegga appunto quella sicurezza soggetti-
va della sua possibilità e della sua realtà, mentre altre, che
sono altrettanto possibili per la nostra fantasia e che non manca-
no, al pari di quella, di una conferma empirica, non comporta-
no una tale sensazione. Il talento più appariscente e imprevedi-
bile sotto questo aspetto viene di solito designato come geniali-
tà: il genio sembra creare da sé le conoscenze che l’uomo non
geniale può ricavare soltanto dall'esperienza. In base agli stimo-
li più tenui si presenta nel genio un’immagine intimamente
coerente e convincente di processi spirituali, di connessioni di
idee e di passioni di personaggi storici, della cui mentalità non
esistono più esempi da gran tempo; accostando gli elementi più
disparati e interpretando quelli più straordinari, la sua fan-
tasia domina un materiale che non può avergli messo a disposi-
zione la sua esperienza. Accontentarsi di una completa inespli-
cabilità di questa genialità storico-psicologica è quindi partico-
larmente pericoloso, perché la questione non riguarda soltanto
pochi grandi geni, ma tra questi e l’uomo comune vi sono
innumerevoli manifestazioni intermedie, anzi proprio quest’ul-
timi mostrano abbastanza spesso le premesse occasionali della
riproduzione geniale, apparentemente sovra-empirica, di proces-
si psichici ad essi altrimenti estranei. Questo fatto ci tocca
tanto più da vicino, in quanto il genio storico può, a sua volta,
soltanto affidare le sue deduzioni a parole le quali possono
stimolare e agevolare negli altri i processi che rivestono interes-
se per lui, ma le quali devono in definitiva lasciarne a loro il
compimento. Per non dover considerare del tutto come un mi-
racolo questo grande campo della comprensione di processi
psichici che non sono oggetto della propria esperienza, possia-
mo interpretarla come un processo in cui diventano coscienti
certe disposizioni ereditarie latenti. Le generazioni precedenti
hanno lasciato in eredità alle successive, in una forma qualsiasi,
GEORG SIMMEL 457
le modificazioni organiche connesse in modo non ancora spiega-
to ai loro processi psichici; la smisurata ricchezza, la pic-
colezza e la reciprocità delle singole parti di questa eredi-
tà non pervengono però in generale a una chiara coscienza.
Ora, noi chiamiamo genio un uomo in cui questo insieme dato
è ordinato in modo così favorevole che la sua riproduzione ha
luogo facilmente, in base a stimoli minimi, e perviene in misura
sufficiente a una chiara coscienza. In lui si compiono processi
psichici quanto mai lontani dalla sua esperienza individuale,
perché essi sono immagazzinati nel suo organismo come ricordi
della specie ed eccezionalmente in modo che le innumerevoli
contro-tendenze e gli innumerevoli offuscamenti che scaturisco-
no dalla stessa fonte non li escludono dalla coscienza. In ba-
se a ciò comprendiamo anche gli occasionali lampi di genio
di persone per altri versi non geniali, e la generale possibi-
lità di seguire la comprensione aperta dal genio, se alle di-
sposizioni ereditarie presenti anche in loro vengono assicu-
rati, attraverso la chiara espressione e stimolazione di grup-
pi affini, gli aiuti psicologici necessari per arrivare alla co-
scienza. La dottrina mistica di Platone, secondo cui ogni ap-
prendere non è che un ricordare!, assumerebbe così un senso
reale. Se riproduciamo in noi uomini da tempo scomparsi con
tutta la ricchezza dei loro più intimi impulsi, se il loro caratte-
re — formatosi in condizioni completamente estranee, mai vi-
ste da noi — viene incontro al nostro sguardo emergendo da
una tradizione frammentaria, è chiaramente vano voler spiega-
re questa capacità in base alle esperienze della vita individuale
nello stesso modo in cui non si può derivare da questa fonte la
conformità allo scopo di movimenti istintivi o la direzione e la
correttezza degli impulsi etici. Come il nostro corpo racchiude
in sé le acquisizioni di uno sviluppo millenario e conserva
ancora immediatamente in organi rudimentali le tracce di epo-
che precedenti, così il nostro spirito contiene — come mostra
la più semplice riflessione — i risultati e le tracce di processi
psichici trascorsi dei più diversi gradi di sviluppo della specie.
L'intera misura della nostra comprensione, anche per quegli
esseri viventi che si discostano molto dal nostro modo di senti-
I. Simmel si riferisce qui alla teoria della reminiscenza, esposta nel Fedone.
458 GEORG SIMMEL
re, può quindi venire dal fatto che l'eredità della specie contie-
ne però, oltre al nostro carattere essenziale, tracce del carattere
degli antenati e ci rende così possibile il comprendere — vale a
dire il compimento dei loro medesimi processi psichici. Il cono-
scitore geniale di uomini è soltanto l’erede prediletto (per que-
sto aspetto) della specie, e lo storico geniale rappresenta solo
un suo rafforzamento. Infatti la comprensione storica è distinta
solo per grado dalla comprensione dei personaggi e dei rappor-
ti contemporanei. Anche questi ultimi ci offrono fenomeni este-
riori, non mai completi, e dal punto di vista dell’empiria sensi-
bile ogni altro uomo è per noi un automa, ogni sua parola è
mero suono, in cui possiamo introdurre un’anima soltanto in
base al nostro proprio io. Il processo del conoscere storico è
solo quantitativamente differente dal processo del comprendere
che noi compiamo sull’esteriorità di tali immagini: esso trova
soltanto un materiale molto più incompleto e incoerente, indica-
zioni ancora più insicure, uno spazio ancora maggiore per le
congetture e una necessità più comprensiva. Ma se per tutto
ciò dobbiamo rimandare alle oscure disposizioni ereditarie che
ci rendono comprensibile anche ciò che non abbiamo vissuto di
persona, la scissione tra i presupposti universalmente validi,
che applichiamo agli avvenimenti per poterli comprendere, e le
interpretazioni soltanto personali, si aggrava straordinariamen-
te. Se la comprensione geniale — ma anche ogni altra forma di
comprensione — dell’accadere storico scaturisce da questa fon-
te, ai nostri strumenti conoscitivi è del tutto precluso scompor-
re analiticamente quei presupposti fino ai loro elementi ultimi
e ricondurli alle loro fonti; per questi casi dovrà bastare una
constatazione e una registrazione di fatto.
Se la ricostruzione psicologica del consueto contenuto stori-
co procede con relativa sicurezza e in accordo generale, ciò
deriva dal fatto che qui si tratta essenzialmente di interessi c
di movimenti di interi gruppi, e che essi costituiscono il fonda-
mento e il punto di arrivo anche delle azioni dei singoli perso-
naggi storici. Questi sono straordinariamente più semplici e
univoci delle condizioni individuali. Nel caso di grandi mas-
se si tratta sempre delle basi primarie dell’esistenza, degli inte-
ressi generali, grandi e grossi, in cui molti uomini possono
incontrarsi e al di sopra dei quali si sollevano solamente le
GEORG SIMMEL 459
individualizzazioni più sottili e difficili dei moti psichici.
Nello stesso modo in cui una collettività non può dissimulare
di proposito la sua volontà e il suo pensiero — cosa che è
invece possibile all'individuo — essa non lo fa neppure involon-
tariamente, ma documenta invece le sue tendenze, le sue azioni
e reazioni psichiche con la stessa chiarezza delle manifestazio-
ni degli impulsi semplici propri di una massa in quanto tale,
contrapposti agli impulsi differenziati di una persona. Proprio
per questo motivo le basi psichiche dei movimenti storici diven-
tano ora più comprensibili a chiunque: quanto più è sicuro che
in ogni individuo si trovano gli interessi più bassi e primiti-
vi, e quindi ereditati da più lungo tempo, tanto più probabile
gliene riuscirà la riproduzione. Dove sono in gioco questioni
puramente individuali, la diversità delle individualità impedi-
rà spesso la riproduzione, cioè la comprensione; ma ciò che
vogliono gruppi interi — e che l’individuo vuole in relazione
ad essi — è presente con alto grado di sicurezza in ogni
individuo, e può quindi essere stimolato. Perciò anche nel cono-
scere storico si cela la soggettività e la personalità della penetra-
zione simpatetica, che attribuiamo più facilmente ai processi
della personalità singola. Assumendo come oggetto i processi
psichico-sociali e penetrandoli simpateticamente, noi non abbia-
mo l’idea di essere relegati nella nostra soggettività e nell’acci-
dentalità delle sue esperienze interne, ma dobbiamo rappresen-
tarci qualcosa di oggettivo. E tuttavia questo elemento oggetti-
vo è, qui come altrove, soltanto un elemento soggettivo molto
generale, e contiene solo sensazioni che sembrano rimosse dal-
la sfera personale perché nessuna personalità può sottrarsi ad
esse. Ma, alla base, anche le sensazioni che portano in luce
movimenti sociali (la necessaria sovra- e subordinazione nei
gruppi, l'unificazione per scopi generali o la divisione in vista
dell’utilità individuale, l'elevazione e la trasformazione da par-
te di idee religiose e politiche) possono essere valutate, anzi
constatate, soltanto in virtù di una penetrazione simpatetica di
carattere personale. Anche quello che, in movimenti del gene-
re, pensiamo di poter cogliere con le mani, possiamo in realtà
coglierlo soltanto con l’anima.
La diversità dell’ priori con cui interpretiamo e ordiniamo
i fatti storici trova quindi propriamente la sua manifestazione
460 GEORG SIMMEL
più appariscente in un punto del tutto differente, cioè quando
la rappresentazione è diretta da un pregiudizio determinato nel
contenuto. Il caso più decisivo è quello in cui una tendenza
preesistente assegna alla ricerca il fine a cui deve pervenire,
considerandola e presentandola come corretta e compiuta soltan-
to nel momento in cui vi perviene — proprio come si dichiara
corretta una qualsiasi ricerca soltanto se soddisfa la legge causa-
le. Se qui prescindiamo dalle falsificazioni coscienti o semi-con-
sapevoli che avvengono per scopi pratici, personali o di partito,
soprattutto la difficoltà trattata nella nota di pp. 451-52 aprirà un
vasto campo all’a priori tendenzioso. Alcuni elementi particola-
ri di una personalità o di un periodo sono dati; in base ad essi
si forma un'immagine della loro totalità e del loro carattere
interno; a questo punto nuovi elementi particolari verranno
molto facilmente considerati apocrifi se non si adattano a que-
sta immagine già fissata, oppure saranno modificati fin quando
non si accordano con essa. La convinzione oggettiva orientata
in questo senso riceverà facilmente appoggio dagli interessi
dell'animo: quando, per esempio, in certi momenti sorge l’im-
pressione di un carattere grandioso o di elevata eticità, allora
subentra un interesse personale per esso che stabilirà in una
direzione determinata i presupposti per l’apprendimento di
ogni fatto futuro. Anche qui si fa valere il significato psicologi-
co della prima impressione. Come le prime convinzioni della
vita trovano ancora sgombro il campo dello spirito e possono
stabilirsi in vario modo con una forza che non incontra ostaco-
li, in modo da decidere dell’accettazione o del rifiuto delle
convinzioni future, così lo stesso processo si ripete per il partico-
lare campo e problema del conoscere. Il giudizio ricavato in
modo impregiudicato dal primo fenomeno diventa pregiudizio
rispetto al secondo, e ogni fenomeno che si presenti successiva-
mente trova davanti a sé una direzione prestabilita dell’intuire
e del giudicare, da cui viene abbastanza sovente trascinato sen-
Za opporre resistenza o almeno costretto a un compromesso. È
facile scorgere che qui siamo davanti a un problema a due
facce: l’una rivolta verso l’aspetto soggettivo, alla forza di
gravità del pensiero che tende a mantenerlo nella direzione già
presa, cioè nel pregiudizio soggettivo che assume 4 priori il
vecchio a criterio del nuovo; l’altra rivolta verso l’aspetto ogget-
GEORG SIMMEL 461
tivo, in quanto nelle persone e negli avvenimenti viene presup-
posta l’unità e la continuità che quella tendenza psicologico-sog-
gettiva sembra rendere possibile e giustificare. La questione
della parte rispettiva dell’oggetto e del soggetto nella conoscen-
za, da Kant limitata in modo inopportuno ai rapporti più
generali che sono immodificabilmente comuni a tutti i processi
del pensiero, sorge anche di fronte a questi processi specifici del
conoscere, diretti da princìpi già molto complessi. Quell’unità
caratteriologica sia degli individui che dei gruppi appartiene
chiaramente ai presupposti 4 priori di ogni ricerca storica*.
Ora, però, questa unità non è qualcosa di formale, non è uno
schema generale in base a cui sia possibile determinare in antici-
po il rapporto dei suoi contenuti empirici. Un errore profondo
è insito nella fede che in base all'unità della personalità uma-
na si possa inferire il suo comportamento necessario secondo
a. Attraverso una singolare svolta dell’unità così presupposta viene al-
la luce il quadro delle manifestazioni di interi gruppi. Soltanto singole vo-
ci o singoli accidenti diventano di solito consapevoli in modo esatto; sol-
tanto quando si collocano in un ambito tenuto insieme da interessi o da
legami noti per altra via, essi sono manifestazioni dell’insieme di tale am-
bito. Come dell’individuo sono sempre note soltanto singole manifestazio-
ni, che tuttavia circoscrivono per noi l'insieme della sua personalità, così
i sintomi particolari si estendono a partire da un gruppo fino a un movi-
mento psichico — caratterizzato in modo determinato — del gruppo nella
sua totalità. Cito a caso dalla Romische Geschichte di THEoDoR MoMmMSsEN
(Berlin, 1854-55): « un grido di sdegno attraverso l’Italia intera » (vol. II,
p. 145); Mario si dimostrò «un condottiero che manteneva ? soldati di-
sciplinati e tuttavia di buon animo, guadagnandone al tempo stesso l’amo-
re con un rapporto cameratesco » (vol. II, p. 192); l'aristocrazia « non si
dette la minima pena di nascondere la sua rabbia e la sua apprensione »
(vol. III, p. 190); « i partiti respirarono » (vol. III, p. 193). E da Die Cultur
der Renaissance in Italien di Jacos BurcKHarDT (Basel, 1860): « con un’in-
genuità terrificante Firenze confessa la sua simpatia guelfa per i Francesi »
(vol. I, p. 89); « nei momenti cattivi sorge qua e là la vampa della peni-
tenza medievale, e il popolo impaurito vuole impietosire il cielo con flagel-
lazioni e alte invocazioni di misericordia » (vol. II, p. 232). Mentre l’unità
dello sviluppo caratteriologico costruisce una successione completa in ba-
se a singoli elementi dati, qui si ha la stessa cosa per la loro coesistenza
l'uno accanto all'altro. Come là viene presupposta l’anima individuale, qui
viene presupposta per così dire l’anima sociale come talmente unitaria che
il dato immediato, rna solo frammentario, permette anche di inferire un'e-
guale costituzione di ciò che non è dato.
462 GEORG SIMMEL
certe norme e certe conseguenze. Al contrario, osserviamo piut-
tosto un certo ordine e una certa serie di sviluppo dei fenome-
ni psichici che li percorre tutti, e l’unità della personalità è
solamente un nome che designa la loro connessione di fatto —
non già una connessione da costruire in modo puramente logi-
Parlando di questa unità in generale s'intende che le
azioni e le rappresentazioni di un uomo sono costituite in mo-
do che noi le comprendiamo come produzioni di un'anima
numericamente semplice e immutabile. Ma dal momento che
si tratta di una semplice x di cui non possiamo dire nulla di
più, l’unità di tale essere significa che possiamo ricondurre
l’una all’altra le rappresentazioni dell’uomo e spiegarle recipro-
camente. C’è però bisogno di certi princìpi il cui dominio
ci rappresenta l’unità della personalità, la quale non può essere
percepita immediatamente. Se individuiamo quindi l’unità del-
la personalità nel fatto che quest'uomo, la cui vita è amareggia-
ta da una pesante sventura, vede anche nel mondo che lo
circonda soltanto dolore e dissonanze, e se diciamo che si
tratta dello stesso elemento per il quale egli teme sempre
nuova sventura per sé e rende difficile la vita ai suoi simili,
noi conosciamo appunto delle regole psicologiche in base a cui
possiamo ricondurre geneticamente tali processi l’uno all’altro.
Queste sintesi non sono intelligibili perché siano unitarie, ma
le chiamiamo unitarie perché sono intelligibili; e ci appaiono
intelligibili perché siamo abituati a osservarle. Perciò non si
reca alcun disturbo all'unità della personalità se accanto al
proprio dolore si scorge l'aspirazione a rendere felici gli altri,
o se accanto ad esso emerge, in certo senso come surrogato, un
ottimismo teoretico — come spesso accade in uomini fisicamen-
te disgraziati. In un avaro, l’unità della sua personalità ci
sembra garantita sia ch’egli non ceda ciò che ha ottenuto in
vista di alcuna probabilità futura, sia che lo getti a piene mani
non appena speri in un guadagno da usura. I fenomeni conside-
rati in sé e per sé, e in base al loro contenuto, non sono ancora
decisivi rispetto al fatto di costituire un’unità, ma sono decisivi
soltanto rispetto alla possibilità di scoprire, in base a qualche
regola nota, un legame causale tra di essi. Così noi ipotizziamo
da un lato un’affinità di contenuto tra le azioni di un indivi-
duo, dall’altro una certa dissomiglianza — quando cioè circostan-
GEORG SIMMEL 463
ze esterne mutate influenzano il suo agire. E mentre ciò pre-
suppone l’immutabilità del nucleo interno, proprio una trasfor-
mazione di questo nucleo rientra nell'immagine di una persona-
lità unitaria quando si prendano in considerazione le diverse
età della vita. La conclusione che si trae, in base a certi modi
di azione di una persona, in merito alla possibilità o all'impossi-
bilità di altri modi di azione non è una conclusione logica
immediata, ma dipende da un'esperienza psicologica reale as-
sunta come premessa maggiore. C’è appena bisogno di accenna-
re all'influenza che tutto questo — e la sua estensione a pe-
riodi e a gruppi — esercita sulla costruzione del processo stori-
co, sull’interpretazione dei fatti particolari, sull’integrazione
della tradizione e sulla sua critica. Il compito più importante
per la filosofia della ricerca storica sarebbe ora quello di deter-
minare le norme particolari che assumiamo — sulla base del-
l’« unità » dei caratteri — come criteri delle tradizioni e come
veicoli di rappresentazione; la latitudine entro la quale spie-
ghiamo tuttavia come possibili azioni divergenti; gli sviluppi e
le modificazioni che riteniamo ovvie seguendo il principio inter-
no della personalità, e quelle per cui dobbiamo invece cercare
una spiegazione nelle circostanze esterne. Vi sono indubbiamen-
te procedure ben precise di questo genere, in base alle quali si
agisce, che vengono tacitamente presupposte tra lo storico e il
lettore, ma alla cui consapevole constatazione non si è ancora
pervenuti. Un problema ancora più profondo si apre poi quan-
do indaghiamo sulla duplicità di motivazione, sopra menziona-
ta, della presupposta unità dei soggetti storici: in quale mi-
sura l’esperienza psicologica oggettiva e in quale misura la
tendenza soggettiva al rafforzamento della capacità di pensiero
e alla semplificazione della conoscenza cooperano nella forma-
zione delle immagini storiche — vale a dire alla formazione
che in base ai fatti originariamente dati abbozza uno schema
del processo successivo, limitando così la portata della divergen-
za caratteriologica da ciò che si era stabilito all’inizio. Nel
caso dei presupposti più generali con cui elaboriamo il materia-
le della conoscenza — gli assiomi matematici, le rappresentazio-
ni primarie di sostanza e di forza, la legge causale, i princìpi
logici e così via — tale questione può trovare risposte più
semplici. L’idealismo deriverà senz'altro questi presupposti dal
464 GEORG SIMMEL
soggetto, negando qualsiasi partecipazione dell’oggetto e dell’e-
sperienza al loro sorgere. Il realista empirico, al contrario,
affermerà proprio per queste rappresentazioni fondamentalissi-
me l’accordo incondizionato con l’oggetto, e la loro fonda-
zione nell’esperienza continua di esso. Una così chiara separazio-
ne di principio non è possibile nella nostra questione. Già
l’identità generale tra l’anima che indaga e l’anima che è indaga-
ta rende probabile che le tendenze più generali della prima
trovino un riflesso nella seconda, giustificando quindi la loro
assunzione, e che il risultato della ricerca sia determinato nello
stesso senso da entrambi i lati. Il realista deve concedere che
abbastanza spesso, e in modo abbastanza osservabile anche sen-
za una critica particolare, presupposti e massime soggettive
che servono all’unità e alla semplicità del pensiero sono deci-
sivi per l'elaborazione storica. D'altra parte, anche ammetten-
do le influenze psicologiche di più vasta portata su tale elabora-
zione, non si potrà negare che, pur con la rinuncia a ogni
convinzione monistica che ci si porta dietro, la realtà offre
prove sufficienti in favore dell’interpretazione realistica; e in
generale, quanto più alti e complicati sono gli ambiti a cui ci
solleviamo, tanto più è impossibile separare di un tratto e con
un'alternativa netta i loro elementi costitutivi 4 priori e quelli
a posteriori. Uno dei compiti più alti della filosofia della storia
potrebbe essere però la determinazione dei loro limiti e in
particolare della loro azione reciproca, il vicendevole rafforza-
mento tra il fattore soggettivo e il fattore empirico di quella rap-
presentazione di un'unità presente negli uomini, negli avveni-
menti, nei gruppi e nelle epoche.
Queste considerazioni possono essere riassunte nella proposi-
zione: la psicologia è l’4 priori della scienza storica. Il
compito della teoria della conoscenza nei suoi confronti è quel-
lo di determinare le regole mediante le quali si perviene, in
base ai documenti e alle tradizioni esteriori, ai processi psichi-
ci, e le regole sufficienti a istituire una connessione « intelligibi-
le» tra questi ultimi.
IL PROBLEMA DELLA SOCIOLOGIA *
Se è vero che il conoscere umano si è sviluppato partendo
da necessità pratiche, perché la conoscenza del vero è un’arma
nella lotta per l’esistenza tanto nei confronti dell’essere extra-
umano quanto nella concorrenza degli uomini tra di loro, da
lungo tempo esso non è però più legato a questa origine, e da
semplice mezzo per gli scopi dell'agire è diventato esso stesso
uno scopo definitivo. Ciononostante il conoscere, perfino nella
forma sovrana della scienza, non ha rotto dappertutto le rela-
zioni con gli interessi della prassi, anche se esse non si presenta-
no ora come meri effetti di quest'ultima, bensì come azioni
reciproche dei due domini esistenti ciascuno per diritto autono-
mo. Infatti non soltanto il conoscere scientifico si presta, nella
tecnica, alla realizzazione di fini esteriori della volontà, ma,
d’altro lato, dalle situazioni pratiche, interne ed esterne, sorge
il bisogno di comprensione teorica; talvolta si manifestano nuo-
ve direzioni di pensiero, e con il loro carattere puramente astrat-
to gli interessi di un nuovo modo di sentire e di volere penetra-
no nella problematica e nelle forme della vita intellettuale.
Così le pretese che la scienza sociologica ama far valere costitui
scono la prosecuzione e il rispecchiamento teorico della potenza
pratica raggiunta nel secolo xtx dalle masse rispetto agli inte-
ressi dell'individuo. Il fatto che il senso di importanza e l’atten-
zione che i ceti inferiori pretendono da quelli superiori sia
sostenuto proprio dal concetto di « società » dipende però dalla
* Soziologie: Untersuchungen îiber die Formen der Vergesellschaftung, cap. 1:
Das Problem der Soziologie, Leipzig, Verlag von Duncker und Humblot, 1908,
Pp. 1-46 (traduzione di Giorgio Giordano, per i «Classici della sociologia » delle
Edizioni di Comunità).
30. STORICISMO TEDESCO.
466 GEORG SIMMEL
circostanza che, in virtù della distanza sociale, i primi si presen-
tano agli altri non nei loro individui, ma soltanto come massa
unitaria, c che appunto questa distanza non permette agli uni e
agli altri di essere uniti sotto alcun altro aspetto di principio se
non quello che essi costituiscono insieme «una società ». Dal
momento che le classi, la cui efficacia risiede non già nell’im-
portanza percepibile dei singoli, bensì nel loro essere « socie-
tà », attiravano su di sé la coscienza teorica — in conseguenza
dei rapporti di forza pratici — il pensiero si accorse a un
tratto che ogni fenomeno individuale è determinato in genere
da un'infinità di influenze provenienti dalla sua cerchia ambien-
tale umana. E quest’idea acquistò per così dire forza retrospetti-
va: accanto a quella presente, anche la società passata apparve
come la sostanza che costituiva l’esistenza individuale, così co-
me il mare costituisce le onde. Qui parve conquistato il terreno
in base alle cui forze diventavano suscettibili di spiegazione le
forme particolari nelle quali esso formava gli individui. Questo
orientamento di pensiero fu favorito dal relativismo moderno,
cioè dalla tendenza a risolvere il singolare e il sostanziale in
azioni reciproche; l'individuo era solamente il luogo în cui si
collegano dei fili sociali, la personalità era soltanto il modo
particolare in cui ciò accade. Una volta raggiunta la coscienza
del fatto che ogni agire umano si svolge nell’ambito della socie-
tà e che nessun agire può sottrarsi alla sua influenza, tutto ciò
che non era scienza della natura esterna doveva essere scienza
della società. Questa appariva come il territorio onnicomprensi-
vo in cui si trovavano insieme l’etica e la storia della cultura,
l'economia politica e la scienza della religione, l’estetica e la
demografia, la politica e l’etnologia, poiché gli ‘oggetti di que-
ste scienze si realizzavano nel quadro della società: la scienza
dell’uomo si configurava come scienza della società. A_ questa
concezione della sociologia come scienza di tutto ciò che è
umano in generale contribuì il fatto che essa era una scienza
nuova e che di conseguenza verso di essa si affollavano tutti i
possibili problemi che non trovavano altrove una sede precisa
— così come un territorio scoperto da poco diventa sempre, in
principio, l’eldorado di esistenze senza patria e sradicate: l’ine-
vitabile indeterminatezza c mancanza di protezione dei confini
dànno a ognuno il diritto di insediarvisi. Considerato però più
GEORG SIMMEL 467
da vicino, questo ammassamento di tutti i precedenti campi del
sapere non ne produce affatto uno nuovo. Esso significa soltan-
to che tutte le scienze storiche, psicologiche, normative ven-
gono versate in un grande calderone al quale viene attaccata
l'etichetta di sociologia. In tal modo si sarebbe dunque trovato
soltanto un nuovo 707, mentre tutto ciò che esso designa è
ià stabilito nel suo contenuto e nei suoi rapporti o viene pro-
dotto nell’ambito dei settori di ricerca precedenti. Il fatto che
il pensiero e l’agire umano si svolgano nella società e siano
determinati da essa non fa della sociologia la scienza onnicom-
prensiva di quello, così come non si possono trasformare la
chimica, la botanica e l’astronomia in contenuti della psicolo-
gia per il fatto che i loro oggetti diventano in definitiva reali
soltanto nella coscienza umana e sottostanno ai presupposti di
questa.
Alla base di questo errore sta un fatto certamente frainteso,
ma di per sé molto significativo. L’intuizione che l’uomo è, in
tutta la sua essenza e in tutte le sue manifestazioni, determina-
to dal fatto di vivere in azione reciproca con altri uomini deve
certo condurre a una nuova forma di considerazione in tutte
le cosiddette scienze dello spirito.” Non è ora più possibile spie-
gare i fatti storici, nel senso più ampio della parola, cioè i
contenuti della cultura, i tipi di economia, le norme della mora-
lità partendo dall’uomo singolo, dal suo intelletto e dai suoi
interessi e, dove ciò non riesce, ricorrere subito a cause metafisi-
che o magiche. Per esempio, a proposito del linguaggio non si è
più posti di fronte all’alternativa se esso sia stato inventato da
individui geniali oppure dato da Dio agli uomini; nelle forme
della religione non c’è più bisogno di distinguere l’invenzione
di astuti sacerdoti e la rivelazione immediata, e così via. Piutto-
sto noi crediamo ora di comprendere i fenomeni storici in base
all’agire reciproco e all’agire in comune degli individui, in
base alla somma e alla sublimazione di innumerevoli contributi
individuali, in base al concretarsi delle energie sociali in forma-
zioni che stanno e si sviluppano di là dell'individuo. La sociolo-
gia, nella sua relazione con le scienze esistenti, è quindi un
nuovo metodo, uno strumento ausiliario della ricerca, per avvi-
cinarsi ai fenomeni di tutti quei campi in modo nuovo. Con
ciò essa non si comporta in maniera essenzialmente diversa da
468 GEORG SIMMEL
quella in cui si comportava a suo tempo l'induzione, la quale
penetrava come nuovo principio di ricerca in tutte le scienze
possibili, si acclimatava per così dire in ognuna di esse e l’aiuta-
va a trovare nuove soluzioni nell’ambito dei compiti stabiliti.
Ma come l’induzione non costituisce per questo una scienza
particolare o addirittura una scienza onnicomprensiva, così
non lo diventa, per gli stessi motivi, la sociologia. Nella
misura in cui si appoggia alla considerazione che l’uomo dev’es-
sere compreso come essere sociale e che la società è la porta-
trice di ogni accadere storico, essa non contiene alcun oggetto
che non venisse già trattato in una delle scienze esistenti, ma è
soltanto una nuova via per tutte queste, un metodo scientifico
che non costituisce — proprio per la sua applicabilità alla totali-
tà dei problemi — una scienza a sé.
Ma quale può essere l’ oggetto proprio e nuovo, la cui indagi-
ne fa della sociologia una scienza autonoma e dai confini deter-
minati? È ovvio che per questa sua legittimazione quale scien-
za nuova non occorre la scoperta di un oggetto la cui esistenza
fosse prima ignota. Tutto ciò che indichiamo in generale come
oggetto è un complesso di determinazioni e di relazioni di cui
ciascuna, proiettata su una pluralità di oggetti, può diventare
oggetto di una scienza particolare. Ogni scienza poggia su
un’astrazione, in quanto considera la totalità di una qualche
cosa, che non possiamo afferrare in modo unitario per mezzo
di nessuna scienza, secondo uno dei suoi aspetti, cioè dal
punto di vista di un determinato concetto. Di fronte alla totali-
tà della cosa e delle cose ogni scienza si sviluppa attraverso la
loro scomposizione — in base alla divisione del lavoro — in
qualità e funzioni particolari, dopo che si è trovato un con-
cetto che permette di individuare quest'ultime e di coglierle
nel loro ricorrere nelle cose reali secondo connessioni metodi-
che. Così, per esempio, i fatti linguistici che vengono ora rag-
gruppati a costituire il materiale della linguistica comparativa
esistevano già da lungo tempo in fenomeni trattati scientifica
mente; ma quella scienza particolare sorse con la scoperta del
concetto sotto il quale quei medesimi fenomeni, prima separati
nei diversi complessi linguistici, si coordinano in maniera unita-
ria e vengono regolati da leggi specifiche. Così anche la sociolo-
gia come scienza particolare potrebbe trovare il suo oggetto
GEORG SIMMEL 469
particolare soltanto tracciando una nuova linea attraverso certi
fatti che, in quanto tali, sono perfettamente noti; solo che fino
ad ora non era diventato operante appunto il concetto il quale
consente di riconoscere l’aspetto di questi fatti che cade su
uella linea, come l’aspetto comune ad essi tutti e costituente
un'unità metodico-scientifica. Di fronte ai fatti quanto mai
complicati della società storica, assolutamente non coordinabili
sotto un rico punto di vista scientifico, i concetti della politi-
ca, dell'economia, della cultura ecc. producono tali serie cono-
scitive sia collegando certe parti di quei fatti — ad esclusione
o con il concorso soltanto accidentale degli altri — in processi
storici singolari, sia individuando i raggruppamenti di elementi
che, indipendentemente dal singolo «qui » e «ora», comporta-
no una connessione atemporalmente necessaria. Se deve dunque
esserci una sociologia come scienza particolare, occorre per-
tanto che il concetto di società in quanto tale sottoponga i dati
storico-sociali — al di là della raccolta estrinseca di quei feno-
meni — a un nuovo processo di astrazione e di coordinamento,
in modo che certe determinazioni degli stessi, prima considera-
te in altre e molteplici relazioni, vengano riconosciute come
reciprocamente connesse e quindi come oggetti di un’urica
scienza.
Questo punto di vista risulta da un’analisi del concetto di
società, che si può designare come distinzione tra forma e
contenuto della società — sottolineando che qui si tratta pro-
priamente soltanto di un paragone per dare approssimativamen-
te un nome all’antitesi degli elementi da distinguere: quest’an-
titesi dovrà essere colta direttamente nel suo senso singolare,
senza essere pregiudicata da altri significati di questi nomi
provvisori. In ciò prendo le mosse dalla rappresentazione più
ampia della società, da quella che evita il più possibile la pole-
mica sulla sua definizione: che essa esiste là dove più individui
entrano in azione reciproca. Quest’azione reciproca sorge sem-
pre da determinati impulsi o in vista di determinati scopi.
Impulsi erotici, religiosi o semplicemente socievoli, scopi di
difesa e di attacco, di gioco e di acquisizione, di aiuto e di
insegnamento, nonché innumerevoli altri, fanno sì che l’uomo
entri con altri in una coesistenza, in un agire l'uno per l’altro,
con l’altro e contro l’altro, in una correlazione di situazioni,
470 GEORG SIMMEL
ossia che eserciti effetti sugli altri e ne subisca dagli altri.
Queste azioni reciproche significano che dai portatori individua-
li di quegli impulsi e scopi occasionali sorge un'unità, cioè
appunto una « società ». Infatti l’unità in senso empirico non è
altro che azione reciproca di elementi: un corpo organico è
un'unità perché i suoi organi stanno tra loro in uno scambio
reciproco di energie più stretto che con qualsiasi essere ester-
no; uno stato è 470 perché tra i suoi cittadini sussiste il corri-
spondente rapporto di influenze reciproche; e non potremmo
considerare come unitario neppure il mondo se ognuna delle
sue parti non influenzasse in qualche modo ogni altra parte,
se la reciprocità, comunque mediata, delle influenze fosse elimi-
nata. Quella unità o associazione può presentare gradi molto
diversi, secondo il modo e la prossimità dell’azione reciproca —
dall’effimera riunione per una passeggiata alla famiglia, da tut-
ti i rapporti validi « fino alla disdetta » all’appartenenza a uno
stato, dal fuggevole insieme di una compagnia di albergo all’in-
tima unione di una gilda medievale. Tutto ciò che negli indivi-
dui, nei luoghi immediatamente concreti di ogni realtà storica
è presente come impulso, interesse, scopo, inclinazione, situazio-
ne psichica e movimento, in modo che da ciò o in ciò sorga
l’azione su altri o la recezione delle loro azioni — tutto ciò lo
designa come il contenuto, quasi come la materia dell’associa-
zione. In sé e per sé questi materiali di cui è piena la vita,
queste motivazioni che la sospingono, non sono ancora di carat-
tere sociale. Né la fame o l’amore, né il lavoro o la religiosità,
né la tecnica o le funzioni e i risultati dell’intelligenza costitui-
scono ancora — così come sono dati immediatemente, e secon-
do il loro senso puro — un'associazione: la costituiscono soltan-
to quando strutturano la coesistenza isolata degli individui uno
accanto all’altro in determinate forme di coesistenza con e per
l’altro, le quali rientrano sotto il concetto generale dell’azione
reciproca. L'associazione è dunque la forma, realizzantesi in
innumerevoli modi diversi, in cui gli individui raggiungono
insieme un'unità sulla base di quegli interessi — sensibili o
ideali, momentanei o durevoli, coscienti o inconsci, che spingo-
no in modo causale o che attirano teleologicamente — e nell’am-
bito della quale questi interessi si realizzano.
In ogni fenomeno sociale esistente il contenuto e la forma
GEORG SIMMEL 471
sociale costituiscono una realtà unitaria; una forma sociale non
può acquistare un’esistenza scissa da ogni contenuto, così come
una forma spaziale non può sussistere senza una materia di cui
essa costituisca la forma. Questi sono piuttosto gli elementi,
inseparabili nella realtà, di ogni essere e accadere sociale: un
interesse, uno scopo, un motivo e una forma o maniera di
azione reciproca tra gli individui, mediante la quale o nella
cui forma quel contenuto acquista realtà sociale.
Ciò che rende appunto tale la «società », in ogni senso
della parola finora valido, sono evidentemente i modi sopra
indicati di azione reciproca. Un dato numero di uomini non
diviene società per il fatto che in ognuno di essi sussiste un
contenuto vitale determinato oggettivamente o che lo muove
individualmente; soltanto quando la vitalità di questi conte-
nuti acquista la forma dell’influenza reciproca, quando ha luo-
go un’azione di un elemento sull’altro — immediatamente o
mediata da un terzo elemento — la pura e semplice prossimità
spaziale o anche la successione temporale degli uomini si tradu-
ce in una società. Se deve quindi esserci una scienza il cui
oggetto è la società e nient'altro, essa può voler indagare sola-
mente queste azioni reciproche, questi modi e forme di associa-
zione. Infatti tutto ciò che si trova ancora nell’ambito della
« società », tutto ciò che viene realizzato per mezzo e nel qua-
dro di essa, non è società, ma soltanto un contenuto che assume
o viene assunto da questa forma di coesistenza e che soltanto
insieme ad essa dà luogo alla formazione reale, che si chiama
«società » nel senso più vasto e usuale. Che questi due elemen-
ti inseparabilmente uniti vengano separati nell’astrazione scien-
tifica, che le forme di azione reciproca o di associazione venga-
no collegate tra loro, concettualmente isolate dai contenuti che
soltanto mediante esse diventano sociali, e metodicamente sotto-
poste a un punto di vista scientifico unitario — questo mi
sembra fondare l’unica e intera possibilità di una scienza specifi-
ca della società in quanto tale. Soltanto con essa i fatti che
designamo come realtà storico-sociale sarebbero realmente proiet-
tati sul piano del puro e semplice sociale.
Ma per quanto siffatte astrazioni, che dalla complessità o
anche dall’unità della realtà producono la scienza, possano esse-
re stimolate dagli intimi bisogni del conoscere, una qualsiasi
472 GEORG SIMMEL
loro legittimazione deve tuttavia risiedere nella struttura del-
l’oggettività stessa: infatti soltanto qualche relazione funziona-
le con la realtà di fatto può mettere al riparo da impostazioni
sterili, da un carattere occasionale dell’elaborazione concettua-
le della scienza. Se un naturalismo ingenuo sbaglia pensando
che il dato contenga già le disposizioni analitiche o sintetiche
mediante le quali esso diventa contenuto di una scienza, tutta-
via le determinazioni che esso effettivamente possiede sono più
o meno adatte a quelle disposizioni — all’incirca come un
ritratto deforma fondamentalmente la figura naturale, eppure
l'una si presta meglio dell’altra a questa forma ad essa radical-
mente estranea. A ciò si può poi commisurare il migliore o
peggiore diritto di quei problemi e metodi scientifici. Così
il diritto di sottoporre i fenomeni storico-sociali all’analisi se-
condo forme e contenuti e di ricondurre i primi a una sin-
tesi si fonderà su due condizioni, le quali possono essere ve-
rificate soltanto in base ai fatti. Si deve da un lato trovare
che la medesima forma di associazione ricorre con un contenu-
to del tutto diverso, per scopi completamente differenti, e che,
al contrario, il medesimo interesse assume come sue portatrici 0
modi di realizzazione forme completamente diverse di associa-
zione — così come le medesime forme geometriche si ritrovano
nelle materie più diverse e la medesima materia si configura
nelle forme spaziali più diverse, o come avviene tra le forme
logiche e i contenuti materiali della conoscenza.
Entrambe le cose sono però innegabili in quanto fatti. In
gruppi sociali i più diversi che si possano immaginare per i
loro scopi e per il loro intero significato, noi troviamo tuttavia
i medesimi modi formali di atteggiamento reciproco tra gli
individui. Sovra-ordinazione e subordinazione, concorrenza,
imitazione, divisione del lavoro, formazione di partiti, rappre-
sentanza, contemporaneità del raggruppamento all’interno e
della chiusura verso l’esterno, nonché innumerevoli aspetti simi-
li, si ritrovano in una società statale e in una comunità religio-
sa, in una banda di congiurati e in una consociazione economi-
ca, in una scuola artistica e in una famiglia. Per quanto molte-
plici possano essere gli interessi dai quali si perviene a queste
associazioni, le forme in cui esse si attuano possono tuttavia
essere le medesime. E d'altra parte lo stesso interesse può confi-
GEORG SIMMEL 473
gurarsi in associazioni di forma molto differente: per esempio,
l’interesse economico si realizza tanto mediante la concorrenza
quanto mediante l’organizzazione pianificata dei produttori,
ora attraverso l'esclusione di altri gruppi economici ora attraver-
so l'aggregazione ad essi; i contenuti della vita religiosa stimo-
lano, rimanendo identici nella sostanza, una forma di comunità
ora liberistica ora centralistica; gli interessi che stanno a base
delle relazioni tra i sessi si soddisfano nella molteplicità quasi
sterminata delle forme di famiglia; l'interesse pedagogico con-
duce a una forma di rapporto ora liberale ora dispotica tra
maestro e allievo, ora ad azioni reciproche individualistiche tra
il maestro e il singolo allievo, ora a forme più collettivistiche
tra quello e il complesso degli allievi. Come può restare identi-
ca la forma nella quale si attuano i contenuti più divergenti,
così può rimanere costante la materia mentre la coesistenza
degli individui, che ne è portatrice, si muove in una molteplici-
tà di forme. In tal modo i fatti, benché materia e forma costi-
tuiscano nella loro concretezza un’unità inscindibile della vita
sociale, offrono quella legittimazione del problema sociologico
che esige la constatazione, l’ordinamento sistematico, la motiva-
zione psicologica e lo sviluppo storico delle forme pure di
associazione.
Questo problema è direttamente contrapposto al procedimen-
to secondo il quale sono state finora create le scienze sociali
particolari. Infatti la divisione del lavoro tra queste scienze è
stata completamente determinata dalla diversità dei contenuti.
Economia politica e sistematica delle organizzazioni ecclesiasti-
che, storia dell’organizzazione scolastica e storia dei costumi,
politica e teorie della vita sessuale ecc. si sono divise il campo
dei fenomeni sociali in modo tale che una sociologia, la quale
voleva comprendere la totalità di questi fenomeni con la loro
connessione di forma e contenuto, non poteva risultare nient’al-
tro che un riassunto di quelle scienze. Finché le linee che
.tracciamo attraverso la realtà storica per suddividerla in campi
di ricerca separati congiungono soltanto quei punti che rivela-
no i medesimi contenuti di interessi, questa realtà non concede
nessun posto a una sociologia particolare. Occorre piuttosto una
linea che, attraversando tutte quelle finora tracciate, sciolga il
puro fatto dell’associazione, considerato nelle sue molteplici
474 GEORG SIMMEL
configurazioni, dal suo collegamento con i contenuti più diver-
genti e lo costituisca come campo particolare. Essa diventa in
tal modo una scienza specifica nello stesso senso in cui lo è
diventata — con tutte le ovvie differenze di metodo e di risulta-
ti — la teoria della conoscenza, astraendo le categorie o funzio-
ni del conoscere in quanto tali dalla molteplicità delle conoscen-
ze delle cose singole. Essa appartiene al tipo di scienza il cui
carattere specialistico non consiste nel fatto che il loro oggetto
venga compreso insieme ad altri sotto un concetto complessivo
superiore (come la filologia classica e la germanistica, oppure
l’ottica e l’acustica), bensì nel fatto di accostare un intero cam-
po di oggetti da un punto di vista particolare. Non il suo
oggetto, ma la sua forma di considerazione, la particolare astra-
zione da essa compiuta, la differenzia dalle altre scienze stori-
co-sociali.
Il concetto di società copre due significati che devono essere
tenuti rigorosamente distinti nella trattazione scientifica. Essa
è da un lato il complesso degli individui associati, il materiale
umano formato socialmente, che costituisce l’intera realtà stori-
ca. Ma d’altro lato la «società» è anche la somma di quelle
forme di relazione, in virtù delle quali dagli individui sorge
appunto la società nel primo senso. Così si definisce « sfera »
sia una materia formata in un determinato modo, sia anche, in
senso matematico, la pura e semplice figura o forma in virtù
della quale dalla semplice materia sorge la sfera nel primo
senso. Quando si parla di scienze della società in quel primo
significato, il loro oggetto è tutto ciò che accade nella e con la
società; mentre la scienza della società nel secondo senso ha per
oggetto le forze, le relazioni e le forme mediante le quali gli
uomini si associano, e che costituiscono quindi, nella loro confi-
gurazione autonoma, la «società » sensu strictissimo — il che
evidentemente non viene alterato dal fatto che il contenuto
dell’associazione, le modificazioni specifiche del suo scopo e
interesse materiale decidono spesso o sempre della sua formazio-
ne specifica. Del tutto errata sarebbe qui l’obiezione che tutte
queste forme — gerarchie e corporazioni, forme di concorrenza
e forme di matrimonio, amicizie e costumi socievoli, forme di
potere da parte di una persona o di più persone — sono soltan-
to costellazioni di avvenimenti in società già esistenti: se non
GEORG SIMMEL 475
esistesse già una società, mancherebbe il presupposto e l’occasio-
ne per il sorgere di tali forme. Questa concezione nasce dal
fatto che in ogni società a noi nota agisce un gran numero di
forme di connessione, cioè di forme di associazione del genere.
Se anche una di esse venisse meno, rimarrebbe ancor sempre la
«società », cosicché di ciascuna può certo sembrare che si ag-
giunga a una società già compiuta o sorga nell’ambito di essa.
Ma se si immagina di eliminare tutte queste forme, non rima-
ne più nessuna società. La società sorge soltanto quanto siffatte
relazioni reciproche, suscitate da certi motivi e interessi, diven-
tano operanti. Se la storia e le leggi della formazione complessi-
va che così si sviluppa sono quindi certamente materia della
scienza della società nel senso più ampio, è pur vero che —
essendosi questa già suddivisa nelle scienze sociali particolari
— a una sociologia nel senso più stretto, cioè in quello che
pone un compito particolare, rimane soltanto più la considera-
zione delle forme astratte, le quali non tanto producono l’asso-
ciazione quanto piuttosto soro l’associazione. La società, nel
senso che può impiegare la sociologia, è allora o l’astratto con-
cetto generale che designa queste forme, il genere di cui esse
sono specie, oppure la loro somma di volta in volta operante.
Da questo concetto consegue inoltre che un dato numero di
individui può essere società in grado maggiore o minore: a
ogni nuovo fiorire di formazioni sintetiche, a ogni costituzione
di gruppi di partito, a ogni unificazione in vista di un’opera
comune o in comunione di sentimento e di pensiero, a ogni
divisione più netta tra servi e padroni, a ogni pasto in comu-
ne, a ogni adornarsi per gli altri, lo stesso gruppo diventa
appunto più «società» di quanto lo fosse prima. Non esiste
mai società in generale, nel senso che quei particolari fenomeni
di connessione si siano formati soltanto presupponendo la sua
esistenza; infatti non esiste alcuna azione reciproca in quanto
tale, ma particolari modi di essa, con il cui manifestarsi la
società esiste e che non sono né la causa né la conseguenza di
questa, ma sono immediatamente già essa stessa. Soltanto la
sterminata quantità e diversità con cui esse sono in ogni atti-
mo operanti ha conferito al concetto generale di società una
realtà storica apparentemente autonoma. Forse in questa iposta-
si di una mera astrazione risiede la causa della peculiare nebulo-
476 GEORG SIMMEL
sità e insicurezza che hanno circondato tale concetto e le prece-
denti trattazioni della sociologia generale — così come non si è
fatta molta strada con il concetto di vita, finché la scienza non
lo ha considerato come un fenomeno unitario di realtà imme-
diata. La scienza della vita ha raggiunto un terreno solido
soltanto quando sono stati indagati i singoli processi all’inter-
no degli organismi la cui somma o il cui tessuto costituisce la
vita, soltanto quando si è riconosciuto che la vita consiste solo in
questi processi particolari dentro e tra gli organi e le cellule.
Soltanto in questa maniera si può cogliere ciò che nella
società è veramente « società », così come soltanto la geometria
determina che cosa negli oggetti spaziali costituisce realmente
la loro spazialità. La sociologia come dottrina dell’essere-socie-
tà dell’umanità — la quale può ancora essere oggetto di scienza
sotto innumerevoli altri aspetti — sta dunque con le altre scien-
ze speciali nello stesso rapporto in cui la geometria sta con le
scienze fisico-chimiche della materia: essa considera la forma
mediante la quale la materia si traduce in corpi empirici — la
forma che certamente di per sé sola esiste soltanto nell’astrazio-
ne, proprio come le forme di associazione. Tanto la geometria
quanto la sociologia lasciano ad altre scienze l'indagine dei
contenuti che si presentano nelle loro forme, o dei fenomeni
totali di cui esse considerano la pura e semplice forma. C'è
appena bisogno di avvertire che quest’analogia con la geometria
non va più in là della chiarificazione che abbiamo qui tentato
del problema di principio della sociologia. Soprattutto la geo-
metria ha il vantaggio di trovare già pronte nel suo campo
forme estremamente semplici, nelle quali possono essere risolte
le figure più complicate; perciò è possibile, partendo da relati-
vamente poche determinazioni fondamentali, costruire l’intero
ambito delle figure possibili. Per quanto riguarda le forme di
associazione non c'è da aspettarsi, almeno per lungo tempo
ancora, una risoluzione anche soltanto approssimativa in ele-
menti semplici. La conseguenza di questo fatto è che le forme
sociologiche, se devono avere qualche determinatezza, valgono
soltanto per una cerchia relativamente ristretta di fenomeni.
Quando si dice per esempio che la sovra-ordinazione e la subor-
dinazione sono una forma presente in quasi ogni associazione
umana, con questa conoscenza generale si è fatta poca strada.
GEORG SIMMEL 477
Occorre piuttosto scendere alle specie particolari di sovra-ordi-
nazione e di subordinazione, alle forme specifiche della loro
realizzazione, che perdono allora naturalmente ambito di validi-
tà in rapporto alla loro determinatezza.
Se l’alternativa che si usa proporre ora a ogni scienza — se
cioè essa proceda alla scoperta di leggi atemporalmente valide
o alla rappresentazione e alla comprensione di processi storico-
reali singolari — non esclude comunque innumerevoli forme
intermedie nell’esercizio effettivo della scienza, il concetto
problematico qui stabilito non viene toccato fin dall'inizio dalla
necessità di questa scelta. Questo oggetto astratto dalla realtà
può essere da un lato considerato sotto il profilo delle relazioni
legali che, poste semplicemente nella struttura oggettiva degli
elementi, rimangono indifferenti alla loro realizzazione spazio-
temporale: esse sono appunto valide, poco importa che le real-
tà storiche le mettano in azione una o mille volte. D'altra
parte quelle forme di associazione possono anche essere conside-
rate nel loro verificarsi in un luogo e in un tempo, nel loro
sviluppo storico entro determinati gruppi. La loro determinazio-
ne sarebbe, in quest’ultimo caso, uno scopo autonomo per così
dire storico, mentre nel primo sarebbe materiale induttivo per
la scoperta di rapporti legali atemporali. Sulla concorrenza,
per esempio, siamo edotti dai campi più diversi: la politica e
l'economia politica, la storia delle religioni e quella dell’arte ce
ne presentano innumerevoli esempi. In base a questi fatti si
tratta allora di stabilire che cosa significhi la concorrenza come
forma pura di atteggiamento umano, in quali circostanze essa
sorga, come si sviluppi, quali modificazioni subisca per effetto
della specie particolare del suo oggetto, da quali contempora-
nee determinazioni formali e materiali di una società essa ven-
ga potenziata o frenata, come la concorrenza tra gli individui
si differenzia da quella tra i gruppi — in breve, che cosa essa
sia come forma di relazione degli uomini tra loro, la quale può
accogliere in sé tutti i contenuti possibili ma, attraverso l’identi-
tà del suo manifestarsi nella grande varietà di questi ultimi,
dimostra di appartenere a un campo regolato da leggi proprie e
legittimato all’astrazione. Nei fenomeni complessi ciò che è
uniforme viene messo in evidenza con una specie di sezione
478 GEORG SIMMEL
trasversale, mentre ciò che in essi è difforme — cioè in questo
caso gli interessi sostanziali — viene d’altra parte paralizzato.
In modo corrispondente si deve dunque procedere con tutti i
grandi rapporti e le azioni reciproche che formano la società:
con la formazione dei partiti, con l'imitazione, con la formazio-
ne di classi, di cerchie e di suddivisioni secondarie, con l’incor-
porarsi delle azioni sociali reciproche in formazioni particolari
di carattere oggettivo, personale, ideale, con lo sviluppo e il
ruolo delle gerarchie, con la «rappresentanza » di collettività
da parte di singoli, con il significato di un antagonismo comu-
ne per la coesione interna del gruppo. A tali problemi principa-
li si aggiungono poi, sostenendo in modo uniforme la determi-
natezza formale dei gruppi, dei fatti da una parte più specifici
e dall’altra più complicati, come per esempio il significato del-
l’«apartitico », quello del « povero » come elemento organico
delle società, quello della determinatezza numerica degli ele-
menti dei gruppi, del primus inter pares e del tertius gaudens.
Come procedimenti più complicati si dovrebbero ricordare l’in-
crociarsi di cerchie molteplici nelle singole personalità, la parti-
colare importanza del «segreto» nella formazione di cerchie,
la modificazione dei caratteri di gruppo a seconda che essi
comprendano individui che si trovano insieme localmente oppu-
re individui separati da elementi estranei, nonché innumere-
voli altri fenomeni.
Con ciò lascio impregiudicata — come già si è accennato —
la questione se nella diversità dei contenuti si presenti un’egua-
glianza assoluta delle forme. L'eguaglianza approssimativa che
esse mostrano in circostanze materialmente molteplici — così
come il fenomeno contrario — è sufficiente per ritenerlo possibi-
le in linea di principio; nel fatto che ciò non si realizzi comple-
tamente si manifesta appunto la differenza tra l’accadere psichi-
co-storico, con le sue fluttuazioni e complicazioni mai intera-
mente razionalizzabili, e la capacità della geometria di separa-
re con assoluta purezza le forme sottoposte al’ suo concetto
dalla loro realizzazione nella materia. Si tenga pure presente
che questa eguaglianza del modo di azione reciproca in qualsia-
si diversità del materiale umano e oggettivo, e viceversa, è
anzitutto soltanto uno strumento per compiere e legittimare nei
singoli fenomeni complessivi la separazione scientifica di forma
GEORG SIMMEL 479
e contenuto. Metodologicamente questa sarebbe stata richiesta
anche nel caso che le costellazioni di fatto non lasciassero perve-
nire a quel procedimento induttivo che fa cristallizzare l’eguale
rispetto al differente, proprio come l’astrazione geometrica del-
la forma spaziale di un corpo sarebbe legittimata anche qualora
questo corpo così formato si presentasse di fatto una sola volta
nel mondo. Che ciò implichi una difficoltà di procedimento è
innegabile. Si prenda per esempio il fatto che, verso la fine del
Medioevo, certi maestri di corporazione erano spinti, a causa
dell'estensione delle relazioni commerciali, a un approvvigio-
namento di materiali, a un impiego di apprendisti, a nuovi
mezzi per attrarre i clienti che non si conciliavano più con i
vecchi princìpi corporativi secondo i quali ogni maestro doveva
avere lo stesso «nutrimento » dell’altro, e che cercavano per
questo di porsi al di fuori della stretta unione prima esistente.
Considerato sotto il profilo della forma puramente sociologica,
che astrae dal contenuto specifico, ciò vuol dire che l’amplia-
mento della cerchia con la quale l’individuo è legato in virtù
delle sue azioni procede di pari passo con una maggiore confi-
gurazione della specificità individuale, con una maggiore liber-
tà e differenziazione reciproca dei singoli. Ma non esiste, a
quanto vedo, nessun metodo sicuramente efficace per ricavare
questo significato sociologico da quel fatto complesso, realizza-
to in virtù del suo contenuto. Quale configurazione meramente
sociologica, quale particolare rapporto reciproco di individui,
facendo astrazione dagli interessi e dagli impulsi che rimango-
no nell’individuo e dalle condizioni di carattere puramente og-
gettivo, siano contenuti nel processo storico — ciò può essere
spiegato rispetto a quest’ultimo in molteplici direzioni; non
soltanto, ma i fatti storici che ricoprono la realtà di determina-
te forme sociologiche possono essere indicati soltanto nella loro
totalità materiale, e manca un mezzo per rendere dimostrabile,
e attuabile in tutte le circostanze, la loro separazione in un
momento materiale e in un momento sociologico-formale. Ci si
comporta qui allo stesso modo che con la dimostrazione di una
proposizione geometrica sulla base dell’inevitabile accidentalità
e rozzezza di una figura disegnata. Ma il matematico può ora
contare sul fatto che il concetto della figura geometrica
ideale è noto e operante, e viene intimamente considerato co-
480 GEORG SIMMEL
me l’unico senso ora essenziale del tratto di gesso o d’inchio-
stro. Ma qui non si può partire dal presupposto corrispondente,
in quanto non si può ricavare logicamente dal fenomeno totale
complessivo ciò che è realmente la pura associazione.
Occorre qui affrontare il rischio di parlare di procedimento
intuitivo — per quanto distante esso sia dall’intuizione metafisi-
co-speculativa — di una particolare messa a fuoco con la quale
si attua quella separazione e che può essere insegnata soltanto
adducendo degli esempi, finché essa non sarà colta con metodi
esprimibili concettualmente e di sicuro affidamento. Questa
difficoltà è accresciuta dal fatto che non soltanto l’impiego del
concetto sociologico fondamentale manca di un appiglio indubi-
tabile, ma che anche quando si opera efficacemente con esso,
per molti aspetti degli avvenimenti l'inserimento sotto di es-
so o sotto il concetto della determinatezza di contenuto rimane
sovente arbitrario. Si potrà per esempio avere opinioni opposte
sulla questione se e fino a qual punto il fenomeno del « pove-
ro» sia di natura sociologica, ossia un risultato dei rapporti
formali all’interno di un gruppo, condizionato dalle correnti e
dagli spostamenti generali che si producono necessariamente
nel confluire degli uomini, oppure se la povertà sia da conside-
rare come una determinazione soltanto materiale di certe esi-
stenze individuali, esclusivamente dall’angolo visuale del conte-
nuto di interesse economico. I fenomeni storici potranno essere
considerati, nel loro complesso, da tre punti di vista distinti in
linea di principio: da quello delle esistenze individuali che
costituiscono i portatori reali delle situazioni; da quello delle
forme di azione reciproca formale, che certamente si attuano
anche soltanto in esistenze individuali, ma che vengono ora
considerate non già sotto il profilo di queste, bensì sotto quello
del loro insieme, del loro esistere l’una con e per l’altra; da
quello dei contenuti concettualmente formulabili di situazioni e
avvenimenti, in presenza dei quali non si indaga in questo caso
sui loro portatori o sui loro rapporti, bensì sul loro significato
puramente oggettivo — l'economia e la tecnica, l’arte e la
scienza, le norme giuridiche e i prodotti della vita affettiva.
Questi tre punti di vista si intrecciano continuamente, e la
necessità metodologica di tenerli distinti si scontra a ogni pas-
so con la difficoltà di ordinare ogni elemento in una serie
GEORG SIMMEL 481
indipendente dall'altra, e con l'aspirazione a un'immagine com-
plessiva della realtà, comprendente tutte le posizioni. Né si
trà mai stabilire per tutti i casi quanto profondamente un
elemento, fondante e fondato, penetri nell'altro, con la conse-
enza che — nonostante tutta la chiarezza e precisione meto-
dologica dell’impostazione di principio — a stento si potrà
evitare l’equivocità: la trattazione del singolo problema sembra
rientrare ora nell’una ora nell’altra categoria, e anche nell’am-
bito di una categoria non sempre può essere delimitata con si-
curezza rispetto alla forma di trattazione dell’altra. Del resto
spero che la metodologia della sociologia qui proposta risulterà
più sicura e forse addirittura più chiara attraverso le analisi
dei suoi problemi singoli che non da questa fondazione astrat-
ta. Nelle cose dello spirito non è fenomeno tanto raro — ma è
anzi presente in tutti i campi di problemi più generali e più
profondi — che ciò che dobbiamo chiamare, con inevitabile
paragone, il fondamento non sia così solido come la costruzio-
ne eretta al di sopra. Anche la pratica scientifica non potrà
fare a meno, particolarmente in campi finora inesplorati, di una
certa misura di procedimento istintivo, i cui motivi e le cui
norme acquistano soltanto in seguito una coscienza del tutto
chiara e un'elaborazione concettuale. E se il lavoro scientifico
non può mai adagiarsi completamente su quei modi di procede-
re ancora indistinti, istintivi, adottati soltanto nella ricerca par-
ticolare, esso sarebbe d'altra parte condannato alla sterilità se di
fronte a compiti nuovi si volesse porre come condizione già del
primo passo una metodologia compiutamente formulata *.
Nell'ambito del campo di problemi che viene costituito sepa-
rando le forme di azione reciproca associativa dal fenomeno
totale della società alcune parti delle indagini qui proposte si
collocano ormai, per così dire, quantitativamente al di là dei
a. Considerando l’infinita complicazione della vita sociale, nonché i
concetti e metodi — delineantisi appunto dalla prima sgrossatura — con i
quali essa dev'essere padroneggiata spiritualmente, sarebbe una pretesa im-
modesta voler già ora sperare in una chiarezza di domande e in un’csattez-
za di risposte che arrivi fino in fondo. Mi sembra più dignitoso fare fin
dall’inizio quest'ammissione, poiché in questo modo almeno il primo passo
è più netto, piuttosto che mettere in questione, con l'affermazione della
conclusione, addirittura gweszo significato di tentativi del genere.
31. STORICISMO TEDESCO,
482 GEORG SIMMEL
compiti altrove riconosciuti come sociologici. Appena si pone
la questione delle influenze reciproche tra gli individui, la cui
somma produce quella coesione nella società, si rivela immedia-
tamente una serie — anzi, per così dire, un mondo — di forme
di relazione che finora non venivano comprese affatto nella
scienza della società, o lo erano senza cogliere la loro importan-
za fondamentale e vitale. In complesso la sociologia si è pro-
priamente limitata a quei fenomeni sociali nei quali le forze in
azione reciproca sono già cristallizzate in base ai loro portatori
immediati, per lo meno a costituire unità ideali. Stati e unioni
sindacali, gruppi sacerdotali e forme di famiglia, costituzioni
economiche ed eserciti, corporazioni e comuni, formazione di
classi e divisione del lavoro industriale — questi e i grandi
organi e sistemi del genere sembrano costituire la società ed
esaurire l’ambito della scienza che la riguarda. È ovvio che,
quanto più una regione di interessi e una direzione di azione
sociale è grande, significativa e dominante, tanto più presto il
vivere e l’agire immediato, inter-individuale, si realizzerà in
formazioni oggettive, in un'esistenza astratta al di là dei proces-
si particolari e primari. Ma questa osservazione richiede un'inte-
grazione importante in due direzioni. Oltre a quei fenomeni
macroscopici, che si impongono da tutte le parti per la loro
estensione e per la loro importanza esterna, esiste un numero
sterminato di forme di relazione e di modi di azione reciproca
tra gli uomini che sono di dimensioni minori e meno appari-
scenti nei casi particolari, ma che vengono offerti da questi casi
particolari in una quantità inestimabile e che, sia pure infiltran-
dosi tra le formazioni sociali più comprensive, per così dire
ufficiali, sono quelli che soli dànno origine alla società quale
noi la conosciamo. La limitazione ai primi fenomeni ricorda la
scienza primitiva del corpo umano interno, che si limitava ai
grandi organi, nettamente delimitati, come il cuore, il fegato,
i polmoni, lo stomaco ecc., e trascurava invece gli innumerevoli
tessuti, privi di una denominazione popolare o non conosciuti,
senza i quali quegli organi più distinti non darebbero mai
luogo a un corpo vivente. Con le formazioni della specie sopra
indicata, che costituiscono gli oggetti tradizionali della scienza
della società, non sarebbe assolutamente possibile comporre la
vita reale della società così come si presenta nell’esperienza:
GEORG SIMMEL 483
senza l’intervento di innumerevoli sintesi, singolarmente meno
comprensive — alle quali devono essere in gran parte dedicate
queste indagini — la vita sociale si sfalderebbe in una moltepli-
cità di sistemi discontinui. Ciò che rende più difficile fissare
scientificamente tali forme sociali poco appariscenti, le rende al
tempo stesso infinitamente importanti per la più profonda com-
prensione della società: il fatto cioè che in generale esse non
sono ancora consolidate in formazioni stabili, sovra-individuali,
ma mostrano la società per così dire allo status nascens — natu-
ralmente non nel suo primo inizio assoluto, storicamente imper-
scrutabile, bensì in quello che si ha ogni giorno e ogni ora.
L'associazione tra gli uomini si allaccia, si scioglie e si riallac-
cia continuamente, come un eterno fluire e pulsare che incate-
na gli individui, anche quando non perviene a organizzazioni
vere e proprie. Qui si tratta quasi di processi microscopico-mole-
colari all’interno del materiale umano, i quali però costituisco-
no l’accadere reale che si concatena o si ipostatizza in quelle
unità e sistemi macroscopici e stabili. Il fatto che gli uomini si
guardano l’un l’altro e che sono reciprocamente gelosi; il fatto
che si scrivono lettere o pranzano insieme; il fatto che riescono
simpatici o antipatici prescindendo completamente da tutti gli
interessi tangibili; il fatto che la gratitudine per la prestazione
altruistica produce nel tempo un vincolo indissolubile; il fatto
che uno chiede la strada all’altro o si veste e si adorna per
l’altro — tutte le mille relazioni che si riflettono da persona a
persona, momentanee o durevoli, coscienti o inconscie, superfi-
ciali o ricche di effetti, da cui questi esempi sono scelti del
tutto a caso, ci legano in modo indissolubile. In ogni attimo
questi fili vengono filati, vengono lasciati cadere, ripresi di
nuovo, sostituiti da altri, intessuti con altri. Qui risiedono le
azioni reciproche — accessibili soltanto alla microscopia psicolo-
gica — tra gli atomi della società, che sorreggono tutta la
tenacia ed elasticità, tutta la varietà e unitarietà di questa vita
così chiara e così enigmatica della società. Si tratta di applicare
il principio delle azioni infinitamente numerose e infinitamente
piccole anche alla prossimità caratteristica della società, così
come si è dimostrato efficace nelle scienze che studiano la suc-
cessione — la geologia, la teoria dello sviluppo biologico, la sto-
ria. I passi incommensurabilmente piccoli producono la connes-
484 GEORG SIMMEL
sione dell’unità storica, e le azioni reciproche, altrettanto imper-
cettibili, tra persona e persona producono la connessione dell’u-
nità sociale. Soltanto ciò che accade nel dominio dei contatti
fisici e spirituali, della causazione reciproca di piacere e di
sofferenza, dei discorsi e dei silenzi, degli interessi comuni e
antagonistici, soltanto questo costituisce la meravigliosa indisso-
lubilità della società, il fluttuare della sua vita con cui i suoi
elementi acquistano, perdono, spostano incessantemente il loro
equilibrio. Forse con questo riconoscimento la scienza della
società può raggiungere il punto che per la scienza della vita
organica ha rappresentato l’inizio della microscopia. Se fino ad
allora l'indagine era limitata ai grandi organi corporei, netta-
mente divisi, le cui differenze di forma e di funzione si presen-
tavano evidenti, soltanto a questo punto il processo vitale si è
mostrato nel suo legame con i suoi più piccoli portatori — le
cellule — e nella sua identità con le innumerevoli e incessanti
azioni reciproche tra di esse. Soltanto osservando come le cellu-
le si uniscano o si distruggano tra loro, si assimilino o si
influenzino chimicamente, è possibile comprendere a poco a
poco come il corpo crei la sua forma, la mantenga o la cambi.
I grandi organi, nei quali questi fondamentali portatori della
vita e le loro azioni reciproche si sono riuniti in formazioni
particolari e in funzioni percepibili a livello macroscopico, non
avrebbero mai permesso di comprendere la connessione della
vita se quegli innumerevoli processi, che si svolgono tra i più
piccoli elementi e sono per così dire soltanto riassunti da quel-
li macroscopici, non si fossero svelati come la vita vera e pro-
pria, la vita fondamentale. AI di là di ogni analogia sociologica
o metafisica tra le realtà della società e dell'organismo si tratta
qui soltanto dell’analogia del metodo di trattazione e del suo
sviluppo; della scoperta dei tenui fili, delle relazioni minime
tra gli uomini, dalla cui ripetizione continuativa vengono fon-
date e sorrette tutte quelle grandi formazioni che, diventate
oggettive, presentano una storia vera e propria. Questi processi
primari, che creano la società dall’immediato materiale indivi-
duale, sono quindi da sottoporre a una considerazione formale
accanto ai processi e alle formazioni superiori e più complica-
te; e le particolari azioni reciproche che si offrono in queste
misure non del tutto consuete all’analisi teorica devono essere
GEORG SIMMEL 485
esaminate come forme costitutive della società, come parti del-
l'associazione in generale. Anzi, a questi tipi di relazione appa-
rentemente privi di importanza sarà opportuno dedicare una
considerazione tanto più approfondita quanto più la sociologia
è solita trascurarli.
Ma proprio con questa svolta le indagini qui progettate
sembrano destinate a diventare nient'altro che capitoli della
psicologia, in ogni caso della psicologia sociale. Certamente
non c’è nessun dubbio che tutti i processi e gli istinti sociali
hanno la loro sede nelle anime, che l’associazione è un fenome-
no psichico e che nel mondo della realtà corporea non c'è
nessuna analogia col suo fatto fondamentale, che cioè una plura-
lità di elementi si traduce in unità, poiché in esso tutto rimane
confinato all’insuperabile esteriorità dello spazio. Qualsiasi acca-
dimento esterno che possiamo indicare come sociale sarebbe un
gioco di marionette, non più comprensibile e non più significa
tivo dell’ammassarsi delle nuvole o dell’incrociarsi dei rami di
un albero, se non fossimo in grado di riconoscere in modo del
tutto evidente motivazioni psichiche, sentimenti, pensieri, biso-
gni non soltanto come portatori di quegli elementi esteriori,
ma anche come loro elemento essenziale e come l’unico che
propriamente ci interessi. La comprensione causale di ogni acca-
dere sociale sarebbe quindi raggiunta di fatto quando le con-
statazioni psicologiche e il loro sviluppo permettessero di dedur-
re completamente questi avvenimenti in conformità a «leggi
psicologiche » — per quanto problematico ci appaia questo con-
cetto. E non c'è neppure nessun dubbio che gli aspetti dell’esi-
stenza storico-sociale che noi possiamo cogliere non sono altro
che concatenazioni psichiche, che ricostruiamo con una psicolo-
gia istintiva o con una psicologia metodica e riduciamo a un’in-
terna plausibilità, al senso di una necessità psichica degli svilup-
pi in questione. In questo senso ogni storia, ogni analisi di una
situazione sociale è un esercizio di sapere psicologico. Tuttavia
è della massima importanza metodologica, e addirittura decisi-
vo per i princìpi delle scienze dello spirito in generale, ricono-
scere che la trattazione scientifica di fatti psichici non ha affat-
to bisogno di essere psicologia; anche dove facciamo ininterrot-
tamente uso di regole e di conoscenze psicologiche, dove la
spiegazione di ogni fatto singolo è possibile soltanto per via
486 GEORG SIMMEL
psicologica — come nell’ambito della sociologia — il senso e
l'intenzione di questo procedimento non devono necessariamen-
te sfociare nella psicologia, cioè nella legge del processo psichi-
co, che può portare soltanto un determinato contenuto, ma
deve pervenire proprio a questo contenuto e alle sue configura-
zioni. Abbiamo qui una differenza soltanto di grado rispetto
alle scienze della natura esterna che, in quanto fatti della vita
spirituale, si svolgono anch'esse — in ultima analisi — soltanto
nell’ambito dello spirito: la scoperta di ogni verità astronomica
o chimica, così come la riflessione su di essa, è un avvenimento
della coscienza che una psicologia compiuta potrebbe dedurre
integralmente soltanto da condizioni e sviluppi psichici. Ma
quelle scienze sorgono in quanto assumono come proprio ogget-
to, in luogo dei processi psichici, i loro contenuti e le loro
connessioni, all'incirca come noi consideriamo un dipinto nel
suo significato estetico e storico-artistico e non lo deduciamo
dalle oscillazioni fisiche che costituiscono i suoi colori, e che
naturalmente creano e sorreggono l’intera esistenza reale del
dipinto. È sempre na realtà che non possiamo abbracciare
scientificamente nella sua immediatezza e totalità, ma che dob-
biamo cogliere da una serie di punti di vista separati e configu-
rare quindi in una pluralità di oggetti di scienze tra loro indi-
pendenti. Ciò è necessario anche nei confronti di quegli avveni-
menti psichici i cui contenuti non si raccolgono in un mondo
spaziale indipendente e non si contrappongono visivamente
alla loro realtà psichica. Per esempio le forme e le leggi di una
lingua, che pure è certamente formata soltanto da forze dell’ani-
ma e per scopi dell'anima, vengono tuttavia trattate da una scien-
za linguistica che prescinde del tutto da quella realizzazione data
del suo oggetto e che lo rappresenta, lo analizza e lo costruisce
soltanto nel suo contenuto oggettivo, insieme alle formazioni
esistenti soltanto in questo contenuto stesso. Analogamente av-
viene con'i fatti dell’associazione. Che gli uomini si influenzi-
no l’un l’altro, che uno faccia o subisca qualcosa, che presenti
un essere o un divenire, perché altri esistono o si manifestano,
agiscono o sentono — tutto questo è naturalmente un fenome-
no psichico, e la realizzazione storica di ogni singolo caso può
essere compresa solamente attraverso una rielaborazione psicolo-
gica, attraverso la plausibilità di serie psicologiche, attraverso
GEORG SIMMEL 487
l’interpretazione di ciò che è constatabile dall’esterno per mez-
zo di categorie psicologiche. Ma una particolare intenzione
scientifica può trascurare del tutto questo accadere psichico in
quanto tale e seguirne, scomporne, metterne in relazione i
contenuti così come si coordinano sotto il concetto di associazio-
ne. Si osservi per esempio come il rapporto di un individuo più
potente con altri più deboli, che ha la forma del primus inter pa-
res, graviti in modo tipico nel senso di tradursi in una posizione
di potere assoluto del primo e di escludere a poco a poco gli
aspetti di eguaglianza. Benché nella realtà storica questo sia
un processo psichico, a noi interessa ora soltanto dal punto di
vista sociologico — come si dispongano qui i diversi stadi di
sovra-ordinazione e di subordinazione, fino a qual punto in
una determinata relazione un rapporto di sovra-ordinazione
sia compatibile con un rapporto di equiparazione in altre rela-
zioni, e a partire da quale punto di preponderanza esso distrug-
ga completamente quest’ultimo; se la connessione, la possibilità
di cooperazione sia maggiore nel primo o nel successivo stadio
di tale sviluppo, e così via. Oppure si constata che gli antagoni-
smi raggiungono il massimo accanimento quando sorgono sulla
base di una precedente comunanza o appartenenza reciproca
che sia ancora in qualche modo sentita, per cui si indica come
uno degli odi più feroci quello tra consanguinei. Ciò potrà
essere reso comprensibile, anzi descritto, come avvenimento sol-
tanto in termini psicologici. Ma, considerata come formazione
sociologica, non interessa la serie psichica che si svolge in cia-
scuno dei due individui, bensì la sinossi di entrambe sotto la
categoria dell’unione e della discordia. Anche se la descrizione
singolare o tipica del processo può sempre essere soltanto psico-
logica, ciò che ora importa è stabilire fino a qual punto il
rapporto tra due individui o partiti possa implicare antagoni-
smo e appartenenza reciproca, per lasciare ancora al tutto la
colorazione di quest’ultima o dargli quella del primo; quali
specie di appartenenza reciproca, sotto forma di ricordo o di
istinto insopprimibile, forniscano i mezzi per danneggiare in
modo più crudele e più profondamente lesivo di quello possibi-
le nel caso di una precedente estraneità; in breve, come quell’os-
servazione debba essere presentata quale realizzazione di forme
di relazione tra gli uomini, quale particolare combinazione di
488 GEORG SIMMEL
categorie sociologiche essa rappresenti. Riprendendo un accen-
no precedente, si può paragonare questo procedimento — pur
con tutte le differenze — alla deduzione geometrica che si
compie su una figura disegnata sulla lavagna. Tutto ciò che
qui può essere dato e visto sono tratti di gesso riportati fisica-
mente; ma ciò che noi intendiamo nella trattazione geometrica
non sono questi tratti, bensì il loro significato dal punto di
vista del concetto geometrico, che è completamente eterogeneo
rispetto a quella figura fisica come disposizione di particelle di
gesso — mentre d'altra parte possono essere inquadrati in cate-
gorie scientifiche anche sotto la specie di questa formazione
fisica, facendo oggetto di indagini particolari per esempio la
loro origine fisiologica o la loro composizione chimica o la loro
impressione ottica. I dati della sociologia sono dunque processi
psichici, la cui realtà immediata si offre in primo luogo alle
categorie psicologiche. Ma queste, pur essendo indispensabili
per la descrizione dei fatti, rimangono al di fuori dello scopo
dell’osservazione sociologica, il quale consiste piuttosto soltan-
to nella realtà oggettiva dell’associazione sorretta dai processi
psichici e spesso descrivibile solamente per mezzo di questi —
così come, per esempio, una composizione teatrale contiene dal-
l’inizio alla fine processi psicologici, può essere compresa soltan-
to psicologicamente, e tuttavia la sua intenzione non risiede in
conoscenze psicologiche, bensì nelle sintesi che i contenuti dei
processi psichici costituiscono dal punto di vista del tragico,
della forma artistica, dei simboli vitali ?.
Se la dottrina dell’associazione in quanto tale, distinta da
tutte le scienze sociali che sono determinate da un particolare
contenuto della vita sociale, è apparsa come l’unica scienza
legittimata ad assumere senz'altro il nome di scienza della so-
cietà, l'importante non sta naturalmente in questa denominazio-
a. L'introduzione di una nuova forma di considerazione dei fatti deve
sostenere i diversi aspetti del suo metodo mediante analogie con campi
riconosciuti; ma soltanto il processo — forse senza fine — in cui il prin-
cipio determina le sue attuazioni nell’ambito della ricerca concreta, e in
cui queste attuazioni legittimano il principio come fecondo, può ripulire
tali analogie dagli aspetti in cui la diversità di materia copre l’eguaglian-
za formale che è ora decisiva. Ma questo processo le libera della loro
equivocità soltanto nella misura in cui le rende superflue.
GEORG SIMMEL 489
ne, bensì nella scoperta di quel nuovo complesso di problemi
particolari. La polemica su ciò che significhi propriamente so-
ciologia mi sembra assolutamente priva di rilievo finché verte
soltanto sul riconoscimento di questo titolo ad ambiti di proble-
mi già esistenti e trattati. Se invece per indicare questo insie-
me di compiti si sceglie il titolo di sociologia con la pretesa di
coprire completamente ed esclusivamente il concetto di sociolo-
gia, ciò dev'essere ancora giustificato nei riguardi di un altro
gruppo di problemi che, non meno degli altri, cercano innega-
bilmente — al di là delle scienze della società determinate in
base al contenuto — di pervenire ad asserzioni sulla società in
quanto tale e considerata nel suo complesso.
AI pari di ogni altra scienza esatta, rivolta alla comprensione
immediata del dato, anche la scienza sociale è delimitata da
due campi filosofici. Il primo comprende le condizioni, i concet-
ti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare, che
non possono trovare sistemazione in questa perché stanno piut-
tosto già a base di essa; nel secondo questa ricerca particolare
viene recata a completamenti e a connessioni e messa in relazio-
ne con domande e concetti, che non trovano posto nell’ambito
dell'esperienza e del sapere immediatamente oggettivo. Quello
è la teoria della conoscenza, questo la metafisica dei campi
particolari in questione. La seconda implica propriamente due
problemi, che però nell’effettiva trattazione concettuale restano
di solito giustamente indivisi: l’insoddisfazione per il carattere
frammentario delle conoscenze particolari, per la rapida fine
delle constatazioni oggettive e delle serie dimostrative conduce
all'integrazione di queste lacune con i mezzi della specula-
zione; e appunto questi mezzi servono all'esigenza paralle-
la di integrare la mancanza di connessione e la reciproca estra-
neità di quei frammenti nell'unità di un quadro complessivo.
Accanto a questa funzione metafisica, orientata verso il grado
del conoscere, un’altra procede verso una diversa dimensione
dell’esistenza, nella quale risiede il significato metafisico dei
suoi contenuti: noi la esprimiamo come il senso o lo scopo,
come la sostanza assoluta tra i fenomeni relativi, o anche come
il valore o il significato religioso. Di fronte alla società questa
attitudine spirituale suscita domande come questa: la società è
lo scopo dell’esistenza umana o un mezzo per l'individuo? non
490 GEORG SIMMEL
è essa per l’individuo un mezzo, ma al contrario un ostacolo?
il suo valore consiste nella sua vita funzionale o nella produzio-
ne di uno spirito oggettivo o nelle qualità etiche che essa desta
nei singoli? nei tipici stadi di sviluppo delle società si manife-
sta un “analogia cosmica, in modo tale che le relazioni sociali
degli uomini debbano essere inserite in una forma o in un ritmo
generale, che di per sé non compare nel fenomeno ma che
fonda tutti i fenomeni, e che guida anche le forze dei fatti
materiali? può esserci in generale un significato metafisico-reli-
gioso di collettività, oppure questo significato è riservato alle
anime individuali?
Ma queste e innumerevoli domande analoghe non mi sem-
brano possedere quell’autonomia categoriale, quel caratteristico
rapporto tra oggetto e metodo che le legittimerebbe a fondare
la sociologia come una scienza nuova, coordinata con quelle
esistenti. Tutte queste sono infatti senz'altro domande filosofi
che, e il fatto che esse abbiano assunto come loro oggetto la
società significa soltanto l’estensione a un campo più vasto di
un modo di conoscenza già dato nella sua struttura. Che si
riconosca oppure no la filosofia come scienza, la filosofia della
società non ha alcun diritto di sottrarsi ai vantaggi o agli
svantaggi della sua appartenenza alla filosofia in generale attra-
verso la costituzione in una particolare scienza sociologica.
Non diversamente stanno le cose con i problemi filosofici
che non hanno la società come loro presupposto (come nel
caso dei precedenti), ma che ricercano invece essi stessi i presup-
posti della società — non già in senso storico, come se si
dovesse descrivere il sorgere di una qualche società particolare
o le condizioni fisiche e antropologiche sulla cui base può sorge-
re una società. Né si tratta qui degli stimoli particolari che
muovono il loro soggetto quando incontra altri soggetti e i cui
modi sono descritti dalla sociologia. Si tratta invece di questo:
quando un soggetto siffatto sussiste, quali sono i presupposti
della sua coscienza di costituire un essere sociale? In quelle
parti considerate di per sé non si ha ancora una società; ma
essa è già reale nelle forme di azione reciproca: quali sono
dunque le condizioni interne e di principio in base alle quali
gli individui forniti di tali stimoli dànno origine alla società in
generale, l’a priori che rende possibile e forma la struttura
GEORG SIMMEL 491
empirica dell'individuo in quanto essere sociale? Come sono
possibili non soltanto le formazioni particolari che sorgono em-
piricamente, e che rientrano nel concetto generale di società,
ma la società in generale come forma oggettiva di anime sog-
gettive ?
ExCURSUS SUL PROBLEMA: COME È POSSIBILE LA SOCIETÀ?
Kant poteva porre e dare una risposta alla questione fonda-
mentale della sua filosofia — come è possibile la natura? —
soltanto perché per lui la natura non era altro che la rappresen-
tazione della natura. Ciò non significa soltanto che «il mondo
è la mia rappresentazione », e che noi possiamo quindi parlare
anche della natura solamente in quanto essa è un contenuto
della nostra coscienza; ma significa che ciò che chiamiamo
natura è un modo particolare in cui il nostro intelletto racco-
glie, ordina, dà forma alle sensazioni. Queste sensazioni « da-
te » — del colorato e del gustabile, dei suoni e delle temperatu-
re, delle resistenze e degli odori — che attraversano la nostra
coscienza nella successione accidentale di un'esperienza vissuta
soggettiva, non sono di per sé ancora « natura », ma lo diventa-
no attraverso l’attività dello spirito che le compone in ogget-
ti e in serie di oggetti, in sostanze e in proprietà, in collegamen-
ti causali. Così come ci sono dati immediatamente, gli elementi
del mondo non posseggono per Kant quella conmessione che
sola costituisce l'unità comprensibile, e conforme a leggi della
natura, o meglio che significa appunto l’essere-natura di quei
frammenti di mondo in sé incoerenti e manifestantisi senza
regola. Così l’immagine kantiana del mondo si delinea in un
contrappunto quanto mai caratteristico: le nostre impressioni
sensibili sono per lui puramente soggettive, poiché dipendono
dall’organizzazione fisico-psichica — che in altri esseri potreb-
be essere diversa — e dall’accidentalità dei suoi stimoli, e esse
diventano «oggetti» quando vengono accolte dalle forme del
nostro intelletto, configurate da queste in regolarità stabili e in
un'immagine coerente della « natura »j ma d'altra parte quelle
sensazioni sono pur sempre il dato reale, il contenuto del mon-
do da assumere nella sua invariabilità e la garanzia di un
492 GEORG SIMMEL
essere indipendente da noi, cosicché ora proprio quelle elabora-
zioni intellettuali delle sensazioni in forma di oggetti, di con-
nessioni, di regolarità causali appaiono come soggettive, come
qualcosa di aggiunto da noi in antitesi a ciò che riceviamo
dall’esistenza, come le funzioni dell’intelletto stesso che — esse
pure immutabili — avrebbero con un altro materiale sensibile
formato una natura diversa per contenuto. La natura è per
Kant un determinato modo di conoscere, un’immagine che si
sviluppa attraverso le nostre categorie conoscitive e in esse. La
questione: come è possibile la natura? — ossia quali sono le
condizioni che devono sussistere perché vi sia una natura — si
risolve quindi per lui mediante la ricerca delle forme che costi-
tuiscono l’essenza del nostro intelletto e che in tal modo produ-
cono la natura in quanto tale.
Si sarebbe tentati di trattare in modo analogo la questione
delle condizioni 4 priori in base alle quali è possibile la
società. Infatti anche qui sono dati elementi individuali che in
certo senso sussistono anch'essi nella loro esteriorità reciproca,
al pari delle sensazioni, e raggiungono la loro sintesi nell’unità
di una società soltanto attraverso un processo di coscienza che
pone l'essere individuale del singolo elemento in relazione con
quello dell’altro in determinate forme e secondo determinate
regole. Ma la differenza decisiva tra l’unità di una società e
l’unità della natura consiste in questo: che la seconda — dal
punto di vista kantiano qui presupposto — sussiste esclusiva-
mente nel soggetto conoscente e viene prodotta esclusivamente
da lui sulla base degli elementi sensibili di per sé privi di
legame, mentre l’unità sociale viene realizzata senz'altro dai
suoi elementi, poiché essi sono coscienti e sinteticamente attivi,
e non ha bisogno di alcun osservatore. Il principio kantiano
secondo il quale la connessione non può mai risiedere nelle
cose, poiché viene posta in essere soltanto dal soggetto, non
vale per ia connessione sociale, che di fatto si compie piuttosto
immediatamente nelle « cose » — che qui sono le anime indivi-
duali. Anch’essa rimane naturalmente, come sintesi, qualcosa
di puramente psichico e senza parallelo con le formazioni spa-
ziali e con le loro azioni reciproche. Ma l’unificazione non ha
qui bisogno di nessun fattore al di fuori dei suoi elementi,
perché ciascuno di questi esercita la funzione che nei confronti
GEORG SIMMEL 493
del mondo esterno compie l’energia psichica dell'osservatore:
la coscienza di costituire con gli altri un’unità è qui effettiva-
mente tutta l’unità in questione. Naturalmente ciò non designa
la coscienza astratta del concetto di unità, bensì le innumerevo-
li relazioni singolari, il sentimento e il sapere di questo determi-
nare e venir determinato nei confronti degli altri, e d’altra
parte non esclude affatto che un terzo osservatore compia anco-
ra tra le persone una sintesi fondata soltanto su di lui, al pari
che tra gli elementi spaziali. Quale settore dell’essere dato al-
l'intuizione esterna debba essere raccolto in un’unità non risul-
ta dal suo contenuto immediato e semplicemente oggettivo, ma
viene determinato dalle categorie del soggetto e in base ai suoi
bisogni conoscitivi. La società è invece l’unità oggettiva che
non ha bisogno dell'osservatore non compreso in essa.
Le cose della natura sono da una parte assai più distanti tra
loro che non le anime: l’unità di un uomo con l’altro — che è
implicita nel comprendere, nell'amore, nell'opera comune —
non trova alcuna analogia nel mondo spaziale, in cui ogni
essere occupa il suo posto che non può dividere con nessun
altro. Ma d’altra parte i frammenti dell’essere spaziale si com-
pongono, nella coscienza dell’osservatore, in un’unità che di nuo-
vo non viene raggiunta dall’insieme degli individui. Infatti,
dal momento che gli oggetti della sintesi sono qui esseri indi-
pendenti, centri psichici, unità personali, essi si ribellano con-
tro quell’assoluto comporsi nell'anima di un altro soggetto, al
quale deve adattarsi il « disinteresse » delle cose inanimate. Co-
sì un gruppo di uomini è un’unità in misura molto superiore
realiter, ma idealiter in misura molto inferiore di quanto un
tavolo, sedie, un divano, un tappeto e uno specchio non costitui-
scano l’«ammobiliamento di una stanza » o di quanto un fiu-
me, un prato, alberi, una casa non costituiscano «un paesag-
gio », o, su un dipinto, « un quadro ». — La società è « la mia
rappresentazione », ossia poggia sull’attività della coscienza, in
un senso del tutto diverso dal mondo esterno. Infatti l’altra
anima ha per me appunto la stessa realtà che possiedo io, cioè
una realtà che si differenzia molto da quella di una cosa mate-
riale. Per quanto Kant garantisca che gli oggetti spaziali han-
no esattamente la medesima sicurezza della mia propria esisten-
za, con quest’ultima possono essere intesi soltanto i singoli
494 GEORG SIMMEL
contenuti della mia vita soggettiva: infatti il fondamento del
rappresentare in generale, il sentimento dell'io, possiede una
incondizionatezza e una incrollabilità che non viene conseguita
da nessuna particolare rappresentazione di un oggetto esterno
materiale. Ma anche il fatto del tu possiede per noi — si possa
o no giustificarla — questa stessa sicurezza; € come causa o
come effetto di questa sicurezza noi sentiamo il tu come qualco-
sa di indipendente dalla nostra rappresentazione di esso, qualco-
sa che esiste di per sé esattamente come la nostra propria
esistenza. Che questo per-sé dell’altro non ci impedisca tuttavia
di farne una nostra rappresentazione, che qualcosa che non si
può risolvere affatto nel nostro rappresentare divenga cionono-
stante contenuto, e quindi anche prodotto di questo rappresen-
tare — questo è lo schema e il problema psicologico-gnoseologi-
co più profondo dell’associazione. Entro la nostra coscienza
noi distinguiamo molto esattamente tra la fondamentalità del-
l'io, presupposto di ogni rappresentare, la quale non partecipa
alla problematica dei suoi contenuti che non si può mai mette-
re completamente da parte, e questi contenuti che, col loro
andare e venire, con la loro dubitabilità e correggibilità, si
presentano come semplici prodotti di quella forza ed esistenza
assoluta e ultima del nostro essere psichico. Ma noi dobbiamo
trasporre nell’altra anima, anche se in ultima analisi la rappre-
sentiamo pure, appunto queste condizioni, (e) piuttosto questi
aspetti incondizionati del nostro io; essa possiede per noi quel-
la misura estrema di realtà che il nostro io possiede di fronte
ai suoi contenuti e che siamo sicuri debba spettare anche a
quell’altra anima nei confronti dei suoi contenuti. In queste
circostanze la questione come sia possibile la società riveste un
senso metodologico completamente diverso dalla questione co-
me sia possibile la natura. Infatti alla seconda rispondono le
forme conoscitive mediante le quali il soggetto compie la sinte-
si di elementi dati nella « natura », mentre alla prima rispondo-
no invece le condizioni poste 4 priori negli elementi stessi, in
virtù delle quali essi si associano realmente nella sintesi « socie-
tà ». In certo senso l’intero contenuto di quest'opera, così come
si sviluppa in base al principio che abbiamo stabilito, è un
inizio di risposta a tale questione. Infatti essa indaga i processi
che si compiono in ultima analisi negli individui e che condi-
GEORG SIMMEL 495
zionano il loro essere-società — non già come cause antecedenti
rispetto a questo risultato, bensì come processi parziali della
sintesi che noi chiamiamo riassuntivamente società. Ma la que-
stione dev'essere intesa anche in un senso più fondamentale.
Ho detto che la funzione di attuare l’unità sintetica, che nei
confronti della natura riposa sul soggetto osservatore, nei con-
fronti della società sarebbe passata appunto agli elementi di
questa. La coscienza di costituire una società non è presente
all'individuo in maniera astratta, ma ognuno sa pur sempre
che l’altro è legato a lui, per quanto questo sapere dell’altro
come associato, questo conoscere tutto il complesso come socie-
tà si attui di solito soltanto in particolari contenuti concreti.
Ma forse le cose qui non stanno diversamente che nel caso
dell’« unità del conoscere », secondo la quale noi procediamo
nei processi della coscienza coordinando un contenuto concreto
con l’altro, senza tuttavia averne una coscienza distinta se non
in rare e tardive astrazioni. La questione è dunque la seguente:
qual è in linea del tutto generale e 4 priori il fondamento,
quali presupposti devono agire affinché i particolari processi
concreti della coscienza individuale siano realmente processi di
socializzazione, quali elementi in essi contenuti permettono che
la loro funzione sia, in termini astratti, quella di costruire
un’unità sociale in base agli individui? Le apriorità sociologi-
che avranno lo stesso doppio significato di quelle che « rendono
possibile» la matura: da una parte esse determineranno, in
maniera più compiuta o più difettosa, i processi reali di associa-
zione; d’altra parte esse costituiscono i presupposti ideali e
logici della società perfetta, anche se forse mai realizzata in
questa perfezione — così come la legge causale da un lato vive
e opera negli effettivi processi della conoscenza e dall'altro costi-
tuisce la forma della verità in quanto sistema ideale di cono-
scenze compiute, indipendentemente dal fatto che questa venga
realizzata attraverso tale dinamica psichica temporale e relativa-
mente accidentale oppure no, e indipendentemente dalla mag-
giore o minore approssimazione della verità realmente presen-
te nella coscienza alla verità idealmente valida.
È una pura questione di titolo se l'indagine di queste con-
dizioni del processo di socializzazione debba essere definita
gnoseologica oppure no, poiché la formazione che ne deriva, e
496 GEORG SIMMEL
che è regolata dalle sue forme, non consiste in conoscenze,
bensì in processi e stati esistenziali pratici. Ma ciò che qui
intendo, e che dev'essere esaminato dal punto di vista delle sue
condizioni come il concetto generale di associazione, è qualcosa
di conoscitivo: la coscienza di associarsi o di essere associati.
Forse lo si definirebbe meglio un sapere che non un conoscere.
Infatti il soggetto non sta qui di fronte a un oggetto di cui
esso acquisti gradualmente un'immagine teorica, ma la coscien-
za dell’associazione è immediatamente il suo sostegno o il suo
intimo significato. Si tratta dei processi dell’azione reciproca, i
quali per l'individuo significano il fatto — non astratto, ma
tuttavia suscettibile di espressione astratta — di essere asso-
ciato. Quali forme debbano stare a base di essi, ossia quali
categorie specifiche l’uomo debba per così dire recare con sé
affinché sorga questa coscienza, quali siano perciò le forme che
la coscienza così sorta — la società come un fatto di sapere —
deve sorreggere, tutto ciò può ben essere chiamato la teoria
della conoscenza della società. Cercherò qui di delineare come
esempio di una tale indagine alcune di queste condizioni o
forme 2 priori dell’associazione, le quali non possono certamen-
te essere designate con ur4 sola parola come le categorie kan-
tiane.
I. L'immagine che un uomo si fa di un altro in base al
contatto personale è condizionata da certi spostamenti che non
sono semplici illusioni dovute a un'esperienza incompiuta, a
deficiente acutezza della vista, a pregiudizi simpatici o antipati-
ci, ma sono modificazioni di principio della costituzione dell’og-
getto reale. E queste si muovono anzitutto in due dimensioni.
Noi vediamo l’altro in qualche misura generalizzato, forse per-
ché non ci è dato di rappresentare pienamente in noi un’indivi-
dualità divergente dalla nostra. Ogni riproduzione di un'anima
è condizionata dalla somiglianza con essa, e sebbene questa
non sia assolutamente l’unica condizione del conoscere psichi-
co — poiché appare necessaria da un lato una contemporanea
diseguaglianza, per poter acquistare distanza e oggettività, dal-
l’altro una capacità intellettuale che rimane al di là dell’egua-
glianza o diseguaglianza dell'essere — tuttavia il conoscere per-
fetto presupporrebbe un’eguaglianza perfetta. Sembra che ogni
GEORG SIMMEL 497
uomo abbia in sé un punto di individualità più profondo che
non può essere internamente riprodotto da nessun altro uomo
nel quale questo punto sia qualitativamente divergente. E il
fatto che questa esigenza non sia conciliabile, già sotto il profi-
lo logico, con quella distanza e valutazione oggettiva sulle qua-
li poggia inoltre la rappresentazione dell’altro, dimostra soltan-
to che ci è negato il sapere perfetto intorno all’individualità
dell’altro; e tutti i rapporti degli uomini tra loro sono condizio-
nati dal diverso grado di questo difetto. Quale che sia la sua
causa, la conseguenza è però in ogni caso una generalizzazione
dell'immagine psichica dell’altro, uno sfumare dei contorni che
aggiunge all’unicità di questa immagine una relazione con al-
tre. Noi rappresentiamo ogni uomo — con particolari conse-
guenze per il nostro rapporto pratico con lui — come il tipo
di uomo al quale la sua individualità lo fa appartenere; lo
pensiamo, insieme a tutta la sua singolarità, sotto una catego-
ria generale che certamente non lo ricopre del tutto e che egli
non ricopre del tutto, e in virtù di tale determinazione questo
rapporto si differenzia dal rapporto tra il concetto generale e il
particolare che in esso rientra. Per conoscere l’uomo noi non lo
vediamo nella sua pura individualità, ma lo vediamo sorretto,
elevato o anche abbassato dal tipo generale al quale lo assegnia-
mo. Anche quando questa trasformazione è così impercettibile
che non possiamo più riconoscerla immediatamente, anche quan-
do vengono meno tutti i consueti concetti caratterologici — mo-
rale o immorale, libero o vincolato, signorile o servile ecc. —
noi denominiamo internamente l’uomo secondo un tipo tacito
col quale il suo puro essere per sé non coincide.
E ciò conduce ancora un gradino più in giù. Proprio in
base alla piena unicità di una personalità noi ci formiamo
un'immagine di essa che non è identica alla sua realtà, ma che
tuttavia non è un tipo generale, ma è piuttosto l’immagine che
egli mostrerebbe se fosse per così dire interamente se stesso, se
realizzasse, in senso buono o cattivo, la possibilità ideale insita
in ogni uomo. Noi siamo tutti frammenti non soltanto dell’uo-
mo in generale, ma anche di noi stessi. Noi siamo tutti ab-
bozzi non soltanto del tipo uomo in generale, non soltanto del
tipo del buono e del cattivo e simili, ma siamo abbozzi anche
di quella individualità e unicità di noi stessi — non più denomi-
32. STORICISMO TEDESCO.
498 GEORG SIMMEL
nabile in linea di principio — la quale circonda, quasi disegna-
ta con linee ideali, la nostra realtà percepibile. Lo sguardo
dell’altro integra però questo materiale frammentario in quel
che noi non siamo mai puramente e interamente. Egli non può
vedere soltanto uno accanto all’altro i frammenti che sono real-
mente dati, ma come noi completiamo la macchia cieca nel
nostro campo visivo in modo tale che non si è coscienti di
essa, così da questo materiale frammentario perveniamo alla
compiutezza della sua individualità. La prassi della vita ci
spinge a formare l’immagine dell’uomo soltanto in base ai
frammenti reali che conosciamo empiricamente di lui; ma essa
poggia appunto su quelle modificazioni e integrazioni, sulla
trasformazione di quei frammenti dati nella generalità di un
tipo e nella compiutezza della personalità ideale.
Questo procedimento di principio, anche se in realtà rara-
mente attuato fino alla perfezione, opera nell’ambito della socie-
tà già esistente come l’a priori delle ulteriori azioni reciproche
che si sviluppano tra gli individui. Entro una cerhia legata da
una qualche comunanza di professione o di interessi ogni mem-
bro vede l’altro non già in modo puramente empirico, ma in
base a un 4 priori che questa cerchia impone a ogni coscienza
che ne faccia parte. Nelle cerchie degli ufficiali, dei fedeli di
una chiesa, dei funzionari, dei dotti, dei familiari ognuno ve-
de l’altro partendo dall’ovvio presupposto che egli è un mem-
bro della sua cerchia. Dalla base di vita comune scaturiscono
certe supposizioni attraverso le quali ci si guarda reciprocamen-
te come attraverso un velo. Certamente questo non soltanto
nasconde il carattere specifico della personalità, ma le conferi-
sce una nuova forma, fondendosi con la sua consistenza indivi-
duale-reale in una formazione unitaria. Noi vediamo l’altro
non già semplicemente come individuo, bensì come collega o
camerata o compagno di partito, in breve come coabitatore del
medesimo mondo particolare; e questo presupposto inevitabile,
che opera in modo del tutto automatico, è uno dei mezzi per
portare la sua personalità e la sua realtà nella rappresentazione
dell’altro alla qualità e alla forma richiesta dalla sua sociabilità.
Ciò vale evidentemente per il rapporto tra appartenenti a
cerchie diverse. Il borghese che fa la conoscenza di un ufficiale
non può affatto liberarsi dal pensiero che questo individuo è un
GEORG SIMMEL 499
ufficiale; e per quanto l’essere ufficiale possa far parte di questa
individualità, non ne fa però parte nell’identica forma schemati-
ca in cui, nella rappresentazione dell’altro, ne pregiudica l’im-
magine. E così accade al Protestante di fronte al Cattolico, al
commerciante di fronte al funzionario, al laico di fronte al
sacerdote, e così via. Ovunque abbiamo qui offuscamenti del
profilo della realtà ad opera della generalizzazione sociale, i
quali ne precludono in linea di principio la scoperta nell’ambi-
to di una società socialmente assai differenziata. Così l’uomo
incontra nella rappresentazione dell’uomo spostamenti, sottra-
zioni e integrazioni — poiché la generalizzazione è sempre, nel
medesimo tempo, più o meno dell’individualità — rispetto a
tutte queste categorie operanti 4 priori: rispetto al suo tipo
come uomo, all’idea del suo proprio compimento, alla collettivi-
tà sociale a cui egli appartiene. Su tutto ciò aleggia — come
principio euristico del conoscere — l’idea della sua determina-
tezza reale, assolutamente individuale. Ma mentre sembra che
l'acquisizione di questa determinatezza conduca a una relazio-
ne correttamente fondata con lui, di fatto quelle modificazioni
e formazioni nuove che ostacolano la sua conoscenza ideale
sono proprio le condizioni in virtù delle quali diventano possibi-
li le relazioni, che sole conosciamo come sociali, all’incirca co-
me in Kant le categorie dell'intelletto, che formano i dati
immediati in oggetti del tutto nuovi, rendono esse soltanto
conoscibile il mondo dato.
II. Un’altra categoria sotto la quale i soggetti guardano se
stessi e si guardano reciprocamente, in modo da poter produrre
— così formati — la società empirica, può venir formulata con
la proposizione apparentemente banale che ogni elemento di
un gruppo non è soltanto parte di una società, ma è inoltre
ancora qualcosa. Ciò opera come 4 priori sociale nella misura
in cui la parte dell’individuo che non è rivolta alla società o
non si risolve in essa mon se ne sta semplicemente priva di
relazione accanto alla sua parte socialmente significativa, cioè
non è soltanto un corpo estraneo alla società a cui questa,
volente o nolente, fa posto. Il fatto che l’individuo non sia per
certi aspetti elemento della società costituisce la condizione posi-
tiva della possibilità di esserlo con altri aspetti del suo essere:
500 GEORG SIMMEL
il modo del suo essere-associato è determinato o condeterminato
dal modo del suo non-essere-associato. Dalle indagini seguenti
risulteranno alcuni tipi il cui significato sociologico è fissato,
addirittura nel suo nucleo e nella sua essenza, dal fatto che essi
sono in qualche modo esclusi dalla società per la quale la loro
esistenza è significativa: così avviene nel caso dello straniero,
del nemico, del criminale, perfino del povero. Ma ciò non vale
soltanto per questi caratteri generali, ma anche, in innumerevo-
li modificazioni, per qualsiasi fenomeno individuale. Il fatto
che ogni momento ci trovi circondati da relazioni con uomini e
che il suo contenuto ne sia determinato direttamente o indiretta-
mente non parla affatto in senso contrario; l’inserimento socia-
le in quanto tale riguarda appunto esseri che non sono comple-
tamente abbracciati da esso. Del funzionario sappiamo che non
è soltanto funzionario, del commerciante che non è soltanto
commerciante, dell’ufficiale che non è soltanto ufficiale; e que-
sto essere extra-sociale, il suo temperamento e il precipitato dei
suoi destini, i suoi interessi e il valore della sua personalità, per
quanto poco possano modificare la sostanza delle attività com-
piute quale funzionario, commerciante, militare, gli conferisco-
no tuttavia ogni volta — per chiunque gli stia di fronte — una
determinata zuance e intrecciano nella sua immagine sociale
imponderabili elementi extra-sociali. L'intero sistema di rappor-
ti degli uomini nell’ambito delle categorie sociali sarebbe diver-
so se ognuno si presentasse all’altro soltanto come quel che è
nella sua categoria, come portatore del ruolo sociale che pro-
prio ora gli spetta. Certamente gli individui, al pari delle pro-
fessioni e delle situazioni sociali, si differenziano secondo la
misura di quell’«inoltre» che essi possiedono o ammettono
insieme con il loro contenuto sociale. Un polo di questa serie è
costituito per esempio dall'uomo nei rapporti di amore o di
amicizia. Qui ciò che l’individuo riserva per sé, al di là degli
sviluppi e delle attività rivolte all’altro, può avvicinarsi quanti-
tativamente al valore-limite zero; siamo in presenza di un’uni-
ca vita, che può essere considerata o viene vissuta per così dire
da due lati — per un verso dal lato interno, dal terminus a quo
del soggetto, e poi anche, come vita del tutto immutata, nella
direzione dell’individuo amato, sotto la categoria del suo termi
nus ad quem, che essa accoglie senza residuo. Sotto una tenden-
GEORG SIMMEL 501
za del tutto diversa il sacerdote cattolico presenta un fenome-
no formalmente identico, nel senso che la sua funzione ecclesia-
stica ricopre e ingloba completamente il suo essere-per-sé indivi-
duale. Nel primo di questi casi estremi l’« inoltre » dell’attivi-
tà sociologica scompare, perché il suo contenuto si è risolto
completamente nel rivolgersi all'individuo che gli sta di fron-
te, nel secondo perché il tipo corrispondente di contenuti è
scomparso in linea di principio. Il polo opposto è offerto per
esempio dai fenomeni della cultura moderna determinata dall’e-
conomia monetaria, nella quale l'uomo come produttore, com-
pratore o venditore, e in generale come soggetto di una presta-
zione, si avvicina all’ideale dell’oggettività assoluta. Prescinden-
do dalle posizioni elevate, di carattere direttivo, la vita indivi-
duale e cioè il tono della personalità complessiva è scomparso
dalla prestazione; gli uomini sono soltanto i portatori di un
equilibrio di prestazione e contro-prestazione regolato secondo
norme oggettive, e tutto ciò che non fa parte di questa pura
oggettività è anche di fatto sparito da essa. L’«inoltre» ha
assorbito completamente in sé la personalità con la sua colora-
zione particolare, la sua irrazionalità, la sua vita interiore,
lasciando a quelle attività sociali — nettamente separate — sol-
tanto le energie ad esse specifiche.
Gli individui sociali si muovono sempre tra questi estremi,
in modo tale che le energie e le determinatezze rivolte al
centro interno mostrano un qualche significato per le attività e
il modo di sentire validi per l’altro. Infatti — nel caso-limite
— perfino la coscienza che quest'attività o questo stato d’animo
sociale sia qualcosa di separato dal resto dell’uomo e 707 entri,
con ciò che egli è e significa altrimenti, nella relazione sociolo-
gica, ha un'influenza del tutto positiva sull’atteggiamento che
il soggetto assume di fronte agli altri e che gli altri assumono
di fronte ad esso. L’a priori della vita sociale empirica è il
fatto che la vita non è del tutto sociale; noi formiamo le nostre
relazioni reciproche non soltanto con la riserva negativa di una
parte della nostra personalità che non entra in esse, e questa
parte influisce sui processi sociali nell'anima non soltanto me-
diante connessioni psicologiche generali, ma proprio il fatto
formale che essa sta al di fuori di tali processi determina il
modo di questa influenza. — Il fatto che le società siano forma-
502 GEORG SIMMEL
zioni derivanti da esseri che stanno allo stesso tempo dentro e
fuori di esse è anche alla base di una delle più importanti
formazioni sociologiche: quella, cioè, per cui tra una società e
i suoi individui può sussistere — anzi forse, in modo più aperto
o più latente, sussiste sempre — un rapporto simile a quello tra
due partiti. In tal modo la società produce forse la più coscien-
te, almeno la più generale configurazione di una forma fonda-
mentale della vita in genere: il fatto che l’anima individuale
non può mai stare in una connessione senza stare contempora-
neamente al di fuori di essa, che non è mai inserita in un
ordinamento senza trovarsi nel medesimo tempo contrapposta
ad esso. Ciò va dalle connessioni trascendenti e generalissime
fino alle più singolari e accidentali. L'uomo religioso si sente
completamente circondato dall’essere divino, come se fosse sol-
tanto un battito della vita divina, e la sua propria sostanza è
data senza riserve, anzi in una mistica indistinzione con quella
dell’assoluto. Eppure, per dare anche soltanto un senso a questa
fusione, egli deve conservare un qualche essere autonomo, un
termine personale a lui contrapposto, un io separato per il
quale la risoluzione in questo essere divino onnicomprensivo
rappresenta un compito infinito, un processo che non sarebbe
né metafisicamente possibile né religiosamente percepibile se
non partisse da un essere per sé del soggetto: l’essere-uno con
Dio è condizionato nel suo significato dall’essere-altro rispetto
a Dio. AI di là di questo innalzamento nel trascendente la
relazione che lo spirito umano rivendica, attraverso tutta la
sua storia, con la natura come un tutto rivela la medesima
forma. Noi ci sappiamo da un lato inseriti nella natura, come
uno dei suoi prodotti che sta da eguale tra eguali accanto a
qualsiasi altro, come un punto che le sue materie ed energie
raggiungono e abbandonano, nello stesso modo in cui circolano
attraverso l’acqua corrente e la pianta in fiore. E tuttavia l’ani-
ma ha il sentimento di un essere-per-sé indipendente da tutti
questi intrecci e da queste relazioni, che si designa col con-
cetto — così malsicuro sotto il profilo logico — di libertà, il
quale offre a tutto questo meccanismo, di cui noi siamo pur
tuttavia un elemento, un termine contrapposto e un ripagamen-
to che culmina nel radicalismo per il quale la natura viene
considerata soltanto una rappresentazione presente nelle anime
GEORG SIMMEL 503
umane. Come però qui la natura, con tutta la sua propria
innegabile legalità e con la sua dura realtà, è pur sempre inclu-
sa nell’io, così d’altra parte questo io, con tutta la sua libertà
e il suo essere per sé, con la sua antitesi nei confronti della
mera natura, è pur sempre un elemento di essa. La connessione
usurpatrice della natura è appunto tale che essa comprende
questo essere autonomo, anzi spesso ostile ad essa, e che ciò
che nel suo più profondo sentimento vitale sta al di fuori
dev'essere invece un suo elemento. Questa formula vale egual-
mente per il rapporto tra gli individui e le singole cerchie dei
loro legami sociali, oppure — se questi vengono riassunti nel
concetto o nel sentimento di essere associati in generale — per
il rapporto tra gli individui in quanto tale. Noi ci sappiamo da
una parte prodotti della società: la serie fisiologica degli antena-
ti, i loro adattamenti e le loro fissazioni, le tradizioni del loro
lavoro, del loro sapere e delle loro credenze, l’intero spirito del
passato cristallizzato in forme oggettive determinano le disposi-
zioni e i contenuti della nostra vita, cosicché può sorgere la
questione se l'individuo sia qualcosa di diverso da un recipiente
nel quale si mescolano in misura variabile elementi preesistenti.
Infatti, anche se questi elementi fossero in ultima analisi pro-
dotti dagli individui, il contributo di ognuno sarebbe una gran-
dezza infinitesimale, e soltanto mediante il loro riunirsi in spe-
cie e in società si produrrebbero i fattori nella cui sintesi consi-
sterebbe poi di nuovo l’individualità che si può specificare.
D'altra parte noi ci sappiamo membri della società, intessuti
con il nostro processo vitale, con il suo senso e il suo scopo in
modo tanto poco indipendente nella sua prossimità come nella
sua successione. Come non possediamo un essere per noi in
quanto esseri naturali, perché la circolazione degli elementi
naturali pervade tanto noi quanto formazioni completamente
prive di un io, e l'eguaglianza di fronte alle leggi naturali
risolve senza residui la nostra esistenza in un mero esempio del-
la loro necessità, così in quanto esseri sociali non viviamo intor-
no a un centro autonomo, ma siamo in ogni attimo composti
dalle relazioni reciproche con gli altri; e in tal modo siamo
comparabili con la sostanza corporea, che per noi sussiste soltan-
to più come somma di molteplici impressioni sensibili, ma non
come esistenza di per sé. Noi sentiamo però che questa diffusio-
504 GEORG SIMMEL
ne sociale non risolve completamente la nostra personalità.
Non si tratta soltanto delle riserve già avanzate, di particolari
contenuti il cui senso e il cui sviluppo risiedono 4 priori solamen-
te nell'anima individuale e non trovano assolutamente posto
nella connessione sociale; non si tratta soltanto della formazione
dei contenuti sociali, la cui unità come anima individuale non ha
essa stessa carattere sociale, così come la forma artistica nella
quale confluiscono le macchie di colore sulla tela non è deriva-
bile dall’essenza chimica dei colori. Si tratta, in primo luogo,
del fatto che l’intero contenuto della vita, per quanto possa
essere completamente spiegato in base agli antecedenti sociali e
alle relazioni reciproche, dev'essere contemporaneamente consi-
derato sotto la categoria della vita individuale, come espe-
rienza vissuta dell’individuo e interamente orientata verso di
esso. L'uno e l’altro elemento non sono che categorie diverse
sotto le quali ricade lo stesso contenuto, proprio come la mede-
sima pianta può essere vista ora nelle condizioni biologiche del
suo sviluppo, ora nella sua utilizzabilità pratica, o ancora sotto
il profilo del suo significato estetico. Il punto di vista dal quale
l’esistenza dell’individuo viene ordinata e compresa può esse-
re scelto tanto all’interno quanto all’esterno di esso; la tota-
lità della vita, con tutti i suoi contenuti socialmente derivabili,
può essere tanto concepita come il destino centripeto del suo
portatore, quanto valere — con tutte le sue parti riservate all’in-
dividuo — come prodotto ed elemento della vita sociale.
Il fatto dell’associazione colloca dunque l’individuo nella du-
plice posizione dalla quale sono partito: egli è compreso in
essa e contemporaneamente si contrappone ad essa, è un ele-
mento del suo organismo e al tempo stesso è un tutto organico
concluso, è un essere per essa e un essere per sé. Ma l’aspetto
essenziale e il senso del particolare 4 priori sociologico che si
fonda su tale fatto è che tra individuo e società l’interno e
l'esterno non costituiscono due determinazioni sussistenti l’una
accanto all’altra — benché si possano occasionalmente sviluppa-
re anche in questo modo, fino all’ostilità reciproca — ma defini-
scono la posizione del tutto unitaria dell’uomo che vive social-
mente. La sua esistenza non è soltanto parzialmente sociale e
parzialmente individuale in una divisione di contenuti; ma si
colloca sotto la categoria fondamentale, formativa, non ulterior-
GEORG SIMMEL 505
mente riducibile di una unità che non possiamo esprimere altri-
menti che mediante la sintesi o la contemporaneità delle due
determinazioni logicamente contrapposte dell'essere membro
della società e dell’essere per sé, dell’essere prodotto e
compreso dalla società e del vivere in base al proprio centro e
per il proprio centro. La società non consiste soltanto — come
è risultato sopra — di esseri che in parte non sono associati,
ma anche di esseri che si sentono da una parte esistenze comple-
tamente sociali, e dall’altra, conservando lo stesso contenuto,
completamente personali. E questi non sono due punti di vista
che coesistano privi di relazione, come quando si considera per
esempio lo stesso corpo sotto il profilo ora del suo peso, ora
del suo colore, ma costituiscono insieme l’unità che chiamiamo
essere sociale, la categoria sintetica — nello stesso modo in cui
il concetto di causazione è un'unità 4 priori, anche se include
entrambi gli elementi, del tutto differenti per il loro contenuto,
del causante e del causato. Il fatto che abbiamo a disposizione
questa formazione, questa capacità di produrre — sulla base
di esseri ognuno dei quali può sentirsi come ferminus a quo e
terminus ad quem dei suoi sviluppi, dei suoi destini e delle sue
qualità — un concetto di società che fa leva proprio su tali ele-
menti, e di concepire quest’ultimo come terminus a quo e
terminus ad quem di quelle vitalità e determinatezze esistenzia-
li, costituisce un 4 priori della società empirica, e rende possibi-
le la sua forma quale la conosciamo.
III. La società è una formazione composta da elementi dise-
guali. Infatti anche dove tendenze democratiche o socialistiche
programmano o parzialmente raggiungono un’« eguaglianza »,
si tratta sempre soltanto di un’eguaglianza di valore delle perso-
ne, delle prestazioni, delle posizioni, mentre un’eguaglianza di
qualità, di contenuti vitali e di destini tra gli uomini non può
neppure venir presa in considerazione. E dove d'altra parte una
popolazione ridotta in schiavitù costituisce soltanto una massa
— come nei grandi regimi dispotici orientali — quest’egua-
glianza riguarda sempre solamente certi aspetti dell’esistenza,
per esempio quelli politici o economici, ma mai la sua totalità,
in quanto le sue qualità congenite, le sue relazioni personali, i
suoi destini vissuti avranno inevitabilmente una specie di uni-
506 GEORG SIMMEL
cità e di insostituibilità non soltanto per il lato interno della vita,
ma anche per le sue relazioni reciproche con altre esistenze. Se ci
si rappresenta la società come uno schema puramente oggettivo,
essa sì rivela quale ordinamento di contenuti e di prestazioni
che stanno in una relazione reciproca per spazio, tempo, concet-
ti, valori, permettendo così di prescindere dalla personalità,
dalla forma dell'io che sostiene la loro dinamica. Se quella
diseguaglianza di elementi fa apparire ogni prestazione o quali-
tà nell’ambito di questo ordine come caratterizzata individual-
mente, come inequivocabilmente fissata al suo posto, la società
si configura come un cosmo la cui molteplicità è sì sterminata
nel suo essere e nel suo movimento, ma in cui ogni punto può
essere costituito e svilupparsi soltanto in quel determinato mo-
do, se la struttura del tutto non dev'essere mutata. Ciò che è
stato detto della costruzione del mondo in generale — che
nessun granello di sabbia potrebbe essere formato e collocato
diversamente da com'è, senza che questo abbia come presuppo-
sto e come conseguenza una modificazione dell'intera esistenza
— vale anche per la costruzione della società, considerata co-
me un intreccio di fenomeni qualitativamente determinati. Que-
st'immagine della società in generale trova un’analogia (come
in una miniatura, infinitamente semplificata e per così dire
stilizzata) in una struttura di funzionari che consiste, in quan-
to tale, in un determinato ordine di « posizioni », in una prede-
terminatezza di funzioni che, staccate dai loro portatori, dànno
luogo a una connessione ideale; nell’ambito di questa ogni
nuovo individuo che entra a farne parte trova un posto inequi-
vocabilmente determinato, che lo ha per così dire aspettato e
al quale le sue energie devono adattarsi armonicamente. Natu-
ralmente ciò che qui è fissazione consapevole e sistematica di
contenuti di prestazioni è, nella totalità della società, un inestri-
cabile intreccio di funzioni; le posizioni al suo interno non
sono date da una volontà costruttiva, ma si possono cogliere
soltanto attraverso l’attività creativa e l’esperienza vissuta degli
individui. E nonostante questa enorme differenza, nonostante
tutto ciò che di irrazionale, di imperfetto, di riprovevole dal
punto di vista del valore la società storica presenta, la sua
struttura fenomenologica — vale a dire la somma e il rapporto
del modo di esistenza e delle prestazioni offerte da ogni elemen-
GEORG SIMMEL 507
to sotto il profilo oggettivo-sociale — rimane un ordine fatto
di elementi ciascuno dei quali occupa un posto individualmente
determinato, una coordinazione di funzioni e di centri di fun-
zioni dotate di senso, anche se non sempre di valore, oggettiva-
mente e nel loro significato sociale; mentre l’elemento pura-
mente personale, l'elemento internamente produttivo, gli impul-
si e i riflessi dell’io vero e proprio restano completamente
fuori considerazione. Ossia, in altri termini, la vita della
società scorre — non già psicologicamente, bensì fenomenologi-
camente, considerata puramente sotto il profilo dei suoi conte-
nuti «sociali in quanto tali — come se ogni elemento fosse
predestinato alla sua posizione in questa totalità; con tutta la
disarmonia rispetto alle istanze ideali essa scorre come se tutti
i suoi elementi stessero in un rapporto unitario che fa dipende-
re ciascuno, proprio perché esso è questo particolare elemento,
da tutti gli altri e tutti gli altri da questo.
Ciò permette di scorgere l’a priori del quale dobbiamo ora
parlare, e che per l’individuo significa un fondamento e la
« possibilità » di appartenere a una società. Che ogni individuo
sia di per sé orientato dalla sua qualità verso una determinata
posizione nell’ambito del suo miliew sociale; che questa posizio-
ne che idealmente gli appartiene sia anche realmente presente
nel complesso sociale — questo è il presupposto in base al
quale l'individuo vive la sua vita sociale e che si può definire
come il valore di universalità inerente all’individualità. Esso è
indipendente dalla sua elaborazione in una chiara coscienza
concettuale, ma anche dalla sua realizzazione nel corso della
vita reale — così come l’apriorità della legge causale quale
presupposto formativo del conoscere è indipendente dal fatto
che la coscienza la formuli in concetti distinti e che la realtà
psicologica proceda sempre in conformità ad essa oppure no.
La nostra vita conoscitiva poggia sul presupposto di un’armo-
nia prestabilita tra le nostre energie spirituali, anche se ancora
individuali, e l’esistenza esteriore, oggettiva: infatti questa ri-
mane sempre l’espressione di un fenomeno immediato, non im-
porta se si possa poi ricondurla metafisicamente o psicologica-
mente alla produzione dell’esistenza ad opera dell'intelletto stes-
so. Parimenti la vita sociale in quanto tale poggia sul presuppo-
sto di una fondamentale armonia tra l’individuo e il complesso
508 GEORG SIMMEL
sociale, anche se ciò non impedisce le crasse dissonanze tra la
vita etica e la vita eudemonistica. Se la realtà sociale fosse
conformata senza ostacoli e senza difetti in base a questo pre-
supposto di principio, noi avremmo la società perfetta — di
nuovo non nel senso di una perfezione etica o eudemonistica,
ma nel senso di una perfezione concettuale: per così dire non
la società perfetta, ma la perfetta società. Finché l’individuo
non realizza o non trova realizzato questo 4 priori della sua
esistenza sociale — vale a dire la penetrante correlazione del
suo essere individuale con le cerchie circostanti, la necessità
integrante per la vita del tutto della sua particolarità determina-
ta dalla vita personale interiore — fino ad allora egli non è
associato, e la società non è quell’attività reciproca priva di
lacune che il suo concetto enuncia.
Questo comportamento acquista una consapevole accentua-
zione con la categoria della professione. L’antichità non ha
conosciuto questo concetto nel senso di una differenziazione
personale e di una società articolata in base alla divisione del
lavoro. Ma anche nell’antichità sussisteva il fenomeno che ne
costituisce il fondamento: che l’agire socialmente efficace è l’e-
spressione unitaria della qualificazione interiore, che l’aspetto
totale e permanente della soggettività si oggettiva praticamente
in virtù delle sue funzioni nella società. Soltanto che questa
relazione si attuava in un contenuto generalmente più unifor-
me; il suo principio emerge nell’osservazione aristotelica che
alcuni sono destinati per la loro natura al SovAzbew, altri al
Seorétew. A un grado più elevato di elaborazione il concetto pre-
senta la struttura caratteristica per cui da una parte la società pro-
duce e offre in sé una « posizione » che è si differenziata da altre
per contenuto e contorni, ma che può in linea di principio essere
occupata da molti ed è quindi per così dire qualcosa di anoni-
mo; e dall’altra parte questa posizione, nonostante il suo carat-
tere di generalità, viene assunta dall’individuo in base a una
«chiamata » interiore, a una qualificazione sentita come del
tutto personale. Affinché esista in generale una « professione »
deve sussistere quell’armonia — comunque essa sia sorta — tra
la costruzione e il processo vitale della società, da un lato, e le
qualità e gli impulsi individuali, dall'altro. Su questo presuppo-
sto generale si fonda in ultima analisi l’idea che per ogni
GEORG SIMMEL 509
personalità vi sia, nell’ambito della società, una posizione e
funzione alla quale essa è « chiamata », e l'imperativo di cerca-
re finché la si trova.
La società empirica diventa « possibile » soltanto mediante
questo 4 priori che culmina nel concetto di professione, e che
certamente — al pari di quelli finora trattati — non può essere
designato con una semplice parola d’ordine, come consentono
di fare le categorie kantiane. I processi di coscienza con i
quali l’associazione si compie — l’unità a partire dai molti, la
determinazione reciproca degli individui, il significato recipro-
co degli individui per la totalità degli altri e di questa totalità
per l’individuo — hanno luogo in base a questo presupposto di
principio, non già astrattamente consapevole ma che si esprime
nella realtà della prassi: il presupposto secondo cui l’individua-
lità del singolo trova un posto nella struttura dell’universalità,
anzi che questa struttura, nonostante l’aspetto imprevedibile
dell’individualità, è rivolta in certa misura a questa e alla sua
funzione. La connessione causale che intesse ciascun elemento
sociale nell’essere e nell’agire di ogni altro, dando così luogo
alla rete esteriore della società, si trasforma in una connessione
teleologica non appena la si considera dal punto di vista dei
portatori individuali, di coloro che la producono, i quali si
sentono come io e il cui atteggiamento cresce sul terreno della
personalità che è per sé e si determina da sé. Il fatto che
quella totalità fenomenica si adatta allo scopo di queste indivi-
dualità che quasi le si fanno incontro dall’esterno, che offre al
processo vitale di queste, determinato dall’interno, il luogo in
cui la sua particolarità diventa un elemento necessario nella
vita del tutto — tutto ciò, assunto come categoria fondamenta-
le, conferisce alla coscienza dell’individuo la forma che lo desi-
gna come elemento sociale.
È una questione abbastanza oziosa se le indagini sulla teoria
della conoscenza della società, che dovevano essere esemplifica
te da questi abbozzi, rientrino nella filosofia sociale o non già
addirittura nella sociologia. Ammettendo pure che esse costitui-
scano una zona di confine tra i due metodi, la sicurezza del
DI
problema sociologico — quale è stato tratteggiato avanti — e
IO GEORG SIMMEL
la delimitazione nei confronti della problematica filosofica non
ne soffrono più di quanto la determinatezza dei concetti di
giorno e di notte non soffra del fatto che esiste un crepusco-
lo, o quella dei concetti di uomo e di animale non soffra del
fatto che forse si possono trovare gradi intermedi che riunisco-
no le caratteristiche di entrambi in maniera per noi concettual-
mente non separabile. Quando il problema sociologico si rivol-
ge all’astrazione di ciò che nel complesso fenomeno che chia-
miamo vita sociale è realmente soltanto società, vale a dire
associazione; quando esso elimina dalla purezza di questo con-
cetto tutto ciò che viene sì realizzato storicamente soltanto en-
tro la società, ma non costituisce la società come tale, come
forma singolare e autonoma di esistenza — allora viene indivi-
duato un nucleo di compiti assolutamente inequivocabile; e pur
potendo accadere che la periferia di questa cerchia di problemi
entri, temporaneamente o durevolmente, in contatto con altre
cerchie, che la delimitazione dei confini diventi dubbia, non
per questo il centro rimane meno saldo al suo posto.
Passo ora a mostrare la fecondità di questo concetto e proble-
ma centrale in indagini particolari. Lungi dalla pretesa di esauri-
re il numero delle forme di azione reciproca che costituiscono
la società, esse mostrano soltanto la via che potrebbe condurre
all’isolamento scientifico dell’intero ambito della « società » dal-
la totalità della vita; cioè si propongono di mostrarla compien-
do i primi passi su tale cammino.
L’ESSENZA DEL COMPRENDERE STORICO *
La relazione di uno spirito con un altro, che noi definiamo
comprendere, costituisce un avvenimento fondamentale della
vita umana, la cui recettività e attività propria è unificante in
un modo non più scomponibile, ma che è soltanto oggetto di
esperienza vissuta. Nell’esame del comprendere in generale è
incluso l'esame del comprendere propriamente storico. Infatti,
nello stesso modo in cui tutte le nostre produzioni ideali, pura-
mente spirituali, trovano i loro abbozzi frammentari in quelle
forme e in quei modi di procedere che lo spirito ha sviluppato
per esigenze pratiche e per i progressi della vita, così anche la
storia scientifica si è preformata in maniera indicativa nelle
formazioni e nei metodi con cui la prassi si costruisce le imma-
gini del passato come condizioni della vita che avanza. Ma dal
momento che senza di ciò è del tutto impensabile ogni passo
della vita, sorretto dalla coscienza del passato, qui non si tratta
del caos sterminato e senza forma dell’intera materia ricordata
o tramandata della vita; al contrario, già la sua valutazione
pratica è condizionata dalla sua scomposizione e dalla sua sinte-
si, dall'ordinamento in concetti e in serie, dall’attribuzione e
dallo spostamento di accento, da interpretazioni e da integrazio-
ni. Così diverse categorie teoretiche funzionano qui in vista di
un interesse non teoretico, continuamente incorporate nelle con-
* Vom WWesen des historischen Verstehens, « Geschichtliche Abende in Zentral-
institut fur Erziehung und Unterricht », 5, Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1918,
poi raccolto in Briicke und Tiir: Essays der Philosophen zur Geschichte, Religion,
Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann, in collaborazione con M. Susman),
Stuttgart, Kochler Verlag, 1957, pp. 59-85 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro
Rossi).
S12 GEORG SIMMEL
nessioni della vita al pari di qualsiasi coordinamento di movi-
menti, di qualsiasi impulso o riflesso. La storia come scienza
sorge non appena quelle categorie che elaborano il materiale
della vita in un'immagine spiritualmente intuibile, logicamente
fornita di senso e quindi in primo luogo suscettibile di applica
zione pratica, si svincolano da questa subordinazione a uno
scopo € costituiscono autonomamente, in base a un interesse
teoretico libero da legami, in una nuova completezza e con un
nuovo valore specifico, le immagini della vita passata. Come
noi siamo sempre, per così dire, storici embrionali di noi
stessi, così d'altra parte noi completiamo e assolutizziamo —
in quanto storici scientifici — gli orientamenti e le elabora-
zioni della vita pre-scientifica. Sulla base di questo rapporto
reciproco del tutto generale l’analisi della comprensione storica
appare condizionata dall’esame del modo in cui può accadere
che un uomo ne comprenda un altro. Infatti, per quanto diffe-
renti possano essere i punti di partenza e le vie, l’interesse e il
materiale, la comprensione di Paolo e di Luigi XIV è alla fine
essenzialmente identica a quella di un uomo che conosciamo
personalmente.
La struttura di ogni comprendere è una sintesi intima di
due elementi inizialmente separati. Ciò che è dato è un fenome-
no fattuale, che in quanto tale non è ancora compreso. Da
parte del soggetto a cui questo fenomeno è dato si aggiunge
un secondo elemento, emergente in modo immediato da questo
soggetto, oppure da esso assunto ed elaborato — il pensiero
comprendente, che penetra per così dire il fenomeno dato e ne
fa qualcosa di compreso. Questo secondo elemento psichico è
talvolta cosciente di per sé, talvolta rintracciabile soltanto nel
suo effetto, vale a dire, appunto, in ciò che ora viene compreso.
Tale rapporto fondamentale trova tre configurazioni tipiche,
che trapassano tutte dalla loro più o meno grande realizzazio-
ne in forma pre-scientifica alla metodica della storia scientifica.
In primo luogo si tratta di comprendere i fenomeni e le
azioni di un individuo che sono dati ai sensi esterni in modo
tale che essi siano motivati psichicamente, cioè in questo caso
di comprendere gli avvenimenti psichici attraverso queste mani-
festazioni sensibili che li accompagnano. A prima vista l’altro
uomo è per noi una somma di impressioni esterne. Noi lo
GEORG SIMMEL 513
vediamo, lo tocchiamo, lo udiamo; ma che « dietro » tutto ciò
viva un’anima, che tutti questi elementi esterni abbiano un
significato psichico, un aspetto interno che non si esaurisce
nella loro immagine sensibile — in breve, che l’altro non sia
una marionetta, ma qualcosa di comprensibile interiormente —
ciò non è dato in eguale misura, ma rimane sempre una conget-
tura non suscettibile di essere provata in modo assoluto. E co-
me l’individuo deve comunicare l’essere animato all’altro, anzi-
ché sentirlo come una concretezza cogente, ossia come un’im-
pressione sensibile, la stessa cosa avviene naturalmente an-
che in relazione ai contenuti psichici particolari. Ciò che
quello vuole e pensa e sente, noi non possiamo vederlo: tutto
quanto si vede è solamente un ponte e un simbolo per stimola-
re e guidare il soggetto alla creazione costruttiva di ciò
che può accadere nell’anima dell’altro. Ulteriore conseguenza
di ciò è il fatto che ogni sapere relativo a questi processi
dell’altro, ogni loro comprensione, rappresenta una trasposizio-
ne di avvenimenti interni vissuti dal soggetto stesso: ogni senti-
mento, il sorgere di rappresentazioni sulla base di rappresenta-
zioni passate, il dominio degli impulsi da parte dell’intero am-
bito di idee — tutto ciò deve prima avvenire in me per poter
essere imputato all’altro. Da dove, se non dalla mia anima,
dovrei infatti prendere il materiale per la conoscenza e la com-
prensione degli altri, che non si presentano davanti a me in mo-
do leggibile? E in ciò sta manifestamente anche il problema fon-
damentale del comprendere propriamente storico. Se già posso
comprendere l’uomo che si offre ai miei occhi e alle mie
orecchie solamente in quanto lo fornisco, al di là di tutto ciò
che ho visto e udito, dei contenuti della mia anima, un uomo
da lungo tempo passato — del quale ci sono tramandate soltan-
to azioni oggettive, manifestazioni frammentarie, tracce oggetti-
ve della sua esistenza — sarebbe per me un semplice complesso
di elementi esterni non compresi qualora non collocassi dietro
tutto ciò situazioni e movimenti psichici, il cui senso e la cui
connessione non possono venirmi se non dalle esperienze della
mia propria interiorità. La comprensione della persona storica
presupporrebbe quindi, per quanto essa sia per altri versi diver-
sa da me, un'identità essenziale tra noi due rispetto ai punti
da comprendere.
33. STORICISMO TEDESCO,
514 GEORG SIMMEL
Mi richiamo a quest’apparente inevitabilità, per la quale si
offrono come prove alcune osservazioni. L'esperienza sembra
indicare che chi non ha mai amato o odiato non comprende
chi ama o chi odia, che la sobrietà dell’uomo pratico non
comprende il comportamento dell’idealista sognatore e vicever-
sa, che il flemmatico non comprende le connessioni di idee del
sanguigno e viceversa. Così lo storico pedantesco, adatto ai
rapporti piccolo-borghesi, non comprenderà mai le manifesta-
zioni della vita di Mirabeau o di Napoleone, di Goethe o di
Nietzsche, per quanto visibili e chiare esse siano. L’assenza di
speranza con cui la comprensione dell'Europa si pone dinanzi
all'anima orientale viene comprovata dai conoscitori di cose
orientali in modo tanto più netto quanto più profonde e ampie
sono le loro esperienze. Meno imperativo ma — ritengo — non
meno fondato è il dubbio se l’uomo moderno comprenda nella
loro reale interiorità l’Ateniese delle guerre persiane, il
monaco medievale o anche solamente la società di corte di-
pinta da Watteau. Non parlo qui della mancanza o dell’equivo-
cità delle fonti, ma di un’impossibilità di comprensione a cui
non può essere di aiuto la quantità e il contenuto dei documen-
ti, poiché la costituzione del soggetto non fornisce quella reazio-
ne all’oggetto che costituisce il comprendere.
Sarebbe tuttavia avventata la conclusione che alla base della
comprensione sta l’identità tra soggetto e oggetto. Se si osserva-
no un po’ più da vicino quei fatti, risulterà che essi sono
esclusivamente di carattere negativo, ossia che una certa misura
di diseguaglianza sostanziale impedisce certo la comprensione;
ma da ciò non discende affatto che l’identità la produca positi-
vamente. Sarebbe un errore eguale al voler concludere, sulla
base di un disturbo psichico provocato da determinate lesioni
cerebrali, che questo punto della corteccia cerebrale abbia pro-
dotto il processo di coscienza in questione nella sua normalità.
Il mutamento o l’assenza di una tra le varie complicate condi-
zioni, più o meno prossime, dei processi organici e in particola-
re di quelli psichici basta spesso a determinare una completa
deviazione, senza che per questo essa possa valere come loro
causa positiva. Si potrà soltanto dire che una certa misura di
diversità psichica è di ostacolo alla comprensione di date mani-
festazioni. Che però questa sia prodotta dall’identità di essenza
GEORG SIMMEL 515
è tanto meno dimostrato quanto più vediamo infinite volte che
i fraintendimenti peggiori sorgono proprio tra uomini maggior-
mente simili per disposizione naturale.
Il presupposto logico del presunto condizionamento del com-
prendere da parte dell’identità di essenza è che le qualità psichi-
che presenti nell'altro debbano essere inferite soltanto in base a
certi simboli e indizi esterni. Anche questo è a prima vista
plausibile. Quando il bambino ha un dolore, sente se stesso gri-
dare; in base a questo, e soltanto in base a questo, può inferire che
un altro, che egli sente gridare, prova dolore come lui, e così
via. Contro la generalizzazione di questa ipotesi voglio addurre
però una sola obiezione, puramente empirica. Una delle perce-
zioni che ci rivelano nel modo più univoco e impressionante la
costituzione psichica di un altro è Io sguardo del suo occhio;
ma proprio per questo ci manca ogni analogia tratta dalla
percezione di noi stessi. Chi non è attore e non ha studiato
davanti allo specchio l’espressione degli occhi — di collera e di
tenerezza, di languore e di estasi, di spavento e di desiderio
— non ha quasi mai occasione di osservarla in se stesso. Qui
non può quindi sussistere nessuna associazione tra la propria
esperienza interna e la propria percezione esterna, tale che
l'inferenza dalla percezione esterna di un altro all’interpretazio-
ne dell’interiorità altrui possa configurarsi come un richiamo a
tale associazione. Quest’unico fatto mi sembra costituire una
prova sufficiente che la propria esperienza interna-esterna non
può fornire la chiave per penetrare l’esperienza esterna-interna
di altri. Di un'esperienza del genere c’è però bisogno se non
altro per l’infelice separazione dell’uomo in corpo e anima, la
quale riserva al corpo di per sé preso una percezione concreta
che si presuppone soltanto fisico-esteriore, mentre per la consta-
tazione dell'elemento psichico ha bisogno di quella trasposizio-
ne — mediata da rapporti di associazione — dell’esperienza
soggettiva interna negli altri, cioè di un atto che è tanto compli-
cato (anzi mistico) quanto insufficiente per la funzione che
da esso si pretende. Piuttosto, io sono convinto che noi percepia-
mo l'uomo intero e che soltanto in virtù di un’astrazione succes-
siva ne percepiamo la corporeità isolata — proprio come anche
nel soggetto percipiente non è l’occhio anatomicamente isolato
che vede, ma è l’uomo intero, la cui vita complessiva è come
516 GEORG SIMMEL
canalizzata dal singolo organo di senso. Questa percezione del-
l'esistenza totale può essere oscura e frammentaria, suscettibile
di perfezionamento mediante la riflessione e l’esperienza perso-
nale e stimolata dai particolari, sfumata secondo il grado di
capacità e finora non localizzabile in un organo determinato —
essa è il modo fondamentalmente unitario in cui l’uomo agisce
sull’uomo, è l'impressione complessiva non ben analizzabile in-
tellettualmente, la conoscenza prima e per lo più decisiva de-
gli altri, anche se ancora aperta a molti completamenti. E come
la comprensione storica in generale è soltanto un modo del
comprendere identico nel tempo, e del tutto attuale, così la
creazione o il discorso, l’azione o l'influenza a noi tramandati
dall'uomo del passato lo contengono realmente, in linea di
principio, e lo presentano alla nostra — altrettanto indivisa —
facoltà recettiva; ogni elemento particolare che l’uomo offre è
una pars pro toto. Certamente nella realtà storica gli stimoli
sono più scarsi, la via per ottenere l’immagine compiuta è più
lunga e tortuosa, il risultato è più incompleto e problematico.
In definitiva, però, nella misura in cui viene raggiunta, l’imma-
gine della personalità storica e del suo comportamento sta di-
nanzi a noi come quella di un uomo conosciuto di persona,
accessibile e còlto nelle sue determinazioni particolari e nel loro
legame causale, senza essere in alcun modo un calco delle
nostre proprie qualità o delle nostre esperienze vissute. E se,
anche soltanto per giungere alla sua constatazione, vi fosse
bisogno di una trasposizione dei fatti psichici dalla loro sede
propria, non per questo sarebbe in alcun modo data la com-
prensione di questi fatti. Quanto sovente ci troviamo infat-
ti del tutto incapaci di comprendere di fronte al nostro pro-
prio passato, quanto sovente l’uomo maturo non capisce più
azioni e sentimenti della sua gioventù, quanto di appena senti-
to e voluto dobbiamo accettare come fatto muto della nostra
esistenza senza comprendere come abbia potuto sorgere dalle
sue condizioni e dal nostro carattere, anzi senza comprendere
che cosa significa nel suo senso autentico! Qui l'oggetto della
volontà di comprensione è certamente dato nella propria espe-
rienza, e niente può dimostrare in modo più decisivo che la
presunta trasposizione della propria esperienza interna non rap-
presenta la via alla comprensione della personalità storica. Può
GEORG SIMMEL 517
darsi che si colga soltanto lo spirito al quale in qualche modo
si somiglia: può darsi che le azioni di un essere vivente su
Sirio ci risultino magari intelligibili — ma per il fatto di
assomigliare in modo essenziale a uno spirito, non lo si coglie
ancora.
Al modo di pensare greco con il suo solido sostanzialismo,
con la sua aderenza alla sicurezza plastica della forma e la sua
immediata forza di convinzione, corrispondeva il principio che
si può conoscere soltanto «il simile con il simile ». Ciò appare
però un dogma ingenuamente meccanicistico — come se la rap-
presentazione del comprendere e il suo oggetto fossero due
grandezze da far coincidere, mentre in questo modo si fa
straordinariamente violenza ai fatti. Nessuno potrà infatti nega-
re di saper cogliere in altri dei sentimenti che non ha provato
egli stesso, di comprendere nodi del destino interiore che non
ha mai vissuto, di rappresentarsi impulsi della volontà che sia-
no completamente estranei alla sua volontà. Non si può mette-
re in disparte questa difficoltà, a cui va incontro la concezione
della propria esperienza come presunta condizione del compren-
dere, concedendo che naturalmente il processo psichico vissuto
in sé non coincide precisamente con quello vissuto da un altro,
e che si devono apportare in esso alcune trasformazioni, diversi-
tà di tono, certi mutamenti quantitativi e qualitativi. Infatti,
se si concepisce la differenza tra i due processi come una diffe-
renza poco importante o solo formale, essa non risulta più
facile da superare; e dove starebbe poi il criterio che consente
di giudicarla oggettivamente più grande o più piccola? Il prin-
cipio per cui noi comprendiamo negli altri solo ciò che abbia-
mo esperito in noi stessi può solamente valere o non valere;
ed esso viene infranto dal più insignificante contenuto psichi-
co, che sappiamo presente nell'anima altrui senza che si sia
presentato nella nostra, così come dal più esteso. Ciò che trasci-
na in queste difficoltà l’intera teoria è il realismo, che pretende
di assumere nel conoscere le cose « come esse sono realmente ».
La propria esperienza vissuta è — in base al suo stesso concet-
to — realtà immediata, e solamente quando l’esperienza vissuta
dell’altra anima può essere rappresentata in identità con essa
questo ingenuo modo di pensare crede di essere certo — in
virtù dell'identità dei fenomeni esterni — anche del processo
518 GEORG SIMMEL
veramente avvenuto nell’altro. Dal fatto che posso certo rappre-
sentare l’esperienza vissuta altrui si inferisce, del tutto erronea-
mente, che io devo rappresentarmela come rappresento la mia
— nello stesso modo in cui i teorici dell'etica dell’egoismo
inferiscono, in base al fatto che sono il soggetto della mia
volontà, che devo esserne anche l'oggetto; e si giunge a questa
conclusione perché soltanto la propria esperienza vissuta si pre-
senta come realtà piena, mentre non si può essere certi di
quella altrui, se non in virtù di una possibile trasposizione da
quella a questa o considerandola come questa. Anche nella
teoria della « penetrazione simpatetica » dei miei processi inte-
riori negli altri dovrei sapere in anticipo quale parte delle mie
esperienze vissute devo delegare a tale missione; ma così viene
già presupposta l’intuizione del processo esterno che dovevo
invece ottenere per questa via.
Ritengo piuttosto che l’incorporazione della propria anima
nell’altro, per percepirlo come animato, costituisca una trasposi-
zione — del tutto indimostrata — da esperienze di altra specie
a questo fenomeno non comparabile; ritengo cioè che il tu sia
piuttosto un fenomeno originario allo stesso titolo dell’io, e
che la teoria della proiezione valga per il tu tanto poco quan-
to vale per le cose date nello spazio. Le cose non sono com-
piute una volta per tutte nella nostra testa, e poi proiettate
con un procedimento misterioso in un spazio pronto a riceverle
— come si trasloca con i propri mobili in un appartamento
vuoto; riconoscere questo spazio costituirebbe pur sempre un
problema non minore del riconoscere in anticipo tale oggetto
come oggetto spaziale. Piuttosto, se per una volta poniamo la
questione partendo dal soggetto, la spazialità dell’oggetto è un
modo o forma originaria dell’intuire. In questo caso, intuire
non significa altro che intuire spazialmente e la duplicazione
della cosa — come se essa fosse dapprima in noi e poi fuori di
noi — è del tutto superflua. Così l’anima non è dapprima
qualcosa che sappiamo presente in noi e che poi proiettiamo in
un corpo appropriato a tale scopo, in modo da pervenire a un
tu soltanto attraverso questo strano processo; in noi sorgono
piuttosto — anche qui ci atteniamo al punto di vista dell’ideali-
smo — certe rappresentazioni che fin dall’inizio costituiscono
un tu e vengono percepite come suoi contenuti psichici. L’e-
GEORG SIMMEL 519
spressione linguistica in base a cui si colloca l’essere animato
dell’uomo «dietro » il suo aspetto visibile e palpabile, questa
simbolizzazione spaziale del tutto superficiale, contribuisce mol-
to a separare gnoseologicamente tale essere animato, inteso co-
me l’aldilà misteriosamente inattingibile, dall’« esterno » che è
invece immediatamente accessibile. Soltanto se abbiamo prima
scisso il fenomeno dell’altro uomo in un’anima e in un corpo,
dobbiamo allora costruire un ponte tra di essi, per ricucire
l’unità che era invece data fin dall’inizio: noi abbandoniamo il
corpo esclusivamente alla sensibilità ottica, e altrettanto esclusi-
vamente consegnamo l’anima alla nostra anima, lasciando poi
trasmigrare quest’anima in quel corpo mediante un processo di
introduzione, di trasposizione, di proiezione o comunque si
voglia chiamare quest’atto mai dimostrabile. Ma tale scomposi-
zione è l’atto di violenza di un pensiero atomizzante.
Certamente, anche la prassi quotidiana, al pari della forma-
zione dell’immagine storica, sembra legalizzare — partendo da
un materiale sempre accidentale e lacunoso, spesso soltanto su-
perficialissimo — questa scomponibilità e la distanza, che il
pensiero deve quindi superare, tra esterno e psichico. Ma tale
separazione, prodotta dalla precarietà e dalla discontinuità ma-
teriale della vita, ha tuttavia come punto di partenza e come
punto di arrivo il fondamentale fatto unitario che si può chia-
mare il tu — l’altro immediatamente compreso come animato.
Anche quando la considerazione del sintomo più esterno condu-
ce per la via più lunga e tormentosa alla sua comprensione
psichica, questa categoria sta a base di essa, e si trova di
nuovo, pienamente realizzata, al termine della via. La catego-
ria del tu — che è decisiva per la costruzione del mondo
pratico e del mondo storico, quasi come quelle di sostanza o di
causalità lo sono per il mondo della scienza naturale — non
può essere paragonata a nessun'altra. Non posso designare il
tu come mia rappresentazione nel medesimo senso in cui desi-
gno ogni altro oggetto: debbo attribuirgli un essere per sé,
così come lo percepisco, distinto da tutti gli altri oggetti, soltan-
to nel mio proprio io. Perciò si spiega il fatto che noi percepia-
mo l’altro uomo, il tu, al tempo stesso come l'immagine più
distante e impenetrabile e come quella più prossima e familia-
re. Il tu animato è da una parte l’unico nostro pari nel cosmo,
520 GEORG SIMMEL
l’unico essere con cui possiamo comprenderci reciprocamente e
sentirci come «uno» come con nient'altro, cosicché collochia-
mo nella categoria del tu ciò che per altri versi è natura, dove
riteniamo di sentirci in unità con essa: così Francesco poteva
parlare agli animali e agli esseri inanimati come a fratelli. D'al-
tra parte, però, il tu possiede una propria autonomia e sovrani
tà accanto a noi che nient'altro possiede, una resistenza contro
la dissoluzione nel processo di rappresentazione soggettivo del-
l’io, quell’assolutezza della realtà che l'io sente in se stesso.
Il tu e il comprendere sono la stessa cosa, espressa una volta
come sostanza e una volta come funzione — un fenomeno
originario dello spirito umano come il vedere e l’udire, il pensa-
re e il sentire, oppure come l’oggettività in generale, come lo
spazio e il tempo, come l’io; è il fondamento trascendentale
del fatto che l’uomo sia uno %éov roArrwxév. Certamente, si
tratta di un grado successivo del nostro sviluppo; certamente,
di rado esso possiede la medesima univocità del suo contenuto;
certamente, esso compare soltanto sulla base di condizioni psico-
logiche più complicate. Ma anche gli atti della coscienza che si
presentano come primari sono condizionati da ciò che è trascor-
so; anch'essi hanno bisogno di uno sviluppo. Qui c’è soltanto
una differenza di grado: è perciò erronea l’opinione che tali
fenomeni psichici non possano essere in sé nulla di semplice e
di primario per il fatto che compaiono soltanto tardi, incomple-
ti e in situazioni variamente condizionate. Che l'insufficienza
delle condizioni in cui si leva l’immagine o la comprensione le
mantenga incomplete, non prova affatto che esse vengano pro-
dotte per associazione mettendo semplicemente insieme quelle
condizioni. Le differenze all’interno di questo fenomeno origi-
nario sono innegabili, soprattutto tra la comprensione di un
avvenimento attuale o di una persona convivente e la compren-
sione di oggetti divenuti storici. Che i dati siano qui di solito
numericamente più scarsi e accidentali, che siano affidati alla
mediazione intellettuale piuttosto che all’immediatezza sensibi-
le, che nessuna atmosfera temporale comune unisca il soggetto
comprendente e il suo oggetto — tutto ciò può, nel caso partico-
lare, escludere in parte o del tutto la comprensione, ma sotto
questo rispetto non esiste una differenza necessaria di principio
tra il presente e il passato. Certamente, noi possiamo avere
GEORG SIMMEL S2I
un'esperienza vissuta soltanto di ciò che è presente; ma anche
nei confronti di questo possiamo avere il rapporto di compren-
sione storica, che ognuno ha verso il proprio passato. Per lo
sguardo che scruta le distanze storiche l’avvenimento esterno e
l'avvenimento psichico sono spesso molto più separati l’uno dal-
l’altro di quanto non siano per l’intuizione immediata, ed esso
ha più sovente bisogno di compiere inferenze dall’uno all’altro;
ma tutte queste sono soltanto strade di accesso allungate, le
quali in definitiva conducono a quel comprendere che assume
unità attraverso l’unità; oppure costituiscono le sue frammenta-
rie realizzazioni. Per questo comprendere, che spesso viene scis-
so nelle sue condizioni a causa di insufficienze pratiche e acci-
dentali, e perciò appare all’analisi intellettuale come un’inter-
pretazione di sintomi esterni autonomi sulla base di un elemen-
to psichico che sta dietro di essi, è adeguato il concetto di
intuizione, che pure di per sé è poco attraente. Ma ciò che
suscita sospetto, l'elemento mistico abusivamente presente in
esso, scompare proprio se noi abbiamo chiaro il fatto che l’ap-
plicazione dell’intuizione al comprendere storico è circondata
dall’uso, del tutto inevitabile, che se ne fa in ogni momento del-
la vita pratica.
Una struttura più complicata mostra il secondo tipo di com-
prendere, con cui un atto già conosciuto come psichico dev’esse-
re compreso mediante un altro atto appartenente alla stessa
sfera psichica. Se di un legittimista dello Hannover degli anni
successivi al 1866 sentiamo dire che ha odiato Bismarck, noi
comprendiamo anzitutto questo sentimento in modo immedia-
to, così com’esso è. L’odio è un affetto a noi immediatamente
noto. Noi conosciamo interiormente il significato soggettivo —
che non richiede un’ulteriore analisi — di questo affetto, poco
importa in quali circostanze e attraverso quale portatore esso
ci viene incontro. Questa comprensione di un contenuto psichi-
co particolare è trans-storica e, per così dire, oggettiva: infatti
si tratta sempre del medesimo processo psicologico fondamenta-
le, sia che lo applichi a Brunilde contro Crimilde', allo hanno-
veriano contro Bismarck, all’inquilino contro il padrone di casa
che lo angaria. La duplicità di elementi che ogni comprendere
I. Noti personaggi femminili della leggenda dei Nibelunghi.
522 GEORG SIMMEL
presuppone consiste, in questa comprensione immediata dell’ele-
mento psichico, nel fatto che un caso individuale viene compre-
so in virtù di un contenuto generale preesistente nel soggetto.
Però comprendo storicamente l’odio dello hannoveriano se co-
nosco la guerra del ’66 e l'annessione prussiana, ossia se lo
riconosco in generale come elemento di una connessione tempo-
rale complessiva. Ma, a questo punto, ogni momento di tali
connessioni dev'essere di nuovo compreso, a sua volta, in quel
primo senso. Come comprendo l’odio, devo ora comprendere
che cos’è l'attaccamento a una casa regnante o il valore attribui-
to all'indipendenza politica. Mentre quel primo comprendere
sembrava riguardare un contenuto atemporale o sovra-indivi-
duale e l’altro la connessione reale di un divenire molto artico-
lato, di fatto anche quest’ultimo si scinde in una successione di
singoli punti di comprensione, ognuno dei quali dev'essere di
nuovo compreso in modo sopra-storico e psicologico. Pertanto
il comprendere storico in quanto tale viene alla luce in modo
manifesto quando questi momenti discontinui, e compresi per
così dire atemporalmente in modo discontinuo, vengono riempi-
ti da parte dell’osservatore di una corrente vitale continua che
li lega insieme, che apre la porta di uno agli altri, che permette
di sentirli come pulsazioni del corso temporale della vita. Il
comprendere isolato di prima si mostra ora fondato su una
certa astrazione, in quanto dalla vita che sale e si abbassa
senza posa esso trae fuori la cresta di un’onda come un ogget-
to circoscritto del comprendere, mentre nella realtà questa è
legata in modo continuo con la precedente e con la successiva,
con tutte le onde della medesima vita. L'istituzione di questa
connessione continua è ciò che imprime alla tradizione di quan-
to è meramente accaduto la forma della storia. Stabilire che
un determinato avvenimento ha avuto luogo in un certo anno
non lo trasformerebbe ancora in un avvenimento storico, se
l’anno si collocasse isolatamente in uno schema temporale per
altri versi vuoto. Infatti sarebbe ancor sempre possibile com-
‘prendere l'avvenimento in base al suo significato interno, alla
sua specificità indipendente dal tempo. Certo questo deve avve-
nire in ogni caso; con ciò è però soltanto dato il materiale in
cui il divenire della storia si compie come una formazione
determinata. La storia non è il passato che ci è dato immediata-
GEORG SIMMEL 523
mente €, più precisamente, in veste di frammenti sempre di-
scontinui, ma è invece una determinata forma o somma di
forme con cui lo spirito sintetico che osserva penetra e domina
il materiale accertato in precedenza, ossia la tradizione di ciò
che è accaduto. Per il fatto che comprendo una serie come
storica non si aggiunge ad essa niente di nuovo per quanto
riguarda il suo contenuto; si è soltanto conseguita o istituita
una specie di connessione funzionale da parte dell’intuizione
interna. Come la considerazione storica in genere sottrae il
particolare contenuto di realtà alla rappresentazione limitata a
quest’ultimo e lo colloca — come elemento prodotto e produtti-
vo — in connessioni senza fine, così procede ora anche la
funzione del comprendere quando coglie come storiche le real-
tà psichiche date. Questi dati devono anzitutto venir compresi
di per sé come unità psichiche in qualche modo chiuse: senza
tale presupposto non possono essere storicizzate. Esse però lo
diventano soltanto se si fluidificano in qualche misura, se si
mostrano come le formazioni particolari, di volta in volta deter-
minate, di una dinamica della vita che le collega tutte tra
loro. È quindi’ possibile determinare con maggiore profondità e
precisione il concetto della comprensione storica di una qualsia-
si realtà psichica particolare dicendo che esso significa la com-
prensione di questo elemento singolo in base alla totalità viven-
te del suo portatore.
È un errore assai diffuso ritenere che la successione di certi
dati psichici, ognuno dei quali presenta soltanto il suo contenu-
to circoscritto, concettualmente determinabile, fornisca anche la
comprensione del dato successivo. Ciò corrisponde al principio
atomistico e meccanicistico che fa coagulare la vita psichica, in-
torno ai suoi contenuti esprimibili logicamente, in singole « rap-
presentazioni », e che vorrebbe coglierla come la somma dei mo-
vimenti delle parti così separate l’una dall'altra. In tal modo la
comprensione dovrebbe procedere immediatamente — di conte-
nuto in contenuto — sulla base di quella che si potrebbe chia-
mare la logica della psicologia, ma che in realtà è soltanto una
mescolanza indistinta di logica e di psicologia. Ma in questo
modo viene meno la connessione dinamica, la compenetrazio-
ne, l’unificazione del molteplice, e quindi proprio la compren-
sione di un elemento mediante l’altro. Quest'ultima esige infat-
524 GEORG SIMMEL
ti la visione interiore di un movimento continuo della vita, le
cui tappe sono soltanto quei momenti particolari indicabili in
base al contenuto. Soltanto se in ognuno di essi si percepisce
l’uomo intero, che non è una sostanza rigida ma uno sviluppo
vivente, noi comprendiamo il momento successivo, poiché la
direzione della corrente che conduce fino ad esso è indicata da
quello precedente. Però, come si è già detto, questo sviluppo
non è comprensibile come un saltare di contenuto in contenuto,
ma soltanto in virtù del processo di attualizzazione della vita
che rende ora intelligibili come proprie fulgurazioni quei conte-
nuti particolari suscettibili di essere denominati — sia che que-
sta vita sia attuale o trascorsa. Ciò può estendersi, senza alcun
mutamento di principio, al di là dell’individuo, poiché nella
medesima corrente della vita, che produce onde su onde, noi
scorgiamo una moltitudine di individui. Il fenomeno originario
del comprendere si realizza allora in quella successione — che
si estende in modo del tutto sovra-individuale — della vita che
continuamente spinge contro tale singolarità.
Sono qui dunque presenti due modi di comprendere, sulla
cui distinzione e sul cui intreccio si esige tanta maggior chiarez-
za quanto più lo storicismo ha commesso, con la sua superficiale
concezione, i peggiori fraintendimenti. Quando comprendo la
poesia Warum gabst du uns die tiefen Blicke® nel suo contenu-
to e nel suo significato poetico, ciò avviene in modo del tutto
astorico. Quando però comprendo il contenuto e il tono della
poesia in base al rapporto di Goethe con la signora von Stein,
e comprendo che essa designa — nello sviluppo di questo rap-
porto — un'epoca ben determinata, tale comprensione è ora
comprensione storica. Ciò può essere illustrato in modo partico-
larmente chiaro nella storia dell’arte. Con l’ultima pennellata
del pittore al proprio dipinto, il suo significato si pone al di là
della storia. Ma il dipinto può a sua volta diventare un fattore
storico in virtù dei suoi destini esteriori, in virtù del mutamen-
‘to di interpretazione e di valutazione, in virtù della sua influen-
za sull'arte posteriore. Ma quell’altro significato — vale a dire
le leggi della sua formazione e del suo complesso cromatico, il
2. È il verso iniziale di una poesia di Gocthe della primavera del 1776, dedi-
cata all'amico Charlotte von Stein.
GEORG SIMMEL 525
rapporto del suo oggetto con il suo stile particolare, la passiona-
lità o la calma dell’esecuzione, l’accentuazione del disegno o
dell'elemento specificamente pittorico, in breve la specificità del
suo essere — non ne viene toccato; esso ha consumato in sé i
movimenti del suo divenire e, inteso in quelle determinazioni
puramente immanenti, è diventato indifferente nei loro con-
fronti.
La linca di demarcazione così tracciata tra comprensione
oggettiva e comprensione storica di un elemento spirituale ha
il suo punto di appoggio in una problematica assai profonda
del nostro conoscere relativamente alla sua sicurezza e univoci-
tà. Una creazione dello spirito che dev'essere compresa deve
venir paragonata a un enigma che il suo creatore ha costruito
su una determinata parola risolutiva. Se chi indovina trova ora
un’altra parola altrettanto adeguata, con cui l’enigma — preso
in senso oggettivo — perviene al medesimo risultato logico e
poetico, questa costituisce una soluzione completamente « cor-
retta » al pari di quella che si era proposta il poeta, e che non
ha così il minimo vantaggio rispetto alla prima o rispetto a
tutte le altre parole risolutive che si possono ancora escogitare
— e, in linea di principio, in numero illimitato. Se un processo
creativo è riuscito a trovare la forma dello spirito oggettivato,
tutti i più diversi tipi di comprensione sono parimenti giustifi-
cati nella misura in cui ognuno di essi è in sé conclusivo,
esatto, oggettivamente soddisfacente. Non hanno alcun bisogno
di riandare alla realtà psichica individuale di quel processo
creativo, assumendolo a criterio di questa coscienza. La com-
prensione immanente di un’opera d’arte, per esempio, è infini-
tamente variabile così come lo sono i sentimenti che essa su-
scita e che non sono affatto vincolati a quelli che il creatore vi
ha investito: i complessi affettivi e valutativi dell’uomo moder-
no dinanzi al duomo di Strasburgo o alla sonata Chiaro di
luna, i supporti profondi della sua comprensione non possono
essere ritenuti infondati o falsi soltanto perché non coincidono
con quelli di Erwin von Steinbach* o di Beethoven. E ciò vale
non solo per domini ideali secondo il loro contenuto. Il tecni-
3. Architetto della seconda metà del secolo XII, ebbe gran parte nella costru-
zione della facciata del duomo di Strasburgo.
526 GEORG SIMMEL
co empirico può inventare un dispositivo meccanico che gli
risulta pienamente intelligibile in base al rapporto tra i conge-
gni da lui combinati e l’effetto che si propone; un ricercatore
più profondo, riandando alle leggi generali di natura che agi-
scono in quei congegni, può scoprire che lo stesso apparecchio
può venir impiegato per scopi a cui l'inventore non ha pensato.
Soltanto se si fossero esaurite senza residui le possibilità in essa
racchiuse, l’invenzione sarebbe realmente compresa così com'è,
cioè sarebbero realizzate le possibilità di comprensione virtual-
mente presenti nella sua oggettività. Non diversamente stanno
le cose con le costituzioni politiche o con singole leggi. Ciò
che esse propriamente significano dal punto di vista logico o
pratico, i loro creatori lo sanno spesso in modo assai incomple-
to, o non lo sanno affatto; altre personalità, la casistica, lo
sviluppo reale mostrano sovente gli effetti in esse riposti, che
non si possono però definire come errori o storture per il fatto
che la genesi soggettiva non li conteneva. Ovunque tra creatore
e opera c’è questo rapporto, in qualche modo inquietante: l’o-
pera pervenuta alla sua autonomia contiene qualcos'altro (in
più o in meno, qualcosa che è dotato di maggiore o minor
valore) rispetto all’intenzione del creatore. In questo senso il
processo di creazione è sempre soltanto un'espressione 4 potio-
ri; ciò che il creatore ha voluto e, più esattamente, ha potuto
è sempre soltanto un elemento di ciò che è stato effettivamente
creato, e solo cogliendo le sterminate possibilità in cui esso si
dispiega, al di là di questo elemento, il suo contenuto oggettivo
sarebbe realmente compreso. In tutto ciò che creiamo esiste,
oltre a quello che z0i creiamo realmente, ancora un significa-
to, una legalità, una fecondità che oltrepassano la nostra forza
e la nostra intenzione. Tuttavia noi abbiamo senza dubbio crea-
to il tutto, e non si tratta affatto di elementi raccolti che
dispiegavano la loro peculiarità e le loro potenzialità entro la
nostra creazione; il problema consiste proprio nel senso e nella
capacità della nostra creazione, i quali diventano incondiziona-
tamente possibili e reali solo con il fatto di essere stati crea-
ti da noi. Da questo sentimento nascono le rappresentazioni
che sempre ricorrono con una certa tonalità mistica — come se
tutto ciò che creiamo fosse già idealmente preformato e noi
fossimo in certa misura soltanto le levatrici che aiutano un
GEORG SIMMEL 527
ente metafisico a nascere nella realtà. Inteso come un dato di
fatto interno, ciò spiegherebbe in ogni caso come mai quello
che apparentemente è creato solo da un soggetto possiede signi-
ficati innumerevoli di ogni specie, i quali oltrepassano tutte le
intenzioni creative e le forze di questo soggetto; come mai,
quindi, anche la comprensione spirituale di una creazione del
genere non costituisca, in linea di principio, un problema con
un’unica soluzione possibile.
Con ciò quell’antitesi tra i due significati del comprendere
si sviluppa ulteriormente. In base a quanto si è detto finora,
nel comprendere dal punto di vista teorico ed estetico il Faust,
per esempio, si prescinde del tutto dalla sua origine psichica.
Se i diversi tipi del comprendere soddisfano in eguale misura le
esigenze di connessione logica e artistica, di esplicazione unita-
ria delle oscurità, di sviluppo reciproco delle parti, allora sono
tutti corretti in eguale misura. Se devo invece comprendere il
Faust storicamente e psicologicamente, cioè comprendere tale
formazione sulla base degli atti e degli sviluppi psichici che si
sono determinati, momento per momento, nella coscienza di
Goethe, è esclusa in linea di principio una corrispondente plura-
lità di significati: questo processo di creazione si è infatti
rispecchiato in un determinato modo che la nostra conoscenza
può cogliere o non cogliere, ma che essa non può rappresenta-
re in diversi modi tra loro equivalenti. Una pluralità di forme
storiche di comprensione dell’origine del Faust, create dal pro-
cesso psichico, che siano tutte parimenti corrette — nello stesso
modo in cui può esserlo una pluralità di forme di comprensio-
ne oggettiva — è un’assurdità. Anche a proposito della com-
prensione storica può esserci, naturalmente, una pluralità di
ipotesi; di esse, però, una è vera e l’altra è falsa — alternati
va di fronte a cui non si trova la comprensione in base al
contenuto oggettivo, la quale la sostituisce piuttosto con altri
criteri di valore. Nei confronti di uno stesso contenuto oggetti-
vo si può così soddisfare in modo compiuto l'esigenza di com-
prenderlo storicamente; ma non si può invece mai soddisfare in
maniera compiuta l’altra esigenza di comprenderlo oggettiva-
mente, in base a tutti i significati che racchiude in sé. In ciò
consiste il profondo paradosso che, dove il comprendere storico
è comprendere psichico, esso non può mai pervenire a una
528 GEORG SIMMEL
completa univocità, non può mai decidere in assoluto tra una
pluralità, anzi tra una contrapposizione di princìpi esplicativi.
La ricchezza e la mobilità delle connessioni psichiche sono così
grandi che nessuna «legge psicologica » è in grado di determi-
nare in modo vincolante gli sviluppi successivi di una determi-
nata costellazione psichica; spesso tale sviluppo, procedendo
per una certa direzione, ci appare altrettanto plausibile di quel-
lo che procede in direzione precisamente opposta. Che il beneft-
cio ricevuto produca riconoscenza, lo comprendiamo tanto quan-
to il fatto che esso lasci dietro di sé umiliazione e risen-
timento; che l’amore dichiarato risvegli un amore corrisponden-
te, lo riteniamo altrettanto comprensibile del fatto che provo-
chi assenza di attrazione e indifferenza, e via dicendo. Quando
serie genetiche vengono alla luce mediante un’interpolazione
psicologica — cosa che accade sempre, più o meno consapevol-
mente — non si tratta di una necessità accertata, quale la
richiede, in modo univoco, la comprensione scientifica. In ogni
caso, l'ipotesi di una data via psicologica è quella corretta secon-
do la realtà; qualunque altra è erronea — poco importa se poi
questa correttezza o questa erroneità può essere da noi stabilita
incondizionatamente. In tal modo viene stabilita la differenza
fondamentale della comprensione storica rispetto alla compren-
sione del contenuto oggettivo in quanto tale.
Lo storicismo radicale vuol esaurire l’intera problematica di
una formazione così creata tracciando le condizioni e i gradi
del suo sorgere nel tempo. Le qualità oggettive dell’essere,
sottratte alla temporalità, si risolvono — come compiti conosciti-
vi — nel loro divenire; adesso la questione riguarda le premes-
se e i momenti preparatori, gli sviluppi e le condizioni favore-
voli o gli impedimenti che hanno suscitato tale formazione, e
una comprensione sufficiente del contenuto oggettivo dev'essere
identica alla risposta a questo problema.
S’intende che sostituire la comprensione di un oggetto nella
sua atemporalità con la comprensione del modo in cui si è
pervenuti all’oggetto reale nel tempo non ha più senso che
equiparare la vista dalla vetta di un monte col percorrere la
via che ha condotto passo passo il viandante fino a questa
vetta: ciò vorrebbe dire infatti tagliar via arbitrariamente tutta
una dimensione del problema del comprendere. Ma il proble-
GEORG SIMMEL 529
ma apparentemente eliminato ha la sua legittimità non sol-
tanto al di fuori della realtà storica, ma anche proprio all’inter-
no di essa. La comprensione in apparenza puramente storica fa
infatti continuo uso della comprensione oggettiva sopra-storica,
senza però rendersene conto metodologicamente. Non capirem-
mo mai la natura della cosa in base al suo sviluppo storico se
non la comprendessimo in qualche modo in se stessa; altrimen-
ti quell’impresa sarebbe chiaramente del tutto priva di senso.
Con ciò si apre un terzo tipo di processi di comprensione, la
cui fondamentale duplicità di elementi non è quella tra esterno
e interno, né quella tra fisico e psichico, bensì la duplicità tra
contenuto psichico e contenuto atemporale. Tra questi si presen-
tano ora nessi di reciprocità assai singolari, dal momento che
la comprensione oggettiva trans-storica non riguarda soltanto i
contenuti particolari, che pervenivano a un contatto reciproco e
a un ordinamento unitario solo in quanto erano assunti nella
corrente dello sviluppo storico. Quei contenuti mostrano però
già nel loro stato ideale delle relazioni e delle disposizioni, e
costituiscono per così dire simboli atemporali della loro realizza-
zione psichica temporale — sempre in una dipendenza recipro-
ca fondata nel profondo. Se uno storico della filosofia afferma
che comprendere Kant significa spiegarlo storicamente, le dot-
trine pre-kantiane gli appariranno come gradini che conducono
in direzione della dottrina kantiana, stabilendo quindi in modo
intelligibile il suo contenuto e il suo momento temporale. Ma ciò
non avrebbe successo se tutte queste dottrine — e qui sta il punto
decisivo — non costituissero nel loro contenuto logico oggetti-
vo, e senza riferimento alla loro comparsa storica, una serie
intelligibile. Le cose non stanno diversamente che per qualsiasi
inferenza realizzata sul piano psichico. Noi comprendiamo del
tutto il movimento psichico che, aggiungendo alla convinzione
che tutti gli uomini sono mortali, l’altra che Caio è un uomo,
porta per così dire organicamente la coscienza fino al contenu-
to: Caio è mortale. Tuttavia lo comprendiamo soltanto perché
tutte queste idee erano valide nel loro contenuto oggettivo, e
quindi sono del tutto atemporali e indifferenti rispetto al fatto
che possiamo rappresentarle soltanto in una serie temporale.
Noi percepiamo il carattere di verità — indipendente dalla
nostra rappresentazione — della proposizione «tutti gli uomini
34. STORICISMO TEDESCO.
530 GEORG SIMMEL
sono mortali», che non esiste prima o dopo il carattere di
verità delle proposizioni « Caio è un uomo » e « Caio è morta-
le »; tutte e tre le idee valgono in una coordinazione assoluta-
mente atemporale: la morte di Caio non risulta quindi come
conseguenza temporale dopo gli altri due fatti; l'ordine che in
base alle prime due conduce a quest’ultima non costituisce una
successione, come lo è il fatto di rappresentarla e di esprimer-
la, ma è un ordine oggettivo puramente interno, che ha luogo
in una ideale contemporaneità. Se esso non esistesse, non ricono-
sceremmo neppure la direzione e la legittimità dello sviluppo
psichico che essa realizza in una determinata successione. La
stessa cosa avviene nel caso della comprensione storica di Kant.
Il razionalismo, che declassa ogni esperienza sensibile e colloca
la verità incondizionata soltanto nella ragione @ priori; il sensi-
smo, che rifiuta quest’ultima e scorge soltanto nell’esperienza
la fonte di una conoscenza valida; la soluzione kantiana secon-
do cui soltanto l’esperienza ci dà una conoscenza oggettiva —
come vuole l’empirismo — soltanto che essa è già formata da
quei principi della ragione, e di conseguenza questi valgono
incondizionatamente, ma solo per gli oggetti dell’esperienza e
mai di per sé, al di là di essa — queste impostazioni hanno un
ordine ideale, determinato soltanto dal loro senso oggettivo
atemporale. Se non comprendessimo il senso di tale ordine
soltanto di per sé, indipendentemente dalle sue realizzazioni
psichiche in forma storica, non comprenderemmo mai neppure
l'ordinamento temporale di queste ultime, che ci apparirebbero
piuttosto come una semplice successione discontinua. La razio-
nalità della loro successione, mediante la quale cogliamo la
direzione della corrente della vita nei soggetti che la sorreggo-
no e che la realizzano in sé, è possibile soltanto come rispecchia-
mento temporale di quell’ordine puramente oggettivo. Accanto
al principio che la comprensione di Kant è condizionata dalla
sua spiegazione storica, si può porre l’altro principio che la
spiegazione storica di Kant è condizionata dalla sua compren-
sione. Se noi penetriamo attraverso gli avvenimenti l’unità di
una corrente vitale e la vediamo determinata dai momenti
precedenti e orientata verso i successivi, e se quindi — in altri
termini — comprendiamo ogni momento successivo in base al
precedente, tale processo acquista legittimità e impulso sol-
GEORG SIMMEL 531
tanto in base a quella comprensione oggettiva dei suoi contenu-
ti, cioè in base al loro reciproco rapporto logico, non già al
loro rapporto vitale e temporale.
Qui si fa però valere un presupposto metodologico che mo-
stra una connessione molto più stretta, e per così dire incondi-
zionata, tra comprensione storica e comprensione oggettiva.
Prenderò le mosse dall’esempio (non importa se effettivamente
vero o da correggere) dello sviluppo del punto di vista kantia-
no dal dogmatismo, attraverso lo scetticismo sensistico, fino al
criticismo. Su quale base possiamo dire che uno di questi punti
di vista o di questi concetti si «sviluppa» fino all’altro in
modo intelligibile? Ognuno di essi esprime esattamente soltan-
to il suo proprio contenuto, è totalmente concluso in sé, e dire
che « procede oltre se stesso» è un'espressione simbolica che
lascia impregiudicato ciò di cui si discute qui Ja possibilità: è
un tentativo del tutto disperato voler spremere da questi concet-
ti disposti l’uno accanto all’altro uno sviluppo che renda l’uno
comprensibile in base alla comprensione dell’altro. Che tuttavia
noi scorgiamo qui di fatto uno sviluppo del genere, ciò può
avvenire soltanto perché poniamo a base di questa serie pura-
mente oggettiva di punti di vista, e che nessuna vita individua-
le concreta può abbracciare, un soggetto ideale — prodotto per
così dire di finzione — la cui vivente continuità spirituale
percorre questi stadi e li connette in modo tale da scioglierli
dalla chiusura di un senso di volta in volta limitato a se stes-
so e da trasformarli quindi in momenti di uno sviluppo. Que-
sto è lo strumento applicato continuamente e senza particolare
coscienza, lo strumento per così dire tecnico, con cui uno sta-
dio ci diventa intelligibile sulla base dell’altro, che è ad esso
collegato ora in un tempo quasi atemporale, mediante una vita
atemporale. La stessa cosa avviene quando si concepiscono le
opere di un periodo più lungo della storia dell’arte come uno
sviluppo. Per esempio, i dipinti si dispongono l’uno dopo l’al-
tro in modo discontinuo, e ognuno costituisce un’unità isolata
— ognuno entro il proprio ambito in cui nessuno sa nulla
dell’altro. Lo storico dell’arte costruisce tra di essi uno
sviluppo graduale dalla rigidità alla mobilità, dalla povertà alla
pienezza, dall’insicurezza al padroneggiamento sovrano dei mez-
zi, dall’accidentalità della composizione a un equilibrio armo-
532 GEORG SIMMEL
nico che abbraccia ogni elemento in modo dotato di senso, e
così via. Non si può quindi assolutamente dire che il creatore
dell’opera collocata al punto più alto abbia percorso, nel suo
sviluppo personale, tutti gli stadi precedenti. E non è neppure
in questione questo, bensì la possibilità di costruire tale serie
« evolutiva » in base a criteri oggettivi tratti dal complesso delle
opere, come se ognuna di esse fosse caduta dal cielo. Ma pro-
prio questa possibilità risiede in ciò che si potrebbe chiamare il
soggetto metodologico, cioè in una formazione ideale che per-
corre queste creazioni in un’evoluzione che si può cogliere psi-
chicamente, nei suoi momenti preparatori, nel suo crescere e
nel suo decadere, unificando l’ordine oggettivo della loro coesi-
stenza in un processo vitale concepito come temporale, la cui
continuità non si rinserra nell’ambito della singola opera. Anche
l’uso linguistico sembra legittimare quest’interpretazione. Noi
diciamo che l’arte, il diritto, la chimica si sviluppano. È però
chiaro che l’arte, il diritto, la chimica ecc., in quanto tali, non
sono realtà, ma formulazioni riassuntive di fenomeni particola-
ri separati tra loro, anche se collegati da molteplici relazioni,
sotto concetti astratti. Se l’arte, nel senso storico qui in questio-
ne, consiste della somma delle opere d’arte, il termine « arte »
non designa un'unità concreta e neppure, quand’anche essa lo
fosse, un’unità vivente, in grado di sviluppar« si »; in tal caso
dovrebbe essere « l’arte » a produrre i quadri, mentre sono gli
artisti a farlo. Se però applichiamo quest’espressione, abbiamo
creato l’ipostatizzazione di un concetto strumentale e un sogget-
to del tutto nuovo, che ha quella capacità di auto-sviluppo
riservata esclusivamente al vivente e le cui espressioni o tappe
sono le singole opere d’arte. Questo soggetto viene percepito in
uno sviluppo temporale, e ciò ancora per il fatto che i momenti
di tale sviluppo posseggono quel rapporto di sviluppo sopra-
temporale, puramente oggettivo. Noi ne abbiamo bisogno già
per casi isolati: quando comprendiamo l’amore o l’odio in ge-
nerale, senza rapporto con la realtà di un individuo, attribuia-
mo loro per così dire un portatore ideale, una vita in generale
che nel suo complesso risponde con essi a qualsiasi stimolo e
che è, per così dire, versata in queste forme momentanee.
Come concetti rigidamente conclusi, strappati dalla connessio-
GEORG SIMMEL 533
ne della vita, essi sarebbero per noi poco più che parole, e in
ogni caso attendevano soltanto di essere compresi in modo ap-
propriato. Ciò diventa ancora più chiaro laddove un avvenimen-
to particolare media la comprensione di un altro avvenimento
particolare. Il fatto che noi «comprendiamo» un sentimento
di vendetta — poco importa se rappresentato storicamente o in
astratto — in base a un'ingiustizia subìta in precedenza, non
avviene in virtù di uno strettissimo accostamento tra i due
processi, ma in quanto possiamo rappresentare un fluire unita-
rio della vita, del quale costituiscono due onde legate dalla
corrente stessa.
Così risulta pure che il ritmo, la continua mobilità della
vita è il sostegno formale della comprensione, anche in quelle
connessioni logiche di contenuti oggettivi che, da parte loro,
rendono intelligibile il concreto accadere vivente di questi
contenuti oggettivi. Ma la vitalità specifica e operante di quel
soggetto ideale è una trasformazione o un’oggettivazione di
quella che noi rintracciamo in noi stessi — ma come vitalità
sovra-individuale, di cui noi siamo per così dire solo un esem-
pio. All’interno dell’accadere e dell’ondeggiare incessante perce-
piamo tuttavia in noi, più o meno sicura, una finalità almeno
formale, una realizzazione di disposizioni, un dispiegarsi di
germi che noi abbiamo o, piuttosto, che noi siamo. Tale sensa-
zione trova una manifestazione parziale o una concentrazione
quando i contenuti psichici si ordinano in una serie, di cui
ogni momento successivo ci diventa consapevole, rispetto al
precedente, come arricchimento, come promessa mantenuta, co-
me incremento ed estensione della nostra situazione. In
quanto, dopo aver posto le premesse, pervengo alla conclusio-
ne; in quanto percorro le teorie filosofiche del secolo xviI
finché compare il criticismo; in quanto, considerando l’arte ita-
liana, giungo dalla rigidità bizantina e dalla scarsa articolazio-
ne delle figure del Trecento fino al rilassarsi individualizzante
del Quattrocento e quindi all'unità armoniosamente raccolta del-
la composizione del primo Rinascimento, sento il mio spirito
— nella misura in cui vive in queste sue espressioni — ampliar-
si gradualmente, sempre più attualizzato nelle sue forze intuiti-
ve. Mentre vive in questa successione di contenuti e passa attra-
verso di essi, lo spirito si sente non soltanto mosso, ma anche
534 GEORG SIMMEL
dotato dello specifico valore dello « sviluppo ». Così considera-
to, questo è forse qualcosa di originario e di non ulteriormente
risolvibile, e neppure dipendente da un fine posto in preceden-
za, ma costituisce soltanto una ritmica imposta dallo stesso
movimento spirituale, una particolare specie di crescita inter-
na. Che poi io designi l'ordinamento storico o ideale delle cose
come il loro sviluppo, non sarebbe chiaramente un arbitrio;
anzi, esse devono, nel senso più preciso, questo tono valutativo
al processo di auto-dispiegamento dello spirito, che le rivive
nella loro successione non appena sono diventate suoi contenu-
ti. Se si considerano quindi i contenuti svincolati dall’anima
che se li rappresenta, sotto la categoria di un’oggettività espri-
mibile concettualmente, allora essi formano una serie evolutiva
oggettiva; essi sono attraversati dalla corrente del sentimento
vivente di aspirazione e di sviluppo del soggetto rappresentan-
te, dal quale però si è ora astratto, che ha lasciato loro soltanto
la connessione interna e la costruzione mediante cui l'elemento
successivo è condizionato dal precedente, e quindi risulta intelli-
gibile proprio nella sua posizione. Se « comprendere » un conte-
nuto particolare non è in linea di principio (secondo l’opinione
che abbiamo qui esposto) nulla di diverso dalla sua comprensio-
ne come manifestazione della totalità della vita — di modo che
il «comprendere » ne è soltanto l’espressione abbreviata — ciò
risulta ora valido, attraverso il soggetto ideale che ha esperien-
za vissuta o il soggetto reale che'osserva, anche per quei conte-
nuti che si offrono come puramente oggettivi o come realizzati
da portatori diversi.
Così si presenta dunque l’unione dei motivi storico-psichici
e dei motivi oggettivi all’interno del fenomeno complessivo del
comprendere. Noi comprendiamo lo sviluppo psichico reale di
una serie, i cui elementi si fondano in una successione tempora-
le, soltanto sulla base della relazione oggettiva, trans-vitale,
dei suoi contenuti. Senza un incremento o una diminuzione
visibile in questa relazione, senza la nozione del fatto che i
contenuti oggettivi in quanto tali si richiamano a vicenda e che
l'uno fonda o condiziona l’altro prescindendo dalla realizzazio-
ne temporale, essi non possono neppure venir compresi come
successione psichica, come successione temporale-reale. E d’al-
tra parte questo ordinamento ideale in forma di sviluppo è tra
GEORG SIMMEL 535
di essi possibile in quanto ne viene percorsa la continuità del
movimento psichico. Lo sviluppo oggettivo dei contenuti richie-
de, come 4 priori che dà loro forma, quel progredire della
coscienza, non ulteriormente definibile, che si annuncia come
sentimento specifico: esso soltanto può allentare la chiusura
senza ponti di ogni contenuto, e la trasporta in quella continui-
tà che solo si può chiamare sviluppo. Così lo sviluppo psichico
è condizionato ed è comprensibile in base a quello oggettivo, e
questo è condizionato e comprensibile in base a quello. Ciò
significa che entrambi sono soltanto i due aspetti, resi metodolo-
gicamente autonomi, di un’unità: l’unità dell’accadere compre-
so storicamente. E poiché il comprendere è un fenomeno origi-
nario nel quale si esprime un rapporto universale dell’uomo,
gli elementi in cui esso si realizza o gli aspetti unilaterali tra
cui si muove la riflessione si compenetrano, cioè — rappresenta-
ti come autonomi — si costruiscono in correlazione tra di loro.
Considerato dall’altra parte, questo circolo è inevitabile perché
la vita è istanza determinante dello spirito, cosicché la sua
forma determina infine anche le formazioni mediante cui deve
diventare comprensibile a se stessa. La vita può essere appunto
compresa soltanto dalla vita, e a tal fine si dispone in strati di
cui l'uno media la comprensione dell'altro, e che nella loro
dipendenza reciproca annunciano la sua unità.
A questo punto appare chiaro che il motivo vitalistico per la
soluzione del problema del comprendere era già prefigurato
nelle considerazioni con cui ho cercato di chiarirlo respin-
gendo le interpretazioni che di esso si offrono a prima vista.
Infatti queste interpretazioni, considerate in modo preciso, risul-
tano in linea generale discendenti da una fondamentale intui-
zione meccanicistica. Ad essa risponde il fatto che l’uomo
offre all'uomo solo il suo aspetto fisico esterno, dietro il quale
soltanto un atto intellettuale, mediato da associazioni, colloca
un'anima e determinati processi psichici. L'unità e la totalità
del vivente si sottrae infatti al meccanicismo; esso può incollar-
lo insieme soltanto in base ai singoli frammenti che, per una
concezione organica, sono il risultato di scomposizioni successi-
ve della sua unità. Perciò esso non può concepire il comprende-
re come fenomeno originario che si manifesta tra un uomo
536 GEORG SIMMEL
nella sua totalità e un altro uomo anch'esso nella sua totalità,
ma lo concepisce come sintesi secondaria di fattori separati. In
base alla medesima mentalità gli sfugge l'elemento creativo —
si può ben dire così — del processo del comprendere, che
permette al soggetto di produrre in sé ciò che gli è estraneo e
distante, ciò che non ha vissuto personalmente, come immagine
di un’altra anima. La sua aspirazione finale di risolvere ogni
relazione in equivalenze lo conduce a fondare o a ridurre anche
il comprendere esclusivamente all’identità tra soggetto e ogget-
to. Esso può concepire il compreso soltanto come ripetizione
meccanica di ciò che già preesiste nel comprendente; e doveva
quindi — dato che evidentemente ciò non è conciliabile con i
fatti — attaccarsi al mezzo disperato di costruire gli avvenimen-
ti psichici nella personalità storica partendo da singoli fram-
menti, che si possono raccogliere insieme sulla base delle espe-
rienze interne del soggetto della conoscenza storica: un tentati-
vo che non è possibile discutere seriamente, e del tutto privo
di valore già per il fatto che la comprensione della vita interio-
re corre appunto lungo le continue comnessioni e unificazioni
dei contenuti che si possono designare singolarmente. Ciò che è
decisivo per la vita e per l’individualità, ossia l’unificazione,
non si potrebbe quindi raggiungere con la semplice trasposizio-
ne dei frammenti messi insieme. Rientra in tutto nell’essenza
dell’intuizione meccanicistica voler rappresentare anche il com-
prendere storico come una mera copia dell'accaduto «come
esso era realmente », anziché scorgere che anche questa è un’at-
tività del soggetto dipendente dalle categorie e dalle forme in
cui assume il suo oggetto (alle quali, per esempio, quel sogget-
to metodologico appartiene come una necessità 4 priori), una
formazione spirituale specifica; e che anche qui la sua verità
relativa a un oggetto è qualcosa di vivente, di funzionale e di
elaborato, non già la riproduzione meccanica di una lastra foto-
grafica. Forse con ciò il problema del comprendere storico di-
venta qualcosa di molto più difficile e profondo che nell’intui-
zione semplice, e tuttavia assai più strana, secondo cui la
comprensione di un’altra anima si compie come ripetizione
dell’esatto contenuto di quest’anima nello spirito che l’accoglie
— e ha luogo solamente in quanto l’esperienza vissuta propria
di questo spirito viene trasposta in quella.
GEORG SIMMEL 537
In queste diverse interpretazioni della comprensione psichi-
ca si fa valere l’antitesi tra un punto di vista meccanicistico e
un punto di vista organicistico e vitalistico. E come avviene in
ogni conflitto spirituale, spinto fino alla sua istanza suprema,
ogni decisione tra i due punti di vista risulta dipendente da
quella che l’uomo ha preso in merito alla totalità e alla profon-
dità della propria intuizione del mondo.
MAX WEBER
NOTA BIOGRAFICA
Max Weber nacque a Erfurt il 21 aprile 1864, figlio di un avvocato
impegnato nella politica attiva e di una donna di forti interessi mo-
rali e religiosi, alla quale egli rimarrà sempre profondamente attaccato.
Condotto in giovane età a Berlino, dove il padre — divenuto deputato
del partito liberale-nazionale — accoglieva in casa alcuni dei maggiori
esponenti della vita politica e della cultura tedesca dell’età bismarckia-
na, Weber compì gli studi liceali nella capitale. In questo ambiente il
giovane Weber rivelò ben presto Ia sua acuta intelligenza e una straordi-
naria capacità di applicazione nello studio scientifico. Dal 1882 al 1886
frequentò successivamente le università di Heidelberg, di Berlino, di
Gòttingen e poi di nuovo di Berlino, seguendo corsi di diritto, di
economia e di storia; e a Berlino conseguì il dottorato nel 1889, con
una dissertazione sulle società commerciali nel Medioevo, Zur Geschichte
der Handelsgesellschaften im Mittelalter (Stuttgart, 1889). In seguito
gli interessi di Weber si sviluppano in due direzioni principali. Da una
parte, soprattutto sotto l'ispirazione e la guida di Theodor Mommsen,
egli si dedica allo studio della storia economico-sociale dell'antica Ro-
ma, scrivendo un’opera ancor oggi fondamentale sul diritto agrario
romano, Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staat-
und Privatrecht (Stuttgart, 1891; tr. it. Milano, 1967) — con la quale
ottiene l'anno seguente l’abilitazione — e soffermandosi in particolare
sui rapporti tra la crisi sociale del tardo Impero e il tramonto della
civiltà antica. Dall'altra parte, sotto l'influenza dei cosiddetti « socialisti
della cattedra » (Gustav Schmoller, Adolf Wagner, Lujo Brentano ecc.) e
attraverso la partecipazione all'attività del « Verein fir Sozialpolitik »,
Weber si accosta alla ricerca sociologica empirica e collabora a un
progetto di studio delle condizioni del lavoro agricolo in Germania con
un'inchiesta sulla situazione delle regioni orientali. Nel volume Die
Verhiltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (Leipzig,
1892), nonché in vari saggi che ne sviluppano le implicazioni più
propriamente politiche, egli pone in luce il trapasso dalla tradizionale
proprietà di tipo signorile alla proprietà capitalistica, cercando di determi
nare le conseguenze che ne risultano sul piano politico-sociale: la forma-
zione di una classe di imprenditori fondiari e la proletarizzazione della ma-
542 MAX WEBER
nodopera agricola, con la necessità che da essa deriva di ricorrere alla im-
migrazione polacca per colmare il vuoto prodottosi tra i contadini tedeschi.
Attraverso questa inchiesta comincia a delinearsi quello che sarà il
problema centrale dell’opera di Weber, cioè il problema del capitalismo
moderno e della sua individualità storica. E difatti, in una serie di
saggi di poco posteriori la sua attenzione si concentra sui vari aspetti
dell'organizzazione capitalistica dell'economia e sulle condizioni del lavo-
ro industriale.
Conseguita l'abilitazione, Weber sposa nel 1893 Marianne Schnitger
(che alla sua figura intellettuale dedicherà, dopo la morte, una celebre
biografia). L’anno seguente egli intraprende la sua carriera accademica
quale professore di economia politica a Friburgo e, dal 1896, a Heidel-
berg. Ma nel 1897 una gravissima crisi nervosa lo costringe a sospendere
l'insegnamento e a interrompere il lavoro scientifico. Questa crisi durerà
parecchi anni: soltanto dopo un lungo periodo di riposo, di cure e di
viaggi, con l’amorevole assistenza della moglie, Weber potrà far ritorno
al lavoro nel 1901, abbandonando però al tempo stesso la cattedra
universitaria. Egli rimane a Heidelberg come studioso privato, ma nel
1903 assume — insieme a Edgard Jaffé e a Werner Sombart — la
direzione dell’« Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik »; e que-
sta rivista, sulla quale compariranno molti dei suoi saggi più importanti,
diventa per opera sua un centro di attività a cui collaborano i più
insigni studiosi tedeschi di scienze sociali.
In questi stessi anni, a contatto con l’ambiente filosofico di Heidel-
berg, si vengono precisando le lince della riflessione metodologica webe-
riana. In un primo saggio, Roscher und Knies und die logischen Proble-
me der historischen Nationalòkonomie (pubblicato nello « Schmollers
Jahrbuch » del 1903-1906), Weber rivolge la sua critica ai presupposti
organicistici della scuola storica di economia, respingendo la pretesa di
assegnare alla scienza economica il compito di scoprire tendenze evoluti-
ve fornite di valore legale. Ma la critica della scuola storica (a cui fa
riscontro l'accettazione dei princìpi della teoria marginalistica, soprattut-
to nella formulazione datane da Carl Menger) si allarga in una presa di
posizione polemica nei confronti dell’eredità metodologica romantica, e
in particolare dell'interpretazione della conoscenza storica come un proce-
dimento di comprensione immediata, diretto a cogliere intuitivamente i
fenomeni storici nella loro individualità. La piattaforma di questa pole-
mica è offerta a Weber dal richiamo all'impostazione metodologica
rickertiana. Dinanzi all’alternativa tra la definizione della conoscenza
storica come complesso delle scienze dello spirito, formulata da Dilthey,
e la sua qualificazione come sapere idiografico, proposta da Windelband
e da Rickert, egli sceglie infatti la seconda soluzione. Né la specificità
dell'oggetto né la specificità del procedimento di ricerca, di per sé
MAX WEBER 543
prese, sono in grado di garantire l'autonomia della conoscenza storica:
la contrapposizione tra natura e spirito è un'antitesi di carattere metafisi-
co, mentre la distinzione tra spiegazione e comprensione rischia di
ridurre la conoscenza storica a una specie di penetrazione immediata, a
una forma di intuizione. L'oggetto delle scienze storico-sociali deve
perciò essere definito in correlazione al loro metodo, cioè in base all’o-
rientamento verso l’individualità; mentre l’intendere dev’essere concepito
come una comprensione capace di trovare una verifica empirica e di
tradursi in spiegazione causale.
Per questa via si è venuto delineando il problema centrale della
metodologia di Weber, vale a dire il problema dell'oggettività delle
scienze storico-sociali. Nel saggio Die « Objektivitàt » sozialwissenschaft-
licher und sozialpolitischer Erkenntnis, che inaugura la nuova serie
dell'« Archiv » (1904; tr. it. Torino, 1958) e in alcuni saggi successivi,
in particolare nelle Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissen-
schaftlichen Logik (1906; tr. it. Torino, 1958), Weber ha enunciato le due
condizioni fondamentali di oggettività delle scienze storico-sociali, indi-
candole da un lato nell’esclusione dei giudizi di valore e dall'altro nel
ricorso alla spiegazione causale. La prima condizione stabilisce la diffe-
renza di principio tra il compito delle scienze storico-sociali in quanto
scienze e il compito dell’attività politica, e più in generale di qualsiasi
presa di posizione valutativa; la seconda stabilisce invece la funzione
esplicativa delle scienze storico-sociali e l’applicabilità al loro dominio
della categoria di causalità. Su questa base Weber si richiama alla
distinzione rickertiana tra giudizio di valore e relazione ai valori. Se il
giudizio di valore è estraneo alle scienze storico-sociali come a ogni altra
disciplina scientifica, ciò che distingue la loro struttura da quella delle
scienze naturali è proprio il riferimento a certi valori in virtù dei quali
avviene la selezione del dato empirico. Weber lascia però cadere il
presupposto della validità incondizionata dei valori, a cui Rickert faceva
appello: i valori sono sì criteri di scelta che permettono la selezione del
dato empirico e la costruzione dell'oggetto storico, ma sono essi stessi
assunti in rapporto allo specifico punto di vista da cui si pone l’indagi-
ne. I valori non sono quindi forniti di un'esistenza metastorica; essi
sono sempre i valori di una certa cultura, a cui appartiene il soggetto
della ricerca, La relazione ai valori designa pertanto il condizionamento
culturale delle scienze storico-sociali, il punto di partenza « soggettivo »
che stabilisce la direzione dell'indagine. Entro questa direzione è possibi-
le una determinazione oggettiva di rapporti, che può essere conseguita
mediante il ricorso alla spiegazione causale. Ma in tale maniera la stessa
spiegazione causale di un oggetto storico risulta inevitabilmente parzia-
le, anzi unilaterale. Essa non mette capo alla scoperta di rapporti
necessari, ma procede alla formulazione di giudizi di possibilità oggetti-
544 MAX WEBER
va che si collocano entro i due casi-limite della causazione adeguata e
della causazione accidentale. Le scienze storico-sociali individuano quin-
di, di volta in volta, una serie di condizioni che — accanto ad altre,
parimenti importanti — rendono possibile il verificarsi di un determina-
to avvenimento. In quest'opera esse si avvalgono pure di concetti genera-
li e di regole generali che hanno il carattere di «tipi ideali» e che
possono organizzarsi, con una relativa autonomia, in discipline teoriche
come la scienza economica o la sociologia. Questi concetti e queste
regole assolvono una funzione strumentale rispetto allo scopo primario
delle scienze storico-sociali, che è la spiegazione degli avvenimenti nella
loro individualità, ma sono nondimeno indispensabili. La via verso l’indi-
viduale passa sempre attraverso il sapere nomologico. Perciò l’edificio
del sapere storico comprende non soltanto la ricerca storiografica, ma
anche le scienze sociali astratte, costituite mediante l’organizzazione
sistematica di concetti tipico-ideali e dirette alla determinazione delle
uniformità di comportamento dei fenomeni sociali.
Negli stessi anni Weber ha affrontato il problema dell’individualità
storica del capitalismo moderno, con i due saggi Die protestantische
Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905; tr. it. Roma, 1945) e Die
protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus (1906). Weber
definisce il capitalismo moderno come una struttura economica a orienta-
mento razionale, che si colloca nel quadro del processo di razionalizza-
zione della vita che è caratteristico della civiltà moderna; per cui esso si
differenzia anche da quelle forme di economia che — come il capitali
smo antico — possono presentare tratti simili. Alla ricerca storica
si pone pertanto il compito di spiegare per quali motivi, cioè in rap-
porto a quali condizioni, questa struttura sia sorta soltanto in Occi-
dente e nell'età moderna, e di determinare le linee del processo attraver-
so cui essa si è formata. Weber sostiene, in polemica con la concezione
materialistica della storia, l'impossibilità di fornire una spiegazione
della genesi del capitalismo moderno che faccia appello soltanto a condi-
zioni economiche; e si propone di mostrare che ad esso ha contribuito in
modo decisivo, accanto a un certo tipo di organizzazione dell'impresa e
a una certa configurazione dei rapporti « materiali », anche una particola-
re mentalità — lo spirito capitalistico — la quale è il risultato di una
trasformazione dell’etica calvinistica e della sua specifica forma di ascesi
mondana, diretta a comprovare la grazia divina mediante il lavoro e il
successo negli affari. Questa tesi costituisce il presupposto anche dell’ana-
lisi che Weber ha successivamente dedicato alla religione cinese, all’In-
duismo e al Buddismo, alla religione ebraica, negli studi raccolti sotto
il titolo complessivo Die Wirtschafesethik der Weltreligionen (1915-19).
Attraverso lo studio comparativo delle varie etiche economiche a cui le
religioni universali hanno dato origine, cercando di regolare con esse la
MAX WEBER 545
vita economica, egli si propone infatti di mostrare — per via negativa —
che soltanto nel capitalismo moderno è presente quella particolare menta-
lità che costituisce lo spirito capitalistico, e che soltanto l’ascesi di tipo
calvinistico poteva offrire le condizioni adatte per la sua formazione.
L'analisi weberiana si rivolge così a determinare la diversità dell'etica
economica del Protestantesimo da quella delle altre religioni, cioè — in
ultima analisi — a spiegare i caratteri peculiari del capitalismo moder-
no. Pertanto la « sociologia della religione » di Weber appare, in fondo,
una ricerca storica che si avvale strumentalmente di concetti tipico-idea-
li, subordinando l’analisi tipologica a un preciso scopo di individua-
zione.
Soltanto nel saggio Uber einige Kategorien der verstehenden Soziolo-
gie (1913; tr. it. Torino, 1958), e più esplicitamente nella trattazione
sistematica di Wirtschaft und Gesellschaft (edita postuma nel 1922 a
Tiibingen; tr. it. Milano, 1961), la sociologia cessa di costituire un
momento astratto nell’ambito di un'indagine orientata in senso storiogra-
fico, per configurarsi come una disciplina autonoma che si pone in
antitesi rispetto alla ricerca storica, delimitando un proprio campo di
ricerca. La sociologia assume a oggetto le uniformità dell’atteggiamento
umano in quanto fornite di senso, e le forme di relazione che sorgono
sulla base dei diversi tipi di atteggiamento — l’atteggiamento razionale
rispetto allo scopo, l'atteggiamento razionale rispetto al valore, l’atteggia-
mento affettivo, l'atteggiamento tradizionale. In questa prospettiva We-
ber ha condotto, in Wirtschaft und Gesellschaft, un'analisi sistematica
dei rapporti tra i vari settori della vita sociale e le forme di economia;
cosicché il problema dell’individualità storica del capitalismo moderno
risulta trasposto sul piano di una tipologia delle strutture economiche,
considerate nel loro rapporto reciproco con gli altri campi della vita di
una società.
Negli anni successivi al 1903 lo sviluppo della riflessione metodologi-
ca e della ricerca storico-sociologica si intreccia, in Weber, con il rinnova-
to interesse per le vicende politiche tedesche e per la situazione europea.
Comincia a delinearsi, in questo periodo, la posizione sempre più critica
di Weber nei confronti dell’eredità bismarckiana, che lo condurrà a
formulare un severo giudizio sulla struttura politica della Germania,
incapace di favorire la formazione di una classe dirigente preparata e
responsabile. Questa critica, che Weber ha sviluppato durante la prima
guerra mondiale dalle colonne della «Frankfurter Zeitung», viene
espressa in modo compiuto — poco prima della fine del conflitto — in
Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland (Munchen,
1918; tr. it. Bari, 1919), in cui egli affronta il problema dell'imminente
ricostruzione politica della Germania. Successivamente Weber partecipa
in maniera diretta alla vita politica, prima come consulente della Com-
35. STORICISMO TEDESCO.
546 MAX WEBER
missione di armistizio a Versailles e poi collaborando alla redazione del
progetto di costituzione della repubblica di Weimar. Nel 1918 ritorna
all'insegnamento, accettando una chiamata all’Università di Monaco, do-
ve tiene due celebri conferenze sul senso della scienza e sul senso della
politica (Wissenschaft als Berut e Politik als Beruf, 1919; tr. it. Torino,
1948) e il suo ultimo corso di lezioni, dedicato a un'analisi delle
categorie sociologiche. Risale a questi anni anche la Wirtschaftsgeschichte,
pubblicata postuma (Berlin, 1923). La morte lo coglie a Monaco il 14
giugno 1920, in pieno fervore di attività.
L'ultimo periodo della vita di Weber è caratterizzato anche dallo
sforzo di sviluppare le implicazioni filosofiche della propria analisi.
Non a caso il problema che viene in primo piano, durante questi anni, è
il problema dei valori, che gli veniva riproposto con urgenza dal
conflitto mondiale e dalle questioni etico-politiche che esso aveva solleva-
to. Riprendendo, nel saggio Der Sinn der « Wertfreiheit» der soziolo-
gischen und dkonomischen Wissenschaften (1917; tr. it. Torino, 1958), la
tesi dell’avalutatività delle scienze storico-sociali, Weber ha dato una
formulazione esplicita della propria concezione dei valori. I valori non
posseggono una validità incondizionata, e tanto meno sono entità trascen-
denti; la loro validità coincide con la possibilità di trovare una realizza-
zione nell’agire umano. D’altra parte i valori non possono essere riporta-
ti a un'unità sistematica: la loro molteplicità è irriducibile, e sia tra le
diverse sfere di valori sia all’interno di ogni sfera si verificano sempre
conflitti di valori. Ciò vale nei rapporti tra etica e politica, tra scienza e
religione, e via dicendo; ma vale perfino all’interno della sfera etica, che
è dominata dall’antitesi tra etica dell’intenzione ed etica della responsabi-
lità. L’agire dell’uomo è la sede in cui si manifesta il contrasto reciproco
dei valori, in quanto l'accettazione di certi valori comporta inevitabil-
mente il rifiuto di altri, e il primato accordato a una certa sfera implica
la subordinazione o la negazione di altre sfere. Il rapporto dell’agire
umano con i valori si presenta quindi come una relazione problematica
definita mediante una scelta — la scelta che l’uomo compie dei valori
che devono servire come criterio di orientamento per la propria condot-
ta. Su questa base Weber ha affrontato, in Wissenschaft als Beruf, il
problema del senso della scienza, cioè il problema del significato che la
scienza riveste in relazione al posto dell’uomo nel mondo. Egli ha
indicato tale significato nella chiarezza, cioè nella presa di coscienza del
rapporto tra gli scopi dell’agire e i mezzi necessari alla loro realizzazio-
ne, a cui l’uomo perviene in virtù della conoscenza scientifica. La
scienza mette in questione la possibilità di realizzare i valori, determi-
nando le condizioni dalle quali essa dipende; la sua è quindi una
funzione problematizzante e critica. In maniera analoga Weber ha impo-
stato, in Politik als Beruf, il problema del senso della politica. Se è vero
MAX WEBER 547
che la politica implica sempre rapporti di forza e mira a conseguire o a
mantenere un certo potere, è altrettanto vero che essa è dedizione a un
compito, a una causa. In quanto tale, la politica presuppone una scelta
in favore di certi valori, a cui si accompagna il rifiuto di altri; cosicché
nel conflitto tra le varie forze si riflette una lotta tra valori diversi e
inconciliabili. Il senso della politica è perciò differente dal senso della
scienza — il che consente a Weber di ribadire la tesi dell’indipendenza
reciproca di conoscenza scientifica e di attività politica. Ma la base sulla
quale essi vengono determinati è la medesima: un’interpretazione del
posto dell’uomo nel mondo che risulta fondata sul rapporto di scelta
che intercorre tra l'uomo e i valori.
NOTA BIBLIOGRAFICA
I saggi metodologici di Weber sono raccolti nei Gesammelte Aufsitze
zur Wissenschaftslehre, Tùbingen, 1922, 1951 ? (a cura di J. Winckelmann),
1968?, 19734. Il volume comprende i seguenti saggi: Roscher und Knies
und die logischen Probleme der historischen Nationalòkonomie (1903-1906),
Die « Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkennt-
nis (1904), Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaft-
lichen Logik (1906), R. Stammlers « Ùberwindung » der materialistischen
Geschichtsauffassung (1907) con il relativo Nachtrag, Die Grenznutzlehre
und das « psychophysische Grundgesetz » (1908), Uber einige Kategorien
der verstehenden Soziologie (1913), Die drei Typen der legitimen Herr-
schaft (apparso postumo nel 1922), Der Sinn der « Wertfreiheit » der so-
ziologischen und Gkonomischen Wissenschaften (1918), Wissenschaft als
Beruf (1919) — nonché il primo capitolo di Wirtschaft und Gesellschaft.
Di questi saggi il secondo, il terzo, il sesto e l’ottavo sono tradotti nel vo-
lume 7 metodo delle scienze storico-sociali (a cura di P. Rossi), Torino,
1958; Wissenschaft als Beruf è invece tradotto — insieme a Politik als
Beruf — nel volume Il lavoro intellettuale come professione (tr. it. di A.
Giolitti, intr. di D. Cantimori), Torino, 1948, 1966 2.
Gli altri scritti di Weber sono raccolti per buona parte nei seguenti
volumi:
Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie, Tiùbingen, 1920-21, con va-
rie riedizioni fototipiche (una traduzione italiana completa è in corso
di preparazione per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di Co-
munità): il primo volume comprende i due saggi Die protestantische
Ethik und der Geist des Kapitalismus e Die protestantischen Sekten
und der Geist des Kapitalismus, nonché l'introduzione e la prima par-
te di Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen, dedicata a Konfuzia-
nismus und Taoismus; il secondo comprende la seconda parte, dedi-
cata a Hinduismus und Buddismus; il terzo comprende la terza par-
te, dedicata a Das antike Judentum. Una nuova edizione dei saggi sul-
l'etica protestante, corredata della relativa discussione, è stata fornita
da J. Winckelmann, col titolo Die protestantische Ethik: cine Aufsatz-
sammlung, Miinchen, 1968, e Hamburg, 19727.
MAX WEBER 549
Gesammelte politische Schriften, Miinchen, 1921, e Tiibingen, 1958? (a
cura di J. Winckelmann), 19713; tr. it. (parziale) Catania, 1970: di
questa traduzione non fanno parte né Parlament und Regierung im
neugeordneten Deutschland, già tradotto fin dal 1919, né il saggio
Politik als Beruf, tradotto invece nel volume // Zavoro intellettuale co-
me professione cit.
Gesammelte Aufsitze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Tiubingen,
1924: il volume comprende Agrarverhaltnisse im Altertum (1909) e
una serie di altri saggi di storia economico-sociale del mondo antico
e del Medioevo, nonché Die lindliche Arbeitsverfassung (1893), Ent-
wickelungstendenzen in der Lage der ostelbischen Landarbeiter (1894)
e Der Streit um den Charakter der altgermanischen Sozialverfassung
in der deutschen Literatur des letzten Jahrzehnts (1905).
Gesammelte Aufsitze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tùbingen, 1924:
il volume comprende diversi saggi di sociologia empirica, tra cui so-
prattutto Zur Psychophysik der industriellen Arbeit (1908-1909), e gli
interventi alle riunioni del « Verein fir Sozialpolitik ».
Rimangono al di fuori di queste raccolte: i due volumi Die ròmische
Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staat- und Privatrecht e Die
Verhdltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland, già menzio-
nati; l’opera sociologica fondamentale Wirtschaft und Gesellschaft, Tù-
bingen, 1922, 19257, 19473, 19564 (a cura di J. Winckelmann), 19725,
tr. it. Milano, 1961, 1968, 1974?; le lezioni sulla Wirtschaftsgeschichte:
Abriss der universalen Sozial- und Wirtschaftsgeschichte (a cura di S.
Hellmann e M. Palyi), Miinchen-Leipzig, 1923 (una traduzione italiana è
in preparazione presso Einaudi). Rimangono inoltre al di fuori delle varie
raccolte e dei volumi qui elencati numerosi scritti, discorsi, interventi con-
gressuali, nonché gli Jugendbriefe, Tiibingen, s.d. (ma 1936).
Di grande importanza per la comprensione della personalità di Weber
è la biografia scritta dalla moglie Marianne Weser, Max Weber, cin Le
bensbild, Tiibingen, 1921, e Heidelberg, 19507. Due importanti raccolte
di documenti sono state pubblicate rispettivamente da E. BAuMGARTEN, col
titolo Max Weber: Werk und Person, Tiibingen, 1964, e da R. KénIG e
J. WincKELMANN, col titolo Max Weber zum Gedichinis (fascicolo spe-
ciale della « Kòlner Zeitschrift fir Soziologie und Sozialpsychologie »,
XVI, 1964).
La letteratura critica sull'opera e sul pensiero di Weber ha acquistato,
particolarmente negli ultimi due decenni, dimensioni sempre più cospicue.
Tra di essa ci limitiamo a segnalare gli studi seguenti:
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A. von ScHELTING, Die logische Theorie der historischen Kulturwissen-
schaft von Max Weber und im besonderen sein Begriff des Idealtypus,
«Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XLIX, 1920,
pp. 623-752.
H. OrrenHEMER, Die Logik der soziologischen Begriffsbildung (mit be-
sonderer Beriicksichtigung von Max Weber), Tiibingen, 1925.
A. Warter, Max Weber als Soziologe, « Jahrbuch fir Soziologie », II,
1926, pp. 1-65.
H. J. Graz, Der Begriff des Rationalen in der Soziologie Max Webers,
Karlsruhe, 1927.
B. Prisrer, Die Entwicklung zum Idealtypus (Eine methodologische Un-
tersuchung iiber das Verhaltnis von Theorie und Geschichte bei Men-
ger, Schmoller und Max Weber), Tibingen, 1928, parte III.
S. LanpsHut, Kriti der Soziologie, Minchen-Leipzig, 1929, e Neuwied-
Berlin, 1968 ?, parte II.
W. Bienrair, Max Webers Lehre vom geschichilichen Erkennen, Berlin,
1930.
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taphysik, « Logos», XIX, 1930, pp. 359-70.
W. StrzeLEWIcz, Die Grenzen der Wissenschaft bei Max Weber, Frank-
furt a.M., 1931.
K. Jasrers, Max Weber: Deutsches Wesen im politischen Denken, im
Forschen und Philosophieren, Oldenburg, 1932; nuova edizione col ti-
tolo Max Weber: Politiker, Forscher, Philosoph, Bremen, 1946, e Miin-
chen, 19582; tr. it. Napoli, 1969.
K. LéwrrH, Max Weber und Karl Marx, « Archiv fiir Sozialwissenschaft
und Sozialpolitik », LXVII, 1932, pp. 53-99 € 175-214, poi raccolto nel-
le Gesammelte Abhandlungen zur Kritik der geschichilichen Existenz,
Stuttgart, 1960, pp. 1-67; tr. it. Napoli, 1967, pp. g-110.
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Un elenco degli scritti di Weber (compresi gli articoli di giornale)
è stato fornito per la prima volta da Marianne Weser, Max Weber, ein
Lebensbild cit., pp. 755-60; esso è stato completato da J. WINcKELMANN
nell’antologia di testi weberiani Soziologie, Weltgeschichtliche Analysen,
Politik, Stuttgart, 1956, pp. 490-503. Per una bibliografia degli studi su
Weber si veda l’articolo di H. H. GertH e H. I. GertH, Bibliography on
Max Weber, « Social Research », XVI, 1949, pp. 70-89, nonché le impor-
tanti integrazioni fornite da W. Mommsen, Max Weber und die deutsche
Politik cit., pp. 544-64.
L’«OGGETTIVITÀ » CONOSCITIVA DELLA SCIENZA
SOCIALE E DELLA POLITICA SOCIALE *
La prima questione *, che di solito si pone presso di noi a
una rivista di scienza sociale che sia al tempo stesso una rivista
di politica sociale, nel momento del suo apparire oppure del
a. Ogni qual volta, nella prima parte delle seguenti considerazioni, si
parlerà esplicitamente in nome degli editori, 0 si determineranno i com-
piti dell’« Archivio », non si tratterà naturalmente di opinioni private del-
l’autore, bensì di formulazioni che hanno avuto l’espressa approvazione
dei coeditori. Per la seconda parte la responsabilità, tanto per la forma
quanto per il contenuto, spetta soltanto all'autore.
Che l’« Archivio » non cadrà mai nella proclamazione settaria di una
determinata posizione scolastica, è garantito dalla circostanza che il punto
di vista non solo dei suoi collaboratori, ma anche dei suoi editori, è
tutt'altro che identica, perfino sotto il profilo metodologico. D'altra parte
una convergenza su certe concezioni fondamentali ha costituito natural-
mente il presupposto dell'assunzione collettiva della redazione. Questa
convergenza si riferisce in particolare alla considerazione del valore della
conoscenza seorica da punti di vista « unilaterali », nonché all'esigenza
dell’elaborazione di concetti precisi e della rigorosa distinzione tra sapere
empirico e giudizio di valore, nel senso in cui essa verrà qui presentata
— naturalmente senza la pretesa di chiedere qualcosa di « nuovo ».
L'ampiezza della discussione (nella seconda parte) e la frequente ripe-
tizione dello stesso pensiero servono allo scopo esclusivo di pervenire al
massimo possibile di comune intelligibilità in tali considerazioni. Per que-
* Die « Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis,
« Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XIX, 1904, pp. 22-87, raccolto
nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tubingen, ]. C. B. Mohr,
1922, 4° cd. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 146-214 (L’« oggettività »
conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, tr. it. di Pietro Rossi, in Il me-
todo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958, pp. 53-130).
556 MAX WEBER
passaggio sotto una nuova redazione, è quella concernente la
sua « tendenza ». Anche noi non possiamo sottrarci a tale que-
stione, e dobbiamo a questo punto — in riferimento alle osser-
vazioni formulate nella nostra Nota introduttiva! — addentrar-
ci in un'impostazione problematica più fondamentale. Si offre
in questa maniera l’opportunità di illustrare lungo varie direzio-
ni il carattere specifico del lavoro della «scienza sociale» in
genere, quale noi lo intendiamo, di modo che ciò possa essere
utile — per quanto, o piuttosto proprio in quanto si tratta di
«nozioni di per sé evidenti» — se non per lo specialista,
almeno per il lettore che è più lontano dalla prassi del lavoro
scientifico.
Scopo esplicito dell’« Archivio » è stato, fin dall’inizio, quel-
lo di promuovere, accanto all'estensione della nostra conoscen-
za intorno alle «situazioni sociali di tutti i paesi», e quindi
intorno ai fazti della vita sociale, anche l'educazione del giudi-
zio sui suoi problemi pratici e pertanto — in quella maniera,
certo assai modesta, in cui un fine siffatto può venir perseguito
da studiosi privati — la critica del lavoro pratico di politica
sociale, fino ai fattori legislativi. E tuttavia l’« Archivio » si è
proposto sempre di essere una rivista esclusivamente scientifica,
e di lavorare soltanto con i mezzi della ricerca scientifica —
cosicché si presenta subito il problema del modo in cui quello
sto interesse molto — c'è da sperare non troppo — si è sacrificato di
precisione dell’espressione, ed è stato pure del tutto tralasciato il tentativo
di presentare, in luogo di un’'elencazione di alcuni punti di vista meto-
dologici, un'indagine sistematica. Ciò avrebbe richiesto l'inserimento di
una quantità di problemi di teoria della conoscenza, che in parte si situa-
no a un livello ancora maggiore di profondità. Qui ci si propone non già
di fare della logica, bensì di rendere utili per noi dei risultati noti della
logica moderna; e quindi non di risolvere dei problemi, ma di illustrarne
il significato ai non specialisti. Chi conosca i lavori dei logici moderni —
io cito solo Windelband, Simmel e, per i nostri scopi, specialmente Hein-
rich Rickert — osserverà subito come ogni cosa essenziale sia qui legata
ad essi,
1, Si tratta della Nota introduttiva alla nuova serie dell’« Archiv fir Sozialwissen-
schaft und Sozialpolitik », che enunciava il programma della nuova redazione,
costituita — oltre che da Weber — da Edgard Jaffé e da Werner Sombart. Cfr.
« Archiv », XXI, 1904, pp. ivi
MAX WEBER 557
scopo possa conciliarsi, in linea di principio, con la limitazione
a questi mezzi. Allorché l’« Archivio » procede nelle sue pagi-
ne a valutare le misure legislative o amministrative, oppure le
proposte per tali misure, che cosa significa questo? Quali sono
le zorme per questi giudizi? Quale è la validità dei giudizi di
valore che talvolta esprime da parte sua colui che giudica, o
che un autore, nell’avanzare proposte pratiche, pone a fonda-
mento di queste? E in quale senso egli si mantiene allora sul
terreno della discussione scientifica, dal momento che la caratte-
ristica della conoscenza scientifica deve essere rintracciata nella
validità « oggettiva » dei suoi risultati — cioè nella sua verità?
Noi intendiamo illustrare dapprima il nostro punto di vista di
fronte a questa questione, per trattarne in seguito un’altra più
ampia: in qual senso vi soro in generale « verità oggettivamen-
te valide » sul terreno delle scienze che studiano la vita cultura-
le? È una questione che, in considerazione del continuo muta-
re e della lotta accanita che investe anche i problemi apparente-
mente più elementari della nostra disciplina, il metodo del suo
lavoro, il modo di formazione dei suoi concetti e la loro validi-
tà, non può essere evitata. Noi vogliamo quindi non già offrire
delle soluzioni, ma piuttosto porre in luce dei problemi — quei
problemi a cui la nostra rivista, per essere giustificata nel suo
lavoro passato e futuro, dovrà dedicare la propria attenzione.
Noi tutti sappiamo che la nostra scienza, anzi — con l’ecce-
zione forse della storia politica — ogni disciplina che abbia
per oggetto le istituzioni e i processi culturali della vita
umana, è storicamente sorta in relazione a punti di vista prati-
ci. Il suo scopo prossimo, e all’inizio anche esclusivo, era quel-
lo di produrre giudizi di valore su determinati provvedimenti
politico-economici dello stato. Essa costituiva una « tecnica » al-
l'incirca nello stesso senso in cui lo sono anche le discipline clini-
che nell’ambito delle scienze mediche. È noto pure come questa
posizione sia venuta gradualmente mutando, senza che tuttavia
fosse realizzata una distinzione di principio tra la conoscenza
di «ciò che è» e la conoscenza di «ciò che deve essere ».
558 MAX WEBER
Contro questa distinzione operava dapprima la convinzione che
i processi economici siano regolati da leggi di natura immuta-
bilmente eguali, e in seguito l’altra convinzione che essi dipen-
dano da un principio di sviluppo univoco; e pertanto si riteneva
che ciò che deve essere coincidesse 0 con ciò che è immutabil-
mente, nel primo caso, oppure con ciò che diviene immancabil-
mente, nel secondo caso. Con il risveglio del senso storico la
nostra scienza fu dominata da una combinazione di evoluzioni-
smo etico e di relativismo storico, la quale tentava di spogliare
le norme etiche del loro carattere formale, di determinarle nel
contenuto mediante l’incorporazione dell'insieme dei valori cul-
turali nell’ambito della sfera «etica», e di elevare perciò l’eco-
nomia politica alla dignità di una « scienza etica » su fondamen-
to empirico. Dal momento in cui si contrassegnava l’insieme di
tutti gli ideali culturali possibili con l'impronta della sfera «eti-
ca», svaniva però la dignità specifica degli imperativi etici,
senza acquisire d’altra parte nulla per l’«oggettività» di que-
gli ideali. Per il momento noi possiamo e dobbiamo lasciar qui
da parte una confutazione di principio di tale posizione; e ci
soffermeremo semplicemente a osservare che anche oggi non è
scomparsa l'opinione inesatta — comune ovviamente soprattut-
to ai pratici — che l'economia politica produca e debba produr-
re giudizi di valore, derivandoli da una specifica « intuizione
economica del mondo ».
La nostra rivista, in quanto rappresentante di una disciplina
empirica, deve respingere in maniera fondamentale questa posi-
zione — come vogliamo mostrare fin dall’inizio — poiché sia-
mo convinti che non può mai essere compito di una scienza
empirica quello di formulare norme vincolanti e ideali, per
derivarne direttive per la prassi.
Che cosa discende però da questa proposizione? Non ne
discende in nessun modo che i giudizi di valore, in quanto essi
si basano in ultima istanza su determinati ideali e sono perciò
di origine « soggettiva », siano sottratti alla discussione scientifi-
ca in genere. La prassi e lo scopo della nostra rivista avrebbe
sempre smentito un principio siffatto. La critica non si arresta
di fronte ai giudizi di valore. La questione è piuttosto la se-
guente: che cosa significa e a che cosa tende una critica scienti-
MAX WEBER 559
fica di ideali e di giudizi di valore? Essa richiede una considera-
zione alquanto approfondita.
Ogni riflessione pensante sugli elementi ultimi di un agire
umano fornito di senso è vincolata anzitutto alle categorie di
« scopo » e di « mezzo ». Noi vogliamo qualcosa, in concreto, o
« per il suo proprio valore» oppure come mezzo al servizio di
ciò che si vuole in ultima analisi. Alla considerazione scientifi-
ca è quindi accessibile in primo luogo, incondizionatamente, la
questione dell’appropriatezza dei mezzi in vista di un dato
scopo. In quanto noi (entro i limiti del nostro sapere) possia-
mo validamente stabilire quali mezzi sono appropriati o non
appropriati per raggiungere uno scopo prospettato, possiamo
per questa strada misurare le possibilità di conseguire con deter-
minati mezzi a disposizione uno scopo determinato, e quindi
criticare indirettamente la stessa determinazione di tale scopo,
in base alla situazione storica presente, come praticamente for-
nita di senso oppure come priva di senso in base alla configura-
zione dei rapporti esistenti. Noi possiamo inoltre, se sembra
data la possibilità di raggiungere uno scopo prospettato, stabili-
re — naturalmente sempre entro i limiti del nostro sapere — le
conseguenze che avrebbe l’impiego dei mezzi richiesti accanto
all'eventuale conseguimento dello scopo prefisso, sulla base del-
la connessione complessiva di ogni accadere. Noi offriamo in
tale maniera a colui che agisce la possibilità di misurare tra
loro le conseguenze non volute e quelle volute del suo agire, e
perciò la risposta alla questione: che cosa « costa » il consegui-
mento dello scopo voluto, in forma di pregiudizio prevedibil-
mente recato ad altri valori? Dal momento che, nella grande
maggioranza dei casi, ogni scopo al quale si tende «costa »
oppure può costare qualcosa, l’auto-riflessione di uomini che
agiscano in modo responsabile non può prescindere dalla reci-
proca misurazione dello scopo e delle conseguenze dell’agire;
e renderla possibile è infatti una delle funzioni essenziali della
critica tecnica, quale noi l'abbiamo finora considerata. Tradur-
re quella misurazione in una decisione nor è certo più un
possibile compito della scienza, ma è compito dell’uomo che
vuole: egli misura e sceglie tra i valori in questione secondo la
propria coscienza e secondo la sua personale concezione del
mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che ogri agire,
560 MAX WEBER
e naturalmente anche (secondo le circostanze) il zon-agire, si-
gnifica nelle suc conseguenze una presa di posizione in favore
di determinati valori, e perciò — cosa che oggi viene così
volentieri dimenticata — di regola contro altri. Compiere la
scelta è però cosa sua.
Ciò che noi possiamo ancora offrirgli per questa decisione è
la conoscenza del significato di ciò che viene voluto. Noi possia-
mo insegnargli a conoscere nella loro connessione e nel loro
significato gli scopi che egli vuole, e tra cui sceglie, rendendo
esplicite e sviluppando in maniera logicamente coerente le «i-
dee » che stanno, o che possono stare, a base dello scopo concre-
to. Infatti è evidentemente uno dei compiti essenziali di ogni
scienza della vita culturale dell’uomo quello di schiudere alla
comprensione spirituale queste «idee », per le quali si è lottato
e si lotta, in parte realmente e in parte apparentemente. Ciò
non va oltre i limiti di una scienza che tende a un « ordinamen-
to concettuale della realtà empirica», sebbene i mezzi necessa-
ri per questa interpretazione dei valori spirituali non costituisca-
no « induzioni » nel senso comune del termine. Tuttavia questo
compito cade, almeno parzialmente, al di fuori dell'ambito del-
la disciplina economica nella sua specializzazione, quale è defi-
nita in base alla consueta divisione del lavoro scientifico; si
tratta piuttosto di un compito della filosofia sociale. Solo che la
forza storica delle idee è stata così predominante per lo svilup-
po della vita sociale, e lo è tuttora, che la nostra rivista non
può sottrarsi a tale compito, e deve piuttosto considerarlo nel-
l'ambito dei suoi doveri più importanti.
Ma la trattazione scientifica dei giudizi di valore può non
soltanto farci comprendere e rivivere gli scopi che ci prefiggia-
mo e gli ideali che stanno alla loro base, ma soprattutto può
insegnarci anche a «valutarli» criticamente. Questa critica
può certo avere soltanto un carattere dialettico, cioè può soltan-
to essere una valutazione logico-formale del materiale che ci è
offerto dai giudizi di valore e dalle idee storicamente date, e
quindi un esame degli ideali in base al postulato della n0n con-
traddittorietà interna di ciò che viene voluto. Essa può, propo-
nendosi questo scopo, condurre colui che agisce volontariamen-
te a un’auto-riflessione su quegli assiomi ultimi che stanno a
base del contenuto del suo volere, vale a dire a quei criteri di
Max Weber intorno al 1916.
MAX WEBER 561
valore ultimi da cui egli inconsapevolmente muove o da cui —
per essere coerente — dovrebbe muovere. Recare alla coscienza
questi criteri ultimi, che si manifestano nei giudizi concreti di
valore, è in ogni caso l’ultima cosa che essa può compiere,
senza penetrare nel campo della speculazione. Che il soggetto
che giudica debba conformarsi a questi criteri ultimi è un suo
affare personale, e riguarda il suo volere e la sua coscienza, non
già il sapere empirico.
Una scienza empirica non può mai insegnare a nessuno ciò
che egli deve, ma può insegnargli soltanto ciò che egli può
e — in determinate circostanze — ciò che egli vuole. È
vero che, entro il campo delle nostre scienze, i vari modi
personali di concepire il mondo penetrano di continuo anche
nell’argomentazione scientifica, intorbidandola sempre e condu-
cendola a considerare in maniera diversa il peso di argomenti
scientifici, pur sul terreno della determinazione di semplici
connessioni causali tra i fatti; e che di conseguenza risultano
diminuite o aumentate, a seconda dei casi, le possibilità degli
ideali personali, cioè la possibilità di volere qualcosa di determi-
nato. Anche gli editori e i collaboratori della nostra rivista
ritengono sotto questo rispetto che in verità « nulla di umano
sia loro alieno ». Ma molto intercorre tra questa confessione di
debolezza umana e la fede in una scienza «etica » dell’econo-
mia politica, che dovrebbe dalla propria materia produrre degli
ideali, oppure dar luogo a norme concrete mediante l’applica-
zione di imperativi etici universali a tale materia. — Ed è
anche vero che proprio quegli elementi intimi della personalità,
i supremi e ultimi giudizi di valore che determinano il nostro
agire e che dànno senso e significato alla nostra vita, sono da
noi avvertiti come qualcosa di « oggeztivamente » valido. Noi
possiamo rappresentarceli soltanto se essi si presentano a noi
come validi, come derivanti dai nostri supremi valori, e se
quindi essi sono così sviluppati, nella lotta contro le resistenze
della vita. E certamente la dignità della « personalità » consiste
tutta nel fatto che per essa vi sono valori a cui riferisce la
propria vita: anche se nel caso singolo questi valori sussistono
esclusivamente entro la sfera della propria individualità, tutta-
via l’«estrinsecarsi» in quelli dei suoi interessi, per i quali
reclama la validità dei valori, diventa l’idea alla quale essa si
36. STORICISMO TEDESCO.
562 MAX WEBER
riferisce. Soltanto in base al presupposto della fede nei valori
ha senso, in ogni caso, il tentativo di formulare giudizi di
valore. Giudicare la validità di tali valori è però una questione
di fede, ed è inoltre forse un compito della considerazione
speculativa e dell’interpretazione della vita e del mondo nel
loro senso, ma non è sicuramente oggetto di una scienza empiri-
ca nel significato adottato in queste pagine. Per questa distin-
zione non ha rilievo decisivo — come spesso si ritiene — il
fatto empiricamente determinabile che quei fini ultimi sono
storicamente mutevoli e contestati. Infatti anche la conoscenza
dei princìpi più sicuri del nostro sapere teorico — anche del
sapere delle scienze naturali esatte o della matematica — è in
primo luogo prodotto della cultura, nello stesso modo in cui lo
sono la sensibilità e il raffinamento della coscienza. Soltanto
quando riflettiamo in maniera specifica sui problemi pratici della
politica economica e sociale (nel senso consueto del termine),
risulta chiaro che vi sono numerose, anzi innumerevoli questio
ni particolari di carattere pratico, per la cui discussione si
muove, in generale accordo, da certi scopi assunti come di per
sé evidenti — sì pensi per esempio ai crediti in caso di necessi-
tà, ai compiti concreti dell’igiene sociale, all’assistenza dei pove-
ri, a provvedimenti come le ispezioni di fabbriche, i tribunali
del lavoro, gli uffici di collocamento, cioè a gran parte della
legislazione protettiva dei lavoratori — e che di questi scopi si
discute, almeno in apparenza, solo in riferimento ai mezzi
adatti per conseguirli. Ma anche se si scambiasse qui l’apparen-
za dell’auto-evidenza con la verità — ciò che la scienza non
potrebbe mai fare impunemente — e se si volessero conside-
rare i conflitti, entro i quali subito conduce il tentativo della
realizzazione pratica, come questioni puramente pratiche di
opportunità — il che sarebbe molto spesso erroneo — dovrem-
mo tuttavia osservare che anche questa apparenza di auto-evi-
denza dei criteri regolativi di valore svanisce appena procedia-
mo dai problemi concreti dei servizi assistenziali alle questioni
della politica economica e sociale. Il contrassegno del carattere
politico-sociale di un problema consiste precisamente nel fatto
che esso non può venir sbrigato sulla base di considerazioni
meramente tecniche che facciano riferimento a scopi stabiliti, e
x
che si può, anzi si è costretti a disputare intorno agli stessi
MAX WEBER 563
criteri regolativi di valore, dal momento che il problema rien-
tra nella regione delle questioni culturali di portata genera-
le. E la disputa si svolge non soltanto, come oggi così volentie-
ri si crede, tra «interessi di classe», ma anche tra intuizioni
del mondo — e con ciò tuttavia rimane naturalmente vero che
l'adesione dell'individuo a una certa intuizione del mondo è
decisa anche, oltre che da vari altri elementi, e di sicuro in
misura molto elevata, dal grado di affinità che la unisce al suo
« interesse di classe » (se vogliamo qui accogliere in via provvi-
soria questo concetto solo apparentemente univoco). Di certo
c'è, in ogni circostanza, soltanto una cosa, che quanto più « ge-
nerale » è il problema del quale si tratta, vale a dire quanto
più esteso è il suo significato culturale, tanto meno esso può
trovare una risposta univocamente determinata in base al mate-
riale del sapere empirico, e di conseguenza tanto maggiore
rilievo hanno gli ultimi assiomi, così personali, della fede e
delle idee di valore. È semplicemente una ingenuità — sebbene
essa sia tuttora condivisa talvolta da specialisti — ritenere possi-
bile di stabilire in primo luogo per la scienza sociale pratica
«un principio » e di trovare una conferma scientifica della sua
validità, per dedurne quindi in maniera univoca le norme per
la soluzione dei problemi pratici particolari. Per quanto le di-
scussioni « di principio » di problemi pratici, condotte per ripor-
tare i giudizi di valore che si impongono in maniera irriflessa
al loro contenuto di idee, siano indispensabili nella scienza
sociale, e per quanto la nostra rivista intenda dedicarsi in ma-
niera particolare anche ad esse, non può tuttavia essere suo
compito — come non può essere il compito di nessuna scienza
empirica in genere — la creazione di un denominatore comune
di portata pratica per i nostri problemi, in forma di ideali
ultimi universalmente validi; esso sarebbe non soltanto di fatto
insolubile, ma anche in sé privo di senso. E quale che sia l’inter-
pretazione del fondamento e del modo di obbligatorietà degli
imperativi etici, è però certo che da essi, in quanto costituisco-
no norme per l’agire concretamente condizionato dell’;divi-
duo, non si possono dedurre in maniera univoca dei contenuti
di cultura che debbano essere accolti, e che anzi ciò è tanto
meno possibile quanto più comprensivi sono i contenuti in que-
stione. Soltanto le religioni positive — o più precisamente le
564 MAX WEBER
sette legate da un vincolo dogmatico — possono attribuire al
contenuto dei valori culturali la dignità di comandi etici incon-
dizionatamente validi. Al di fuori di esse gli ideali culturali,
che l’individuo rsole realizzare, e i doveri etici, che egli deve
compiere, sono di dignità fondamentalmente differente. Il desti-
no di un’epoca di cultura che ha mangiato dall’albero della
conoscenza è quello di sapere che noi non possiamo cogliere il
senso dell’accadere cosmico in base al risultato della sua investi-
gazione, per quanto perfettamente accertato esso sia, ma che
dobbiamo essere in grado di crearlo, e che di conseguenza le
«intuizioni del mondo » non possono mai essere prodotto del
sapere empirico nel suo progredire, mentre gli ideali supremi,
che ci muovono nella maniera più potente, agiscono in tutte le
età solo nella lotta con altri ideali, che ad altri sono sacri come
a noi i nostri.
Soltanto un sincretismo ottimistico, quale risulta talvolta
prodotto dal relativismo storico-evolutivo, può illudersi teorica-
mente sull’estrema gravità di questo stato di cose oppure sot-
trarsi praticamente alle sue conseguenze. È ovvio che nel caso
singolo può essere soggettivamente doveroso per il politico pra-
tico cercare una mediazione tra le antitesi di opinioni esistenti,
proprio come può esserlo prendere partito per una di esse. Ma
ciò non ha proprio nulla a che fare con l’« oggettività » scienti-
fica. La «linea di mezzo» non è verità scientifica in nessun
modo più di quanto lo siano gli estremi ideali di parte, di
destra oppure di sinistra. Mai l’interesse della scienza è alla
lunga così mal garantito come le volte in cui non si vuole
guardare in faccia i fatti scomodi e le realtà della vita nella
loro durezza. L°« Archivio» combatterà senza sosta la grave
auto-illusione che si possano ottenere norme pratiche di vali-
dità scientifica attraverso la sintesi di diversi punti di vista,
oppure in base a una diagonale tracciata tra di loro, in quanto
essa — amando rivestire relativisticamente i propri criteri di
valore — è molto più pericolosa per una ricerca impregiudicata
di quanto non lo sia la vecchia ingenua fede dei diversi partiti
nella « dimostrabilità » scientifica dei propri dogmi. La capaci-
tà di realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè
tra l'adempimento del dovere scientifico di vedere la realtà dei
fatti e l'adempimento del dovere pratico di difendere i propri
MAX WEBER 565
ideali — questo è il principio al quale dobbiamo attenerci più
saldamente.
In ogni epoca c’è e rimarrà sempre — questo è ciò che ci
interessa — una differenza insormontabile tra un’argomentazio-
ne la quale si diriga al nostro sentimento e alla nostra capacità
di entusiasmarci per fini pratici concreti o per forme e contenu-
ti culturali, oppure anche alla nostra coscienza — nel caso in
cui sia in questione la validità di norme etiche — e un’argo-
mentazione la quale si rivolga invece alla nostra capacità e al
nostro bisogno di ordinare concettualmente la realtà empirica,
in maniera da pretendere una validità di verità empirica. E
questa proposizione rimane corretta nonostante che quei « valo-
ri» supremi che stanno a base dell’interesse pratico siano e
restino sempre di decisiva importanza, come si porrà ancora in
luce, per la direzione che l’attività ordinatrice del pensiero
assume ogni volta nel campo delle scienze della cultura. È e
resta vero, infatti, che una dimostrazione scientifica metodica-
mente corretta nel campo delle scienze sociali deve essere rico-
nosciuta come giusta, allorché essa abbia realmente conseguito
il proprio scopo, anche da un Cinese. Il che vuol dire, più
precisamente, che essa deve in ogni caso aspirare a questo fine,
benché forse non pienamente attuabile per l’insufficienza del
materiale, e che l’analisi logica di un ideale, considerato nel
suo contenuto e nei suoi assiomi ultimi, nonché l’indicazione
delle conseguenze che logicamente e praticamente derivano dal-
la sua realizzazione, deve essere valida per chiunque, anche
per un Cinese, una volta posto che sia riuscita. E ciò mentre a
lui può mancare la « sensibilità » per i nostri imperativi etici,
e mentre egli può respingere e certo respingerà spesso quell’idea-
le e le valutazioni concrete che ne discendono, senza tere
in tal modo il valore scientifico dell’analisi concettuale.
sicuro la nostra rivista non ignorerà i tentativi, che i. e
inevitabilmente si ripetono, di determinare in maniera univoca
il sezso della vita culturale. Al contrario, essi appartengono ai
prodotti più importanti di questa vita culturale, e in determina-
te circostanze anche alle sue più potenti forze direttive. Perciò
noi seguiremo sempre con cura il corso delle discussioni di
« filosofia sociale» in questo senso. Anzi, noi siamo quanto
mai alieni dal pregiudizio che le considerazioni della vita cultu-
566 MAX WEBER
rale, le quali tentano di pervenire a interpretare metafisicamen-
te il mondo, procedendo oltre l’ordinamento concettuale del
dato empirico, non possano per questo loro carattere adempie-
re alcun compito in servizio della conoscenza. In che cosa
consista questo compito è certo un problema in primo luogo di
teoria della conoscenza, la cui soluzione deve, e può anche,
essere qui messa in disparte per ciò che concerne i nostri scopi.
Poiché una cosa dobbiamo stabilire per il nostro lavoro: che
una rivista di scienza sociale nel senso da noi illustrato, in
quanto essa aspira al carattere di scienza, deve essere una sede
nella quale si cerca la verità, e una verità tale — per rimanere
all'esempio — che esiga anche per il Cinese la validità propria
di un ordinamento concettuale della realtà empirica.
Certamente gli editori non possono proibire una volta per
sempre, a se stessi e ai collaboratori, di esprimere i propri
ideali anche in forma di giudizi di valore. Solo che da ciò
scaturiscono due importanti doveri. In primo luogo, viene il
dovere di rendere ben consapevole in ogni momento il lettore e
se stesso dei criteri a cui viene commisurata la realtà e da cui è
derivato il giudizio di valore, invece di illudersi, come troppo
spesso accade, intorno ai conflitti tra gli ideali, mediante un’im-
precisa congiunzione di valori di diverso tipo, e di volere « of-
frire qualcosa a ognuno ». Se questo dovere viene rigorosamen-
te osservato, la presa di posizione valutativa di carattere pratico
può risultare non soltanto innocua, ma anche direttamente uti-
le nel puro interesse scientifico; poiché nella critica scientifica
delle proposte legislative, nonché di altre proposte pratiche, la
chiarificazione dei motivi del legislatore e degli ideali dell’auto-
re criticato non può venir compiuta in tutta la sua portata, in
forma intelligibile, se non mediante il confronto dei criteri di
valore che sono alla loro base con altri, e naturalmente anche,
in primo luogo, con i propri. Ogni valutazione fornita di senso
del volere di un altro può essere soltanto una critica condotta
in base alla propria intuizione del mondo, cioè una lotta contro
l'ideale altrui sulla base di un proprio ideale. Se nel caso parti-
colare l’assioma valutativo ultimo, che sta a fondamento di un
volere pratico, deve essere non soltanto determinato e analizza-
to scientificamente, ma anche illustrato nelle sue relazioni con
MAX WEBER 567
altri assiomi valutativi, rimane inevitabile una critica « positi-
va» per mezzo di un “esposizione sistematica di questi ultimi.
Nelle pagine di questa rivista, specialmente in occasione
della discussione di leggi, si tratterà inevitabilmente, oltre che
di scienza sociale — e cioè dell’ordinamento concettuale dei
fatti — anche di politica sociale — e cioè della rappresentazio-
ne di ideali. Ma noi non pensiamo di presentare siffatte discus-
sioni polemiche come « scienza », € ci guarderemo con tutte le
nostre forze dal mescolare e scambiare le due cose. Non è più
allora la scienza che parla; e infatti la seconda fondamentale
prescrizione di un discorso scientifico impregiudicato è di illu-
strare con chiarezza in tali casi al lettore (e, lo ripetiamo, in
primo luogo di chiarire a se stesso) che, e dove, finisce il
ricercatore con la sua opera di pensiero e dove comincia a
parlare l’uomo che vuole, dove gli argomenti concernono l’in-
telletto e dove si dirigono invece al sentimento. La continua
mescolanza della discussione scientifica dei fatti e del ragiona-
mento valutativo è una delle caratteristiche ancora più diffuse,
ma anche più dannose, dei lavori della nostra disciplina. E le
considerazioni precedenti si dirigono appunto contro questa me-
scolanza, non già contro l'enunciazione dei propri ideali. L’in-
differenza e l’« oggettività » scientifica non posseggono nessuna
affinità interna. L’« Archivio » non è mai stato, e non deve
neppur diventare — almeno secondo la sua intenzione — un
luogo nel quale si conduca una polemica contro determinati
partiti politici o politico-sociali, e tanto meno una sede in
cui si faccia opera di proselitismo a favore di, oppure in opposi-
zione a ideali politici o politico- sociali; per tale scopo sussistono
altri organi. Il carattere proprio della rivista è stato fin dall’ini-
zio, e dovrà essere anche in futuro, per quanto dipende dagli edi-
tori, quello di riunire insieme nel lavoro scientifico i più aspri av-
versari politici. Essa non è stata finora un organo « socialista » e
non diventerà in avvenire un organo «borghese». Essa non
esclude dalla propria cerchia di collaboratori nessuna persona
che voglia porsi sul terreno della discussione scientifica. Essa
non può costituire un’arena di « risposte », repliche e contro-re-
pliche, ma d’altra parte non può evitare a chiunque, neppure ai
suoi collaboratori e tanto meno ai suoi editori, di essere sogget-
ti nelle proprie pagine alla più severa critica scientifica. Chiun-
568 MAX WEBER
que non possa sopportare ciò, o che ritenga di non poter colla-
borare, neppure al servizio della conoscenza scientifica, con gen-
te che lavora per ideali diversi dai suoi, può rimanere lontano
dalla rivista.
Certo con questa ultima proposizione — non vogliamo illu-
derci in proposito — si è però detto praticamente molto di più
di quanto non appaia ad un primo sguardo. In primo luogo,
come si è già accennato, la possibilità di incontrarsi con avversa-
ri politici su un terreno neutrale — sociale o ideale — ha
purtroppo, in base a ciò che risulta empiricamente, i suoi limi-
ti psicologici dovunque, e in particolare nella situazione tede-
sca. Degno di essere combattuto senz’altro di per sé come segno
di una ristrettezza mentale basata sul fanatismo e di una cultu-
ra politica arretrata, questo ostacolo viene accresciuto in misu-
ra considerevole, nel caso di una rivista come la nostra, dalla
circostanza che nel campo delle scienze sociali l'impulso a consi-
derare i problemi scientifici è dato di regola da « questioni »
pratiche, di modo che il puro riconoscimento della sussistenza
di un problema scientifico sta in unione personale con il volere
di uomini viventi, diretto a un determinato scopo. Nelle colon-
ne di una rivista, la quale viene in vita sotto l'influenza dell’in-
teresse generale per un problema concreto, si troveranno perciò
di regola insieme, come collaboratori, uomini che dedicano a
tale problema il loro interesse personale, in quanto ad essi
sembra che determinate situazioni concrete siano in contraddi-
zione con valori ideali a cui credono, e che quei valori siano in
pericolo. E quindi un’affinità elettiva di ideali siffatti unirà la cer-
chia dei collaboratori e consentirà di reclutarne degli altri, di mo-
do che essa acquisterà almeno nella trattazione dei problemi poli-
tico-sociali di portata pratica un determinato carattere, quale ine-
vitabilmente si accompagna a ogni cooperazione di uomini for-
niti di una viva sensibilità, la cui presa di posizione valutativa di
fronte ai problemi non è sempre del tutto repressa anche nel puro
lavoro teoretico, e si esprime pure in maniera del tutto legittima
— entro l’ambito dei presupposti prima discussi — attraverso la
critica di proposte e di misure pratiche. L’« Archivio » apparve in
un periodo nel quale stavano in primo piano, nelle discussioni
della scienza sociale, determinati problemi pratici costituenti la
«questione dei lavoratori» nel senso tradizionale della parola.
MAX WEBER 569
Quelle personalità per cui i supremi e decisivi ideali valutativi si
congiungevano ai problemi che esso intendeva trattare, e che per-
tanto divennero i suoi più consueti collaboratori, furono pro-
prio per questo anche rappresentanti di una concezione cultura-
le atteggiata in maniera identica o simile in base a quelle idee
di valore. Ognuno sa pertanto che, sebbene la rivista abbia
decisamente rifiutato di seguire una « tendenza » mediante l’e-
splicita limitazione alle discussioni «scientifiche » e mediante
l’esplicito invito agli «appartenenti a ogni settore politico »,
essa tuttavia ha posseduto sicuramente un «carattere » nel sen-
so che si è detto. Esso fu creato in base alla cerchia dei suoi
collaboratori regolari. Furono in generale uomini che, nono-
stante ogni altra divergenza di opinioni, ritenevano proprio
fine quello di proteggere la salute fisica delle masse dei lavora-
tori e di rendere loro possibile una crescente partecipazione ai
beni materiali e spirituali della nostra cultura; uomini che con-
sideravano come mezzo in vista di tale fine la connessione
dell'intervento statale nella sfera degli interessi materiali con il
libero sviluppo ulteriore dell'ordinamento esistente dello stato e
del diritto, e che — quale potesse essere la loro opinione sulla
formazione dell'ordinamento della società nel remoto futuro —
sostenevano per il presente lo sviluppo capitalistico, non già
perché questo sembrasse loro la migliore nei confronti delle più
vecchie forme di organizzazione sociale, ma perché esso pareva
praticamente inevitabile, e d’altra parte il tentativo di una lotta
a fondo contro di esso risultava non tanto un vantaggio quanto
un ostacolo per il progredire della classe operaia verso la luce
della cultura. Nelle condizioni oggi esistenti in Germania —
che non hanno qui bisogno di un'ulteriore chiarificazione —
questo non era, e non sarebbe neppure oggi, da evitare. Anzi,
ciò giovò senz'altro alla partecipazione di tutte le parti alla
discussione scientifica, e costituì per la rivista un elemento di
forza, e forse anche — data la situazione — uno dei titoli che
ne giustificavano l’esistenza.
È fuor di dubbio che lo sviluppo di un «carattere» in
questo senso può, e anzi dovrebbe per forza significare, in
una rivista scientifica, un pericolo per un lavoro scientifico im-
pregiudicato, nel caso in cui la scelta dei collaboratori sia stata
di proposito unilaterale: in questo caso l'adozione di quel « ca-
570 MAX WEBER
rattere » varrebbe praticamente come la presenza di una « ten-
denza ». Gli editori sono pienamente consapevoli della responsa-
bilità che questa situazione impone loro. Essi non si propongo-
no né di mutare di proposito il carattere dell’« Archivio », né
di conservarlo artificiosamente mediante un’accurata limitazio-
ne della cerchia dei collaboratori agli studiosi che abbiano deter-
minate convinzioni politiche. Essi lo accettano come dato, e
confidano nel suo ulteriore « sviluppo ». Come esso si configure-
rà in futuro, e come forse si trasformerà per l'inevitabile amplia-
mento della nostra cerchia di collaboratori, dipenderà in primo
luogo dal carattere di quelle personalità che entreranno in tale
ambito con l’intenzione di servire il lavoro scientifico, e che
diverranno o rimarranno di casa sulle colonne della rivista. E
ciò sarà ulteriormente condizionato dall’estensione dei proble-
mi, al cui avanzamento la rivista si propone di tendere.
Con questa osservazione noi perveniamo alla questione, fino-
ra non ancora discussa, della delimitazione di contenuto del
nostro campo di lavoro. Ma ad essa non si può fornire una
risposta senza prendere in esame anche la questione della natu-
ra del fine conoscitivo della scienza sociale in genere. Noi
abbiamo presupposto, distinguendo in linea di principio « giudi-
zi di valore» e « sapere empirico », che vi sia di fatto un tipo
incondizionatamente valido di conoscenza, cioè di ordinamento
concettuale della realtà empirica, nel campo delle scienze socia-
li. Questa assunzione diventa però ora un problema, dal mo-
mento che noi dobbiamo discutere che cosa può significare nel
nostro campo la «validità» oggettiva della verità alla quale
tendiamo. Che il problema sussista come tale, e che non venga
qui creato in maniera sofisticata, non può sfuggire a nessuno
che assista alla lotta di metodi, « concetti fondamentali » e pre-
supposti, al continuo mutamento dei « punti di vista» e alla
continua rielaborazione dei concetti che vengono impiegati, e
che constati come la considerazione teorica e la considerazione
storica siano ancor sempre divise da un abisso apparentemente
insuperabile — quasi a costituire, come si lagnava a suo tempo
con tono lamentoso un disperato esaminando viennese, « due
economie politiche ». Che cosa vuol qui dire oggettività? Sem-
plicemente questa questione vogliono affrontare le considerazio-
ni seguenti.
MAX WEBER 571
II
Fin dall’inizio questa rivista ha considerato gli oggetti dei
quali si occupava come oggetti ecozomico-sociali. Per quanto
abbia poco senso anticipare qui determinazioni concettuali e
delimitazioni di discipline scientifiche, dobbiamo tuttavia por-
re brevemente in chiaro che cosa ciò significhi.
Che la nostra esistenza fisica, al pari del soddisfacimento
dei nostri più alti bisogni ideali, urti sempre contro la limitazio-
ne quantitativa e l’insufficienza qualitativa dei mezzi esterni
che occorrono a tale scopo, e che per tale soddisfacimento vi
sia appunto bisogno di una previdenza organizzata e del lavo-
ro, della lotta contro la natura e dell’associazione con gli uomi-
ni, questo è — espresso in forma molto imprecisa — il fatto
fondamentale al quale si riferiscono tutti quei fenomeni che
noi indichiamo nel senso più ampio come « economico-sociali ».
La qualità di un processo, che lo rende un fenomeno « economi-
co-sociale », non è qualcosa che inerisca ad esso in quanto tale,
« oggettivamente ». Essa è piuttosto condizionata dalla direzio-
ne del nostro interesse conoscitivo, quale risulta dallo specifico
significato culturale che attribuiamo nel caso singolo al proces-
so in questione. Ogni qual volta un processo della vita cultura-
le, considerato in quegli aspetti della sua particolarità in cui
risiede il suo significato specifico per noi, è ancorato in manie-
ra diretta — o anche in maniera mediata — a tale situazio-
ne, esso contiene, oppure può per lo meno contenere, nella
misura in cui ciò ha luogo, un problema di scienza sociale,
vale a dire un compito per una disciplina che si propone per
oggetto la chiarificazione della portata di quella situazione fon-
damentale.
Noi possiamo, entro l'ambito dei problemi economico-socia-
li, distinguere processi e complessi di norme, istituzioni ecc., il
cui significato culturale consiste per noi essenzialmente nel loro
aspetto economico, e che ci interessano in primo luogo — come
per esempio i processi della vita delle borse e delle banche —
soltanto da questo punto di vista. Ciò avverrà di regola (anche
se non esclusivamente) quando si venga a trattare di istituzioni
le quali siano state create o siano utilizzate consapevolmente
572 MAX WEBER
per scopi economici. Noi possiamo chiamare questi oggetti del
nostro conoscere con il nome di processi oppure di istituzioni
« economiche ». Ad essi se ne aggiungono altri — come per
esempio i processi della vita religiosa — che non ci inte-
ressano, oppure sicuramente non ci interessano in primo luo-
go, dal punto di vista del loro significato economico e in virtù
di questo, ma che tuttavia in certe circostanze acquistano signi-
ficato da questo punto di vista, poiché ne derivano effetti che ci
interessano sotto il punto di vista economico: essi sono fenome-
ni «economicamente rilevanti». Infine, tra i fenomeni che
non sono economici nel nostro senso, ve ne sono alcuni i cui
effetti economici non presentano per noi nessun interesse, o
almeno non un interesse considerevole — come per esempio
l'orientamento del gusto artistico di un'epoca — ma che sono
da parte loro inffuenzati in misura più o meno forte, nel caso
specifico, in certi aspetti importanti della loro fisionomia, da
motivi economici, per esempio dal tipo di organizzazione socia-
le del pubblico che si interessa all’arte: essi sono fenomeni
condizionati economicamente. Quel complesso di relazioni uma-
ne, di norme e di rapporti determinati normativamente, che
noi chiamiamo lo « stato », è per esempio un fenomeno « econo-
mico » per ciò che riguarda la sua economia finanziaria; è un
fenomeno «economicamente rilevante » in quanto agisce, per
via legislativa o altrimenti, sulla vita economica (anche quan-
do punti di vista assai diversi da quelli economici determi-
nano consapevolmente il suo atteggiamento); ed è infine un
fenomeno «condizionato economicamente » in quanto il suo
atteggiamento e il suo carattere sono condeterminati, anche in
relazioni che non siano « economiche », da motivi economici. È
implicito in ciò che si è detto che da una parte l’ambito dei
fenomeni « economici » è fluido, e non delimitabile in maniera
precisa, e che d’altra parte naturalmente gli aspetti « economi-
ci» di un fenomeno non sono mai soltanto «condizionati eco-
nomicamente » oppure soltanto « economicamente operanti », €
che in genere un fenomeno mantiene la qualità di fenome-
no «economico» in quanto, e solamente per il periodo in
cui il nostro interesse si dirige esclusivamente al significato che
esso possiede per la lotta materiale per l’esistenza.
La nostra rivista — come del resto anche la scienza economi-
MAX WEBER 573
co-sociale a partire da Marx e da Roscher? — si è occupata
non soltanto di fenomeni «economici », ma anche di fenomeni
«economicamente rilevanti » e di fenomeni « condizionati eco-
nomicamente ». L'ambito di siffatti oggetti si estende natural-
mente — in maniera fluida, in quanto è legato al diverso
orientamento del nostro interesse — attraverso l’insieme di
tutti i processi culturali. Motivi specificamente economici —
cioè motivi che sono ancorati, nella loro fisionomia per noi
significativa, a quel fatto fondamentale — operano sempre là
dove il soddisfacimento di un bisogno, per quanto immateriale
esso sia, è legato all'impiego di mezzi esterni limitati. Il loro
peso ha pertanto condeterminato e trasformato ovunque non
soltanto la forma del soddisfacimento, ma anche il contenuto
dei bisogni culturali perfino di tipo interiore. L’influenza indi-
retta di relazioni sociali, di istituzioni, di raggruppamenti
umani che stanno sotto la pressione di interessi « materiali» si
estende (spesso inconsapevolmente) a tutti i campi della cultura
senza eccezione, raggiungendo perfino le più sottili sfumature
del sentimento estetico e religioso. I processi della vita quotidia-
na non meno degli avvenimenti «storici » dell’alta politica, i
fenomeni collettivi e di massa al pari delle azioni « singolari »
di uomini di stato o dei prodotti letterari e artistici di origine
individuale subiscono questa influenza — e sono così « condizio-
nati economicamente ». D'altra parte l’insieme di tutti i feno-
meni e di tutte le condizioni di vita di una cultura storicamen-
te data opera sulla formazione dei bisogni materiali, sul modo
del loro soddisfacimento, sulla formazione dei gruppi di interes-
si e sul tipo dei loro strumenti di potere, e perciò sul modo in
cui si svolge lo «sviluppo economico» — esso diventa cioè
« economicamente rilevante ». In quanto la nostra scienza impu-
ta, nel regresso causale, i fenomeni economici a cause individua-
2. Wilhelm Gcorg Friedrich Roscher (1817-1894), economista tedesco, autore
del Grundriss zu Vorlesungen tiber die Staatswissenschaft nach geschichtlicher Me-
thode (1843), del Systeni der Volkswirtschafislehre (1854-94), delle Ansichten der Volks-
wirtschaft (1861) e di varie altre opere, fu il fondatore della scuola storica di econo-
mia. Alla critica della sua impostazione è dedicato il primo saggio metodologico di
Weber, Roscher und Knîes und die logischen Probleme der historischen National-
okonomie, «Schmollers Jahrbuch fir Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirt-
schaft », XXVII, 1903, pp. 1181-1221; XXIX, 1905, pp. 1323-84; XXX, 1906,
Pp. 81-120 (ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, pp. 1-145).
574 MAX WEBER
li — di carattere economico e non economico — essa mira a
conseguire una conoscenza « storica ». E in quanto segue ur
elemento specifico dei fenomeni culturali, quello economico,
determinandolo nel suo significato culturale attraverso le più
diverse connessioni di cultura, essa mira a conseguire una inzer-
pretazione della storia da uno specifico punto di vista, offrendo
un’immagine parziale, un lavoro preliminare per la piena cono-
scenza storica della cultura.
Sebbene un problema economico-sociale non sussista ovun-
que ha luogo una connessione di elementi economici in quanto
conseguenza o in quanto causa — poiché esso sorge soltanto
dove il significato di quei fattori è problematico, e può venir
determinato con sicurezza solo mediante l’impiego dei metodi
della scienza economico-sociale — da ciò che si è detto finora
risulta stabilito l'ambito quasi sconfinato del campo di lavoro
della considerazione economico-sociale.
La nostra rivista ha finora di solito rinunciato, in base a
una ponderata auto-limitazione, alla considerazione di un’inte-
ra serie di campi particolari molto importanti della disciplina,
e in modo speciale alla considerazione dell'economia descritti
va, della storia economica in senso stretto e della statistica.
Allo stesso modo essa ha lasciato ad altri organi la discussione
delle questioni tecnico-finanziarie e dei problemi economico-tec-
nici della formazione del mercato e dei prezzi della moderna
economia di scambio. Il suo campo di lavoro è costituito dalla
considerazione del significato odierno e del processo storico di
certe costellazioni di interessi e di certi conflitti che sono sorti
in virtù della funzione preminente dell’impiego di un capitale
in cerca di investimento nell’economia dei paesi moderni. Essa
non si è quindi limitata ai problemi pratici e storico-evolutivi
che definiscono la «questione sociale » in senso stretto, cioè
alle relazioni della moderna classe di lavoratori salariati con
l'ordinamento sociale esistente. È certo che l’approfondimento
scientifico dell'interesse che, negli anni dopo l’'80, veniva esten-
dendosi presso di noi per questa speciale questione, ha rappre-
sentato dapprima uno dei suoi compiti essenziali. Quanto più
la considerazione pratica della condizione operaia è diventata
anche presso di noi oggetto permanente dell’attività legislativa
e della discussione pubblica, tanto più il centro di gravità del
MAX WEBER 575
lavoro scientifico ha dovuto spostarsi verso la determinazione
delle connessioni di carattere più universale in cui questi proble-
mi trovavano il proprio posto, sfociando in un'analisi di tuzti i
problemi culturali creati dalla fisionomia particolare dei fonda-
menti economici della nostra cultura, e in quanto tali specifica-
mente moderni. La rivista ha perciò cominciato assai presto a
trattare storicamente, statisticamente e teoricamente i più diver-
si rapporti, in parte « condizionati economicamente » e in parte
« economicamente rilevanti », che si presentano anche nelle al-
tre grandi classi delle nazioni moderne nelle loro relazioni
reciproche. Noi traiamo soltanto le conseguenze di questo at-
teggiamento allorché indichiamo ora come campo di lavoro
più particolarmente proprio della mostra rivista la ricerca
scientifica del gezerale significato culturale della struttura eco-
nomico-sociale della vita della comunità umana e delle sue
forme storiche di organizzazione. — Questo e non altro abbia-
mo inteso, chiamando la nostra rivista « Archivio per la
scienza sociale ». La parola deve comprendere qui la trattazio-
ne storica e teorica degli stessi problemi la cui soluzione pra-
tica è oggetto della « politica sociale » nel senso più ampio del
termine. Noi facciamo perciò uso del diritto di impiegare l’e-
spressione « sociale » nel suo significato determinato in base ai
problemi concreti del presente. Se si vuol chiamare « scienze
della cultura » quelle discipline che considerano i processi del-
la vita umana dal punto di vista del loro significato culturale,
la scienza sociale nel nostro senso appartiene a questa categoria.
Vedremo ora quali conseguenze di principio ne derivano.
Senza dubbio isolare l’aspetto economico-sociale della vita
culturale rappresenta una delimitazione assai sensibile del no-
stro tema. Si dirà che il punto di vista economico o — come lo
si è imprecisamente definito — « materialistico », in base a cui
è qui considerata la vita della cultura, è « unilaterale ». Certa-
mente, e questa unilateralità è intenzionale. La fede che sia
compito del lavoro scientifico nel suo progredire quello di gua-
rire la considerazione economica dalla sua « unilateralità », in
maniera da ampliarla in una scienza sociale generale, è inficia-
ta anzitutto dal fatto che il punto di vista del « sociale », cioè
della relazione tra gli uomini, possiede una determinatezza
sufficiente per la delimitazione dei problemi scientifici solo
576 MAX WEBER
quando è accompagnato da qualche predicato specifico che lo
qualifica nel suo contenuto. Altrimenti esso, in quanto oggetto
di una scienza, comprenderebbe naturalmente la filologia al
pari della storia della chiesa, e in modo particolare tutte quelle
discipline che si occupano del più importante elemento costituti-
vo di ogni vita culturale, cioè dello stato, e della più importan-
te forma della sua regolamentazione normativa, cioè del dirit-
to. Che l’economia sociale prenda in esame delle relazioni « so-
ciali » non è un buon motivo per pensare che essa precorra una
« scienza sociale generale », allo stesso modo in cui la circostan-
za che essa si riferisca a fenomeni della vita o che abbia a che
fare con processi di un corpo celeste non autorizza a considerar-
la rispettivamente parte della biologia oppure parte di un’astro-
nomia artificialmente accresciuta e migliorata. Non già le connes-
sioni « di fatto » delle « cose », bensì le connessioni concettuali
dei problemi stanno a base dei campi di lavoro delle scienze:
dove si procede ad affrontare con un nuovo metodo un nuovo
problema, e si scoprono in tale maniera verità le quali aprano
nuovi importanti punti di vista, là sorge una nuova « scienza ».
Non è un caso che il concetto di « sociale », il quale sembra
avere un senso così generale, rechi con sé, ogni qual volta lo si
controlla nel suo impiego, un significato particolare, specifica-
mente atteggiato, quand’anche di solito indeterminato; l’ele-
mento «generale» sussiste in esso di fatto soltanto nella sua
indeterminatezza. Qualora lo si assuma nel suo significato « ge-
nerale », esso non offre nessun punto di vista specifico dal
quale illustrare il significato di certi elementi della cultura.
Liberi ormai dalla fiducia antiquata nella possibilità di de-
durre la totalità dei fenomeni culturali come prodotto oppure
come funzione di costellazioni di interessi « materiali », noi
riteniamo però d'altra parte che l’analisi dei fenomeni sociali e
dei processi culturali dal punto di vista specifico del loro condi-
zionamento economico e della loro portata economica sia stata,
€ possa ancora rimanere in ogni tempo prevedibile, con un’ap-
plicazione oculata e con libertà da ogni restrizione dogmati-
ca, un principio scientifico fornito di fecondità creativa. La
cosiddetta « concezione materialistica della storia » come « intui-
zione del mondo » 0 come denominatore comune di spiegazio-
MAX WEBER 577
ne causale della realtà storica deve essere rifiutata nel modo
più deciso; invece l’accurato impiego dell’interpretazione econo-
mica della storia è uno degli scopi essenziali della nostra rivi-
sta. Ma ciò richiede una più precisa illustrazione.
La cosiddetta « concezione materialistica della storia », nel
vecchio senso, genialmente primitivo, che compare per esempio
nel Manifesto comunista, sopravvive oggi soltanto nella testa
di persone prive di competenza specifica e di dilettanti. Presso
questa gente è tuttora diffusa la circostanza che il loro bisogno
causale di spiegazione di un fenomeno storico non è soddisfatto
finché non si mostrano (oppure non sembrano essere) in gioco,
in qualche modo o in qualche luogo, delle cause economiche:
ma proprio in questo caso essi si accontentano delle ipotesi a
maglie più larghe e delle formulazioni più generali, in quanto
il loro bisogno dogmatico è soddisfatto nel ritenere che le « for-
ze istintive » economiche siano quelle « proprie », le sole « ve-
re», e anzi «in ultima istanza sempre decisive ». Il fenomeno
non è però affatto singolare. Quasi tutte le scienze, dalla filolo-
gia alla biologia, hanno talvolta avanzato la pretesa di dare
origine non soltanto a un sapere specializzato, ma anche a
«intuizioni del mondo ». E sotto l'impressione del profondo
significato culturale delle moderne trasformazioni economiche,
in particolare della portata predominante della « questione ope-
raia », l'ineliminabile carattere monistico di ogni forma di cono-
scere priva di consapevolezza critica nei confronti del proprio
lavoro condusse naturalmente per questa strada. Lo stesso carat-
tere viene ora in luce nell’antropologia, mentre si viene svilup-
pando con crescente asprezza la lotta politica e politico-commer-
ciale tra le nazioni per il dominio del mondo: è diffusa la fede
che «in ultima analisi » ogni accadere storico sia una derivazio-
ne del gioco reciproco di «qualità razziali» innate. In luogo
di una mera descrizione acritica dei «caratteri dei popoli» è
subentrata la costruzione ancor più acritica delle proprie « teo-
rie della società » su fondamento « naturalistico ». Noi seguire-
mo con cura nella nostra rivista lo sviluppo della ricerca antro-
pologica, in quanto essa abbia significato per i nostri punti di
vista. C'è però da sperare che venga gradualmente superata,
mediante un lavoro metodicamente disciplinato, la situazione
in cui il ricondurre causalmente i processi culturali alla « raz-
37. STORICISMO TEDESCO.
578 MAX WEBER
za» documenta soltanto il nostro 0n-sapere — proprio come
avviene nel caso del riferimento ali’« ambiente » 0, prima anco-
ra, alle « condizioni dell’epoca ». Se qualcosa ha finora danneg-
giato questa ricerca, è certo la presunzione di alcuni fervidi
dilettanti di poter fornire per la conoscenza della cultura un
orientamento specificamente diverso, e superiore, rispetto all’e-
stensione della possibilità di una sicura imputazione di singoli
concreti processi culturali della realtà storica a concrete cause
storicamente date, conseguita mediante un esatto materiale di
osservazione determinato in base a specifici punti di vista.
Esclusivamente nella misura in cui possono fornirci questo, i
loro risultati hanno interesse per noi e qualificano la « biologia
razziale » come qualcosa di più di un prodotto della moderna
febbre di fondazione scientifica.
Non diversamente stanno le cose per quanto riguarda il
significato dell’interpretazione economica del corso storico. Se
oggi, dopo un periodo di illimitata sopravvalutazione, incombe
su di essa il pericolo di essere sottovalutata nella sua capacità
orientativa per il lavoro scientifico, ciò è Ja conseguenza dell’a-
criticità senza pari con cui l’interpretazione economica della
realtà fu impiegata come metodo «universale », nel senso di
una deduzione di tutti i fenomeni culturali — vale a dire di
tutto ciò che in essi risulta per noi essenziale — come in ulti-
ma istanza economicamente condizionati. Oggi la forma logi-
ca, nella quale essa si presenta, non è del tutto unitaria. Là
dove si presentano difficoltà per una spiegazione puramente
economica, vi sono a disposizione diversi mezzi per mantenere
in piedi la sua validità universale come elemento causale decisi-
vo. Talvolta si considera tutto ciò che nella realtà storica 707 è
deducibile da motivi economici come qualcosa che proprio per-
ciò risulta scientificamente privo di significato, e quindi come
qualcosa di « accidentale ». Oppure si estende il concetto di ciò
che è economico fino a renderlo irriconoscibile, in maniera da
inserire nell'ambito di quel concetto tutti gli interessi umani
che siano in qualche maniera legati a mezzi esterni. Se è stori-
camente stabilito che in due situazioni eguali sotto il profilo
economico si è tuttavia reagito in maniera diversa — per le
differenze di determinanti politiche e religiose, o climatiche, o
di innumerevoli altre non economiche — allora si procede a
MAX WEBER 579
degradare tutti questi elementi, allo scopo di conservare la su-
premazia dell'elemento economico, a «condizioni » storiche ac-
cidentali, dietro Ie quali i motivi economici operano in qualità
di « cause ». S’intende però che tutti quegli elementi che risulta-
no «accidentali» per la considerazione economica seguono le
loro proprie leggi, proprio al pari degli elementi economici, e
che per una considerazione la quale vada dietro al loro signifi-
cato specifico le « condizioni » economiche sono « storicamente
accidentali » nel medesimo senso del rapporto inverso. Un ten-
tativo prediletto di giustificare, ciò nonostante, l’importanza
predominante dell'elemento economico, consiste infine nell’in-
terpretare la costante correlazione e successione dei singoli ele-
menti della vita culturale nel senso di una dipendenza causale
o funzionale dell’uno dall’altro, o piuttosto di tutti i rimanenti
da uno solo, e cioè da quello economico. Dove una determinata
istituzione 202 economica ha storicamente compiuto anche una
determinata « funzione» al servizio di interessi economici di
classe, dove, per esempio, determinate istituzioni religiose si
lasciano impiegare, e sono impiegate, come « polizia nera »,
l’intera istituzione viene allora presentata o come creata appun-
to per questa funzione o — in maniera assolutamente metafisi-
ca — come orientata in base a una «tendenza di sviluppo »
che muove dall’elemento economico.
Non c'è più bisogno oggi di illustrare a nessun specialista
che questa interpretazione dello scopo dell'analisi economica è
espressione in parte di una determinata costellazione storica, la
quale indirizzava il proprio interesse scientifico verso determina-
ti problemi culturali condizionati economicamente, e in parte
di un rabbioso patriottismo scientifico, e che essa risulta ormai
per lo meno invecchiata. La riduzione esclusiva a cause econo-
miche non è in qualsiasi senso esauriente in nessun campo dei
fenomeni culturali, e neppure in quello dei processi « economi-
ci». In linea di principio una storia della banca di qualsiasi
popolo, che volesse per la spiegazione avvalersi soltanto di
motivi economici, sarebbe naturalmente impossibile nello stesso
modo in cui lo sarebbe una « spiegazione » della Madonna Sisti-
na in base ai fondamenti economico-sociali della vita culturale
dell’epoca in cui è sorta — e non sarebbe, sempre in linea di
principio, più esaustiva di quanto non potrebbe esserlo per
580 MAX WEBER
esempio la derivazione del capitalismo da certe trasformazioni
di contenuti della coscienza religiosa che hanno cooperato alla
genesi dello spirito capitalistico, o la derivazione di qualsiasi
altra formazione politica da condizioni geografiche. In tutti
questi casi è decisiva, per misurare l’importanza che dobbiamo
assegnare alle condizioni economiche, la classe di cause alla
quale devono essere imputati quegli elementi specifici del feno-
meno in questione, a cui nel caso singolo attribuiamo un sigrifi-
cato in virtù del quale esso ci interessa. Il diritto dell’analisi
unilaterale della realtà culturale da «punti di vista» specifici
— nel nostro caso dal punto di vista del suo condizionamento
economico — deriva però anzitutto, in linea puramente metodi-
ca, dalla circostanza che l’educazione della vista a osservare
l’azione di categorie causali qualitativamente omogenee, e il
continuo impiego del medesimo apparato metodico-concettuale,
offrono tutti i vantaggi della divisione del lavoro. Che essa non
sia troppo arbitraria è provato dal suo risultato, cioè dal fatto
che fornisce la conoscenza di connessioni le quali si rivelano
fornite di valore per l'imputazione causale di processi storici
concreti. Ma l’« unilateralità » e la irrealtà dell’interpretazione
puramente economica del corso storico è soltanto un caso speci-
fico di un principo generale che vale per la conoscenza scientifi-
ca della realtà culturale. Illustrarlo nei suoi fondamenti logi-
ci e nelle sue conseguenze metodiche generali è lo scopo essen-
ziale delle discussioni che seguono.
Non c’è nessuna analisi scientifica puramente « oggettiva »
della vita culturale o — ciò che forse è più ristretto, ma che
non significa certo nulla di essenzialmente diverso per il nostro
scopo — dei « fenomeni sociali », indipendentemente da punti
di vista specifici e « unilaterali», in base a cui essi sono —
espressamente o tacitamente, consapevolmente o inconsapevol-
mente —.scelti come oggetto di ricerca, analizzati e organizza-
ti nell'esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere specifi-
co del fine conoscitivo di ogni lavoro di scienza sociale, che
voglia procedere oltre una considerazione puramente formale
delle norme — giuridiche o convenzionali — della coesistenza
sociale.
La scienza sociale, quale noi vogliamo promuoverla, è una
scienza di realtà. Noi vogliamo intendere la realtà della vita
MAX WEBER 581
che ci circonda, e in cui noi siamo collocati, nel suo carattere
proprio — noi vogliamo cioè intendere da un lato la connessio-
ne e il significato culturale dei suoi fenomeni particolari nella
loro configurazione presente e dall’altro i motivi del suo essere
storicamente divenuto così-e-non-altrimenti. Allorché cerchiamo
di riflettere sul modo in cui essa si presenta immediatamente a
noi, la vita ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di
processi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di
successione e di contemporaneità, «in» noi e «al di fuori di»
noi. E l'assoluta infinità di questa vita molteplice non diminui-
sce anche quando prendiamo in considerazione un singolo « og-
getto » isolatamente — per esempio un atto concreto di scam-
bio — e vogliamo studiarlo con serietà allo scopo di descrivere
questo oggetto «singolo» esaurientemente in tutti i suoi ele-
menti individuali, per non parlare poi di coglierlo nel suo
condizionamento causale. Ogni conoscenza concettuale della
realtà infinita da parte dello spirito umano finito poggia in-
fatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa
debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e per-
ciò risultare «essenziale » nel senso di essere « degna di venir
conosciuta ». Ma in conformità a quali princìpi si procede a
isolare questa parte? Si è ripetutamente creduto di poter trova-
re anche nelle scienze della cultura il criterio decisivo nel ricor-
rere « conforme a leggi» di determinate connessioni causali. Il
contenuto delle «leggi» che noi riusciamo a conoscere nel
corso sempre molteplice dei fenomeni deve costituire — secon-
do questa concezione — il solo aspetto scientificamente « essen-
Ziale » in essi presente: quando abbiamo dimostrata valida sen-
za eccezione, con i mezzi di una induzione storica complessiva,
la «legalità » di una connessione causale, oppure quando l’ab-
biamo recata a un’evidenza intuitiva immediata per l’esperien-
za interna, allora ogni formula così ritrovata subordina a sé
qualsiasi numero, per quanto grande si possa pensarlo, di casi
omogenei. Ciò che della realtà individuale rimane al di fuori di
questa determinazione dell’aspetto « conforme a leggi» o vale
come un residuo ancora privo di elaborazione scientifica, che
dev'essere sottoposto ad analisi attraverso il completamento pro-
gressivo del sistema «di leggi», oppure rimane da parte come
qualcosa di « accidentale » e proprio perciò di scientificamente
582 MAX WEBER
inessenziale, in quanto esso non è « comprensibile legalmen-
te», e quindi non appartiene neppure al « tipo » del processo e
può essere soltanto oggetto di «oziosa curiosità ». Sempre ri-
compare di conseguenza — anche presso i rappresentanti della
scuola storica — la convinzione che l’ideale a cui ogni conoscen-
za, e quindi pure la conoscenza della cultura, tende e può
tendere, anche se in un lontano futuro, sia un sistema di
proposizioni teoriche, da cui possa venir « dedotta» la realtà.
Un rappresentante eminente della scienza naturale ha ritenuto,
com’è noto, di poter indicare come fine ideale (di fatto non
attuabile) di una siffatta elaborazione della realtà culturale una
conoscenza « astronomica» dei processi della vita. Ci sia con-
sentito qui di prendere in esame più da vicino tale tesi, per
quanto queste cose siano già state discusse. In primo luogo
risulta ovvio che quella conoscenza « astronomica », a cui si è
pensato, non è una conoscenza di leggi, ma assume piuttosto le
«leggi» di cui si serve come presupposti del suo lavoro da
altre discipline, quale la meccanica. Essa stessa si interessa pe-
rò di un’altra questione, e cioè di stabilire il risultato individua-
le che è prodotto dall’azione di quelle leggi su una costellazio-
ne individuale, poiché queste costellazioni individuali hanno
per noi significato. Ogni costellazione individuale, che essa ci
« spiega» o predice, può certo venir spiegata causalmente solo
come conseguenza di un’altra costellazione del pari individuale
che l’abbia preceduta; e per quanto si possa risalire indietro
nella nebbia grigia del più remoto passato, la realtà per la
quale Je leggi valgono rimane sempre individuale, e quindi
non deducibile da leggi. Uno «stato originario » del cosmo,
che non rechi in sé un carattere individuale, o che lo rechi in
misura minore della realtà cosmica presente, sarebbe natural-
mente un'idea priva di senso. E tuttavia un resto di simili
rappresentazioni non viene fuori nel nostro campo in quelle
assunzioni, ora intese giusnaturalisticamente ora invece verifica-
te in base all'osservazione dei « popoli primitivi», di «stati
originari » economico-sociali che sono privi di « accidentalità »
storiche — come nel caso del « comunismo agrario primitivo »,
della « promiscuità » sessuale ecc., da cui lo sviluppo storico
individuale scaturisce poi attraverso una specie di caduta nel
concreto?
MAX WEBER 583
Punto di partenza dell'interesse della scienza sociale è senza
dubbio la configurazione reale, e quindi individuale, della vita
culturale che ci circonda, considerata nella sua connessione che
è sì universale, ma non per questo meno individualmente atteg-
giata, e nel suo procedere da altri stati sociali di cultura,
a loro volta evidentemente atteggiati in forma individuale. Sen-
za dubbio la situazione che abbiamo illustrato a proposito del-
l’astronomia come un caso-limite (che è regolarmente considera-
to anche dai logici allo stesso scopo), si presenta qui in una
misura assai più ragguardevole. Mentre per l’astronomia i corpi
cosmici hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quantitati-
ve, accessibili a un’esatta misurazione, nella scienza sociale ciò
che ci interessa è invece la configurazione qualitativa dei proces-
si. A ciò si aggiunga che nelle scienze sociali siamo di fronte a
una cooperazione di processi spirituali, e che « intendere » que-
sti processi rivivendoli costituisce naturalmente un compito di
tipo specificamente diverso da quello che le formule della cono-
scenza esatta della natura in genere possono o vogliono risolve-
re. E tuttavia queste differenze non sono in sé così fondamenta-
li come può sembrare a un primo sguardo. Senza la considera-
zione delle qualità non procedono — prescindendo dalla mecca-
nica pura — neppure le scienze esatte della natura; inoltre nel
nostro campo specifico incontriamo l'opinione — certo distorta
— che il fenomeno della circolazione monetaria, fondamentale
almeno per la nostra cultura, possa venir espresso quantitativa-
mente e proprio per ciò sia comprensibile «legalmente»; e
infine dipende da un’accezione più stretta o più larga del con-
cetto di «legge» se si comprendono nel suo ambito anche
regolarità che, in quanto non esprimibili quantitativamente,
non sono neppur accessibili a nessuna considerazione di caratte-
re numerico. Per ciò che riguarda in particolare la cooperazio-
ne di motivi « spirituali », essa non esclude in nessun caso la
determinazione di regole dell'agire razionale; e soprattutto
non è ancora scomparsa oggi la convinzione che sia compito
della psicologia quello di adempiere, nei confronti delle singole
« scienze dello spirito », a una funzione analoga a quella della
matematica, analizzando i fenomeni più complicati della vita so-
ciale nelle loro condizioni e nei loro effetti psichici, riportandoli
a fattori psichici il più possibile semplici, classificando quindi
584 MAX WEBER
questi ultimi nelle loro varie specie e infine studiandoli nelle loro
connessioni funzionali. In tale maniera si darebbe vita, se non a
una « meccanica », almeno a una specie di « chimica » della vita
sociale, considerata nei suoi fondamenti psichici. Se indagini di
questo genere possono mai essere valide e — il che è cosa diversa
— fornire risultati particolari utilizzabili per le scienze della cul-
tura, non possiamo qui deciderlo. Ciò non avrebbe però alcuna
importanza per la questione di cui ci occupiamo, cioè se il fine
della conoscenza economico-sociale nel nostro senso, costituito
dalla conoscenza della realtà nel suo significato culturale e
nella sua connessione causale, possa venir raggiunto mediante
l’investigazione di ciò che ricorre in conformità a leggi. Posto
il caso che si pervenga un giorno, sia per mezzo della psicolo-
gia sia per altre vie, ad analizzare in base ad alcuni semplici
« fattori » ultimi tutte le connessioni causali dei processi della
convivenza umana finora osservate, e inoltre anche quelle con-
cepibili in qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi abbrac-
ciarle in maniera esauriente in un'immensa casistica di concetti
e di regole che valgono come leggi rigorose — quale rilievo
avrebbe il risultato di tutto questo per la conoscenza del mon-
do culturale storicamente dato, o anche soltanto di qualche
suo particolare fenomeno, come per esempio del capitalismo
nel suo divenire e nel suo significato culturale? Esso varrebbe
come mezzo conoscitivo né più né meno di un lessico delle
combinazioni chimico-organiche per la conoscenza bio-genetica
del mondo animale e vegetale. Nell’uno come nell’altro caso si
sarebbe compiuto un lavoro preliminare sicuramente importan-
te e utile. Nell’uno come nell’altro caso la realtà della vita non
si lascerebbe però dedurre da quelle «leggi» e da quei « fatto-
ri»; e ciò non già perché nei fenomeni della vita debbano
risiedere altre superiori e misteriose « forze » (« potenze », «en
telechie » o come altrimenti le si è chiamate) — questa è una
questione del tutto a sé — ma semplicemente perché per la
conoscenza della realtà ha per noi importanza la costellazione
in cui si trovano quei « fattori » (ipotetici!), raggruppati in un
fenomeno culturale che sia storicamente per noi significativo, e
perché, se vogliamo « spiegare causalmente » questo raggruppa-
mento individuale, noi dovremmo sempre rifarci ad altri rag-
gruppamenti, del pari individuali, in base ai quali « spiegar-
MAX WEBER 585
li », naturalmente attraverso l’impiego di quei concetti (ipoteti-
cil) di «legge». Determinare quelle «leggi» e quei « fattori »
(ipotetici) sarebbe per noi in ogni caso solo il primo dei diversi
lavori che dovrebbero condurre alla conoscenza a cui aspiria-
mo. L’analisi e Ja coordinazione del raggruppamento individua-
le storicamente dato di quei « fattori » e della loro cooperazio-
ne concreta, condizionata in tale maniera, che risulta sigrificati-
va nel suo modo specifico, e soprattutto la chiarificazione del
fondamento e del tipo di questa significatività — questo sareb-
be il suo compito successivo, da risolvere certo con il ricorso a
quel lavoro preliminare, ma tuttavia pienamente nuovo e a4t0-
nomo nei suoi confronti. Seguire nel loro divenire le specifiche
caratteristiche individuali, significative per il presenze, di tali
raggruppamenti, risalendo il più possibile nel passato, e spiegar-
le storicamente in base alle costellazioni precedenti, che sono a
loro volta individuali, costituirebbero un terzo compito che si
può concepire — e la predizione di possibili costellazioni nel
futuro, infine, sarebbe il quarto.
Per tutti questi scopi sarebbe chiaramente di grande impor-
tanza come mezzo conoscitivo — ma anche soltanto in quanto
tale — e anzi sarebbe senz'altro indispensabile in vista di essi,
la presenza di concetti chiari e la conoscenza di quelle « leg-
gi » (ipotetiche). Ma anche in questa funzione si mostra subito,
in #2 punto decisivo, il limite della loro portata, e mediante la
loro determinazione perveniamo a cogliere il carattere specifico
decisivo della considerazione propria delle scienze della cultura.
Noi abbiamo designato come «scienze della cultura» quelle
discipline che aspirano a conoscere i fenomeni della vita nel
loro significato culturale. Il significato della configurazione di
un fenomeno culturale, nonché il suo fondamento, non può
però essere derivato, motivato e reso intelligibile in base a
nessun sistema di concetti di leggi, per quanto completo esso
sia, poiché esso presuppone la relazione dei fenomeni culturali
con idee di valore. Il concetto di cultura è un concetto di
valore. La realtà empirica è per noi «cultura» in quanto la
poniamo in relazione con idee di valore; essa abbraccia quegli
elementi della realtà che diventano per noi significativi in base
a quella relazione, e soltanto questi elementi. Una minima
parte della realtà individuale di volta in volta considerata è
586 MAX WEBER
investita dal nostro interesse, condizionato da quelle idee di
valore; essa soltanto ha significato per noi, e lo ha in quanto
rivela relazioni che sono per noi importanti a causa della loro
connessione con idee di valore. Esclusivamente in questo caso,
infatti, essa è per noi degna di venir conosciuta nel suo caratte-
re individuale. Ciò che per noi riveste significato non può
naturalmente essere determinato attraverso nessuna indagine
del dato empirico, che sia condotta «senza presupposti»; al
contrario, la sua determinazione è il presupposto per stabilire
che qualcosa diviene oggetto dell'indagine. Ciò che è significati-
vo non coincide naturalmente, in quanto tale, con l'ambito di
nessuna legge, e tanto meno vi coincide quanto più universal-
mente valida è quella legge. Infatti il significato specifico che
ha per noi un elemento della realtà 207 si trova naturalmente
in quelle tra le sue relazioni che esso ha in comune con molti
altri. La relazione della realtà con idee di valore, che dànno ad
essa significato, nonché l’isolamento e l’ordinamento degli ele-
menti del reale così individuati sotto il profilo del loro significa
to culturale, rappresenta un punto di vista del tutto eterogeneo
e disparato rispetto all’analisi della realtà in base a leggi, e al
suo ordinamento in concetti generali. I due tipi di ordinamento
concettuale del reale non hanno tra di loro relazioni logiche
necessarie di nessuna specie. Essi possono eventualmente coinci-
dere in un caso singolo, ma sarebbe molto pericoloso che que-
sta congiunzione accidentale ingannasse sulla loro eterogeneità
di principio. Il significato culturale di un fenomeno, per esem-
pio quello dello scambio in un'economia monetaria, può consi-
stere nel fatto che esso si presenta come fenomeno di massa, in
quanto costituisce una componente fondamentale della vita cul-
turale odierna. E tuttavia è proprio il fatto storico che esso
assolve questa funzione ciò che dev'essere reso comprensibile
nel suo significato culturale, e spiegato causalmente nella sua
origine storica. L'indagine dell’essenza dello scambio în genera-
le e della tecnica della circolazione di mercato è un lavoro
preliminare — invero molto importante e indispensabile! Non
soltanto non si è risposto così alla questione concernente il
modo in cui storicamente lo scambio è pervenuto al suo fonda-
mentale significato odierno; ma soprattutto — ciò che in ulti-
ma analisi ci interessa — il significato culturale dell'economia
MAX WEBER 587
monetaria, in virtù del quale soltanto ci interessiamo di quella
descrizione della tecnica della circolazione monetaria, e in vir-
tù del quale soltanto c’è oggi una scienza che studia tale tecni-
ca, risulta inderivabile da qualsiasi di quelle «leggi ». Le carat
teristiche di conformità a un genere dello scambio, del negozio
ecc. interessano i giuristi — mentre ciò che ci concerne è il
compito di analizzare proprio quel significato culturale del
fatto storico che oggi lo scambio è fenomeno di massa. Allor-
ché esso deve venir spiegato, allorché vogliamo intendere che
cosa distingue la nostra cultura economico-sociale da quella,
per esempio, dell’antichità, in cui lo scambio mostrava le mede-
sime qualità generiche di oggi, e quando si deve spiegare in
che cosa consista il significato dell’« economia monetaria », in-
tervengono nell’indagine princìpi logici di origine del tutto ete-
rogenea. Noi impieghiamo infatti quei concetti, che ci offre la
ricerca degli elementi generici dei fenomeni economici di mas-
sa, come mezzo di rappresentazione, e ciò nella misura in cui
vi sono contenuti elementi della nostra cultura forniti di signifi-
cato; ma il fire del nostro lavoro non è conseguito mediante
una rappresentazione, per quanto precisa, di quei concetti e di
quelle leggi, poiché al contrario la questione di che cosa dev’es-
sere fatto oggetto di un’elaborazione di concetti di genere non
è «senza presupposti », bensì è stata decisa proprio in riferi-
mento al significato che posseggono per la cultura determinati
elementi di quella molteplicità infinita, che noi diciamo « circo-
lazione ». Noi aspiriamo alla conoscenza di un fenomeno stori-
co, cioè di un fenomeno fornito di significato nel suo carattere
specifico. E la cosa decisiva è questa: soltanto in base al presup-
posto che esclusivamente una parte fizita dell’infinito numero
dei fenomeni risulta fornita di significato, acquista un senso
logico il principio di una conoscenza dei fenomeni individuali
in genere. Noi ci troveremmo perplessi, anche se fossimo prov-
visti della più completa conoscenza possibile di tutte le « leg-
gi» dell’accadere, di fronte a questa questione: come è possibi-
le in genere la spiegazione causale di un fatto individuale —
dal momento che già una descrizione anche della più piccola
sezione di realtà non può mai essere concepita come esaustiva?
Il numero e il tipo delle cause, che hanno determinato un
qualsiasi avvenimento individuale, è infatti sempre infinito, e
588 MAX WEBER
non c’è una caratteristica inerente alle cose stesse la quale con-
senta di isolarne una parte, che venga essa soltanto presa in
considerazione. Un caos di « giudizi esistenziali » sopra infinite
osservazioni particolari sarebbe il solo esito a cui potrebbe reca-
re il tentativo di una conoscenza della realtà che fosse seriamen-
te « priva di presupposti». E anche questo risultato sarebbe
possibile solo in apparenza, poiché la realtà di ogni osservazio-
ne singola mostra, a uno sguardo più prossimo, infiniti ele-
menti particolari, che non possono mai venire espressi in manie-
ra esaustiva in giudizi di osservazione. In questo caos reca
ordine soltanto la circostanza che in ogni caso ha per noi
interesse e significato solo una parte della realtà individuale,
in quanto essa sta in relazione con idee di valori culturali con
le quali ci accostiamo alla realtà. Soltanto determinati aspetti
dei fenomeni particolari, sempre infinitamente molteplici, cioè
quelli ai quali attribuiamo un significato culturale universale,
sono quindi degni di essere conosciuti, ed essi solamente sono
oggetto della spiegazione causale. Anche questa spiegazione
causale pone però a sua volta in luce lo stesso fatto, che
cioè un regresso causale esaustivo da qualsiasi fenomeno concre-
to nella sua piera realtà non soltanto risulta praticamente im-
possibile, ma è semplicemente un’assurdità. Noi mettiamo in
luce soltanto quelle cause a cui devono essere imputati gli
elementi di un accadere che risultano « essezzziali » nel caso par-
ticolare: la questione causale, quando si tratta dell’individuali-
tà di un fenomeno, non è una questione di leggi bensì una
questione di connessioni causali concrete; non è una questione re-
lativa alla formula alla quale si deve subordinare come esempio
specifico tale fenomeno, ma è una questione relativa alla costel-
lazione individuale a cui esso deve venir imputato come suo
risultato — è cioè una questione di imputazione. Ogni qual
volta sia in questione la spiegazione causale di un « fenomeno
culturale » — cioè di un « individuo storico », come noi lo inten-
diamo in base a un’espressione già usata talvolta nella metodolo-
gia della nostra disciplina, e ora divenuta consueta nella logica in
una più precisa formulazione — la conoscenza delle leggi della
causalità può essere non già scopo, ma soltanto mezzo dell’inda-
gine. Essa ci rende più agevole l'imputazione causale degli
elementi dei fenomeni, culturalmente significativi nella loro in-
MAX WEBER 589
dividualità, alle loro cause concrete. In quanto, e solo in quan-
to essa serve a questo fine, ha valore per la conoscenza di
connessioni individuali. Quanto più le leggi sono « generali »,
cioè astratte, tanto meno esse servono per i bisogni dell’imputa-
zione causale di fenomeni individuali, e quindi indirettamente
r la comprensione del significato dei processi culturali.
Che cosa deriva da tutto ciò?
Naturalmente non ne deriva che la conoscenza del genera
le, la formazione di concetti astratti di genere, la conoscen-
za di regolarità e il tentativo di formulazione di connessioni
«legali » non abbiano nel campo delle scienze della cultura
alcuna giustificazione scientifica. Al contrario, se la conoscenza
causale dello storico è un’imputazione di effetti concreti a cau-
se concrete, l'imputazione valida di qualsiasi effetto individua-
le non è possibile in genere senza l’impiego della conoscenza
«nomologica» — cioè della conoscenza delle regolarità delle
connessioni causali. Se si deve attribuire in concreto nella
realtà a un singolo elemento individuale di una connessione un
significato causale nei riguardi dell’effetto che intendiamo spie-
gare, questo può essere stabilito, in caso di dubbio, soltanto
attraverso la valutazione degli effetti che di solito ci aspettiamo
in generale da esso e dagli altri elementi del medesimo comples-
so, che consideriamo ai fini della spiegazione — vale a dire
attraverso la determinazione di quelli che sono gli effetti « ade-
guati» degli elementi causali in questione. In quale misura lo
storico (nel senso più ampio del termine) possa compiere con
sicurezza questa imputazione con la sua fantasia nutrita di
esperienza personale della vita e metodicamente disciplinata, e
in quale misura egli si rifaccia invece all’aiuto di discipline
speciali che gliela rendono possibile, è cosa che dipende dal
caso singolo. Ma ovunque, e così pure nel campo di complicati
processi economici, la sicurezza dell’imputazione è tanto mag-
giore quanto più assodata e comprensiva è la nostra conoscenza
generale. Che si tratti sempre, anche per tutte le cosiddette
«leggi economiche » senza eccezione, non già di connessioni
«legali » nel senso ristretto valido nel caso delle scienze esatte
della natura, ma di connessioni causali adeguate espresse in
forma di regole, cioè di un ‘applicazione della categoria di « ( pos-
sibilità oggettiva» che qui non può venir analizzata più da
590 MAX WEBER
vicino, non fa la minima differenza per tale proposizione. Solo
che la determinazione di tali regolarità non è già fine, bensì
mezzo di conoscenza; ed è in ogni caso una questione di
opportunità se si debba o meno esprimere in una formula, sotto
forma di «legge», una regolarità di connessione causale nota
in base all’esperienza quotidiana. Per la scienza esatta della
natura le « leggi » sono tanto più importanti e fornite di valore
quanto più esse sono universalmente valide; per la conoscenza
dei fenomeni storici nel loro fondamento concreto le leggi pià
generali, in quanto sono le più vuote di contenuto, sono invece
di regola anche le più prive di valore. Infatti quanto più estesa
è la validità di un concetto di specie, cioè il suo ambito, tanto
più esso ci distoglie dalla realtà concreta; per racchiudere l’ele-
mento comune di quanti più fenomeni, esso deve essere infatti
il più possibile astratto, e perciò povero di contenuto. La cono-
scenza del generale non è mai per noi, nelle scienze della
cultura, fornita di valore di per sé.
Da quanto si è detto finora risulta dunque che è priva di
senso una trattazione « oggettiva » dei processi culturali, per la
quale debba valere come scopo ideale del lavoro scientifico la
riduzione di ciò che è empirico a «leggi ». Essa non è priva di
senso, come sovente si è ritenuto, perché i processi culturali o
anche i processi spirituali si comportino « oggettivamente » in
maniera meno legale, bensì per i motivi seguenti: 1) perché la
conoscenza di leggi sociali non è conoscenza della realtà socia-
le, ma è soltanto uno dei diversi strumenti di cui il nostro
pensiero si avvale a tale scopo; 2) perché non si può concepire
una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del
significato che ha per noi la realtà della vita, sempre individual-
mente atteggiata, in determinate relazioni particolari. In quale
senso e in quali relazioni ciò avvenga non ci è svelato da
nessuna legge, perché è deciso dalle idee di valore in base alle
quali consideriamo nel caso singolo la «cultura». La «cultu
ra» è una sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accade-
re del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal
punto di vista dell’uomo. Essa è tale anche per gli uomini che
si contrappongono a una cultura concreta come a un mortale
nemico, e che aspirano a un «ritorno alla natura ». Infatti essi
possono pervenire a questa presa di posizione solo in quanto
MAX WEBER 591
riferiscono la cultura concreta alle loro idee di valore, e la
trovano « troppo leggera ». È questo fatto puramente logico-for-
male che si tiene presente allorché qui si parla della connessio-
ne logicamente necessaria di tutti gli individui storici con «i-
dee di valore ». Presupposto trascendentale di ogni scienza del-
la cultura non è già che noi riteniamo forzita di valore una
determinata, o anche in genere una qualsiasi « cultura », bensì è
il fatto che noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e
della volontà di assumere consapevolmente posizione nei con-
fronti del mondo e di attribuirgli un serso. Qualunque possa
essere questo senso, esso ci condurrà a valutare nella vita deter-
minati fenomeni della coesistenza umana in base ad esso, e ad
assumere nei loro confronti una posizione (positiva o negativa)
in quanto fornita di significato. Quale che sia il contenuto di
tale presa di posizione, questi fenomeni hanno per noi un sign:
ficato culturale, e su questo significato soltanto poggia il loro
interesse scientifico. Quando qui si parla, in riferimento all’uso
linguistico dei logici moderni, del condizionamento della cono-
scenza della cultura da parte di idee di valore, si spera di non
essere esposti a fraintendimenti di specie così rozza come l’opi-
nione che si debba attribuire un significato culturale soltanto ai
fenomeni forniti di valore. La prostituzione è un fenomeno
culturale al pari della religione o del denaro; e tutti e tre lo
sono in quanto e solamente in quanto, e nella misura in cui, la
loro esistenza e la forma che storicamente assumono tocchino,
direttamente o indirettamente, i nostri interessi culturali, e in
quanto essi suscitano il nostro impulso conoscitivo sotto punti
di vista orientati in base a idee di valore, le quali rendono per
noi significativo il settore di realtà che è pensato in quei
concetti.
Ogni conoscenza della realtà culturale è sempre, come risul-
ta da tutto questo, una conoscenza da particolari punti di
vista. Quando noi richiediamo allo storico e allo studioso di
scienze sociali, come presupposto elementare, che egli sappia
distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, e che egli
disponga dei « punti di vista » indispensabili per questa distin-
zione, ciò vuol semplicemente dire che egli deve imparare a
riferire i processi della realtà — consapevolmente o inconsape-
volmente — a «valori culturali » universali, e quindi a porre
592 MAX WEBER
in luce le connessioni che sono per noi significative. Sebbene si
ripresenti sempre l’opinione che sia possibile « assumere dalla
materia stessa» quei punti di vista, ciò deriva dall’illusione
ingenua dello specialista il quale non riflette che egli ha dappri-
ma isolato, in virtù delle idee di valore con cui si è inconsape-
volmente accostato alla materia, un ristretto elemento da un’as-
soluta infinità come quello che solo lo interessa per la sua
trattazione. In questa scelta di singole « parti» dell’accadere,
che ha luogo sempre e ovunque in forma sia consapevole che
inconsapevole, viene in luce anche quell’elemento del lavoro
delle scienze della cultura che sta a base di un’affermazione
così sovente udita — che l’aspetto « personale» di un’opera
scientifica costituisca ciò che propriamente vale in essa, e che
in ogni opera, affinché sia degna di esistere, debba esprimersi
«una personalità ». Certo senza le idee di valore del ricerca-
tore non vi sarebbe nessun principio per la scelta della mate-
ria, € nessuna conoscenza fornita di senso del reale nella sua
individualità; e come senza la fede del ricercatore nel significa
to di qualche contenuto culturale risulta senz'altro privo di
senso ogni lavoro diretto alla conoscenza della realtà individua
le, così l'orientamento della sua fede personale, cioè la rifrazio-
ne dei valori nello specchio della sua anima, indicherà la dire-
zione anche al suo lavoro. E i valori a cui il genio scientifico
riferisce gli oggetti della sua ricerca potranno determinare la
«concezione » di un'intera epoca, potranno cioè essere decisivi
non solo per stabilire ciò che nei fenomeni è « fornito di valo-
re», ma anche per stabilire ciò che è significativo o privo di
significato, ciò che è «importante » e ciò che è « senza impor-
tanza ».
La conoscenza delle scienze della cultura, nel senso che
abbiamo definito, è vincolata a presupposti «soggettivi» in
quanto essa si occupa soltanto di quegli elementi della realtà
che hanno una relazione — per quanto indiretta — con i
processi ai quali attribuiamo un significato culturale. Essa è
tuttavia naturalmente una pura conoscenza causale nel medesi-
mo senso in cui può esserlo la conoscenza di processi naturali
individuali forniti di significato, i quali rivestano un carattere
qualitativo. Accanto alle varie confusioni prodotte dall’invasio-
ne del pensiero giuridico-formale nella sfera delle scienze della
MAX WEBER 593
cultura, è stato di recente compiuto il tentativo di « confutare »
in linea di principio la «concezione materialistica della sto-
ria» mediante una serie di spiritosi sofismi, sostenendo che, in
quanto tutta la vita economica deve svolgersi in forme regolate
giuridicamente o convenzionalmente, qualsiasi « sviluppo » eco-
nomico deve assumere la forma di tendenze alla creazione di
nuove forme giuridiche, e che esso è quindi comprensibile sol-
tanto in base a massime etiche, e risulta su questa base diverso
nella propria essenza da ogni sviluppo « naturale ». La cono-
scenza dello sviluppo economico avrebbe pertanto un carattere
«teleologico »Î. Senza voler qui discutere il significato che
per la scienza sociale può avere l'equivoco concetto di « svilup-
po »; 0 il concetto logicamente non meno equivoco di « teleologi-
co», si deve tuttavia constatare che una conoscenza siffatta
non potrebbe mai essere « teleologica » ze/ senso presupposto da
questa prospettiva. Nonostante la più completa identità formale
delle norme giuridiche in vigore, il significato culturale dei
rapporti giuridici a cui le norme si riferiscono, e perciò anche
delle norme medesime, può mutare in maniera radicale. Certo,
se ci si vuole inoltrare per un momento almanaccando nelle
fantasie di un tempo futuro, si può per esempio concepire
teoricamente compiuta una «socializzazione dei mezzi di pro-
duzione » senza che sia sorta alcuna « tendenza » mirante consa-
pevolmente a questa conseguenza e senza che venga eliminato
o aggiunto nessun paragrafo della nostra legislazione: la fre-
quenza statistica di particolari relazioni giuridicamente regola-
te sarebbe cambiata certo alla base, e in molti casi ridotta a
zero, una gran parte delle norme giuridiche diventerebbe prati-
camente priva di significato, e il loro intero significato cultura-
le sarebbe mutato in maniera da risultare irriconoscibile. La
3. Weber si riferisce qui al volume di Rudolf Stammler, Wirtschaft und Recht
nach der materialistichen Geschichtsauffassung, Leipzig, 1896. Alla critica della
seconda edizione di quest'opera (1906) sarà dedicato il saggio di Weber R. Stammlers
« Uberwindung » der materialistischen Geschichtsauffassung, « Archiv. fùr Sozial-
wissenschaft und Sozialpolitik », XXIV, 1907, pp. 94-151 (ora in Gesammelte Aufsatze
zur Wissenschaftslehre, pp. 291-359). — Rudolf Stammler (1856-1938), filosofo
del diritto tedesco di orientamento neo-kantiano, scrisse inoltre Die Lehre voni
richtigen Recht (1902), la Theorie der Rechtsivissenschaft (1911), Die Gerechtigheit
in der Geschichte (1915), un Lelrbuch der Rechtsphilosophie (1922) e varie altre
opere.
38. STORICISMO TEDESCO.
594 MAX WEBER
teoria « materialistica » della storia poteva quindi con diritto
mettere da parte le discussioni de lege ferenda, poiché il suo
punto di vista centrale consisteva appunto nell’inevitabile muta-
mento di significato delle istituzioni giuridiche. Colui al quale
il semplice lavoro di comprensione causale della realtà storica
appare subalterno, può sì evitarlo — ma è impossibile sostituir-
lo con qualsiasi « teleologia ». « Scopo » è, per la rostra trattazio-
ne, la rappresentazione di un effetto, che diviene causa di
un'azione; e noi consideriamo anche questa al pari di ogni
causa che contribuisca o possa contribuire a un effetto fornito
di significato. Il suo significato specifico poggia soltanto sul fatto
che noi possiamo e vogliamo anche irztendere, oltre che consta-
tare, l'agire umano.
Quelle idee di valore sono, fuor di ogni questione, « soggetti-
ve». Tra l’interesse «storico» per una cronaca di famiglia e
quello per lo sviluppo dei più grandi fenomeni di cultura, che
furono e sono comuni a una nazione o all'umanità per lunghe
epoche, c'è un'infinita gradazione di «significati », i cui mo-
menti avranno per ognuno di noi un ordine differente. E così
pure esse mutano storicamente con il carattere della cultura e
delle idee che guidano gli uomini. Da ciò 207 consegue ovvia-
mente che la ricerca delle scienze della cultura possa dar luogo
soltanto a risultati i quali siano «soggettivi» nel senso che
valgono per l’uno e non per l’altro. Ciò che cambia è piuttosto
il grado in cui essi interessano l’uno e non l’altro. In altri
termini, ciò che diventa oggetto dell’indagine, e in quale misu-
ra questa si estenda nell’infinità delle connessioni causali, è
determinato soltanto dalle idee di valore che dominano il ricer-
catore e la sua epoca; nel «come? », vale a dire nel metodo
della ricerca — come ancora vedremo — il « punto di vista» a
cui si ispira è determinante per l’elaborazione degli strumenti
concettuali che egli impiega — mentre nel modo della loro
applicazione il ricercatore è di certo, qui come ovunque, vinco-
lato alle norme del nostro pensiero. Poiché verità scientifica è
soltanto ciò che esige di valere per tutti coloro che vogliono la
verità.
Da ciò risulta in ogni caso l’assurdità dell’idea — la quale
talvolta prevale anche presso gli storici della nostra disciplina
— che possa essere fine, per quanto remoto, delle scienze della
MAX WEBER 595
cultura quello di costruire un sistema chiuso di concetti, nel
cui ambito la realtà possa venir compresa in un'articolazione
in qualsiasi senso definitiva, e da cui essa venga quindi di
nuovo dedotta. La corrente dell’accadere sconfinato procede sen-
za fine verso l’eternità. E sempre nuovi e diversamente atteg-
giati si presentano i problemi culturali che muovono gli uomi-
ni, cosicché rimane fluido anche l’ambito di ciò che acquista
per noi senso e significato da quella infinita, e sempre eguale,
corrente dell’accadere, configurandosi come «individuo stori-
co ». Mutano le connessioni concettuali in base a cui l’accadere
è considerato e colto scientificamente. I punti di partenza delle
scienze della cultura si protendono quindi mutevoli nel più
lontano futuro, finché qualche definitivo irrigidimento della
vita spirituale non farà desistere l’umanità dal porre nuove
questioni alla vita sempre inesauribile. Un sistema delle scien-
ze della cultura, anche soltanto in forma di una fissazione
definitiva, oggettivamente valida, sistematizzante delle questio-
ni e dei campi di cui esse dovrebbero trattare, sarebbe di per sé
un’assurdità: da un tentativo del genere potrebbe derivare sem-
pre solo una collezione di punti di vista, specificamente diversi
e tra loro in vario modo eterogenei e disparati, in base ai quali
la realtà è risultata o risulta per noi « cultura », cioè fornita di
significato nella sua specificità.
Dopo queste lunghe discussioni, possiamo finalmente affron-
tare la questione che ci interessa metodicamente in vista di
una trattazione dell’« oggettività» della conoscenza della cul-
tura: quale è la funzione e la struttura logica dei concetti con
cui la nostra scienza, al pari di ogni altra, lavora, e cioè — per
formulare la domanda con particolare riguardo al problema
decisivo — qual è il significato della teoria e dell’elaborazione
concettuale teorica per la conoscenza della realtà culturale?
L'economia politica è stata almeno originariamente — lo
abbiamo già detto — una «tecnica», per ciò che concerne il
centro di gravità delle sue discussioni: essa considerava i feno-
meni della realtà da un punto di vista valutativo che, almeno
in apparenza, era univoco, stabile e pratico, vale a dire dal
punto di vista dell’accrescimento della « ricchezza » della popo-
lazione. Ma d’altra parte, fin dall’inizio, essa non è stata soltan-
596 MAX WEBER
to una «tecnica », in quanto era inserita nella possente unità
dell’intuizione giusnaturalistica e razionalistica del mondo, for-
mulata dal secolo xvi. Il carattere specifico di quell’intuizione
del mondo, con la sua fede ottimistica nella possibilità di una
razionalizzazione teoretica e pratica del reale, operava essenzial-
mente in maniera da ostacolare la scoperta del carattere proble-
matico di tale punto di vista, assunto come di per sé evidente.
Sorta in stretta connessione con il moderno sviluppo della scien-
za naturale, la considerazione razionale della realtà sociale è
rimasta ad essa affine in tutto il suo modo di analisi. Nelle
discipline naturali il punto di vista pratico-valutativo, fondato
sulla determinazione di ciò che è immediatamente utile in sen-
so tecnico, era strettamente legata alla speranza — ereditata
dall’antichità e in seguito ancora sviluppata — di pervenire
sulla via dell’astrazione generalizzante e dell’analisi del dato
empirico nelle sue connessioni legali a una conoscenza di tipo
monistico dell’intera realtà che fosse puramente « oggettiva »,
cioè svincolata da tutti i valori, e al tempo stesso razionale,
cioè liberata da ogni « accidentalità » individuale, e assumesse
la fisionomia di un sistema concettuale di validità metafisica e
di forma matematica. Le discipline naturali legate a punti di
vista valutativi, come la medicina clinica e ancor più quella che
abitualmente è detta « tecnologia », diventavano pure « dottri-
ne» pratiche. I valori a cui esse dovevano servire, vale a dire
la salute del paziente, il perfezionamento tecnico di un concre-
to processo produttivo ecc., erano di volta in volta stabiliti per
ognuna di esse. I mezzi impiegati erano, e potevano essere
soltanto forniti dall'impiego dei concetti legali scoperti dalle
discipline teoriche. Ogni progresso di principio nella formazione
di tali concetti era, o poteva essere, anche un progresso della
corrispondente disciplina pratica. Dato un certo scopo, la pro-
gressiva riduzione delle particolari questioni pratiche (di un
caso di malattia, di un problema tecnico) a leggi generalmente
valide di cui esse costituiscono un caso specifico, e quindi l’e-
stensione del sapere teorico, era immediatamente connessa, ed
anzi coincidente, con l’allargarsi delle possibilità pratico-tecni-
che. Allorché la biologia moderna ha sottoposto anche quegli
elementi della realtà che ci interessano storicamente, cioè nel
modo in cui essi sono divenuti così-e-non-altrimenti, al concetto
MAX WEBER 597
di un principio evolutivo universalmente valido, che almeno
apparentemente — ma non certo in verità — ha consentito di
subordinare tutto ciò che è essenziale in tali oggetti a uno
schema di leggi valide in generale, sembrò che si avvicinasse in
qualsiasi scienza il momento della fine per tutti i punti di vista
valutativi. Poiché il cosiddetto accadere storico era una parte
dell’intera realtà, e il principio causale, che costituisce il presup-
posto di ogni lavoro scientifico, sembrava esigere la riduzione
di ogni accadere a « leggi» generalmente valide, e poiché infi-
ne era evidente l’immenso successo delle scienze della natura
le quali avevano proceduto in base a questo principio, sembrò
allora inconcepibile un senso della ricerca scientifica diverso da
quello della scoperta delle leggi dell’accadere. Soltanto ciò che
è « conforme alle leggi » poteva essere scientificamente essenzia-
le nei fenomeni, e i processi «individuali » venivano presi in
considerazione solamente in quanto «tipi », cioè in quanto rap-
presentanti illustrativi delle leggi; un interesse diretto ad essi
sembrava costituire un interesse « non scientifico ».
È impossibile seguire qui le forti conseguenze di questa
fiduciosa disposizione del monismo naturalistico sulle discipli-
ne economiche. Allorché la critica socialistica e il lavoro degli
storici cominciavano a tradurre in problemi gli originari punti
di vista valutativi, il potente sviluppo della ricerca biologica da
un lato e l'influenza del panlogismo hegeliano dall’altro impe-
dirono all’economia politica di determinare in maniera distin-
ta, nella sua piena portata, il rapporto tra concetto e real-
tà. Da ciò è risultato, per quanto ci interessa, che nonostante il
poderoso argine opposto alla penetrazione dei dogmi naturalisti-
ci dalla filosofia idealistica tedesca successiva a Fichte, dalle
indagini della scuola giuridica tedesca e dal lavoro della scuola
storica di economia politica tedesca, e in parte proprio în conse-
guenza di questo lavoro, i punti di vista del naturalismo riman-
gono ancora da superare in alcuni punti decisivi. Tra questi c’è
in particolare il rapporto, che rimane ancor sempre problemati-
co, tra lavoro «teorico» e lavoro «storico » nell’ambito della
nostra disciplina.
Il metodo teorico « astratto » si contrappone ancora og
con un’asprezza priva di mediazione e apparentemente insor-
montabile, alla ricerca storico-empirica. Esso riconosce del tutto
598 MAX WEBER
correttamente l'impossibilità metodica di sostituire la conoscen-
za storica della realtà con la formulazione di «leggi» o di
pervenire viceversa a « leggi» in senso stretto attraverso il me-
ro accostamento di osservazioni storiche. Per ottenere tali leggi
— dal momento che per esso è certo che la scienza debba
aspirare a questo fine supremo — si procede dal fatto che noi
abbiamo un’esperienza immediata delle connessioni dell’agire
umano proprio nella Joro realtà, e quindi — così esso suppone
— possiamo rendere il suo corso immediatamente intelligibile
con evidenza assiomatica, e penetrarlo nelle sue «leggi». La
sola forma esatta di conoscenza, cioè la formulazione di leggi
evidenti che si possano immediatamente intuire, sarebbe al tem-
po stesso la sola che consente l’accesso ai processi non immedia-
tamente osservati; e quindi, almeno per i fenomeni fondamen-
tali della vita economica, la determinazione di un sistema di
princìpi astratti e — di conseguenza — puramente formali, in
analogia a quello delle scienze esatte della natura, sarebbe il
solo mezzo per dominare spiritualmente la molteplicità della
vita sociale. Nonostante la distinzione metodica di principio
tra conoscenza legale e conoscenza storica, che il creatore della
teoria aveva compiuto come primo e unico, alle proposizioni
della teoria astratta è stata però da lui attribuita una validità
empirica, nel senso di una deducibilità della realtà dalle « leg-
gi». E ciò certo non nel senso di una validità empirica dei
princìpi economici astratti presi di per sé, bensì in maniera
che, quando si fossero elaborate corrispondenti teorie « esatte »
di tutti gli altri fattori che si possono considerare, tutte queste
teorie astratte prese insieme dovrebbero contenere in sé la vera
realtà delle cose — vale a dire ciò che della realtà è degno di
essere conosciuto. La teoria economica esatta determinava l’ef-
fetto di ur motivo psichico, mentre le altre teorie avrebbero il
compito di sviluppare in forma simile tutti i rimanenti motivi
in princìpi di validità ipotetica. Pertanto al lavoro teorico, cioè
alle teorie astratte della formazione del prezzo, dell’interesse,
delle rendite ecc., è stata talvolta attribuita la pretesa fantasti-
ca di servire, secondo la — pretesa — analogia dei princìpi
fisici, per dedurre da date premesse reali risultati quantitativa
mente determinati, e cioè leggi in senso rigoroso, valide per
la realtà della vita, in quanto l'economia dell’uomo sarebbe
MAX WEBER 599
univocamente « determinata », dato un certo scopo, in rapporto
ai mezzi. E non si è tenuto presente che, per poter aspirare a
questo risultato anche nei casi più semplici, si dovrebbe assume-
re come « data » € presupporre come nota la totalità della real-
tà storica attuale, insieme a tutte le sue connessioni causali, e
che, quando questa conoscenza fosse accessibile allo spirito fini-
to, non si potrebbe attribuire nessun valore conoscitivo a una
teoria astratta. Il pregiudizio naturalistico, secondo il quale si
dovrebbe creare, con quei concetti, qualcosa di affine a ciò che
producono le scienze esatte della natura, aveva condotto appun-
to a un’errata comprensione del senso di queste formazioni
teoriche. Si è creduto che si trattasse dell'isolamento psicologico
di uno specifico «impulso » dell’uomo, dell'impulso al guada-
gno, oppure dell’osservazione isolata di una specifica massima
dell'agire umano, cioè del cosiddetto principio economico. La teo-
ria astratta riteneva di potersi reggere su assiomi psicologici; e la
conseguenza era che gli storici invocavano una psicologia empi-
rica, allo scopo di poter mostrare la non-validità di quegli
assiomi e derivare psicologicamente il corso dei processi econo-
mici. Noi non intendiamo criticare a fondo, in queste pagine,
la fede nell’importanza di una scienza sistematica della « psico-
logia sociale» — che del resto è ancor da creare — come
fondamento futuro delle scienze della cultura, e in particolare
dell'economia sociale. Proprio gli abbozzi finora compiuti, in
parte brillanti, di un’interpretazione psicologica dei fenomeni
economici mostrano in ogni caso che 707 si procede dall’analisi
delle qualità psicologiche dell’uomo all’analisi delle istituzioni
sociali, ma che viceversa il chiarimento dei presupposti e degli
effetti psicologici delle istituzioni presuppone la precisa cono-
scenza di queste ultime, nonché l’analisi scientifica delle loro
connessioni. L'analisi psicologica significa allora semplicemente
un approfondimento, molto importante nel caso specifico, della
conoscenza del loro condizionamento storico-culturale e del lo-
ro significato culturale. Ciò che ci interessa nell’atteggiamento
psichico dell’uomo nelle sue relazioni sociali è appunto determi-
nato in ogni caso specificamente, secondo il particolare signifi-
cato culturale della relazione in esame. Si tratta infatti di
motivi e di influssi psichici tra loro molto eterogenei, cd estre-
mamente compositi nel caso concreto. La ricerca psicologico-so-
600 MAX WEBER
ciale costituisce un attento esame di diversi generi particolari,
e tra loro assai disparati, di elementi della cultura, considerati
in rapporto alla possibilità di interpretarli mediante la nostra
comprensione. Noi dobbiamo imparare mediante essi a intende-
re spiritualmente in misura crescente — partendo dalla cono-
scenza delle istituzioni particolari — il loro condizionamento
e il loro significato culturale, senza voler dedurre le istituzioni
da leggi psicologiche o volerle spiegare in base a fenomeni
psicologici elementari.
Anche la polemica così complessa che si è svolta intorno alla
giustificazione psicologica delle enunciazioni teoriche astratte,
intorno all'importanza dell’« impulso al guadagno » e del « prin-
cipio economico » ecc., ha dato un frutto assai scarso.
Nel caso delle enunciazioni della teoria astratta, solo in ap-
parenza ci troviamo di fronte a « deduzioni » da motivi. psicolo-
gici fondamentali; in verità si tratta piuttosto di un caso specifi-
co di una forma di elaborazione concettuale che è propria, e in
certa misura indispensabile, delle scienze della cultura umana.
Vale qui la pena caratterizzare tale forma in maniera un po’
più approfondita, per accostarci così alla questione fondamenta-
le del significato della teoria per la conoscenza fornita dalla
scienza sociale. E a tale fine noi lasceremo una volta per sempre
fuori discussione se le formazioni teoriche che rechiamo come
esempio, o alle quali accenniamo, corrispondano, così come
esse sono, allo scopo a cui vogliono servire, se cioè esse sia-
no di fatto elaborate in maniera conforme allo scopo. In quale
misura l’odierna « teoria astratta » debba ancora essere sviluppata
è, alla fine, anche un problema di economia del lavoro scienti-
fico, a cui si riferiscono altri problemi. Anche la «teoria del-
l'utilità marginale » sottostà alla « legge dell'utilità marginale ».
Noi abbiamo dinanzi a noi, nella teoria economica astratta,
un esempio di quelle sintesi che si designano di solito come
«idee » di fenomeni storici. Essa ci offre un quadro ideale dei
processi che avvengono in un mercato di beni, sulla base di
un'organizzazione sociale fondata sull'economia di scambio, di
una libera concorrenza e di un agire rigorosamente razionale.
Questo quadro concettuale unisce determinate relazioni e deter-
MAX WEBER 601
minati processi della vita storica in un cosmo, in sé privo di
contraddizioni, di connessioni concettuali. Per il suo contenuto
questa costruzione riveste il carattere di un’ufopia, ottenuta
attraverso l’accentuazione concettuale di determinati elementi
della realtà. Il suo rapporto con i fatti empiricamente dati della
vita consiste solo in questo, che laddove vengono determinati o
supposti operanti, in qualsiasi grado, nella realtà connessioni
del tipo astrattamente rappresentato in quella costruzione, cioè
processi dipendenti dal « mercato », noi possiamo illustrare prag-
maticamente e rendere intelligibile il carazzere specifico di que-
sta connessione in un tipo ideale. Tale possibilità è indispensabi-
le sia a scopo euristico sia a scopo espositivo. Il concetto tipico-
ideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso
della ricerca: esso non è un’« ipotesi », ma intende orientare la
costruzione di ipotesi. Esso zon è una rappresentazione del
reale, ma intende fornire alla rappresentazione un mezzo di
espressione univoco. Esso è quindi « l’idea » di un’organizzazio-
ne moderna della società, fondata sull'economia di scambio,
che è storicamente data; esso è stato elaborato in base ai medesi-
mi principi logici con cui si è proceduto a costruire l’idea
dell’«economia cittadina» medievale come concetto « geneti-
co». Quando si fa così, si perviene a formare il concetto di
«economia cittadina » non già come una media dei princìpi
economici operanti di fatto nell’insieme delle città osservate,
ma appunto come un zipo ideale. Esso è ottenuto attraverso
l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e
attraverso la connessione di una quantità di fenomeni particola-
ri diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore
misura, e talvolta anche assenti — che corrispondono a quei
punti di vista unilateralmente sottolineati — in un quadro cor-
cettuale in sé unitario. Considerato nella sua purezza concettua-
le, questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamen-
te nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta
il compito di determinare in ogni caso singolo la maggiore o
minore distanza della realtà da quel quadro ideale, stabilendo
per esempio in quale misura il carattere economico della situa-
zione di una determinata città possa venir qualificato concettual-
mente come proprio dell’« economia cittadina ». Oculatamente
impiegato, quel concetto rende i suoi specifici servizi a sco-
602 MAX WEBER
po di indagine e di illustrazione. Proprio nello stesso modo si
può, per analizzare ancora un altro esempio, indicare l’« idea »
dell’« artigianato » in un’utopia, congiungendo determinati trat-
ti che si possono rintracciare diffusamente presso gli artigiani
dei più diversi tempi e paesi — accentuati unilateralmente
nelle loro conseguenze — in un quadro ideale in sé privo di
contraddizione, e riferendoli a un'espressione concettuale, che
si trova manifestata nel loro ambito. Si può inoltre compiere il
tentativo di individuare una società nella quale tutti i rami di
attività economica, e anche spirituale, siano regolati da massi-
me che ci appaiono come l’applicazione del medesimo princi-
pio caratteristico dell’« artigianato », elevato a tipo ideale. Si
può poi ancora contrapporre quel tipo ideale dell’artigianato a
un corrispondente tipo ideale di organizzazione industriale ca-
pitalistica, astratta da certe caratteristiche della grande indu-
stria moderna, e quindi compiere infine il tentativo di elabora-
re l’utopia di una cultura «capitalistica », dominata esclusiva-
mente dall’interesse all'impiego di capitali privati. Essa dovreb-
be congiungere, accentuandoli in un quadro concettuale non
contraddittorio per la nostra considerazione, determinati tratti
esistenti in maniera diffusa della moderna vita materiale e
spirituale, considerati nel loro carattere specifico. Ciò sarebbe
un tentativo di indicare l’«idea » della cultura capitalistica —
se e come a ciò si possa pervenire, non è ancora dato di saperlo.
È però possibile, o piuttosto dev’essere considerato come sicuro,
che si pervenga ad abbozzare più utopie di questo tipo, e
certamente in misura assai numerosa, di cui nessuna è eguale
alle altre, e di cui nessuna può venir osservata nella realtà
empirica come ordinamento di fatto valido della situazione so-
ciale; ognuna comporta però la pretesa di costituire una rappre-
sentazione dell'«idea» della cultura capitalistica, e ognuna
può anche far valere questa pretesa in quanto ha assunto dalla
realtà, congiungendoli in un quadro ideale unitario, certi tratti
della nostra cultura forniti di significato nel loro specifico carat-
tere. Infatti quei fenomeni che ci interessano come fenomeni
culturali derivano di regola questo interesse per noi — cioè il
loro « significato culturale » — da idee di valore assai differen-
ti con le quali possiamo porli in relazione. Come vi sono perciò
« punti di vista » estremamente diversi dai quali possiamo consi-
MAX WEBER 603
derarli per noi significativi, così si possono impiegare anche i
più diversi princìpi di scelta delle connessioni da assumere in
un tipo ideale di una determinata cultura.
Quale è però il significato di questi concetti tipico-ideali per
una scienza di esperienza, quale noi intendiamo promuoverla?
Si deve anzitutto porre in luce che la nozione di « ciò che deve
essere », vale a dire di un «modello normativo », deve essere
accuratamente distinto qui da questo quadro concettuale a cui
ci riferiamo, e che è «ideale» in senso puramente logico. Si
tratta della costruzione di connessioni che appaiono motivate in
maniera plausibile alla nostra faztasia, e quindi « oggettivamen-
te possibili », cioè adeguate nei confronti del nostro sapere no-
mologico.
Chi ritenga che la conoscenza della realtà storica debba o
possa essere una riproduzione « priva di presupposti» di fatti
«oggettivi », rifiuterà ad essi qualsiasi valore. E anche chi ha
riconosciuto che non c'è un’« assenza di presupposti » in senso
logico sul terreno della realtà, e che pure il più semplice rias-
sunto di documenti o la più semplice registrazione delle fonti
può avere qualche senso scientifico solo in base a un riferimen-
to a « significati », e quindi in ultima istanza a idee di valore,
considererà tuttavia la costruzione di qualsiasi « utopia » storica
come un mezzo di illustrazione pericoloso per un lavoro storico
impregiudicato, e più spesso semplicemente come un gioco. E
infatti non si può mai decidere @ priori se si tratti con questo
di un puro gioco concettuale, oppure di un’elaborazione concet-
tuale scientificamente feconda; anche qui esiste un solo criterio,
quello dell’efficacia per la conoscenza di fenomeni culturali
concreti nella loro connessione, nel loro condizionamento causa-
le e nel loro significato. Non come fine, bensì come mezzo ha
dunque importanza la formazione di tipi ideali astratti. Ogni
attenta osservazione degli elementi concettuali della rappresen-
tazione storica mostra però che lo storico, nell’intraprendere il
tentativo di determinare, al di là della mera constatazione di
connessioni concrete, il significato culturale di un processo indi-
viduale per quanto semplice possa essere, e quindi di « caratte-
rizzarlo », lavora e deve lavorare con concetti che possono ve-
nir definiti in maniera precisa e univoca soltanto sotto forma di
tipi ideali. Oppure concetti come « individualismo », « imperia-
604 MAX WEBER
lismo », « feudalesimo », « mercantilismo » ecc. sono «conven-
zionali », e le numerose formazioni concettuali del medesimo
tipo, con le quali cerchiamo di concepire e di intendere la
realtà, possono venir determinate nel loro contenuto mediante
una descrizione « priva di presupposti» di qualsiasi concreto
fenomeno, oppure mediante la congiunzione in forma astratta
di ciò che è comune a più fenomeni concreti? La lingua che
lo storico parla contiene in centinaia di parole questi quadri
concettuali indeterminati, elaborati per un bisogno di espressio-
ne che inconsapevolmente si fa valere, e il cui significato può
dapprima soltanto essere avvertito intuitivamente, non già con-
cepito con chiarezza. In infiniti casi, particolarmente nel cam-
po della storia politica descrittiva, l’indeterminatezza del loro
contenuto non è certo di alcun pregiudizio alla chiarezza della
rappresentazione. Basta infatti che nel caso singolo sia sentito
ciò che è in mente allo storico, oppure ci si può accontentare
che una particolare accezione del contenuto concettuale sia pre-
supposta con un relativo significato per il caso singolo. Ma”
quanto più precisamente si deve recare alla coscienza la signifi-
catività di un fenomeno culturale, tanto più inevitabile diventa
il bisogno di lavorare con concetti chiari, determinati non solo
in maniera particolare ma anche in tutti i loro aspetti. Una
« definizione » di quelle sintesi formulate dal pensiero storico,
secondo lo schema gezus proximum-differentia specifica, è natu-
ralmente un’assurdità; se ne faccia pure la prova. Una forma
siffatta di determinazione del significato verbale è possibile so-
lo sul terreno di discipline dogmatiche, che lavorano con sillogi-
smi. Non può esservi — o può esservi soltanto in apparenza —
una semplice «risoluzione descrittiva» di quei concetti nei
loro elementi, poiché ciò dipende proprio dalla determinazio-
ne di quali elementi debbano essere considerati come essenzia-
li. Se si deve tentare una definizione genetica del contenuto
concettuale, rimane soltanto la forma del tipo ideale nel senso
sopra fissato. Esso costituisce un quadro concettuale, il quale
non è la realtà storica, e neppure l’« autentica » realtà, e tanto
meno può servire come uno schema nel quale la realtà debba
essere inserita come esempio; esso ha il significato di un puro
concetto-limite ideale, a cui la realtà deve essere misurata e
comparata, al fine di illustrare determinati elementi significati
MAX WEBER 605
vi del suo contenuto empirico. Questi concetti sono formazioni
nelle quali costruiamo, impiegando Ja categoria di possibilità
oggettiva, connessioni che la nostra fantasia, orientata e discipli-
nata in vista della realtà, giudica adeguate.
Il tipo ideale rappresenta, particolarmente in questa funzio-
ne, il tentativo di concepire gli individui storici o i loro elemen-
ti particolari in virtù di concetti genetici. Si prendano per
esempio i concetti di «chiesa» e di «setta». Essi si lasciano
risolvere, in via puramente classificatoria, in complessi di carat-
teristiche in cui non soltanto il confine tra l’uno e l’altro, ma
anche il contenuto concettuale deve rimanere sempre fluido. Se
però voglio concepire il concetto di «setta» geneticamente,
cioè in riferimento a certi importanti significati culturali che
lo «spirito di setta» ha avuto per la cultura moderna, allora
determinate caratteristiche dell’uno e dell’altro diventano essen-
ziali, in quanto stanno in relazione causale adeguata con quegli
effetti. I concetti diventano però al tempo stesso tipico-ideali,
cioè essi non si presentano mai, o si presentano soltanto in
maniera sporadica, nella loro piena purezza concettuale. Qui
come ovunque ogni concetto non puramente classificatorio al-
lontana dalla realtà. Ma la natura discorsiva del nostro conosce-
re, vale a dire la circostanza che noi possiamo cogliere la real-
tà soltanto mediante una catena di mutamenti di rappresenta-
zione, postula una siffatta stenografia di concetti. La nostra
fantasia può certo fare sovente a meno di una espressa formula-
zione concettuale come mezzo di ricerca — ma per la rappre-
sentazione, se essa vuol essere precisa, l’impiego di tali concetti è
in innumerevoli casi del tutto indispensabile sul terreno dell’ana-
lisi culturale. Chi la respinga in linea di principio deve limitar-
si all’aspetto formale, per esempio a quello storico-giuridico,
dei fenomeni culturali. Il cosmo delle norme giuridiche può
naturalmente venire al tempo stesso determinato in forma con-
cettualmente chiara e valere (in senso giuridico1) per la realtà sto-
rica. Ma è del loro significato pratico che deve occuparsi il
lavoro della scienza sociale nel nostro senso. Questo significato
può però spesso essere reso consapevole in maniera precisa sol-
tanto mediante il riferimento del dato empirico a un caso-limi-
te ideale. Se lo storico (nel senso più ampio della parola) ri-
fiuta un tentativo di formulazione di un tipo ideale siffatto
606 MAX WEBER
come « costruzione teorica », cioè come qualcosa di non adatto
o di non indispensabile per il suo concreto scopo conoscitivo,
la conseguenza è di regola che egli impiega, consapevolmente o
meno, altri concetti analoghi sezz4 una formulazione linguisti
ca e un'elaborazione logica, oppure che egli rimane attaccato al
campo di ciò che è « sentito » indeterminatamente.
Nulla è tuttavia più pericoloso di una mescolarza di teoria
e storia, derivante da pregiudizi naturalistici, sia che si cre-
da di aver fissato in quei quadri concettuali di carattere teorico
il contenuto « proprio », l’«essenza» della realtà storica, sia
che li si impieghi invece come un letto di Procuste nel quale
debba essere costretta la storia, sia che si ipostatizzino infine le
«idee » come una realtà « vera e propria » che sussista dietro al
fluire dei fenomeni, cioè come « forze » reali che si manifesta-
no nella storia.
Soprattutto quest’ultimo pericolo incombe su di noi quando
siamo abituati a comprendere tra le «idee » di un'epoca anche,
e anzi in prima linea, i principi o gli ideali che hanzo domina-
to le masse, oppure una parte storicamente considerevole degli
uomini di quell’epoca, e che perciò sono stati significativi come
componenti della sua configurazione culturale. A ciò si devono
ancora aggiungere due considerazioni — in primo luogo la
circostanza che tra l’«idea » nel senso di una direzione concet-
tuale, pratica o teorica, e «idea » nel senso di un tipo ideale
di un’epoca da noi costruito come strumento concettuale sussi-
stono di regola determinate relazioni. Un tipo ideale di deter-
minate situazioni sociali, che si lascia astrarre da certi caratteri-
stici fenomeni sociali di un’epoca, può — e questo è infatti
sovente il caso — avere ispirato l’uomo del tempo come ideale
da conseguire praticamente oppure come massima per la regola-
mentazione di determinate relazioni sociali. Ciò vale già per
l’«idea» della « garanzia del sostentamento » e di varie teorie
canonistiche, specialmente di san Tommaso, in rapporto al con-
cetto tipico-ideale oggi impiegato dell’«economia cittadina »
del Medioevo, a cui abbiamo accennato sopra. E ciò vale mag-
giormente per il famigerato « concetto fondamentale » dell’eco-
nomia politica, vale a dire per il concetto di « valore » economi-
co. Dalla Scolastica fino alla teoria marxistica il principio di
qualcosa che sia « oggettivamente » valido, e che quindi deve
MAX WEBER 607
essere, si è qui amalgamato con un’astrazione derivata dal cor-
so empirico della formazione del prezzo. E quel principio, che
il «valore» dei beni debba essere regolato secondo determinati
princìpi « di diritto naturale », ha avuto e ha tuttora un'immen-
sa importanza per lo sviluppo della cultura — non solo del
Medioevo. Esso ha intensamente influenzato soprattutto la for-
mazione empirica dei prezzi. Ciò che però viene, e può venir
pensato sotto quel concetto teorico, può essere chiarito in manie-
ra realmente univoca soltarzto in virtù di una precisa elaborazio-
ne concettuale, e cioè di un’elaborazione tipico-ideale — e a ciò
dovrebbe riflettere chi motteggia sulle « robinsonate » della teo-
ria astratta, almeno finché non abbia da porre al loro posto
qualcosa di meglio, e cioè di più chiaro.
Il rapporto causale tra l’idea storicamente determinabile,
che governa gli uomini, e quegli elementi della realtà storica
dai quali è possibile astrarre il tipo ideale ad essa corrisponden-
te, può naturalmente configurarsi in maniera assai diversa. In
linea di principio occorre però stabilire soltanto che si tratta di
due cose ovviamente eterogenee. Ma a ciò si deve inoltre ag-
giungere che noi possiamo comprendere con precisione concet-
tuale quelle «idee » medesime che governano gli uomini di
un’epoca, e che operano in maniera diffusa tra di loro — dal
momento che si tratta qui di una più complicata formazione
concettuale — di nuovo soltanto zella forma di un tipo ideale;
e ciò perché vivono empiricamente nella testa di una indetermi-
nata e mutevole molteplicità di individui, assumendo in essi le
più diverse gradazioni di forma e di contenuto, di chiarezza e
di senso. Per esempio, quegli elementi della vita spirituale de-
gli individui singoli in una determinata epoca del Medioevo,
che di solito noi designamo come «il Cristianesimo» degli
individui in questione, costituirebbe naturalmente — rel caso
che si potesse rappresentarli in maniera compiuta — un caos di
connessioni concettuali e affettive di ogni tipo, infinitamente
differenziate e assai contraddittorie, sebbene la Chiesa medievale
abbia certo realizzato l’unità della fede e dei costumi in misura
particolarmente elevata. Se si propone la questione di che cosa
sia stato allora in questo caos i « Cristianesimo » medievale,
con il quale si deve nondimeno operare continuamente come se
608 MAX WEBER
fosse un concetto ben determinato, e in che cosa consista l’ele-
mento «cristiano » che noi troviamo nelle istituzioni del Me-
dioevo, risulta subito che anche qui viene, in ogni singolo caso,
impiegata una pura formazione concettuale da noi creata. Esso
è una combinazione di proposizioni di fede, di norme giuridico-
ecclesiastiche e di norme etiche, di massime della condotta del-
la vita e di innumerevoli connessioni particolari, che noi unia-
mo in un’«idea»: è una sintesi alla quale non possiamo perve-
nire in maniera non contraddittoria senza l’impiego di concetti
tipico-ideali.
La struttura logica dei sistemi concettuali in cui rappresen-
tiamo tali «idee », e il loro rapporto con ciò che ci è immedia-
tamente dato nella realtà empirica, sono naturalmente assai
diversi. La questione si presenta ancora in forma relativamente
semplice nei casi in cui vi siano uno oppure pochi princìpi
teorici direttivi che si possono facilmente esprimere in formule
— per esempio la fede nella predestinazione di Calvino — o
postulati etici chiaramente formulabili, i quali abbiano domina-
to gli uomini e prodotto effetti storici, in maniera da poter
articolare l’«idea » in una gerarchia di posizioni che si svilup-
pano logicamente in base a quei principi direttivi. Già allora si
scorda però con troppa facilità che, per quanto potente sia stata
nella storia l’importanza anche della forza coercitiva puramen-
te Zogica del pensiero — il marxismo ne è un esempio eminente
— tuttavia il processo storico-empirico nella testa degli uomini
deve di regola venir inteso come condizionato psicologicamente
e non logicamente. E il carattere tipico-ideale di siffatte sintesi
di idee storicamente operanti risulta in maniera ancor più di-
stinta allorché quei fondamentali principi direttivi e quei postu-
lati non vivono, oppure non vivono più, nella testa degli indivi-
dui dominati da posizioni che ne derivano logicamente, oppure
per associazione, in quanto l’«idea » che in origine stava alla
loro base è scomparsa, oppure ha trovato una diffusione solo
nelle proprie conseguenze. In maniera ancor più decisiva il
carattere della sintesi emerge come il carattere di un’« idea »
che noi creiamo quando quei fondamentali princìpi direttivi
fin dall’inizio sono pervenuti solo in forma incompiuta, o non
sono pervenuti, a coscienza distinta, o per lo meno non hanno
assunto la forma di chiare connessioni concettuali. Quando per-
MAX WEBER 609
ciò adottiamo questo procedimento, come accade e deve accade-
re molto sovente, ci troviamo con questa «idea» — sia essa
l’idea del «liberalismo» di un determinato periodo o quella
del « metodismo » o quella di qualsiasi specie di « socialismo »
concettualmente non sviluppato — di fronte a un puro tipo
ideale, che è analogo alle sintesi dei « princìpi » di un’epoca
economica da cui abbiamo preso le mosse. Quanto più ampie
sono le connessioni che si devono rappresentare, e quanto più
molteplice è stato il loro significato culturale, tanto più la loro
rappresentazione sistematica in un complesso concettuale si ac-
costa al carattere del tipo ideale, e tazto meno è possibile
operare con uno solo di tali concetti; e tanto più naturali e
inevitabili diventano quindi i tentativi, sempre ripetuti, di reca-
re a coscienza sempre nuovi aspetti significativi mediante l’ela-
borazione di concetti tipico-ideali. Tutte le formulazioni di
un’«essenza» del Cristianesimo, per esempio, sono tipi ideali
che hanno sempre, e necessariamente, soltanto una validità mol-
to relativa e problematica se pretendono di essere considerate
come una rappresentazione storica di ciò che esiste empirica-
mente; e sono invece di alto valore euristico per la ricerca e di
alto valore sistematico per tale rappresentazione se vengono
impiegate semplicemente come mezzi concettuali per la compa-
razione e per la misurazione della realtà in riferimento ad esse.
In questa funzione esse risultano addirittura indispensabili. A
tali formulazioni tipico-ideali si aggiunge però di regola ancora
un altro elemento, che ne complica ulteriormente il significato.
Esse vogliono di solito essere, oppure sono inconsapevolmente,
tipi ideali non soltanto in senso /ogico, ma anche in senso
pratico: sono cioè modelli che — per attenerci all'esempio —
contengono ciò che il Cristianesimo deve essere secondo la con-
vinzione dell’autore, cioè che in esso è per lui «essenziale »,
perché fornito di valore permanente. In questo caso, però, sia
esso consapevole o — più spesso — inconsapevole, siffatte for-
mulazioni contengono degli ideali 4i quali l’autore riferisce
valutativamente il Cristianesimo: sono compiti e fini verso cui
egli orienta la sua «idea » del Cristianesimo, e che naturalmen-
te possono essere assai diversi, e senza dubbio sempre lo saran-
no, dai valori ai quali gli uomini del tempo, per esempio i
39. STORICISMO TEDESCO.
610 MAX WEBER
Cristiani primitivi, riferivano il Cristianesimo ‘. In questo signi-
ficato le «idee» non sono naturalmente più puri strumenti
logici, non sono più concetti a cui la realtà viene misurata
comparativamente, bensì sono ideali in base ai quali essa è
giudicata valutativamente. Nor si tratta più del puro processo
teorico di riferimento di ciò che è empirico ai valori, ma di
giudizi di valore che vengono accolti nel « concetto » del Cri-
stianesimo. Poiché qui il tipo ideale pretende una validità em-
pirica, esso penetra nella regione dell’interpretazione valuta-
tiva del Cristianesimo; il terreno della scienza empirica è abban-
donato, e di fronte a noi sta una professione personale, 707
un'elaborazione concettuale di carattere tipico-ideale. Per quan-
to questa distinzione sia una distinzione di principio, tuttavia
la mescolanza di quei due significati dell’« idea », così fonda-
mentalmente diversi, si presenta molto spesso nel corso del
lavoro storico. Essa è sempre prossima allorché lo storico comin-
cia a sviluppare la sua «concezione » di una personalità o di
un’epoca. In antitesi ai criteri etici costanti che uno Schlosser®
impiegava in conformità allo spirito del razionalismo, lo stori-
co moderno educato relativisticamente, che vuole da un lato
«intendere in base a se stessa » e dall’altro tuttavia anche « giu-
dicare» l’epoca di cui parla, sente il bisogno di assumere i
criteri del proprio giudizio « dalla materia», cioè di lasciar
scaturire l’«idea » nel senso di ideale dall’«idea » nel senso di
«tipo ideale ». E l’attrattiva estetica di un procedimento del
genere lo trascina continuamente a scordare la linea in cui
l’una e l’altra si distaccano — una deficienza che da un lato
non può fare a meno del giudizio valutativo, e dall'altro porta
a respingere da sé la responsabilità dei propri giudizi. Di fron-
te a ciò è tuttavia un dovere elementare dell’autocontrollo scien-
4. Weber si riferisce qui alle discussioni sull’« essenza » del Cristianesimo, parti-
colarmente vive nella cultura filosofico-religiosa tedesca dci primi anni del secolo —
a partire dalla pubblicazione di Das Wesen des Christentums di Adolf von Harnack
(1900).
5. Friedrich Christoph Schlossser (1776-1861), storico tedesco, autore della Wele-
geschichte in zusammenhingender Darstellung (1816-24), della Geschichte des 18.
Jahrhunderts (1823), poi continuata col nuovo titolo di Geschichte des 18. Jahr
hunderts und des 19. bis zum Sturz des franzòsischen Kaiserreichs mit besonde-
rer Riicksicht auf geistige Bildung (1836-49), di una Weltgeschichte fiir das deutsche
Volk (1844-56) di carattere divulgativo e di varic altre opere.
MAX WEBER 6II
tifico, e il solo mezzo per prevenire gli inganni, distinguere
con precisione la relazione logica comparativa della realtà con
tipi ideali in senso logico dalla valutazione della realtà in base
a ideali. Un «tipo ideale » nel nostro senso — si può ripeterlo
ancora una volta — è completamente indifferente nei confronti
del giudizio valutativo, e non ha nulla a che fare con una
« perfezione » che non sia puramente logica. Vi sono tipi ideali
tanto di bordelli quanto di religioni; e vi sono tipi ideali di
bordelli che possono sembrare tecnicamente « conformi allo sco-
po» dal punto di vista dell’odierna etica di polizia, come ve
ne sono di quelli per cui vale proprio l'opposto.
Deve qui necessariamente venir messa in disparte la discus-
sione approfondita del caso che si presenta di gran lunga come
il più complicato e interessante — la questione della struttura
logica del concetto di stato. Si deve solamente osservare che,
chiedendoci che cosa corrisponda nella realtà empirica all’idea
dello « stato », noi troviamo un’infinità di comportamenti uma-
ni attivi e passivi, in forma diffusa e discreta, di relazioni
regolate di fatto e giuridicamente che presentano un carattere
in parte singolare e in parte regolarmente ricorrente, tenute
insieme da un'idea, cioè dalla fede in norme valide di fatto, o
che devono valere, e in rapporti di potere di uomini sugli
uomini. Questa fede è in parte un possesso spirituale concettual-
mente elaborato, in parte è invece oscuramente sentita, in parte
ancora passivamente accolta e configurata nel modo più diverso
nella testa di individui i quali, se concepissero l’«idea » come
tale in maniera realmente chiara, non avrebbero bisogno della
«dottrina generale dello stato» a cui tale idea intende dare
origine. Il concetto scientifico di stato, in qualsiasi modo venga
formulato, è naturalmente una sintesi che z0i assumiamo per
determinati scopi conoscitivi. Ma d'altra parte esso è pure
astratto dalle non chiare sintesi che sono state ritrovate nella
testa degli uomini storici. Però il contenuto concreto che lo
« stato » storico assume in quelle sintesi dei contemporanei può
venire illustrato soltanto se ci orientiamo in base a concetti
tipico-ideali. Inoltre non c’è il minimo dubbio che il modo in
cui quelle sintesi sono effettuate, in forma sempre logicamente
incompiuta, dai contemporanei, cioè il modo in cui essi si
fanno le loro «idee » dello stato — per esempio la metafisica
612 MAX WEBER
«organica » dello stato, sorta in Germania, in antitesi alla con-
cezione « commerciale » americana — è di importanza eminen-
temente pratica; cioè anche qui, in altri termini, l’idea pratica
che si crede debba valere o valga e il zipo ideale teorico,
costruito a scopi conoscitivi, si accostano tra loro e mostrano la
continua tendenza a passare l’uno nell’altro.
Noi abbiamo sopra considerato di proposito il « tipo ideale »
essenzialmente — quand’anche non esclusivamente — come
una costruzione concettuale per la misurazione e la caratterizza-
zione sistematica di connessioni individuali, cioè significative
nella loro singolarità, come per esempio il Cristianesimo, il
capitalismo ecc. Ciò è avvenuto allo scopo di mettere da parte
la banale nozione che nel campo dei fenomeni culturali cid che
è astrattamente zipico sia identico con ciò che è astrattamente
conforme al genere. Questo non è il caso. Senza analizzare qui
in linea di principio il concetto di « tipico», più volte discusso
e assai screditato per l’abuso fattone, noi possiamo assumere dal
nostro precedente esame che l’elaborazione di concetti di tipo,
nel senso di un’eliminazione di ciò che è « accidentale », trova
la propria sede anche e precisamente in rapporto agli individui
storici. Naturalmente anche quei concetti di genere, che trovia-
mo a ogni passo come elementi di esposizioni storiche e di
concreti concetti storici, possono però venir formati come tipi
ideali mediante un procedimento di astrazione e di accentuazio-
ne di determinati elementi ad essi concettualmente essenziali.
Questo è appunto un caso di applicazione dei concetti tipico-
ideali particolarmente frequente e importante dal punto di vista
pratico; e ogni tipo ideale individuale si costruisce in base a
clementi concettuali che sono generici, e che sono stati formati
come tipi ideali. Anche in questo caso emerge però la specifica
funzione logica dei concetti tipico-ideali. Un semplice concetto
di genere, nel senso di un complesso di caratteristiche comuni a
più fenomeni, è per esempio il concetto di «scambio» — fin-
ché prescindo dal significato degli elementi concettuali e analiz-
zo semplicemente l’uso linguistico quotidiano. Se però pongo
questo concetto in relazione, per esempio, con la «legge di
utilità marginale » ed elaboro il concetto di « scambio economi-
co » come concetto di un processo economicamente razionale,
MAX WEBER 613
allora questo contiene in sé, al pari di ogni concetto logicamen-
te sviluppato in maniera compiuta, un giudizio sulle condizioni
«tipiche » dello scambio. Esso assume carattere genetico e di-
venta perciò al tempo stesso tipico-ideale in senso logico, cioè si
allontana dalla realtà empirica, la quale può solo essere compa-
rata con esso e ad esso riferita. Una cosa analoga vale per tutti
i cosiddetti « concetti fondamentali » dell'economia politica: es-
si possono venir sviluppati in forma genetica soltanto come
tipi ideali. L’antitesi tra semplici concetti di genere, i quali
riuniscono ciò che è comune a certi fenomeni empirici, e tipi
ideali di carattere generico — come per esempio nel caso di un
concetto tipico-ideale dell’« essenza » dell’artigianato — è natu-
ralmente fluida nel caso singolo. Ma nessun concetto di genere
ha in quanto tale carattere «tipico», e non c’è nessun tipo
« di media» che sia puramente conforme a un genere. Ovun-
que parliamo, per esempio in statistica, di grandezze « tipi-
che », si presenta qualcosa di più che una mera media. Quanto
più ci troviamo dinanzi a una semplice classificazione di proces-
si che si presentano nella realtà come fenomeni di massa, tanto
più si tratta di concetti di genere; quanto più invece vengono
formate concettualmente complicate connessioni storiche, prese
in quei loro elementi su cui poggia il loro specifico significato
culturale, tanto più il concetto — o il sistema concettuale —
assumerà il carattere del tipo ideale. Poiché scopo dell’elabora-
zione di concetti tipico-ideali è sempre quello di rendere esplici-
to con precisione 207 già ciò che è conforme al genere, bensì,
al contrario, il carattere specifico di certi fenomeni culturali.
Che tipi ideali, anche di carattere generico, possano essere e
siano impiegati, presenta un interesse metodologico soltanto in
connessione con un altro fatto.
Finora abbiamo imparato a conoscere i tipi ideali essenzial-
mente soltanto come concetti astratti di connessioni che, perma-
nendo nel flusso dell’accadere, sono da noi rappresentati come
individui storici, i cui si compiono determinate linee di svilup-
po. Ora si presenta però una complicazione, la quale reintrodu-
ce in maniera molto facile, con l’aiuto del concetto di «tipi-
co », il pregiudizio naturalistico che fine delle scienze sociali
debba essere la riduzione della realtà a «leggi». Anche le
linee di sviluppo possono venir costruite come tipi ideali, e
614 MAX WEBER
queste costruzioni possono avere un valore euristico assai consi-
derevole. Ma così sorge, in misura particolarmente forte, il
pericolo che vengano tra loro confusi il tipo ideale e la realtà.
Si può per esempio pervenire al risultato teorico che in una
società organizzata in forma rigorosamente «artigianale » la
sola fonte di accumulazione del capitale sia la rendita fondia-
ria. Su tale base si può forse poi costruire — poiché non si deve
qui indagare la correttezza della costruzione — un quadro idea-
le della trasformazione dell'economia a carattere artigianale in
un'economia capitalistica, condizionato da determinati fattori
semplici — terreno limitato, popolazione crescente, afflusso di
metalli preziosi, razionalizzazione della condotta della vita. Se
il corso storico-empirico dello sviluppo sia stato di fatto quello
costruito può venir indagato soltanto con l’aiuto di questa co-
struzione in quanto mezzo euristico, mediante la comparazione
tra tipo ideale e «fatti». Se il tipo ideale è « correttamente »
costruito, e tuttavia il corso oggettivo zor corrisponde al corso
tipico-ideale, si verrebbe a conseguire la prova che la società
medievale 07 è stata, in determinate relazioni, una società a
carattere rigorosamente « artigianale ». E quando il tipo ideale
è stato costruito in maniera «ideale » euristica — se e come
ciò possa avvenire nel nostro caso, rimane qui del tutto fuori
della nostra considerazione — allora esso orienterà nel medesi-
mo tempo la ricerca sulla via che conduce a una più precisa
penetrazione di quegli elementi della società medievale i quali
non presentano carattere artigianale, studiati nel loro specifico
carattere e nel loro significato storico. Esso ha attuato il suo
scopo logico, quando reca a questo risultato, proprio in quanto
ha manifestato la sua propria irrealtà. Esso costituiva, in tale
caso, la prova di un'ipotesi. Il procedimento non è esposto a
nessuna riserva metodologica fin quando si tenga presente che
la costruzione tipico-ideale di uno sviluppo e la storia sono due
cose da tenere rigorosamente distinte, e che la costruzione è
stata qui semplicemente il mezzo per compiere in maniera
sistematica l'imputazione valida di un processo storico alle sue
cause reali, entro l'ambito di quelle possibili in conformità allo
stato della nostra conoscenza.
Mantenere rigorosamente in piedi questa distinzione è reso
sovente molto difficile — secondo quanto ci dice l’esperienza —
MAX WEBER 615
dalla seguente circostanza. Nell’interesse della presentazio-
ne in forma intuitiva del tipo ideale o dello sviluppo tipico-idea-
le si cercherà di #lustrarlo mediante materiale intuitivo tratto
dalla realtà storico-empirica. Il pericolo di questo procedimen-
to, che pure è in sé del tutto legittimo, consiste nel fatto che
il sapere storico appare qui come servitore della teoria, anziché
viceversa. Il teorico si trova di fronte alla tentazione di conside-
rare questo rapporto come normale, oppure — il che è peggio
— di accostare teoria e storia, e addirittura di scambiarle tra
loro. Questo caso si presenta in misura ancor più accentuata
allorché la costruzione ideale di uno sviluppo è effettuata in
maniera da inserirla, con la classificazione concettuale di tipi
ideali di determinate formazioni culturali (per esempio delle
forme di impresa industriale muovendo dall’« economia dome-
stica chiusa », oppure dei concetti religiosi cominciando dalle
« divinità dell’attimo »), entro una classificazione genetica. La
serie dei tipi che risulta in base alle caratteristiche concettuali
prescelte appare quindi come una loro successione storica, legal-
mente necessaria. L'ordine logico dei concetti da un lato, e
dall’altro l'ordinamento empirico di ciò che viene concepito
nello spazio, nel tempo e nella connessione causale, sembrano
così legati tra loro che quasi irresistibile diventa la tentazio-
ne di fare violenza alla realtà, per confermare nella realtà la
validità effettiva della costruzione.
Di proposito si è evitato di condurre la dimostrazione in
riferimento a quello che per noi è di gran lunga il più impor-
tante caso di costruzioni tipico-ideali — cioè in riferimento a
Marx. Ciò è avvenuto per non complicare ancora l’esposizione
tirando dentro anche le interpretazioni di Marx, e per non
anticipare le discussioni con cui la nostra rivista farà di regola
oggetto di analisi critica la letteratura accumulatasi sul — oppu-
re in rapporto al — grande pensatore. Qui ci si può pertanto
limitare a constatare che tutte le «leggi» e le costruzioni di
sviluppo specificamente marxistiche — in quanto sono teorica-
mente prive di errore — hanno naturalmente carattere tipico-
ideale. Chiunque abbia lavorato con concetti marxistici conosce
l’eminente, e anzi singolare significato euristico di questi tipi
ideali, quando li si impieghi per comparare con essi la realtà, e
conosce al tempo stesso la loro pericolosità quando si voglia
616 MAX WEBER
presentarli come validi empiricamente, oppure come «forze
operanti », «tendenze » ecc. reali (cioè, in verità, metafisiche).
Concetti di genere; tipi ideali; concetti di genere tipico-idea-
li; idee nel senso di combinazioni concettuali empiricamente
operanti negli uomini storici; tipi ideali di queste idee; ideali
che dominano gli uomini storici; tipi ideali di questi ideali;
ideali a cui lo storico riferisce la storia; costruzioni zeoriche
effettuate mediante l’impiego illustrativo del dato empirico;
indagine storica condotta mediante l’impiego di concetti teori-
ci come casi-limite ideali; e inoltre ancora le diverse complica-
zioni possibili a cui si è solo potuto accennare — sono tutte
formazioni concettuali, il cui rapporto con la realtà empirica
del dato immediato resta problematico in ogni caso particolare.
Questa elencazione mostra già da sola l’intrico senza fine dei
problemi metodico-concettuali, che rimangono sempre in vita
nel campo delle scienze della cultura. E noi abbiamo dovuto
astenerci assolutamente dall’esaminare le questioni metodologi-
che pratiche connesse ai problemi che si è potuto soltanto indi-
care, e dal discutere in maniera approfondita le relazioni della
conoscenza tipico-ideale con la conoscenza « legale », dei concet-
ti tipico-ideali con i concetti collettivi, e così via.
Lo storico persevererà tuttora, dopo queste polemiche, nel-
l’affermare che la prevalenza della forma tipico-ideale di elabo-
razione concettuale e di costruzione è un sintomo specifico
della giovinezza di una disciplina. E in questo gli si deve in
un certo senso dar ragione, ma con conseguenze diverse da
quelle che egli vorrebbe trarne. Prendiamo un paio di esempi
da altre discipline. È certo vero che lo scolaro infastidito, al
pari del filologo primitivo, concepisce anzitutto una lingua
«organicamente », cioè come una totalità sovra-empirica retta
da norme, ma concepisce il compito della scienza come la
determinazione di ciò che — in quanto regola linguistica —
deve valere. Elaborare logicamente la «lingua scritta », come
ha fatto ad esempio la Crusca, ridurne il contenuto a regole, è
normalmente il primo compito che una « filologia » si propone.
E quando invece oggi un insigne filologo proclama oggetto
della filologia il « modo di parlare di ogni individuo », la deter-
minazione di un programma siffatto è possibile solo in quanto
MAX WEBER 617
nella lingua scritta ci si trova dinanzi a un tipo ideale relativa-
mente stabile, con cui può operare (almeno tacitamente) l’anali-
si dell’infinita molteplicità del modo di parlare, che altrimenti
sarebbe del tutto priva di orientamento e di approdo. Non
altrimenti le costruzioni delle teorie dello stato a carattere gius-
naturalistico o organico, oppure — per rammentarci di un
ideale nel nostro senso — la teoria dello stato antico formu-
lata da Benjamin Constant‘, funzionavano in certa misura co-
me porti di rifugio, finché non si è imparato a orientarci
nell’immenso mare dei fatti empirici. La maturazione di una
scienza comporta infatti sempre il superamento del tipo ideale,
nella misura in cui esso viene concepito come empiricamente
valido oppure come concetto di genere. E perciò, per esempio,
l’impiego dell’acuta costruzione di Constant è ancor oggi del
tutto legittimo per l’illustrazione di determinati aspetti e di
caratteristiche storiche peculiari dell’antica vita statale, se si
tiene fermo con cura il suo carattere tipico-ideale. Non solo,
ma soprattutto vi sono scienze alle quali è assegnata un’eterna
giovinezza; e queste sono tutte le discipline storiche, tutte quel-
le cioè a cui il fluire sempre progrediente della cultura propone
di continuo nuove posizioni problematiche. È connesso all’es-
senza del loro compito che tuzte le costruzioni tipico-ideali
debbano tramontare, ma che al tempo stesso altre nuove siano
sempre indispensabili.
Di continuo si ripetono i tentativi di determinare il senso
« proprio» o «vero » dei concetti storici, e mai essi giungono
alla fine. Di conseguenza le sintesi, con cui la storia di conti-
nuo lavora, rimangono regolarmente nella forma di concetti
solo relativamente determinati, oppure, allorché si deve conse-
guire a ogni costo l’univocità del contenuto concettuale, il con-
cetto diventa un tipo ideale astratto e si rivela come un punto
di vista teorico, quindi « unilaterale », dal quale la realtà può
6. Benjamin-Henri Constant de Rebecque (1767-1830), uomo politico francese del
periodo napoleonico e dell'età della Restaurazione, esiliato da Napoleone, in seguito
uno dei maggiori esponenti dell’opposizione liberale alla monarchia borbonica,
autore del Cours de politique constitutionelle (1818), del famoso discorso De la liber:é
des anciens comparée è celle des modernes (1819), dell’opera De la religion, considéré
dans sa source, ses formes et ses dévelopments (1824-27), dei MÉlanges de politique et
de litiérature (1829) e di vari altri scritti, tra cui il volume postumo Du polytAdisme
romain (1833).
618 MAX WEBER
essere illuminata e al quale essa può venir riferita — ma che si
mostra evidentemente inappropriato come schema in cui essa
potrebbe venir inserita senza residuo. Poiché nessuno di quei
sistemi concettuali, di cui non possiamo fare a meno per la
penetrazione degli elementi di volta in volta significativi della
realtà, può tuttavia esaurirne l’infinita ricchezza. Nessuno è
qualcosa di diverso da un tentativo di recare ordine, sulla base
della situazione del nostro sapere e delle formazioni concettuali
a nostra disposizione, nel caos di quei fatti che abbiamo com-
preso nell’ambito del nostro inzeresse. L'apparato concettuale
che il passato ha sviluppato mediante l'elaborazione, cioè piutto-
sto mediante la trasformazione concettuale della realtà imme-
diatamente data e il suo inserimento in quei concetti che corri-
spondevano alla situazione della sua conoscenza e alla direzio-
ne del suo interesse, sta in continua contrapposizione con la
nuova conoscenza che noi possiamo e vogliamo ottenere dalla
realtà. In questa lotta si compie il progresso delle scienze della
cultura. Il suo risultato è un continuo processo di trasformazio-
ne di quei concetti con cui cerchiamo di penetrare la realtà. La
storia delle scienze della vita sociale è e rimane caratterizzata
da un continuo alternarsi tra il tentativo di ordinare concettual-
mente i fatti mediante un’opera di elaborazione concettuale, la
risoluzione dei quadri concettuali così ottenuti mediante l’esten-
sione e l’approfondimento dell’orizzonte scientifico, e l’elabora-
zione di nuovi concetti sul fondamento così mutato. Non viene
qui affatto in luce l’erroneità del tentativo di formare siste-
mi di concetti 12 gezere — ogni scienza, anche la semplice
storia descrittiva, lavora con la provvista concettuale del suo
tempo — bensì la circostanza che nelle scienze della cultura
umana la formazione dei concetti dipende dalla posizione dei
problemi, e quest'ultima varia con il contenuto della cultura
stessa. Nelle scienze della cultura il rapporto tra il concetto e
il suo contenuto comporta la transitorietà di ogni sintesi siffat-
ta. I grandi tentativi di costruzione concettuale hanno di regola
avuto il loro valore, nel campo della nostra scienza, nel rivelare
le limitazioni di significato del punto di vista che sta alla loro
base. I più importanti progressi nel campo delle scienze sociali
sono, dal punto di vista oggettivo, connessi alla trasposizione
dei problemi pratici della cultura, e si presentano nella forma
MAX WEEER 619
di una critica dell’elaborazione concettuale. Sarà uno dei princi-
pali compiti della nostra rivista servire allo scopo di questa
critica, e perciò all'indagine dei princìpi della sintesi nel cam-
po della scienza sociale.
Traendo le conseguenze di quanto si è detto, noi pervenia-
mo a un punto in cui le nostre opinioni si discostano talvolta
da quelle di alcuni, anche eminenti, rappresentanti della scuola
storica, tra i cui discendenti tuttavia ci siamo annoverati. Essi
permangono sovente, in maniera espressa o tacita, nella convin-
zione che il fine ultimo, lo scopo di ogni scienza sia quello di
ordinare la propria materia in un sistema di concetti il cui
contenuto deve essere ottenuto mediante l'osservazione di rego-
larità empiriche, l’elaborazione di ipotesi e la loro verifica,
finché non sia sorta su tale base una scienza «compiuta» e
perciò deduttiva. In vista di questo fine il lavoro storico-indutti-
vo che si sta attualmente conducendo sarebbe un lavoro prelimi-
nare, condizionato dall’imperfezione della nostra disciplina:
nulla deve naturalmente apparire più sospetto, dal punto di
vista di questa forma di considerazione, della formazione e
dell’impiego di concetti precisi che vorrebbero anticipare prema-
turamente quel fine, proprio invece di un lontano futuro. Que-
sta concezione sarebbe in linea di principio incontestabile sul
terreno della dottrina antica e scolastica della conoscenza, a cui
sono ancora profondamente attaccati gli specialisti della scuola
storica: scopo dei concetti si presuppone essere la riproduzione
rappresentativa della realtà «oggettiva», e da ciò deriva la
continua insistenza sull’irrealtà di ogni concetto preciso. Chi
pensa però fino in fondo il principio fondamentale della moder-
na dottrina della conoscenza, richiamantesi a Kant, che i con-
cetti sono e possono essere solamente mezzi del pensiero foggia-
ti allo scopo di dominare spiritualmente il dato empirico, non
potrà ritenere la circostanza che i concetti genetici siano neces-
sariamente tipi ideali come un'obiezione valida contro la loro
elaborazione. Per lui il rapporto tra concetto e lavoro storico si
inverte: quel fine ultimo gli appare logicamente impossibile, e
i concetti si rivelano non già fire, bensì mezzo in vista della
conoscenza delle connessioni significative da puntì di vista indi-
viduali. Proprio in guanto i contenuti dei concetti storici sono
620 MAX WEBER
necessariamente mutevoli, questi debbono essere ogni volta for-
mulati in maniera precisa. Egli avanzerà soltanto l’esigenza
che nel loro impiego sia accuratamente tenuto fermo il loro
carattere di formazioni concettuali ideali, che cioè tipo ideale e
storia non vengano scambiati tra loro. Dal momento che non si
può considerare come fine ultimo quello di pervenire a concetti
storici realmente definitivi, per l’inevitabile mutamento delle
idee di valore direttive, egli riterrà che proprio in quanto con-
cetti precisi e univoci vengono formulati in riferimento al parti-
colare punto di vista, che ogni volta esplica una funzione diret-
tiva, sia data la possibilità di mantenere chiari nella coscienza
i limiti della loro validità,
Si affermerà ora — e noi l’abbiamo già ammesso — che una
concreta connessione storica può nel caso particolare venir illu-
strata intuitivamente nel suo corso, senza che sia di continuo
posta in relazione con concetti definiti. E di conseguenza si
reclamerà per lo storico della nostra disciplina che egli, al pari
di ciò che si è detto dello storico politico, parli la «lingua
della vita ». Certamente! Occorre solamente aggiungere che in
questo procedimento rimane necessariamente accidentale, in un
grado spesso molto elevato, se il punto di vista in base a cui il
processo considerato ottiene significato pervenga, o meno, a
chiara coscienza. Noi non ci troviamo in genere nella felice
situazione dello storico politico, per il quale i contenuti di
cultura, a cui egli riferisce la sua esposizione, sono di regola
univoci — 0 almeno così sembrano. Ogni rappresentazione che
sia solo intuitiva assume il carattere proprio di una rappresenta-
zione artistica: «ognuno vede ciò che reca in cuore». Giudizi
validi presuppongono sempre l’elaborazione logicz del dato intui-
tivo, cioè l'impiego di concetti; ed è certo possibile, e spesso
esteticamente soddisfacente, conservarli in petto, ma ciò minac-
cia di continuo il sicuro orientamento del lettore, sovente an-
che quello di chi scrive, per ciò che concerne il contenuto e la
portata dei suoi giudizi.
Estremamente pericolosa può però diventare l’omissione di
una precisa elaborazione concettuale per le discussioni pratiche
di politica economica e sociale. Quale confusione abbiano qui
prodotto per esempio l’impiego del termine « valore » — que-
MAX WEBER 621
sto figlio del dolore della nostra disciplina, al quale può appun-
to essere dato un senso univoco soltanto su base tipico-ideale
— oppure parole come « produttivo », « dal punto di vista eco-
nomico-politico » ecc., che non reggono a nessuna analisi con-
cettualmente chiara, è addirittura incredibile per lo spettatore
che stia al di fuori. E a recar danno sono qui prevalentemente i
concetti collettivi assunti dal linguaggio quotidiano. Si prenda,
per fornire un'illustrazione il più possibile accessibile anche a
chi non abbia competenza specifica, il concetto di « agricoltu-
ra», quale si presenta nell’espressione « interessi dell’agricoltu-
ra». Se assumiamo anzitutto gli « interessi dell’agricoltura » co-
me le rappresentazioni soggettive più o meno chiare, ed empiri-
camente determinabili, che i singoli operatori economici hanno
dei loro interessi, e prescindiamo quindi del tutto dagli infiniti
conflitti di interessi che qui sussistono tra allevatori di bestia-
me, ingrassatori di bestiame, coltivatori di grano, consumatori
di grano, distillatori di acquavite e così via, non ogni estraneo
ma certo almeno ogni specialista si renderà conto dell'enorme
groviglio di relazioni di valore, tra loro antagonistiche e con-
traddittorie, che è qui sotto oscuramente implicato. Noi voglia-
mo qui enumerarne solo alcune: interessi di agricoltori che
vogliono vendere il proprio podere, e che perciò sono interessa-
ti esclusivamente a un celere rialzo del prezzo del terreno;
l'interesse contrapposto di coloro che intendono comperare, o
accrescersi, o prendere in affitto; l'interesse di coloro che, per
motivi di vantaggio sociale, desiderano conservare un determi-
nato podere per i propri successori e sono quindi interessati
alla stabilità della proprietà terriera; l'interesse contrapposto di
coloro che desiderano, per sé e per i propri figli, un movimen-
to del terreno in direzione di un padrone migliore oppure — il
che non è senz'altro identico — di un acquirente fornito di
disponibilità di capitali; l'interesse puramente economico dei
« padroni più capaci», nel senso dell'economia privata, alla li-
bertà di movimento economico; l'interesse antagonistico di de-
terminati strati dominanti alla conservazione della tradizionale
posizione sociale ed economica del proprio «ceto», e quindi
della propria discendenza; l’interesse sociale degli strati di agri-
coltori 207 dominanti al declino di quegli strati superiori, che
opprimono la loro posizione; il loro interesse, che talvolta risul-
622 MAX WEBER
ta in collisione col precedente, di possedere in quegli strati una
guida politica per la protezione dei propri interessi di guada-
gno. E l’elenco potrebbe ancora essere accresciuto a lungo,
senza trovare una fine, per quanto si proceda in maniera som-
maria e imprecisa. Noi trascuriamo il fatto che agli interessi
più «egoistici» di questo tipo possono mescolarsi o unirsi i
più diversi valori ideali, e che tali valori possono ostacolarli o
deviarli, per tenere soprattutto presente che, quando parliamo
di «interessi dell'agricoltura», pensiamo di regola z0n sol-
tanto a quei valori materiali e ideali a cui gli agricoltori stessi
riferiscono i propri «interessi», bensì anche a quelle idee di
valore, in parte completamente eterogenee, a cui noi possiamo
riferire l'agricoltura: per esempio interessi produttivi, deri-
vanti dall’interesse in una nutrizione più a buon mercato della
popolazione e dall’interesse, che non sempre coincide con quel-
lo, in una nutrizione qualitativamente migliore, a cui possono
contrapporsi in varia maniera gli interessi della città e della
campagna — mentre non c’è alcuna garanzia che l’interesse
della generazione presente sia identico con il probabile inte-
resse di quelle future; oppure interessi demografici, in partico-
lare interessi a una 24merosa popolazione agricola, derivanti
dagli interessi « dello stato» per motivi di politica di grande
potenza o di politica interna, oppure da altri interessi ideali di
specie più diversa, come dall’influenza prevista di una numero-
sa popolazione agricola sul carattere culturale di un paese —
interessi i quali possono contrastare con svariati interessi pri-
vati di tutte le parti della popolazione agricola, e presumibil-
mente anche con tutti gli interessi presenti della massa della
popolazione agricola. Oppure si può rammentare l’interesse a
un determinato tipo di organizzazione sociale della popolazio-
ne agricola, a causa delle influenze politiche o culturali che ne
derivano — interesse che può urtarsi per il suo orientamento
con tutti i presumibili interessi presenti e futuri, anche i più
urgenti, dei singoli agricoltori e anche « dello stato ». E — ciò
che complica ulteriormente la cosa — lo «stato », al cui « inte-
resse » noi volentieri riferiamo questi e numerosi altri interessi
particolari del genere, è per noi spesso solo una designazione
che riveste un groviglio, in sé estremamente intricato, di idee
di valore, con cui esso è da parte sua posto in relazione nel
MAX WEBER 623
caso singolo: sicurezza puramente militare verso l’esterno; sicu-
rezza della posizione dominante di una dinastia o di determina-
te classi all’interno; interesse alla conservazione e all’estensione
dell’unità statale della nazione, per se stessa o in funzione della
conservazione di determinati beni culturali oggettivi, tra loro
di nuovo assai diversi, che noi crediamo di rappresentare in
forma di un popolo fornito di unità statale; trasformazione del
carattere sociale dello stato nel senso di determinati ideali cultu-
rali, ancora assai diversi — e si potrebbe continuare a lungo se
si volesse anche soltanto accennare che cosa corre sotto l’etichet-
ta di «interessi statali », a cui possiamo riferire «l’agricoltu-
ra». L'esempio qui prescelto, e ancor più la nostra sommaria
analisi, è grossolano e semplificato. Chi è privo di competenza
specifica potrebbe ancora analizzare in maniera simile (e più a
fondo) per esempio il concetto di « interessi di classe dei lavora-
tori », per vedere quale groviglio, pieno di contraddizioni, in
parte di interessi e di ideali dei lavoratori, in parte di ideali
in base a cui noi consideriamo i lavoratori, stia al di sotto di
esso. È impossibile superare lo slogan della lotta di interessi
mediante un’accentuazione puramente empiristica della loro
«relatività»: una chiara e precisa determinazione concettuale
dei diversi punti di vista possibili è la sola via che ci consente
di procedere oltre l'oscurità della frase. L’« argomento del libe-
ro commercio » come intuizione del mondo o come norma vali-
da è una cosa ridicola, ma gravi danni ha recato alle nostre
discussioni di politica commerciale — e lo stesso vale quali che
siano gli ideali di politica commerciale che il singolo vuole
rappresentare — il fatto che noi abbiamo sottovalutato nel suo
valore euristico l'antica esperienza di vita dei grandi mercanti
depositata in tali formule tipico-ideali. Solo mediante formule
tipico-ideali diventano realmente espliciti nel loro proprio carat-
tere i punti di vista considerati nel caso singolo, e ciò attraver-
so un’opera di confronto del dato empirico con il tipo ideale.
L'uso dei concetti collettivi indifferenziati, con cui lavora il
linguaggio quotidiano, è sempre il rivestimento di oscurità del
pensiero o della volontà, ed è abbastanza spesso lo strumento di
ingannevoli raggiri — in ogni caso è però un mezzo per ostaco-
lare lo sviluppo di una corretta impostazione problematica.
624 MAX WEBER
Noi siamo alla fine di queste considerazioni, che miravano
semplicemente a porre in luce la linea, spesso molto sottile,
che separa scienza e fede, e a cogliere il senso dell’aspirazione
alla conoscenza economico-sociale. La validità oggettiva di ogni
sapere empirico poggia sul fatto, e soltanto sul fatto che la
realtà data viene ordinata in base a categorie che sono soggetti
ve in un senso specifico, in quanto cioè rappresentano il presup-
posto della nostra conoscenza, e che sono vincolate al presuppo-
sto del vglore di quella verità che soltanto il sapere empirico
può darci. A colui che non consideri fornita di valore questa
verità — e la fede nel valore della verità scientifica è infatti
prodotto di determinate culture, e non già qualcosa di natural-
mente dato — non abbiamo nulla da offrire con i mezzi della
nostra scienza. Invano egli andrà in cerca di un’altra veri-
tà che possa sostituire la scienza in ciò che essa soltanto può
fornire — concetti e giudizi che non sono la realtà empirica, e
che neppure la riproducono, ma che consentono di ordinarla
concettualmente in modo valido. Nel campo delle scienze socia-
li empiriche della cultura — l'abbiamo visto — la possibilità
di una conoscenza fornita di senso di ciò che per noi è essenzia-
le nell'infinità dell’accadere appare vincolata al costante impie-
go di punti di vista di carattere specifico, i quali sono tutti, in
ultima analisi, orientati verso idee di valore che da parte loro
possono essere empiricamente constatate e vissute come elemen-
ti di ogni agire umano fornito di senso, ma zor già fondate
come valide in base al materiale empirico. L’«oggettività » co-
noscitiva delle scienze sociali dipende piuttosto dal fatto che il
dato empirico è sì orientato continuamente verso quelle idee di
valore che sole gli forniscono un valore conoscitivo, ed è com-
preso nel suo significato in base ad esse, ma tuttavia non diven-
ta mai piedestallo per la prova, empiricamente impossibile,
della loro validità. E la fede, che sempre è in qualche forma
presente in tutti noi, nella validità sovra-empirica delle ultime e
supreme idee di valore a cui ancorare il senso della nostra
esistenza, non esclude ma reca con sé l’incessante mutabilità dei
punti di vista concreti da cui la realtà empirica deriva un signi-
ficato: la vita nella sua realtà irrazionale e il suo contenuto di
possibili significati sono inesauribili, perciò la concreta configu-
razione della relazione di valore rimane fluida, sottoposta co-
MAX WEBER 625
m'è al mutamento nell’oscuro avvenire della cultura umana. La
luce, che emana da quelle supreme idee di valore, cade sempre
su una parte finita, e continuamente mutevole, dell’immensa e
caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo.
Tutto ciò non dovrebbe venir frainteso nel senso che il
compito proprio della scienza sociale debba essere una conti-
nua caccia affannosa di nuovi punti di vista e di nuove costru-
zioni concettuali. Al contrario, nulla dovrebbe qui venir affer-
mato in maniera più risoluta del principio che il contributo
alla conoscenza del significato culturale di connessioni storiche
concrete è l’esclusivo fine ultimo a cui, accanto ad altri mezzi,
intende servire anche il lavoro di elaborazione e di critica con-
cettuale. Vi sono anche nel nostro campo, per usare un’espres-
sione di F. T. Vischer?, « cercatori di materiale » e « cercatori di
significato ». La gola bramosa di fatti dei primi può essere
saziata solo con materiale documentario, con tavole statistiche
e con inchieste, ma è insensibile alla raffinatezza del nuovo
pensiero. La golosità dei secondi altera il proprio gusto con
sempre nuovi distillati concettuali. Quella genuina capacità arti-
stica, che per esempio tra gli storici Ranke possedeva in misura
così grandiosa, si manifesta di solito nella capacità di creare
qualcosa di nuovo mediante il riferimento di fatti z0t a punti
di vista anch'essi noti.
Ogni lavoro delle scienze della cultura in un’epoca di specia-
lizzazione, dopo essersi diretto in base a determinate imposta-
zioni problematiche a considerare una determinata materia, e
dopo essersi creato i suoi princìpi metodici, riterrà l’analisi di
questo materiale come uno scopo a sé, senza controllare di
continuo in maniera consapevole il valore conoscitivo dei singo-
li fatti in riferimento alle ultime idee di valore, e anche senza
rimanere consapevole del proprio legame con queste. Ed è bene
che sia così. Ma a un certo momento muta il colore: il signifi-
cato dei punti di vista impiegato in maniera non riflessa diven-
ta incerto, e la strada si perde nel crepuscolo. La luce dei
7. Friedrich Theodor Vischer (1807-1887), autore di una Aesthetik oder Wissen-
schaft des Schònes in sci volumi (1846-58), dì ispirazione hegeliana, e di numerosi
saggi di estetica e di critica artistico-letteraria.
40. STORICISMO TEDESCO.
626 MAX WEBER
grandi problemi culturali è di nuovo spostata. Allora anche la
scienza si appresta a mutare la propria impostazione e il pro-
prio apparato concettuale, e a guardare nella corrente dell’acca-
dere dall'alto del pensiero. Essa segue quegli astri che, essi
soli, possono mostrare senso e direzione al suo lavoro:
ma sorge il nuovo impeto
e mi slancio per bere alla sua luce eterna.
Il giorno innanzi a me, la notte alle mie spalle,
su di me il cielo, sotto di me le onde”.
8. GoetHne, Faust, vv. 1085-88 (tr. it, di F. Fortini).
IL SIGNIFICATO DELLA « AVALUTATIVITÀ »
DELLE SCIENZE SOCIOLOGICHE ED ECONOMICHE *
Per « valutazione » si debbono qui di seguito intendere, se
nient'altro è detto esplicitamente o risulta di per sé eviden-
te, le valutazioni « pratiche » di un fenomeno influenzabile me-
diante il nostro agire, il quale viene considerato come riprovevo-
le oppure come degno di approvazione *. Con il problema della
« libertà» di una determinata scienza da valutazioni di questa
specie, cioè con un problema concernente la validità e il senso
a. Questo saggio è la trasformazione di una comunicazione, diffusa
in forma manoscritta, preparata per una discussione interna nella riunione
del 1913 del « Verein fr Sozialpolitik ». È stato eliminato il più possibile
tutto ciò che interessava soltanto questo gruppo di studio, mentre sono
state ampliate le considerazioni metodologiche generali. Tra le altre co-
municazioni presentate per tale discussione è stata pubblicata quella del
prof. E. Spranger!, nello « Schmollers Jahrhbuch fir Gesetzgebung, Ver-
waltung und Volkswirtschaft », XXXVIII, 1914, pp. 33-57. Io confesso
di aver trovato stranamente debole, perché non maturato chiaramente, que-
sto lavoro di un filosofo che anch'io stimo assai; ma evito qui, anche già
per ragioni di spazio, ogni polemica con lui, limitandomi a esporre il mio
proprio punto di vista.
* Der Sinn der « Wertfreiheit» der soziologischen und dlkonom:schen Wissen-
schaften, « Logos », VII, 1917, pp. 40-88, raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze
zur Wissenschafeslehre, Tiùbingen, ]. C. B. Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes
Winckelmann) 1973, pp. 489-540 (Il significato della «avalutatività » delle scienze
sociologiche ed economiche, tr. it. di Pietro Rossi, in !/ metodo delle scienze storico-
sociali, Torino, Einaudi, 1958, pp. 309-72).
1. Eduard Spranger (1882-1963), filosofo e pedagogista tedesco, autore di Lebens-
formen (1914), di Kultur und Erzichung (1919), di Lebenserfahrung (1947) e di
numerose altre opere, fu allievo di Dilthey, del quale sviluppò soprattutto la teoria
delle scienze dello spirito.
628 MAX WEBER
di questo principio logico, non ha nulla a che fare la questione
del tutto diversa, di cui si deve ora preliminarmente discutere
— la questione se si debba, oppure no, fare « professione » nel-
l'insegnamento accademico a favore delle proprie valutazioni pra-
tiche, di carattere etico oppure fondate in riferimento a ideali di
cultura o, in altra maniera, su un'intuizione del mondo. Questa
non può venir discussa scientificamente. Infatti essa stessa è una
questione del tutto dipendente da valutazioni pratiche, e quindi
non può essere decisa per tale via. Per citare soltanto i poli estre-
mi, vengono sostenuti: 2) sia il punto di vista per cui la separazio-
ne di argomenti puramente logici o puramente empirici dalle
valutazioni pratiche, o etiche, oppure connesse a un'intuizione
del mondo è sì giustificata, ma tuttavia (e forse proprio perciò)
entrambe le categorie di problemi appartengono all'ambito del-
la cattedra; b) sia il punto di vista per cui, anche se quella
separazione n0n può essere realizzata logicamente in maniera
coerente, si deve raccomandare di tener distanti il più possibile
dall’insegnamento accademico tutte le questioni pratiche di va-
lore.
Questo secondo punto di vista mi sembra inammissibile. In
particolare la distinzione, non di rado fatta per le nostre disci-
pline, delle valutazioni pratiche in valutazioni « politiche di
parte » e in valutazioni di altro carattere mi sembra semplice-
mente ineseguibile, e appropriata soltanto a nascondere la porta-
ta pratica della presa di posizione suggerita agli ascoltatori.
Inoltre, l'opinione che alla cattedra si addica la « mancanza di
passione », e che di conseguenza debbano essere evitati gli argo-
menti che comportano il pericolo di discussioni «eccitate »,
sarebbe — una volta ammesso in genere che sulla cattedra si
possano enunciare valutazioni — una convinzione da burocrati,
che ogni insegnante indipendente dovrebbe respingere. Di que-
gli studiosi che 70» hanno ritenuto di dover rinunciare a valu-
tazioni pratiche nelle discussioni empiriche, proprio i più appas-
sionati — come per esempio Treitschke, e a modo suo pure
Mommsen® — furono quelli maggiormente tollerabili. Poiché
2. Theodor Mommsen (1817-1903), filologo e storico tedesco, autore di una
fondamentale Romische Geschichte rimasta incompleta (1849-85), di Uber das rimi-
sche Miinzivesen (1850), degli Unteritalische Dialekte (1850), della Romische Chrono-
MAX WEBER 629
appunto mediante la forte accentuazione emotiva l’ascoltato-
re è almeno posto nella situazione di poter da parte sua stabili-
re la soggettività della valutazione del professore, nella sua
influenza su un'eventuale distorsione delle sue proposizioni di
fatto, e di fare quindi da sé ciò che rimane precluso al tempera-
mento del professore. Può quindi restar affidata all’autentico
pathos quell’efficacia sulle anime della gioventù che — come io
presumo — i sostenitori delle valutazioni pratiche pronunciate
dalla cattedra desiderano assicurare ad esse, senza che l’ascolta-
tore venga traviato alla confusione reciproca di diverse sfere —
come necessariamente accade quando la determinazione di fatti
empirici e l'esortazione a una presa di posizione pratica di
fronte a grandi problemi della vita sono entrambe immerse
nella stessa fredda assenza di temperamento.
Il primo punto di vista mi sembra accettabile, e così lo è dal
punto di vista soggettivo dei suoi sostenitori, solo se l’insegnante
si pone come dovere incondizionato — in ogni caso particolare, e
fino al pericolo di rendere priva di attrattive la propria lezione —
quello di rendere inesorabilmente chiaro ai suoi ascoltatori e, ciò
che costituisce la cosa principale, a se stesso, che cosa delle sue
asserzioni è dedotto con un puro procedimento logico o è deter-
minazione puramente empirica di fatti, e che cosa è invece
valutazione pratica. Far questo mi sembra, d’altra parte, addi-
rittura un imperativo di onestà intellettuale, una volta ammessa
l’estraneità delle due sfere; in questo caso è assolutamente il
minimo che si possa chiedere.
Invece la questione se dalla cattedra si debba o no, in gene-
rale (pur con tale cautela), enunciare valutazioni pratiche, è da
parte sua una questione di politica universitaria pratica, e può
in ultima analisi essere decisa soltanto dal punto di vista di
quei compiti che l’individuo vorrebbe assegnare, in base alle
sue valutazioni, alle università. Chi per esse, e quindi per se
stesso, pretende ancor oggi in virtù della sua qualificazione di
professore universitario la funzione universale di formare gli
logie bis auf Casar (1858), delle Romische Forschungen (1864-79), del Rémisches
Staatsrecht (1871-88), del Romisches Strafrecht (1899) e di varic altre opere, editore
del Corpus Inscriptionum latinarum (a partire dal 1863), fu il maggiore storico dell'an-
tichità dell'Ottocento.
630 MAX WEBER
uomini e di propagare una convinzione politica, etica, artisti-
ca, culturale o di altra specie, si comporterà in maniera diffe-
rente da colui che ritiene di dover affermare il fatto (e le sue
conseguenze) che le aule accademiche svolgono oggi la loro
azione realmente fornita di valore soltanto mediante l’insegna-
mento specifico da parte di individui specificamente qualifi-
cati, e che pertanto l’« onestà intellettuale » è la sola virtù parti-
colare alla quale essi devono educare. Si può sostenere il primo
punto di vista sulla base di posizioni ultime altrettanto svaria-
te che il secondo. Quest'ultimo in particolare (che io personal-
mente accolgo) si può derivarlo sia da una smisurata sia da
una molto modesta valutazione del significato della formazione
« specifica ». Lo si può sostenere, per esempio, non già perché
si desideri che tutti gli uomini nel loro senso intimo diventino
il più possibile degli «specialisti»; ma, proprio al contrario,
perché si desidera vedere le ultime e più personali decisioni di
vita, che un uomo deve prendere da sé, non confuse insieme
con l'insegnamento specifico — per quanto alto il suo significa-
to possa essere valutato non solo per la disciplina generale del
pensiero, ma anche, indirettamente, per l’auto-disciplina e per
l'orientamento etico del giovane — e vedere altresì la loro
soluzione in base alla coscienza propria dell’ascoltatore r07 eli-
minata da una suggestione che si esercita dalla cattedra.
Il pregiudizio di Schmoller*, favorevole alla valutazione dal-
la cattedra, mi risulta personalmente del tutto comprensibile
come l’eco di una grande epoca, che egli e i suoi amici contri-
buirono a creare. Ma ritengo che neppure a lui possa sfuggire
la circostanza che anzitutto la situazione di fatto è, per la
giovane generazione, mutata notevolmente in un punto impor-
tante. Quarant'anni or sono, nel mondo degli studiosi delle
nostre discipline era assai diffusa la fede che nel campo delle
valutazioni pratico-politiche una soltanto delle possibili prese
di posizione dovesse essere quella eticamente giusta (anche se
3. Gustav von Schmoller (1838-1917), cconomista e storico economico tedesco, autore
di Uber einige Grundfragen des Rechts und Volkswirtschaft (1875), delle Grundfragen
der Sozialpolitix und der Volkswirtschaftslehre (1897), del Grundriss der allgemei-
nen Volkswirtschaftslehre (1900), di Die soziale Frage (1918) e di varic altre opere, fu
il fondatore della cosiddetta « giovane scuola storica » di economia, c difese l'impo-
stazione storica dell’economia politica nei confronti della teoria marginalistica.
MAX WEBER 631
Schmoller ha certamente rappresentato questo punto di vista
solo in misura assai limitata). Ma questo non è oggi più il
caso, come si può facilmente rilevare, proprio tra i sostenitori
delle valutazioni dalla cattedra. La legittimità delle valutazioni
dalla cattedra non viene più oggi sostenuta in nome di un’aspi-
razione etica, i cui postulati di giustizia (relativamente) sempli-
ci in parte si configuravano, e in parte sembravano essere, sia
nel modo della loro giustificazione sia nelle loro conseguenze,
(relativamente) semplici e soprattutto (relativamente) imperso-
nali, in quanto erano univocamente sopra-personali. Essa viene
invece sostenuta (per effetto di uno sviluppo inevitabile) in no-
me di un variopinto mazzo di « valutazioni culturali », cioè in
verità di pretese soggettive alla cultura — o, in termini chiari,
del supposto «diritto della personalità » dell’insegnante. Ci si
può anche indignare di fronte a questo punto di vista, ma non
lo si potrà confutare — e proprio in quanto esso implica appun-
to una «valutazione pratica » — che di tutti i tipi di profezia
la profezia professorale, atteggiata in tal senso « personalmen-
te », è la sola realmente insopportabile. È una situazione senza
confronto quella di numerosi profeti accreditati dallo stato, i
quali non predicano per le strade o nelle chiese o altrove sulla
pubblica piazza, oppure, privatamente, in conventicole personal-
mente scelte che si dichiarano tali, ma si permettono invece di
esprimere « in nome della scienza », nella quiete che si suppone
oggettiva, ma che è poi incontrollabile, priva di discussione, e
soprattutto protetta da ogni contraddittorio, di un'aula accade-
mica privilegiata dallo stato, decisioni dalla cattedra su questio-
ni di intuizione del mondo. È un vecchio principio, decisamen-
te sostenuto da Schmoller in una certa occasione, che gli argo-
menti enunciati nelle aule accademiche debbono rimanere sot-
tratti alla discussione pubblica. Sebbene sia possibile opinare
che ciò abbia eventualmente, pure nel campo delle scienze em-
piriche, certi svantaggi, si assume ovviamente — e anch'io assu-
mo — che la «lezione» debba essere appunto qualcosa di
diverso da una « conferenza », che il rigore impregiudicato, la
conformità ai fatti, la sobrietà dell’esposizione accademica pos-
sano essere danneggiati nel loro scopo pedagogico dall’introdur-
si della pubblicità, per esempio della pubblicità di tipo giornali-
stico. Solo che un siffatto privilegio di incontrollabilità sembra in
632 MAX WEBER
ogni caso appropriato soltanto all'ambito della pura qualifica-
zione specifica del professore. Non c’è però nessuna qualifica
zione specifica per la profezia personale, e quindi non può
neppur esserci nessun privilegio. E in primo luogo essa non
può abusare della situazione di costrizione esistente per lo stu-
dente — il quale deve, per progredire nella vita, far ricorso a
determinate istituzioni accademiche e quindi ai rispettivi inse-
gnanti — per istillargli insieme a ciò di cui egli ha bisogno,
ossia allo stimolo e alla disciplina della sua capacità di ragiona-
re e del suo pensiero, e insieme a ciò determinate conoscenze,
anche — in forma protetta da ogni contraddizione — la pro-
pria cosiddetta « intuizione del mondo », per quanto interessan-
te essa possa talvolta risultare (mentre sovente è abbastanza
indifferente).
Per la propaganda dei suoi ideali pratici il professore, al
pari di ogni altro individuo, ha a disposizione altre opportuni-
tà; e quando non le ha, può facilmente procurarsele nella for-
ma più appropriata, come l’esperienza dimostra per ogni one-
sto tentativo. Ma il professore non deve avanzare la pretesa di
recare nel suo zaino, in quanto professore, il bastone di mare-
sciallo dell’uomo di stato (o del riformatore culturale), come
egli fa quando utilizza la protezione della cattedra per esprime-
re il suo sentimento di uomo di stato (o di politico della
cultura). Nella stampa, nelle assemblee pubbliche, nelle riunio-
ni, nei saggi, in ogni altra forma accessibile a ogni cittadino,
egli può (e deve) fare ciò che il suo dio o il suo demone gli
significa. Ma ciò che oggi lo studente dovrebbe soprattutto
imparare nell'aula accademica dal suo professore è la capacità:
1) di accontentarsi del semplice adempimento di un dato compi-
to; 2) di riconoscere anzitutto i fatti, anche e in primo luogo
i fatti personalmente scomodi, e quindi di distinguere la loro
determinazione dalla presa di posizione valutativa; 3) di pospor-
re la propria persona alle cose, e quindi di reprimere anzitutto
il bisogno dell’esibizione importuna del suo gusto personale e
degli altri suoi sentimenti. Mi sembra che questo sia oggi
molto più urgente di quarant'anni or sono, quando il pro-
blema non esisteva propriamente in questa forma. Nor è ve-
ro affatto — come è stato affermato — che la « personalità »
costituisce e debba costituire in questo senso un’« unità », e che
MAX WEBER 633
essa subisca per così dire detrimento quando non la si esibisce in
ogni occasione. In ogni lavoro professionale, infatti, il compito
come tale reclama il proprio diritto, e dev'essere adempiuto in
base alle sue leggi. In ogni lavoro professionale colui che vi si
dedica deve limitarsi a esso, ed escludere ciò che non appartie-
ne rigorosamente al compito, ma soprattutto il proprio amore e
il proprio odio. E zor è vero che una forte personalità sia
documentata dal fatto che in ogni occasione indaga secondo
una «nota personale » ad essa soltanto propria. Si deve al
contrario auspicare che proprio la generazione che ora cresce si
abitui di nuovo soprattutto al pensiero che « essere una persona-
lità » è qualcosa che non si può volere di proposito, e che c’è
soltanto una via per diventarlo (forse!) — la dedizione senza
riserve a un «compito », quale possa essere nel caso specifico
questo compito, e l’« esigenza quotidiana» che ne deriva. È
contro le regole dello stile mescolare nelle discussioni di fat-
to le faccende personali. E non compiere quel tipo specifico di
auto-limitazione, che esso richiede, significa spogliare il lavoro
« professionale » del solo significato che oggi gli è ancora real-
mente rimasto. Poco importa che il culto della personalità ora
di moda tenti di affermarsi sul trono, nell'ufficio pubblico o
sulla cattedra: esso conduce sì quasi sempre a vasti effetti
esteriori, ma interiormente è sempre misera cosa, e danneggia
ovunque il compito. Spero che non ci sia particolare bisogno
di dire che gli avversari, a cui queste analisi si riferiscono,
hanno certo ben poco da fare con questa specie di culto di ciò
che è « personale » in quanto « personale ». Essi in parte consi-
derano il compito della cattedra in un'altra luce, in parte han-
no ideali educativi che io rispetto, ma che non condivido. Però
si deve considerare non soltanto ciò che essi vogliono, ma an-
che il modo in cui ciò che essi legittimano con la propria
autorità opera su una generazione, la quale rivela già una
predisposizione sviluppata in maniera inevitabilmente molto
forte a ritenersi importante.
E infine richiede appena un accenno il fatto che parecchi
supposti azversari di valutazioni (politiche) dalla cattedra non
sono affatto giustificati quando, per screditare le discussioni di
politica culturale e sociale che si compiono pubblicamente al di
fuori dell’aula accademica, si richiamano al principio dell’esclu-
634 MAX WEBER
sione dei « giudizi di valore », da loro ancora spesso gravemen-
te frainteso. L'indubitabile esistenza di questi elementi falsa-
mente «avalutativi», ma in realtà tendenziosi, e introdotti
nella nostra disciplina dall’ostinata e consapevole posizione par-
tigiana di forti cerchie di interessati, ci consente di comprende-
re con chiarezza come un ampio numero proprio di studiosi
interiormente indipendenti possa attualmente continuare a soste-
nere la valutazione dalla cattedra, poiché essi hanno troppo
orgoglio per partecipare a quella pagliacciata di una « avalutati-
vità » soltanto apparente. Personalmente io ritengo che, ciò no-
nostante, debba essere fatto quello che (secondo la mia opinio-
ne) è corretto, e che il peso delle valutazioni pratiche di uno
studioso sarebbe soltanto accresciuto dalla sua capacità di limi-
tarsi a sostenerle nelle occasioni opportune al di fuori dell’aula
accademica, se si sa che egli possiede il rigore di fare, entro
l’aula, soltanto ciò che è proprio del «suo ufficio ». Ma tutte
queste sono appunto anch'esse questioni pratiche di valutazio-
ne, e perciò non suscettibili di esser risolte.
In ogni caso, però, l'affermazione di principio del diritto
della valutazione dalla cattedra sarebbe coerente, a parer mio,
solo se al tempo stesso si garantisse che tutte le valutazioni di
ogni parte abbiano l'opportunità di farsi valere sulla cattedra *.
Da noi, invece, con l’insistenza sul diritto alla valutazione dalla
cattedra si sostiene di solito precisamente l'opposto di quel
principio di un’equa rappresentanza di tutte le correnti (e ovvia-
mente anche di quelle « più estreme »). Era per esempio natu-
ralmente coerente, dal punto di vista personale di Schmoller,
la tesi in base a cui egli spiegava che « marxisti e manchesteria-
ni » sono privi di qualificazione per occupare cattedre universi-
tarie, sebbene egli non abbia mai compiuto l’ingiustizia di
a. A tale scopo non basta affatto il principio olandese dell'emancipa-
zione anche della facoltà teologica dal controllo confessionale, congiunta
alla libertà di fondare università a condizione che siano assicurati i mezzi
finanziari, che siano osservate le prescrizioni per la qualificazione dei pro-
fessori, e che sia garantito il diritto privato di istituire cattedre con il pa-
tronato delle candidature da parte di coloro che le istituiscono. Infatti
ciò avvantaggia soltanto chi possiede denaro e le organizzazioni autorita-
rie che si trovano già in possesso del potere: soltanto gli ambienti cleri-
cali, come è noto, ne hanno fatto uso.
MAX WEBER 635
ignorare i contributi scientifici che sono venuti da queste dire-
zioni. Proprio su questi punti io personalmente non ho mai
potuto seguire il nostro venerato maestro. Non si può ovvia-
mente insieme richiedere l’autorizzazione alla valutazione dal-
la cattedra e — allorché se ne devono trarre le conseguenze —
sostenere che l’università è un'istituzione statale per la forma-
zione di funzionari « fedeli allo stato ». In tale maniera l’uni-
versità diverrebbe non una «scuola specializzata » (ciò che a
molti docenti sembra degradante), bensì un seminario di preti
— solo senza poterle dare la dignità religiosa che questo possie-
de. Si è voluto dedurre certi limiti con un puro procedimento
«logico». Uno dei nostri più eminenti giuristi spiegava una
volta, mentre si pronunciava contro l'esclusione dei socialisti
dalle cattedre, che egli non avrebbe potuto accettare come inse-
gnante di diritto soltanto un « anarchico », poiché questi nega
in genere la validità del diritto come tale — ed egli riteneva
ovviamente questo argomento come conclusivo. Io sono dell’opi-
nione precisamente opposta. L’anarchico può sicuramente esse-
re un buon conoscitore del diritto. E se egli è tale, allora
proprio quel punto di Archimede che si pone a/ di fuori delle
convinzioni e dei presupposti che ci appaiono così evidenti —
quel punto in cui lo colloca, quando è pura, la sua oggettiva
convinzione — può renderlo capace di riconoscere nelle conce-
zioni fondamentali della dottrina giuridica in uso una proble-
matica la quale sfugge a tutti coloro per cui esse sono troppo
ovvie. Infatti il dubbio più radicale è il padre della conoscen-
za. Il giurista ha tanto poco il compito di «dimostrare» il
valore di quei beni culturali, la cui esistenza è legata alla
permanenza del « diritto », quanto il medico ha il compito di
« provare » che l’allungamento della vita è degno di essere per-
seguito in ogni circostanza. L'uno e l'altro non ne sono neppu-
re in grado, con i loro mezzi. Ma se si vuol fare della cattedra
la sede di discussioni pratiche di valore, allora sarebbe ovvia-
mente un dovere quello di sottoporre proprio le questioni fon-
damentali di principio a una libertà di discussione, senza restri-
zione alcuna, da tutti i punti di vista. Può accadere questo? Ma
le più decisive e importanti questioni pratico-politiche di valo-
re sono oggi escluse, per la natura della situazione politica,
dalle cattedre delle università tedesche. Per colui al quale gli
636 MAX WEBER
interessi della nazione stanno al di sopra di tutte — senza
eccezione — le sue istituzioni concrete, è per esempio una
questione di importanza centrale stabilire se la concezione og-
gi predominante della posizione del monarca in Germania sia
conciliabile con gli interessi internazionali della nazione, e con
quei mezzi, cioè : Ta guerra e la diplomazia, con cui ad essi si
provvede. Non sono sempre i peggiori patrioti, e neppure gli
avversari della monarchia, che sono oggi inclini a rispondere
negativamente a questa questione, e a non credere più nella
possibilità di successi duraturi in quei due campi, fino al mo-
mento in cui non subentrino dei mutamenti molto profondi.
Eppure ognuno sa che queste questioni vitali della nazione
non possono venir discusse in piena libertà sulle cattedre tede-
sche ®. Ma in considerazione di questo fatto — che cioè proprio
le questioni decisive di valutazione pratico-politica sono in per-
manenza sottratte alla libera discussione dalle cattedre — mi
sembra confacente alla dignità dei rappresentanti della scienza
soltanto il tacere anche su quei problemi di valore, che si
consente loro gentilmente di trattare.
In nessun caso si deve però mescolare la questione se sia
lecito, o necessario, o si debba nell’insegnamento presentare
valutazioni pratiche — che è una questione non risolubile,
poiché condizionata da una valutazione — con la discussione
puramente /ogica della funzione che le valutazioni assolvono
per le discipline empiriche, ad esempio per la sociologia e per
l'economia politica. Altrimenti qui ne soffrirebbe la discussione
impregiudicata del problema propriamente logico — la cui deci-
sione però non dà per quelle questioni alcuna indicazione, al
di fuori di una che è richiesta su base puramente logica, cioè
l'esigenza della chiarezza e della precisa distinzione delle sfere
problematiche eterogenee da parte dei docenti.
Io non vorrei discutere inoltre se la distinzione tra determi-
nazione empirica e valutazione pratica sia « difficile ». Essa lo
è. Noi tutti, io che sostengo questa pretesa al pari di altri,
a. Questo non è affatto un caso particolare della Germania. In quasi
tutti i paesi vi sono, manifesti o celati, dei limiti di fatto; ed è diverso
soltanto il tipo dei problemi di valore che vengono esclusi.
MAX WEBER 637
commettiamo sempre e ripetutamente degli errori in proposito.
Ma per lo meno i sostenitori della cosiddetta economia politica
etica potrebbero ben sapere che anche la legge morale è irrealiz-
zabile pienamente, ma tuttavia vale in quanto è «imposta ». E
un’analisi della coscienza potrebbe forse mostrare che la realiz-
zazione del postulato è difficile soprattutto perché noi rinuncia-
mo con riluttanza a inoltrarci sul terreno così interessante
delle valutazioni con la « nota personale » che ci stimola. Ogni
docente avrà naturalmente osservato che gli sguardi degli stu-
denti si illuminano, e che i loro volti diventano più attenti,
quando egli comincia a « dichiararsi » personalmente; e avrà
osservato pure che la frequenza delle sue lezioni è influenzata
in maniera molto vantaggiosa dall’aspettativa che egli lo fac-
cia. Egli sa inoltre che la concorrenza tra le università per la
frequenza mette sovente in condizioni di vantaggio, per le
chiamate, un profeta per quanto piccolo, che riempia le aule,
rispetto a uno studioso per quanto rilevante, che si dedichi
all'insegnamento oggettivo — s'intende quando la profezia non
si discosti troppo dalle valutazioni, politiche o convenzionali,
considerate normali. Soltanto il profeta falsamente alieno da
valutazioni, che esprime certi interessi materiali, ha nei suoi
riguardi una possibilità maggiore, in virtù dell'influenza di tali
interessi sui poteri politici. Io ritengo tutto questo indesiderabi-
le, e quindi non voglio addentrarmi a discutere la tesi secondo
cui l’esclusione di valutazioni pratiche sarebbe cosa « meschi-
na », e renderebbe « noiose » le lezioni. Non voglio pronunciar-
mi sulla questione se le lezioni su un campo specifico di espe-
rienza debbano tendere soprattutto a essere « interessanti », ma
da parte mia temo che in ogni caso uno stimolo realizzato
mediante una nota personale troppo interessante tolga alla
lunga agli studenti il gusto per il semplice lavoro di ricerca.
Non voglio poi discutere, ma riconoscere esplicitamente
che, proprio sotto l'apparenza della soppressione di ogni va-
lutazione pratica, si possono risuscitare suggestivamente, con
particolare forza, tali valutazioni, secondo il noto schema di
«far parlare i fatti». La migliore qualità della nostra elo-
quenza parlamentare ed elettorale opera appunto con questo
mezzo — e ciò è del tutto legittimo per i suoi scopi. Non
c'è però bisogno di sprecare nessuna parola per mostrare
638 MAX WEBER
che questo procedimento sarebbe sulla cattedra, proprio dal
punto di vista della pretesa di quella distinzione, il più riprove-
vole di tutti gli abusi. E che un’apparenza, slealmente suscitata,
di realizzazione di un imperativo possa presentarsi come la sua
realtà, non significa una critica dell’imperativo stesso. Questo è
però senz’altro implicito: che, se l'insegnante non ritiene di
doversi precludere delle valutazioni pratiche, deve però assoluta-
mente dichiararle come tali e agli studenti e 4 se stesso.
Ciò che si deve combattere nella maniera più decisa, infine,
è la convinzione non rara che la via dell’« oggettività » scientifi-
ca sia rappresentata dalla commisurazione reciproca delle diver-
se valutazioni, e da un compromesso « diplomatico » tra di
esse. La «linea di mezzo » non può essere dimostrata scientifi-
camente, con i soli strumenti delle discipline empiriche, pro-
prio allo stesso modo in cui non possono esserlo le valutazioni
«estreme ». Inoltre, nella sfera della valutazione essa sarebbe
normativamente ben poco univoca. Essa non appartiene alla
cattedra, bensì ai programmi politici, agli uffici e ai parlamen-
ti. Le scienze, sia normative sia empiriche, possono rendere
agli uomini politici e ai partiti in lotta soltanto un servizio
inestimabile, e cioè dire loro: 1) quali siano le diverse prese di
posizione «ultime» concepibili di fronte a questo problema
pratico; 2) come stiano i fatti di cui essi devono tener conto
nella scelta tra queste prese di posizione. In questo modo noi
rimaniamo fedeli al nostro « compito ».
Un fraintendimento senza fine, ma soprattutto una disputa
terminologica, e quindi completamente sterile, si sono legati al
termine «giudizio di valore» — il che non ha ovviamente
contribuito per nulla alla questione. È del tutto fuori dubbio,
come è stato accennato, che queste discussioni riguardino, nelle
nostre discipline, valutazioni pratiche di fatti sociali, considera-
ti come desiderabili o indesiderabili praticamente da un punto
di vista etico, o da qualche altro punto di vista culturale, o per
altri motivi. Che la scienza 1) miri a conseguire risultati « forni-
ti di valore », cioè corretti dal punto di vista logico e in riferi-
mento ai fatti; 2) e miri a conseguire risultati «forniti di
valore », cioè importanti nel senso dell'interesse scientifico; che
inoltre già la scelta della materia implichi una « valutazione »
— queste due cose sono state seriamente sollevate, nonostante
MAX WEBER 639
quanto si è detto in proposito *, come « obiezioni ». Ed è pure
sempre risorto il fraintendimento, quasi incomprensibilmente
forte, secondo il quale la scienza empirica non può trattare
come oggetto le valutazioni « soggettive » degli uomini (e ciò
mentre la sociologia, e nell'ambito dell'economia politica tutta
la dottrina dell’utilità marginale, poggia sul presupposto contra-
rio). Si tratta invece esclusivamente della pretesa, di per sé
perfino banale, che il ricercatore e l’espositore debbano incondi-
zionatamente fezer distinte — poiché si tratta di problemi
eterogenei — la determinazione di fatti empirici (compreso l’at-
teggiamento « valutante », da lui constatato, degli uomini empi-
rici su cui indaga) e la sua presa di posizione pratica, che
valuta questi fatti (comprese le « valutazioni » di uomini empi-
rici che sono oggetto di indagine) come apprezzabili o non ap-
prezzabili, e che in questo senso risulta «valutativa ». In una
trattazione per altri aspetti fornita di valore, uno scrittore si
esprime così: un ricercatore potrebbe assumere come « fatto »
anche la propria valutazione, e trarne le conseguenze. Ciò che
qui si intende è incontestabilmente esatto, ma l’espressione scel-
ta è erronea. Si può naturalmente convenire, prima di una
discussione, che una determinata misura pratica — per esempio
che la copertura dei costi richiesti da un aumento dell’esercito
debba esser ricavata soltanto dalle tasche dei possidenti — sia
il « presupposto » della discussione stessa, e che si debbano quin-
di discutere semplicemente i mezzi per attuarla. Questo è anzi
sovente opportuno. Ma una siffatta intenzione pratica, presup-
posta di comune accordo, non la si chiama un «fatto », bensì
uno « scopo stabilito 4 priori». Che si tratti effettivamente an-
che di cose diverse, potrebbe risultare presto nella discussione
dei « mezzi» — salvo che lo « scopo presupposto » come indi-
scutibile fosse così concreto come accendersi un sigaro. In tal
caso anche i mezzi hanno solo di rado bisogno di discussione.
a. Debbo riferirmi a ciò che ho già detto nei miei saggi precedenti (la
correttezza talvolta insoddisfacente di formulazioni particolari, che in essi
possono riscontrarsi, non riguardano nessuno dei punti essenziali della
questione); per l'« inconciliabilità » di certe valutazioni ultime in un im-
portante campo di problemi potrei rinviare a G. RabBRUCH, Einfiihrung
in die Rechtswissenschaft, Berlin, 22 ed. 1913. Io divergo da lui in alcuni
punti; ma essi non hanno importanza per il problema qui discusso.
640 MAX WEBER
In quasi ogni caso di un proposito generalmente formulato,
come in quello prima scelto come esempio, si farà invece espe-
rienza che nella discussione dei mezzi non soltanto appare che
i vari individui hanno inteso qualcosa di completamente diverso
sotto tale scopo che si supponeva preciso, ma in particolare
risulta che proprio il medesimo scopo è voluto su basi ultime
differenti, e che ciò influenza la discussione sui mezzi. Ma
lasciamo questo da parte. Infatti, che si possa partire da un
determinato scopo, voluto in comune, e discutere soltanto i
mezzi per conseguirlo, e che da ciò risulti allora una discussio-
ne da condurre sul piano puramente empirico — non è ancora
accaduto a nessuno di contestarlo. Tutta la discussione si
aggira sulla scelta degli scopi (e non già dei « mezzi» in vista
di uno scopo che è dato), cioè concerne appunto il senso in cui
la valutazione, a cui l’individuo si richiama, non può essere
assunta come « fatto », ma può diventare oggetto di una critica
scientifica. Se non si è determinato questo, ogni altra discussio-
ne è infruttuosa.
Noi non discutiamo qui la questione della misura in cui
le valutazioni pratiche, in particolare quelle etiche, possono
da parte loro pretendere una dignità mormativa, rivestendo
quindi un carattere diverso da quello implicito in questioni
simili a quella introdotta da questo esempio, se le bionde
debbano essere preferite alle brune, o in altri giudizi sog-
gettivi di gusto. Questi sono problemi della filosofia dei va-
lori, non già della metodica delle discipline empiriche. Ciò
che concerne le ultime è soltanto che da un lato la validità di
un imperativo pratico in quanto norma, e dall’altro la verità di
una determinazione empirica di fatti appartengono a settori
problematici del tutto eterogenei, e che si danneggia la dignità
specifica di ognuno dei due quando si dimentica ciò, cercando
di unificare le due sfere. Questo è avvenuto in forte misura, a
mio parere, soprattutto da parte di Schmoller*. Proprio il ri-
spetto per il nostro maestro mi proibisce di passare sopra questi
punti, in cui ritengo di non poter concordare con lui.
a. Nella voce «economia politica» (Volkswirtschaftslehre) nello
« Handwérterbuch der Staatswissenschaften », Berlin, 3? ed. 1911, vol.
VIII, pp. 426-501.
MAX WEBER 641
In primo luogo vorrei rivolgermi contro la tesi secondo cui,
per i sostenitori dell’« avalutatività », il mero fatto dell’instabili-
tà storica e individuale delle prese di posizione valutative di
volta in volta in vigore varrebbe come prova del carattere neces-
sariamente solo «soggettivo », per esempio, dell’etica. Anche
le determinazioni empiriche di fatti sono spesso soggette a di-
sputa; e sul fatto che un tale debba essere ritenuto un furfante
uò sovente esserci una concordanza sostanzialmente più gene-
rale di quella relativa (proprio presso gli specialisti) alla inter-
pretazione di un'iscrizione mutilata. L'assunzione, effettuata da
Schmoller, di una crescente unanimità convenzionale di tutte le
confessioni e di tutti gli uomini intorno ai punti principali
delle valutazioni pratiche sta in aspra antitesi con la mia im-
pressione opposta. Ma questo mi sembra senza rilievo per la
questione. Ciò che in ogni caso è da discutere, infatti, è che ci
si possa arrestare scientificamente di fronte a una qualsiasi
evidenza di fatto, convenzionalmente stabilita, di certe prese di
posizione pratiche, per quanto diffuse esse siano. La funzione
specifica della scienza mi sembra, proprio all’opposto, quella
di trasformare in problema ciò che è convenzionalmente eviden-
te. E proprio questo hanno fatto, al tempo loro, Schmoller e i
suoi amici. Che si possa poi indagare, e in certe circostanze
valutare altamente, l’efficacia causale della esistenza di fatto di
certe convinzioni etiche o religiose sulla vita economica — da
ciò non deriva affatto che quelle convinzioni, che hanno forse
causalmente operato molto, debbano perciò anche essere condi-
vise o anche soltanto ritenute « fornite di valore»; così come,
al contrario, mediante l’affermazione del valore di un fenome-
no etico o religioso non si è detto proprio niente sulla possibili
tà di qualificare anche le inconsuete conseguenze, che la sua
realizzazione ha avuto o avrebbe, con il medesimo predicato
positivo di valore. Su queste questioni non si arriva a niente
attraverso determinazioni di fatto; esse vengono giudicate dal-
l'individuo in maniera assai diversa, a seconda delle sue proprie
valutazioni religiose, o pratiche di altro genere. Tutto ciò non
riguarda la questione che viene discussa. E invece io mi oppon-
go energicamente alla convinzione che una scienza «realisti
ca» dei fenomeni etici, vale a dire l’indicazione delle in-
fluenze di fatto che le convinzioni etiche, prevalenti in un
41. SFORICISMO TEDESCO.
642 MAX WEBER
certo gruppo di uomini, hanno subito dalle altre condizioni di
vita e a loro volta hanno esercitato su di esse, possa da parte
sua dare luogo a un’«etica », la quale possa asserire qualcosa
intorno a ciò che deve valere. Ciò avviene tanto poco quanto
un'esposizione « realistica » delle concezioni astronomiche, per
esempio, dei Cinesi — che mostrasse in base a quali motivi
pratici e in qual modo facciano dell’astronomia, a quali risulta-
ti e perché essa pervenga — potrebbe avere per scopo di dimo-
strare la correttezza di questa astronomia cinese; e quanto la
constatazione che gli agrimensori romani oppure i banchieri
fiorentini (gli ultimi proprio nelle partizioni di grandi patrimo-
ni) pervennero sovente con i loro metodi a risultati inconciliabi-
li con la trigonometria o con la tavola pitagorica, potrebbe
porre in discussione la validità di queste. Mediante l'indagine
psicologico-empirica e storica di un determinato punto di vista
valutativo, considerato nel suo condizionamento individuale,
sociale, storico, non si perviene mai a nient'altro che a questo
— a spiegarlo comprendendolo. E ciò non è da poco. Esso è da
desiderarsi non soltanto per la conseguenza concomitante perso-
nale (ma non scientifica), che si può più facilmente « rendere
giustizia » a chi, realmente o apparentemente, la pensa in ma-
niera diversa. Ma è anche scientificamente molto importante:
1) per lo scopo di una considerazione causale empirica dell'a-
gire umano, per imparare cioè a conoscere i suoi reali motivi
ultimi; 2) per determinare, allorché si discute con qualcuno che
diverge (realmente o apparentemente) nella loro valutazione, i
punti di vista valutativi delle due parti. Infatti il senso vero e
proprio di una discussione di valore è questo — di comprende-
re ciò che l'avversario (o anche, ciò che colui che parla) real-
mente intende, cioè il valore a cui ognuna delle due parti tiene
in realtà, e non solo in apparenza, rendendo così possibile in
genere una presa di posizione di fronte a questo valore. Ben
lungi dal ritenere che dal punto di vista dell'esigenza dell’« ava-
lutatività » delle analisi empiriche siano sterili, o prive di sen-
so, le discussioni intorno alle valutazioni, proprio la conoscenza
di questo loro senso risulta il presupposto di ogni utile conside-
razione del genere. Esse presuppongono semplicemente la com-
prensione della possibilità di valutazioni ultime inconciliabilmen-
te divergenti in linea di principio. Poiché « tutto comprendere »
MAX WEBER 643
non significa anche « tutto perdonare », né la mera comprensio-
ne del punto di vista altrui conduce, di per sé, alla sua approva-
zione. Fssa conduce almeno altrettanto facilmente, e sovente
con maggiore probabilità, a conoscere perché e in che cosa n0n
si può concordare. Questa conoscenza è appunto una conoscen-
za di verità, e 44 essa servono le « discussioni valutative ». Ciò
che su tale strada non si può certo conseguire — perché sta
nella direzione precisamente opposta — è una qualsiasi etica
normativa, o in genere la capacità vincolante di qualche « impe-
rativo ». Ognuno sa piuttosto che un fine siffatto viene reso più
difficile dall’azione « relativizzante », almeno in apparenza, di
tali discussioni. Con questo non si dice naturalmente che si
debba, per tale motivo, evitarle. Proprio al contrario. Una con-
vinzione «etica» che si lascia scalzare dalla « comprensione »
psicologica di valutazioni divergenti è stata infatti fornita di
valore né più né meno delle opinioni religiose che vengono
distrutte dalla conoscenza scientifica — come talvolta accade.
Quando infine Schmoller sostiene che i propugnatori dell’« ava-
lutatività » delle discipline empiriche possono riconoscere soltan-
to verità etiche «formali» (è ovvio che egli le intende nel
senso della « critica della ragione pratica »), ci si deve addentra-
re — sebbene il problema non rientri senz’altro nella nostra
questione — in alcune considerazioni.
In primo luogo si deve respingere l’identificazione — impli-
cita nella concezione di Schmoller — degli imperativi etici con
i « valori culturali », anche con i più alti. Infatti può esserci un
punto di vista per il quale i valori culturali sono « imposti »,
anche nella misura in cui risultano in inevitabile e inconciliabi-
le conflitto con ogni etica. E viceversa è possibile, senza interna
contraddizione, un’etica la quale rifiuti tutti i valori culturali.
In ogni caso le due sfere di valori non sono identiche. E così
pure è un grave (per quanto diffuso) fraintendimento ritenere
che proposizioni « formali», come quelle dell’etica kantiana,
non contengano alcuna indicazione di contenuto. La possibilità
di un'etica normativa non viene in alcun modo posta in questio-
ne per il fatto che vi sono problemi di carattere pratico per i
quali essa non può fornire, di per sé, prescrizioni univoche (e a
tale ambito appartengono in modo specifico determinati proble-
mi istituzionali, cioè appunto i problemi « politico-sociali »), e
644 MAX WEBER
inoltre che l’etica non è la sola cosa che «valga» nel mondo,
ma che accanto ad essa sussistono altre sfere di valori — i cui
valori può, in certe circostanze, realizzare soltanto chi si assu-
ma una «colpa» etica. In ciò rientra specialmente la sfera
dell’agire politico. Sarebbe da deboli, a parer mio, voler negare
le tensioni nei confronti della sfera etica, che essa appunto
contiene. Ma ciò non è affatto proprio soltanto di essa, come fa
credere la contrapposizione in uso di «morale privata» e di
« morale politica ». — Indaghiamo ora alcuni « limiti » dell’eti-
ca, a cui si è prima fatto riferimento.
Le conseguenze del postulato della « giustizia » rientrano
nell’ambito delle questioni che non possono venir decise univoca-
mente da ressuna etica. Se per esempio — il che corrisponde-
rebbe maggiormente alle concezioni espresse a suo tempo da
Schmoller — si debba anche molto a colui che fa molto, o
viceversa si possa chiedere molto a chi molto può fare; se
quindi in nome della giustizia (eliminando allora altri punti
di vista — come quello dell’« incentivo » necessario) si debba-
no concedere al grande talento anche grandi possibilità, o se si
debba invece (come riteneva Babeuf*) pareggiare l'ingiustizia
dell’ineguale distribuzione dei doni spirituali, preoccupandoci
con rigore che il talento, il cui semplice possesso già fornisce
un sentimento di prestigio che rende felice l’individuo, non
possa utilizzare ancora per sé le sue migliori possibilità nel
mondo — tutto questo non può venir risolto in base a premesse
«etiche ». A questo tipo appartiene però la problematica etica
della maggior parte delle questioni di politica sociale.
Ma anche nel campo dell’agire personale vi sono problemi
fondamentali, di carattere specificamente etico, che l’etica non
può risolvere in base ai propri presupposti. Tra di essi rien-
tra in primo luogo la questione fondamentale se il valore
in sé dell’agire etico — il «puro volere» o l’«intenzione »,
come si vuole esprimerlo — debba bastare alla sua giustificazio-
4. Frangois-Noel Babeuf, noto come Gracchus Babeuf (1760-1797), esponente
dell'ala estremistica della Rivoluzione francese, pubblicò il giornale « Le tribun du
peuple » e diresse la Congiura degli cguali: la sua teoria politica, di ispirazione
rousscauiana, è fondata sulla rivendicazione dell'eguaglianza non soltanto politica,
ma anche economica.
MAX WEBER 645
ne, secondo la massima «il Cristiano agisce bene e rimette a
Dio la conseguenza » (come i moralisti cristiani l’hanno formula-
ta), oppure se si debba prendere in considerazione la responsabi-
lità per le conseguenze dell’agire, previste come possibili 0 co-
me probabili, così come esse sono condizionate dal suo inseri-
mento nel mondo eticamente irrazionale. Nel campo sociale
ogni posizione politica radicalmente rivoluzionaria, soprattutto
il cosiddetto « sindacalismo », procede dal primo postulato, e
ogni « politica realistica» procede invece dal secondo. Entram-
be si richiamano a massime etiche; ma queste massime stanno
tra loro in un eterno contrasto, il quale non può essere affatto
risolto senz’altro con i mezzi di un'etica che abbia il proprio
fondamento soltanto in se stessa.
Queste due massime etiche sono massime di carattere rigoro-
samente « formale », in ciò simili ai noti assiomi della Critica
della ragione pratica. Di questi ultimi si è molto spesso credu-
to, per questo loro carattere, che non contenessero indicazioni di
contenuto per la valutazione dell’agire. Ma ciò non è per nien-
te esatto, come già si è accennato. Prendiamo di proposito un
esempio il più possibile distante dalla « politica », il quale può
forse chiarire che senso abbia propriamente questo carattere
«solo formale», di cui si è a lungo parlato, di tale etica.
Supponiamo che un uomo dica, riferendosi alla sua relazione
erotica con una donna, « all’inizio il nostro rapporto era soltan-
to una passione, ora esso costituisce un valore » — la temperata
oggettività dell’etica kantiana esprimerebbe così la prima metà
di questa proposizione: «all’inizio noi eravamo entrambi, l’u-
no per l’altro, soltanto mezzi», e considererebbe quindi
l'intera proposizione come un caso particolare di quel noto
principio che stranamente si è volentieri ritenuto un’espressio-
ne, condizionata solo storicamente, dell’« individualismo », men-
tre in verità esso rappresenta una formulazione quanto mai
geniale di un'infinita molteplicità di situazioni etiche, che si
debbono appunto intendere correttamente. Nella sua enuncia-
zione negativa, ed escludendo qualsiasi asserzione su quello
che deve essere il contrapposto positivo della considerazione
dell’altro «soltanto come mezzo », che eticamente deve venir
rifiutata, essa comporta evidentemente: 1) il riconoscimento di
sfere di valori autonome, al di fuori della sfera etica; 2) la
646 MAX WEBER
delimitazione della sfera etica nei loro confronti; 3) la determi-
nazione infine del fatto che — e del senso in cui — si possono
tuttavia attribuire all’agire al servizio di valori extra-etici delle
differenze di dignità etica. Di fatto quelle sfere, che permetto-
no o prescrivono la considerazione dell’altro «soltanto come
mezzo », sono eterogenee rispetto all’etica. L'analisi non può
qui essere ulteriormente proseguita: in ogni caso però risulta
che il carattere « formale » anche di quella proposizione etica
così astratta non rimane indifferente rispetto al contenuto dell’a-
gire. Ma il problema si complica ancora. Quel predicato negati-
vo, che è stato espresso con le parole « soltanto una passione »,
può da un determinato punto di vista venir considerato come
un insulto a ciò che di interiormente più puro e più proprio vi
è nella vita, dell'unica via o almeno della via primaria per
uscire al di fuori dei meccanismi «di valore» impersonali e
sovra-personali, e perciò ostili alla vita, per uscire dall’incatena-
mento alla pietra senza vita dell’esistenza quotidiana e dalle
pretese di un’irrealtà «imposta ». Si può ad ogni modo pensare
a una concezione di questo punto di vista che — sebbene abbia
a disdegno il termine «valore » per designare la concretezza
dell’Erleben — costituirebbe appunto una sfera la quale, respin-
gendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bontà,
ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o
valutazione della personalità, pretenderebbe tuttavia, e anzi pro-
prio a causa di ciò, la sua propria dignità «immanente» nel
senso estremo della parola. Quale che possa essere la nostra
presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso
essa non può venir dimostrata o «confutata » con i mezzi di
nessuna « scienza ».
Ogni considerazione empirica di questi argomenti condur-
rebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill”, al riconosci-
mento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisi-
ca ad essi adeguata. Una considerazione non più empirica, ma
interpretativa, cioè un’autentica filosofia dei valori, non potreb-
5. Weber si riferisce qui alla formulazione dei saggi postumi Nature, the Uti-
lity of Religion, and Theism, London, 1874, pp. 130-31 (ma cfr. anche p. 150). Per
questo riferimento si veda il breve articolo Zwisclien zwei Gesetze, pubblicato nella
rivista « Die Frau » del febbraio 1916 (ora raccolto in Gesammelte politische Schrif-
ten, 2° cd. Tiibingen, 1958, pp. 139-42).
MAX WEBER 647
be poi dimenticare, procedendo innanzi, che uno schema con-
cettuale dei « valori », per quanto bene ordinato, sarebbe incapa-
ce di rendere giustizia proprio al punto decisivo della questio-
ne. Tra i valori, cioè, si tratta ovunque e sempre, in ultima
analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale
senza possibilità di conciliazione, come tra « dio» e il « demo-
nio ». Tra di essi non è possibile nessuna relativizzazione e
nessun compromesso. Beninteso, non è possibile in base al loro
senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono
sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, continua-
mente. In quasi ognuna delle prese di posizione importanti di
uomini reali, infatti, le sfere di valori si incrociano e si intrec-
ciano. La superficialità della « vita quotidiana », in questo sen-
so più appropriato del termine, consiste appunto nel fatto che
l’uomo il quale vive entro di essa non diventa consapevole, e
neppure vuole diventarlo, di questa mescolanza di valori mor-
talmente nemici, condizionata in parte psicologicamente e in
parte pragmaticamente; ed egli si sottrae piuttosto alla scelta
tra «dio» e il «demonio», evitando di decidere quale dei
valori in collisione sia dominato dall’uno e quale invece dall’al-
tro. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile an-
che se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’al-
tro che nel dover riconoscere quell’antitesi e nel dover quindi
considerare che ogni singola azione importante, e soprattutto la
vita nel suo insieme — se essa deve non già scorrere via come
un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente —
rappresenta una catena di decisioni ultime, mediante cui l’ani-
ma (come per Platone °) sceglie il suo proprio destino — e cioè
il senso del suo agire e del suo essere. Non a caso il fraintendi-
mento più grossolano, al quale vanno sempre incontro, di quan-
do in quando, le intenzioni di coloro che sostengono la tesi
della collisione tra i valori, è perciò costituito dall'interpretazio-
ne di questo punto di vista come «relativismo » — cioè come
un'intuizione della vita la quale poggia invece proprio sulla
visione, radicalmente opposta, del rapporto reciproco delle sfere
di valore, e può essere realizzata (in forma coerente) soltanto
6. Weber allude qui al mito di Er, esposto nel libro X della Repubblica.
648 MAX WEBER
sul terreno di una metafisica configurata in maniera molto
particolare (cioè di una metafisica « organica »).
Ritornando al nostro caso specifico, mi sembra, senza possi-
bilità di dubbio, che nel settore delle valutazioni pratico-politi-
che (particolarmente anche di politica economica e sociale), da
cui devono essere tratte le direttive per un agire fornito di
valore, le sole cose che una disciplina empirica può porre in
luce con i suoi mezzi sono le seguenti: 1) i mezzi indispensabili
e 2) le inevitabili conseguenze; 3) la concorrenza reciproca, in
tale maniera condizionata, di più valutazioni possibili, conside-
rate nelle loro conseguenze pratiche. Le discipline filosofiche
possono in proposito, con i loro mezzi concettuali, determinare
il «senso» delle valutazioni, cioè la loro struttura dotata di
senso e le loro conseguenze dotate di senso, indicando quindi il
loro «luogo» entro la totalità dei valori « ultimi» che sono
possibili in generale e delimitando le loro sfere di validità
significative. Ma già questioni molto semplici — per esempio
in quale misura uno scopo debba sanzionare i mezzi che sono
per esso indispensabili; oppure in quale misura debbano venir
messe in conto le conseguenze non volute; oppure come si
debbano appianare i conflitti tra più scopi in concreto contra-
stanti, che sono oggetto di volontà o di dovere — sono in tutto
e per tutto questioni di scelta o di compromesso. Non c'è
nessun procedimento scientifico (razionale o empirico) di qual-
siasi specie, che potrebbe qui fornire una decisione. E meno
ancora la rostra scienza, che è rigorosamente empirica, può
pretendere di risparmiare all'individuo questa scelta; per cui
essa non deve neppure suscitare l'apparenza di poterlo fare.
Occorre infine osservare esplicitamente che il riconoscimen-
to di questa situazione è, per le nostre discipline, del tutto
indipendente dalla presa di posizione di fronte alle considera-
zioni di teoria dei valori prima accennate con molta brevità.
Non c’è infatti nessun punto di vista logicamente sostenibile
in base a cui esso possa venir rifiutato, se si prescinde da una
gerarchia di valori univocamente prescritta mediante dogmi
ecclesiastici. Debbo aspettarmi che si trovi realmente della gen-
te capace di affermare la zon-diversità di senso dei due gruppi
MAX WEBER 649
di questioni seguenti — da un lato questioni come: un fatto
concreto avviene così o altrimenti? perché la situazione concre-
ta in esame si è configurata così e non altrimenti? a una data
situazione, secondo una regola dell’accadere di fatto, segue di
solito un’altra, e con quale grado di probabilità? — e dall'altro
questioni come: che cosa si deve praticamente fare in una
concreta situazione? da quali punti di vista quella situazione
può apparire praticamente auspicabile oppure no? vi sono pro-
posizioni (assiomi) formulabili, in qualsiasi maniera, general-
mente, a cui si possano ridurre questi punti di vista? Debbo aspet-
tarmi che. sia sostenuta l'identità della questione concernente
la direzione in cui una situazione di fatto, concretamente data
(o in generale una situazione di un determinato tipo, in qual-
che modo accessibile), si svilupperà con probabilità — e con
quale misura di probabilità (cioè è solita svilupparsi tipicamen-
te) — e dell’altra questione concernente invece il dovere di
contribuire affinché una determinata situazione si sviluppi in
una determinata direzione — sia essa di per sé probabile, oppu-
re opposta o un’altra qualsiasi? Debbo aspettarmi infine che
sia sostenuta l’identità della questione concernente l’opinione
che determinate persone in certe circostanze concrete, o un
numero indeterminato di persone nelle medesime circostanze,
si formeranno con probabilità (o anche con sicurezza) su un
problema di qualche specie, e dall’altra parte della questione
concernente la correttezza di questa opinione, che si forma con
probabilità o con sicurezza? Debbo cioè aspettarmi che vi sia
della gente la quale affermi che le questioni di ognuna di tali
coppie antitetiche abbiano anche soltanto qualcosa a che fare
l'una con l’altra, e che esse realmente — come ogni tanto si
ripete — non possano «essere separate l’una dall'altra »? e che
quest’ultima asserzione 207 sia in contraddizione con le esigen-
ze del pensiero scientifico? Se qualcuno, il quale pur concede
l'assoluta eterogeneità delle due specie di questioni, tuttavia
pretende di esprimersi nel medesimo libro, nella medesima pa-
gina, magari in una proposizione principale o secondaria di
una medesima unità sintattica, da un lato sull’uno e dall’altro
sull’altro di quei due problemi tra loro eterogenei — questo è
affar suo. Ciò che da lui si esige è semplicemente che egli non
illuda senza volerlo (o anche per volontaria mordacità) i suoi
650 MAX WEBER
lettori sull’assoluta eterogeneità dei problemi. Personalmente re-
sto del parere che nessun mezzo al mondo è troppo « pedante-
sco» per essere impiegato allo scopo di evitare confusioni.
Il senso delle discussioni intorno a valutazioni pratiche (de-
gli stessi partecipanti alla discussione) può essere dato soltanto
dalle operazioni seguenti:
a) L'elaborazione degli assiomi di valore ultimi, internamen-
te « coerenti », da cui procedono le opinioni tra loro contrappo-
ste. Abbastanza spesso ci si inganna non soltanto sugli assiomi
dell'avversario, ma anche sui propri. Questo procedimento costi-
tuisce un'operazione che, nella sua essenza, parte dalla valuta-
zione particolare e dalla sua analisi dotata di senso, per proce-
dere sempre più in alto verso prese di posizione valutative più
fondamentali. Esso non opera con gli strumenti di una discipli-
na empirica e non apporta nessuna conoscenza di fatti. Esso
«vale » nello stesso modo in cui vale la logica.
b) La deduzione delle «conseguenze » connesse alla presa
di posizione valutativa, che derivano da determinati assiomi di
valore ultimi, quando essi, ed essi soltanto, sono posti a fonda-
mento della valutazione pratica di un certo stato di cose. Essa
è puramente dotata di senso in riferimento all’argomentazione
logica, ma d’altra parte è vincolata a osservazioni empiriche per
quanto riguarda la casistica più esauriente possibile di quelle si-
tuazioni empiriche che possono venir prese in considerazione, in
generale, in una valutazione pratica.
c) La determinazione delle conseguenze di fatto che produ-
ce la realizzazione pratica di una data presa di posizione valuta-
tiva nei confronti di un certo problema:
1) a causa del legame con determinati mezzi indispen-
sabili;
2) a causa dell’inevitabilità di determinate conseguenze
concomitanti, non direttamente volute.
Questa determinazione puramente empirica può avere come
risultato, tra l’altro:
1) l'assoluta impossibilità di qualsiasi realizzazione, per
quanto solo molto approssimativa, del postulato di valore, in
quanto non è possibile escogitare nessuna via per realizzarlo;
MAX WEBER 651
2) la maggiore o minore improbabilità di una sua realiz-
zazione compiuta, o anche soltanto approssimativa, o per gli
stessi motivi oppure perché esiste la probabilità che si verifichi-
no conseguenze concomitanti non volute, che sono tali da ren-
derne direttamente o indirettamente illusoria la realizzazione;
3) la necessità di accettare tali mezzi o tali conseguenze
concomitanti, che il sostenitore del postulato pratico in questio-
ne non aveva considerato, di modo che la sua decisione valutati-
va tra scopo, mezzo e conseguenza diventi per lui stesso un
nuovo problema, e perda la sua forza coercitiva sugli altri.
d) Infine possono presentarsi nuovi assiomi di valore, e di
conseguenza nuovi postulati, che il sostenitore di un certo po-
stulato pratico non ha osservato, e di fronte ai quali non ha
quindi preso posizione, sebbene la realizzazione del proprio
postulato entri in collisione con essi, sia in linea di principio
oppure per le conseguenze pratiche che ne derivano, cioè per il
loro senso o praticamente. Nell’un caso (contrasto di principio)
si tratta, nella discussione ulteriore, di problemi del tipo 4);
nell’altro (contrasto di conseguenze) si tratta di problemi del
tipo c).
Ben lungi dall'essere « prive di senso », le discussioni valuta-
tive di questo tipo hanno, se sono intese correttamente nel loro
scopo — €, a mio parere, allora soltanto — un'importanza
molto rilevante.
L'utilità di una discussione intorno a valutazioni pratiche,
condotta al luogo giusto e nel giusto senso, non è però affatto
esaurita con tali diretti « risultati », che essa può recare a matu-
razione. Se è condotta correttamente, essa feconda nel modo
più duraturo il lavoro empirico, in quanto gli fornisce le impo-
stazioni problematiche di cui ha bisogno per la propria ricerca.
I problemi delle discipline empiriche debbono certo venir
risoli, da parte loro, in maniera « avalutativa ». Essi non sono
« problemi di valore». Ma tuttavia stanno, nell’ambito delle
nostre discipline, sotto l'influenza della relazione della realtà
«ai» valori. Sul significato dell’espressione «relazione di valo-
re» debbo riferirmi alle mie precedenti formulazioni, e soprat-
tutto alle ben note opere di Heinrich Rickert. Sarebbe impossi-
bile riprendere qui ancora una volta tali questioni. È sufficien-
652 MAX WEBER
te quindi ricordare che quell’espressione — « relazione di valo-
re» — rappresenta semplicemente l’interpretazione filosofica di
quello specifico « interesse » scientifico che dirige la selezione e
la formulazione dell'oggetto di un'indagine empirica.
Nell'ambito dell’indagine empirica, questa circostanza pura-
mente logica non legittima in ogni caso nessuna « valutazione
pratica ». In concordanza con l’esperienza storica essa pone
però in rilievo che sono gli interessi culturali, e perciò gli
interessi di valore, a indicare la direzione anche al lavoro delle
scienze empiriche. È chiaro che questi interessi di valore posso-
no svilupparsi nella loro casistica mediante le discussioni valuta-
tive. E queste possono diminuire di molto, o almeno rendere
più facile, al ricercatore che lavora scientificamente, e soprattut-
to allo storico, il compito dell’«interpretazione di valore» —
che per lui è un aspetto preliminare così importante del suo
lavoro propriamente empirico. Infatti non soltanto la distinzio-
ne tra valutazioni e relazioni ai valori, ma anche quella tra
valutazione e interpretazione di valore (cioè lo sviluppo delle
prese di posizione dotate di senso, che sono possibili di fron-
te a un dato fenomeno), sovente non è compiuta chiaramente, e
quindi ne derivano oscurità per la determinazione dell’essenza
logica della storia: mi sia consentito di rinviare a questo propo-
sito alle osservazioni già fatte altrove* (senza ritenerle del re-
sto in alcun modo conclusive).
Invece di inoltrarmi ancora una volta nella discussione di
questi fondamentali problemi metodologici, vorrei prendere in
esame alcuni punti particolari, che sono praticamente importan-
ti per le nostre discipline.
È ancora sempre diffusa la fede che si debba, o che sia
necessario, oppure che si possa derivare delle indicazioni per
le valutazioni pratiche da « tendenze di sviluppo ». Solo che da
tali «tendenze di sviluppo », per quanto univoche esse siano, si
possono trarre imperativi univoci dell’agire soltanto rispetto ai
mezzi che si prevedono più appropriati per date prese di posi-
a. Nel saggio Kritische Studien auf dem Gebiet der Rulturwissen-
schaftlichen Logik, « Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik »,
XXII, 1906, pp. 168-69 [ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaft-
slehre, pp. 245-47]-
MAX WEBER 653
zione, non però rispetto a quelle prese di posizione. Certamen-
te qui il concetto di « mezzo» è il più ampio che si possa
concepire. Chi per esempio considerasse gli interessi di potenza
dello stato come un fine ultimo, dovrebbe in rapporto alla
situazione data considerare una costituzione assolutistica oppu-
re una costituzione democratico-radicale come il mezzo (relati-
vamente) più adatto; e sarebbe estremamente ridicolo prendere
un qualsiasi mutamento nella valutazione di questo apparato
statale come mezzo per un mutamento nella presa di posizione
«ultima ». È però inoltre evidente, come già si è detto, che al
singolo sì presenta sempre nuovamente il problema se egli
debba lasciar cadere la speranza nella realizzabilità delle sue
valutazioni pratiche di fronte alla conoscenza del sussistere di
una tendenza univoca di sviluppo, la quale condiziona lo scopo
cui egli aspira all'impiego di muovi mezzi che, per motivi etici
o di altra specie, gli appaiono eventualmente dubbi, o all’ac-
cettazione di conseguenze concomitanti da lui aborrite, oppure
la rende così improbabile da fare apparire il suo lavoro, misura-
to in base alla possibilità di successo, una sterile « donchisciotte-
ria ». Ma la conoscenza di tali « tendenze di sviluppo », più o
meno difficilmente mutabili, non occupa affatto una posizione
particolare. Ogri nuovo fatto singolo può parimenti avere per
effetto di configurare in maniera nuova l'equilibrio tra lo scopo
e i mezzi indispensabili, o tra il fine voluto e la conseguenza
concomitante inevitabile. Se ciò debba accadere — e quali con-
clusioni pratiche se ne possano trarre — è una questione che
non rientra in una scienza empirica, e anzi, come si è detto, in
nessuna scienza in genere, di qualsiasi specie. Si può per esem-
pio dimostrare tangibilmente al sindacalista convinto che il suo
agire non solo è socialmente « inutile », cioè non promette alcu-
na conseguenza per il mutamento della situazione esterna di
classe del proletariato, ma la peggiora inevitabilmente provocan-
do disposizioni «reazionarie» — con questo però non gli si
dimostra nulle, se egli è realmente fedele alle conseguenze
ultime della sua convinzione. E ciò non perché egli sia un
insensato, ma perché può aver «ragione» dal suo punto di
vista — come dovremo discutere. In complesso gli uomini incli-
nano abbastanza fortemente ad adattarsi interiormente al suc-
cesso, 0 a ciò che promette di volta in volta il successo, e non
654 MAX WEBER
soltanto — come è evidente — nei mezzi o nella misura in cui
si sforzano di realizzare i loro ideali ultimi, ma anche nella
rinuncia a questi medesimi. In Germania si crede di poter
fregiare questo comportamento con il nome di « politica realisti-
ca ». In ogni caso non si riesce a comprendere perché proprio i
rappresentanti di una disciplina empirica debbano sentire il
bisogno di appoggiarlo, fornendo la propria approvazione alla
«tendenza di sviluppo » di volta in volta prevalente e trasfor-
mando l’« adattamento » a questa tendenza da problema di
valutazione vitimo, da risolversi caso per caso da parte della
coscienza dell’individuo, in un principio che si suppone coperto
dall’autorità di una «scienza ».
È esatto — se correttamente inteso — che una politica la
quale rechi al successo è sempre l’« arte del possibile ». Ma
non meno esatto è che il possibile molto sovente è stato rag-
giunto solo in quanto si è mirato all’impossibile che sta al di
là di esso. Infine, non è stata la sola etica realmente coerente
dell’« adattamento » al possibile, cioè la morale burocratica del
Confucianesimo, che ha prodotto le qualità specifiche della no-
stra cultura — qualità che probabilmente noi tutti, nonostante
ogni altra differenza, stimiamo (soggettivamente) in maniera
più o meno positiva. Da parte mia, almeno, non vorrei dissua-
dere sistematicamente la nazione, proprio in nome della scien-
za, dal ritenere che — come prima si è posto in luce — accanto
al « valore di successo » di un’azione stia anche il suo « valore
di intenzione ». In ogni caso, però, il disconoscimento di questa
circostanza danneggia la comprensione dei fatti reali. Poiché,
per rimanere all'esempio prima addotto del sindacalista, è an-
che logicamente un’assurdità commisurare a scopo di «critica »
un atteggiamento, che — se coerente — deve avere come regola
il suo « valore di intenzione », semplicemente con il suo « valo-
re di successo ». Il sindacalista realmente coerente vuole sempli-
cemente mantenere in se stesso, e per quanto è possibile suscita-
re in altri, una determinata coscienza, che gli appare dotata di
valore e sacra. Le sue azioni esterne, proprio quelle che in
partenza sono condannate anche a un'assoluta mancanza di
successo, hanno in ultima analisi lo scopo di dargli, di
fronte al proprio foro, la certezza che tale coscienza è pu-
ra, che essa ha cioè la forza di « comprovarsi » in azioni e non
MAX WEBER 655
è solo una mera smargiassata. Per tale scopo (forse) c’è soltan-
to il mezzo costituito da tali azioni. Per il resto — se egli è
coerente — il suo regno, come il regno di ogni etica dell’inten-
zione, non è di questo mondo. « Scientificamente » si può solo
determinare che questo modo di concepire i propri ideali è il
solo internamente conseguente, e non è confutabile mediante
« fatti » esterni. Io ritengo che con questo sia stato reso, sia
ai sostenitori sia agli avversari del sindacalismo, un servizio —
e precisamente quel servizio che essi a buon diritto pretendono
dalla scienza. Mi sembra invece che nulla si possa ottenere,
nel senso di zessuza scienza di qualsiasi tipo, a trattare con
locuzioni del tipo « da un lato — dall’altro» di sette motivi
«a favore» e di sei «contro» un determinato fenomeno (per
esempio uno sciopero generale), e a discuterlo secondo il modo
della vecchia mentalità giuridica oppure dei moderni memoria-
li cinesi. Con quella riduzione del punto di vista sindacalistico
alla sua forma il più possibile razionale e internamente coeren-
te, e con la determinazione delle sue condizioni empiriche di
nascita, delle sue possibilità e delle sue conseguenze pratiche
conformi all’esperienza, è in ogni caso esaurito il compito della
scienza avalutativa nei suoi confronti. Se si debba essere o non
essere un sindacalista, ciò non si può mai provare senza far
ricorso a premesse metafisiche ben determinate, le quali non
sono dimostrabili, e in questo caso non lo sono certo median-
te qualsiasi scienza, quale che essa sia. Così pure, che un
ufficiale preferisca saltare in aria con il suo fortino anziché
arrendersi, può nel caso specifico risultare assolutamente inuti-
le sotto ogni riguardo, se commisurato alla conseguenza. Ma
non sarebbe indifferente che sia esistita o no l'intenzione che
lo ha spinto a ciò, senza indagarne l'utilità. Essa risulta « priva
di senso » tanto poco quanto lo è quella del sindacalista coeren-
te. Quando il professore, dalla comoda altezza della cattedra,
vuole raccomandare un catonismo di tale specie, ciò non appari-
rebbe certo particolarmente appropriato. Ma non è neppure
indicato che egli apprezzi l’opposto, facendo un dovere dell’a-
dattarsi degli ideali alle possibilità offerte appunto dalle tenden-
ze di sviluppo attuali e dalle attuali situazioni.
È stato qui innanzi ripetutamente usato il termine « adatta-
mento », che nel caso specifico risulta, data la formulazione
656 MAX WEBER
scelta, abbastanza privo di fraintendimento. Ma si deve rilevare
che di per sé ha un duplice significato: da un lato designa
l'adattamento dei mezzi di una presa di posizione ultima a date
situazioni (« politica realistica» in senso stretto) — dall’altro
designa l'adattamento nella scelta delle medesime prese di posi-
zione ultime, che sono in genere possibili, alle possibilità mo-
mentanee che una di esse realmente o apparentemente possiede
(ed è quel tipo di « politica realistica » con cui la nostra politi-
ca, da ventisette anni in qua, è pervenuta a così curiosi succes-
si). Ma con ciò il numero dei suoi possibili significati non è
ancora esaurito. Sarebbe perciò piuttosto opportuno, a mio pare-
re, in ogni discussione dei nostri problemi, sia di questioni di
« valutazione » che di altre, togliere di mezzo questo concetto
di cui si è tanto abusato. Infatti esso è sempre del tutto frainte-
so come espressione di un argomento scientifico, nella cui for-
ma si presenta ognora rinnovato sia a scopo di « spiegazione »
(per esempio della sussistenza empirica di certe intuizioni eti-
che presso certi gruppi umani in determinate epoche) sia a
scopo di « valutazione » (per esempio di quelle intuizioni eti-
che, esistenti di fatto, in quanto oggettivamente « adattate » e
perciò oggettivamente « corrette » e fornite di valore). In nessu-
no di questi sensi esso serve però a qualcosa, perché sempre ha
bisogno a sua volta di interpretazione. Esso ha la sua patria
nella biologia. Se fosse realmente preso in senso biologico, per
designare la possibilità data dalle circostanze, e relativamente
determinabile, che un gruppo umano possiede di mantenere la
propria eredità psico-fisica mediante una grossa riproduzione,
allora gli strati popolari economicamente meglio provvisti, e
capaci di regolare più razionalmente la loro vita, sarebbero i
«meno adattati », secondo le note esperienze fornite dalla stati-
stica delle nascite. « Adattati » alle condizioni dell'ambiente del-
la zona di Salt Lake erano, in senso biologico — ma anche in
ognuno dei numerosi altri significati puramente empirici — i
pochi Indiani che vi vivevano prima dell’arrivo dei Mormoni,
e lo erano nella stessa maniera, altrettanto bene e altrettanto
male, le più tarde e numerose popolazioni mormoniche. In
virtù di questo concetto noi non perveniamo affatto a una
migliore comprensione sul piano empirico, ma ci immaginiamo
facilmente di farlo. E soltanto nel caso di due organizzazioni
MAX WEBER 657
per il resto assolutamente equivalenti sotto 0gr: rispetto — que-
sto può venir stabilito fin d'ora — si può dire che una concreta
differenza particolare è capace di condizionare una situazione
empiricamente « più opportuna » per la permanenza di una di
esse, e quindi in tal senso « più adattata » alle condizioni date.
Per ciò che riguarda la valutazione si può tanto essere dell’opi-
nione che il maggior numero e le prestazioni e qualità materia-
li e di altra specie, che i Mormoni portarono sul posto e vi
svilupparono, siano una prova della loro superiorità sugli India-
ni, quanto essere invece del parere di colui che aborre incondi-
zionatamente i mezzi e le conseguenze concomitanti dell’etica
dei Mormoni, la quale è almeno corresponsabile di quelle azio-
ni, e quindi può pienamente preferire la romantica esistenza
degli Indiani nella prateria — senza che nessuna scienza al
mondo, di qualsiasi specie, possa pretendere di dissuaderlo.
Qui si tratta già, infatti, dell’irresolubile equilibrio tra scopo,
mezzo e conseguenza concomitante.
Soltanto quando la questione concerne i mezzi appropriati
per un dato scopo, stabilito in maniera assolutamente univoca,
essa può realmente venir decisa sul terreno empirico. La propo-
sizione « x è il solo mezzo per y » è infatti la semplice inversio-
ne della proposizione « a x segue y ». Però il concetto di « adat-
tazione » (e tutti gli altri affini) non fornisce in nessun caso —
e questa è la cosa principale — la minima informazione sulle
fondamentali valutazioni ultime, e anzi semplicemente le cela;
lo stesso fa, per esempio, il concetto in fondo confuso, e di
recente prediletto, di «economia umana». « Adattato» nel
campo della «cultura» è, secondo il modo in cui il concetto
assume un significato, tutto o nulla. Poiché non si può elimina-
re la lotta da ogni vita culturale. Si possono mutare i suoi
mezzi, il suo oggetto, anche la sua direzione fondamentale e i
suoi portatori; ma non si può metterla da parte. Essa può
costituire, anziché un conflitto esterno di uomini ostili per co-
se esterne, un conflitto interno di uomini che si amano in vista
di beni interiori, e quindi non una costrizione esterna ma
un'oppressione interna (appunto anche in forma di dedizione
erotica o caritativa), o rappresentare infine un conflitto interio-
re dell’anima dell'individuo con se stessa — ma sempre c’è, e
sovente con conseguenze tanto maggiori quanto meno viene
42. STORICISMO TEDESCO,
658 MAX WEBER
notata, cioè quanto più il suo corso assume la forma di un'ottu-
sa o di una comoda indifferenza o anche di un’auto-illusione,
oppure si compie mediante la «selezione ». La « pace» non
significa nient'altro che un differimento delle forme di lotta o
degli avversari o degli oggetti di lotta, o infine delle possibilità
di selezione. Se e quando spostamenti del genere passino la
prova di fronte a un giudizio valutativo, etico o di altra spe-
cie, non può ovviamente essere stabilito in termini generali.
Soltanto una cosa è fuori dubbio: che ogni ordinamento, di
qualsiasi tipo, di relazioni sociali, se si vuole valutarlo, deve
in ultima analisi essere sempre esaminato in riferimento al #po
umano a cui esso, attraverso una selezione (di motivi) esterna o
interna, dà le migliori possibilità per diventare predominante.
Altrimenti l'indagine empirica non è realmente esaustiva, e
neppure c’è la base di fatto necessaria per una valutazione, sia
essa consapevolmente soggettiva oppure pretenda invece una
validità oggettiva. Questa circostanza sia ricordata almeno a
quei numerosi colleghi i quali credono che si possa operare,
nella determinazione delle linee di sviluppo sociali, con un
preciso concetto di « progresso ». Ciò ci conduce dinanzi al
compito di un'analisi più ravvicinata di questo importante con-
cetto.
Si può naturalmente usare il concetto di « progresso » in
maniera assolutamente avalutativa, se lo si identifica con il
« progredire » di un qualsiasi concreto processo di sviluppo,
considerato isolatamente. Ma nella maggior parte dei casi la
cosa è sostanzialmente più complicata. Noi prendiamo qui in
esame alcuni casi in cui, in campi eterogenei, la congiunzione
con questioni di valore è la più intrinseca possibile.
Nel campo dei contenuti irrazionali, sentimentali, affettivi
del nostro. atteggiamento psichico, l'accrescimento quantitativo
e la moltiplicazione qualitativa — che nella maggior parte dei
casi vi è legata — delle possibili forme di atteggiamento posso-
no venir designati in modo avalutativo come progresso della
« differenziazione » psichica. Ma ad esso si unisce ben presto il
concetto di valore di un accrescimento della « portata » o della
«capacità » di un’« anima » concreta oppure — il che già rap-
presenta una costruzione tutt'altro che univoca — di un’« epo-
MAX WEBER 659
ca» (come avviene nel libro di Simmel, Schopenhauer und
Nietzsche”).
È fuori di dubbio, naturalmente, che quel « progredire del-
la differenziazione » esiste di fatto — con la riserva che non
sempre esso c'è là dove si crede alla sua presenza. L'attenzione
per le sfumature del sentimento, che viene crescendo nel perio-
do attuale — sia come conseguenza dell’aumentata razionalizza-
zione e intellettualizzazione di tutti i settori della vita, sia
come conseguenza dell’aumentata importanza soggettiva che
l'individuo attribuisce alle proprie manifestazioni di vita (per
gli altri spesso estremamente indifferenti) — facilmente illu-
de sull’esistenza di una crescente differenziazione. Essa può
rappresentare questa differenziazione, oppure promuoverla; ma
l'apparenza inganna con facilità, e io confesso che vorrei stima-
re abbastanza alta la portata di tale illusione. Ad ogni modo il
fatto esiste. Designare una differenziazione progressiva come
« progresso » è di per sé una questione di opportunità termino-
logica. Ma che essa debba venir valutata come « progresso »
nel senso di una crescente « ricchezza interiore », non può in
ogni caso essere deciso da nessuna disciplina empirica. Infatti
queste discipline non hanno competenza per stabilire se le nuo-
ve possibilità di sentimento che si vengono sviluppando, o che
sono tratte alla coscienza, con le nuove «tensioni» e i nuovi
« problemi » che in certe circostanze comportano, debbano ve-
nir riconosciute come « valori ». Chi però non voglia assumere
una posizione valutativa di fronte al fatto della differenziazio-
ne in quanto tale — cosa che certamente nessuna disciplina empi-
rica può proibire ad alcuno — e cerchi un punto di vista
adatto allo scopo, viene di conseguenza condotto, anche da
alcuni fenomeni contemporanei, di fronte alla questione del
prezzo che questo processo, in quanto è diventato qualcosa di più
di un'illusione intellettualistica, è «costato ». Egli non po-
trà ad esempio dimenticare che la caccia all’Erlebzis — questo
valore alla moda peculiare della Germania contemporanea —
può essere in misura assai forte il prodotto di una diminu-
zione della forza di sostenere interiormente la « vita quotidia-
na», e che quella pubblicità, che l’individuo sempre più sente
7. Schopenhauer und Nietzsche, ein Vortragszyklus, Leipzig, 1908.
660 MAX WEBER
il bisogno di dare al suo Erleden, potrebbe pure essere valutata
come una perdita nel sentimento della distanza, e quindi dello
stile e della dignità. In ogni caso, nel campo delle valutazioni
dell’Erleben soggettivo il « progresso della differenziazione » è
identico con l’aumento del « valore » soltanto nel senso intellet-
tualistico di un accrescimento dell’Erleden consapevole, oppure
dell’accrescimento della capacità di espressione e della comuni-
cabilità.
Le cose sono alquanto più complicate a proposito dell’appli-
cabilità del concetto di « progresso » (nel senso di valutazione)
al campo dell’arse. Essa viene talvolta contestata con violenza;
e, a seconda del senso in cui viene intesa, a ragione o a torto.
Non c'è mai stata nessuna considerazione valutativa dell’arte
che potesse procedere con l’antitesi esclusiva di « arte» e « non-
arte », facendo a meno delle distinzioni tra tentativo e riuscita,
tra il valore delle diverse riuscite, tra la riuscita compiuta e
quella che risulta infelice in qualche punto specifico, oppure in
parecchi e anche importanti, ma tuttavia non è senz'altro priva
di valore — e ciò non soltanto per una concreta volontà di
creazione artistica, ma anche per la volontà artistica di epoche
intere. Il concetto di un « progresso », applicato a queste situa-
zioni, appare banale, a causa del suo impiego in riferimento a
puri problemi tecnici. Ma esso non risulta di per sé privo di
senso. Assai differente appare il problema per la storia del-
l’arte e per la sociologia dell’arte, condotte in modo puramen-
te empirico. Per la prima non c’è naturalmente un « progres-
so» dell’arte nel senso della valutazione estetica di opere
d’arte come opere riuscite in maniera dotata di senso; poiché
questa valutazione non può venir compiuta con i mezzi della
considerazione empirica, e si pone completamente al di là del
suo lavoro. Invece proprio essa può impiegare un concetto di
« progresso.» puramente tecnico, razionale e quindi univoco,
del quale si deve adesso parlare — e la cui utilità per la storia
empirica dell’arte deriva dal fatto che questo si limita esclusiva-
mente alla determinazione dei 72e2z1 tecnici che una determina-
ta volontà artistica usa per una data intenzione. L'importanza
per la storia dell’arte di queste analisi così rigorosamente defini-
te è facilmente sottovalutata, oppure fraintesa nel senso di iden-
tificarle con una supposta « conoscenza », del tutto subalterna e
MAX WEBER 661
non genuina, che pretende di aver «inteso » un artista quando
ha sollevato la tenda del suo laboratorio ed esaminato i suoi
mezzi esteriori di rappresentazione, cioè la sua « maniera ».
Soltanto il progresso « tecnico », preso nel suo significato corret-
to, è di competenza della storia dell’arte, poiché proprio esso
— e la sua influenza sulla volontà artistica — costituisce ciò
che di empiricamente determinabile vi è nel corso dello svilup-
po dell’arte, senza implicare il ricorso a una valutazione esteti-
ca. Prendiamo alcuni esempi che possano illustrare i reali signi-
ficati dell'elemento «tecnico », nel senso genuino del termine,
per la storia artistica.
L'origine del gotico fu in prima linea il risultato della solu-
zione tecnica di un problema di copertura degli spazi, in sé di
pura tecnica architettonica — la questione dell’ottimo, dal pun-
to di vista tecnico, per l’edificazione di contrafforti di sostegno
di una volta a croce, congiunta ad alcuni altri particolari che
non occorre qui discutere. Vennero risolti problemi architettoni-
ci molto concreti; e la conoscenza che in tale maniera diventa-
va possibile una determinata maniera di copertura di spazi non
quadrati suscitò l’entusiasmo appassionato di quegli architetti,
per adesso e forse per sempre ignoti, ai quali è dovuto lo
sviluppo del nuovo stile di costruzione. Il loro razionalismo
tecnico condusse il nuovo principio a tutte le sue conseguenze.
La loro volontà artistica lo utilizzò come possibilità di risol-
vere compiti fino allora impensati, e spinse quindi la plastica
sulla via di un nuovo «senso del corpo», suscitato in primo
luogo dalle nuove elaborazioni di spazio e di piani dell’architet-
tura, Che questa trasformazione, di carattere in primo luogo
tecnico, si sia incontrata con certi contenuti di sentimento,
condizionati in forte misura sociologicamente o dalla storia reli-
giosa, fornì gli elementi essenziali di quel materiale di proble-
mi con i quali lavorò la creazione artistica dell’epoca del goti-
co. Allorché la considerazione storica e sociologica dell’arte ha
posto in luce queste condizioni oggettive, tecniche o sociali o
psicologiche, del nuovo stile, essa esaurisce il suo compito pura-
mente empirico. Ma essa non « valuta » con ciò lo stile gotico
in rapporto a quello romanico oppure a quello rinascimentale,
anch'esso fortemente orientato in vista del problema tecnico
della cupola, e insieme in vista dei mutamenti dell'ambito di
662 MAX WEBER
lavoro dell’architettura, condizionati pure sociologicamente; né
« valuta » esteticamente, finché rimane una storia empirica del-
l’arte, la singola costruzione. Anzi, l’interesse per le opere d’arte
e le sue particolari qualità esteticamente rilevanti, quindi il suo
oggetto, è ad essa eteronomo, cioè dato 4 priori in base al valore
estetico che, con i suoi mezzi, essa non può affatto stabilire.
Lo stesso avviene per esempio nel campo della storia della
musica. Dal punto di vista dell’inzeresse dell’uomo europeo mo-
derno («riferimento di valore »!) il suo problema centrale è
questo: perché la musica armonica si sia sviluppata dalla polifo-
nia, affermatasi quasi ovunque su base popolare, soltanto in
Europa e in un determinato spazio di tempo, mentre altrove la
razionalizzazione della musica si è incamminata per un’altra
strada, il più delle volte precisamente opposta, e cioè per la
strada di uno sviluppo degli intervalli mediante la divisione
delle distanze (per lo più una quarta) anziché mediante la
divisione armonica (una quinta). Al centro si colloca il proble-
ma dell'origine della terza nella sua interpretazione armonica,
cioè come elemento della triade, e inoltre il problema del cro-
matismo armonico e ancora della ritmica musicale moderna
(della cadenza lenta e veloce) — invece della cadenza puramen-
te metronomica — vale a dire di una ritmica senza la quale è
impensabile la moderna musica strumentale. Si tratta qui di
nuovo prevalentemente di problemi di « progresso » razionale,
e puramente tecnico. Che per esempio il cromatismo fosse noto
molto prima della musica armonica, come mezzo di rappresen-
tazione della « passione », risulta infatti dall'antica musica cro-
matica (presumibilmente mono-armonica) per gli appassionati
Sé ,uror del frammento di Euripide di recente scoperto. Non
nella volontà espressiva artistica, bensì nei mezzi espressivi tec-
nici stava la differenza di questa musica antica nei confronti di
quella cromatica che i grandi innovatori musicali del Rinasci-
mento crearono in un’impetuosa aspirazione razionale alla sco-
perta — per poter appunto dare forma musicalmente alla « pas-
sione ». La novità tecnica era però che questo cromatismo di-
ventava quello dei nostri intervalli armonici, e non già quello
delle distanze melodiche di semitono, o di quarto di tono,
degli Elleni. E che potesse diventare tale, ha a sua volta il
fondamento in precedenti soluzioni di problemi tecnico-raziona-
MAX WEBER 663
li; cioè soprattutto nella creazione della notazione razionale
(senza la quale nessuna moderna composizione sarebbe nemme-
no concepibile), e già prima nella creazione di determinati
strumenti che costrinsero all’interpretazione armonica di inter-
valli musicali, nonché, in particolare, del canto polifonico razio-
nale. Un contributo molto importante a queste scoperte lo ave-
va però fornito, nel primo Medioevo, il monachesimo dell’area
missionaria nord-occidentale, il quale, senza presagire la poste-
riore portata della propria opera, razionalizzò per i suoi scopi
la polifonia popolare, invece di organizzare la propria musica
— come fece il monachesimo bizantino — sul modello del
uerorotég tratto dagli Elleni. Le caratteristiche concrete, condi-
zionate sociologicamente e dalla storia religiosa, della situazio-
ne esterna e interna della chiesa cristiana in Occidente consenti-
rono qui che da un razionalismo proprio soltanto del monache-
simo occidentale sorgesse questa problematica musicale, che
era nella sua essenza di carattere «tecnico». Dall'altra parte
l'adozione e la razionalizzazione della misura di danza, che è
la fonte delle forme musicali sfocianti nella sonata, furono con-
dizionate da certe forme di vita della società rinascimentale.
Infine lo sviluppo del pianoforte, cioè di uno dei più importan-
ti portatori tecnici dello sviluppo musicale moderno e della
sua diffusione nella borghesia, si radicò nello specifico caratte-
re intra-domestico della cultura nord-europea. Sono tutti « pro-
gressi » dei mezzi tecnici della musica, che hanno così forte-
mente determinato la sua storia. La storia empirica della musi-
ca potrà e dovrà appunto seguire queste componenti dello svi-
luppo storico, senza avanzare, da parte sua, una valutazione
estetica delle opere musicali. Il « progresso » tecnico si è molto
spesso compiuto in prodotti che, valutati esteticamente, appaio-
no del tutto insufficienti. Ma la direzione di interesse, cioè
l'oggetto da spiegare storicamente, è data alla storia della musi-
ca eteronomamente, mediante la sua significatività estetica.
Per il campo dello sviluppo della pittura, la nobile modestia
dell’impostazione problematica di Die k/assische Kunst di Wélf-
flin® costituisce un esempio eminente delle fecondità di un
lavoro empirico.
8. Heinrich von Woélfflin (1864-1945), storico dell’arte tedesco, autore dei Prole-
664 MAX WEBER
La piena separazione della sfera dei valori dalla realtà empi-
rica emerge poi in maniera caratteristica dal fatto che l’impie-
go di una determinata zecnica, per quanto « progressiva », non
implica nulla sul valore estetico dell’opera d'arte. Opere d'arte
create con la tecnica più « primitiva» — per esempio quadri
privi di ogni nozione di prospettiva — possono risultare esteti-
camente di eguale dignità di quelle più perfette prodotte me-
diante la tecnica razionale, se si presuppone che la volontà
artistica si sia limitata a quelle formulazioni che sono adeguate
a tale tecnica « primitiva ». La creazione di nuovi mezzi tecnici
rappresenta soltanto una crescente differenziazione, e dà sol-
tanto la possibilità di una crescente « ricchezza » dell’arte, nel
senso di un incremento di valore. Di fatto essa ha avuto, non
di rado, l’effetto opposto di un «impoverimento» del senso
della forma. Ma per la considerazione empirico-causale è pro-
prio il mutamento della «tecnica» (nel senso più alto del
termine) che costituisce l'elemento di sviluppo più importante
dell’arte, che si può determinare in linea generale.
Non soltanto gli storici dell’arte, ma gli storici in genere
replicano di solito che essi non possono rinunciare al diritto di
una valutazione politica o culturale o etica o estetica, né sono
in grado di compiere, senza di essa, il proprio lavoro. La
metodologia non ha né la forza né il proposito di prescrivere a
chicchessia ciò che egli intende offrire in un’opera letteraria.
Essa si prende, da parte sua, soltanto il diritto di stabilire che
certi problemi hanno un senso tra loro eterogeneo, che il loro
scambio reciproco conduce la discussione a uno sterile gioco di
contrapposizioni, e che quindi una discussione condotta con i
mezzi della scienza empirica o della logica per gli uni è for-
nita di senso, e per gli altri è invece impossibile. Forse si può
qui aggiungere, senza per ora inoltrarci nella sua dimostrazio-
ne, un'osservazione generale: un'analisi attenta di lavori sto-
rici mostra con facilità che lo sforzo di seguire la catena causa-
le, storico-empirica, viene quasi senza eccezione interrotto, a
danno dei risultati scientifici, allorché lo storico comincia a
gomena zu einer Psycologie der Architektur (1866), di Renaissance und Barock (1888),
di Die Klassische Kunst (1899), dei Kunstgeschichtliche Grundbegrifle (1915), dei Ge-
danken zur Kunstgeschichte (1940) e di varie altre opere.
MAX WEBER 665
«valutare ». Egli incorre allora nel pericolo, per esempio, di
« spiegare » come conseguenza di una « mancanza » o di una
« caduta » ciò che forse era effetto di ideali a lui eterogenei del
soggetto che agisce, e pecca quindi di fronte al suo compito più
proprio — quello dell’« intendere ». Il fraintendimento si spie-
ga per due ragioni. In primo luogo per il fatto che, restando
all’arte, la realtà artistica è accessibile, oltre che alla pura consi-
derazione valutativa estetica da un lato e dall’altro alla pura
considerazione empirica, mirante alla determinazione delle cau-
se, anche a una terza specie di considerazione — all’interpreta-
zione di valore (sulla cui essenza non occorre qui ripetere ciò
che si è detto in altra sede). Sul suo valore specifico, e sulla
sua indispensabilità per ogni storico, non sussiste alcun dubbio;
e così pure non c’è alcun dubbio che il consueto lettore di
studi di storia dell’arte si aspetta di trovare anche, e per l’ap-
punto, questa trattazione. Soltanto che essa, presa nella sua
struttura logica, non è identica con la considerazione empirica.
Questo però si deve riconoscere: chi vuole svolgere indagini
di storia dell’arte, per quanto puramente empiriche, deve posse-
dere la capacità di «intendere» la produzione artistica — e
questo non è assolutamente concepibile senza quella capacità di
giudizio estetico, cioè senza la capacità di valutazione. La
stessa cosa vale pure per lo storico della politica o della lettera-
tura o della religione o della filosofia. Ma ovviamente ciò non
implica nient'altro sull’essenza logica del lavoro storico.
Di ciò si dirà oltre. Qui si doveva discutere semplicemente
la questione del senso in cui, a/ di fuori della valutazione
estetica, si può parlare di « progresso » in sede di storia dell’ar-
te. È risultato che questo concetto acquista un senso tecnico e
razionale che designa i mezzi necessari per un certo proposito
artistico, e può diventare come tale significativo per la storia
dell’arte empiricamente condotta. È ora tempo di indagare que-
sto concetto di progresso « razionale » nel suo campo più pro-
prio, considerandolo nel suo carattere empirico o non-empirico.
Poiché quanto si è detto è soltanto un caso particolare di una
circostanza molto universale.
La maniera in cui Windelband ha delimitato il tema della
sua Geschichte der Philosophie — «il processo mediante cui
l'umanità europea ha formulato la sua concezione del mondo...
666 MAX WEBER
in concetti scientifici» — conduce nella sua pragmatica, a mio
parere assai brillante, all'impiego di uno specifico concetto di
« progresso » che deriva da questo riferimento a valori culturali
(e di cui egli trae le conseguenze); e questo concetto da un
lato risulta nient’affatto evidente per ogni « storia » della filo-
sofia, dall'altro, se si assume un corrispondente riferimento a
valori culturali, vale non soltanto per una storia della filosofia,
e neppure soltanto per la storia di qualsiasi altra disciplina, ma
— diversamente da quanto Windelband sostiene! — per ogni
« storia» in generale. Ciononostante, qui di seguito dobbiamo
parlare soltanto di quei concetti razionali di « progresso », che
occupano un posto nelle nostre discipline sociologiche ed econo-
miche. La nostra vita sociale ed economica, europeo-americana,
risulta « razionalizzata » in un modo e in un senso specifico.
Spiegare questa razionalizzazione, e elaborare i concetti ad es-
sa corrispondenti, è quindi uno dei principali compiti delle
nostre discipline. Perciò ricompare il problema toccato nell’e-
sempio della storia dell’arte, ma lasciato in quella sede aperto:
che cosa vuol dire propriamente la designazione di un processo
come « progresso razionale » ?
Si ripete anche qui la combinazione di « progresso » nel
triplice senso: 1) di un mero « progredire » nella differenziazio-
ne; 2) di una progressiva razionalità tecnica dei mezzi; 3) di un
incremento di valore. In primo luogo un comportamento sog-
gettivamente « razionale » non è identico con un agire razional-
mente « corretto », che impieghi cioè oggettivamente mezzi cor-
retti, in conformità alla conoscenza scientifica. Ma esso di per
sé significa soltanto che il proposito soggettivo è diretto a un
orientamento ordinato in vista di mezzi ritenuti corretti per un
dato scopo. Una progressiva razionalizzazione soggettiva dell’a-
gire non è quindi, di necessità, anche oggettivamente un « pro-
gresso » nella direzione verso l’agire razionalmente « corretto ».
La magia, per esempio, è stata sistematicamente « raziona-
lizzata » al pari della fisica. La prima terapia deliberatamente
«razionale » ha significato quasi ovunque un disprezzo per la
9. Lelrbuch der Geschichte der Philosophie, Frciburg, i.B., 4° cd. 1907, p. 8.
10. Op. cit., pp. 15-16.
11. Op. cit., p. 7.
MAX WEBER 667
cura dei sintomi empirici con erbe e bevande provate solo empi-
ricamente, a favore dello sforzo di scacciare le « cause » (magi-
che o demoniache) « vere e proprie » della malattia. Essa aveva
perciò, formalmente, la medesima struttura razionale che rive-
stono parecchi dei più importanti progressi della terapia moder-
na. Ma noi non potremo valutare quelle terapie magiche di
sacerdoti come « progresso » verso un agire «corretto », in
antitesi a quell'empiria. E d’altra parte non ogni « progres-
so» nella direzione verso l’impiego dei mezzi «corretti» è
conseguito mediante un «progredire» nel primo senso, cioè
nel senso soggettivamente razionale. Che un agire più raziona-
le soggettivamente progressivo conduca a un agire oggettiva-
mente « più conforme allo scopo », è soltanto una tra più possi-
bilità, e rappresenta un processo da aspettarsi con una (diversa-
mente grande) probabilità. Se però nel caso specifico è corretta
la proposizione la quale asserisce che la regola x è il mezzo
(possiamo assumere il solo) per raggiungere l’effetto y — ciò
che costituisce una questione empirica, poiché si tratta della
semplice inversione della proposizione causale: a x segue y —
e se ora questa proposizione viene consapevolmente assunta da
certi uomini per l'orientamento del proprio agire in vista del-
l’effetto y — il che è pure determinabile empiricamente — 4/lo-
ra il loro agire risulta orientato in modo « tecnicamente corret-
to ». Se l’atteggiamento umano (di qualsiasi specie) è orientato
in qualche punto particolare in modo tecnicamente « più corret-
to» di prima, ha luogo un « progresso tecnico ». Se questo sia
il caso, è — naturalmente presupponendo sempre l’assoluta uni-
vocità dello scopo che viene stabilito — una determinazione
che una disciplina empirica deve compiere di fatto con i mezzi
dell’esperienza scientifica, ossia una questione empirica.
Vi sono quindi, in questo senso — ben inteso, dato un certo
scopo 4nivoco — concetti univocamente determinabili di corret-
tezza «tecnica», e di progresso «tecnico» nei mezzi (dove
qui « tecnica » viene intesa nel suo senso più ampio, cioè come
comportamento razionale valido in tutti i campi, anche in quel-
È, della manipolazione e del dominio politico, sociale, educati-
o, propagandistico sulle masse). Si può in particolare (per
accennare soltanto alle cose che ci toccano da vicino) parlare in
maniera abbastanza univoca di « progresso » nel campo specifi
668 MAX WEBER
co chiamato di solito «tecnica», al pari però che nel campo
della tecnica commerciale o anche di quella giuridica, se si
assume qui come punto di partenza uno stato univocamente
determinato di una formazione concreta. Approssimativamen-
te, infatti, i singoli princìpi tecnicamente razionali, come ogni
esperto sa, entrano tra loro in conflitto, e tra di essi si può
trovare sì un equilibrio da qualche punto di vista di coloro che
vi sono concretamente interessati, ma non mai in maniera
«oggettiva». E assumendo dati bisogni, stabilendo inoltre che
tutti questi bisogni in quanto tali, nonché la valutazione della
loro importanza soggettiva, debbano essere sostrazti alla criti-
ca, infine presupponendo una data maniera di ordinamento
economico — di nuovo con la riserva che per esempio gli
interessi alla durata, alla sicurezza e alla fecondità del soddisfa-
cimento di questi bisogni possono entrare, ed entrano, in con-
flitto — c'è anche un progresso «economico » verso un opti-
mum relativo di copertura del fabbisogno nel caso di date
possibilità di mezzi disponibili. Ma c’è soltanto in base a que-
sti presupposti e a queste limitazioni.
È stato fatto il tentativo di derivare da ciò la possibilità
di valutazioni univoche, e perciò puramente economiche. Un
esempio caratteristico in merito è il caso, citato dal prof. Lief-
mann ", della distruzione di proposito dei beni di consumo
scesi al di sotto del prezzo di costo, nell’interesse della redditivi-
tà dei produttori. Questa distruzione dovrebbe essere valutata
anche come oggettivamente « corretta dal punto di vista econo-
mico ». Ma tale illustrazione e tutte le altre simili — questo è
quanto ci interessa — assumono come evidenti una serie di
presupposti che non lo sono; assumono cioè non soltanto che
l'interesse dell'individuo vada oltre la sua morte, ma anche
che esso deve valere come tale, una volta per sempre. Senza
questa trasposizione dall’« essere » al « dover essere » la valuta-
zione in questione, che si pretende puramente economica, non
potrebbe venir effettuata univocamente. Poiché senza di essa,
per esempio, non si può parlare degli interessi dei « produtto-
ri» e dei «consumatori» come di interessi di persone che si
12. Robert Liefmann {1874-1941), economista tedesco, autore dell’opera Die Un-
ternchmungsformen (1912) e di altri scritti.
MAX WEBER 669
perpetuano. Che l'individuo prenda in considerazione gli inte-
ressi dei suoi eredi, non è però più una circostanza puramente
economica. Agli uomini viventi vengono qui sostituiti piuttosto
degli interessati, i quali utilizzano il « capitale » nelle loro «im-
prese » ed esistono per queste imprese. Ciò costituisce una fin-
zione utile per scopi teorici; ma anche come finzione non si
adatta alla situazione dei lavoratori, e in particolare di quelli
senza figli. In secondo luogo essa ignora il fatto della « situazio-
ne di classe » la quale, sotto il dominio del principio di merca-
to, può assolutamente peggiorare (non che debba necessariamen-
te), non già nonostante ma proprio ir conseguenza della distri-
buzione « ottima » di capitale e lavoro nei diversi rami produtti-
vi — ottima in quanto valutata dal punto di vista della redditi-
vità — il rifornimento di beni per certi strati di consumatori.
Infatti quella distribuzione « ottima » della redditività, che con-
diziona la costanza dell’investimento di capitale, dipende a sua
volta dalle costellazioni di forze esistenti tra le classi, le cui
conseguenze possono nel caso concreto (non già che debbano ne-
cessariamente) indebolire la posizione di quegli strati nella lot-
ta per i prezzi. In terzo luogo essa ignora la possibilità di
durevoli antitesi di interessi, prive di possibilità di composizio-
ne, tra i membri di diverse unità politiche; e quindi prende
partito 4 priori per l’« argomento della libertà di commercio »,
che si tramuta così, da mezzo euristico estremamente utile, in
una «valutazione » tutt'altro che evidente, appena da esso
si traggano postulati concernenti il dover essere. Quando però,
per uscire da questo conflitto, essa presuppone l’unità politica
dell'economia mondiale (il che teoricamente è senz'altro per-
messo), allora l’ineliminabile possibilità della critica che suscita
la distruzione di quei beni consumabili nell'interesse dell’opti-
mum di redditività permanente (dei prodotti e dei consumato-
ri) offerta dai rapporti esistenti — quale viene qui presupposto
— si sposta semplicemente nella sua ampiezza. La critica si
dirige cioè contro l’intero principio del rifornimento del merca-
to in base a tali direttive, risultanti dall’optimum di redditi-
vità, esprimibile in denaro, di singole economie in rapporto di
scambio — si dirige contro il principio în quanto tale. Un'orga-
nizzazione di rifornimento dei beni, non organizzata in forma
di mercato, non avrebbe alcun motivo per tener conto della
670 MAX WEBER
costellazione di interessi economici individuali data in base al
principio di mercato, e perciò non sarebbe neppur costretta a
sottrarre al consumo quei beni già esistenti.
Soltanto se si presuppongono le seguenti condizioni: 1) esclu-
sivi interessi di redditività permanenti, di persone concepite
come costanti e con bisogni anch'essi concepiti come costanti
per lo scopo; 2) esclusivo dominio dell’organizzazione di rifor-
nimento dei beni fondata sul capitale privato, mediante uno
scambio di mercato completamente libero; 3) una potenza stata-
le non interessata come mero garante giuridico — soltanto a
queste condizioni la concezione del prof. Liefmann risulta cor-
retta anche solo dal punto di vista teorico, e perciò giusta in
maniera ovvia. Infatti la valutazione concerne allora i mezzi
razionali per la migliore soluzione di un problema tecnico par-
ticolare di distribuzione dei beni. Le finzioni dell’economia
pura, utili a scopi teorici, non possono però essere trasformate
in base di valutazioni pratiche di fatti reali. Rimane stabilito
che la teoria economica non può asserire assolutamente nient’al-
tro che questo: per il dato scopo tecnico x la regola y è il solo
mezzo appropriato, oppure lo è insieme a yy e a y, — e nell’ulti-
mo caso tra y, yi e y. vi sono differenze del modo di operare
ed eventualmente di razionalità; la loro applicazione e il conse-
guimento dello scopo x obbligano a tener conto delle « conse-
guenze concomitanti » 2, z, e 2. Tutto ciò è il risultato di
semplici inversioni di proposizioni causali; e nella misura in
cui si possono riferire ad esse delle « valutazioni », queste risul-
tano esclusivamente valutazioni del grado di razionalità di un’a-
zione prospettata. Le valutazioni sono univoche soltanto quan-
do lo scopo economico e le condizioni di struttura sociale ap-
paiono date, quando si tratta soltanto di scegliere tra diversi
mezzi economici, e quando questi sono diversi soltanto in riferi-
mento alla sicurezza, alla rapidità e alla produttività quantitati-
va dell'effetto, ma funzionano in maniera del tutto identica
sotto ogni altro rispetto che possa risultare importante per gli
interessi umani. Soltanto allora un mezzo deve essere anche
valutato incondizionatamente come quello «tecnicamente più
corretto », e questa valutazione risulta univoca. In ogni altro
caso, che non sia puramente tecnico, la valutazione cessa di
MAX WEBER 671
essere univoca, e si presentano valutazioni che non possono
venir determinate su base puramente economica.
Ma con la determinazione dell’univocità di una valutazione
tecnica entro la sfera puramente economica z0n si perviene,
naturalmente, a una univocità della « valutazione » definitiva.
Piuttosto, al di là di queste discussioni comincerebbe il turbine
della infinita molteplicità di possibili valutazioni, che possono
venir controllate soltanto riportandole ad assiomi ultimi. Infatti
— per menzionare una cosa soltanto — dietro l’«azione» sta
l’uomo, per il quale il progredire della razionalità soggettiva e
della «correttezza» tecnico-oggettiva dell'agire in quanto tale
può valere, al di sopra di un certo grado — e anzi, in base a
certe concezioni, in maniera del tutto generale — come un
pericolo a cui vengono esposti i beni importanti (ad esempio
quelli etici o religiosi). Difficilmente qualcuno di noi condivide-
rà l’etica (estrema) buddistica, che respinge ogni azione diretta
a uno scopo perché essa è tale, cioè in quanto allontana dalla
redenzione. Ma «confutarla », nel senso in cui si confuta un
falso esempio aritmetico oppure un’errata diagnosi medica, è
semplicemente impossibile. Pur senza ricorrere a esempi così
estremi, è però agevole comprendere che i processi di raziona-
lizzazione economica, per quanto senza dubbio « tecnicamente
corretti», non sono in nessuna maniera legittimati di fronte al
foro della valutazione per questa loro qualità. Ciò vale per
tutti i processi di razionalizzazione, nessuno escluso, compren-
dendovi pure campi in apparenza puramente tecnici come quel-
li della banca. Coloro che si oppongono a tali processi di
razionalizzazione non sono affatto necessariamente dei pazzi.
Piuttosto, ogni qual volta si voglia valutare, si deve pren-
dere in considerazione l’influenza dei processi di razionalizza-
zione tecnica sulla modificazione dell’insieme delle condizioni
di vita, esterne e interne. Sempre, e senza eccezione, il con-
cetto di progresso legittimo nelle nostre discipline riguarda l’a-
spetto « tecnico », il che vuol dire — come si è accennato — il
«mezzo» necessario per uno scopo dato univocamente. Mai
esso si innalza alla sfera delle valutazioni « ultime ».
Dopo quanto si è detto, io ritengo l’impiego del termine
« progresso » di per sé inopportuno anche nel campo limitato
della sua applicabilità empiricamente incontestabile. Ma non è
672 MAX WEBER
mai possibile proibire ad alcuno l’uso di un termine; sono
soltanto da evitare i possibili fraintendimenti.
Rimane ora da discutere, prima di giungere alla fine, un
ultimo gruppo di problemi concernenti la posizione dell’ele-
mento razionale entro le discipline empiriche.
Quando ciò che è normativamente valido diventa oggetto di
indagine empirica, allora perde, in quanto oggetto, il suo carat-
tere di norma; esso viene considerato come «esistente », non
come « valido ». Per esempio, qualora la statistica volesse stabili-
re il numero degli «errori aritmetici» entro una determinata
sfera di calcolo professionale — il che potrebbe pur avere un
senso scientifico — i princìpi fondamentali della tavola pitagori-
ca «varrebbero » per essa in due sensi del tutto diversi. Per
un verso la loro validità normativa è naturalmente il presuppo-
sto assoluto del suo proprio lavoro di calcolo. Ma per un altro
verso, per cui si indaga il grado di applicazione «corretta »
della tavola pitagorica in quanto oggetto dell'indagine, le cose
stanno, considerate logicamente, in maniera del tutto diversa.
Qui l’applicazione della tavola pitagorica da parte di quelle
persone, i cui calcoli sono oggetto di analisi statistica, viene
studiata come una massima effettiva di comportamento, divenu-
ta loro abituale mediante l’educazione; e si deve pertanto stabi-
lire la frequenza della sua applicazione di fatto, proprio come
possono essere oggetto di determinazione statistica certi fenome-
ni di pazzia. Che la tavola pitagorica « valga » normativamen-
te, sia cioè «corretta », non è oggetto di discussione in questo
caso, in cui l’« oggetto » è invece la sua applicazione; ed è anzi
logicamente del tutto indifferente. Lo statistico, nel corso della
sua analisi statistica dei calcoli delle persone su cui indaga,
deve da parte sua naturalmente adeguarsi a questa convenzio-
ne, di calcolare « secondo la tavola pitagorica ». Ma egli dovreb-
be parimenti impiegare un procedimento di calcolo « falso »,
quale risulta se valutato normativamente, nel caso in cui esso
fosse stato ritenuto «corretto» in un gruppo umano ed egli
dovesse indagare statisticamente la frequenza della sua applica-
zione di fatto, che appariva «corretta » dal punto di vista di
quel gruppo. Per ogni considerazione empirica, sociologica o
storica, la nostra tavola pitagorica, nel caso in cui si presenti
come oggetto dell'indagine, è una massima di comportamento
MAX WEBER 673
pratico valida convenzionalmente in un gruppo umano, e segui-
ta con maggiore o minore approssimazione, e nient'altro. Ogni
esposizione della dottrina pitagorica della musica deve anzitut-
to assumere il calcolo « falso » — per il nostro sapere — che 12
quinte siano eguali a 7 ottave. Così pure ogni storia della logi-
ca deve assumere l’esistenza storica di asserzioni logiche (per
noi) contraddittorie — ed è umanamente comprensibile, ma non
rientra tuttavia nel compito di un'analisi scientifica, che si
possa accompagnare tali « assurdità » con esplosioni di sdegno,
come ha fatto uno storico assai eminente della logica medieva-
le 13
Questa metamorfosi di verità normativamente valide in opi-
nioni valide convenzionalmente, alla quale sottostanno intere for-
mazioni spirituali, anche i princìpi logici o matematici — me-
tamorfosi che ha luogo quando tali verità diventano oggetto di
una considerazione che si riferisce al loro essere empirico, e
non già al loro senso (normativamente) corretto — avviene in
maniera del tutto indipendente dalla circostanza che la validità
normativa delle verità logiche e matematiche costituisce d’altra
parte l’a priori di ogni scienza empirica. Meno semplice è la
loro struttura logica nel caso di quella funzione già prima
accennata, che loro spetta nell'indagine empirica di connessioni
spirituali, e che deve di nuovo essere distinta con cura dalle
altre due — cioè dalla loro posizione come oggetto di ricerca e
dalla loro posizione come 4 priori della ricerca. Ogni scienza
di connessioni spirituali o sociali costituisce una scienza del
comportamento «ma7z0 (facendo rientrare nell’ambito di tale
concetto, in questo caso, ogni atto spirituale e ogni abito psichi-
co). Essa vuole « intendere » questo comportamento e per que-
sta via « interpretare esplicativamente » il suo corso. Non possia-
mo qui trattare il difficile concetto di «intendere»; a noi
interessa, in questo contesto, soltanto una sua specie particola-
re, cioè l'interpretazione « razionale ». Noi «intendiamo » ov-
viamente senz’altro che un pensatore « risolva » un determinato
« problema » nel modo che noi stessi riteniamo normativamen-
te «corretto », che per esempio un uomo calcoli in maniera
13. Weber allude qui alla Geschichte der Logik im Abendland di Karl Prand,
Leipzig, 1855-70.
43. STORiCISMO TEDESCO.
674 MAX WEBER
«corretta» o che impieghi per uno scopo che si propone i
mezzi — a nostro parere — « corretti ». E la nostra comprensio-
ne di questi processi è quindi particolarmente evidente, poiché
si tratta appunto della realizzazione di ciò che è oggettivamen-
te « valido ». E tuttavia ci si deve guardare dal credere che in
questo caso ciò che è normativamente corretto appaia, dal pun-
to di vista logico, nella medesima struttura che riveste nella
sua posizione generale come 4 priori di ogni indagine scientifi-
ca. Piuttosto la sua funzione come mezzo dell’«intendere » è
precisamente la stessa che la « penetrazione simpatetica » pura-
mente psicologica compie nelle connessioni logicamente i irrazio-
nali dei sentimenti e degli affetti, allorché si tratta di conoscer-
le attraverso la comprensione. Non già la correttezza normati-
va, bensì da una parte le abitudini convenzionali del ricer-
catore e del docente a pensare così e non altrimenti, dall’altra
però anche, nel caso in cui sia richiesta, la sua capacità di
poter « penetrare simpateticamente », a scopo di comprensione,
in un pensiero che si discosta da quel modo, e che gli appare
quindi normativamente « falso » secondo le sue abitudini, rap-
presentano qui il mezzo della spiegazione comprendente. Già il
fatto che il pensiero «falso», cioè l’«errore », sia in linea di
principio accessibile alla comprensione al pari del pensiero
«corretto », dimostra infatti che ciò che vale come normativa-
mente «corretto» viene qui considerato non 12 quanto tale,
ma soltanto come un tipo convenzionale, assai facilmente intel-
ligibile. Ciò conduce ora a un'ultima constatazione sulla funzio-
ne di ciò che è normativamente corretto nell’ambito della cono-
scenza sociologica.
Già allo scopo di «intendere » un calcolo, oppure un’asser-
zione logica «falsa», e di stabilire e di rappresentare il suo
influire in quelle conseguenze di fatto che ha avuto, si dovrà
ovviamente non soltanto provarlo calcolando « correttamente »,
oppure pensando logicamente in maniera corretta, ma anche
indicare esplicitamente, con i mezzi del calcolo «corretto » o
della logica « corretta », quel punto in cui il calcolo o l’asserzio-
ne logica in esame diverge da ciò che l’autore considera da
parte sua come normativamente «corretto ». E ciò non di neces-
sità soltanto per quello scopo pratico-pedagogico, che per esem-
pio Windelband pone in primo piano nell’Introduzione alla
MAX WEBER 675
sua Geschichte der Philosophie" (stabilire « tavole di ammoni-
mento » contro « vie errate »), e che costituisce soltanto un’au-
spicabile prodotto secondario del lavoro storico. E ciò neppure
perché ogni problematica storiografica, nel cui oggetto rientri
no conoscenze logiche o matematiche o scientifiche di altro
genere, debba inevitabilmente avere a propria base come unica
possibile relazione di valore ultima, decisiva per la selezione,
soltanto il «valore di verità» da noi riconosciuto valido, e
quindi il « progresso » in direzione di questo; sebbene poi, se
questo fosse effettivamente il caso, rimarrebbe da tener presente
la circostanza sovente constatata da Windelband, che il « pro-
gresso » in questo senso ha varie volte imboccato, invece della
strada diretta, quella che — in termini economici — si può
dire la «deviazione più redditizia » attraverso «errori», cioè
attraverso confusioni di problemi. Ciò accade invece perché
(anzi solo in quanto) quei punti in cui la formazione spiritua-
le, indagata come oggetto, diverge da ciò che l’autore deve
ritenere «corretto », diventeranno di regola per lui importanti
— vale a dire specificamente «caratteristici» ai suoi occhi, e
quindi, dal suo punto di vista, o riferiti direttamente ai valori
oppure legati in rapporto causale con altri aspetti riferiti ai
valori. Ciò avverrà normalmente quanto più il valore di verità
di certi princìpi è il valore direttivo di un'esposizione storica,
particolarmente della storia di una determinata « scienza » (per
esempio della filosofia o dell’economia politica teorica). Ma que-
sto non è affatto il caso esclusivo. Una situazione almeno analo-
ga sì presenta ovunque un agire soggettivamente razionale,
secondo il suo proposito, forma in genere l’oggetto di una
rappresentazione, e ovunque «errori di pensiero » o «errori di
calcolo » possono costituire delle componenti causali del corso
dell’agire. Per «intendere » per esempio la condotta di una
guerra si dovrà inevitabilmente immaginare da entrambe le
parti — sebbene non necessariamente in forma esplicita o detta-
gliata — un ideale comandante supremo, al quale sia nota la
situazione generale e la dislocazione delle forze militari con-
trapposte, e siano pure note e continuamente presenti le possibi-
lità che ne derivano di conseguire il fine, in concreto univoca-
14. Op. ait., p. tr.
676 MAX WEBER
mente determinato, della distruzione della potenza militare av-
versaria — e che in base a questa conoscenza abbia agito senza
errori, e anche « senza sbagliare » logicamente. Soltanto allora
si può stabilire con precisione quale influenza ha avuto sull’an-
damento delle cose la circostanza che i comandanti reali non
abbiano posseduto né quella conoscenza né questa immunità
dagli errori, e non siano stati in genere delle macchine per
pensare razionali. La costruzione razionale ha qui pertanto il
valore di servire come mezzo di corretta « imputazione » causa-
le. Il medesimo senso hanno quelle costruzioni utopiche di un
agire razionale rigoroso e privo di errori, che crea la teoria
economica « pura ».
Allo scopo dell’imputazione causale di processi empirici noi
abbiamo bisogno appunto di costruzioni razionali, tecnico-empi-
riche o anche logiche, le quali rispondano a questa questione:
come, nel caso di una « correttezza » e « non-contraddittorietà »
assolutamente razionale, sia empiricamente sia logicamente, po-
trebbe configurarsi (oppure essersi configurata) una certa circo-
stanza, che rappresenta o una connessione esterna dell’agire o an-
che una formazione concettuale (per esempio un sistema filosofi
co). Considerata dal punto di vista logico, la costruzione di una
siffatta utopia razionalmente «corretta» è però soltanto una
delle diverse formazioni possibili di un « tipo ideale » — come ho
definito (in una terminologia per me preferibile a ogni altra
espressione) tali costrutti concettuali. Infatti non soltanto è pos-
sibile concepire, come si è detto, dei casi in cui una conclusione
caratteristicamente fa/sa oppure un determinato atteggiamento
tipico contrario allo scopo possono rendere, come tipo ideale,
un migliore servizio; ma soprattutto vi sono intere sfere di
atteggiamento (le sfere dell’« irrazionale »), nelle quali può
meglio servire a tale proposito non già il massimo di razionali-
tà logica, bensì semplicemente una univocità conseguita me-
diante l’astrazione isolante. Di fatto il ricercatore impiega assai
spesso dei «tipi ideali » costruiti in maniera normativamente
«corretta ». Considerata logicamente, però, la «correttezza»
normativa di questi tipi non è cosa essenziale. Ma un ricercato-
re può, per caratterizzare per esempio una forma specifica di
coscienza tipica agli uomini di un’epoca, costruire sia un tipo
di coscienza che gli appare personalmente conforme alla norma
MAX WEBER 677
sotto il profilo etico, e quindi in tal senso oggettivamente « cor-
retta », sia un tipo che gli appare invece eticamente opposto al-
la norma — per comparare con esso l'atteggiamento degli uomi-
ni sui quali sta indagando — oppure può infine costruire anche
un tipo di coscienza a cui egli personalmente non attribuisce nes-
sun predicato positivo o negativo di qualsiasi specie. Ciò che è
normativamente « corretto » non ha nessun monopolio per que-
sto scopo. Infatti, quale che sia il contenuto di un tipo ideale ra-
zionale — sia che esso rappresenti una norma di fede etica, giuri-
dica, estetica o religiosa, oppure una massima di politica giuridi-
ca o sociale o culturale, oppure una « valutazione » di qualsiasi
specie espressa nella forma il più possibile razionale — la sua co-
struzione ha sempre, nell’ambito delle indagini empiriche, soltan-
to lo scopo di « comparare » con esso la realtà empirica, e di sta-
bilire il suo contrasto o la sua lontananza da essa oppure il suo
relativo accostarsi ad essa, per poterla descrivere e intendere
mediante l'imputazione causale e quindi spiegarla, facendo uso
di concetti intelligibili 11 più possibile univocamente. Queste
funzioni esplica, per esempio, l’elaborazione concettuale della
dogmatica giuridica per la disciplina empirica della storia del
diritto, e così pure la dottrina del calcolo razionale per l’ana-
lisi dell’atteggiamento reale delle singole economie nell’econo-
mia acquisitiva. Entrambe le discipline dogmatiche ora citate
hanno naturalmente inoltre, in quanto «dottrine tecniche »,
scopi eminentemente pratico-normativi. Ed entrambe sono, in
tale loro qualità di scienze dogmatiche, così poco empiriche
nel senso qui discusso come possono esserlo la matematica o la
logica, l’etica normativa o l’estetica, da cui del resto esse differi-
scono, per altri motivi, tanto quanto queste sono anche diverse
tra loro.
La teoria economica, infine, è ovviamente una dogmatica
in senso logicamente assai diverso da quello, per esempio,
della dogmatica giuridica. I suoi concetti si riferiscono alla
realtà economica in maniera specificamente diversa da quel-
la in cui i concetti della dogmatica giuridica si riferiscono alla
realtà dell’oggetto della storia o della sociologia del diritto.
Ma, come i concetti dogmatici della scienza giuridica possono e
debbono venir impiegati da queste ultime come «tipi ideali »,
così questa specie di impiego per la conoscenza della realtà
678 MAX WEBER
sociale presente e passata costituisce addirittura il senso esclusi-
vo della teoria economica pura. Essa formula determinati pre-
supposti, che nella realtà non si trovano quasi mai attuati in
forma pura, ma che si riferiscono ad essa con un diverso grado
di approssimazione, chiedendosi come in base ad essi verrebbe a
configurarsi l’agire sociale degli uomini, qualora esso procedes-
se in maniera strettamente razionale. Essa assume, in particola-
re, il predominio di puri interessi economici ed esclude quindi
l'influenza di orientamenti politici o di altra specie non econo-
mica.
In essa ha però avuto luogo il tipico procedere di una « con-
fusione di problemi ». Infatti quella pura teoria « non-statale »,
«amorale », «individualistica », che è stata e sarà sempre indi-
spensabile come strumento metodico, è stata concepita dalla
scuola liberistica radicale come una copia esauriente della
realtà « naturale», cioè della realtà che non è stata falsata
dalla stupidità umana, e inoltre, in base a ciò, come un « do-
ver essere» — come un ideale valido nella sfera normativa, che
si poneva al posto di un tipo ideale utilizzabile per la ricerca
empirica intorno a ciò che è. Allorché i mutamenti di valutazio-
ne dello stato, prodottisi nella politica economica e sociale,
provocarono una ripercussione nella sfera valutativa, questa ri-
percussione colpì di nuovo la sfera dell’essere; di modo che la
teoria economica pura fu rigettata non soltanto come espressio-
ne di un ideale — sebbene essa non avesse mai potuto pretende-
re tale dignità — ma anche come metodo per la ricerca sulla
realtà di fatto. Considerazioni « filosofiche » di specie più diver-
sa dovevano sostituire la pragmatica razionale; e l’identificazio-
ne di ciò che è « psicologicamente » con ciò che vale eticamente
rendeva ineseguibile una precisa distinzione della sfera della
valutazione dal lavoro empirico. Le straordinarie prestazioni
degli esponenti di questo sviluppo scientifico nel settore storico
o sociologico o politico-sociale sono ormai universalmente rico-
nosciute; ma chi giudichi in maniera impregiudicata deve pur
riconoscere la completa caduta, durata per decenni, del lavoro
teorico e in genere di una rigorosa scienza economica, che
quella mescolanza di problemi ha avuto per sua naturale conse-
guenza. Una delle due tesi principali, con cui lavoravano gli
avversari della teoria pura, sosteneva che le costruzioni raziona-
MAX WEBER 679
li di questa fossero « pure finzioni », le quali non asseriscono
nulla sulla realtà dei fatti. Correttamente intesa, questa afferma-
zione è valida. Infatti le costruzioni teoriche sono soltanto al
servizio della conoscenza della realtà — che da sole non posso-
no fornire; e anche nel caso estremo questa realtà, per la coope-
razione di altre circostanze e serie di motivi, non contenute
nei loro presupposti, risulta soltanto approssimata rispetto al
corso così costruito. Ciò non dimostra certamente nulla, secon-
do quanto si è detto, contro l’utilità e la necessità della teoria
pura. La seconda tesi sosteneva che non potesse esserci in ogni
caso una dottrina avalutativa concernente la politica economi-
ca, formulata scientificamente. Essa è naturalmente del tutto
falsa, tanto falsa che proprio l’« avalutatività» — nel senso
precedentemente illustrato — rappresenta il presupposto di
ogni considerazione puramente scientifica della politica, in parti-
colare di quella sociale ed economica. Non occorre qui ripetere
che è evidentemente possibile, e scientificamente utile e necessa-
rio, formulare proposizioni di questo tipo: per conseguire l’ef-
feto (politico-economico) x, y è il solo mezzo, oppure — date
le condizioni di, 52, d3 — Yi Y» yY: sono i soli mezzi, o i
mezzi più appropriati. E c’è soltanto bisogno di accennare che
il problema consiste nella possibilità di un'assoluta urivocità di
designazione dello scopo a cui si tende. Se questa ha luogo,
allora si tratta di una semplice inversione di proposizioni causa-
li, e quindi di un problema puramente «tecnico ». Proprio
perciò la scienza non è affatto costretta, in tutti questi casi, a
concepire queste proposizioni teleologiche di carattere tecnico
diversamente che come semplici proposizioni causali, cioè in
questa forma: a y segue sempre, oppure a Yi, Ya» 7: Se
gue, nelle condizioni è;, 6, 6, l’effetto x. Infatti ciò vuol
dire precisamente la stessa cosa, e l’uomo « pratico » può facil-
mente derivarne dei « precetti ». Ma la dottrina scientifica del-
l'economia ha pure alcuni altri compiti, accanto alla determina-
zione di pure formule tipico-ideali da un lato e dall'altro alla
determinazione di tali connessioni economiche particolari, di
carattere causale — poiché si tratta senza eccezione di connes-
sioni di questo genere, se x è abbastanza uzivoco, e se quindi
l'imputazione dell’effetto alla causa, cioè del mezzo allo scopo,
dev'essere abbastanza rigorosa. Esso deve inoltre indagare la
680 MAX WEBER
totalità dei fenomeni sociali nel modo in cui sono condizionati
da cause economiche; e ciò mediante l’interpretazione della
storia e della società sotto il profilo economico. E d'altra parte
essa deve pure determinare il condizionamento dei processi e
delle forme di economia da parte dei fenomeni sociali, secondo
le loro diverse forme e i loro diversi stadi di sviluppo; e ciò
mediante la storia economica e la sociologia dell'economia. En-
tro questi fenomeni sociali rientrano evidentemente, e certo in
prima linea, le azioni e le formazioni politiche, in particolare
lo stato e il diritto garantito statalmente: ma, è pure ovvio,
non soltanto quelle politiche — bensì la totalità di quelle forma-
zioni che influenzano l’economia, in «n grado abbastanza rile-
vante per l'interesse scientifico. Indicare l'insieme di questi pro-
blemi come una dottrina della « politica economica» sarebbe
naturalmente assai poco appropriato. L’uso che tuttavia se ne
fa a tale scopo può soltanto venir spiegato esteriormente in
base al carattere delle università come istituti educativi per
funzionari statali, e interiormente in base agli enormi strumen-
ti che lo stato possiede per influire in modo intensivo sulla vita
economica, e quindi in base all'importanza pratica della sua
considerazione. Non occorre constatare di nuovo che in tutte
queste indagini è sempre possibile invertire le asserzioni sul
rapporto « causa-effetto » in asserzioni sul rapporto « mezzo-sco-
po », quando la conseguenza in questione può essere stabilita
con sufficiente univocità. In tale maniera il rapporto logico tra
sfera della valutazione e sfera della conoscenza empirica non
risulta naturalmente affatto mutato. E solo più a una cosa
rimane, al termine di questa analisi, da accennare.
Lo sviluppo degli ultimi decenni, e specialmente gli avveni-
menti senza precedenti di cui siamo oggi testimoni, hanno
potentemente accresciuto il prestigio dello stato. Ad esso soltan-
to, tra tutte le comunità sociali, viene oggi attribuita una forza
«legittima » sulla vita, la morte e la libertà; e i suoi organi ne
fanno uso, in guerra contro i nemici esterni, in pace e in
guerra contro gli oppositori interni. Esso è in pace il maggiore
imprenditore economico e il più potente esattore di tributi dei
cittadini; in guerra dispone nella maniera più illimitata di
tutti i beni economici che gli sono accessibili. La sua moderna
forma razionale di organizzazione ha reso possibile, in numero-
MAX WEBER 681
si settori, compiti che senza dubbio nessun agire associato di
altra specie avrebbe potuto eseguire, neppure in modo approssi-
mato. Non poteva non accadere che da ciò si traesse la conse-
guenza che lo stato deve anche essere — soprattutto nelle valu-
tazioni che si muovono entro il campo della « politica » — il
« valore » ultimo, e che ogni agire sociale deve, in ultima anali-
si, venire commisurato ai suoi interessi di esistenza. Solo che
anche questo processo costituisce una trasposizione, del tutto
indebita, di fatti della sfera dell’essere in norme della sfera
della valutazione — pur prescindendo qui dalla mancanza di
univocità delle conseguenze tratte da quella valutazione, come
appare subito da ogni considerazione dei «mezzi» (per la
«conservazione » o l’«incremento » dello «stato »). Entro la
sfera dei puri fatti oggettivi si deve far valere anzitutto, di
fronte a quel prestigio, la constatazione che lo stato 207 può
certe cose. E ciò anche nei campi che risultano i suoi domini
più propri, come in quello militare. L'osservazione di alcuni
fenomeni che la guerra attuale ha reso manifesti negli eserciti
di stati razionalmente eterogenei ci insegna che la libera dedi-
zione dell'individuo al compito che il suo stato rappresenta —
una dedizione che lo stato non può imporre — è tutt'altro che
indifferente per il successo militare. E per il campo economico
basta accennare che la trasposizione di forme e di principi
dell’economia bellica in forma di fenomeni permanenti di pace
potrebbe rapidamente avere conseguenze che condurrebbero in
rovina, proprio per i suoi sostenitori, l'ideale di uno stato espan-
sivo. Su questo, tuttavia, non occorre soffermarci più a lungo.
Nella sfera della valutazione è però possibile sostenere, in ma-
niera pienamente dotata di senso, il punto di vista che vorrebbe
veder rafforzata il più possibile la potenza dello stato come
mezzo coercitivo contro ogni resistenza, ma che d'altra parte
gli nega qualsiasi valore proprio e lo qualifica come un mero
strumento tecnico per la realizzazione di valori del tutto diver-
si, dai quali soltanto esso potrebbe prendere in prestito la sua
dignità e mantenerla anche solo finché non cercasse di spogliar-
si di questo suo compito ausiliario.
Naturalmente qui non si deve né svolgere né sostenere que-
sto o qualsiasi altro possibile punto di vista valutativo. Si deve
però soltanto ricordare che, se ce n'è qualcuna, l'obbligazione
682 MAX WEBER
più particolarmente appropriata a « pensatori» di professione
consiste nel mantenere di fronte agli ideali dominanti al mo-
mento, anche di fronte ai più forniti di maestà, una mente
fredda, nel senso di rimanere personalmente capace di « nuota-
re contro la corrente ». Le «idee tedesche del 1914 » furono un
prodotto da letterati”. Il socialismo del futuro è una frase per
la razionalizzazione dell'economia, da attuarsi mediante una
combinazione di burocratizzazione ulteriore e di amministrazio-
ne da parte di un gruppo organizzato di individui interessati.
Quanto il fanatismo dei patrioti di ufficio della politica econo-
mica invoca per queste misure puramente tecniche, in luogo di
una discussione oggettiva della loro opportunità, in buona par-
te condizionata semplicemente dalla politica finanziaria, la
consacrazione non soltanto della filosofia tedesca ma anche del-
la religione — come oggi avviene in ampie proporzioni — ciò
non rappresenta altro che una ripugnante degenerazione di
gusto di letterati che si reputano importanti. Come possano 0
debbano apparire le reali «idee tedesche del 1918», alla cui
elaborazione avranno parte anche i reduci dalla guerra, nessu-
no può oggi ben prevedere. Ma da queste dipenderà appunto il
futuro.
15. Weber si riferisce qui al manifesto nazional-socialista pubblicato nel 1916
dal sociologo tedesco Johann Plenge, col titolo 1789 und 1914: die symbolische
Jahre in der Geschichte des politischen Geistes, nel quale le «idee tedesche del 1914 »
erano contrapposte ai princìpi della Rivoluzione francese.
LA SCIENZA COME PROFESSIONE *
Per assecondare il vostro desiderio, dovrò parlare della « scien-
za come professione ». Ebbene, è una specie di pedanteria di
noi economisti, alla quale voglio attenermi, quella di prender
sempre le mosse dalla situazione esteriore, e quindi, nel caso
nostro, dalla domanda: come si configura la scienza come pro-
fessione nel senso materiale della parola? E questo, in so-
stanza, oggi praticamente significa: qual è la situazione di un
laureato che abbia deciso di dedicarsi per professione alla scien-
za nell’ambito della vita accademica? Per comprendere in che
cosa consista su questo punto la particolarità della situazione
tedesca, è opportuno procedere comparativamente, rendendoci
conto di come stiano le cose nel paese straniero che sotto
questo aspetto presenta la più recisa antitesi con le nostre condi-
zioni, e cioè negli Stati Uniti.
Da noi — come tutti sanno — un giovane che si dedichi
alla scienza come professione, inizia normalmente la sua carrie-
ra come « libero docente ». Dopo essersi consultato col professo-
re titolare della materia e averne avuto l'approvazione, egli
consegue l’abilitazione in una università, in base a un libro e a
un esame, per lo più semplicemente formale, da parte della
facoltà, dopo di che tiene lezioni — senza stipendio, compensa-
to soltanto mediante le tasse d'iscrizione al suo corso — intor-
no all'argomento da lui scelto entro i limiti della sua verza
* Wissenschaft als Beruf (conferenza tenuta all’Università di Monaco, 1919),
raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tiibingen, J. C. B.
Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 582-613 (La scienza
come professione, tr. it. di Antonio Giolitti, in Il lavoro intellettuale come pro-
fessione, Torino, Einaudi, 1948, pp. 41-77).
684 MAX WEBER
legendi. In America la carriera universitaria comincia normal-
mente in modo del tutto diverso, e cioè con l'assunzione in
qualità di « assistente»: qualcosa di simile a quel che avviene
di solito nei nostri grandi istituti delle facoltà di scienze natura-
li e di medicina, dove è soltanto una frazione degli assistenti ad
aspirare — spesso solo dopo parecchio tempo — alla formale
abilitazione a libero docente. La differenza significa praticamen-
te che da noi la carriera di un uomo di scienza poggia intera-
mente su presupposti plutocratici. Giacché, per un giovane stu-
dioso privo di disponibilità patrimoniali, è estremamente arri-
schiato esporsi, in linea generale, alle condizioni imposte dalla
carriera accademica. Egli deve poter tirare avanti almeno un
certo numero di anni senza sapere in nessun modo se avrà in
seguito la possibilità di riuscire a raggiungere una posizione
che gli permetta di provvedere al proprio mantenimento. Vice-
versa, negli Stati Uniti vige il sistema burocratico. Là il giova-
ne è pagato fin dall’inizio. Modestamente, si capisce: lo stipen-
dio, il più delle volte, raggiunge appena il livello del salario di
un operaio a un grado minimo di specializzazione. Tuttavia
egli comincia pur sempre con una posizione apparentemente
sicura, giacché percepisce un compenso fisso. Ma è previsto
che possa essere licenziato, come i nostri assistenti, e tale sorte
lo attende spesso inesorabilmente se non corrisponde alle aspet-
tative che si ripongono in lui. Tali aspettative però si limitano
a che insegni ad «aula esaurita ». Ciò non può capitare a un
libero docente tedesco. Una volta che egli lo diventa, non ci si
libera più di lui. Certamente egli non ha «diritti». Tuttavia
ha motivo di pensare che, dopo un'attività di alcuni anni, gli
spetti una specie di diritto morale a esser preso in considerazio-
ne: anche — e ciò è spesso importante — quando si tratti
dell’eventuale abilitazione di altri liberi docenti. La questione
se in linea di principio si debba dare l’abilitazione a qualunque
studioso di provata capacità o se invece si debba tener conto dei
«bisogni dell’insegnamento », attribuendo così ai docenti già
abilitati un monopolio dell’insegnamento, è un penoso dilem-
ma connesso con quel doppio aspetto della professione universi-
taria a cui ora accenneremo. Di solito, si decide per la seconda
alternativa. Ma ciò aumenta il pericolo che il titolare della
materia în questione, nonostante la massima coscienziosità sog-
MAX WEBER 685
gettiva, dia la preferenza ai propri scolari. Personalmente, io
ho seguito il principio — sia detto di passaggio — che uno
studioso laureato con me debba dar prova di sé e conseguire
l'abilitazione presso «n altro professore e in un’altra uni-
versità. Ma il risultato fu che uno dei miei più valenti allievi
venne respinto perché nessuno credette che tale fosse il motivo
del suo trasferimento.
Un'altra differenza rispetto all'America è la seguente: da
noi, il libero docente è in generale meno occupato con le lezio-
ni di quanto egli stesso desidererebbe. Senza dubbio avrebbe il
diritto di tenere tutte le lezioni della sua materia. Ma ciò
viene considerato una sconveniente mancanza di riguardo verso
i docenti più anziani, e di regola le lezioni «importanti » sono
tenute dal titolare della cattedra, mentre il docente si acconten-
ta di lezioni 4 latere. Egli ne trae il vantaggio, sia pure
involontariamente, di poter disporre degli anni della giovinez-
za per il lavoro scientifico.
Tutto ciò in America è organizzato in maniera fondamental-
mente diversa. Proprio nei primi anni il docente è assolutamen-
te sovraccarico di lavoro, appunto perché è pagato. In un dipar-
timento di germanistica, per esempio, il professore ordinario
terrà un corso di tre ore settimanali su Goethe e basta, mentre
l'assistente più giovane sarà ben contento se con dodici ore
settimanali, oltre all'insegnamento elementare della lingua tede-
sca, gli verrà assegnato qualche altro argomento su un poeta
della levatura di Uhland'. Infatti sono gli organi ufficiali
della facoltà a prescrivere il programma di insegnamento, al
quale l’assistente americano è altrettanto vincolato quanto da
noi l’assistente d’istituto.
Possiamo ora vedere chiaramente come da noi il più recen-
te sviluppo dell’organizzazione universitaria in vasti settori del-
la scienza segua l'orientamento di quella americana. I grandi
istituti per gli studi di medicina o di scienze naturali sono
imprese « capitalistiche di stato ». Non possono esser ammini-
strati senza grandi mezzi. E anche lì si verifica, come in ogni
1. Johann Ludwig Uhland (1787-1862), poeta romantico tedesco, autore anche
di drammi storici, di studi sull’antica letteratura tedesca e di volumi sulla mito-
logia germanica: prese parte alla vita politica dell'età della Restaurazione, aderendo
a posizioni nazionali-liberali, e nel 1848 fu membro dell'assemblea di Francoforte.
686 MAX WEBER
impresa capitalistica, la « separazione del lavoratore dai mezzi
di produzione ». Il lavoratore, vale a dire l’assistente, è ridotto
a servirsi degli strumenti che lo stato mette a sua disposizione;
egli viene pertanto a dipendere dal direttore d’istituto allo stes-
so modo dell’impiegato in una fabbrica — giacché quel diretto-
re s'immagina, in perfetta buona fede, che l'istituto sia «swo »
e vi fa da padrone — e la sua posizione è spesso altrettanto
precaria come quella di un qualsiasi « proletaroide » o di un
assistente di università americana.
La nostra vita universitaria tedesca va americanizzandosi,
come la nostra vita in generale, in certi punti assai importanti,
e questo sviluppo — ne sono convinto — si estenderà in seguito
anche a quei campi dove, come avviene ancor oggi in larga
misura nel mio, è l’artigiano stesso a possedere lo strumento di
lavoro (essenzialmente la biblioteca), in modo del tutto analogo
all’artigiano d’altri tempi nell’ambito del suo mestiere. Il pro-
cesso è in pieno sviluppo.
I vantaggi tecnici sono assolutamente indiscutibili, come in
ogni azienda capitalistica e al tempo stesso burocratizzata. Ma
lo « spirito» che vi domina è tutt'altro dall’antica atmosfera
tradizionale delle università tedesche. C'è un abisso straordina-
riamente profondo, esteriormente e interiormente, tra il dirigen-
te di una simile grande impresa capitalistica universitaria e il
solito professore ordinario di vecchio stile: anche nell’atteggia-
mento interiore. Non posso qui dilungarmi su questo punto.
Tanto all'interno quanto all’esterno l'antico ordinamento uni-
versitario è diventato fittizio. Ma è rimasto, e anzi si è sostan-
zialmente accentuato, un motivo caratteristico della carriera
universitaria: il fatto che un simile libero docente, divenuto
ormai un assistente, riesca finalmente a insediarsi nella posizio-
ne di ordinario o di direttore d'istituto, costituisce un’opportu-
nità che è un mero caso. Senza dubbio non domina soltanto il
caso, ma esso ha tuttavia un'influenza straordinariamente gran-
de. Non conosco quasi altre carriere al mondo dove esso abbia
una parte così grande. Tanto più sono in grado di dirlo io che
personalmente devo ad alcune circostanze meramenti accidenta-
li di esser stato chiamato giovanissimo, ai miei tempi, alla
cattedra di una materia nella quale allora altri della mia età
avevano senza dubbio acquisito meriti maggiori dei miei. E in
MAX WEBER 687
base a questa esperienza presumo di avere una vista più acuta
per scorgere l’immeritata sorte dei molti ai quali il caso ha
giocato e ancora gioca il tiro opposto e che, nonostante tutta
la loro capacità, non giungono attraverso quell’apparato seletti-
vo al posto che loro spetterebbe.
Che il caso e non la capacità in quanto tale abbia una parte
così grande, non dipende soltanto, e nemmeno prevalentemente,
dalle debolezze umane che naturalmente s'incontrano in questo
processo di selezione come in tutti gli altri. Sarebbe ingiusto
attribuire a deficienze personali di facoltà o di ministeri la
responsabilità del fatto che indubbiamente vi siano tante medio-
crità a esercitare una parte preponderante nelle università. Ciò
fa parte delle leggi dell’agire in comune degli uomini, e special-
mente di più organismi, cioè nel caso nostro delle facoltà propo-
nenti e dei ministeri. Eccone una riprova: possiamo seguire
attraverso i secoli le vicende delle elezioni papali, ossia il più
importante esempio che ci sia dato controllare di una selezione
personale del medesimo tipo. Soltanto di rado il cardinale di
cui si dice che è il « favorito » riesce eletto: di regola tocca al
candidato numero due o numero tre. La stessa cosa avviene col
presidente degli Stati Uniti: per lo più è il numero due e
spesso il numero tre, e solo eccezionalmente l’uomo più quota-
to ma anche più eminente, quello che entra nella nomination
delle convenzioni di partito e quindi nel processo elettorale.
Gli Americani hanno già creato espressioni sociologiche tecni-
che per queste categorie e sarebbe davvero interessante cercare
in questi esempi le leggi di una selezione mediante la formazio-
ne di una volontà collettiva. Non lo faremo ora. Ma esse valgo-
no anche per i corpi accademici, e c'è da meravigliarsi non già
che ne scaturiscano frequenti errori, bensì del numero pur sem-
pre assai rilevante, da un punto di vista relativo, delle nomine
giuste. Soltanto dove si ha l'intervento per motivi politici, di
parlamenti — come in alcuni paesi — o, come prima da noi, di
monarchi (entrambi operano allo stesso modo), oppure, come
adesso, di rivoluzionari impadronitisi del potere, si può esser
certi che tutte le probabilità di successo vanno soltanto alle
accomodanti mediocrità o agli arrivisti.
Nessun professore universitario ripensa volentieri alle discus-
sioni per le nomine, perché di rado sono piacevoli. Tuttavia
688 MAX WEBER
posso affermare che in numerosissimi casi di cui sono a cono-
scenza, mai è mancata la buona volontà di far dipendere la
decisione da motivi puramente oggettivi.
Bisogna infatti mettere in chiaro che non dipende soltanto
dall’inadeguatezza della selezione in virtù di formazione di
una volontà collettiva se nella decisione delle sorti accademi-
che ha tanta importanza il «caso ». Ogni giovane che senta la
vocazione dello studioso deve piuttosto rendersi ben conto che
il compito a cui si accinge presenta un duplice volto. Deve
avere non soltanto i requisiti dello studioso ma anche quelli
dell'insegnante. Non è affatto detto che gli uni e gli altri
coincidano. Si può essere uno studioso insigne e al tempo stesso
un pessimo maestro. Basta rammentare l’attività d’insegnamen-
to di uomini come Helmholtz e come Ranke. E non si tratta di
eccezioni rare. Ma le cose stanno ora in modo che le nostre
università, specialmente quelle piccole, si fanno la concorrenza
più ridicola per le frequenze. Le affittacamere delle città univer-
sitarie celebrano come una festa il millesimo studente, e il
duemillesimo possibilmente con una fiaccolata. Gli interessi di
propina dei singoli corsi — bisogna ammetterlo apertamente —
risentono della nomina di un titolare « di grido » in qualche
cattedra affine, e anche prescindendo da ciò il numero degli
uditori fornisce una tangibile testimonianza in cifre, mentre le
qualità di dottrina sono imponderabili e spesso (com'è del tutto
naturale) addirittura contestate nel caso di arditi innovatori.
Perciò nella maggior parte dei casi tutto soggiace a questa
suggestione della benedizione e del valore incommensurabili
del numeroso uditorio. Se di un docente si dice che è un
cattivo maestro, ciò equivale per lo più alla sua condanna a
morte nel campo universitario, quand’anche si tratti del primo
dotto del mondo. Ma la questione se egli sia un buono o un
cattivo maestro trova risposta nella frequenza di cui lo onora-
no i signori studenti. Sta però di fatto che, se gli studenti si
affollano intorno a un professore, ciò è determinato in larghissi-
ma misura da circostanze meramente esteriori, come il tempera-
mento o perfino l’inflessione di voce — e ciò a un punto tale
che non si crederebbe possibile. Dopo un'esperienza in ogni
modo abbastanza lunga e una fredda riflessione, ho concepito
una profonda sfiducia verso i corsi universitari di massa, per
Max Weber nel 1919.
MAX WEBER 689
quanto non si possa certo farne a meno. La democrazia dev’es-
sere applicata dove si conviene. Ma l’insegnamento scientifico,
quale dobbiamo esercitarlo nelle università tedesche in confor-
mità alla loro tradizione, è una faccenda — non dissimuliamo-
celo — di aristocrazia dello spirito. D'altra parte è certamente
vero che saper esporre i problemi scientifici in modo da render-
li accessibili a una mente incolta ma capace d’intendere, e da
metter questa in grado di farsene un'idea propria — ciò che
per noi è l’unica cosa decisiva — costituisce forse il compito
pedagogicamente più difficile. Senza dubbio: ma non è il nu-
mero degli uditori a decidere se esso sia stato risolto. E quest’ar-
te costituisce appunto — per ritornare al nostro argomento —
un dono personale e non coincide affatto necessariamente con
le qualità scientifiche di uno studioso. A differenza dalla Fran-
cia, però, noi non abbiamo alcuna corporazione degli « immor-
tali » della scienza, ma per la nostra tradizione sono le universi-
tà che devono soddisfare a entrambe le esigenze: quella della
ricerca e quella dell’insegnamento. Ma è un puro caso che le
capacità necessarie a questo scopo si ritrovino tutte nello stesso
individuo.
La vita accademica è quindi abbandonata al cieco caso.
Quando dei giovani studiosi vengono a chiedere consiglio per
l'abilitazione, la responsabilità che ci si assume accedendo alla
richiesta è quasi intollerabile. Se si tratta di un ebreo, gli si
risponde, naturalmente: «lasciate ogni speranza ». Ma anche
a chiunque altro bisogna domandare, in coscienza: credete di
poter sopportare di vedervi passare avanti, di anno in anno,
una mediocrità dietro l’altra, senza amareggiarvi e intristirvi
l'animo? E ogni volta la risposta è evidentemente la stessa:
naturalmente, io vivo solo per la mia «vocazione»; ma per
mio conto ho saputo solo di pochissimi che abbiano retto senza
risentirne un danno interiore.
Questo mi sembrava necesssario dire intorno alle condizioni
esteriori della professione di studioso.
Credo però che voi vogliate in realtà sentir parlare di qual-
cosa d'altro, e precisamente della vocazione interiore alla scien-
za. Al giorno d'oggi l’esercizio della scienza come professione è
condizionato, sul piano interiore, dal fatto che la scienza è
pervenuta a uno stadio di specializzazione prima sconosciuto, e
44. STORICISMO TEDESCO.
690 MAX WEBER
tale rimarrà sempre in futuro. Non soltanto esteriormente, no
certo, ma proprio interiormente, le cose stanno in modo che
soltanto nel caso di un’estrema specializzazione l’individuo
può avere sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente
perfetto nel campo scientifico. Tutti i lavori che sconfinano in
campi contigui, come talvolta ci capita di fare, e come per
esempio noi sociologi dobbiamo sempre fare, sono gravati dalla
rassegnata coscienza di fornire tutt'al più allo specialista un'’uti-
le impostazione di qualche problema nel quale non gli sarà
tanto facile imbattersi nel suo campo specifico, cosicché il pro-
prio lavoro non potrà non rimanere estremamente imperfetto.
Soltanto attraverso una rigorosa specializzazione l’uomo di scien-
za può giungere — una volta e forse mai più nella vita — a
dire con sicura coscienza: ho prodotto qualcosa che durerà.
Un'opera realmente definitiva e valida è oggi sempre un'opera
specializzata. Resti quindi discosto dalla scienza chi non è capa-
ce di mettersi, per dir così, dei paraocchi, e di pervenire all’i-
dea che il destino della propria anima dipende appunto dall’e-
sattezza, poniamo, di questa congettura — proprio di questa —
rispetto a quel passo di quel manoscritto. Altrimenti egli non
avrà mai fatto dentro di sé ciò che può chiamarsi l’« esperienza
vissuta» della scienza. Senza questa strana ebbrezza, derisa
dai non iniziati, senza questa passione, questo « dovevano passa-
re millenni prima che tu venissi al mondo, e altri millenni
attendono in silenzio»* — tutto per il successo di questa tua
congettura — m0n c’è vocazione per la scienza e bisogna sceglie-
re un’altra via. Infatti per l’uomo in quanto uomo, nulla ha
valore di ciò che non può fare con passione.
Ora, però, sta di fatto che, per quanto grande, genuina e
profonda possa essere tale passione, il risultato appare ancora
lontano. Essa è certamente una condizione preliminare per il
fattore decisivo: l’« ispirazione ». È vero che oggi negli ambien-
ti giovanili è assai diffusa l'opinione che la scienza sia diventa-
ta un esercizio di calcolo da eseguirsi nei laboratori o nelle
cartoteche statistiche col solo ausilio del freddo intelletto e non
con tutta l’« anima », allo stesso modo di quel che avviene «in
una fabbrica». A questo proposito si deve anzitutto osservare
2. Il passo citato è di Carlyle.
MAX WEBER 691
che per lo più queste persone non hanno un'idea chiara di quel
che avviene in una fabbrica più di quanto l’abbiano di ciò che
avviene in un laboratorio. Nell’uno o nell’altra all'uomo deve
venire in mente un'idea — e proprio l'idea giusta — per pro-
durre qualcosa che abbia veramente valore. Ma quell'idea non
si ottiene per forza. Non ha nulla a che fare con un qualsiasi
freddo calcolo. Senza dubbio anche questa è una condizione
imprescindibile. Nessun sociologo, per esempio, avrà da pentir-
si se, anche nei suoi tardi anni, avrà speso qualche mese intor-
no a molte decine di migliaia di elementi di calcolo del tutto
banali. Non si può ricorrere impunemente ai soli mezzi mecca-
nici, se si vuol conseguire qualche risultato; e quel che in
definitiva si ricava è spesso irrisorio. Ma chi non ha un'idea
determinata sullo scopo del calcolo e, durante il calcolo stesso,
sulla portata dei risultati singoli, non ne trae neppure quel
minimo. Normalmente l’« idea » si prepara a germogliare sol-
tanto sul terreno del duro lavoro. Non sempre, s'intende. L’i-
dea di un dilettante può avere un'importanza identica o mag-
giore di quella di uno specialista. Molte delle nostre impostazio-
ni e delle nostre conoscenze più importanti sono dovute pro-
prio ai dilettanti. Il dilettante si distingue dallo specialista —
come ha detto Helmholtz a proposito di Robert Mayer? — solo
in quanto gli manca la precisa sicurezza del metodo di lavoro e
non è quindi in grado di controllare 2 posteriori la portata
della sua idea e di apprezzarla o applicarla. L'idea non sostitui-
sce il lavoro. E il lavoro dal canto suo non può sostituire 0
suscitare a forza l’idea più di quanto non possa farlo la passio-
ne. L'una e l’altro — e specialmente tutti e due insieme — la
maturano. Ma essa viene quando le aggrada e non quando
pare a noi. È infatti vero che le cose migliori vengono in
mente, come dice Ihering, fumando il sigaro sul divano oppure
— come narra di sé Helmholtz con precisione di naturalista —
passeggiando per una strada lievemente in salita, e via dicen-
do, ma sempre, comunque, quando non si sta in loro attesa,
non già durante l’ansia e lo sforzo di ricerca a tavolino.
3. Julius Robert Mayer (1814-1878), medico e fisico tedesco, autore del volume
Dic organische Bewegung in ihren Zusammenhinge mit dem Stoffwechsel (1845), con-
tribuì alla formulazione del principio della conservazione dell'energia: fu oggetto
di aspra critica da parte di Helmholtz,
692 MAX WEBER
Certo, però, non sarebbero venute in mente senza i prece-
denti appassionanti problemi e senza quel tormento a tavolino.
Comunque sia, l’uomo di scienza deve anche tener conto di
quel caso che non va disgiunto da qualsiasi lavoro scientifico:
verrà o no l’«ispirazione»? Si può essere un impareggiabile
lavoratore e non avere mai avuto una propria idea originale.
Ma è un grave errore credere che ciò avvenga soltanto nella
scienza e che in un’azienda, per esempio, le cose stiano diversa-
mente che in un laboratorio. Un commerciante o un grande
industriale privo di «fantasia negli affari», cioè senza idee,
senza idee geniali, rimarrà per tutta la vita, nel migliore dei
casi, un semplice commesso o un impiegato tecnico: non creerà
mai qualcosa di vitale nell’organizzazione. Nel campo della
scienza l’ispirazione non ha affatto un'importanza maggiore —
come immagina la presunzione degli studiosi — che nel campo
dei problemi della vita pratica che deve padroneggiare un im-
prenditore moderno. E d'altra parte la sua importanza non è
minore — come spesso erroneamente si crede — che nel campo
dell’arte. È puerile pensare che a tavolino, munito di un re-
golo o di altri mezzi meccanici o di macchine calcolatrici, il
matematico giunga a un risultato di qualche valore scientifico;
la fantasia matematica di un Weierstrass* si presenta natural-
mente orientata in modo del tutto diverso, nel suo senso e nel
suo risultato, da quella di un artista, e anche sotto il profilo
qualitativo è fondamentalmente differente. Non però quanto al
procedimento psicologico. Entrambi sono esaltazione (nel senso
della « mania » di Platone) e « ispirazione ».
Ora, che uno abbia ispirazioni scientifiche, dipende da un
destino a noi ignoto, ma soprattutto da un « dono», Un atteg-
giamento, di cui è ben comprensibile la popolarità specialmente
tra i giovani, si è schierato — e quell’indubitabile verità non è
certo l’ultima ragione di ciò — in favore di alcuni idoli il cui
culto vediamo oggi trionfare a tutti gli angoli di strada e in
tutte le riviste. Tali idoli sono la «personalità» e l’«espe-
rienza vissuta ». L'una e l’altra sono strettamente connesse:
4. Karl Theodor Wilhelm Weicrstrass (1815-1897), matematico tedesco, autore
di numerosi scritti raccolti nelle Gesammelte Abhandiungen (1894-1927), diede impor-
tanti contributi alla teoria delle funzioni.
MAX WEBER 693
l'opinione dominante è che la seconda sia costitutiva della pri-
ma e le appartenga. Ci si tormenta per «vivere la propria
esperienza» — giacché questo fa parte del modo di vivere che
si addice a una personalità — e non potendo riuscirvi bisogna
almeno fare come se si possedesse questa grazia. Una volta
questa «esperienza vissuta » si chiamava in tedesco Sensation.
E di quel che fosse e significasse la « personalità », si aveva
allora — ritengo — un'idea più esatta.
Egregi ascoltatori! Nel campo scientifico ha una sua « perso-
nalità » soltanto chi serve puramente la causa. E ciò non si
verifica soltanto in campo scientifico. Non conosciamo alcun
grande artista che non si sia interamente dedicato alla propria
causa e che abbia servito altri all’infuori di questa. Perfino una
personalità della levatura di Goethe non ha potuto impunemen-
te — per quel che concerne la sua arte — prendersi la libertà
di voler fare un’opera d’arte della propria « vita». Ma se pure
non si voglia ammetterlo, bisogna tuttavia essere un Goethe
per poterselo permettere, e ognuno dovrà convenire almeno sul
fatto che nessuno mai ne è uscito immune, neppure lui, la cui
figura è unica nel corso di millenni. Le cose non stanno altri-
menti in politica: ma di ciò non si parlerà oggi. Nel campo
della scienza non è certo una « personalità » colui il quale, al
modo di un impresario, porta se stesso alla ribalta insieme alla
causa a cui dovrebbe dedicarsi, e vorrebbe giustificare se medesi-
mo col « vivere la propria esperienza », e domanda: come di-
mostrerò di essere qualcosa di più di un semplice « speciali-
sta», come riuscirò a dire qualcosa che non sia stato ancor
detto da nessuno nella stessa forma o con lo stesso contenuto?
Un fenomeno, questo, che oggi si osserva su larga scala e che
lascia ovunque un’impronta di meschinità, avvilendo colui che
si pone una simile domanda, laddove soltanto l’intima dedizio-
ne al proprio compito, e ad esso soltanto, può innalzarlo all’altez-
za e alla dignità della causa che pretende servire. Né diversa-
mente avviene per l'artista.
Contrapposto a queste condizioni preliminari che il nostro
lavoro ha in comune con l’arte, esiste un destino che lo differen-
zia profondamente dal lavoro dell’artista. Il lavoro scientifico
è inserito nel corso del progresso. E viceversa nessun progresso
— in questo senso — si attua nel campo dell’arte. Non è vero
694 MAX WEBER
che un’opera d’arte di un'epoca in cui siano stati elaborati
nuovi mezzi tecnici o, per esempio, le leggi della prospettiva,
si trovi per questa ragione a un più alto livello, sul piano
puramente artistico, di un’opera d’arte priva di ogni conoscen-
za di quei mezzi e di quelle leggi — se questa non è formal-
mente o materialmente manchevole, cioè se ha scelto e plasma-
to il proprio oggetto come era possibile fare a regola d’arte
senza l'applicazione di quelle condizioni e di quei mezzi. Un'o-
pera d’arte veramente «compiuta» non viene mai superata,
non invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente
un significato di diverso valore; ma di un’opera realmente
«compiuta » in senso artistico nessuno potrà mai dire che sia
«superata» da un’altra pur essa «compiuta». Al contrario,
ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo
dieci, venti, cinquant'anni è invecchiato. Questo è il destino, 0
meglio, questo è il senso del lavoro scientifico, il quale, ri-
spetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire
la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in modo del
tutto specifico: ogni lavoro scientifico «compiuto » comporta
nuove « questioni » e vole essere « superato » e invecchiare. A
ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza. Senza
dubbio vi sono opere scientifiche che possono conservare dure-
volmente la loro importanza come «mezzi di godimento» a
causa della loro qualità artistica, oppure come mezzo di addestra-
mento al lavoro. Ma esser superati scientificamente è — giova
ripeterlo — non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il
nostro scopo. Non possiamo lavorare senza sperare che altri si
spingeranno più avanti di noi. In linea di principio, questo
progresso tende all’infinito. E con ciò siamo giunti al problema
del senso della scienza. Infatti, non appare di per se stesso
chiaro come possa avere in sé un senso e una ragione qualcosa
che è sottoposto a una simile legge. Perché mai ci si adopera in-
torno a quello che, nella realtà, non giunge e non può mai giun-
gere alla fine? Ebbene, anzitutto per scopi puramente pratici,
cioè per scopi tecnici nel senso ampio della parola: per poter
orientare la nostra azione pratica in base alle aspettative che ci
fornisce l’esperienza scientifica. Sta bene. Ma questo ha un si-
gnificato solo per l'uomo pratico. Qual è ora la posizione inte-
riore dell’uomo di scienza di fronte alla propria professione,
MAX WEBER 695
ammesso che egli cerchi di averne una in generale? Egli rispon-
de: la scienza « per amore della scienza » e non per consentire
ad altri di raggiungere successi nel campo degli affari di carat-
tere tecnico, per potersi meglio nutrire, vestire, illuminare, go-
vernare. Quale opera fornita di senso crede egli dunque di
produrre in tal modo, con queste creazioni sempre destinate a
invecchiare, col lasciarsi incanalare in questa attività divisa in
settori specializzati, e protraentesi all'infinito? A questo propo-
sito bisogna fare alcune considerazioni generali.
Il progresso scientifico è una frazione, e senza dubbio la più
importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale
siamo sottoposti da secoli e contro il quale oggi di solito si
prende una posizione così straordinariamente negativa.
Anzitutto rendiamoci chiaramente conto di che cosa propria-
mente significhi, dal punto di vista pratico, questa razionalizza-
zione intellettualistica ad opera della scienza e della tecnica
orientata scientificamente. Vorrà forse significare che oggi noi
altri, per esempio ogni persona presente in questa sala, abbia-
mo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistia-
mo maggiore di quella di un Indiano o di un Ottentotto? Ben
difficilmente. Chiunque di noi viaggi in tram non ha la mini-
ma idea — a meno ch'egli non sia un fisico di mestiere — di
come la vettura riesca a mettersi in moto: né, d’altronde, ha
bisogno di saperlo. Gli basta di poter « fare assegnamento » sul
modo di comportarsi di una vettura tranviaria, ed egli orienta
in conformità la propria condotta; ma nulla sa di come si
faccia per costruire un tram capace di mettersi in moto. Il
selvaggio ha una conoscenza dei propri utensili incomparabil-
mente migliore. Se oggi spendiamo del denaro, scommetto che,
perfino se vi sono colleghi economisti qui presenti, ognuno
avrà pronta una risposta diversa alla domanda: come avviene
che qualcosa — ora poco, ora molto — possa esser comperato
con il denaro? Il selvaggio sa in quale modo riesce a procu-
rarsi il nutrimento quotidiano e quali istituzioni gli servano a
questo scopo. La progressiva intellettualizzazione e razionaliz-
zazione n0n significa dunque una crescente conoscenza genera-
le delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa
bensì qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltan-
to si volesse, si potrebbe in ogni momento provare che non vi
696 MAX WEBER
sono forze fondamentalmente misteriose e imprevedibili le qua-
li intervengano in modo da impedire che si possa dominare —
in linea di principio — tutte le cose mediante la previsione
razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non
occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare o per ingra-
ziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono
potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e la
previsione razionale. È soprattutto questo il significato dell’in-
tellettualizzazione in quanto tale.
Questo processo di disincantamento proseguito per millenni
nella cultura occidentale e, in generale, questo « progresso »
del quale la scienza è un elemento e un impulso, contiene un
qualche senso che vada al di Ià del fatto puramente pratico e
tecnico? Questa domanda la trovate formulata come questione
di principio soprattutto nelle opere di Lev Tolstòj. Egli vi
giunse attraverso una propria via. Il problema centrale intorno
al quale egli si tormentava era la questione se la morte fosse o
no un fenomeno dotato di senso. E la sua risposta, nei con-
fronti degli uomini civili, è negativa. Ciò appunto in quanto
la vita del singolo individuo civilizzato, inserita nel « progres-
so», nell’infinito, non può per il suo stesso senso immanente
avere alcun termine. Giacché c'è sempre un ulteriore progresso
da compiere per chi c'è dentro; nessuno muore dopo esser
giunto al culmine, che è situato nell'infinito. Abramo e un
qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva « vecchio e sazio
della vita» perché si trovava nel ciclo organico della vita,
perché la sua vita, anche per il suo significato, alla sera della
sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché
non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed egli poteva
perciò averne « abbastanza ». Ma un uomo civile, il quale parte-
cipa all’arricchimento progressivo della civiltà in idee, conoscen-
ze, problemi, può diventare « stanco della vita » ma non sazio.
Di ciò che la vita dello spirito sempre nuovamente produce egli
coglie soltanto la minima parte, e sempre qualcosa di provviso-
rio e mai definitivo: quindi la morte è per lui un accadimento
privo di senso. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche
la vita culturale come tale, in quanto appunto con la sua assur-
da « progressività » fa della morte un assurdo. Ovunque, nei
MAX WEBER 697
suoi ultimi romanzi, quest'idea costituisce il motivo fondamen-
tale dell’arte di Tolstòj.
Quale posizione si può assumere in proposito? Al « progres-
so», come tale, può riconoscersi un senso che va al di là della
tecnica, cosicché avrebbe significato la professione dedicata al
suo servizio? È un quesito che va posto. Ma non si tratta
soltanto del problema della professione e della vocazione ne:
riguardi della scienza, e cioè del problema: che cosa significa
la scienza come professione per colui il quale vi si dedica? —
bensì anche di questo: che cos'è la professione della scienza
nell’ambito dell'intera vita dell'umanità? e qual è il suo valore?
L’antitesi tra passato e presente è qui enorme. Vi ricordere-
te di quella meravigliosa immagine al principio del libro VII
della Repubblica di Platone: quegli uomini in una caverna
incatenati, col viso rivolto alla parete di roccia, che la luce
colpisce alle spalle e che non possono vederla e si preoccupano
perciò soltanto delle ombre che essa getta sulla parete e cercano
di stabilirne la causa. Finalmente uno di loro riesce a spezzare
le catene, si volta e mira: il sole. Abbagliato brancola all’intor-
no e descrive balbettando quel che ha veduto. Gli altri gli
dànno del pazzo. Ma a poco a poco egli impara a vedere nella
luce e allora si adopera a scendere tra gli uomini delle caverne
e a trarli su verso la luce. Egli è il filosofo e il sole è la verità
della scienza, che sola non va in caccia di fantasmi e di ombre
ma persegue il vero essere.
Ebbene, chi tiene oggi un simile atteggiamento verso la
scienza? È proprio la gioventù a manifestare oggi un sentimen-
to opposto: le formazioni concettuali della scienza sono un
mondo sotterraneo di artificiose astrazioni che cercano di coglie-
re con le loro mani esangui, senza mai riuscirvi, la linfa e il
sangue della vita reale. È qui nella vita, in ciò che per Platone
costituiva il gioco d’ombre sulle pareti della caverna, che palpi-
ta la vera realtà: il resto sono fantasmi senza vita astratti da
quella, e null’altro. Come si è effettuato un tale mutamento?
L’appassionato entusiasmo di Platone nella Repubblica si spie-
ga in ultima analisi considerando che allora per la prima volta
si era scoperto consapevolmente il senso di uno dei più impor-
tanti mezzi di ogni conoscenza scientifica: il concetto. Socrate
ne ha rivelato tutta l’importanza. Ma non è stato il solo: in
698 MAX WEBER
India potete trovare saggi di una logica del tutto simile a
quella di Aristotele. Mai però con questa coscienza del suo
significato. Allora per la prima volta sembrò disponibile un
mezzo per stringere chiunque nella morsa della logica così da
non lasciarlo uscire senza ammettere o di non saper nulla o
che questa e non altra è la verità, l'eterna verità, che non è
transeunte come l’agire e l’indaffararsi degli uomini ciechi. Fu
questa la straordinaria esperienza vissuta dai discepoli di Socra-
te. Da ciò sembrava conseguire che, ove si fosse trovato l’esatto
concetto del bello, del buono, come pure del coraggio, dell’ani-
ma, e via dicendo, se ne potesse cogliere anche il vero essere, e
ciò sembrava di nuovo aprire la via per sapere e per insegnare
il modo giusto di agire nella vita, soprattutto come cittadino.
Infatti la mentalità completamente politica dei Greci riduceva
tutto a questo problema. Perciò si coltivava la scienza.
Accanto a questa scoperta dello spirito greco si presenta ora
— frutto del Rinascimento — il secondo grande strumento del
lavoro scientifico, l'esperimento razionale, come mezzo per l’e-
sperienza rigorosamente controllata, senza il quale sarebbe im-
possibile la scienza empirica moderna. Anche precedentemente
era stato adottato il metodo sperimentale: nella fisiologia, per
esempio, in India, per servire alla tecnica ascetica dello Yogi;
nella matematica, tra gli antichi Greci, ai fini della tecnica
bellica; per i lavori nelle miniere, durante il Medioevo. Ma
aver innalzato l'esperimento a principio della ricerca come tale
è un prodotto del Rinascimento. Ne furono pionieri i grandi
innovatori nel campo dell’arte: Leonardo e i suoi pari, e carat-
teristici soprattutto gli sperimentatori di musica del Cinquecen-
to con i loro clavicembali sperimentali. Da questi l’esperimento
passò nella scienza soprattutto ad opera di Galilei, e nella teo-
ria ad opera di Bacone; lo adottarono poi le singole discipline
delle scienze esatte nelle università del continente, in primo
luogo in Italia e in Olanda.
Che cosa dunque significava la scienza per quegli uomini
alla soglia dell’età moderna? Per gli sperimentatori nel campo
dell’arte, come Leonardo e gli innovatori nella musica, signifi-
cava la via per giungere alla vera arte, ciò che per loro equivale-
va alla vera natura. L'arte doveva esser elevata alla dignità di
una scienza, e cioè al tempo stesso, e soprattutto, l’artista al
MAX WEBER 699
rango di un dotto, dal punto di vista sociale e riguardo al senso
della sua vita. È questa l’ambizione che sta per esempio alla
base anche del Trattato della pittura di Leonardo. E oggi?
«La scienza come via per giungere alla natura» — questa
frase suonerebbe come una bestemmia alle orecchie dei giovani.
No, tutt'al contrario: liberiamoci dall’intellettualismo della
scienza per ritornare alla nostra propria natura e quindi alla
natura in generale! Sarà forse allora la via per giungere all'ar-
te? A questa domanda è superflua qualsiasi critica. — Ma
all’epoca dell’origine delle scienze esatte della natura, ci si
attendeva dalla scienza qualcosa di più. Se rammentate il detto
di Swammerdam® «vi reco qui la prova della provvidenza di
Dio nell’anatomia d’un pidocchio », capirete ciò che il lavoro
scientifico, sotto l'influenza (indiretta) del Protestantesimo e
del Puritanesimo, considerasse allora come proprio compito: la
via per giungere a Dio. Questa, allora, non la si trovava più
nei filosofi, nei loro concetti e nelle loro deduzioni: che non si
potesse trovare Dio per la via tentata dal Medioevo, ben lo
sapeva tutta la teologia pietistica di quel tempo, Spener* soprat-
tutto. Dio è nascosto, le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pen-
sieri non sono i nostri pensieri. Ma nelle vie esatte della natura,
dove si poteva cogliere fisicamente la sua opera, là si sperava di
poter rintracciare i suoi disegni in relazione al mondo. E oggi-
giorno? Chi ancor oggi — tranne alcuni grandi fanciulli, quali
è dato incontrare proprio nelle scienze naturali — crede che le
conoscenze dell'astronomia o della biologia o della fisica o del-
la chimica possano insegnarci qualcosa intorno al serso del
mondo, o anche soltanto intorno alla via per la quale si possa-
no rintracciare gli indizi di un simile « senso », se pur ve n'è
uno? Quelle conoscenze sono semmai più adatte a soffocare in
germe la fede che vi sia qualcosa di simile a un «senso» del
5. Jan Swammerdam (1639-1680), naturalista olandese, autore del Tractatus
physico-anatomico-medicus de respiratione usuque pulmonum (1667), del Miracu-
lum naturae seu uteris muliebris fabrica (1672), della Ephemerae vita (1675) ©
di varie altre opere, diede importanti contributi allo studio degli insetti, all'embrio-
logia, all'anatomia umana, e fu tra i pionieri del microscopio.
6. Philipp Jakob Spener (1635-1705), teologo protestante tedesco, autore di Pia
desideria (1675), di Dus geistliche Priestertum (1677), della Evangelische Glaubens-
lehre (1688), delle Evangelische Lebenspffichten (1692) c di varie altre opere, fu il
fondatore del movimento pietistico.
700 MAX WEBER
mondo! E finalmente, la scienza come via per giungere «a
Dio»? Essa, la potenza specificamente estranea alla divinità?
Che tale essa sia nessuno oggi, nel suo intimo, può dubitarne,
pur essendo più o meno disposto a confessarlo. L’emancipazio-
ne dal razionalismo e dall’intellettualismo della scienza costitui-
sce il presupposto fondamentale della vita in comunione con il
divino: questa massima, o qualcosa di significato identico, è
una delle parole d’ordine che si ritrovano ovunque nel senti-
mento dei nostri giovani dotati di animo religioso o che aspira-
no a un'esperienza religiosa. Ed essa vale non soltanto per
l’esperienza religiosa, ma per l’esperienza in generale. Parados-
sale però è la via seguita: si elevano ora alla coscienza e si
sottopongono alla sua lente proprio quelle sfere dell’irrazionale,
le sole che finora l’intellettualismo non aveva ancora toccato. A
ciò conduce infatti, in pratica, il moderno romanticismo intel-
lettualistico dell’irrazionale. Questa via per liberarsi dall’intellet-
tualismo porta a un risultato esattamente opposto al fine imma-
ginato da coloro i quali la percorrono. Che infine per un inge-
nuo ottimismo si sia celebrato nella scienza, ossia nella tecnica
per il dominio della vita su di essa fondata, la via per giungere
alla felicità, posso passarlo sotto silenzio dopo la critica demoli-
trice rivolta da Nietzsche a quegli « ultimi uomini» i quali
«hanno trovato la felicità». Chi ci crede più, tranne alcuni
grandi fanciulli sulle cattedre o nei comitati di redazione?
Torniamo al punto di partenza. Dati questi presupposti
intrinseci, qual è il senso della scienza come professione, dal
momento che sono naufragate tutte quelle precedenti illusioni
— «la via per il raggiungimento del vero essere», «la via
verso la vera arte», «la via verso la vera natura», «la via
verso il vero Dio », «la via verso la vera felicità »? La risposta
più semplice è stata data da Tolstòj con queste parole: « essa è
priva di senso perché non risponde alla sola domanda importan-
te per noi: che cosa dobbiamo fare? come dobbiamo vivere? »
Il fatto che non vi risponda è assolutamente incontestabile. Si
tratta soltanto di domandarsi in quale senso non dia « nessu-
na» risposta, e se in luogo di questa essa non possa per caso
dare un qualche aiuto a chi si ponga la questione nei suoi
termini esatti. — Oggi si suole sovente parlare di una scienza
MAX WEBER 701
« senza presupposti ». Ce n'è una? Dipende da quel che si vuol
intendere. Presupposto di qualsiasi lavoro scientifico è sempre
la validità delle regole della logica e della metodologia, di
questi fondamenti generali del nostro orientamento nel mondo.
Ora siffatti presupposti, per lo meno quanto alla nostra questio-
ne particolare, non sono affatto problematici. Si presuppone
inoltre che il risultato del lavoro scientifico sia importante nel
senso che sia « degno di essere conosciuto ». E qui evidentemen-
te hanno la loro radice tutti i nostri problemi. Infatti questo
presupposto non può essere a sua volta dimostrato con i mezzi
della scienza. Può essere soltanto interpretato nel suo senso
ultimo, che bisognerà accogliere o respingere a seconda della
personale posizione ultima di fronte alla vita.
Assai diverso, inoltre, è il tipo di relazione del lavoro scienti-
fico con questi suoi presupposti, a seconda della loro struttura.
Le scienze naturali come la fisica, la chimica, l’astronomia,
presuppongono come evidente che le leggi ultime dell’accadere
cosmico — costruibili, fin dove arriva la scienza — siano degne
di esser conosciute. Non soltanto perché con queste nozioni si
possono raggiungere successi tecnici, ma — se devono essere
« professione » — « per se stesse ». Questo presupposto a sua
volta non è assolutamente dimostrabile; e meno che mai si può
dimostrare se il mondo da esse descritto sia degno di esistere,
se cioè esso abbia un « senso », e se abbia un senso esistere in
esso. Di ciò quelle scienze non si preoccupano. Oppure prende-
te un'arte pratica così sviluppata scientificamente come la medi-
cina moderna. Il « presupposto» generale dell'esercizio della
medicina è — in parole povere — che sia considerato positivo,
unicamente come tale, il compito della conservazione della vi-
ta e della riduzione al minimo della sofferenza. E ciò è proble-
matico. Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita
al moribondo, anche se questi implora di essere liberato dalla
vita, anche se la sua morte è e dev'essere desiderata — più o
meno consapevolmente — dai suoi congiunti, per i quali la sua
vita è ormai priva di valore mentre insopportabili sono gli
oneri per conservarla, ed essi gli augurano la liberazione dalla
sofferenza (si tratta, poniamo il caso, di un povero folle). Ma i
presupposti della medicina e il codice penale impediscono al
medico di desistere. La scienza medica non si pone la domanda
702 MAX WEBER
se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le
scienze naturali dànno una risposta a questa domanda: che
cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vi-
ta? Ma se dobbiamo e vogliamo dominarla tecnicamente, e se
ciò, in definitiva, abbia propriamente un senso, esso lo lasciano
del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro scopi.
Prendiamo, se volete, una disciplina come la scienza dell’arte.
Il fatto che vi siano opere d’arte costituisce, per l’estetica, un dato.
Essa cerca di stabilire a quali condizioni quel fenomeno si
verifichi. Ma non si pone la domanda se il dominio dell’arte
non sia per avventura un regno di magnificenza diabolica, un
regno di questo mondo, e perciò intimamente opposto al divino
e, per il suo carattere intrinsecamente aristocratico, allo spirito
di fraternità. Essa non si domanda quindi se debbano esservi
opere d’arte. Oppure prendiamo la giurisprudenza: essa stabili-
sce ciò che è valido secondo le regole del pensiero giuridico, in
parte coercitivamente logico e in parte vincolato da schemi
convenzionali; vale a dire, stabilisce se sono riconosciute obbli-
gatorie determinate regole giuridiche e determinati metodi per
la loro interpretazione. Non decide se debba esservi il diritto e
se debbano esser formulate proprio quelle regole; essa può indi-
care soltanto che, se si vuol conseguire un risultato, il mezzo
appropriato per raggiungerlo ci è dato da questa regola giuridi-
ca, secondo le norme del nostro pensiero giuridico. O prendete
ancora le scienze storiche della cultura. Esse ci insegnano a
comprendere i fenomeni della cultura — politici, artistici, lette-
rari e sociali — in base alle condizioni del loro sorgere. Ma
non rispondono di per sé alla questione se questi fenomeni
culturali fossero e siano degni di sussistere, e neppure all’altra
questione se valga la pena di conoscerli. Esse presuppongono
che abbia un interesse partecipare, mediante tale procedimen-
to, alla comunità degli « uomini civili ». Ma che così stiano le
cose, esse non sono in grado di dimostrarlo « scientificamente »
a nessuno, e che esse lo presuppongano non dimostra affatto
che ciò sia evidente. E infatti non lo è per nulla.
Soffermiamoci ora su quelle discipline alle quali sono più
vicino, e cioè la sociologia, la storia, l'economia, la dottrina
dello stato, e su quelle forme di filosofia della cultura che si pro-
pongono di darne un’interpretazione. Si afferma — e io lo
MAX WEBER 793
sottoscrivo — che la politica non si addice all’aula di lezione.
Non vi si addice da parte degli studenti. Io vorrei deplorare
per esempio che nell’aula del mio vecchio collega Dietrich Sché-
fer? a Berlino gli studenti pacifisti si accalcassero intorno alla
cattedra e facessero un chiasso simile a quello che devono aver
inscenato gli studenti anti-pacifisti davanti al professor Fòr-
ster®, dalle cui opinioni le mie divergono radicalmente in molti
punti. Ma la politica non si addice all'aula neppure da parte
degli insegnanti: meno che mai quando l’insegnante si occupa
di politica dal punto di vista scientifico. Infatti la presa di
posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni e
partiti politici sono due cose diverse. Quando uno parla sulla
democrazia in una riunione popolare, non fa mistero della
propria presa di posizione personale: anzi, è questo il dannato
obbligo e dovere, prender partito in modo chiaramente ricono-
scibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso
strumenti di analisi scientifica, bensì mezzi di propaganda per
trarre dalla nostra parte gli altri. Esse non sono un vomere per
smuovere il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade
contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in
un'aula sarebbe un misfatto usare la parola in questa maniera.
Se.vi si parlerà di « democrazia », si osserveranno le sue di-
verse forme, si analizzerà il modo in cui esse funzionano, si
stabilirà quali siano le conseguenze particolari dell’una o dell’al-
tra per le condizioni della vita, e poi vi si contrapporranno le
altre forme non democratiche di organizzazione politica e si
cercherà di giungere fino al punto in cui l'ascoltatore sia in
grado di poter prendere posizione secondo i suo: ideali ultimi.
Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo, dall'alto
della cattedra, a prendere una qualsiasi posizione, sia esplicita-
mente sia con suggerimenti — poiché naturalmente il metodo
più sleale è quello di « far parlare i fatti».
7. Dietrich Schifer (1845-1929), storico tedesco allievo di Treitschke, di oricn-
tamento nazionalistico,
8. Friedrich Wilhelm Forster (1869-1966), filosofo e pedagogista tedesco, autore
di Lebensfiihrung (1909), di Autorità und Freiheit (1910), di Erziechung und Selbst-
erziehung (1917), di Hauptaufgaben der Erziehung (1959) e di numerose altre opere
di argomento etico-pedagogico ed etico-politico, fu sostenitore del pacifismo e quiodi
oggetto di violenti attacchi da parte degli studenti nazionalisti.
794 MAX WEBER
Ma per quale ragione, precisamente, dobbiamo astenercene ?
Premetto che diversi tra i miei stimatissimi colleghi sono del
parere che una siffatta discrezione non sia attuabile e che, se
anche lo fosse, sarebbe follìa pretenderla. Ora a nessuno può
dimostrarsi scientificamente quale sia il suo dovere di professo-
re universitario. Da lui si può pretendere soltanto la probità
intellettuale, per cui sappia comprendere che la constatazione
dei fatti, la determinazione di rapporti matematici o logici o
della struttura interna di beni culturali da una parte — e dall’al-
tra la risposta alla questione del valore della cultura e dei suoi
contenuti particolari — e quindi del modo in cui si deve agire
nell’ambito della comunità civile e dei gruppi politici — sono
due problemi assolutamente eterogenei. Se poi egli domanda
perché non debba trattarli entrambi nell'aula di lezione, ecco
la risposta: perché il profeta e il demagogo non si addicono
alla cattedra. Al profeta e al demagogo è stato detto: «esci
per le strade e parla pubblicamente ». Parla, cioè, dov’è possibi-
le la critica. Nell’aula di lezione, ove si sta seduti di faccia ai
propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e
reputo una mancanza di senso di responsabilità approfittare
della circostanza che gli studenti sono obbligati dal program-
ma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessu-
no può intervenire a controbatterlo, per inculcare negli ascolta-
tori la propria personale concezione politica invece di recare
loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie cono-
scenze e le proprie esperienze scientifiche. Può certamente avve-
nire che l'individuo riesca solo imperfettamente a nascondere
le proprie simpatie soggettive. Allora, egli si espone alla cri-
tica più spietata davanti al foro della sua coscienza. E ciò
d'altronde non prova nulla, poiché anche altri errori puramen-
te di fatto sono possibili e non possono contrastare al dovere di
ricercare la verità. Io mi rifiuto di ammetterlo anche e precisa-
mente per l'interesse puramente scientifico. Sono disposto a
provare sulle opere dei nostri storici che, ogni qual volta l’uo-
mo di scienza mette innanzi il proprio giudizio di valore,
cessa la perfetta comprensione del fatto. Tuttavia, ciò esula dal
tema di questo discorso ed esigerebbe lunghe considerazioni
critiche.
Io domando semplicemente: come può da una parte un
-
MAX WEBER 705
cattolico credente e dall’altra un massone — in un corso sulle
forme di chiesa e di stato o sulla storia della religione — come
possono mai questi due esser condotti a un’eguale valutazione
di tali oggetti? È impossibile. Eppure, il professore universita-
rio deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze
e i suoi metodi tanto all'uno come all’altro. Ora voi direte
giustamente: neppure riguardo ai fatti relativi all'origine del
Cristianesimo il cattolico credente potrà mai accettare l’opinio
ne prospettatagli da un maestro che non condivida i suoi pre-
supposti dogmatici. Senza dubbio! Ma la differenza consiste nel
fatto che la scienza « priva di presupposti », nel senso che riftu-
ta ogni vincolo religioso, non riconosce di fatto, dal canto suo,
il « miracolo » e Ia «rivelazione ». Altrimenti essa tradirebbe i
propri « presupposti ». Il credente li riconosce entrambi. E quel-
la scienza « priva di presupposti » non pretende da lui meno —
ma anche niente di più — del riconoscimento che bisogna
seguire la via tentata dalla scienza, se si vuol spiegare quell’av-
venimento prescindendo da quegli interventi soprannaturali,
che per una spiegazione empirica devono essere esclusi come
momenti causali. Ciò il credente può ammetterlo senza tradire
la propria fede.
Ma la funzione della scienza non avrà allora alcun senso
per chi è indifferente al fatto in quanto tale e reputa importan-
te soltanto la presa di posizione pratica? Forse sì. E anzitutto:
un abile maestro considererà suo primo compito insegnare ai
propri allievi a riconoscere i fatti scomodi, e cioè tali, intendo
dire, che siano scomodi per la sua opinione di partito; e per
ogni partito — per esempio anche per il mio — vi sono fatti
del genere, estremamente imbarazzanti. Credo che il professore
universitario, se avvezza i propri ascoltatori a questa necessità,
compia una funzione non soltanto intellettuale, ma — oserei
dire — una « funzione etica », per quanto una simile espressio-
ne possa suonar troppo patetica applicata a un fatto così sempli-
ce e ovvio.
Finora ho parlato soltanto dei motivi pratici che consiglia-
no di evitare di imporre una presa di posizione personale. Ma
non è tutto qui. L’impossibilità di presentare « scientificamen-
te» una presa di posizione pratica — eccetto nel caso di una
discussione dei mezzi per uno scopo che si presuppone già dato
45. STORICISMO TEDESCO.
706 MAX WEBER
— deriva da ragioni ben più profonde. Una simile impresa è in
linea di principio priva di senso, in quanto i diversi ordi-
ni di valori che esistono al mondo stanno tra loro in una lotta
inconciliabile. Il vecchio Mill — la cui filosofia non intendo
peraltro lodare, ma che su questo punto ha ragione — dice in
qualche luogo: partendo dalla pura esperienza si giunge al
politeismo. Il principio è formulato superficialmente e sembra un
paradosso, tuttavia contiene una qualche verità. Di questo, se
non altro, oggi siamo certi: che qualcosa può essere sacro non
soltanto anche senza essere bello, ma perché e in quanto non è
bello (potrete trovarne le prove nel cap. 53 del Libro di Isaia e
nel Salmo 21) e che qualcosa può essere bello non soltanto anche
senza essere buono bensì in quanto non è tale, come abbiamo
imparato da Nietzsche e come anche prima potete trovare illu-
strato nelle Fleurs du mal, come chiamò Baudelaire il suo
volume di poesie; ed è infine una verità di tutti i giorni che
qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello, né
sacro, né buono. Ma questi sono soltanto gli esempi più elemen-
tari di tale lotta tra gli dèi che presiedono ai diversi ordinamen-
ti e valori. Come si possa fare per decidere « scientificamente »
tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io lo
ignoro. Anche qui c'è un antagonismo tra divinità diverse, per
tutti i tempi. Avviene come nel mondo antico, ancora sotto
l'incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, anche se in un altro
senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad
Apollo, e ciascuno in particolare agli dèi della propria città,
così è ancor oggi, senza l’incantesimo e l’ammanto della forza
plastica, mitica ma intimamente vera, di quell’atteggiamento.
Su questi dèi e sulle loro lotte domina il destino, non certo la
« scienza ». È dato solamente intendere che cosa sia il divino
nell’uno e nell’altro caso, ovvero in un ordinamento e nell’al-
tro. Ma con ciò la questione è assolutamente chiusa a qualsiasi
discussione in un’aula di lezione e per bocca di un insegnante,
quantunque naturalmente non sia affatto chiuso l’enorme proble-
ma di vita che vi è racchiuso. Qui però la parola spetta a
potenze diverse che non alle cattedre universitarie. Chi vorrà
provarsi a « confutare scientificamente » l’etica del Sermone del-
la Montagna, per esempio la massima: « non far resistenza al
male », oppure l’immagine del porgere l’altra guancia? Eppure
MAX WEBER 707
è chiaro che, dal punto di vista intra-mondano, vi si predica
un'etica della mancanza di dignità: bisogna scegliere tra la
dignità religiosa, che questa etica comporta, e la dignità virile,
che predica qualcosa di ben diverso: «devi far resistenza al
male, altrimenti sei anche tu responsabile se questo prevale ».
Dipende dalla propria presa di posizione rispetto al fine ultimo
che l’uno sia il diavolo e l’altro il dio, e spetta all’individuo
decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo. E così
avviene per tutti gli ordinamenti della vita. Il grandioso razio-
nalismo della condotta etico-metodica della vita, che sgorga da
ogni profezia religiosa, aveva detronizzato questo politeismo a
favore dell’« Uno, che è necessario», e poi, di fronte alle
realtà della vita esteriore e interiore, si è visto costretto a scende-
re a quei compromessi e a quelle relativizzazioni che tutti
conosciamo dalla storia del Cristianesimo. Ma ciò è oggi una
«realtà quotidiana » per la religione. Gli antichi dèi, spogliati
del loro incanto e perciò ridotti a potenze impersonali, si leva-
no dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e
riprendono quindi la loro eterna lotta. Ma ciò che per l’uomo
moderno è appunto tanto difficile, e sommamente difficile per
la giovane generazione, è saper far fronte a siffatta realtà quoti-
diana. Tutto quell’affannarsi in cerca dell’« esperienza vissuta »
deriva da questa debolezza. Infatti è una debolezza non poter
tenere levato lo sguardo al volto severo del destino dei tempi.
Ma il destino della nostra cultura è appunto quello di essere
diventati oggi nuovamente e più chiaramente consapevoli di ciò
che per un millennio l’orientamento esclusivo — vero o presunto
— verso il grandioso pathos dell'etica cristiana aveva celato ai
nostri occhi.
Ma basta ora con questi problemi che ci conducono troppo
lontano. Poiché, quando una parte dei nostri giovani volesse
dare a tutto ciò questa risposta: « già, ma noi veniamo a lezio-
ne per ricavarne un'esperienza che non consista soltanto in
analisi e in constatazioni di fatto », essi incorrerebbero nell’erro-
re di cercare nel professore qualcosa di diverso da ciò che sta
loro di fronte — e cioè un capo e non un maestro. La cattedra
ci è conferita solamente in qualità di maestri. Si tratta di due
cose ben diverse, e di ciò è facile convincersi. Permettetemi di
condurvi ancora una volta in America, dove queste cose si
708 MAX WEBER
possono spesso vedere nella loro più pesante originarietà. Il
ragazzo americano impara incomparabilmente meno del no-
stro. Nonostante un'incredibile quantità di esami, il senso della
sua vita scolastica non è ancora diventato tale da ridurlo un « tipo
da esami », come avviene per il ragazzo tedesco. Infatti la buro-
crazia, la quale esige il diploma di esame come biglietto d’ingres-
so nel regno delle prebende degli uffici, è laggiù ancora agli inizi.
Il giovane americano non porta rispetto a nulla e a nessuno, a nes-
suna tradizione e a nessun ufficio, salvo che alla prestazione per-
sonale: questa è per l’Americano la «democrazia», Per quanto la
realtà possa comportarsi pur sempre in maniera distorta rispet-
to a questo contenuto di senso, esso risulta però tale e di questo
dobbiamo qui tener conto. Dell’insegnante che gli sta di fronte
il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le sue
nozioni e i suoi metodi per il denaro di mio padre, così come
l’erbivendola vende i cavoli a mia madre. Con ciò è detto
tutto. Tuttavia, se il maestro è per avventura un alipone di
football, in questo campo egli è anche un capo. Ma se non è
tale (o qualcosa di simile in altri sport), egli è semplicemente
un insegnante e nulla più, e a nessun giovane americano verrà
in mente di farsi vendere da lui delle « intuizioni del mondo »
o delle regole per la sua condotta di vita. Ora, noi respingere-
mo una simile opinione formulata in questi termini. Bisogna
però domandarsi se in questo modo di sentire, che di proposi-
to ho voluto spingere all'estremo, non si annidi un nocciolo
di verità.
Fratelli d'armi e sorelle d'armi! Voi venite alle nostre lezio-
ni con la pretesa di trovare in noi qualità di capi, senza aver
riflettuto che, di cento professori, almeno novantanove non pre-
tendono e non possono pretendere di essere non soltanto cam-
pioni di football della vita, ma neppure in generale «capi»
nelle faccende della condotta della vita. Pensate che il valore
dell'uomo non dipende certo dal fatto di possedere le doti di
un capo. E comunque, le qualità che fanno di qualcuno un
eminente studioso e un professore universitario non sono
quelle stesse che ne fanno un capo sul terreno dell’orientamen-
to pratico della vita o, più specificamente, della politica. È un
puro caso che qualcuno possegga anche questa qualità, ed è
una cosa assai preoccupante quando chiunque stia in cattedra
MAX WEBER 709
si sente posto di fronte alla pretesa che egli la possegga. E
ancor più preoccupante, poi, è quando a ogni professore univer-
sitario viene data facoltà di assumere nell’aula la posizione di
un capo. Infatti coloro che si ritengono di esserlo più degli
altri lo sono spesso meno di tutti; ma soprattutto la cattedra
non può offrire alcuna possibilità di conferma. Il professore
che si senta chiamato a dare il suo consiglio ai giovani e goda
della loro fiducia, dovrà procurare di mettersi alla prova discu-
tendo con loro in un rapporto personale da uomo a uomo. E se
si sente chiamato a partecipare alle lotte tra le intuizioni del
mondo e le diverse opinioni di partito, lo faccia al di fuori,
nell’agone della vita: nella stampa, nelle assemblee, nei circoli,
dove gli pare. È troppo comodo però dar prova del proprio
coraggio di confessore della fede là dove gli astanti, e fors'an-
che quelli di diversa opinione, sono condannati al silenzio.
Voi mi porrete infine la domanda: se così stanno le cose,
che offre allora la scienza di veramente positivo per la «vita »
pratica e personale? E con ciò siamo daccapo al problema della
vostra « professione ». Anzitutto, naturalmente, la scienza offre
cognizioni sulla tecnica per padroneggiare la vita, rispetto agli
oggetti esterni e rispetto all’agire dell’uomo, mediante la previ-
sione razionale: ebbene, voi replicherete che con ciò siamo pur
sempre al punto dell’erbivendola del ragazzo americano. Sono
perfettamente della vostra opinione. Ma c’è in secondo luogo
qualcosa che quell’erbivendola non è tuttavia capace di fare: i
metodi del pensare, l’attrezzatura e l'addestramento a quello
scopo. Direte forse che, se questi non sono proprio gli ortaggi,
non sono tuttavia più che i semplici mezzi per procurarseli.
Bene, diamolo oggi per ammesso. Ma fortunatamente la funzio-
ne della scienza non è ancora finita, bensì noi siamo in condi-
zione di aiutarvi a conseguire un ulteriore risultato: la chiarez-
za. A patto, naturalmente, di possederla noi stessi. Se questo è
il caso, possiamo renderlo chiaro: rispetto al problema del
valore, intorno al quale sempre ci si aggira — per comodità vi
prego di riferirvi, come esempio, ai fenomeni sociali — si
possono prendere praticamente diverse posizioni. Se si assume
l’una o l’altra, bisogna applicare — secondo le esperienze della
scienza — certi mezzi o certi altri per attuarla praticamente.
Ora questi mezzi possono essere di per sé tali che voi crederete
710 MAX WEBER
di doverli respingere. Allora, bisogna appunto scegliere tra lo
scopo e i mezzi indispensabili. Lo scopo «giustifica» o no
questi mezzi? L'insegnante può mostrarvi la necessità di questa
scelta, ma non può fare di più, in quanto voglia rimanere
insegnante e non diventare un demagogo. Naturalmente, può
ancora dirvi: se volete questo o quell'altro scopo, dovete mette-
re in conto anche questa o quell’altra conseguenza concomitan-
te che si verifica in conformità all'esperienza; la situazione,
cioè, è sempre la medesima. Tuttavia, tutti questi sono pur
sempre problemi del genere di quelli che possono sorgere an-
che per ogni tecnico, il quale in innumerevoli casi deve decide-
re secondo il principio del minor male o del meglio relativo.
Ma per lui una cosa, quella principale, è di solito già data: lo
scopo. Non così avviene per noi, non appena siano in questione
problemi realmente « ultimi ». E con ciò siamo giunti alla fun-
zione più alta che la scienza in quanto tale può assolvere in
servizio della chiarezza, e contemporaneamente anche ai suoi
confini. Noi possiamo — e dobbiamo — anche dirvi: que-
sta o quest'altra posizione pratica può essere derivata con
intima coerenza e quindi con serietà, per quanto riguarda il
suo senso, da questa o da quest'altra fondamentale concezione
del mondo — magari da una soltanto o forse anche da più —
ma non mai da quell'altra. Voi servite questo dio — per
parlar figuratamente — e offendete quell'altro, se vi risolvete
per questa presa di posizione. Infatti perverrete necessariamen-
te a queste e a quest’altre conseguenze ultime dotate di senso,
se rimarrete fedeli a voi stessi. Quest'opera, almeno in linea di
principio, può esser compiuta. A ciò tendono la disciplina spe-
ciale della filosofia e le discussioni di principio, per loro essen-
za filosofica, delle singole discipline. Possiamo quindi, se ab-
biamo ben capito il nostro compito (il che dev’esser qui presup-
posto), costringere l'individuo — o almeno aiutarlo — a render-
st conto del senso ultimo del suo proprio operare. Questo non
mi sembra sia troppo poco, anche per la vita puramente perso-
nale. Di un insegnante che riesca in questo compito sarei tenta-
to di dire che si è messo al servizio di potenze «etiche», del
dovere di promuovere la chiarezza e il senso di responsabilità,
e credo che ne sarà tanto più capace quanto più coscienziosa-
MAX WEBER g1I
mente eviterà di fornire bell'e pronta o di suggerire per pro-
prio conto all'ascoltatore una presa di posizione.
Senza dubbio la soluzione che qui vi ho prospettato riposa
su questo fondamentale dato di fatto: che la vita, in quanto
deve fondarsi su se stessa ed essere compresa in base a se
stessa, conosce soltanto la lotta eterna di quelle divinità tra
loro — cioè, fuor di metafora, l’inconciliabilità e quindi l’inso-
lubilità della lotta tra le posizioni ultime possibili in generale
rispetto alla vita, vale a dire la necessità di decidere per l’una
o per l’altra. Se in queste condizioni la scienza sia degna di
diventare una «professione » e se essa stessa costituisca una
« professione » fornita di valore oggettivo — ecco un altro giu-
dizio di valore sul quale non è dato pronunciarsi nell’aula di
lezione. Per l'insegnamento, infatti, la risposta affermativa è un
presupposto. Io personalmente, col mio stesso lavoro, rispondo
affermativamente. E ciò vale anche per quel punto di vista —
che la gioventù oggi professa, o meglio che per lo più s'imma-
gina semplicemente di professare — il quale odia l’intellettuali-
smo come il più nero dei diavoli. Giacché ad esso si conviene il
detto: «il diavolo è vecchio, pensateci: invecchiate e lo capire-
te »°. Ciò non s'intende nel senso dell’atto di nascita, ma nel
senso che, anche riguardo a questo diavolo, se si vuol farla
finita con lui, non vale ricorrere alla fuga, come oggi si fa così
volentieri, ma bisogna scrutare bene a fondo tutte le sue vie
prima di poter vedere la sua potenza e i suoi confini.
Che la scienza sia oggi una «professione» spectalizzata,
posta al servizio dell’auto-riflessione e della conoscenza di situa-
zioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensa-
trice di mezzi di salvezza e di rivelazioni, o un elemento della
meditazione di saggi e filosofi sul serso del mondo — è certa-
mente un dato di fatto ineluttabile dalla nostra situazione stori-
ca, al quale, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possia-
mo sfuggire. E se di nuovo sorge in voi Tolstò) a domanda-
re: «se dunque non è la scienza a farlo, chi risponde allora
alla domanda: che cosa dobbiamo fare? e come dobbiamo diri-
gere la nostra vita? », oppure, nel linguaggio che testé
9. Goetne, Faust, vv. 6817-18 (tr. it. di F. Fortini).
712 MAX WEBER
abbiamo usato: « quale degli dèi in lotta dobbiamo servire? o
forse qualcun altro, e chi mai? », bisogna dire che la risposta
spetta a un profeta o a un redentore. Se questi non è tra noi o
se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a farlo
scendere su questa terra il fatto che migliaia di professori
tentino di rubargli il mestiere nelle loro aule di lezione, come
tanti piccoli profeti privilegiati o pagati dallo stato. Ciò servirà
soltanto a nascondere tutto l'enorme peso del significato del
fatto decisivo, che cioè il profeta, che invocano tanti della no-
stra più giovane generazione, zon esiste. L'interesse interiore
di un uomo davvero «musicale» in senso religioso non sarà
mai e poi mai soddisfatto, io credo, dall’espediente per cui si
cerca di nascondergli con un surrogato — come sono tutti
questi falsi profeti in cattedra — il fatto fondamentale che il
destino gli impone di vivere in una epoca lontana da Dio e
priva di profeti. La serietà del suo sentimento religioso dovreb-
be, mi sembra, ribellarvisi. Ora, voi sarete indotti a domanda-
re: ma come ci si deve comportare di fronte al fatto dell’esi-
stenza della « teologia » e delle sue pretese a porsi come « scien-
za»? Cerchiamo di non sottrarci alla risposta. « Teologia» e
« dogmi » non si trovano certo sempre e ovunque, ma neppure
esclusivamente nel Cristianesimo. Li incontriamo (guardando
dietro di noi nel tempo) in forme molto sviluppate anche nell’I-
slam, nel Manicheismo, nella Gnosi, nell’Orfismo, nel Parsismo,
nel Buddismo, nelle sette indù, nel Taoismo, nelle Uparishad e
naturalmente anche nell’Ebraismo. Com'era naturale, essi sono
sviluppati sistematicamente in misura assai diversa. E non è un
caso che non soltanto il Cristianesimo occidentale li abbia co-
struiti, o tenda a costruirli in forma più sistematica — a diffe-
renza della teologia, per esempio, dell’Ebraismo — ma anche
che il loro sviluppo abbia avuto qui un significato storico di
gran lunga più importante. È questo un prodotto dello spirito
greco, dal quale deriva tutta la teologia dell’Occidente come
(evidentemente) tutta la teologia orientale deriva dal pensiero
indiano. Ogni teologia consiste nella razionalizzazione intellet-
tuale del patrimonio religioso della salvezza. Nessuna scienza è
assolutamente priva di presupposti e nessuna può stabilire il
fondamento del proprio valore per chi rifiuti tali presupposti.
Tuttavia, ogni teologia aggiunge alcuni presupposti specifici
MAX WEBER 713
per il proprio lavoro e quindi per la giustificazione della pro-
pria esistenza. In diverso senso e con diversa portata. Per ogni
teologia, per esempio anche per quella induistica, vige il presup-
posto che il mondo deve avere un senso; e la questione da
risolvere è la seguente: come bisogna interpretarlo, perché ciò
possa esser concepito? In modo del tutto simile alla teoria
della conoscenza di Kant, la quale muoveva dal presupposto
che «c'è una verità scientifica, ed essa vale » e quindi si do-
mandava: in virtù di quali condizioni del pensiero ciò è possibi-
le (in modo dotato di senso)? Oppure al modo degli estetici
moderni i quali (esplicitamente — come per esempio Georg
von Lukics!” — oppure di fatto) muovono dal presupposto
che « vi sono opere d’arte » e si domandano: come ciò è possibi-
le (in modo dotato di senso)? Tuttavia, le teologie non si
accontentano di regola di quel presupposto (appartenente essen-
zialmente alla filosofia della religione); esse muovono di rego-
la dal presupposto ancor più remoto per cui determinate « rive-
lazioni» devono essere assolutamente credute in quanto fatti
che rivestono un’importanza per la salvezza — come tali, cioè,
che soli rendono possibile una condotta nella vita dotata di
senso — e per cui determinati modi di essere e di agire possie-
dono la qualità della santità, ossia costituiscono una condotta
di vita dotata di senso religioso o sono elementi di questa. La
domanda che si pone la teologia è allora di nuovo: come
possono essere interpretati in modo dotato di senso, nell’am-
bito di un'immagine complessiva del cosmo, questi presupposti
che vanno accettati in modo assoluto? Quei presupposti sì trova-
no per la teologia al di là di ciò che è «scienza». Essi non
sono un «sapere» nel senso corrente, bensì un « possedere ».
Non possono esser sostituiti — la fede o gli altri stati di grazia
— da nessuna teologia, per chi non li « possieda ». Meno che
mai, poi, da un’altra scienza. Anzi, in ogni teologia « positi-
va » il credente giunge al punto dov'è valida la massima agosti-
niana: credo non quod, sed quia absurdum est. La capacità di
compiere questo estremo « sacrificio dell’intelletto » costituisce
il carattere decisivo dell’uomo che appartiene a una religione
10. Weber si riferisce qui ai primi volumi di Lukics, Die Seele und die Formen
(1911) e Die Thcorie des Romans (1916).
714 MAX WEBER
positiva. E così stando le cose, è chiaro che, ad onta (o piutto-
sto in conseguenza) della teologia (che svela questo stato di
cose), la tensione tra la sfera di valore della «scienza» e
quella della salvezza religiosa è insuperabile.
Il «sacrificio dell'intelletto» lo compie, com'è naturale, il
discepolo al profeta e il credente alla chiesa. Ma non è ancora
mai sorta una nuova profezia — riprendo qui di proposito
questa immagine che ha urtato molte suscettibilità — semplice-
mente per il fatto che molti intellettuali moderni abbiano senti-
to il bisogno di arredare, per così dire, la loro anima con
oggetti antichi garantiti come autentici, e si siano ricordati in
quest'occasione che tra questi vi è anche la religione, che essi
certamente non possiedono, ma che sostituiscono con una spe-
cie di cappella privata addobbata come per gioco con immagini
sacre di tutti i paesi, oppure con ogni sorta di esperienze vissu-
te alle quali conferiscono la dignità di un patrimonio mistico
di salvezza e che vanno a vendere in piazza. Tutto ciò è
semplicemente ciarlataneria o auto-illusione. Ma non è davvero
una ciarlataneria, bensì qualcosa di assai serio e sincero —
quantunque non esente, talvolta, da qualche fraintendimento
del suo stesso significato — il fatto che alcune di quelle comuni-
tà di giovani, sorte nel silenzio di questi ultimi anni, diano
alle loro relazioni reciproche il senso di un legame religioso,
cosmico o mistico. È vero che ogni atto di genuina fratellanza
può connettersi con la consapevolezza che con ciò viene in
certo qual modo accumulato in un dominio sovra-personale
qualcosa che non andrà perduto; ma altrettanto mi sembra
dubbio che la dignità delle relazioni puramente umane tra i
membri di una comunità venga elevata attraverso siffatte inter-
pretazioni religiose. — Tuttavia, questo non rientra più nel
nostro tema.
È il destino dell’epoca nostra, con la sua caratteristica razio-
nalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disin-
cantamento del mondo, che proprio i valori ultimi e più subli-
mi siano diventati estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel
regno extra-mondano della vita mistica o nella fraternità di
relazioni immediate tra gli individui. Non è accidentale che la
nostra arte migliore sia intima e non monumentale, e che oggi
MAX WEBER 715
soltanto in seno alle più ristrette comunità, nel rapporto da
uomo a uomo, nel piazissimo, palpiti quell’indefinibile che un
tempo pervadeva e rinsaldava come un soffio profetico e una
fiamma impetuosa le grandi comunità. Proviamoci a forzare e
a «inventare» un senso monumentale dell’arte, ed ecco na-
scere un pietoso aborto come quello dei numerosi monumenti
commemorativi degli ultimi vent'anni. Qualcosa di simile si
riproduce nella sfera interiore, con effetti ancor più deleteri, se
si cerca di escogitare nuove formazioni religiose senza una nuo-
va genuina profezia. E la profezia formulata dalla cattedra
potrà forse dar vita a sette fanatiche, mai però a un'autentica
comunità. A chi non sia in grado di affrontare virilmente
questo destino della nostra epoca bisogna consigliare di torna-
re in silenzio, senza la consueta conversione pubblicitaria, ma
schiettamente e semplicemente, nelle braccia delle antiche chie-
se, largamente e misericordiosamente aperte. Esse non gli ren-
dono il passo difficile. Comunque, egli dovrà in qualche modo
compiere — è inevitabile — il « sacrificio dell’intelletto ». Non
glielo rimprovereremo, se egli ne sarà realmente capace. Infatti
un simile sacrificio dell’intelletto in favore di un’incondiziona-
ta dedizione religiosa è pur sempre qualcosa di moralmente
diverso da quel modo di evitare la semplice probità intellettua-
le che si verifica quando, non avendo il coraggio di rendersi
chiaramente conto della propria posizione ultima, si allevia que-
sto dovere con una debole relativizzazione. E lo considero an-
che più rispettabile di quella profezia dalla cattedra che non
ha capito che entro le pareti dell’aula di lezione nessun'altra
virtù ha valore al di fuori della semplice probità intellettuale.
Questa ci impone di mettere in chiaro che oggi tutti coloro i
quali vivono nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori si
trovano nella stessa situazione descritta nel bellissimo canto del-
la sentinella idumèa durante il periodo dell’esilio, che si legge
nell’oracolo di Isaia: «Una voce chiama da Seir in Edom:
sentinella quanto durerà ancora la notte? E la sentinella ri-
sponde: verrà il mattino e anche la notte; se volete domandare,
tornate un’altra volta » !. Il popolo, al quale veniva data questa
risposta, ha domandato e atteso ben più di due millenni, e sap-
Ir. Isaia, cap. 21, 11-12.
716 MAX WEBER
piamo il suo tragico destino. Ne vogliamo trarre insegnamento
che anelare e attendere non basta, e ci comporteremo in altra
maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al « com-
pito quotidiano» — nella nostra qualità di uomini e nella
nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile quando
ognuno abbia trovato e segua il démone che tiene i fili della
sua Vita.
OSWALD SPENGLER
NOTA BIOGRAFICA
Oswald Spengler nacque a Blankenburg, ai confini della Sassonia, il
29 maggio 1880, figlio di un ingegnere minerario e di una madre con
forti inclinazioni artistiche. Dopo aver compiuto gli studi liceali a
Halle, frequentò le università di Monaco, di Berlino e di Halle, seguen-
do corsi di matematica, di scienze naturali e poi di filosofia. Nel 1904
conseguì il dottorato a Halle, con una dissertazione sul pensiero di
Eraclito (Halle, 1904). Dal 1908 al 1Igri insegnò al liceo di Amburgo;
dopo di che si trasferì a Monaco, vivendo come scrittore indipendente.
Durante gli anni della prima guerra mondiale Spengler si dedica alla
stesura della sua opera maggiore, Der Untergang des Abendlandes, di
cui il primo volume compare nel 1918, al termine del conflitto, e il
secondo nel 1922 (Miinchen, 1918-22; tr. it. Milano, 1957). Il titolo di
quest'opera — che incontra subito un enorme successo — esprime la sua
connessione con il clima politico della sconfitta tedesca: il crollo della
Germania si traduce nel « tramonto » della civiltà occidentale, interpreta-
to come il necessario momento di decadenza a cui ogni cultura è
condannata.
I presupposti filosofici generali dell’opera di Spengler possono essere
rintracciati per un verso nel pensiero di Dilthey — sviluppato in senso
relativistico — e per l’altro verso in Goethe e in Nietzsche, i due
« autori » di Spengler. Da Dilthey deriva la rivendicazione di una via di
accesso alla storia che sia irriducibile al metodo della scienza naturale,
così come deriva l'affermazione del carattere storico di tutte le manifesta-
zioni del mondo umano. Spengler non soltanto accoglie l’antitesi tra due
modi di considerare la realtà, ma dà alla distinzione tra natura e storia
un rilievo ontologico; d'altra parte egli si richiama alla tesi diltheyana
dell’auto-centralità delle epoche storiche, applicandola alle culture e facen-
do così di ogni cultura un organismo chiuso in se stesso, privo di
rapporto con le altre culture. Da Goethe deriva invece la prospettiva
biologica in base alla quale la storia viene interpretata come un processo
organico, contrapposto all’uniformità delle vicende naturali nel cui ambi-
to vale il principio di causalità: la «natura vivente» di Goethe si
trasforma nel « mondo come storia », definito in antitesi al « mondo
come natura», e la sua logica è intesa come una logica organica,
720 OSWALD SPENGLER
eterogenea alla logica meccanica della natura. Da Nietzsche, infine,
deriva lo schema ciclico di interpretazione della storia, per cui il proces-
so di ogni cultura appare come la ripetizione di un processo sempre
eguale: la dottrina dell'eterno ritorno viene tradotta nell’affermazione
dell'identità del ciclo biologico degli organismi elementari della storia,
cioè delle culture.
Queste diverse componenti confluiscono — in una mescolanza talvol-
ta eclettica — a costituire l'impianto teorico di Der Untergang des
Abendlandes. In base ad esse Spengler si propone di dimostrare che ogni
cultura, essendo un organismo biologico, nasce, si sviluppa, decade e
muore, secondo la legge ineluttabile della sua specie: perciò ogni cultu-
ra — anche quella dell'Occidente — è destinata, a un certo momento, a
perire. E nulla valgono gli sforzi degli uomini rivolti a sottrarla a
questa sorte, poiché la logica organica della storia incarna il volere del
destino, al quale l’uomo non può che sottomettersi. Però, se il ciclo
evolutivo è comune a tutte le culture, diverso è il patrimonio biologico
di ognuna: ogni cultura dà origine a un proprio mondo simbolico, le
cui manifestazioni valgono soltanto all’interno di essa e non sono parteci-
pabili dai membri delle altre culture. Da ciò la conclusione relativistica
a cui Spengler perviene: tra le culture non è possibile alcuna comunica-
zione, poiché non vi sono valori comuni tra di esse. Ogni cultura crea i
propri valori, che sono del tutto diversi da quelli delle altre culture. In
questo quadro la civiltà occidentale si presenta come una cultura partico-
lare ormai pervenuta al proprio tramonto, e inarrestabilmente avviata
alla fine. Analizzando i fenomeni politico-economici che caratterizzano il
mondo contemporaneo — l'affermazione della classe borghese, il prevale-
re dell'economia sulla politica, la dernocrazia, l’organizzazione capitalisti-
ca — Spengler cerca di porre in luce i sintomi di questa decadenza, in
virtù della quale la civiltà occidentale si presenta non più come una
« cultura » ma come una «civiltà in declino », ossia come una Zivilisa-
tion. Il tentativo di costruire una morfologia della storia universale
(come Spengler definisce la sua impresa filosofica) mette così capo alla
profezia, in chiave pessimistica, dell'imminente conclusione del ciclo
storico della civiltà occidentale.
Benché oggetto di numerose critiche e confutazioni, l’opera di Spen-
gler ebbe una larga accoglienza positiva, e le sue idee contribuirono in
misura rilevante a preparare quel clima ideologico da cui trarrà origine
e alimento il nazismo. Nei volumi successivi a Der Untergang des
Abendlandes — da Preussentum und Sozialismus (Miinchen, 1919) a
Politische Pflichten der deutschen ]ugend (Miinchen, 1924) e a Neubau
des deutschen Reiches (Miinchen, 1924), e poi ancora da Der Mensch
und die Technik (Miinchen, 1931; tr. it. Milano, 1931) a Jahre der
Entscheidung (Miinchen, 1933; tr. it. Milano, 1934) — Spengler conduce
OSWALD SPENGLER 721
un'aspra polemica contro il liberalismo, il regime parlamentare, i partiti
politici, affermando la necessità di restaurare l’autorità dello stato e di
dar vita a un socialismo coerente con la tradizione prussiana. È pur vero
che egli non aderì mai al nazismo; ma l'opposizione alla repubblica di
Weimar e l’esaltazione del primato della politica, della superiorità della
razza bianca, del cesarismo, ne fanno uno dei padri ideologici del
regime. Negli ultimi anni Spengler vive ritirato, ritornando sui temi
della morfologia della storia universale e dedicando una particolare
attenzione al passaggio dalla preistoria alla storia e all’origine delle
culture: questi scritti, rimasti inediti per lungo tempo, sono stati pubbli-
cati soltanto in epoca recente (Urfragen, Miinchen, 1965; tr. it. Milano,
1971; e Friihzeit der Weltgeschichte, Minchen, 1966). Muore a Monaco
l'8 maggio 1936.
46. STORICISMO TEDESCO.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Di Der Untergang des Abendlandes esiste una recente riedizione in
un volume, Miinchen, 1963, 19697, nonché un’edizione economica nei
« Deutsche Taschenbiicher », 1973; anche Der Mensch und die Technik
è stato ristampato nel 1971. Gli altri scritti del periodo 1919-24 sono stati
raccolti nel volume Politische Schriften, Miinchen, 1933. Ai volumi già
menzionati si devono aggiungere le Reden und Aufsitze (a cura di H.
Kornhardt), Minchen, 1937, 1938 ?, 1951° — che comprende anche Preus-
sentum und Sozialismus — e i Gedanken (a cura di H. Kornhardt),
Miinchen, 1941. L'epistolario di Spengler è stato pubblicato col titolo
Briefe 1913-1936 (a cura di A. M. Koktanek, in collaborazione con M.
Schròter), Minchen, 1963.
Sul dibattito a cui diede origine la pubblicazione di Der Untergang
des Abendlandes riferisce ampiamente M. ScHnòrER, Die Streit um Spen-
gler, Miinchen, 1922, ora ristampato come prima parte di Metaphysik des
Untergangs (Eine kulturkritische Studie tiber Oswald Spengler), Miin-
chen, 1949.
Tra la vasta letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Spen-
gler segnaliamo gli studi seguenti:
« Logos », IX, 1920-21, n. 2 (fascicolo speciale dedicato a Spengler), con
articoli di K. JoéL, E. ScHwartz, W. SpreceLBere, L. Curtius, E.
Frank, E. Mezcer.
T. L. Harins, Die Struktur der Weltgeschichte, Tibingen, 1921.
A. Messer, Oswald Spengler als Philosoph, Stuttgart, 1922.
A. Fauconnet, Oswald Spengler, Paris, 1925.
R. G. Corrinewoon, Oswald Spengler and the Theory of Historical Cy-
cles, « Antiquity: a Quaterly Review of Archaeology », I, 1927, pp.
311-25 € 435-46.
V. Bronio-BroccHieri, Spengler. La dottrina politica del pangermanesi-
mo post-bellico, Milano, 1928.
tr
A.
G.
OSWALD SPENGLER 723
. Fenvre, De Spengler à Toynbee: quelques philosophies opportunistes
de l’histoire, « Revue de métaphysique et de morale », XLIII, 1936,
pp. 573-602.
. Giusso, Spengler e la dottrina degli universi formali, Napoli, 1936.
. Gaune, Spengler und die Romantik, Berlin, 1937.
Scunoter, Mesaphysik des Untergangs (Eine kulturkritische Studie
ber Oswald Spengler), Miinchen, 1949.
S. Hucnes, Oswald Spengler: a Critical Estimate, New York, 1952.
. Barrzer, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Gegenwari, Neheim-
Hiisten, 1959.
. Stutz, Oswald Spengler als politischer Denker, Bern, 1959.
A.
Waismann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce,
Buenos Aires, 1960, parte I.
Barrzer, Philosoph oder Prophet? Oswald Spenglers Vermichtnis und
Voraussagen, Neheim-Hiisten, 1962.
Mitter, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Geschichtswissenschaft,
« Zeitschrift fir philosophische Forschung», XVII, 1963, pp. 483-98.
Spengler-Studien: Festgabe fiir Manfred Schròter zum 85. Geburtstag (a
A.
cura di A. M. Koxraner), Miinchen, 1965.
M. Koxraner, Oswald Spengler in seiner Zeit, Miùnchen, 1968.
Un elenco completo degli scritti di Spengler è dato da A. M. Korra-
NEK, Oswald Spengler in seiner Zeit cit., pp. 473-80. Manca invece una
bibliografia aggiornata degli scritti su Spengler: si vedano però le indi-
cazioni contenute nei volumi sopra menzionati di M. ScHRòTER e di H. S.
HucHs.
IL PROBLEMA DELLA STORIA UNIVERSALE:
FISIOGNOMICA E SISTEMATICA *
È ora finalmente possibile compiere il passo decisivo e ab-
bozzare un'immagine della storia non più dipendente dalla po-
sizione accidentale dell’osservatore in un determinato « presen-
te» — il suo presente — e dalla sua qualità di membro interes-
sato di una particolare cultura, le cui tendenze religiose, spiri-
tuali, politiche, sociali lo inducono a ordinare il materiale stori-
co sulla base di una prospettiva temporale e spazialmente
delimitata, e a imporre quindi a ciò che è accaduto una forma
arbitraria e superficiale, ad esso intimamente estranea.
Ciò che finora mancava era la distanza dall’oggetto. Nei
confronti della natura essa era stata acquisita da lungo tempo;
ma qui era anche più facile acquisirla. Il fisico traccia il qua-
dro meccanico-causale del suo mondo come cosa ovvia, come se
egli non esistesse affatto.
La stessa cosa è però possibile anche nel mondo formale
della storia. Fino ad oggi noi non lo sapevamo. Caratteristico
degli storici moderni è l'orgoglio dell'oggettività; ma con ciò
essi tradiscono quanto poco siano consapevoli dei propri pre-
giudizi. Perciò si può forse dire (e lo si farà in avvenire) che è
fino ad oggi mancata una reale considerazione della storia di
stile faustiano, ossia una considerazione che possegga la di-
* Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte,
cap. I: Das Problem der Weltgeschichte, sezione 1: Physiognomik und Systematik,
Miinchen, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1918-1922, ed. definitiva 1923, vol. I,
pp. 125-151 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile
concessione della Casa Editrice Longanesi).
726 OSWALD SPENGLER
stanza sufficiente per osservare, nell'immagine complessiva della
storia universale, anche il presente — che è tale solo in rapporto
a una delle innumerevoli generazioni umane — come qualcosa
di infinitamente distante ed estraneo, come un lasso di tempo
che non ha un peso maggiore di tutti gli altri, senza il criterio
falsificante di qualche ideale, senza il riferimento a se stessi,
senza desiderio, preoccupazione e intima personale partecipa-
zione, come li pretende la vita pratica; una distanza, quindi,
che consenta — per dirla con Nietzsche, che però non la posse-
deva a sufficienza — di considerare il fatto «uomo» da una
lontananza immensa; un colpo d’occhio sulle culture, anche
sulla propria, come quello che si dà sulla serie di vette di una
catena di montagne all’orizzonte.
Per far questo bisognava, ancora una volta, portare a compi-
mento un'impresa simile a quella di Copernico, una liberazio-
ne dall’apparenza in nome dello spazio infinito come quella
che da tempo lo spirito occidentale aveva compiuto nei confron-
ti della natura, allorché passò dal sisterna tolemaico del mondo
al sistema che oggi è il solo per lui valido, eliminando in tal
modo come formalmente determinante la posizione accidentale
dell'osservatore su un particolare pianeta.
La storia universale è suscettibile, e ha bisogno, del medesi-
mo distacco da una posizione di osservazione accidentale —
dall’« età moderna ». Certo, il secolo x1x ci appare infinitamen-
te più ricco e importante che non, per esempio, il secolo xIx
avanti Cristo; ma anche la Luna ci sembra più grande di
Giove e di Saturno. Da lungo tempo il fisico si è liberato dal
pregiudizio della distanza relativa; non così lo storico. Noi ci
permettiamo di designare la cultura dei Greci come antichità
in rapporto alla nostra età moderna. Lo era forse anche per i
raffinati Egizi alla corte del grande Thutmosi!, che si trovava-
no al culmine del loro sviluppo storico — un millennio prima
di Omero? Per noi gli avvenimenti che si sono svolti dal 1500 al
1800 sul terreno dell'Europa occidentale riempiono il terzo più
importante « della » storia universale. Per lo storico cinese che
1. Thutmosi (o Tutmosi) III, faraone della Diciottesima dinastia vissuto intorno
al 1600 a. C., sotto il cui regno la potenza egiziana raggiunse il suo culmine, esten-
dendosi fino alla Siria e a Cipro.
OSWALD SPENGLER 727]
guarda indietro ai quattromila anni di storia cinese e giudica in
base ad essa, non sono che un breve e poco significativo episo-
dio, neppure lontanamente così importante come i secoli della
10, Depp
dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) che fanno epoca nella sua
«storia universale ».
L'intento delle pagine che seguono è di svincolare la storia
dal pregiudizio personale dell’osservatore, che nel nostro caso
la riduce essenzialmente alla storia di un frammento del passa-
to, assumendo come fine ciò che è accidentalmente presente
’ P
nell'Europa occidentale, e come criteri di ciò che è stato rag-
giunto e dev'essere raggiunto gli ideali e gli interessi validi in
questo particolare momento.
II
Natura e storia: in questo modo si contrappongono tra
loro, agli occhi di ogni uomo, le due possibilità estreme di
ordinare in un'immagine del mondo la realtà circostante. Una
realtà è natura in quanto subordina ogni divenire al divenuto,
è storia in quanto subordina ogni divenuto al divenire. Una
realtà può essere vista nella sua forma «ricordata » — così
sorge il mondo di Platone, di Rembrandt, di Goethe, di Beetho-
ven — oppure può essere concepita criticamente nella sua esi-
stenza sensibile presente — ed ecco i mondi di Parmenide e di
Descartes, di Kant e di Newton. Conoscere, nel senso rigoroso
del termine, è quell’atto dell'esperienza vissuta il cui risultato
compiuto si chiama « natura». Il conosciuto e la natura sono
identici. Ogni conosciuto è equivalente — come dimostra il
simbolo del numero matematico — a ciò che è meccanicamente
limitato, a ciò che è esatto una volta per sempre, a ciò che è
posto. La natura è il complesso di ciò che è necessario in virtà
di leggi: vi sono soltanto leggi maturali. Nessun fisico che sia
consapevole della propria funzione vorrà procedere al di là di
questo limite. Il suo compito è quello di determinare la totali-
tà, il sistema ben ordinato di tutte le leggi che si possono
ritrovare nell'immagine della su4 natura e, più precisamente,
che rappresentano in maniera esauriente e senza residuo l’im-
magine della sua natura.
728 OSWALD SPENGLER
D'altra parte l'intuire — e rimando al detto di Goethe:
«l’intuire va ben distinto dal guardare »? — è quell’atto dell’e-
sperienza vissuta che, in quanto si compie, è esso medesimo
storia. Ciò che viene immediatamente vissuto è l’accaduto,
è storia.
Ogni accadere è singolare e irripetibile. Esso reca in sé la
caratteristica della direzione (del «tempo»), dell’irreversibili
tà. L’accadere, contrapposto come ormai divenuto al divenire,
come realtà irrigidita alla realtà vivente, appartiene irrevocabil-
mente al passato: il sentimento di ciò è l'angoscia cosmica.
Ogni cosa conosciuta è però atemporale, né passata né futura,
bensì semplicemente «esistente » e perciò di validità permanen-
te. Questa è la struttura interna di ciò che è oggetto di leggi
naturali. La legge — ciò che è posto — è anti-storica; essa
esclude il caso. Le leggi naturali sono forme di una necessità
priva di eccezione, e quindi inorganica. È chiaro il motivo per
cui la matematica, come ordine quantitativo del divenuto, si
riferisce sempre alle leggi e alla causalità, e soltanto ad esse.
Il divenire « non ha numero ». Soltanto ciò che è privo di vita
— e il vivente soltanto se si prescinde dal suo essere vivente —
può venir contato, misurato, analizzato. Il puro divenire, la
vita, è in questo senso illimitato. Esso si pone oltre l'ambito
della causa e dell’effetto, della legge e della misura. Nessuna
profonda e genuina ricerca storica va in cerca della legalità
causale; in caso diverso non ha compreso la sua essenza più
propria.
E tuttavia la storia osservata non è puro divenire; essa è
un'immagine, una forma del mondo che irradia dall’essere
desto dell'osservatore, e nella quale il divenire domina il dive-
nuto. È sulla presenza in essa del divenuto, e quindi su una
deficienza, che poggia la possibilità di ricavarne scientificamen-
te qualcosa; e quanto maggiore è tale presenza, tanto più essa
appare meccanica, intellettualistica, causale. Anche la « natura
vivente » di Goethe — un'immagine del mondo completamente
estranea alla matematica — conteneva tanto di morto e di
rigido da poterne trattare scientificamente almeno la facciata.
Se questo contenuto diminuisce molto, se essa è prossima al
2. Goerne, Lettera a Wilhelm von Humboldt del 3 dicembre 1795.
OSWALD SPENGLER 729
puro divenire, allora l’intuire è divenuto un puro Erlebnis che
consente soltanto modi di elaborazione artistica. A ciò che vide
con il proprio occhio spirituale come destino dei mondi, Dante
non avrebbe potuto dare forma scientifica; neppure Goethe
avrebbe potuto darla a ciò che scorse nei grandi attimi del suo
abbozzo faustiano; e altrettanto poco Plotino e Giordano Bru-
no alle loro visioni, che non sono state il risultato di ricerche.
Qui sta la causa più importante del conflitto concernente la
forma intima della storia. Di fronte allo stesso oggetto, allo
stesso materiale di fatti, ogni osservatore ha, secondo la sua
disposizione, una diversa impressione della totalità, inafferrabi-
le e incomunicabile, che sta a base del suo giudizio e gli
conferisce un colore personale. Il grado del divenuto sarà sem-
pre diverso nella visione di due uomini: motivo sufficiente per
cui essi non possono mai intendersi sul compito e sul metodo.
Ognuno dà all’altro la colpa per la mancanza di chiarezza di
pensiero, e tuttavia ciò che è designato con questa espressione,
e sulla cui struttura nessuno ha potere, non è qualcosa di
peggio ma una diversità necessaria. La stessa cosa vale per
tutta la scienza naturale.
Ma si tenga ben presente che pretendere di trattare scientifi-
camente la storia è, in ultima istanza, sempre qualcosa di
contraddittorio. La scienza genuina si estende fin dove hanno
validità i concetti di vero e di falso: ciò vale per la matemati-
ca, e vale pure per la disciplina di raccolta, di ordinamento e
di esame del materiale, che è preliminare rispetto alla storia.
Ma lo sguardo storico vero e proprio, che procede soltanto di
qui, appartiene al regno dei significati, in cui i termini decisi-
vi non sono il vero e il falso, ma il superficiale e il profondo.
Il vero fisico non è profondo, ma « acuto ». Solamente quando
abbandona il campo delle ipotesi di lavoro e sfiora le cose
supreme, può essere profondo; ma allora è diventato ormai
anche lui un metafisico. La natura dev'essere considerata scienti-
ficamente, mentre la storia deve essere oggetto di poesia. Il
vecchio Leopold von Ranke avrebbe detto, una volta, che il
Quentin Durward di Scott? rappresenta la vera storiografia. E
3. Walter Scott (1771-1832), pocta e romanziere scozzese, autore di famosi ro-
manzi storici che ebbero larga influenza anche sugli storici romantici: il Quentin
Durward, qui citato, è del 1823.
730 OSWALD SPENGLER
le cose stanno proprio così; una buona opera storica ha il suo
vantaggio nel fatto che il lettore può diventare il suo proprio
Walter Scott.
D'altra parte, dove dovrebbe dominare il regno dei numeri
e del sapere esatto, Goethe aveva chiamato «natura vivente »
proprio ciò che era un'intuizione immediata del puro divenire
e del formarsi, e che quindi era storia nel senso qui definito. Il
suo mondo era anzitutto un organismo, un essere vivente; e si
comprende che le sue ricerche, anche quando recano esterior-
mente un’impronta fisica, non hanno come scopo in sé numeri
né leggi né una causalità fissata in formule, e in generale
nessun’analisi, ma sono piuttosto morfologia nel senso più alto
ed evitano perciò il mezzo specificamente occidentale (e nien-
t'affatto antico) di ogni considerazione causale, l'esperimento
misuratore, senza però farne mai lamentare l’assenza. La sua
considerazione della superficie terrestre è sempre geologia, mai
mineralogia (che egli chiamava scienza di ciò che è morto).
Diciamolo ancora una volta: non esiste nessun confine preci-
so tra i due modi di concepire il mondo. Se è vero che dive-
nire e divenuto sono antitetici, altrettanto sicuro è il fatto che
essi sono presenti entrambi in ogni specie di intendere. Rivive
la storia colui che intuisce entrambi i termini come divenienti e
in via di compimento; conosce la natura chi li analizza come
divenuti e compiuti.
In ogni uomo, in ogni cultura, in ogni grado di cultura è
presente una disposizione originaria, un’originaria inclina-
zione e determinazione a preferire una delle due forme come
ideale di comprensione del mondo. L’uomo dell’Occidente è in
alto grado disposto storicamente *, mentre l’uomo antico lo fu
in misura minima. Noi consideriamo tutto ciò che è dato in
rapporto al passato e al futuro, l’antichità riconobbe come esi-
stente soltanto il presente nella sua puntualità: il resto diventa-
a. L’anti-storico come espressione di una decisa disposizione siste-
matica dev'essere nettamente distinto da ciò che è astorico. L'inizio del
quarto libro di Die Welt als Wille und Vorstellung di Schopenhauer ($ 53)
è indicativo di un uomo che pensa in modo anti-storico, che cioè reprime,
in base a fondamenti teoretici, l'elemento storico che è presente in lui
e lo respinge contrapponendogli l’astorica natura ellenica che non lo
possiede e non lo comprende.
OSWALD SPENGLER 731
va mito, In ogni nota della nostra musica, da Palestrina‘ fino a
Wagner, abbiamo davanti a noi anche un simbolo del divenire;
i Greci avevano in ogni loro statua un'immagine del puro
presente. Il ritmo di un corpo poggia sul rapporto simultaneo
delle parti, il ritmo di una fuga sul corso temporale.
III
In questo modo i principi della forma e della legge ci si
presentano come i due elementi fondamentali di ogni configura-
zione del mondo. Quanto più decisamente un’immagine del
mondo reca in sé i tratti della natura, tanto più illimita-
tamente valgono in essa la legge e il mumero. Quanto più
puramente un mondo viene intuito come un esterno diveniente,
tanto più l’inafferrabile ricchezza del suo processo di formazio-
ne è estranea al numero. «La forma è qualcosa di mobile, di
diveniente, di transeunte. La dottrina della trasformazione. La
dottrina della metamorfosi è la chiave per penetrare tutti i
segni della natura» — si dice in un’annotazione postuma di
Goethe, Così la celebre « fantasia sensibile esatta » di Goethe,
che lascia il vivente agire su di sé*, si distingue già sotto il
profilo metodologico dal procedimento esatto e mortifero della
fisica moderna. Il residuo dell’aliro elemento — che si troverà
sempre — si manifesta nella scienza naturale rigorosa sotto
forma di scorie e di ipotesi inevitabili, il cui contenuto
intuitivo riempie e sostiene tutto ciò che è rigidamente numera-
bile e aderente a formule; e nella ricerca storica si manifesta
come cronologia, vale a dire come una rete di numeri intima-
mente del tutto estranea al divenire (e qui mai tuttavia percepi-
a. «Vi sono fenomeni originari, che noi non dobbiamo turbare e
pregiudicare nella loro divina semplicità » (GoetHE, colloquio con Falk
del 25 gennaio 1813, citato da J.D. Fark, Goethe aus naherm persòn-
lichem Umgange dargestellet, Leipzig, 1832 [ed. Artemis, vol. XXII,
p. 680]).
4. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1526-1594), compositore italiano, autore di
celebri messe, di magnificat, di inni, di mottetti, di lamentazioni ecc., è la principale
figura della musica sacra del Cinquecento.
S. GortHe, Fragmente zur vergleichenden Anatomie (morfologia), in Natur
wissenschafdlichen Schriften, Zurich, 1952, vol. II, p. 415.
732 OSWALD SPENGLER
ta nella sua estraneità), che avvolge e penetra il mondo delle
forme storiche come uno scheletro di date o come statistica,
senza che si possa parlare di matematica. Il numero cronologi-
co designa ciò che è reale singolarmente, il numero matematico
designa ciò che è costantemente possibile. Il primo delimita
forme ed elabora per l’occhio del comprendere i contorni di
epoche e di fatti; è al servizio della storia. Il secondo è esso
stesso la legge che deve stabilire il termine e il fine della
ricerca. Il numero cronologico è preso in prestito, come mezzo
di una scienza preliminare, dalla scienza per eccellenza, cioè
dalla matematica; nel suo uso si prescinde tuttavia da questa
qualità. Si colga la differenza tra i due simboli seguenti:
12 x 8 = 96 e 18 ottobre 1813 °. Qui l’uso del numero si distin-
gue completamente, proprio come l’uso linguistico nella prosa
e nella poesia.
Ancora un’altra cosa occorre qui osservare. Poiché a base
del divenuto sta sempre un divenire e la storia rappresenta un
ordinamento dell'immagine del mondo nel senso del divenire,
la storia è la forma del mondo originario, mentre la natura —
nel senso di un meccanismo elaborato del mondo — è una
forma successiva, che può essere realmente realizzata soltanto
da parte dell’uomo appartenente a culture mature. Di fatto
l’ambiente oscuro e animistico dell'umanità primitiva, di cui
ancor oggi testimoniano i suoi usi e i suoi miti religiosi, quel
mondo completamente organico e pieno di arbitrio, di demoni
ostili e di potenze capricciose, costituisce una totalità vivente,
inafferrabile, enigmaticamente fluttuante e imprevedibile. Si
può anche chiamarlo natura, ma esso non è la nostra natura,
non è il riflesso irrigidito di uno spirito conoscente. Questo
mondo originario risuona ancora talvolta, come un frammento
di umanità da lungo tempo passata, soltanto nell’anima infanti-
le e nei grandi artisti, in mezzo a una « natura» rigorosa che
lo spirito cittadino delle culture mature ha costruito con tiranni-
ca energia intorno al singolo. Qui sta il motivo della tensione
irritata tra intuizione scientifica (« moderna ») e intuizione arti-
stica (« non pratica ») del mondo, nota a ogni epoca tarda. L’uo-
6. Data della battaglia di Lipsia, in cui Napolcone fu sconfitto dal generale prus-
siano Blicher.
OSWALD SPENGLER 733
mo aderente ai fatti e il poeta non perverranno mai a intendersi
reciprocamente. Qui dev'essere cercato anche il motivo per cui
ogni ricerca storica che aspiri alla scientificità, mentre do-
vrebbe sempre recare in sé qualcosa della fanciullezza e del
sogno, qualcosa di goethiano, sfiora il rischio di diventare una
mera fisica della vita pubblica — cioè una storia « materialisti-
ca », come si è essa stessa chiamata senza alcun sospetto.
« Natura » nel senso esatto del termine è il modo più raro,
limitato agli uomini delle grandi città di culture più tarde, il
modo maturo e forse già senile di possedere la realtà; la storia
è invece il modo ingenuo e giovanile, e anche più inconsapevo-
le, proprio di tutta l'umanità. Così almeno la natura numerabi-
le, priva di mistero, analizzata e analizzabile di Aristotele e di
Kant, dei Sofisti e dei darwinisti, della fisica e della chimica
moderna si contrappone a quella natura immediatamente vissu-
ta, illimitata, sentita di Omero e dell’E444”, dell’uomo dorico
e di quello gotico. "Trascurare questo vorrebbe dire disconoscere
l’essenza di ogni considerazione della storia. Essa è la natura
propriamente zazurale, mentre la natura esatta, ordinata mecca-
nicamente, è una concezione artificiale dell'anima di fronte al
suo mondo. Ciononostante — o proprio per questo — la scien-
za naturale è facile per l'uomo moderno, mentre la considera-
zione della storia gli è difficile.
Le spinte del pensiero meccanicistico, che procede completa-
mente sulla base della delimitazione matematica, della distinzio-
ne logica, della legge e della causalità, compaiono assai per
tempo. Si trovano nei primi secoli di tutte le culture, per
quanto ancora deboli, isolate, ancora tendenti a svanire nella
ricchezza della coscienza religiosa del mondo; basti citare il
nome di Ruggero Bacone®. Presto esse assumono un carattere
più rigoroso; non manca loro — come a tutto ciò che è conqui-
sta spirituale e sottoposto alla minaccia della natura umana —
7. Raccolta di canti mitologici ed epici, redatti in Islanda tra il secolo x e il se-
colo xur, a cui fa seguito un trattato di arte poetica composto dall'islandese Snorri
Sturluson: è la principale fonte di conoscenza dell’antica religione germanica, che si
presenta tuttavia già in forma dottrinalmente elaborata.
8. Ruggero Bacone (1214-1292?), filosofo inglese e monaco francescano, autore
dell'Opus maius, dell'Opus minus, dell'Opus tertium e di vari altri scritti, è consi-
derato il maggior rappresentante dell'orientamento empiristico nella Scolastica del
secolo xuI.
734 OSWALD SPENGLER
l'aspetto tirannico ed esclusivistico. In modo non percepibile il
regno di ciò che è espresso in concetti spaziali — infatti i
concetti sono per loro essenza numeri, di costituzione puramen-
te quantitativa — penetra il mondo esterno del singolo, produ-
ce nelle, con e tra le semplici impressioni della vita sensibile
una connessione meccanica di tipo causale e numerico, sottopo-
nendo in ultimo la coscienza desta degli uomini civili delle
grandi città — si tratti della Tebe egizia o di Babilonia, di
Benares, di Alessandria o delle metropoli dell'Europa occidenta-
le — a una costrizione continua da parte del pensiero fondato
sulle leggi naturali. In tal modo nulla più si oppone al pregiu-
dizio di ogni filosofia e di ogni scienza (giacché di un pregiudi-
zio si tratta) secondo cui questa situazione è /o spirito uma-
no e ciò che gli sta di fronte, l’immagine meccanicistica del
mondo circostante, è il mondo. Logici come Aristotele e Kant
hanno elevato questa visione a visione dominante, ma Platone
e Goethe vi si oppongono.
IV
Il grande compito della conoscenza del mondo, che per
l'uomo appartenente alle culture superiori è un bisogno, una
specie di penetrazione della sua esistenza che egli crede dovuta
a sé e ad essa — sia che il suo procedimento venga chiamato
filosofia o scienza, sia che la sua affinità con la creazione artisti-
ca e con l’intuizione della fede venga sentita con intima certez-
za oppure venga contestata — è in ogni caso sicuramente il
medesimo: quello di rappresentare nella sua purezza il linguag-
gio formale dell'immagine del mondo che è determinato ante-
riormente all'essere desto del singolo e che questi, finché non
la pone a confronto con altre, deve considerare come «il»
mondo.
Tenendo conto della differenza tra natura e storia, questo
compito deve essere duplice. L'una e l’altra parlano il proprio
linguaggio formale, differente sotto ogni riguardo; in un’imma-
gine del mondo non ben caratterizzata — come di regola avvie-
ne — i due linguaggi possono sovrapporsi e confondersi, mai
però congiungersi in un’unità intima.
OSWALD SPENGLER 735
Direzione e estensione sono le caratteristiche dominanti
in virtù delle quali si distinguono l'impressione storica e
quella naturalistica del mondo. L’uomo non è affatto in grado
di lasciarle operare contemporaneamente nella loro azione for-
mativa. Il termine «lontananza » ha un doppio senso indicati-
vo: da un lato significa futuro, dall'altro distanza spaziale. Si
osserverà che il materialista storico percepisce quasi di necessità
il tempo come dimensione matematica. Per l'artista nato, al
contrario — come dimostra la lirica di tutti i popoli — le
lontananze panoramiche, le nuvole, l'orizzonte, il sole calante
sono tutte impressioni che si legano irresistibilmente col senti-
mento di qualcosa di là da venire. Il poeta greco nega il futuro
e di conseguenza non vede, non canta tutto questo: dal mo-
mento che appartiene del tutto al presente, appartiene an-
che del tutto alla vicinanza. Lo scienziato naturale, l’uomo
di intelletto produttivo in senso proprio — sia egli uno sperime-
tatore come Faraday”, un teorico come Galilei o un calcolatore
come Newton — trova nel suo mondo soltanto quantità prive
di direzione che egli misura, vaglia e ordina. Soltanto ciò
che è quantitativo sottostà alla formulazione numerica, è deter-
minato in modo causale, può diventare concettualmente accessi-
bile ed essere formulato in leggi. Con ciò sono esaurite le
possibilità della pura conoscenza della natura. Tutte le leggi
sono connessioni quantitative o — come si esprime il fisico —
tutti i processi fisici si svolgono nello spazio. Senza modificare
il dato di fatto, il fisico antico avrebbe corretto tale espressione
nel senso dell’antico sentimento del mondo, negatore dello spa-
zio, dicendo che tutti i processi «Hanzo luogo tra corpi».
Tutto ciò che è quantitativo è estraneo alle impressioni
storiche. Il suo organo è diverso. Il mondo come natura e il
mondo come storia hanno i loro propri modi di apprendimen-
to. Noi li conosciamo e li usiamo quotidianamente, senza però
essere stati finora consapevoli della loro antitesi. Ci sono una
conoscenza della natura e una conoscenza dell’uomo, vale a
dire l’esperienza scientifica e l’esperienza della vita. Si segua
9. Michael Faraday (1791-1867), fisico e chimico inglese, autore della C/hemical
Manipulation (1827), delle Experimental Researches in Electricity (1839-1855), delle
Experimental Rescarches in Chemistry and Physics (1859), diede contributi fondamen-
tali allo sviluppo della teoria dell'elettricità e del magnetismo.
736 OSWALD SPENGLER
quest’antitesi fino alle sue ultime profondità e si comprenderà
che cosa intendo.
Tutti i modi di concepire il mondo possono essere definiti,
in ultima analisi, come morfologia. La morfologia di ciò che è
meccanico ed esteso, cioè una scienza che scopre e ordina leggi
naturali e relazioni causali, si chiama sistematica; la morfolo-
gia di ciò che è organico, della storia e della vita, vale a dire
tutto quanto reca in sé direzione e destino, si chiama fisiogno-
mica.
V
Il modo sistematico di considerazione del mondo ha rag-
giunto e oltrepassato il suo culmine in Occidente durante il
secolo scorso; il modo fisiognomico ha invece ancora davanti a
sé il suo grande momento. Tra un centinaio di anni tutte le
scienze ancora possibili su questo terreno sono destinate a diven-
tare frammenti di un’unica immensa fisiognomica di tutto
quanto è umano. Questo significa una «morfologia della
storia universale ». In ogni scienza, dal punto di vista del fine
come del materiale, l’uomo racconta se stesso. Esperienza scien-
tifica vuol dire auto-conoscenza spirituale. Da questo punto di
vista la matematica è stata considerata poco prima come un
capitolo della fisiognomica. Non abbiamo preso in esame ciò
che si proponeva il singolo matematico: il dotto in quanto tale e
i suoi risultati in quanto esistenza di una somma di sapere si
differenziano reciprocamente. Il matematico come uomo la cui
operosità costituisce una parte del suo manifestarsi, e il cui
sapere e opinare costituisce una parte della sua espressione, è
qui il solo ad avere importanza, e precisamente come orgazo di
una cultura. Essa parla di sé per il suo tramite. Come personali-
tà, come spirito, nel suo scoprire, nel suo conoscere, nel suo
formare egli appartiene alla fisiognomica di quella cultura.
Ogni matematica che, in quanto sistema scientifico oppure
— come nel caso dell'Egitto — nella forma dell’architettura,
rende manifesta a tutti l’idea del suo numero, inerente al suo
essere desto, è la confessione di un’anima. Quanto è certo che
la funzione che si propone appartiene soltanto alla superficie
della storia, altrettanto certo è che il suo elemento inconscio,
OSWALD SPENGLER 737
cioè il numero stesso e lo stile dello sviluppo che la conduce
alla costruzione di un mondo formale chiuso, costituisce un’e-
spressione dell’esistenza, del sangue. La sua storia vitale, il suo
fiorire e sfiorire, la sua relazione profonda con le arti figurati-
ve, con i miti e i culti della medesima cultura, tutto ciò appar-
tiene a una morfologia del secondo tipo, cioè a una morfologia
storica, finora ritenuta quasi impossibile.
La facciata visibile di ogni storia ha perciò lo stesso significa-
to dell'apparenza esteriore dell’uomo singolo, vale a dire della
statura, del volto, del portamento, dell’andatura: non il lin-
guaggio, ma il parlare; non lo scritto, ma la scrittura. Tutto
ciò è ben presente al conoscitore di uomini. Il corpo con tutte
le sue operazioni, il limitato, il divenuto, il transitorio, è espres-
sione dell'anima. Ma essere conoscitore di uomini vuol dire
anche conoscere quei grandi organismi umani di stile superiore
che chiamo culture; vuol dire cogliere il loro volto, il loro
linguaggio, le loro azioni, nello stesso modo in cui si colgono
quelle di un uomo singolo.
La fisiognomica descrittiva e figurativa è arte del ritratto
trasferita all'elemento spirituale. Don Chisciotte, Werther, Ju-
lien Sorel! sono i ritratti di un’epoca. Faust è il ritratto di
un'intera cultura. Lo scienziato naturale, il morfologo in quan-
to sistematico, conosce il ritratto del mondo soltanto come com-
pito imitativo; la stessa cosa vale per la «fedeltà alla natu-
ra» e la « somiglianza » nel caso dell’artigiano che dipinge, il
quale, in fondo, si accinge alla sua opera in modo puramente
matematico. Ma un ritratto genuino nel senso di Rembrandt è
fisiognomica, cioè storia racchiusa in un attimo. La serie dei
suoi autoritratti non è altro che un’autobiografia autenticamen-
te goethiana. Così si dovrebbe scrivere la biografia delle grandi
culture. La parte imitativa, il lavoro dello storico di mestiere
sulle date e sui numeri è soltanto mezzo, non fine. Ai tratti del
volto della storia appartiene tutto ciò che è stato finora valutato
soltanto in base a criteri personali, in base all’utilità e alla dan-
nosità, al bene e al male, al piacere e al dispiacere: forme stata-
li e forme economiche, battaglie e arti, scienze e divinità, mate-
matica e morale. Tutto ciò che è divenuto in generale, tutto
10. Personaggio principale de Le ronge et le noir di Stendhal.
47. STORICISMO TEDESCO,
738 OSWALD SPENGLER
ciò che si manifesta è simbolo, è espressione di un’anima;
aspira a essere considerato con l’occhio del conoscitore di uomi-
ni, a non essere ricondotto a leggi, ma sentito nel suo significa-
to. In tal modo l’indagine si eleva a una certezza ultima e
suprema: tutto ciò che è transitorio è soltanto un'immagine.
Alla conoscenza della natura ci si può educare, ma conosci-
tore della storia si nasce. Il conoscitore coglie e penetra uomini
e fatti di un colpo, sulla base di un sentimento che non s’impa-
ra, che è sottratto a ogni influenza intenzionale, che ben rara-
mente si produce nella sua massima forza. Analizzare, definire,
ordinare, delimitare in base a cause ed effetti, si può sempre
farlo, se si vuole: questo è un lavoro, l’altra è una creazione.
Forma e legge, immagine e concetto, simbolo e formula hanno
un organo completamente diverso. Ciò che si manifesta in que-
st’antitesi è il rapporto tra vita e morte, tra generazione e
distruzione. L'intelletto, il sistema, il concetto uccidono in
quanto « conoscono »; fanno del conosciuto un oggetto irrigidi-
to, che si può misurare e suddividere. Invece l’intuizione vivifi-
ca; incorpora il singolo in un’unità vivente, intimamente senti-
ta. Il poetare e la ricerca storica sono affini quanto affini sono
il calcolare e il conoscere. Ma — come disse una volta Hebbel !!
— «i sistemi non possono venir sognati né le opere d’arte
calcolate o, il che è lo stesso, escogitate ». L'artista, lo storico
autentico intuisce il modo in cui qualcosa diviene. Egli rivive
ancora una volta il divenire nei tratti di ciò che è osservato. Il
sistematico — sia egli fisico, logico, darwiniano oppure scritto-
re di storia pragmatica — ha esperienza di ciò che è divenuto.
L'anima di un artista è, come l’anima di una cultura, qualcosa
che aspira a realizzarsi, qualcosa di concluso e di perfetto o —
nel linguaggio della filosofia antica — un microcosmo. Lo spiri-
to sistematico staccato dal sensibile — « as-tratto» — è un fe-
nomeno tardo, ristretto e perituro, e appartiene agli stadi più
maturi di una cultura. È un fenomeno collegato alle città, in
cui la sua vita si concentra sempre di più: esso appare e di
nuovo scompare insieme con esse. La scienza antica sussiste
11. Christian Friedrich Hebbcl (1813-1863), poeta e drammaturgo tedesco, autore
di vari drammi di argomento storico, di poesie, dì saggi estetici, nonché di Tagedé-
cher (iniziati nel 1836): il suo pensicro è ispirato da Gocthe e dalle tcorie idcalistiche,
in particolare da Schelling c da Hegel.
O$WALD SPENGLER 739
soltanto nel periodo che va dagli Ionici del secolo vi fino all’e-
poca romana; di artisti antichi ve ne furono per tutta l’antichi-
tà. Possa servire da ulteriore chiarimento lo schema seguente:
Anima Mondo
Esistenza Possibilità Compimento Realtà
(Vita)
Divenire Divenuto
Essere Direzione Estensione
desto Organico Meccanico
Simbolo, immagine Numero, concetto
Storia Natura
Immagine Ritmo, forma Tensione, legge
del mondo Fisiognomica Sistematica
Fatti Verità
Se si cerca di pervenire a chiarezza sul principio di unità in
base al quale ognuno dei due mondi viene concepito, si troverà
che la conoscenza regolata matematicamente si riferisce in tutto
e per tutto, e in modo tanto più deciso in quanto più è pura, a
qualcosa che è costantemente presente. L'immagine della natu-
ra, quale il fisico la considera, è ciò che si dispiega al momen-
to dinanzi ai suoi sensi. Tra i presupposti per lo più sottintesi,
ma non per questo meno saldi, di ogni ricerca naturale vi è
quello secondo cui «la» natura è la medesima per ogni essere
desto e per tutti i tempi: un esperimento decide una volta per
tutte. Non che il tempo venga negato, ma all’interno di questo
orientamento si prescinde da esso. La storia reale poggia inve-
ce sul sentimento, altrettanto certo, del contrario. La storia
presuppone come suo organo un tipo di sensibilità interiore,
difficile da descrivere, le cui impressioni vengono colte in un’in-
finita trasformazione e non possono quindi essere raccolte in
un punto del tempo (del supposto «tempo» dei fisici si parle-
rà più oltre). L'immagine della storia — si tratti della storia
dell'umanità, del mondo degli organismi, della terra o del
sistema delle stelle fisse — è un'immagine della memoria. La
memoria viene qui concepita come uno stato superiore che non
740 OSWALD SPENGLER
è affatto proprio a ogni essere-desto, ed è concesso a qualcuno
solo in grado minimo, vale a dire come una forma del tutto
particolare di immaginazione che consente di rivivere l’attimo
singolo sub specie aeternitatis, in continua relazione con tutto
ciò che è passato e futuro: essa è il presupposto di ogni specie
di contemplazione retrospettiva, di auto-conoscenza e di auto-
confessione. In questo senso l’uomo antico non possiede alcuna
memoria, e quindi neppure storia, né in sé né intorno a sé.
« Nessuno può emettere giudizi sulla storia, se non chi ne
abbia fatto esperienza egli stesso » (Goethe !). Nella coscienza
del mondo dell’antichità tutto il passato è assorbito nell’attimo.
Si confrontino le teste quanto mai « storiche » delle sculture del
duomo di Naumburg, delle figure di Direr e di Rembrandt,
con quelle ellenistiche, per esempio con quella della celebre
statua di Sofocle. Le prime narrano l’intera storia di un’anima,
mentre i tratti delle seconde si limitano strettamente all’espres-
sione di un essere momentaneo. Esse tacciono tutto ciò che ha
condotto, nel corso di una vita, a questo essere — sempre che
se ne possa in generale parlare di fronte a un uomo genuina-
mente antico, che è sempre compiuto, mai un essere diveniente.
VI
È ora possibile rintracciare gli elementi ultimi del mondo
formale della storia. Forme innumerevoli, che compaiono e
scompaiono, che si stagliano e si dileguano nuovamente in una
ricchezza senza fine; una confusione smagliante di mille colori
e di mille luci, caratterizzata in apparenza dalla più libera
accidentalità — questa è, a prima vista, l’immagine della storia
universale, quale essa si dispiega nella sua totalità di fronte
all’occhio interiore. Ma lo sguardo che penetra più profonda-
mente nell’essenziale separa da questo arbitrio quelle forme
pure che, fittamente ricoperte e disvelantisi soltanto controvo-
glia, stanno alla base di ogni umano divenire.
Dell’immagine del divenire complessivo del mondo con i
suoi orizzonti che si accumulano potenzialmente — così come
12. GoerHe, Maximen und Reflezionen, 517.
OSWALD SPENGLER 741
l'occhio faustiano che li abbraccia — e quindi del divenire
del cielo stellato, della superficie terrestre, degli esseri viventi,
degli uomini, noi consideriamo ora soltanto l’unità morfolo-
gica estremamente piccola della «storia universale » nel sen-
so consueto della parola, cioè della storia (poco apprezzata
dal vecchio Goethe) dell'umanità superiore, che abbraccia cir-
ca seimila anni, senza affrontare l’arduo problema dell’ana-
logia interna di tutti questi aspetti del divenire. Ciò che dà
senso e contenuto a questo fuggevole mondo di forme, e
che è rimasto finora profondamente sommerso sotto la massa
quasi impenetrabile di «date» e di «fatti» tangibili, è il
fenomeno delle grandi culture. Soltanto quando queste forme
originarie siano state individuate, sentite, elaborate nel loro si-
gnificato fisiognomico, può ritenersi compresa da noi l'essenza
e la forma intima della storia umana — in antitesi all’essenza
della natura. Soltanto partendo da questo sguardo profondo e
prospettico si può parlare seriamente di una filosofia della sto-
ria. Soltanto allora si può cogliere ogni fatto presente nell’im-
magine storica, ogni idea, ogni arte, ogni guerra, ogni persona-
lità nel suo contenuto simbolico, e considerare la storia non
più come mera somma del passato, priva di un proprio ordine
e di una interna necessità, bensì come un organismo di strut-
tura quanto mai rigorosa e con un'articolazione fornita di sen-
so, nel cui sviluppo il presente accidentale dell’osservatore non
indica una semplice sezione e il futuro non appare più come
informe e indeterminabile.
Le culture sono organismi; la storia universale è la loro
biografia complessiva. L’immensa storia della cultura cinese o
della cultura antica è morfologicamente l’esatta contropartita
della piccola storia del singolo uomo o di un animale, di un
albero, di un fiore. Per lo sguardo faustiano non si tratta di
un’esigenza, ma di un'esperienza: se si vuol conoscere la for-
ma interna, ovunque ripetuta, la morfologia comparativa delle
piante e degli animali ha già da lungo tempo preparato il
metodo adatto. Nel destino delle singole culture che si succe-
a. Non si tratta del metodo analitico del « pragmatismo » zoologico
dei darwinisti con la loro caccia di connessioni causali, bensì del metodo
intuitivo e sintetico di Goethe.
742 OSWALD SPENGLER
dono, che crescono l’una accanto all’altra, si toccano, si ostacola-
no, si soffocano, viene a esaurirsi il contenuto di tutta la storia
umana. E se passiamo spiritualmente in rassegna le loro forme,
che finora erano troppo profondamente nascoste sotto la superfi-
cie del corso banale di una «storia dell'umanità », perveniamo
a scoprire la forma originaria della cultura, libera da ogni
elemento perturbatore e privo di significato, la quale sta alla
base di tutte le culture particolari come loro ideale formale.
Distinguo qui l’idea di una cultura, il complesso delle sue
possibilità interne, dalla sua manifestazione sensibile nell’imma-
gine della storia, che costituisce la sua realizzazione compiuta.
Questo è il rapporto dell’anima con il corpo vivente, con la sua
espressione in mezzo all'universo visibile ai nostri occhi. La
storia di una cultura è la progressiva realizzazione di ciò che
ad essa è possibile. Il compimento equivale alla fine. In questo
modo l’anima apollinea — che alcuni di noi possono forse
comprendere e rivivere — stava in rapporto con il suo dispiega-
mento nella realtà, con l’« antichità » della quale l’archeologo,
il filologo, lo studioso di estetica e lo storico indagano i resti
accessibili all’occhio e all’intelletto.
La cultura è il fenomeno originario di tutta la storia univer-
sale passata e futura. La profonda e poco apprezzata idea che
Goethe scoprì nella sua «natura vivente», e che ha sempre
posto a base delle sue ricerche morfologiche, deve qui venir
applicata, nel suo senso più preciso, a tutte le formazioni della
storia umana pienamente maturate, morte mentre ancora stava-
no fiorendo, semi-sviluppate o soffocate ancora in germe. Si
tratta di un metodo fondato sul sentire simpatetico, non sull’a-
nalisi. « Il massimo a cui l’uomo può pervenire è la meraviglia;
perciò sia soddisfatto quando il fenomeno originario lo pone in
uno stato di meraviglia; non gli è concesso niente di superiore,
e neppure.deve cercarvi qualcosa di più: qui sta il limite »!.
Fenomeno originario è quello in cui l’idea del divenire sta
dinanzi agli occhi nella sua purezza. Goethe vide chiaramente,
davanti al suo occhio spirituale, l’idea della pianta originaria
nella forma di ogni pianta singola, nata accidentalmente o an-
che solo possibile. Nella sua indagine sull’os intermazillare
13. GoerHe, Gespriche mit Eckermann, 18 febbraio 1829.
OSWALD SPENGLER 743
egli partì dal fenomeno originario del vertebrato, e in altro
campo partì dalla stratificazione geologica, dalla foglia come
forma originaria di ogni organo vegetale, dalla metamorfosi
delle piante come immagine primordiale di tutto il divenire
organico. « La medesima legge si potrà applicare a tutti gli
altri esseri viventi » !* — scrisse da Napoli a Herder, comunican-
dogli la sua scoperta. Si trattava di uno sguardo sulle cose che
Leibniz avrebbe potuto intendere; il secolo di Darwin ne restò
invece il più possibile distante.
Non esiste però ancora una considerazione della storia che
sia completamente libera dai metodi del darwinismo, cioè dalla
scienza naturale sistematica poggiante sul principio causale.
Mai si è discusso di una fisiognomica rigorosa e chiara, compiu-
tamente consapevole dei suoi mezzi e dei suoi limiti, i cui
metodi dovevano essere ancora trovati. Questo è il grande com-
pito del secolo xx: porre accuratamente in luce la struttura
interna delle unità organiche attraverso le quali e nelle quali si
compie la storia universale; distinguere ciò che è morfologica-
mente necessario ed essenziale da ciò che è accidentale, coglie-
re l’espressione degli avvenimenti e scoprire il linguaggio che
sta alla sua base.
VII
Una massa sterminata di esseri umani, una corrente senza
sponde che scaturisce dall’oscuro passato, là dove il nostro senti-
mento del tempo perde la propria capacità ordinatrice e l’in-
quieta fantasia — o l’angoscia — ha suscitato come per magia
in noi l'immagine di epoche geologiche per nascondere un enig-
ma insolubile; una corrente che va a perdersi in un futuro
altrettanto oscuro e atemporale — questo è il substrato del-
l’immagine faustiana della storia umana. L’onda uniforme di
innumerevoli generazioni muove questa vasta superficie. Fasci
di luce si estendono abbaglianti. Effimeri bagliori passano e
danzano, scompigliano e turbano il chiaro specchio, si trasfor-
mano, balenano e scompaiono: sono ciò che abbiamo chiamato
14. GoerHE, Italienische Reise, lettera a Herder del 17 maggio 1787.
744 OSWALD SPENGLER
generazioni, stirpi, popoli, razze. Essi abbracciano una serie di
generazioni in un ambito delimitato della superficie storica.
Quando si spegne la forma plasmatrice in esse presente — e
questa forza è assai diversa, e predetermina un’assai diversa
durata e plasticità di queste formazioni — si dissolvono anche
le caratteristiche fisiognomiche, linguistiche, spirituali, e il feno-
meno si risolve di nuovo nel caos delle generazioni. Arii, Mon-
goli, Germani, Celti, Parti, Franchi, Cartaginesi, Berberi, Ban-
tù, sono tutti nomi che designano formazioni estremamente
differenziate di tale ordine.
Ma su questa superficie le grandi culture tracciano i loro
maestosi cerchi di onde. Esse compaiono all’improvviso, si
estendono seguendo direttrici fastose, si acquietano, scompaio-
no lasciando di nuovo solitario e stagnante lo specchio della
marea.
Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si
desta dallo stato psichico originario dell’umanità eternamente
fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di
forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall’illimitato e
dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimi-
tabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una
pianta. Una cultura perisce quando quest'anima ha realizzato
l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di
lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritor-
nando quindi nel grembo della spiritualità originaria. Ma la
sua esistenza vivente, cioè quella successione di grandi epoche
che designano in una linea retta il suo compimento progressi-
vo, è una lotta interiore e piena di passione per l’affermazione
dell'idea contro le potenze del caos verso l'esterno, e verso
l'interno contro l’inconscio in cui esse si sono astiosamente
ritirate. Non è soltanto l’artista a combattere contro la resisten-
za della materia e l’'annientamento dell’idea entro di sé. Ogni
cultura si trova in una relazione profondamente simbolica e
quasi mistica con ciò che è esteso, con lo spazio nel quale e
attraverso il quale essa vuole realizzarsi. Quando il fine è rag-
giunto e l’idea, la molteplicità delle sue possibilità interne, si
è compiuta e si è realizzata verso l'esterno, improvvisamente la
cultura si irrigidisce; essa muore, il suo sangue si coagula, le
sue forze vengono meno — ed essa diventa una civiltà in decli-
OSWALD SPENGLER 745
no. Questo è ciò che sentiamo e intendiamo parlando di egizia-
nismo, di bizantinismo, di mandarinismo. Così essa può anco-
ra, come un gigantesco albero marcito nella foresta, protende-
re i suoi rami fradici per secoli e millenni. È quello che vedia-
mo in Cina, in India, nel mondo islamico. In questo modo
l’antica civiltà in declino dell’epoca imperiale si elevava gigante-
sca, con apparente forza giovanile e apparente ricchezza, sot-
traendo aria e luce alla giovane cultura araba dell’Oriente.
Questo è il senso di tutti i tramonti della storia — del
compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che sovrasta
ogni cultura vivente. Di essi quello che ci appare più chiaro
nei suoi contorni è il «tramonto dell’antichità », mentre già
oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi
indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e
durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio:
il « tramonto dell’Occidente » ?.
Ogni cultura percorre le età dell’individuo: ognuna ha la
sua infanzia, la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vec-
chiaia. Un’anima giovanile, timida, ricca di presentimenti si
manifesta negli albori del romantico e del gotico. Essa riempie
di sé il passaggio faustiano dalla Provenza dei Trovatori fino al
duomo di Hildesheim del vescovo Bernward”. Qui soffia un
vento di promavera. « Nelle opere dell’antica architettura tede-
sca — dice Goethe! — si vede il fiorire di una situazione
straordinaria. Chi si trovi immediatamente di fronte una fiori-
tura del genere, non può che stupirsi; ma chi penetri nella
segreta vita interna della pianta, nel muoversi delle forze, se-
guendo passo passo lo sviluppo della fioritura, vede la cosa con
occhi del tutto diversi; sa quello che vede ». L'infanzia ci
a. Non si tratta della catastrofe delle migrazioni dei popoli che costi-
tuisce —- come nel caso della distruzione della cultura maya da parte
spagnola — un caso privo di necessità più profonda, bensì dell'intimo
disfacimento che sopravviene fin da Adriano, e corrispondentemente in Ci-
na sotto la dinastia orientale Han (25-220 d. C.).
15. Hildeshcim è una città della Bassa Sassonia, sede episcopale dall'epoca di
Carlo Magno: San Bernward vi fu vescovo dal 993 al 1022, facendo costruire le mura
intorno alla città e favorendo lo sviluppo della metallurgia.
16. GoerHE, Gespricke mit Eckermann, 21 ottobre 1823.
746 OSWALD SPENGLER
parla in modo simile e con voci del tutto affini, con l’arte
dorica pre-omerica, con quella cristiana antica, cioè arabo-primi-
tiva, e con le opere dell’antico regno egizio che ha inizio con
la quarta dinastia. Qui una coscienza del mondo mitica lotta
con tutto ciò che di oscuro e di demoniaco è presente in essa e
nella natura come con una colpa, per poter maturare fino alla
pura luminosa espressione di un'esistenza finalmente conquista-
ta e compresa. Quanto più una cultura si avvicina al mezzogior-
no della sua esistenza, tanto più il suo linguaggio formale
finalmente assicurato diventa maturo, aspro, controllato, denso,
tanto più essa è certa nel sentimento della propria forza e
tanto più chiari diventano i suoi tratti. Nell’epoca primitiva
tutto ciò era ancora sordo e confuso, procedeva per tentativi,
pieno al tempo stesso di nostalgia e di angoscia infantile. Si
consideri la decorazione dei portali delle chiese romanico-goti-
che della Sassonia e della Francia meridionale: si pensi alle
catacombe cristiane primitive, ai vasi in stile diploico. Ora,
nella piena coscienza della forza plasmatrice giunta alla maturi-
tà — come si manifesta nelle epoche dell’inizio del Medio
Impero, dei Pisistrati, di Giustiniano I, della Controriforma —
ogni singolo tratto espressivo appare scelto, rigoroso, misurato,
di una meravigliosa levità e naturalezza. Qui troviamo ovun-
que attimi di perfezione luminosa, attimi in cui sono sorti la
testa di Amenemhet III ” (la sfinge di Hyksos di Tanis), la
cupola di Santa Sofia, i dipinti di Tiziano. Ancora più tardi,
delicati, quasi fragili, della dolcezza dolorosa degli ultimi gior-
ni d’ottobre, sono l’Afrodite di Cnido e la sala dei cori dell’E-
retteo, gli arabeschi degli archi saraceni a ferro di cavallo, lo
Zwinger di Dresda", Watteau! e Mozart. Infine, nella vec-
chiaia della civiltà in declino, il fuoco dell’anima si spegne.
Per una volta ancora la forza calante trova l’ardire, pervenen-
do con parziale successo a una grande creazione — nel classici-
smo, che non è estraneo a nessuna cultura in via di estinzione;
17. Amenembet II, faraone della Dodicesima dinastia vissuto intorno al 1850-
1800 a, C.
18, Lo Zwinger è il castello rcale di Dresda, costruito nell'età barocca, sede di
celebri collezioni.
19. Jcan-Antoinc Wattcau (1684-1721), uno dci maggiori pittori francesi del Set-
tecento.
OSWALD SPENGLER 747
l’anima ripensa ancora una volta dolorosamente — nel romanti-
cismo — alla propria infanzia. Alla fine stanca, neghittosa,
fredda, essa smarrisce la gioia dell’esistenza e — come nell’epo-
ca imperiale di Roma — aspira a fare nuovamente ritorno dalla
luce millenaria nell’oscurità della mistica spirituale originaria,
nel grembo materno, nella tomba. Questa è la magia della
« seconda religiosità », che i culti di Mitra, di Iside, del Sole
hanno esercitato una volta sull'uomo della tarda antichità — i
medesimi culti che in Oriente un’anima appena albeggiante
aveva riempito di un’interiorità completamente nuova, facendo-
ne l’espressione primitiva, sognante, angosciata della sua solitu-
dine in questo mondo.
VII
Si parla dell’abito di una pianta e con ciò si intende la
forma di apparenza esterna propria ad essa soltanto, cioè il
carattere, l'andamento, la durata del suo manifestarsi nel mon-
do visibile ai nostri occhi — l'elemento per cui ognuna si
distingue, in ogni sua parte e in ogni fase della sua esistenza,
dagli esemplari di tutte le altre specie. Applicherò questo im-
portante concetto fisiognomico ai grandi organismi della storia,
e parlerò dell'abito della cultura, della storia o della spiri-
tualità indiana, egiziana, antica. Un sentimento indeterminato
di esso è stato da sempre a base del concetto di stile; e quando
si parla dello stile religioso, intellettuale, politico, sociale, econo-
mico di una cultura, e dello stile di un'anima in generale, ci
si limita a chiarirlo e ad approfondirlo. Questo abito dell’esi-
stenza nello spazio, che nell'uomo singolo si estende al fare e
al pensare, al portamento e alla disposizione spirituale, abbrac-
cia nell'esistenza di intere culture l’espressione complessiva del-
la vita di ordine superiore, come la scelta di determinati generi
artistici (la scultura e l'affresco da parte dei Greci, il contrap-
punto e la pittura a olio in Occidente) e il riftuto deciso di altri
generi artistici (l’arte plastica da parte degli Arabi), la propen-
sione all’esoterismo (in India) o alla popolarità (nel mondo
antico), al discorso orale (nell’antichità) o allo scritto (in Cina
e in Occidente), come forme di comunicazione spirituale, non-
748 OSWALD SPENGLER
ché il tipo di costumi, di amministrazione, di mezzi di traspor-
to e le forme di rapporto sociale. Tutte le grandi personalità
antiche costituiscono un gruppo a sé, il cui abito spirituale è
rigorosamente distinto da quello dei grandi uomini appartenen-
ti al gruppo arabo o occidentale. Si confronti un Goethe o un
Raffaello con gli uomini dell’antichità, ed Eraclito, Sofocle,
Platone, Alcibiade, Temistocle, Orazio, Tiberio ci appariranno
subito come raccolti in un’unica famiglia. Ogni metropoli anti-
ca — dalla Siracusa di Gerone fino alla Roma imperiale — in
quanto incarnazione e simbolo di un medesimo sentimento del-
la vita, è profondamente diversa per piano urbanistico, per la
struttura delle strade, per il linguaggio dell’architettura priva-
ta e pubblica, per il tipo delle piazze, dei vicoli, dei cortili,
delle facciate, per il colore, il chiasso, il traffico, per lo spirito
delle sue notti, dal gruppo delle metropoli indiane, arabe, occi-
dentali. A Granada molto tempo dopo la sua conquista si
poteva ancora sentire l’anima delle città arabe, di Bagdad e del
Cairo, mentre nella Madrid di Filippo II si incontrano già
tutte le caratteristiche fisiognomiche delle immagini di città
moderne come Londra e Parigi. In ogni diversità di questa
specie c'è un alto grado di simbolismo: si pensi alla propensio-
ne occidentale per le prospettive e i tracciati stradali rettilinei,
come lo scorcio possente dei Champs Elysées visti dal Louvre o
la piazza di San Pietro, e alla loro antitesi rispetto alla confusio-
ne e alla ristrettezza quasi intenzionale della Via Sacra, del
Foro romano e dell’Acropoli con il loro ordine asimmetrico e
aprospettico delle parti. Anche la struttura della città ripete o
per un oscuro impulso (come avviene nel gotico) o consapevol-
mente (come dopo Alessandro e Napoleone) qui il principio
matematico leibniziano dello spazio infinito, là quello euclideo
dei corpi isolati.
Ma all’abito di un gruppo di organismi appartiene anche
una determinata durata della vita e un determinato ritmo di
sviluppo. Questi concetti non possono mancare in una dottrina
della struttura della storia. Il ritmo dell’esistenza antica era
diverso da quello dell’esistenza egizia o araba. Si può parlare
dell’« andante » dello spirito ellenico-romano e dell’« allegro
con brio » di quello faustiano. Al concetto di durata della vita
di un uomo, di una farfalla, di una quercia, di un filo d'erba si
OSWALD SPENGLER 749
connette, del tutto indipendentemente da ogni accidentalità del
destino individuale, un determinato valore. Nella vita di tutti
gli uomini dieci anni costituiscono una sezione approssimativa-
mente equivalente, e anche la metamorfosi degli insetti è lega-
ta, nei casi singoli, a un numero di giorni già noto con precisio-
ne in anticipo. I Romani ricollegavano ai loro concetti di pueri-
tia, adulescentia, juventus, virilitas, senectus una rappresentazio-
ne fornita di precisione quasi matematica. Senza dubbio la
biologia del futuro farà della durata predeterminata della vita
delle varie specie e dei vari generi — in antitesi al darwinismo,
e con un'esclusione di principio dei motivi causali di finalità
riguardo all'origine delle specie — il punto di partenza di una
problematica completamente nuova. La durata di una genera-
zione — poco importa di quali esseri — è un fatto di significa-
to quasi mistico. Queste relazioni posseggono anche, in manie-
ra finora mai percepita, una validità per tutte le culture superio-
ri. Ogni cultura, ogni sua epoca iniziale, ogni crescita e ogni
declino, ognuna delle sue fasi e dei suoi periodi internamente
necessari possiede una durata determinata, sempre eguale, sem-
pre ricorrente con l'insistenza di un simbolo. In quest'opera si
dovrà rinunciare a svelare questo mondo di connessioni piene
di mistero, ma i fatti che verranno in seguito sempre più in
luce sveleranno tutto ciò che qui rimane celato. Che cosa signi-
fica il sorprendente periodo di cinquant’anni, che si riscontra
in ogni cultura, nel ritmo del divenire politico, spirituale, arti-
stico? *® Che cosa significano i periodi di trecento anni del
barocco, dello ionico, delle grandi matematiche, dell’arte plasti-
ca attica, della pittura a mosaico, del contrappunto, della mec-
canica galileiana? Che cosa significa la durata ideale di un
millennio nella vita di ogni cultura, in confronto a quella
dell'individuo, in cui «la vita dura settant'anni » ?
a. Mi limiterò a fare qui riferimento alla distanza delle tre guerre
puniche e alla serie, anch'essa da intendersi in maniera puramente rit-
mica, della guerra di successione spagnuola, delle guerre di Federico il
Grande, di Napoleone, di Bismarck e della guerra mondiale. Affine a
ciò è il rapporto spirituale tra nonno e nipote. Di qui trae origine la
convinzione dei popoli primitivi che l’anima del nonno ritorni nel nipote
e il costume diffuso di dare al nipote il nome del nonno, che con la sua
forza mistica ne rievoca l’anima nel mondo corporeo.
750 OSWALD SPENGLER
Nel modo in cui le foglie, i fiori, i rami, i frutti recano ad
espressione nella loro forma, nella loro foggia e nel loro porta-
mento l’essere vegetale, lo stesso fanno le formazioni religiose,
intellettuali, politiche ed economiche nell’esistenza di una cultu-
ra. Ciò che per l’individualità di Goethe significa una serie di
manifestazioni così differenti quali il Faust, la Farbenlehre, il
Reineke Fuchs, il Tasso, il Werther, il viaggio in Italia, l'amo-
re per Federica, il West-ostliche Divan e le Ròmische Elegien,
per l’individualità del mondo antico significano le guerre per-
siane, la tragedia attica, la polis, il dionisiaco, al pari della
tirannide, delle colonne ioniche, della geometria di Euclide,
della legione romana, dei combattimenti tra gladiatori e del pa-
nem et circenses dell’epoca imperiale.
In questo senso ogni esistenza individuale in qualche modo
significativa ripete, con profonda necessità, tutte le epoche
della cultura a cui appartiene. In ciascuno di noi la vita interio-
re si desta — in quell’istante decisivo a partire dal quale si sa
di essere un Io — nel punto e nel modo in cui si è destata
l'anima dell'intera cultura. Ognuno di noi, uomini dell’Occi-
dente, ancora rivive da fanciullo, nei suoi sogni ad occhi aperti
e nei giochi infantili, il suo gotico, le sue cattedrali, i castelli
feudali e le saghe degli eroi, il Dieu Je veut delle Crociate e il
tormento del giovane Parsifal’. Ogni giovane greco aveva la
sua epoca omerica e la sua Maratona. Nel Werther di Goethe,
immagine di una svolta giovanile nota a ogni uomo faustiano,
ma a nessun uomo antico, ritorna l’epoca di Petrarca e del
Minnesang”®. Quando Goethe abbozzò l’Urfaust, egli era Parsi
fal; quando finì la prima parte, era Amleto; soltanto con la
seconda parte diventò l’uomo universale del secolo x1x, quale
20. Eroc di una leggenda popolare di origine celtica, poi collegato con il ciclo
di Re Artà o dei « cavalieri della tavola rotonda »: in questo nuovo contesto Parsifal
diventa il personaggio principale della ricerca del Graal, dando così il titolo — nel
secolo xt — a un noto pocma cavalleresco di Chrétien de Troyes. A quest'ultima ver-
sione si è richiamato Wagner nella sua ultima opera, il Parsifal, scritta nel 1876-1877
e messa in musica nel 1877-1882.
21. Designazione collettiva della lirica tedesca dei secoli xir e xm, affine alla
poesia trobadorica provenzale, che si ispira all'ideale dell’« amor cortese ». La parola
è composta dai termini Minne (= Liebe, amore) c Sang (= Gesang, canto o canzone);
essa si riferisce all'omaggio reso dal cavaliere alla sua dama, cspresso con la parola
Minnedienst.
OSWALD SPENGLER 751
Byron lo intese. Perfino la senilità, quei secoli capricciosi e
infecondi dell’Ellenismo più tardo, la «seconda fanciullezza »
di un'intelligenza stanca e svogliata, si può studiare in più
d’uno dei grandi vegliardi dell’antichità. Nelle Baccanti di Eu-
ripide è anticipato molto del sentimento della vita, e nel Timeo
di Platone molto del sincretismo religioso dell’età imperiale. Il
secondo Faust di Goethe e il Parsifal! di Wagner svelano in
anticipo quale forma la nostra spiritualità assumerà nei prossi-
mi secoli, negli ultimi secoli creativi.
Per omologia degli organi la biologia intende la loro equiva-
lenza morfologica, in antitesi all’analogia, che si riferisce inve-
ce all’equivalenza della loro funzione. Goethe ha concepito que-
sto concetto importante, e così fecondo nelle sue conseguenze,
il cui sviluppo lo ha condotto a scoprire nell'uomo l’os interma-
xillare; Owen? ne ha dato una formulazione rigorosamente
scientifica. Io introduco questo concetto anche nel metodo sto-
rico.
È noto che a ogni parte del cranio umano corrisponde in
modo preciso in tutti i vertebrati — fino ai pesci — un’altra
parte, in modo tale che le pinne pettorali dei pesci e i piedi, le
ali, le mani dei vertebrati terrestri sono organi omologhi, anche
se hanno perduto ogni più piccola parvenza di somiglianza.
Omologhi sono i polmoni degli animali terrestri e la vescica
natatoria dei pesci; analoghi sono invece — in riferimento all’u-
so — i polmoni e le branchie®. Qui si manifesta un talento
a. Non è superfluo aggiungere che questi fenomeni puri della natura
vivente sono estranei a ogni elemento causale, e che il materialismo do-
vette pervertirne l'immagine con l’introduzione di cause finali, per otte-
nere un sistema adatto all'intelletto comune. Goethe, che del darwi-
nismo aveva grosso modo anticipato ciò che di esso rimarrà ancora tra
cinquant'anni, escluse completamente il principio di causa. Egli carat-
terizza la vita reale priva di cause e di scopi in modo tale che i darwi-
nisti non si sono qui affatto avveduti dell'assenza del principio. Il con-
cetto di fenomeno originario non permette nessuna assunzione causale,
a meno che non si voglia fraintenderlo in senso meccanicistico.
22. Richard Owen (1804-1892), biologo inglese, autore della Memoir on the Pearly
Nautilus (1832), della Odontography (1840-1845), della History of British Fossil Mam-
mals and Birds (1846), della History of British Fossil Reptils (1849-1884) e di varie
altre opere, diede importanti contributi alla paleontologia degli animali vertebrati.
752 OSWALD SPENGLER
morfologico approfondito, ottenuto attraverso una rigorosissi-
ma educazione dello sguardo, che è del tutto estraneo all’attua-
le ricerca storica con la sua comparazione superficiale, tra
Cristo e Budda, tra Archimede e Galilei, tra Cesare e Wallen-
stein”?, tra i piccoli stati tedeschi e quelli ellenici. Nel corso
di quest'opera diventerà sempre più chiaro quali immense pro-
spettive si aprano allo sguardo storico, non appena questo meto-
do rigoroso venga compreso ed elaborato anche all’interno
della considerazione della storia. Formazioni omologhe sono —
per menzionarne qui soltanto alcune — l’arte plastica antica e
la musica strumentale dell'Occidente, le piramidi della Quarta
dinastia e le cattedrali gotiche, il Buddismo indiano e lo Stoici-
smo romano (mentre Buddismo e Cristianesimo z07 sono nep-
pure analoghi), l'epoca degli « stati in lotta» della Cina, degli
Hyksos e delle guerre puniche, le epoche di Pericle e degli
Omeiadi, le epoche del Rigveda”, di Plotino e di Dante. Omo-
loghi sono la corrente dionisiaca e il Rinascimento, analoghe
sono invece la corrente dionisiaca e la Riforma. Per noi — lo
ha giustamente sentito Nietzsche — « Wagner riassume la mo-
dernità ». Di conseguenza dev’esserci qualcosa di corrisponden-
te anche per la modernità antica; ed è l’arte di Pergamo.
Dall’omologia dei fenomeni storici deriva nel medesimo
tempo un concetto del tutto nuovo. Io definisco « contempora-
nei» due fatti storici che, ognuno nella sua cultura, com-
paiono esattamente nel medesimo luogo (relativo) e hanno per-
ciò un significato esattamente corrispondente. Si è già mostra-
to come lo sviluppo della matematica antica e di quella occiden-
tale siano avvenuti in piena coerenza. In questo caso Pitagora e
Descartes, Archita* e Laplace, Archimede e Gauss” dovrebbe-
23. Albrecht Wenzel Euscbius von Waldstein o Wallenstcin (1583-1634), condot-
tiero delle armate imperiali durante la guerra dei Trent'anni, in seguito accusato di
tradimento e ucciso, La sua vita ispirò la trilogia di Schiller che da Wallenstein
prende il nome (scritta nel 1798-1799).
24. Prima parte dei Veda, raccolta di inni e di racconti cosmogonici anteriori
all'800 a. C., che costituiscono il primo nucleo della letteratura metafisica indiana.
25. Archita di Taranto, matematico greco della prima metà del secolo Iv, svilup-
pò l’opera di Pitagora e fu in relazione con Platone.
26. Carl Friedrich Gauss (1777-1855), matematico c astronomo tedesco, autore delle
Disquisitiones arithmeticae (1801) e di numerosi altri scritti, dicde una nuova impo-
stazione alla teoria dei numeri e aprì la strada alle geometrie non cuclidec. Non meno
OSWALD SPENGLER 753
ro essere designati come contemporanei; la nascita dello ionico
e del barocco si compie contemporaneamente; Polignoto” e
Rembrandt, Policleto” e Bach sono contemporanei. Contempo-
ranei appaiono, in tutte le culture, la Riforma, il Puritanesi-
mo, e soprattutto la svolta che reca alla civiltà in declino.
Nell'antichità quest'epoca porta i nomi di Filippo e di Alessan-
dro; nell'Occidente l’avvenimento ad essa contemporaneo com-
pare nella forma della Rivoluzione francese e di Napoleone.
Alessandria, Bagdad e Washington vengono costruite contem-
poraneamente; l'apparizione delle antiche monete e della no-
stra contabilità a partita doppia, della prima tirannide e della
Fronda, di Augusto e di Shih Huang Ti”, di Annibale e della
guerra mondiale avvengono contemporaneamente.
Spero di dimostrare che tutte — senza eccezione — le gran-
di creazioni e forme della religione, dell’arte, della politica,
della società, dell'economia, della scienza sorgono, si compiono
e periscono contemporaneamente nelle diverse culture; che la
struttura interna di una corrisponde completamente a quella
delle altre; che nell'immagine storica di ogni cultura non c’è
un solo fenomeno fornito di profondo significato fisiognomico
di cui non si possa rintracciare la contropartita, in una forma
rigorosamente definibile e in un luogo ben determinato, anche
nelle altre. Ma per cogliere l’omologia tra due fatti occorre un
approfondimento e un’indipendenza dall’apparenza della faccia-
ta completamente diversi da quelli finora consueti tra gli stori-
ci, i quali non si sarebbero mai sognati che il Protestantesimo
trova il suo corrispettivo nel movimento dionisiaco e che il
Puritanesimo inglese dell'Occidente corrisponde all’Islam nel
mondo arabo.
Da questo aspetto deriva una possibilità che va molto al di
là dell’ambizione di ogni ricerca storica precedente, la quale si
importanti sono le sue ricerche astronomiche: calcolò per primo l'orbita del pianetino
Ccrere cd elaborò un nuovo metodo di calcolo dell'orbita dei piancti.
27. Polignoto di Taso, pittore greco vissuto nella prima metà del secolo v.
28. Policleto, grande scultore greco del secolo v.
29. Shih Huang Ti (259-210 a. C.), « primo imperatore sovrano », è il titolo as-
sunto dal re Cheng dello stato di Ch'in dopo l'unificazione della Cina e la soppres-
sione degli altri stati indipendenti. A lui si devono la semplificazione della scrittura
cinese, l'estensione del sistema giuridico Ch'in a tutto l'impero, l'organizzazione am-
ministrativa dell'impero, nonché il completamento della Grande muraglia.
48. STORICISMO TEDESCO,
754 OSWALD SPENGLER
limitava essenzialmente a ordinare il passato, nella misura in
cui esso era conosciuto, secondo uno schema unilineare — cioè
la possibilità di procedere oltre il presente come limite dell’inda-
gine e di determinare in anticipo anche le epoche zoz ancora
trascorse della storia occidentale nella loro forma interna, nella
loro durata, nel loro ritmo, nel loro senso, nel loro risultato,
ma anche la possibilità di ricostruire con l’aiuto di connessioni
morfologiche le epoche da gran tempo scomparse e sconosciute,
e perfino intere culture del passato. Si tratta di un procedimen-
to non dissimile da quello della paleontologia che oggi è in
grado di fornire, sulla base di un singolo frammento del cra-
nio, nozioni ampie e sicure sullo scheletro e sull’appartenenza
del frammento a una specie determinata.
Una volta presupposto il ritmo fisiognomico è del tutto pos-
sibile ritrovare, sulla base di particolarità disperse della decora-
zione, dell’architettura e della scrittura, e di dati isolati di
natura politica, economica, religiosa, i tratti organici fondamen-
tali dell'immagine storica di interi secoli; è possibile ricavare
da elementi del linguaggio formale dell’arte la forma statale ad
essa contemporanea, dalle forme matematiche il carattere delle
corrispondenti forme economiche. Si tratta di un procedimento
genuinamente goethiano, che riporta all’idea goethiana di fero-
meno originario, e che è corrente nel limitato ambito della
zoologia e della botanica comparativa, ma che può venir esteso,
in misura finora mai sospettata, all'intero campo della storia.
FILOSOFIA DELLA POLITICA *
I
Sul concetto di politica abbiamo riflettuto più di quanto
fosse opportuno, e tanto meno ci siamo intesi sul modo di
considerare la politica reale. I grandi uomini di stato sono
soliti agire immediatamente, sulla base di un sicuro intuito dei
fatti. Per essi ciò è tanto evidente che non viene loro neppure
in mente la possibilità di riflettere sui concetti generali fonda-
mentali di questo agire — posto che tali concetti esistano. Essi
sapevano da sempre che cosa dovevano fare. Una teoria in
proposito non corrispondeva né al loro talento né al loro gu-
sto. Ma i pensatori di professione che posavano lo sguardo sui
fatti creati dagli uomini erano così intimamente distanti da
questo agire che perdevano tempo almanaccando di astrazioni
— preferibilmente in immagini mitiche come quelle di giusti-
zia, virtù, libertà — e in base ad esse misuravano l’accadere
storico del passato e soprattutto del futuro. Essi dimenticarono
che si trattava in fondo di semplici concetti, e pervennero alla
convinzione che la politica esista per dare forma al corso del
mondo secondo una ricetta ideale. E poiché una cosa simile
non è avvenuta mai e in nessun luogo, l’agire politico apparve
loro così ristretto in confronto al pensiero astratto che nei loro
libri disputavano sul fatto se possa in qualche modo esserci un
« genio dell’azione ».
* Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte,
cap. Il-iv: Der Staat, sezione 3: Philosophie der Politig, Minchen, C. H. Beck'sche
Verlagsbuchhandlung, 1918-22, cd. definitiva 1923, vol. II, pp. 544-579 (traduzione di
Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile concessione della Casa Edi-
trice Longanesi).
756 OSWALD SPENGLER
Qui si compirà invece il tentativo di creare, anziché un
sistema ideologico, una fisiognomica della politica quale è stata
realmente fatta nel corso della storia intera, e non così come
avrebbe dovuto essere fatta. Il compito era quello di penetrare
il senso ultimo dei grandi fatti, di «vederli», di sentire e di
circoscrivere il loro elemento simbolicamente significativo. I
progetti di miglioramento del mondo non hanno nulla a che
fare con la realtà storica?.
Noi chiamiamo storia le correnti dell’esistenza umana nella
misura in cui le concepiamo come movimento; le chiamiamo
generazione, ceto, popolo, nazione nella misura in cui le conce-
piamo invece come qualcosa di mosso. La politica è il modo e
la maniera in cui quest’esistenza che scorre si afferma, cresce,
trionfa sulle altre correnti della vita. Tutta la vita è politica,
in ogni suo tratto istintivo, fino al midollo. Ciò che oggi
designiamo volentieri come energia vitale (come vitalità), quel
« qualcosa » in noi che vuole ad ogni costo avanzare e sollevar-
si, il cieco, cosmico, nostalgico impulso alla validità e alla po-
tenza che rimane legato — a mo’ di pianta e di razza — alla
terra, alla « patria », quell’essere diretto e quel dover necessaria
mente agire costituisce quello che ovunque, tra gli uomini
superiori, cerca ed è costretto a cercare, come vita politica, le
grandi decisioni per essere oppure per subire un destino. Infatti
o si cresce 0 si muore: non c'è una terza possibilità.
Per questo motivo la nobiltà come espressione di una razza
forte è il ceto propriamente politico: la disciplina, non la cultu-
ra è la forma propriamente politica di educazione. Ogni gran-
de politico, che è un centro di forza nella corrente di ciò che
accade, ha qualcosa di nobile nel modo di sentire la propria
a. «I regni passano, un buon verso rimane» — così si esprimeva
Wilhelm von Humboldt sul campo di battaglia di Waterloo. Ma la per-
sonalità di Napoleone ha plasmato in anticipo la storia dei secoli suc-
cessivi, Per ciò che riguarda i buoni versi, egli avrebbe dovuto inter-
rogare in proposito un contadino per strada. È vero che essi rimangono,
ma per l'insegnamento della letteratura. Platone è eterno, ma per i
filologi. La figura di Napoleone domina però interiormente noi tutti,
i nostri stati e i nostri eserciti, la nostra opinione pubblica, tutto il
nostro essere politico — e in misura tanto maggiore quanto meno ne
abbiamo coscienza.
OSWALD SPENGLER 757
vocazione e nel proprio legame interiore. Invece tutto ciò che
è microcosmico, tutto ciò che è «spirito», è anche apolitico;
perciò ogni politica programmatica e ogni ideologia hanno qual-
cosa di sacerdotale. I migliori diplomatici sono i fanciulli
quando giocano o vogliono avere qualcosa. Allora la sostanza
cosmica presente nell'esistenza singola si fa strada immediata-
mente e con una sicurezza da sonnambulo. Col destarsi della
giovinezza gli uomini non imparano, ma anzi disimparano
questa maestria dei primi anni di vita: proprio per questo
motivo l’uomo di stato è cosa rara tra gli uomini.
Queste correnti dell’esistenza nell’ambito di una cultura su-
periore — perché soltanto all’interno di essa e tra di esse vi è
grande politica — sono possibili solo al plurale. Un popolo
esiste realmente soltanto in rapporto ad altri popoli. Ma pro-
prio per questo motivo il rapporto naturale, razziale, tra di
essi è la guerra. Si tratta di un fatto che nessuna verità cambie-
rà mai. La guerra è la politica originaria di ogzi essere viven-
te, fino al punto che la lotta e la vita sono in fondo tutt'uno e
che con la volontà di lotta si spegne anche l'essere. Vi sono
antiche parole germaniche come orrusta e orlog che significano
serietà e destino, in antitesi allo scherzo e al gioco: è un
rafforzamento, non una differenza di essenza. E se ogni alta
politica vuol essere una sostituzione della spada con armi spiri-
tuali, se l'ambizione dell’uomo di stato alla sommità di tutte le
culture è quella di rendere quasi non più necessaria la guerra,
rimane pur sempre l’affinità originaria tra diplomazia e arte
della guerra: il carattere di lotta, la medesima tattica, la mede-
sima astuzia bellica, la necessità di avere sullo sfondo forze
materiali per dare peso alle operazioni. Anche il fine rimane lo
stesso: la crescita della propria unità vitale — ceto o nazione
— a spese delle altre. Ogni tentativo di escludere questo ele-
mento razziale conduce soltanto alla sua trasposizione in un
campo diverso: anziché tra partiti c'è la lotta tra territori o,
quando la volontà di crescita viene meno anche qui, tra bande
di avventurieri a cui il resto della popolazione volontariamente
si rassegna.
In ogni guerra tra potenze della vita si tratta di stabilire
chi debba governare il tutto. È sempre una vita e mai un
sistema, una legge o un programma, che fornirà il ritmo nella
758 OSWALD SPENGLER
corrente dell’accadere ®. Essere il centro di azione, il centro
attivo di una massa, elevare la forma interiore della propria
persona a forma di interi popoli e di intere epoche, avere il
comando della storia per poter condurre il proprio popolo e la
propria stirpe, con i suoi fini, al culmine degli avvenimenti —
questo è l'impulso inconsapevole e irresistibile operante in
ogni essere individuale fornito di vocazione storica. C'è soltan-
to storia personale, e quindi anche soltanto politica personale.
La lotta non di princìpi ma di uomini, non di ideali ma di
caratteri razziali per esercitare il potere costituisce il presuppo-
sto e il fine della politica: le rivoluzioni stesse non costituisco-
no un'eccezione, poiché la « sovranità popolare » non è che una
parola per esprimere il fatto che il potere dominante ha assun-
to il titolo di capo-popolo anziché quello di re. Con questo non
muta il metodo di governare, e neppure la posizione dei gover-
nanti. Anche la pace universale, tutte le volte che c’è sta-
ta, non è stata altro che la schiavitù dell’umanità intera
sotto il governo di un piccolo numero di nature forti decise a
dominare. Il concetto di esercizio del potere implica — già tra
gli animali — che un’unità vitale si frantumi in soggetti e
oggetti di governo. Ciò è talmente ovvio che questa struttura
interna di ogni unità di massa non va perduta neppure un
istante, anche durante le crisi più gravi come quella del 1789.
Soltanto il detentore del potere scompare, non però l’ufficio; e
quando nel corso degli avvenimenti un popolo perde realmente
ogni guida e si spinge in avanti senza regola, ciò significa
soltanto che trasferisce all’esterno la propria guida, perché è
diventato oggetto nella sua totalità.
Non vi sono popoli politicamente dotati; vi sono soltanto
popoli che sono saldamente in mano a una minoranza gover-
nante e che quindi si trovano bene nella loro costituzione.
Come popolo, gli Inglesi sono altrettanto privi di giudizio,
ristretti e poco pratici di cose politiche che qualsiasi altra nazio-
ne, ma posseggono, pur con tutto il loro gusto per i dibattiti
pubblici, una tradizione di fiducia. La differenza consiste sem-
plicemente nel fatto che l’Inglese è oggetto di un governo che
a. È questo il significato della frase inglese men not measures, che
indica il segreto di ogni politica che ha successo.
OSWALD SPENGLER 759
ha consuetudini assai antiche e ricche di successo, a cui egli
acconsente perché ne conosce per esperienza il vantaggio. Da
questo consenso, che dal di fuori appare come accordo, non c’è
che un passo per arrivare alla convinzione che tale governo
dipenda dalla volontà popolare, anche se all’inverso è proprio
esso che gli inculca sempre, per motivi tecnici, questo punto di
vista. La classe di governo inglese ha sviluppato i suoi fini e i
suoi metodi in piena indipendenza dal « popolo »; essa lavora
con — e in — una costituzione non scritta le cui finezze
nient’affatto teoriche, nate dall’uso, sono impenetrabili e in-
comprensibili al profano. Ma il coraggio della truppa dipende
dalla fiducia nella guida — una fiducia che vuol dire rinuncia
non arbitraria alla critica. È l'ufficiale che rende eroi i codardi
o codardi gli eroi: ciò vale per gli eserciti, per i popoli, per i
ceti come per i partiti. Il talento politico di una massa non è
altro che fiducia nella sua guida. Ma essa dev'essere guadagna-
ta; deve maturare lentamente, venir mantenuta in virtù del
successo e diventare tradizione. Il difetto di capacità direttive
nello strato dominante si manifesta come scarso sentimento di
sicurezza presso i dominati, cioè come quella specie di critica
priva d'istinto e petulante, che mette fuori forma un popolo
con la sua semplice presenza.
II
Come si fa politica? — L'uomo di stato nato è soprattutto
un conoscitore: un conoscitore di uomini, di situazioni, di
cose. Egli possiede lo « sguardo » che abbraccia integralmente,
senza esitare, l'ambito del possibile. Il conoscitore di cavalli
saggia con «ro sguardo il portamento dell’animale e sa quali
prospettive esso possiede nella corsa. Il giocatore lancia uno
sguardo all’avversario e ne conosce la prossima mossa. Fare ciò
che è giusto senza « saperlo », la mano sicura che allenta imper-
cettibilmente o lascia andare del tutto la redine — tutto ciò è
l'opposto dell’uomo teoretico. Il ritmo segreto di ogni divenire
è il medesimo in lui e nelle cose storiche. L'uno ha sentore
dell’altro, l’uno esiste per l’altro. L'uomo di azione non si
trova mai in pericolo di condurre una politica sentimentale o
programmatica. Non crede alle grandi parole: egli ha continua-
760 OSWALD SPENGLER
mente sulle labbra la domanda di Pilato. Verità — ma l’uomo
di stato nato sta al di là del vero e del falso, non scambia la
logica degli avvenimenti con la logica dei sistemi. Le « verità »
— o gli «errori », che sono qui la stessa cosa — vengono da lui
considerate soltanto come correnti spirituali, riguardo alla loro
efficacia: egli ne scorge la forza, la durata e la direzione, e le
mette in conto per il destino della potenza da lui diretta.
Certamente possiede convinzioni che gli sono care, ma come
uomo privato; nessun politico di statura si è mai sentito dipen-
dente da esse mentre agiva. « Colui che agisce è sempre privo
di coscienza; nessuno ha coscienza come ne ha l’uomo contem-
plativo » !. Ciò vale per Silla e Robespierre così come per Bi-
smarck e Pitt. I grandi papi e i capi-partito inglesi, finché
dovevano dirigere il corso delle cose, non seguivano princìpi
diversi da quelli dei conquistatori e degli agitatori di tutti i
tempi. Si tragga dalle azioni di Innocenzo III, che ha condotto
la Chiesa vicino al dominio del mondo, la loro regola fonda-
mentale, e se ne ottiene un catechismo del successo che rappre-
senta l’estremo opposto di ogni morale religiosa, ma senza il
quale nessuna chiesa, nessuna colonia inglese, nessun patrimo-
nio americano, nessuna rivoluzione vittoriosa, infine nessun sta-
to e nessun partito, nessun popolo si troverebbe in una situazio-
ne sopportabile. La vita, non l’individuo, è priva di coscienza.
Perciò occorre intendere il tempo per il quale si è nati. Chi
non avverte e non coglie le sue potenze più segrete, chi non
sente in se stesso qualcosa di affine che lo spinge in avanti per
un cammino che non si può circoscrivere con concetti, chi
crede a ciò che sta in superficie, all'opinione pubblica, alle
grandi parole e agli ideali del giorno, non è all’altezza dei suoi
avvenimenti. Allora questi lo hanno in loro potere, e non vicever-
sa. Mai guardarsi alle spalle e mai trarre il criterio dal passato! e
tanto meno di fianco, da un qualsiasi sistema! In epoche come
l’attuale o come quella di Gracco vi sono due specie di idealismo
infausto: quello reazionario e quello democratico. L'uno crede
nella reversibilità della storia, l’altro nella presenza in essa di
un fine. Ma per il necessario insuccesso in cui entrambe gettano
la nazione sul cui destino hanno acquisito potere, è indifferente
1. GorrHe, Maximen und Reflexionen, 241.
OSWALD SPENGLER 761
che la si sacrifichi a un ricordo o a un concetto. L’uomo di
stato genuino è la storia fatta persona; è il suo orientamento
in forma di volontà singola, la sua logica organica in forma di
carattere.
Ma l’uomo di stato di valore dovrebbe anche essere un edu-
catore in senso elevato: non come rappresentante di una mora-
le o di una dottrina, ma come modello nel suo agire. È un
fatto noto che nessuna religione nuova ha mai mutato lo stile
dell’esistenza. Essa ha penetrato l’essere desto, l’uomo spiritua-
le, ha gettato nuova luce su un mondo al di là, ha creato una
felicità incommensurabile con la forza della modestia, della
rinuncia e della sopportazione fino alla morte; ma sulle forze
della vita non possedeva alcun potere. Soltanto la grande perso-
nalità — la sostanza impersonale, la razza in essa presente, la
forza cosmica che le è connessa — opera creativamente sul
vivente, non istruendo ma disciplinando, trasformando il tipo
di interi ceti e di interi popoli. Non /e verità, # bene, i
sublime, bensì i;7 Romano, # Puritano, : Prussiano costituisco-
no un fatto. Il sentimento dell’onore, il sentimento del dovere,
la disciplina, la decisione sono tutte cose che non si imparano
dai libri; esse vengono destate, nel fluire dell’esistenza, da un
modello vivente. Perciò Federico Guglielmo I? fu uno dei più
grandi educatori di tutti i tempi e il suo portamento persona-
le, plasmatore di una razza, non è più scomparso nel susseguir-
si delle generazioni. Ciò che distingue l’uomo di stato genuino
dal semplice politico, dal giocatore per diletto, dal cacciatore
di felicità che opera sulle sommità della storia, dall’avido e
dall’ambizioso, dal maestro di scuola che va predicando un
ideale, è il fatto che egli può esigere il sacrificio e lo ottiene
perché il sentimento di essere necessario all’epoca e alla nazio-
ne viene condiviso da migliaia di uomini, li plasma fin nel loro
intimo e li rende capaci di imprese alla cui altezza non si
sarebbero altrimenti mai sollevati*.
a. Ciò vale, in definitiva, anche per le chiese, le quali sono qualcosa
di completamente diverso dalle religioni, cioè elementi del mondo dei
2. Federico Guglielmo I (1688-1740), re dì Prussia dal 1713 alla morte, pose le ba-
si dell’amministrazione dello stato prussiano: la sua parsimonia e la sua vita frugale
servirono di esempio a generazioni di funzionari del nuovo stato.
762 OSWALD SPENGLER
Ma il momento supremo non consiste nell’agire, bensì nel
poter comandare. Soltanto con questo il singolo cresce al di
sopra di sé, diventando il punto centrale di un mondo attivo.
C'è una specie di comandare che fa dell’obbedire una consuetu-
dine fiera, libera e nobile — e che Napoleone, per esempio,
non ha posseduto. Un residuo di mentalità subalterna gli ha
impedito di educare degli uomini e non degli strumenti di
registrazione, di dominare tramite personalità anziché median-
te decreti; e poiché non era capace di questa sensibilità sottile
del comandare e doveva quindi fare da solo tutto quanto era
veramente decisivo, doveva a poco a poco fallire a causa della
sproporzione tra i compiti della sua posizione e i limiti della
capacità di azione umana. Ma chi possiede questa dote suprema
e ultima dell’umanità più perfetta — come Cesare o Federico il
Grande — alla sera di una battaglia, quando le operazioni
vanno incontro all’esito voluto e la campagna si decide con la
vittoria, oppure nell’ora in cui si conclude, con l’ultima firma,
un’epoca della storia, prova un sentimento di potenza meravi-
glioso che rimane per sempre precluso agli uomini della veri-
tà. Vi sono attimi — che indicano i punti più alti delle cor-
renti cosmiche — in cui l’individuo è consapevole di essere
identico al destino e di stare al centro del mondo, e percepisce
la sua personalità quasi come il manto di cui la storia futura è
in procinto di avvolgersi.
Il primo compito è di fare qualcosa da sé; il secondo, meno
appariscente ma più difficile e più grande nella sua efficacia
remota, è di creare una tradizione, di coinvolgere altri af-
finché proseguano la propria opera, il suo ritmo e il suo spiri-
to; scatenare una corrente di attività unitaria che non ha più
bisogno del primo capo per mantenere la propria forma. Con
ciò l’uomo di stato cresce a un’altezza che l’antichità ha defini-
to come divinità: diventa il creatore di una vita nuova, il
capostipite spirituale di una razza giovane. Dopo pochi anni
egli scompare, come essere singolo, da questa corrente. Ma una
fatti e quindi — nel carattere della loro guida — fenomeni politici e
non religiosi. Non la predica cristiana, ma il martire cristiano ha con-
quistato il mondo, e del possesso di questa forza egli era debitore non
già alla dottrina, ma all’esempio dell'Uomo sulla croce.
OSWALD SPENGLER 763
minoranza da lui suscitata, un altro essere di specie assai rara,
subentra al suo posto per un tempo indeterminato. Un indivi-
duo può produrre e lasciare come eredità questo elemento co-
smico, quest’anima di uno strato dominante; in tutta la storia
questo ha sempre dato effetti durevoli. Il grande uomo di stato
è raro: se egli venga, se si affermi, se troppo presto o troppo
tardi — tutto ciò è affidato al caso. I grandi individui spesso
distruggono più di quanto non abbiano costruito, e ciò a causa
del vuoto che la loro morte lascia nella corrente dell’accadere.
Ma creare una tradizione vuol dire escludere il caso. Una tradi-
zione alleva un tipo medio elevato su cui il futuro può fare
sicuro affidamento: non un Cesare, ma un senato; non un
Napoleone, ma un corpo incomparabile di ufficiali. Una forte
tradizione attrae da tutte le parti i talenti e consegue grandi
successi con ridotte capacità: lo dimostrano le scuole pittoriche
italiane e olandesi non meno dell’esercito prussiano e della
diplomazia della curia romana. È stata una grande debolezza
di Bismarck — in confronto a Federico Guglielmo I — che egli
abbia sì saputo agire, ma non formare una tradizione, che non
abbia creato accanto al corpo di ufficiali di Moltke® una razza
corrispondente di politici che si identificasse con il suo stato e
con i nuovi compiti da esso posti, che traesse continuamente
dal basso uomini importanti incorporando per sempre il loro
stile di azione. Se ciò non avviene, anziché uno strato di gover-
no formato di un sol getto si avrà un insieme di teste che
affronta disarmata l’imprevisto. Ma se ciò riesce, allora sorge
un « popolo sovrano » nell’unico senso che è degno di un popo-
lo e che è possibile nel mondo dei fatti; una minoranza ben
integrata e altamente selezionata, provvista di una tradizione
sicura e maturata attraverso una lunga esperienza, che attrae c
utilizza sul suo cammino ogni talento e che proprio per questo
motivo si trova in accordo con il resto della nazione da essa
governato. Una minoranza siffatta diventa a poco a poco una
razza genuina — anche se una volta era stata un partito — e
3. Helmuth Carl Bernhard von Moltke (1800-1891), generale prussiano, prestò dap-
prima servizio nell’esercito turco; ritornato in Germania nel 1840, diresse le armate
prussiane nella guerra del 1866 conuo l’Austria e poi nella guerra franco-tedesca del
1870-71. A lui si deve l’organizzazione in forma moderna dell’esercito prussiano: gran-
de stratega, ebbe una parte decisiva nell'esito vittorioso delle due guerre.
764 OSWALD SPENGLER
decide con la sicurezza del sangue, non dell’intelletto. Proprio
per questo motivo tutto accade in essa « da sé»: non ha più
bisogno del genio. Ciò significa, se così si può dire, la sostitu-
zione del grande politico con la grande politica.
Ma che cos'è la politica? — Essa è l’arte del possibile: è
una formula antica, che dice quasi tutto. Il giardiniere può
trarre una pianta dal seme o nobilitarne la specie; può dispiega-
re o lasciar deperire le disposizioni in essa latenti, la sua cresci-
ta e la sua foggia, la sua fioritura e i suoi frutti. Dal suo
sguardo per il possibile, e quindi per il necessario, dipendono
la perfezione, la forza, l’intero destino della pianta. Ma la
forma fondamentale e la direzione della sua esistenza, le sue
fasi di sviluppo, la sua velocità e la sua durata, la «legge
secondo cui si manifesta » 70n sono in potere del giardiniere.
Essa deve realizzarla, oppure muore; e la stessa cosa vale per
quell’immensa pianta che è la «cultura» e per le correnti
dell’esistenza di generazioni umane racchiuse nel suo mondo di
forme politiche. Il grande uomo di stato è il giardiniere di un
popolo.
Ogni individuo che agisce è nato in e per un determinato
tempo. In tal modo è determinato anche l’ambito di ciò che
può venir conseguito da /ui. Il nonno e il nipote hanno di
fronte cose differenti; anche il loro fine e il loro compito sono
quindi differenti. L'ambito si restringe ulteriormente a causa
dei limiti della sua personalità e delle qualità del suo popolo,
della situazione e degli uomini con cui deve lavorare. Ciò che
qualifica il politico di statura è il fatto che di rado egli deve
fare sacrifici per essersi ingannato su questi limiti, ma anche il
fatto che non tralascia nulla di quanto può essere realizzato. In
ciò rientra pure — e proprio tra Tedeschi non si ripeterà mai
abbastanza — il fatto che egli non scambia ciò che dovrebbe
essere con.ciò che sarà. Le forme fondamentali dello stato e
della vita politica, la direzione e il luogo del suo sviluppo
sono dati con un determinato tempo, e sono immutabili. Tutti
i successi politici vengono conseguiti con questi clementi, non
già a loro spese. Gli adoratori degli ideali politici creano dal
nulla: essi sono — nelle loro teste — sorprendentemente liberi;
ma i loro edifici ideali, costruiti su concetti vuoti come quelli
di saggezza, giustizia, libertà, eguaglianza sono in definitiva
OSWALD SPENGLER 765
sempre gli stessi, e ricominciano sempre da capo. A chi è
padrone dei fatti basta dirigere in modo impercettibile ciò che
gli è semplicemente presente. Questo sembra poca cosa; e
tuttavia soltanto qui comincia la libertà in senso elevato. Ciò
che conta sono le piccole mosse, l’ultima cauta pressione sul
timone, la fine sensibilità per le sfumature più sottili dell’ani-
ma dei popoli e degli individui. L'arte dello stato è da un lato
chiara visione delle grandi linee tracciate in modo irrevocabile;
dall’altro è mano sicura per ciò che è singolare e personale,
per ciò che in questo quadro può trasformare un disastro che si
approssima in un successo decisivo. Il segreto di ogni vittoria
risiede nell’organizzazione di quanto non appare. Chi sa far
questo può dominare il vincitore come rappresentante dei vinti,
al pari di Talleyrand a Vienna. Cesare, la cui posizione era
allora quasi disperata, ha posto a Lucca al servizio dei propri
fini, senza farsi accorgere, la potenza di Pompeo, scavandogli
così la fossa. Ma vi è un pericoloso limite del possibile, che la
perfetta sensibilità dei grandi diplomatici dell’epoca barocca
non ha quasi mai toccato, mentre è privilegio degli ideologi
inciamparvi continuamente sopra. Vi sono svolte nella storia da
cui il conoscitore si lascia trascinare per un intero periodo, pur
di non perdere il dominio. Ogni situazione possiede la propria
misura di elasticità, sulla quale non ci si può ingannare in nes-
sun modo. Una rivoluzione giunta al suo scoppio dimostra
sempre una deficienza di sensibilità politica, sia dei governanti
sia dei loro avversari.
Il necessario dev'essere fatto al tempo giusto, cioè fin quan-
do è un dono con cui il potere del governo si assicura la
fiducia, e non dev'essere fatto come un sacrificio che manifesti
debolezza e desti disprezzo. Le forme politiche sono forme
viventi che si trasformano inesorabilmente in una determinata
direzione. Si cessa di essere «in forma » quando si vuol ostaco-
lare questa marcia oppure deviarla in direzione di un ideale.
La nobiltà romana possedette questa sensibilità; non così quel-
la spartana. Nell’epoca dell’ascesa della democrazia si è sem-
pre pervenuti all’attimo fatale — in Francia prima del 1789, in
Germania prima del 1918 — in cui era troppo tardi per presenta-
re una riforma necessaria come un libero dono, e quindi si
766 OSWALD SPENGLER
sarebbe dovuto rifiutarla con energia priva di esitazione in
quanto ora, come sacrificio, preparava la dissoluzione. Ma chi
non vede per tempo la prima necessità, disconoscerà ancora più
sicuramente la seconda. Anche il viaggio a Canossa può avveni-
re troppo presto o troppo tardi; in ciò risiede, per interi
popoli, la decisione se essi saranno in futuro un destino per gli
altri, oppure se dovranno subirlo da altri. Ma la democrazia in
decadenza ripete lo stesso errore di voler tenere fermo ciò che
era l’ideale di ieri: questo è il pericolo del secolo xx. Su ogni
sentiero che conduce al cesarismo si trova un Catone.
L'influenza che anche un uomo di stato in posizione eccezio-
nalmente forte può avere sui metodi politici è assai ristretto; è
proprio del valore dell’uomo di stato non farsi illusioni in pro-
posito. Il suo compito è di lavorare con e dentro le forme
storiche presenti; soltanto il teorico si entusiasma a scoprire
forme più ideali. Nell’«essere in forma» politico rientra però
l’incondizionato padroneggiamento dei più moderni. Qui non
c'è nessuna scelta: i mezzi e i metodi sono dati dal tempo, e
appartengono alla forma interna di un’epoca. Chi si sbaglia su
di essi, chi consente al suo gusto e al suo sentimento di prevale-
re sulla propria sensibilità, perde di mano i fatti. Il pericolo di
un’aristocrazia è di essere conservatrice nei mezzi; il pericolo
della democrazia è di scambiare la formula con la forma. I
mezzi del presente sono ancora per molti anni quelli parlamen-
tari: le elezioni e la stampa. Su di essi si può avere l’opinione
che si vuole, si può onorarli o disprezzarli, ma bisogna padro-
neggiarli. Bach e Mozart padroneggiavano i mezzi musicali del
loro tempo: questo è l’indice di ogni specie di maestria. Le
cose non stanno diversamente per l’arte dello stato. Ma quella
che importa non è, in ogni caso, la forma esteriore generalmen-
te visibile, bensì ciò di cui è il rivestimento. Perciò essa può
venir mutata senza che sia mutato qualcosa nell’essenza dell’ac-
cadere; può venir tradotta in concetti e in testi costituzionali
senza neppur incidere sulla realtà; e l’ambizione di tutti i
rivoluzionari e dottrinari si riduce a immischiarsi in questo
gioco di diritti, di princìpi e di libertà alla superficie della
storia. L'uomo di stato sa che l’estensione del diritto di voto è
del tutto inessenziale rispetto alla tecnica ateniese o romana,
OSWALD SPENGLER 767
giacobina, americana e ora anche tedesca, di fare le elezioni.
Comunque suoni la costituzione inglese, ciò è indifferente di
fronte al fatto che la sua applicazione è controllata da un
piccolo strato di famiglie nobili, di modo che Edoardo VII‘ era
un ministro del proprio ministero. Per quanto riguarda la stam-
pa moderna, il visionario può ben appagarsi del fatto che essa
è costituzionalmente « libera »; il conoscitore si domanda soltan-
to chi ne dispone.
La politica è infine la forma in cui si compie la storia di
una nazione in una pluralità di nazioni. La grande arte consi-
ste nel mantenere internamente in forma la propria nazione in
vista degli avvenimenti esterni. Non soltanto per i popoli, gli
stati e i ceti, ma per le unità viventi di ogni specie fino ai
gruppi di animali più semplici e al corpo dell'individuo, questo
è il rapporto naturale tra politica interna e politica estera:
la prima esiste esclusivamente per la seconda, e non viceversa.
Il democratico genuino tratta di solito la politica interna come
uno scopo in sé, mentre il diplomatico di media levatura pensa
soltanto alla politica estera. Ma proprio per questo motivo i
risultati particolari di entrambi restano sospesi in aria. Senza
dubbio il maestro nell’arte politica si rivela nel modo più mar-
cato nella tattica delle riforme interne, nella sua attività econo-
mica e sociale, nell’abilità di mantenere in accordo, e al tempo
stesso funzionante, la forma pubblica della totalità — « diritti
e libertà » — con il gusto dell’epoca, e nell'educazione di senti-
menti senza i quali non è possibile che un popolo si mantenga
in buona costituzione: fiducia, rispetto dei capi, consapevolez-
za della propria potenza, soddisfazione e, se diventa necessa-
rio, entusiasmo. Ma tutto ciò mantiene il suo valore soltanto
in riferimento al fatto fondamentale della storia superiore, cioè
al fatto che un popolo non è solo al mondo e che per il
suo futuro è decisivo il rapporto di forze con altri popoli e
altre potenze, non il semplice ordinamento interno. E poi-
ché lo sguardo dell’uomo comune non giunge tanto in là, è
la minoranza governante che deve possederlo anche per il re-
4. Edoardo VII (1841-1910), re d’Inghilterra a partire dal rgor, alla morte della
madre regina Vittoria, promosse una politica di entenze con la Francia e la Russia: il
suo regno — come allude qui Spengler — si ispirò ai più rigorosi principi costituzionali.
768 OSWALD SPENGLER
sto del popolo: quella minoranza in cui l’uomo di stato trova
lo strumento con cui può realizzare i suoi propositi *.
III
Per la politica primitiva di ogni cultura le potenze direttive
rappresentano un dato di fatto. L’intera esistenza riveste una
forma rigorosamente patriarcale e simbolica; i condizionamenti
del territorio materno sono così forti, il vincolo feudale e an-
che lo stato fondato sul ceto sono, per la vita così circoscritta,
una cosa talmente ovvia che la politica dell’epoca omerica e
dell’epoca gotica si limita ad agire nel quadro di forme date.
Queste forme mutano, in certa misura, per proprio conto. Che
questo sia un compito della politica non perviene mai chiara-
mente alla coscienza, anche quando una monarchia è rovesciata
o una nobiltà è assoggettata. Esiste soltanto una politica di
ceto, una politica imperiale, papale, di vassalli. Il sangue, la
razza, parla con imprese impulsive e semi-consapevoli, poiché
anche il sacerdote, nella misura in cui fa politica, agisce qui
come uomo di razza. I « problemi» dello stato non si sono
ancora destati. La signoria e i ceti originari, l’intero mondo di
forme primitive, sono dati da Dio, e soltanto in base a questo
presupposto si combattono minoranze organiche, fazioni.
È proprio dell’essenza della fazione che non le venga neppu-
a. Non ci sarebbe neppure bisogno di sottolineare che questi non
sono i princìpi di un governo aristocratico, ma del governare in genere.
Nessun capo di masse fornito di talento — né Cleone5 né Robespierre
né Lenin — ha mai considerato diversamente il suo ufficio. Chi si
sente realmente l’incaricato della moltitudine anziché il dirigente di
coloro che non sanno quello che vogliono, non sarà padrone in casa
propria neppure per un giorno. La questione è soltanto quella di sta-
bilire se i grandi capi-popolo facciano uso della loro posizione a vantaggio
proprio o degli altri; e su quest'argomento ci sarebbe parecchio da dire.
5. Cleone, uomo politico ateniese del secolo v a. C., pervenuto al potere dopo la
morte di Pericle (429 a. C.), capeggiò il partito favorevole a una guerra offensiva con-
tro Sparta. Morì in battaglia ad Amfipoli nel 422 a. C., dopo che le sorti del conflitto
già volgevano a sfavore di Atene.
OSWALD SPENGLER 769
re in mente l’idea di poter mutare secondo un programma
l’ordine delle cose. La fazione vuol conquistare un posto all’in-
terno di quest'ordine, vuole conquistare potenza e possesso, co-
me tutto ciò che cresce in un mondo che cresce. Si tratta di
gruppi in cui hanno un ruolo la parentela tra i casati, l'onore,
la fedeltà, i vincoli di un’interiorità quasi mistica, e da cui
rimangono del tutto escluse le idee astratte. Di questo genere
sono le fazioni dell’epoca omerica e gotica, Telemaco e i Proci
di Itaca, gli Azzurri e i Verdi sotto Giustiniano, i Guelfi e i
Ghibellini, i casati di Lancaster e di York, i Protestanti?, gli
Ugonotti, e ancora le potenze che hanno suscitato la Fronda e
la prima tirannide. Il libro di Machiavelli poggia completamen-
te su questo spirito.
Una svolta subentra non appena assume la guida — con le
grandi città — il non-ceto, cioè la borghesia. Ora, al contrario,
è la forma politica che assurge a oggetto della lotta, a proble-
ma: fin allora era maturata, ora dev'essere creata. La politica
si desta; non soltanto viene concepita, ma anche tradotta in
concetti. Contro il sangue e la tradizione si sollevano le poten-
ze dello spirito e del denaro. Al posto dell'organico subentra
l'organizzato, al posto del ceto subentra il partito. Un partito
non è una formazione razziale, ma un insieme di teste e per-
ciò tanto superiore agli antichi ceti nello spirito, quanto più
povero nell’istinto. Esso è il nemico mortale di ogni articolazio-
ne sviluppata in base al ceto, la cui semplice presenza ne con-
traddice l’essenza. Proprio per questo motivo il concetto di
partito è sempre legato con il concetto incondizionatamente
negatore, dissolutore e socialmente livellatore dell'eguaglianza.
Non si riconoscono più ideali di ceto, ma solamente interessi
professionali ®. Ma esso è legato anche a quello, altrettanto ne-
gatore, della libertà: / partiti sono un fenomeno puramente
cittadino. Con la completa liberazione della città dalla campa-
gna la politica di ceto lascia ovunque il passo alla politica di
partito — poco importa che ne abbiamo conoscenza oppure
a. I quali erano, in origine, un'alleanza di diciannove principi e
città libere (1529).
b. Perciò sul terreno dell’eguaglianza borghese il possesso di denaro
prende subito il posto che prima occupava il rango genealogico.
49. STORICISMO TEDESCO.
779 OSWALD SPENGLER
no: in Egitto con la fine del Regno di mezzo®, in Cina con
gli stati combattenti”, a Bagdad e a Bisanzio con gli Abassidi*.
Nelle capitali dell'Occidente si formano i partiti di tipo parla-
mentare, nelle città-stato antiche i partiti del foro; partiti di
stile magico li conosciamo nel Maali® e presso i monaci di
Teodoro di Studion *"°.
Ma è sempre il n0m-ceto, l’unità della protesta contro l’essen-
za del ceto in generale, la cui minoranza dirigente — « cultura
e possesso» — si presenta come partito fornito di un program-
ma, di uno scopo non sentito ma definito, e che rifiuta tutto
quanto non si lascia cogliere intellettualmente. Esiste perciò,
in fondo, un unico partito — quello della borghesia, quello
liberale; ed esso è anche pienamente cosciente di questo rango.
Esso si identifica con il « popolo ». I suoi avversari, soprattutto
i ceti genuini, « Juzker e preti», sono nemici e traditori « del
popolo », mentre la propria opinione è la « voce del popolo »,
che viene iniettata a questo con tutti i mezzi della manipolazio-
ne politica di partito come il discorso del foro o la stampa
occidentale, per poterla quindi rappresentare.
a. Cfr. anche J. WeLLHausen, Die religiòs-politischen Oppositionspar-
teien im alten Islam, Gòttingen, 1901.
6. Periodo della storia egiziana che abbraccia l'Undicesima e la Dodicesima di-
nastia, dal secolo xx1 a. C. all'invasione degli Hyksos: in quest'epoca la capitale del-
l'Egitto fu trasferita da Memfi a Tebe, c il nuovo stato raggiunse un maggior grado
di unità attraverso il controllo esercitato sulla nobiltà feudale delle province e le sue ten-
denze centrifughe.
7. Con l’espressione Clan-kso (« stati combattenti ») si designano gli ultimi duc
secoli e mezzo di dominio della dinastia Chou — vale a dirc il periodo che va dal
500 circa al 249 a. C. — caratterizzati da una situazione di anarchia feudale e di lot-
te tra i diversi regni che costituivano l'Impero cinese.
8. Dinastia araba succeduta a quella omeiade, che salì al potere nel 750 trasfe-
rendo Ja capitale del mondo arabo da Damasco a Bagdad. Il suo dominio entra in
erisi verso la fine del secolo, giungendo al termine nel 1055, quando i Turchi selgiu-
cidi — da tempo convertiti alla fede islamica — conquistano Bagdad. Tuttavia il ca-
liffato abasside continuerà formalmente a esistere fino al 1258, quando sarà soppresso
dai Mongoli che subentreranno ai Turchi nel possesso di Bagdad.
9. Il Maali (o Mali) è una regione dell’Africa a sud del Sahara, sull'alto corso del
Niger, dove nei secoli xiv e xv si sviluppò un regno reso particolarmente fiorente dal-
la posizione strategica di alcune città-mercato come Timbuktu c Gao.
10. Tcodoro di Studion (759-826), monaco bizantino, abate del monastero di Stu-
dion a Costantinopoli, fu coinvolto nella disputa sull’iconoclastia e assunse posizione
favorevole al culto delle immagini: scrisse tre Légoi antirretikoì, inni sacri e varie lettere.
OSWALD SPENGLER 771
I ceti originari sono la nobiltà e il clero. Il partito origina-
rio è quello del denaro e dello spirito, il partito liberale, il
partito della grande città. Qui risiede la giustificazione profon-
da dei concetti di aristocrazia e di democrazia, e ciò per tutte
le culture. Aristocratico è il disprezzo per lo spirito delle cit-
tà, democratico è il disprezzo per il contadino, l’odio per la
campagna. È questa la differenza tra politica di ceto e politi-
ca di partito, tra coscienza di ceto e mentalità di partito, tra
razza e spirito, tra crescita e costruzione. Aristocratica è la cultu-
ra compiuta, democratica è l’incipiente civiltà in declino della
metropoli, finché l’antitesi non viene superata nel cesarismo.
Come è certo che la nobiltà è :/ ceto, e che il terzo stato non
perverrà mai a essere realmente in forma in questa maniera,
così è certo che la nobiltà riuscirà sì a organizzarsi in partito,
ma non a sentirsi tale.
Ma la rinuncia a ciò non le è consentita. Tutte le costituzio-
ni moderne rinnegano i ceti e sono organizzate sulla base del
partito come l’ovvia forma fondamentale della politica. Il seco-
lo x1x, e nello stesso modo anche il n a. C., è l’apogeo della
politica di partito. Il suo carattere democratico impone la for-
mazione di partiti contrapposti, e mentre una volta — ancora
nel secolo xvi — il terzo stato si costituiva come ceto secon-
do il modello della nobiltà, ora invece la formazione difensiva
del partito conservatore sorge in base al modello del partito
liberale ® completamente dominato dalle forme di esso, borghe-
sizzato senza essere borghese, costretto a una tattica i cui mez-
zi e i cui metodi sono esclusivamente determinati dal liberali
smo. Esso ha soltanto la scelta tra maneggiare questi mezzi
meglio dell'avversario © o soccombere. Ha però profonde radici
a. Alla democrazia inglese e americana è essenziale il fatto che in
Inghilterra i contadini sono scomparsi e che in America non sono mai
esistiti. Il farmer è spiritualmente un abitante dei sobborghi, e prati-
camente esercita l'agricoltura come un'industria: in luogo dei villaggi
vi sono soltanto frammenti di metropoli.
b. Ed essa sorge ovunque tra i due ceti originari sussiste anche una
antitesi politica, come in Egitto, in India e in Occidente, e anche dove
c'è un partito clericale, cioè non una religione ma una chiesa, non
dei fedeli ma un clero.
c. E il suo più forte contenuto di razza gliene dà tutte le prospettive.
772 OSWALD SPENGLER
nell’essenza di un ceto il fatto che esso non colga questa situa-
zione e voglia combattere non il nemico, ma la forma: di qui
un appello ai mezzi estremi che ha devastato, all’inizio del
declinare di ogni civiltà, la politica interna di interi stati, conse-
gnandoli inermi all’avversario esterno. La necessità, propria di
ogni partito, di essere borghese nell’apparenza diventa caricatu-
ra non appena, a fianco degli strati cittadini forniti di cultura
e di possesso, si organizza come partito anche il resto del popo-
lo. Così, per esempio, il marxismo, che in teoria è una negazio-
ne della borghesia, come partito è invece del tutto piccolo-bor-
ghese nel suo comportamento e nella sua guida. Vi è un conflit-
to permanente tra la volontà, che esce necessariamente fuori
del quadro della politica di partito e quindi di ogni costituzio-
ne — entrambe sono esclusivamente liberali — e che può venir
designata in modo onorevole solo come guerra civile, e il suo
modo di presentarsi, al quale ci si crede obbligati e che in
ogni caso bisogna tenere per conseguire in quest'epoca qualche
risultato durevole. Ma il modo di presentarsi di un partito nobi-
liare in parlamento è intimamente tanto poco genuino quanto
quello di un partito proletario. Qui soltanto la borghesia è a
casa propria.
A Roma patrizi e plebei hanno combattuto essenzialmente
come ceti, dall’istituzione dei tribuni nel 471 a. C. fino al ricono-
scimento del loro pieno potere legislativo nella rivoluzione del
287 a. C. A partire da quel momento l’antitesi ha un’importan-
za soltanto più genealogica, e si sviluppano partiti che si posso-
no a buon diritto designare come partito liberale e partito con-
servatore: il populus che dava il tono al foro® e la nobiltà che
aveva il proprio sostegno nel senato. Intorno al 287 a. C. quest’ul-
timo si trasforma da consiglio di famiglia delle antiche stirpi
in un consiglio di stato dell’aristocrazia amministrativa. Vicini
al populus .sono i comizi centuriati, organizzati in base al pos-
a. La plebs corrisponde al terzo stato — borghesi e contadini — del
secolo xvin, mentre il populus corrisponde alla « massa » metropolitana
del secolo xix. Questa differenza si esprime nel comportamento nei
confronti degli schiavi liberati, in gran parte di origine non italica, che
la plebs come ceto cerca di relegare nel minor numero possibile di tribus,
mentre nel populus come partito essi avranno ben presto un'importanza
determinante.
OSWALD SPENGLER 773
sesso, e il gruppo dei grandi finanzieri, gli equites; vicino alla
nobiltà è invece la classe contadina, influente nei comizi tribu-
ti. Si pensi da un lato ai Gracchi e a Mario, dall’altro a Caio
Flaminio; e basta guardare un po’ più attentamente per osserva-
re la posizione del tutto mutata dei consoli e dei tribuni. Essi
non sono più gli uomini di fiducia nominati dal primo e dal
terzo stato, il cui comportamento è determinato da questo fat-
to, bensì rappresentano e cambiano il partito. Vi sono consoli
« liberali» come Catone il Vecchio e tribuni «conservatori »
come Ottavio, l'avversario di Tiberio Gracco. Entrambi i parti-
ti stabiliscono i loro candidati per le elezioni e cercano di
imporli con tutti i mezzi di manipolazione demagogica; e se
l’uso del denaro non ha avuto successo nelle elezioni, avrà mi-
glior sorte sugli eletti.
In Inghilterra tories e whigs si sono costituiti come partiti
all’inizio del secolo x1x, borghesizzandosi nella forma e assu-
mendo entrambi alla lettera il programma liberale: in tal mo-
do l'opinione pubblica era, come sempre, completamente con-
vinta e soddisfatta. In virtù di questa conversione magistrale, e
compiuta al tempo giusto, non si arrivò alla formazione di un
partito nemico del ceto, com’era avvenuto nella Francia del
1789. I membri della Camera Bassa diventarono, da emissari del-
lo strato sociale dominante, rappresentanti del popolo che ne
dipendevano d’ora in poi finanziariamente; ma la guida rima-
se nelle stesse mani e l’opposizione tra i partiti, per la quale
fin dal 1830 vennero spontaneamente coniati i termini « libera-
le» e «conservatore», poggiò su una questione di più o di
meno, non già su un alternata Sono i medesimi anni in cui
l'aspirazione letteraria alla libertà della « Giovane Germania »
si trasformava in una mentalità di partito; gli anni in cui nell’A-
merica del presidente Jackson " il partito repubblicano si orga-
nizzava contrapponendosi a quello democratico, e il principio
che le elezioni sono un affare e che tutti gli uffici pubblici
sono bottino del vincitore veniva riconosciuto formalmente *.
a. Contemporaneamente la Chiesa cattolica passa silenziosa dalla poli-
tica di ceto alla politica di partito, con una sicurezza strategica che non
11. Andrew Jackson (1767-1845), presidente degli Stati Uniti dal 1829 al 1837: sotto
la sua presidenza si consolidò la struttura bipartitica della vita politica americana.
774 OSWALD SPENGLER
Ma la forma della minoranza dirigente si sviluppa izarresta-
bilmente dal ceto, attraverso il partito, fino a diventare un se-
guito di individui. La fine della democrazia e il suo trapasso
al cesarismo si manifesta quindi nel fatto che non scompare
tanto il partito del terzo stato, il liberalismo, bensì il partito
come forma in generale. La mentalità, il fine popolare, gli
ideali astratti di ogni genuina politica di partito si dissolvono
e in loro luogo subentra la politica privata, la sfrenata volontà
di potenza di pochi uomini di razza. Un ceto ha un istinto,
un partito ha un programma, un seguito ha un padrone: que-
sta è la strada che dal patriziato e dalla plebe, passando attra-
verso ottimati e popolari, conduce ai pompeiani e ai cesariani.
L'epoca del genuino dominio dei partiti abbraccia a malapena
due secoli e presso di noi è, dopo la guerra mondiale, già in
piena decadenza. Che l’intera massa dell’elettorato mandi avan-
ti, per un impulso comune, uomini che devono sostenere la
sua causa — come è detto ingenuamente in tutte le costituzio-
ni — era possibile soltanto all’inizio, e presuppone che non
siano presenti neppure le premesse dell’organizzazione di deter-
minati gruppi. Così era nel 1789 in Francia, e nel 1848 in Germa-
nia. All’esistenza di un’assemblea è però subito legata la forma-
zione di unità tattiche la cui coesione poggia sulla volontà di
affermare la posizione dominante acquisita e che non si conside-
rano più affatto portavoce dei propri elettori, ma, al contrario,
li rendono docili con tutti i mezzi di propaganda per disporli
ai propri scopi. Una tendenza del popolo che si sia organizza-
ta è con ciò già diventata lo strumento dell’organizzazione, e
sarà mai ammirata abbastanza. Nel secolo xvi essa era stata comple-
tamente aristocratica per ciò che riguardava lo stile della sua diplomazia,
l'assegnazione delle grandi cariche e lo spirito dei suoi circoli più elevati.
Si pensi al tipo di abate e ai principi della chiesa che diventarono ministri
e ambasciatori, come il giovane cardinale di Rohan !?. Ora, in modo del
tutto «liberale », alla nobiltà dell'origine si sostituisce Ia mentalità, al
gusto la capacità di lavoro, e i grandi mezzi della democrazia — stampa,
elezioni, denaro — vengono da essa manipolati con un'abilità che il
liberalismo vero e proprio ha raggiunto ben di rado, e mai superato.
12. Louis René Edouard cardinale di Rohan (1734-1803), fu ambasciatore speciale
a Vienna dal 1771 al 1774, e in seguito arcivescovo di Strasburgo dal 1779 al 1801.
OS$WALD SPENGLER 775
procede inarrestabilmente su questa strada finché anche l’orga-
nizzazione non è diventata strumento dei capi. La volontà di
potenza è più forte di ogni teoria. All’inizio, la guida e l’appa-
rato sorgono in funzione del programma; poi vengono difesi
dai detentori a causa della potenza e del bottino — come oggi
avviene generalmente, dato che in tutti i paesi migliaia di per-
sone vivono del partito, degli uffici e degli affari che esso of-
fre; infine il programma scompare dal ricordo e l’organizzazio-
ne lavora soltanto a proprio profitto.
Nel caso del più vecchio degli Scipioni e di Quinto Flami-
nio possiamo ancora parlare di amici che li seguono in guerra,
ma Scipione minore si è formata una colors amicorum — certa-
mente il primo esempio di un seguito organizzato — che lavo-
ra poi anche davanti al tribunale e nel corso delle elezioni *
Analogamente, il rapporto di fedeltà tra patrono e clienti, in
origine del tutto patriarcale e aristocratico, si sviluppa fino a
diventare una comunità di interessi basata su un fondamento
assai materiale; e già prima di Cesare vi sono contratti scritti
tra candidati ed elettori con la precisa determinazione del com-
penso e della prestazione corrispondente. D'altra parte si costi-
tuiscono — esattamente come nell’America odierna® — i circo-
li e le associazioni elettorali dei tribuni che dominano o spaven-
tano la massa elettorale del distretto per poter negoziare l’affa-
re elettorale con i grandi capi (i precursori dei Cesari) da poten-
a. Per quanto segue cfr. M. Getzer, Die Nobilitàt der ròmischen
Republik, Leipzig, 1912, p. 43 sgg., e A. Rosemsero, Untersuchungen zur
ròmischen Zenturienverfassung, Berlin, 1911, p. 62 sgg.
b. Universalmente nota è la Tammany Hall a New York; ma in
tutti i paesi governati da partiti la situazione si avvicina a questa. Il
caucus americano che distribuisce gli uffici pubblici tra i suoi aderenti
costringendo la massa degli elettori a confluire sui loro nomi, è stato intro-
dotto in Inghilterra da Chamberlain !* con il nome di National Liberal
Federation, e dopo il 1919 è in rapido sviluppo anche in Germania.
13. Sede di riunione della Società di St. Tammany, fondata fin dal 1789, che co-
stituì il primo nucleo del partito democratico; per tutto l’Ottocento, e ancora nei pri-
mi decenni di questo secolo, fu un importante circolo e gruppo di pressione nella vita
politica degli Stati Uniti.
14. Joseph Chamberlain (1836-1914), uomo politico inglese, fu tra l’altro segreta-
rio alle colonie durante la guerra anglo-boera; ebbe una parte importante nella questio-
ne irlandese.
776 OSWALD SPENGLER
za a potenza. Questo non è il naufragio, bensì il senso e il
necessario risultato finale della democrazia; e il lamento che
gli idealisti estranei al mondo levano su questa distruzione del-
le loro speranze indica soltanto la loro cecità di fronte all’ineso-
rabile divergenza tra verità e fatti e all’intima connessione tra
denaro e spirito.
La teoria politico-sociale è soltanto un substrato, ma un sub-
strato necessario, della politica di partito. L’orgogliosa serie
che da Rousseau va fino a Marx ha il proprio corrispettivo
nell'antichità in quella che dai Sofisti giunge fino a Platone e
a Zenone. In Cina si possono ancora ritrovare nella letteratura
confuciana e taoistica i tratti fondamentali di dottrine corri-
spondenti: basti menzionare il nome del socialista Mo Ti”.
Nella letteratura bizantina e araba del periodo abasside, dove
il radicalismo si presenta sempre in una formulazione rigida-
mente ortodossa, esse occupano largo spazio e agiscono come
forze motrici in tutte le crisi del secolo rx; in Egitto e in India
la loro presenza è dimostrata dallo spirito degli avvenimenti
del periodo di Budda e degli Hyksos. Esse non hanno bisogno
di una formulazione letteraria; altrettanto efficace è la loro dif-
fusione orale, la predicazione e la propaganda da parte delle
sette e delle leghe, come avviene generalmente all'origine delle
correnti puritane, nonché nell’Islam e nel Cristianesimo anglo-
americano.
Se queste dottrine siano «vere» o «false» è una questione
senza senso — si deve sottolinearlo sempre — per il mondo
della storia politica. La «confutazione » del marxismo, per
esempio, rientra nell’ambito delle discussioni accademiche o
dei dibattiti pubblici, in cui ognuno ha ragione e gli altri
hanno sempre torto. Ciò che importa è se queste dottrine sono
efficaci, cioè da quando e per quanto tempo la fede nel miglio-
ramento della realtà mediante un sistema di idee costituisce, in
generale, una potenza con cui la politica deve fare i conti. Noi
ci troviamo in un'epoca di fiducia illimitata nell’ onnipotenza
della ragione. I grandi concetti generali di libertà, di giustizia,
15. Mo Ti (o Mo Tsc), filosofo cinese vissuto tra la seconda metà del secolo v e
i primi decenni del secolo 1v a. C., all’epoca degli « stati combattenti », si distaccò
dal Confucianesimo per elaborare, nell'opera che da lui trac il nome — il Mo-tse —
una teoria dell'amore universale.
O$WALD SPENGLER 777
di umanità, di progresso, sono sacri; le grandi teorie sono van-
geli. La loro forza di convinzione non poggia su motivi, poi-
ché la massa di un partito non possiede né l’energia critica né
la distanza necessaria per sottoporle a una prova seria, bensì
sul crisma sacramentale delle loro parole d’ordine. Ma questa
magia si limita alla popolazione delle grandi città e all’epoca
del razionalismo, di questa « religione dei dotti ». Essa non agi-
sce però sulla classe contadina, e sulle masse cittadine ha in-
fluenza soltanto per un certo periodo, con la violenza di una
nuova rivelazione. Ci si converte, si aderisce con fervore alle
parole e ai loro annunciatori, si diventa martiri sulle barricate,
sui campi di battaglia, sul patibolo; allo sguardo si apre un
aldilà politico e sociale, e la critica spassionata sembra bassa e
profana, degna di morte.
Ma con ciò scritti come il Contract social e il Manifesto
comunista diventano strumenti di potenza di prim’ordine nel-
la mano di uomini energici, che si sono affermati all’interno
della vita di partito e che sanno formare e utilizzare le convin-
zioni della massa da essi dominata.
Ciononostante questi ideali astratti hanno una potenza che
si estende appena oltre i due secoli — il periodo della politica
di partito. Non che vengano confutati, ma diventano noiosi.
Rousseau lo è già da lungo tempo, tra breve lo sarà anche
Marx. Alla fine si abbandona non questa o quella teoria, ma
la fede nelle teorie in generale, e con questa anche l’ottimismo
esaltato del secolo xvitI, convinto di poter correggere i difetti
della realtà mediante l’applicazione di concetti. Quando Plato-
ne, Aristotele e i loro contemporanei definivano le forme di
costituzione antiche e le mescolavano per ottenere la costituzio-
ne più saggia e più bella, tutto il mondo li ascoltava; ed è
stato proprio Platone, col suo tentativo di riformare Siracusa
secondo una ricetta ideologica, a rovinare questa città ®. Altret-
tanto sicuro mi sembra che gli stati meridionali della Cina
sono stati messi fuori forma a causa di esperimenti filosofici
dello stesso tipo, e si sono così posti alla mercè dell’imperiali-
a. Sulla storia di questo tragico esperimento cfr. E. MerEr, Geschickie
des Althertums, Stuttgart, 1884-1902, vol. V, $ 987 sgg.
778 OSWALD SPENGLER
smo Ch’in®!. I fanatici giacobini della libertà e dell’eguaglian-
za hanno consegnato per sempre la Francia, dopo il Diretto-
rio, al mutevole dominio dell’esercito e della borsa, e ogni
rivolta socialista apre nuove vie al capitalismo. Ma al tempo in
cui Cicerone scrisse il suo De republica per Pompeo e Sallustio
le sue esortazioni a Cesare, più nessuno vi poneva attenzione.
In Tiberio Gracco si può forse ancora scoprire un'influenza di
quello stoico entusiasta, Blossio, che morì più tardi suicida do-
po aver condotto alla rovina anche Aristonico di Pergamo";
ma nell’ultimo secolo prima di Cristo le teorie sono diventate un
abusato tema scolastico, e d’allora in poi conta soltanto la po-
tenza.
Nessuno deve illudersi: l’epoca della teoria volge al termi-
ne anche per noi. I grandi sistemi del liberalismo e del sociali-
a. I « progetti degli stati combattenti », il Ch'un-ch'iu Fan lu e le
biografie che si trovano in Ssu-ma Ch’ien sono pieni di esempi di uno
scolastico immischiarsi della « saggezza » nella politica !*.
b. Sulla sua «città del sole » formata di schiavi e di salariati giorna-
nalieri cfr. PauLy-Wissowa, Real-Encyclopidie der classischen Alter-
turmswissenschaft, vol. II, col. 962. In modo analogo il rivoluzionario re
Cleomene III di Sparta (235 a. C.) subì l’influenza dello stoico Sfero!9.
Si capisce perché il senato romano mise ripetutamente al bando « filosofi
e retori », cioè politicanti, acchiappanuvole e mestatori.
16. Lo stato di Ch'in si affermò, alla fine dell’epoca degli « stati combattenti »,
come nucleo di riunificazione dell’impero, sconfiggendo c sottomettendo a sé gli stati
meridionali: ciò condusse nel 249 a. C, alla deposizione dell'ultimo imperatore Chou c,
tre anni dopo, all'ascesa al trono di Shih Huang Ti, che fondò la nuova dinastia Ch'in.
17. Blossio di Cuma, filosofo stoico della seconda metà det secolo Il a. C., allievo
di Antipatro di Tarso, fu amico di Tiberio Gracco; dopo la sua morte si rifugiò a Per-
gamo, dove nel 133 a. C. Aristonico, fratello del defunto re Attalo III (che aveva la-
sciato i suoi domini in eredità a Roma), aveva rivendicato per sé il regno, appoggian-
dosi sui proletari e sugli schiavi e vagheggiando la formazione di uno stato socialista,
detto MALéTOALE, « città del sole ». Nel 130 l'intervento romano mise fine al tentativo
di Aristonico, che fu fatto prigioniero, condotto a Roma e giustiziato; Blossio si tolse
invece la vita.
18. Il Ch'un-ch'iu Fan lu è il titolo dell'opera principale di Tung Chung-shu (179-
104 2. C.), filosofo confuciano del periodo Han. Ssu-ma Ch’ien (145-86 a. C.) fu au-
tore, insieme con il padre Ssu-ma T'an, della prima grande storia cinese, i SMik Chi.
19. Cleomene III, re di Sparta dal 235 al 219 a. C., tentò una riforma politico-so-
ciale dello stato spartano estendendo la cittadinanza ai pericci e redistribuendo le ter-
re; combattè contro la lega achea e contro Antigono Dosone, re di Macedonia, rima-
nendo però sconfitto. Suo ispiratore c consigliere fu il filosofo stoico Sfero, discepolo di
Clcante.
OSWALD SPENGLER 779
smo sono sorti nell’insieme tra il 17750 e il 1850. Quello di Marx è
oggi vecchio quasi di un secolo, ed è rimasto l’ultimo. Con la
sua concezione materialistica della storia esso rappresenta inter-
namente l’estrema conseguenza del razionalismo, e perciò an-
che una conclusione. Ma come la fede rousseauiana nei diritti
dell’uomo ha perduto la sua forza all’incirca nel 1848, così la
fede in tale concezione l’ha perduta con la guerra mondiale.
Chi confronta la dedizione fino alla morte, che le idee di
Rousseau hanno incontrato nella Rivoluzione francese, con il
comportamento dei socialisti del 1918, costretti a conservare di
fronte ai loro seguaci e a se stessi una convinzione che non
possedevano più — e non in vista dell'idea, ma in vista della
potenza che da essa dipendeva — può vedere già tracciata in
anticipo la via su cui cadrà alla fine ogni programma, in quan-
to intralcia la lotta per il potere. La fede in un programma
aveva dato distinzione all’avo; per il nipote è una dimostrazio-
ne di provincialismo. Al suo posto spunta già oggi, dal biso-
gno dell’anima e dal tormento della coscienza, una nuova rasse-
gnata pietà che rinuncia a fondare un nuovo mondo terreno, e
che in luogo di concetti acuti cerca il mistero, per trovarlo
finalmente nella profondità di una seconda religiosità.
IV
Questo è un aspetto, l'aspetto linguistico, di quel grande
fatto che è la democrazia. Rimane da considerare l’altro fatto
decisivo, quello della razza. La democrazia sarebbe rimasta nel-
le teste e sulla carta se tra i suoi apostoli non vi fossero state
nature genuine di dominatori per cui il popolo non era che un
oggetto e gli ideali non erano che mezzi, anche se spesso non
ne erano consapevoli. Tutti i metodi, anche i meno sospetti,
della demagogia, che è nel suo intimo la stessa cosa della diplo-
mazia dell’ancien régime — soltanto che si fonda sulle masse
anziché sui prìncipi e ambasciatori, su opinioni, disposizioni,
esplosioni di volontà disordinate anziché su spiriti eletti, e quin-
di sembra un'orchestra di ottoni anziché antica musica da came-
ra — sono stati elaborati da democratici onesti ma pratici; e i
partiti della tradizione li hanno appresi soltanto da loro.
La via della democrazia è però caratterizzata dal fatto che
780 OSWALD SPENGLER
gli autori delle costituzioni popolari non hanno mai avuto so-
spetto dell'efficacia reale dei loro progetti; né l'hanno avuto il
creatore della costituzione « serviana » ? di Roma o l’Assem-
blea nazionale di Parigi. Poiché tutte queste forme non sono
cresciute come il feudalesimo, ma sono state escogitate, e non
già sulla base di una conoscenza profonda degli uomini e delle
cose, bensì sulla base di rappresentazioni astratte del diritto e
della giustizia, un abisso separa lo spirito delle leggi dalle con-
suetudini pratiche che si formano silenziosamente, sotto la lo-
ro pressione per adattarle al ritmo della vita reale o per tener-
le distanti da questa. Soltanto l’esperienza ha insegnato — al
termine dell’intero sviluppo — che i diritti del popolo e l’in-
fluenza del popolo sono cose differenti. Quanto più universale
è il diritto di voto, tanto più ristretto è il potere di un
elettorato.
Agli inizi di una democrazia il campo appartiene soltanto
allo spirito. Non c’è nulla di più nobile e di più puro della
seduta notturna del 4 agosto 1789 e del giuramento della pallacor-
da o della mentalità presente nella chiesa di San Paolo a Fran-
coforte?! dove, avendo già in mano il potere, si discusse tanto
a lungo su verità universali da dare il tempo alle potenze della
realtà di riunirsi e di spazzare via i sognatori. Ciononostante,
l’altra grandezza di ogni democrazia si annuncia abbastanza
presto e rammenta il fatto che si può far uso dei diritti costitu-
zionali soltanto se si ha del denaro ?. Il funzionamento approssi-
mativo del diritto di voto presuppone, qualsiasi cosa ne pensi
l’idealista, che non esista alcuna dirigenza organizzata la qua-
a. La democrazia primitiva, caratterizzata da progetti costituzionali
pieni di speranza e che per noi giunge fino all’epoca di Lincoln, Bi-
smarck e Gladstone, deve faure quest'esperienza; la democrazia successiva
— che per noi è quella del parlamentarismo maturo — prende le mosse
da essa. Da_allora, verità e fatti si sono separati definitivamente nella
forma dell'ideale di partito da un lato, della cassa del partito dall’altro.
Il parlamentare genuino si sente, in virtà del denaro, svincolato dalla
dipendenza che è contenuta nella concezione ingenua che l’elettore ha
dell’eletto,
20. Questa costituzione trac il proprio nome da Servio Tullio, il sesto (secondo la
tradizione) re di Roma, vissuto probabilmente nel secolo vi a. C.
21. Luogo di riunione dell'Assemblea costituente tedesca nel 1848.
OSWALD SPENGLER 781
le agisce sugli elettori nel proprio interesse e assumendo come
criterio il denaro disponibile. Ma se questa esiste, il voto ha
ancora soltanto il significato di una censura che la massa eserci-
ta sulle singole organizzazioni; sulla loro formazione essa non
possiede però più la minima influenza. Analogamente, il dirit-
to ideale delle costituzioni occidentali, cioè il diritto della mas-
sa di determinare liberamente i propri rappresentanti, rimane
mera teoria, poiché in realtà ogni organizzazione sviluppata si
completa da sé. Si desta infine il sentimento che il suffragio
universale non contiene alcun diritto reale, neppure quello del-
la scelta tra i partiti, poiché le formazioni di potere cresciute
sul suo terreno dominano col denaro tutti i mezzi spirituali
del discorso parlato e scritto e così dirigono a piacimento l’opi-
nione dei singoli sui partiti, mentre questi allevano da parte
loro, attraverso la disponibilità dei pubblici uffici, l'influenza e
le leggi, una schiera di partigiani fedeli — cioè appunto il
caucus che esclude tutti gli altri individui inducendoli a una
fiacchezza elettorale che alla fine non potrà più essere superata
neppure nelle grandi crisi.
Apparentemente sussiste una forte differenza tra la democra-
zia parlamentare occidentale e quella delle civiltà egizia, cine-
se, araba, nel periodo del loro declino, a cui è completamente
estranea l’idea di elezioni condotte con il suffragio universale.
Ma per noi, in quest'epoca, la massa come elettorato è «in
forma » nel medesimo senso in cui lo era stata precedentemen-
te come insieme di sudditi, cioè come oggetto per un soggetto,
e in cui lo era stata a Bagdad e a Bisanzio come setta o come
monacato, e altrove come esercito governante, come associazio-
ne segreta o come stato particolare all’interno dello stato. La
libertà è, come sempre, semplicemente negativa. Essa consiste
nel rifiuto della tradizione — della dinastia, dell’oligarchia,
del califfato. Ma l’esercizio della potenza trapassa subito intat-
to da questi poteri ad altri nuovi, cioè a capi-partito, a dittato-
ri, a pretendenti, a profeti e ai relativi aderenti, e di fronte ad
essi la massa rimane ancor sempre incondizionatamente ogget-
?. Il « diritto del popolo all’auto-determinazione » è un modo
a. Se ciononostante si sente invece liberata, ciò dimostra nuovamente
la profonda incompatibilità tra spirito metropolitano e tradizione, mentre
782 OSWALD SPENGLER
di dire cortese: di fatto con ogni suffragio universale — non
organico — cessa anche il senso originario dell’eleggere in gene-
rale. Quanto più vengono dissolte politicamente le articolazio-
ni dei ceti e delle professioni, tanto più priva di forma e iner-
me diventa la massa degli elettori, tanto più incondizionata-
mente essa è alla mercé dei nuovi poteri, cioè delle direzioni
dei partiti, che dettano ad essa la loro volontà con tutti i
mezzi di coercizione spirituale, per decidere tra loro la lotta
per il dominio — cioè con metodi di cui in fondo la massa
non vede né comprende nulla — e che utilizzano ognuno a
proprio vantaggio l'opinione pubblica come un’arma da essi
stessi forgiata. Ma proprio per questo una spinta irresistibile
muove la democrazia su tale via, che conduce alla propria
auto-dissoluzione °.
I diritti fondamentali di un popolo antico ($fuog, populus)
si estendevano fino alla possibilità di occupare gli uffici pubbli-
ci più elevati e di amministrare la giustizia®. A tal fine si era
«in forma» nel foro — in modo del tutto euclideo, come
massa fisicamente presente riunita in un punto: qui si diventa-
va oggetto di una manipolazione di stile antico, effettuata cioè
con mezzi fisici, diretti, sensibili, con una retorica che agiva in
tra la sua attività e l'essere governata dal denaro sussiste un’intima rela-
zione.
a. La costituzione tedesca del 1919, sorta quindi già sulla soglia di
una democrazia declinante, contiene in piena ingenuità una dittatura
delle macchine di partito, che hanno trasferito a sé ogni diritto e che non
sono seriamente responsabili di fronte a nessuno. Il famigerato voto
proporzionale e la lista nazionale assicurano ad esse l’auto-integrazione.
In luogo dei diritti « del popolo» — come idealmente li conteneva la
costituzione del 1848 — esistono soltanto i diritti dei partiti: ciò suona
come innocuo, ma racchiude in sé il cesarismo delle organizzazioni.
In questo senso essa è però la più progredita costituzione di quest'epoca;
lascia giù riconoscere la fine; alcune piccolissime trasformazioni, ed essa
concederà ai singoli il potere illimitato.
b. Al contrario, la legislazione è connessa con un ufficio. Anche
quando l'accoglimento o il rigetto di una legge spettano formalmente
a un'assemblea, la legge può essere introdotta soltanto da un magi-
strato, per esempio da un tribuno. Le aspirazioni della massa al con-
seguimento di un diritto — spesso suggerite dai detentori del potere —
si manifestano quindi in occasione delle elezioni a qualche carica,
come ci insegna l'età dei Gracchi.
OSWALD SPENGLER 783
modo immediato sull’occhio e sull’orecchio di ognuno e che
con i suoi strumenti, a noi diventati in parte disgustosi e dif-
ficilmente sopportabili, con lacrime studiate, con vesti straccia-
te =, con la lode spudorata dei presenti, con menzogne insensa-
te sull’avversario, con un repertorio fisso di brillanti locuzioni
e cadenze armoniose, con giochi e con doni, con minacce e
percosse, ma soprattutto con denaro — è sorta esclusivamente
in questo luogo e a questo scopo. Noi ne conosciamo gli inizi
dall’Atene del 400° e la fine, in misura spaventosa, dalla Roma
‘di Cesare e di Cicerone. È come sempre: le elezioni si sono
trasformate da nomina di rappresentanti di ceto in una lotta
tra candidati di partito. Ma con ciò è ormai data l’arena in cui
penetra il denaro — e dopo Zama con un enorme incremento
di dimensioni. « Quanto maggiore era la ricchezza che si pote-
va concentrare nelle mani dei singoli individui, tanto più la
lotta per la potenza politica diventava una questione di dena-
10 »°. Con ciò è detto tutto. Ma in un senso più profondo
sarebbe tuttavia falso parlare di corruzione. Non è la degenera-
zione del costume, ma il costume stesso — quello della demo-
crazia matura — che assume con una necessità fatale forme
del genere. Il censore Appio Claudio (310) — senza dubbio un
genuino ellenista e ideologo della costituzione (come potevano
essercene soltanto nel circolo di Madame Roland ?) — ha sicura-
mente pensato nelle sue riforme ai diritti elettorali e non all’ar-
te di fare le elezioni; ma quei diritti preparano soltanto la
a. Ancora a cinquant'anni Cesare dovette recitare una commedia
siffatta davanti ai suoi soldati sul Rubicone, perché essi erano abituati
a questo se si voleva qualcosa da loro. Ciò corrisponde più o meno alla
«voce sincera della convinzione » nelle assemblee odierne.
b. Ma il tipo Cleone era ovviamente presente a Sparta come a Roma
al tempo dei tribuni consolari.
c. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 94. Insieme al César di Eduard
Merer, questo libro fornisce il migliore sguardo d’insieme sul metodo
della democrazia romana.
22. Jcanne-Manon Phlipon (1754-1793), moglic dell'uomo politico Jean-Marie Ro-
land, ministro nel governo girondino: fu arrestata dopo la fuga del marito e in se-
guito ghigliottinata nel 1793, durante il Terrore: nel carcere scrisse un Appel è l'im-
partiale postérité. Le sue Mémoires furono pubblicate postume molti anni più tardi,
nel 1820.
784 OSWALD SPENGLER
strada a quest'arte. La razza si manifesta soltanto in essa, e
ben presto si afferma completamente. All’interno di una ditta-
tura del denaro il lavoro del denaro non può però essere defini-
to come decadenza.
La carriera dei pubblici uffici romani richiedeva, da quan-
do si svolgeva nella forma di elezioni popolari, un capitale che
rendeva il futuro uomo politico debitore verso tutto il suo am-
biente. Ciò valeva soprattutto per la carica di edile, nella quale
si doveva superare in magnificenza i predecessori attraverso
l'offerta di pubblici giochi, per poter ottenere più tardi i voti
degli spettatori. Silla fallì la prima canditatura alla pretura
perché non era stato edile. C'era poi lo splendido seguito con
cui ci si doveva quotidianamente mostrare nel foro per far
colpo sulla massa oziosa. Una legge impediva la scorta dietro
pagamento; ma ancora più costoso era obbligarsi i nobili me-
diante i prestiti, mediante la raccomandazione agli uffici e
agli affari, mediante la difesa davanti al tribunale, che li impe-
gnava a far da scorta e alla visita quotidiana del mattino.
Pompeo era patrono di mezzo mondo, dai contadini del Pice-
no fino ai re orientali; egli rappresentava e proteggeva tutti.
Questo era il suo capitale politico, che poteva mettere in cam-
po contro i prestiti senza interesse di Crasso e contro l’« indora-
mento »° di tutti gli ambiziosi da parte del conquistatore della
Gallia. Si facevano servire agli elettori colazioni estese all’inte-
ro circondario”, si concedevano posti gratuiti per assistere ai
giochi dei gladiatori o si mandava perfino direttamente in casa
del denaro — come faceva Milone. Cicerone chiama tutto ciò
«rispettare i costumi dei padri ». Il capitale elettorale assunse
dimensioni di tipo americano, raggiungendo talvolta la som-
ma di centinaia di milioni di sesterzi. Nel corso delle elezioni
del 54 a. C. il tasso di interesse salì dal 4% all’8%, perché la mag-
gior parte dell'enorme massa di liquido disponibile a Roma fu
investita nella propaganda. Cesare, quand'era edile, aveva spe-
so tanto che Crasso fu costretto a garantire per venti milioni
affinché i creditori gli consentissero di partire per la provincia,
a. Inaurari: a questo scopo Cicerone raccomandò a Cesare il suo
amico Trebazio.
b. Tributim ad prandium vocare (Cicerone, Pro Murena, 72).
OSWALD SPENGLER 785
e ancora nell’elezione a pontefice massimo aveva talmente oltre:
passato il suo credito che il suo avversario Catulo poté offrirgli
del denaro perché si ritirasse, dal momento che in caso di
sconfitta sarebbe stato perduto. Ma la conquista della Gallia —
che egli intraprese anche per questo motivo — e il relativo
sfruttamento fecero di lui l’uomo più ricco del mondo: così è
stata realmente ottenuta la vittoria di Farsalo *. Infatti Cesare
ha conquistato tutti questi miliardi avendo di mira la potenza,
come Cecil Rhodes”, e non per il piacere di ricchezza, come
Verre e in fondo anche Crasso, il quale era un grosso finanzie-
re che faceva parallelamente anche il politico. Egli comprese
che, sul terreno di una democrazia, i diritti costituzionali non
significano nulla senza denaro, tutto col denaro. Mentre Pom-
peo ancora sognava di poter trarre legioni dalla terra, Cesare
le aveva da lungo tempo tradotte in realtà con il suo denaro.
Egli aveva trovato già pronti questi metodi: li padroneggiava,
ma senza identificarsi con essi. Si deve aver ben chiaro il fatto
che, fin dal 150 a. C., i partiti riuniti sulla base di princìpi si
dissolvono in seguiti personali raccolti intorno a uomini i qua-
li avevano un fine politico privato e conoscevano bene le armi
del loro tempo.
Tra di esse rientra, accanto al denaro, anche l'influenza sui
tribunali. Dato che le antiche assemblee popolari votavano sola-
mente, ma senza discutere, il processo di fronte ai rostra è una
a. Si tratta di miliardi di sesterzi, che passarono da allora per le
sue mani. Le offerte votive dei templi della Gallia, che egli fece vendere
in Italia, provocarono un crollo nel valore dell’oro. Cesare e Pompeo
costrinsero il re Tolomeo a versare, per il suo riconoscimento, 144 milioni
(e altri 240 gliene fece versare Gabinio). Il console Emilio Paolo (50 a. C.)
fu comperato con 36 milioni, Curione con 60 milioni. Da ciò si possono in-
ferire le invidiabilissime possibilità dell'ambiente che circondava Cesare.
Per il trionfo del 46 a. C. ognuno dei suoi oltre centomila soldati rice-
vette 24.000 sesterzi, mentre agli ufficiali e ai capi toccarono somme ben
superiori, Ciononostante, alla sua morte il tesoro pubblico era così
ricco da garantire la posizione di Antonio.
23. Cecil John Rhodes (1853-1902), uomo politico e finanziere sud-africano di ori-
gine inglese, fu primo ministro della colonia di Città del Capo dal 1890 al 1896. Diede
una spinta decisiva allo sviluppo dell'industria diamantifera nel Sud-Africa, soprat-
tutto nella regione che da lui prese il nome.
50. STORICISMO TEDESCO.
786 OSWALD SPENGLER
forma di lotta di partito e la scuola vera e propria di eloquen-
za politica. Il giovane politico iniziava la sua carriera accusan-
do e, se possibile, annientando una grossa personalità ®, come
fece Crasso a diciannove anni contro il famoso Papirio Carbo-
ne, amico dei Gracchi, che era passato più tardi dalla parte
degli ottimati. Per tale motivo Catone fu accusato quaranta-
quattro volte e sempre assolto. La questione giuridica passa
qui in secondo piano *. La cosa determinante è la posizione di
partito del giudice, il mumero dei patroni e l’ampiezza del
seguito; il numero dei testimoni serve propriamente a mettere
in luce la potenza politica e finanziaria dell’accusatore. Tutta
l’eloquenza di Cicerone contro Verre vuol convincere i giudici,
sotto Ja maschera di un magnifico pathos etico, che la sua
condanna è nel loro interesse di ceto. Secondo la generale conce-
zione antica è ovvio che il seggio in tribunale debba servire
agli interessi privati e a quelli di partito. Ad Atene gli accusato-
ri democratici erano soliti avvertire i giurati popolari, al termi-
ne del loro discorso, che assolvendo l’accusato ricco avrebbero
messo in forse i loro onorari processuali ©. La grande potenza
del senato romano poggia in gran parte sul fatto che esso ave-
va in mano, attraverso la nomina di tutti i tribunali, il desti-
no di ogni cittadino; su questa base si può misurare la portata
della legge graccana del 122 a. C., che trasferiva i tribunali al
a. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 68.
b. Si tratta in gran parte di concussione e di corruzione. Dal mo-
mento che ciò faceva allora tutt'uno con la politica, che giudice e accusato
avevano fatto la stessa cosa e che tutti lo sapevano, l’arte consisteva nel
tenere — nelle forme di una ben recitata passione morale — un discorso
di partito il cui scopo vero e proprio era inteso soltanto dall’iniziato.
Ciò corrisponde del tutto alle moderne usanze parlamentari. Il « popolo »
rimarrebbe molto stupito se vedesse come, dopo gli accaniti discorsi
durante la seduta (destinati alla stampa), gli avversari di partito si intrat-
tengono amabilmente tra di loro. Si pensi anche ai casi in cui un partito
scende in campo con passione a favore di una proposta dopo averne
assicurata, mediante un accordo con gli avversari, la disapprovazione.
A Roma la sentenza non importava affatto; bastava che l’accusato abban-
donasse in precedenza volontariamente la città, escludendosi così dalla
lotta di partito e dal concorso agli uffici.
c. Cfr. R. von Ponumann, Griechische Geschichte, Miinchen, 5° ed.
1914, pp. 236-37.
OSWALD SPENGLER 787
ceto dei cavalieri e metteva quindi la nobiltà, cioè le alte cari-
che, alla mercé del mondo della finanza. Nell’82 a.C. Silla
restituì al senato, contemporaneamente alle proscrizioni dei
grandi finanzieri, anche i tribunali come arma politica, beninte-
so; e la lotta finale tra i detentori del potere trova la sua
espressione anche nel continuo mutare della scelta dei giudici.
Ma mentre l’antichità — e il foro di Roma in testa — racco-
glieva la massa popolare in un corpo visibile e compatto per
costringerla a fare dei suoi diritti l’uso che si voleva fosse fat-
to, « contemporaneamente » la politica europeo-americana intro-
duceva mediante la stampa un campo di forza di tensioni spiri-
tuali e finanziarie esteso a tutta la terra, nel quale ogni indivi-
duo è inserito senza averne coscienza e in modo da dover pensa-
re, volere e agire come ritiene opportuno da qualche parte, di
lontano, una personalità dominante. Questo è dinamica contrap-
posta alla statica, sentimento faustiano del mondo contrappo-
sto al sentimento apollineo, pathos della terza dimensione con-
trapposto al puro presente sensibile. Non si parla da uomo a
uomo; la stampa e, collegato con essa, il servizio elettrico di
informazioni mantengono l’essere desto di interi popoli e di
interi continenti sotto l’assordante fuoco di fila di frasi, di
parole d'ordine, di punti di vista, di scene, di sentimenti, gior-
no per giorno, anno per anno, cosicché ogni io diventa mera
funzione di un'immensa entità spirituale. Il denaro prende la
sua strada politica non come metallo che passa di mano in
mano; non si converte più in giochi e in vino. Esso si trasfor-
ma invece in forza e determina, mediante la sua quantità,
l'intensità di questa manipolazione.
Polvere da sparo e stampa sono connesse l’una con l’altra,
in quanto entrambe sono inventate nell'antico periodo gotico e
scaturite dal pensiero tecnico germanico, come i due grandi stru-
menti della tattica faustiana della distanza. La Riforma conob-
be all’inizio dell'età successiva i primi manifesti e le prime
artiglierie da campagna; la Rivoluzione francese conobbe, all’i-
nizio del declinare della civiltà, la prima ondata di opuscoli
a. In questo modo Rutilio Rufo poté essere condannato nel famige-
rato processo del 93 a. C. perché come proconsole, aveva doverosamente
proceduto contro le concussioni delle società di appalto.
788 OSWALD SPENGLER
dell'autunno 1788 e a Valmy il primo fuoco di massa di un’arti-
glieria. Ma con ciò la parola stampata impiegata in forma mas-
siccia ed estesa su superfici infinite diventa un’arma infida nel-
le mani di chi sa dirigerla. In Francia, nel 1788, si trattava anco-
ra di un'espressione spontanea di convinzioni private, ma in
Inghilterra si era già al punto di suscitare intenzionalmente
un'impressione nei lettori. La guerra condotta contro Napoleo-
ne da Londra, su territorio francese, con articoli, libelli, memo-
rie inautentiche, ne costituisce il primo grande esempio. I fo-
gli isolati dell’età illuministica si trasformano nella « stampa »,
come si dice con indicativa anonimità *. La campagna di stam-
pa nasce come la continuazione — o la preparazione — della
guerra condotta con altri mezzi, e la sua strategia fatta di
scontri di avamposti, di diversivi, di sorprese e di attacchi a
ondate viene elaborata durante il secolo xix fino al punto che
una guerra può già essere perduta prima ancora che parta il
primo colpo, perché la stampa l’ha vinta nel frattempo.
Oggi noi viviamo senza possibilità di resistenza sotto l’azio-
ne di questa artiglieria spirituale, di modo che quasi nessuno
acquisisce la distanza interiore necessaria per rendersi conto del-
l’enormità di tale spettacolo. La volontà di potenza in veste
puramente democratica ha compiuto il suo capolavoro facendo
sì che il sentimento di libertà degli oggetti venga addirittura
adulato pur nella schiavitù più completa che sia mai esistita. Il
senso borghese liberale è fiero dell’abolizione della censura,
che costituiva l’ultimo limite, mentre il dittatore della stampa
— Northcliffe! * — assoggetta la folla di schiavi dei suoi letto-
ri alla frusta dei suoi articoli di fondo, dei suoi telegrammi e
delle sue illustrazioni. La democrazia ha completamente sop-
piantato il libro con il giornale nella vita spirituale delle masse
popolari. Il mondo dei libri, con la sua ricchezza di punti di
vista che costringevano il pensiero alla selezione e alla critica,
è un possesso reale ancora soltanto per circoli ristretti. Il popo-
lo legge l’unico giornale — il «suo» giornale — che quotidia-
a. E quasi in analogia con «l'artiglieria ».
24. Alfred Charles William Harmsworth, visconte di Northcliffe (1865-1922), crea-
tore del giornalismo moderno: a lui si deve la fondazione del « Daily Mail » nel 1896
c del « Daily Mirror » nel 1903. Nel 1908 si assicurò pure il controllo del « Times ».
OSWALD SPENGLER 789
namente penetra in ogni casa in milioni di esemplari, attraen-
do di buon mattino gli spiriti nella propria orbita, facendo
passare nel dimenticatoio i libri con i propri supplementi e, se
questo o quel libro compare ancora all’orizzonte, eliminando
la sua influenza con una critica che arriva prima di esso.
Che cos'è la verità? Per la massa è ciò che si legge e si
ascolta continuamente. Può ben esserci da qualche parte un
povero minchione che se ne sta seduto e raccoglie motivi per
stabilire «la verità» — questa rimarrà sempre la sua verità.
L’altra verità, la verità pubblica del momento, che sola impor-
ta nel mondo reale degli effetti e dei risultati, è oggi un prodot-
to della stampa. Ciò che essa vuole, è vero. Coloro che la
comandano producono, trasformano, cambiano Ja verità. Tre
settimane di lavoro di stampa, e tutto il mondo ha riconosciu-
to la verità*. I suoi argomenti sono inconfutabili finché si
dispone del denaro per ripeterli senza interruzione. Anche la
retorica antica faceva conto sull’impressione e non sul contenu-
to — Shakespeare ha brillantemente mostrato, nell’orazione fu-
nebre di Antonio, di che cosa si trattasse — ma essa si limita-
va al presente e al momento. La dinamica della stampa esige
effetti duraturi. Essa deve mantenere durevolmente gli spiriti
sotto pressione. I suoi argomenti vengono confutati non appe-
na una potenza finanziaria maggiore sposa gli argomenti con-
trari e li pone ancora più spesso davanti a tutte le orecchie e a
tutti gli occhi. Nello stesso attimo l’ago magnetico dell’opinio-
ne pubblica si orienta verso il polo più forte. Ognuno si convin-
ce subito della nuova verità: all'improvviso ci si sveglia da un
errore.
Alla stampa politica si connette il bisogno di un'istruzione
a. L'esempio più forte sarà sempre, per le future generazioni, la
questione della «responsabilità » della guerra mondiale, vale a dire
la questione di chi possiede — attraverso il dominio della stampa e dei
cavi telegrafici di ogni parte della terra — il potere di stabilire davanti
all'opinione mondiale la verità di cui ha bisogno per i suoi scopi poli
tici, e di mantenerla in vita finché ne ha bisogno. Questione comple-
tamente diversa, che soltanto in Germania viene confusa con la prima,
è quella puramente scientifica di sapere chi aveva interesse a provocare
proprio nell’estate 1914 un avvenimento, sul quale esisteva già allora
un'intera letteratura.
790 OSWALD SPENGLER
scolastica generale, che mancava completamente all’antichità.
È una pressione del tutto inconsapevole per avvicinare le mas-
se, in quanto oggetti della politica di partito, a quello strumen-
to di potere che è il giornale. All’idealista degli inizi della
democrazia ciò appariva come illuminazione priva di intenzio-
ni recondite, e ancor oggi vi sono qua e là degli sciocchi che si
entusiasmano al pensiero della libertà di stampa; ma proprio
in questo modo hanno via libera i futuri Cesari della stampa
mondiale. Chi ha imparato a leggere soccombe alla loro poten-
za, e la tarda democrazia si trasforma, dalla sognata auto-deter-
minazione, in una radicale determinazione dei popoli da parte
dei poteri a cui la parola stampata obbedisce.
Oggi ci si combatte per sottrarre agli altri quest'arma. Agli
ingenui inizi della potenza giornalistica, questa era ancora osta-
colata dai divieti della censura, con la quale i rappresentanti
della tradizione si difendevano; la borghesia protestava che la
libertà dello spirito era in pericolo. Ora la massa percorre tran-
quillamente la sua strada: ha finalmente conquistato questa
libertà, ma sullo sfondo le nuove potenze combattono, non vi-
ste, per comperare la stampa. Senza che il lettore lo avverta, il
giornale — e con esso anche il lettore — cambia di padrone *.
Anche qui il denaro trionfa costringendo al suo servizio gli
spiriti liberi. Nessun domatore ha mai avuto meglio in suo
potere i propri animali; si scatena il popolo come massa di
lettori, ed esso si precipita per le strade, si getta sull’obiettivo
indicato, minaccia e spacca le finestre. Un cenno all’apparato
della stampa e il popolo tace e ritorna a casa. La stampa è
oggi un esercito con proprie armi accuratamente organizzate,
con giornalisti come ufficiali, con lettori in qualità di soldati.
Ma anche qui accade come in ogni esercito: il soldato obbedi-
a. Durante la preparazione della guerra mondiale la stampa di interi
paesi cadde finanziariamente sotto il controllo di Londra e di Parigi;
e quindi i relativi popoli caddero sotto una rigorosa schiavitù spirituale.
Quanto più democratica è la forma interna di una nazione, tanto più
facilmente e completamente essa si espone a tale pericolo. Questo è lo
stile del secolo xx. Un democratico di vecchio stampo oggi non richie-
derebbe più libertà per la stampa ma dalle stampa; nel frattempo i capi
sono mutati in «arrivati », costretti a garantire la propria posizione di
fronte alla massa,
OSWALD SPENGLER 791
sce ciecamente, i mutamenti di obiettivi bellici e di piano opera-
tivo si compiono senza che egli ne venga a conoscenza. Il
lettore nulla sa di ciò che si vuol fare con lui, e non deve
neppure sapere quale sarà il suo ruolo. Non esiste una satira
più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si pote-
va osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è
più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere,
e proprio questo viene percepito come libertà.
L’altro aspetto di questa tardiva libertà è che a ognuno è per-
messo di dire ciò che vuole, ma la stampa è libera di prenderne
conoscenza oppure no. Essa può condannare a morte ogni « veri-
tà » rifiutandosi di comunicarla al mondo: una spaventosa con-
giura del silenzio, tanto più onnipotente quanto più la massa ser-
vile dei lettori di giornale non si accorge affatto della sua presen-
za*. Qui affiora, come sempre durante le doglie del cesari-
smo, un frammento dell’epoca primitiva perduta. Il cielo del
divenire è in procinto di chiudersi. Come nelle costruzioni di
cemento armato e di acciaio ricompare ancora una volta la
volontà espressiva del primo gotico — ora però fredda, domi-
nata, civilizzata — così qui la ferrea volontà di potenza della
chiesa gotica sopra gli spiriti si annuncia nella forma della
«libertà della democrazia ». L’età del « libro» è compresa tra
la predica gotica e il giornale moderno. I libri sono un’espres-
sione personale; la predica e il giornale obbediscono a uno
scopo impersonale. Nella storia universale gli anni della Scola-
stica offrono l’unico esempio di una disciplina spirituale in gra-
do di impedire in tutti i paesi la comparsa di scritti, di discor-
si, di pensieri che contraddicono l’unità voluta. Tutto ciò è
dinamica spirituale. Gli uomini antichi, indiani, cinesi avrebbe-
ro guardato inorriditi a tale spettacolo. Ma proprio questo ritor-
na come risultato recessario del liberalismo europeo-america-
no, quale l’intese Robespierre: « il dispotismo della libertà con-
tro la tirannide ». Al posto dei roghi subentra il grande silen-
zio. La dittatura dei capi-partito si appoggia sulla dittatura
della stampa. Mediante il denaro si cerca di sottrarre schiere
di lettori e popoli interi all'influenza nemica, portandoli nella
propria sfera di idee. Qui essi vengono a conoscere soltanto ciò
a. Al confronto i grandi roghi di libri dei Cinesi sono cosa innocua.
792 OSWALD SPENGLER
che devono sapere, e una volontà superiore plasma l’immagine
del loro mondo. Non occorre più obbligare i sudditi al servi-
zio militare, come facevano i principi dell’età barocca. Con arti-
coli, telegrammi, immagini — Northcliffe! — se ne fustigano
gli spiriti, finché essi stessi richiedono le armi e costringono i
loro capi a una lotta a cui questi volevano essere costretti.
Questa è la fine della democrazia. Se nel mondo delle veri-
tà la dimostrazione è l'elemento decisivo, nel mondo dei fatti
lo è il successo. Successo vuol dire il trionfo di una corrente
dell’esistenza sopra le altre. La vita ha affermato i suoi diritti;
i sogni dei riformatori sono diventati strumenti di nature do-
minatrici. Nella tarda democrazia la razza irrompe asservendo
gli ideali oppure gettandoli con scherno nel baratro. Così è
avvenuto nella Tebe egizia, a Roma, in Cina; ma in nessun’al-
tra civiltà in declino la volontà di potenza assume una forma
tanto inesorabile. Il pensiero, e quindi anche l’agire della mas-
sa, viene tenuto sotto una pressione ferrea. Per questo motivo,
e soltanto per questo, si è lettori ed elettori, sotto una doppia
schiavitù, mentre i partiti diventano seguiti obbedienti di po-
chi, sui quali il cesarismo getta ormai la sua prima ombra.
Come la monarchia inglese del secolo x1x, così i parlamenti
del secolo xx diventano a poco a poco spettacoli solenni ma
vuoti. Come là scettri e corone, così qui i diritti popolari vengo-
no presentati alla massa con un grande cerimoniale e rispettati
tanto più scrupolosamente quanto minore è la loro importan-
za. Questo è il motivo per cui l’astuto Augusto non ha mai
perduto occasione di celebrare le usanze avite della libertà ro-
mana. Ma già oggi il potere si trasferisce dai parlamenti nei
circoli privati, e le elezioni si riducono inarrestabilmente a una
commedia, per noi come per Roma. Il denaro ne organizza il
corso nell’interesse di coloro che lo posseggono* e l’azione
a. Qui risiede il mistero del perché tutti i partiti radicali — e quindi
poveri — diventano necessariamente gli strumenti delle potenze finan-
ziarie, a Roma degli equites, e oggi della borsa. Teoricamente essi
attaccano il capitale, ma in pratica attaccano non già la borsa bensì,
nell'interesse di questa, la tradizione. All'epoca dei Gracchi le cose
andavano né più né meno di oggi, e lo stesso vale per tutti i paesi. La
metà dei capi delle masse, e con loro l’intero partito, può essere compe-
rata con denaro, uffici, partecipazioni ad affari.
OSWALD SPENGLER 793
elettorale diventa un gioco convenuto in precedenza, inscenato
sotto forma di auto-determinazione popolare. Se originariamen-
te un’elezione era una rivoluzione in forme legittime, questa
forma si è esaurita e, quando la politica del denaro diventa
insopportabile, si «elegge » nuovamente il proprio destino con
i mezzi primitivi della violenza sanguinaria.
La democrazia annienta se stessa con il denaro, dopo che il
denaro ha annientato lo spirito. Ma proprio perché sono svani-
ti tutti i sogni di migliorare la realtà mediante le idee di uno Ze-
none” o di un Marx, e si è imparato che nel regno della realtà
una volontà di potenza può essere piegata soltanto da un'altra
volontà — questa è la grande esperienza dell’epoca degli stati
in lotta — sorge alla fine una profonda nostalgia per tutto ciò
che ancora vive delle vecchie e nobili tradizioni. Si è stanchi
fino al disgusto dell'economia monetaria. Si spera in una libera-
zione da qualsiasi parte venga, in una nota genuina di onore e
di cavalleria, di nobiltà interiore, di rinuncia e di senso del
dovere. Viene allora il tempo in cui le potenze del sangue
ricche di forma si ridestano nel profondo, dopo essere state
cacciate dal razionalismo delle grandi città. Tutto ciò che si è
conservato per il futuro della tradizione dinastica e dell’antica
nobiltà, tutto ciò che si è conservato del costume superiore che
si mantiene al di sopra del denaro, tutto ciò che è in sé abba-
stanza forte per essere — secondo il detto di Federico il Gran-
de — servitore dello stato in un lavoro duro, pieno di rinunce,
scrupoloso, anche nel possesso del potere illimitato, tutto ciò
che ho designato come socialismo in contrapposizione al capita-
lismo® — tutto ciò diventa all'improvviso il punto di raccolta
di immense forze vitali. Il cesarismo cresce sul terreno della
democrazia, ma le sue radici affondano nel substrato del san-
gue e della tradizione. L’antico Cesare deve il suo potere al
tribunato, ma la sua dignità e quindi anche la sua durata la
possiede in quanto princeps. Anche qui si ridesta l’anima del
a. Cfr. O. SrencLER, Preussentum und Sozialismus, Miinchen, 1919,
PP. 41-42.
25. Zenone di Cizio (336-264 a. C.), fondatore della scuola stoica, autore di nu-
merosi scritti pervenutici in forma frammentaria.
794 OSWALD SPENGLER
gotico primitivo: lo spirito degli ordini cavallereschi supera lo
spirito vichingo avido di bottino. Per quanto i futuri detentori
del potere possano dominare il mondo come possesso privato,
essendo ormai irrimediabilmente caduta la grande forma politi-
ca della cultura, questa potenza priva di forma e di limiti
contiene tuttavia un compito: quello di un’instancabile cura
per questo mondo, che costituisce l’opposto degli interessi pro-
pri dell’età del dominio del denaro e che richiede un elevato
sentimento dell’onore e un'alta coscienza del dovere. Ma pro-
prio per questo si scatena ora la lotta finale tra democrazia e
cesarismo, tra le potenze dominanti di un'economia monetaria
dittatoriale e la volontà ordinatrice puramente politica dei Cesa-
ri. Per intendere questa lotta finale tra economia e politica,
in cui la politica riconguista il suo regno, occorre uno sguardo
alla fisiognomica della storia economica.
ERNST TROELTSCH
NOTA BIOGRAFICA
Ernst Troeltsch nacque a Hauenstetten, presso Augusta, il 17 febbraio
1865. Dal 1883 al 1888 frequentò le università di Erlangen, di Goòttin-
gen e di Berlino, dedicandosi soprattutto — sotto la guida di Albrecht
Ritschl e di Paul Lagarde — agli studi teologici. Conseguì il dottorato
nel 1888, con la dissertazione Geschichte und Metaphysik (Gòttingen,
1888). Dopo esser stato per breve tempo pastore luterano a Monaco,
ottiene nel 1891 l’abilitazione a Géttingen, con il volume Vernunft und
Offenbarung bei Johann Gerhard und Melanchton (Géòttingen, 1891).
Nel 1892 inizia la carriera accademica a Bonn, e nel 1894 viene chiama-
to a coprire la cattedra di teologia sistematica all’Università di Heidel-
berg, dove rimarrà per oltre vent'anni, impegnandosi anche nella vita
politica e sedendo per due legislature alla camera alta del Baden.
I primi scritti di Troeltsch mostrano chiaramente il prevalere degli
interessi religiosi e teologici, i quali si incontrano e si scontrano,
talvolta in maniera drammatica, con la consapevolezza della storicità
della vita religiosa. Fin dall'inizio egli prende posizione nei confronti
della concezione idealistica della religione, denunciando il carattere fitti-
zio della «conciliazione » da essa operata tra il processo storico e
l’assolutezza della fede religiosa. Nel saggio Die christliche Weltan-
schauung und ihre Gegenstromungen (1894) egli respinge insieme l'idea-
lismo e il positivismo, a causa della loro incapacità di intendere la vita
religiosa e di dare una giustificazione filosofica dell'autonomia della
religione. Al centro del pensiero di Troeltsch si colloca, in questo
periodo, il problema del rapporto tra storia e religione, concepiti come
termini antitetici: da una parte la coscienza storica ci mostra il condizio-
namento di ogni forma di vita religiosa e la sua appartenenza a un
processo di sviluppo, dall'altra la religione avanza una pretesa di va-
lidità assoluta. Quest'antitesi viene illustrata nei successivi scritti del
periodo di Hcidelberg, da Die Selbstindigkeit der Religion (1895) a
Christentum und Religionsgeschichte (1897) e a Uber historische und
dogmatische Methode in der Theologie (1898), da Die wissenschafiliche
Lage und ihre Anforderungen an die Theologie (Tibingen, 1900) ai
Grundprobleme der Ethik (1902; tr. it. Napoli, 1974) e al volume Die
Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (Tiibingen,
798 ERNST TROELTSCH
1902, 19127, 1929; tr. it. Napoli, 1968). L’urto della coscienza storica
mette in crisi non soltanto la fede religiosa, ma anche la teologia: da un
lato la religione cristiana ha perduto la sua fondazione soprannaturale,
dall'altro lo sforzo di darne una giustificazione teologica non può più
prescindere dalla coscienza storica. Questa giustificazione viene cercata
da Troeltsch considerando il Cristianesimo non come la religione assolu-
ta, ma come la religione più alta, cioè come quella in cui si realizza
non già il possesso, bensì il grado maggiore di partecipazione alla verità.
Muovendo da questa prospettiva Troeltsch interviene — con il saggio
Was heisst « Wesen des Christentums »? (1903; tr. it. Napoli, 1974) —
nel dibattito suscitato dalla pubblicazione dell’opera di Adolph von Har-
nack, e successivamente prende parte alla discussione sul modernismo.
Negli scritti posteriori, dal volume Psychologie und Erkenntnistheorie
in der Religionswissenschaft (Tibingen, 1905, 19227) al saggio Wesen
der Religion und der Religionswissenschaft (1909), il problema della
religione e della sua validità viene ricondotto al quadro di un’impostazio-
ne neocriticistica, modificata però attraverso l'assunzione di un fonda-
mento 4 priori autonomo della vita religiosa che viene individuato in
un complesso di valori irriducibili a quelli conoscitivi o etici o estetici.
La ricerca delle condizioni di possibilità della religione mette così capo
alla determinazione della sua autonomia nei confronti degli altri campi
dell’attività umana.
In questo stesso periodo, a contatto con Max Weber, Troeltsch ha
sviluppato il proprio interesse per la religione anche sul terreno storiogra-
fico, studiando le relazioni tra il Cristianesimo e lo sviluppo politico ed
economico della società europea. Il punto di partenza della sua analisi è
la Riforma protestante, considerata nel suo distacco dal Cristianesimo
medievale e nel suo rapporto con il processo di formazione del mondo
moderno. Nel saggio Protestantisches Christentum und Kirche in der
Neuzeit (Leipzig-Berlin, 1906, 1922°) e nel volume Die Bedeutung des
Protestantismus fiir die Entstehung der modernen Welt (1906, poi Miin-
chen, 19112, 1924}; tr. it. Venezia, 1929) egli prende in esame le
differenze di orientamento che caratterizzano la religione protestante e la
cultura moderna; in seguito la sua attenzione si estende, investendo tutto
il processo storico del Cristianesimo, con particolare riguardo alle origi-
ni della fede cristiana e alla figura di Cristo come termine di riferimen-
to dello sviluppo ulteriore — indagata nel volume Die Bedeutung der
Geschichtlichkeit Jesu fiir den Glauben (Tibingen, 1911) — o all’opera di
Agostino — studiata in Augustin, die christliche Antike und das Mittel-
alter (Minchen, 1915; tr. it. Napoli, 1970). Ma il contributo storico di
maggior rilievo fornito da Troeltsch è l'ampia analisi delle dottrine
politico-sociali cristiane, condotta in Die Soziallehren der christlichen
Kirchen und Gruppen (Tiùbingen, 1912; tr. it. Firenze, 1941-60). In
ERNST TROELTSCH 799
quest'opera — la quale raccoglie una serie di saggi apparsi dapprima
nell'« Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik » —- Troeltsch si
propone di studiare le dottrine che, dal Cristianesimo primitivo alla
Riforma protestante, caratterizzano sotto il profilo sociale lo sviluppo
della religione cristiana, ponendo in luce il rapporto di condizionamento
reciproco che in tal modo si instaura tra la vita religiosa e la vita
economica che la religione intende regolamentare, ma dalla quale viene
nel medesimo tempo influenzata. Troeltsch si accosta alle indagini webe-
riane sulla sociologia della religione, riconoscendo l'appartenenza del
Cristianesimo al processo di sviluppo di una data civiltà e la dipendenza
delle sue dottrine dalla struttura sociale che questa è venuta creando.
Ma, a differenza di Weber, egli fa valere il postulato dell'autonomia
della vita religiosa, avanzando l'esigenza di delimitare l'ambito storico
proprio della religione. Come risulta anche dal saggio Religion, Wirt-
schaft und Gesellschaft (1913), che enuncia i presupposti metodologici di
questa impostazione, il condizionamento reciproco tra religione e vita
economico-sociale viene a configurarsi come l’incontro di serie causali
indipendenti — una delle quali è appunto la serie dei fenomeni religiosi.
Nel 1915 Troeltsch lascia Heidelberg, chiamato all’Università di
Berlino a insegnarvi filosofia. Il mutamento di cattedra rispecchia il
mutamento di interessi che si determina, in questi ultimi anni, nel
pensiero di Troeltsch, e che lo spinge ad affrontare in termini generali
il problema dello storicismo. Fin dal 1904, del resto, egli aveva espresso
la sua adesione di massima alla posizione di Rickert nel saggio Moder-
ne Geschichtsphilosophie (tr. it. Napoli, 1974). Ritornando sui problemi
della storia e della conoscenza storica a distanza di circa un decennio,
in una serie di saggi che hanno inizio nel 1916 (e che saranno poi
raccolti col titolo Der Historismus und seine Probleme, Tiibingen,
1922), Troeltsch sottolinea le conseguenze relativistiche dello storicismo,
e quindi la crisi del pensiero storico che esso esprime. Lo storicismo,
inteso come relativismo storico, riduce i valori a prodotto storico e porta
quindi all’« anarchia dei valori ». Contro questo pericolo egli si richiama
alla teoria dei valori, e in particolare a Rickert, rivendicando il rappor-
to di ogni momento del processo storico con valori assoluti, capaci di
dare un senso alla successione degli eventi. Ma questo rapporto non
comporta — come per Rickert — una trascendenza metastorica dei
valori, bensì la loro immanenza a ogni oggetto storico, considerato nella
sua individualità. Il punto di arrivo di Troeltsch è quindi il significato
romantico di individualità, recuperato attraverso il riferimento alla nozio-
ne leibniziana di monade. Questa impostazione viene in parte ripresa nei
saggi postumi Der Historismus und seine Uberwindung (Berlin, 1924),
nei quali è riaffermata l’esigenza della restaurazione di un sistema di
800 ERNST TROELTSCH
valori, da compiersi attraverso il richiamo a una determinata tradizione
culturale.
Il dopoguerra vede Troeltsch intensamente impegnato nella vita pub-
blica, come deputato al parlamento prussiano e come sotto-segretario
(dal 1919 al 1921) per gli affari evangelici presso il Ministero dell'educa-
zione. Egli partecipa alla fondazione del partito democratico, e nel 1920
difende la costituzione della repubblica di Weimar in una serie di lettere
pubblicate sulla rivista « Der Kunstwart» (e poi raccolte col titolo di
Spektator-Briefe, Tùbingen, 1924). Muore a Berlino il 1° febbraio 1923.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Le opere di Troeltsch sono state raccolte, anche se soltanto parzial-
mente, nelle Gesammelte Schriften, edite dalla casa editrice Mohr in
quattro volumi, dal 1912 al 1925: dopo la guerra la Scientia Verlag di
Aalen ne ha dato una ristampa anastatica, apparsa tra il 1961 e il 1966.
Il primo volume (apparso nel 1912, e ristampato nel 1965) contiene Die
Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen; il secondo (apparso
nel 1913, e ristampato nel 1962) raccoglie, sotto il titolo Zur religiòsen
Lage, Religionsphilosophie und Ethik, numerosi saggi di argomento
religioso e storico-religioso, tra cui Die theologische und religiòse Lage
der Gegenwart, Die Kirche im Leben der Gegenwart, Religion und
Kirche, Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenstrimungen,
Christentum und Religionsgeschichte, Was heisst « Wesen des Christen-
tums »?, Wesen der Religion und der Religionswissenschaft, Grundpro-
bleme der Ethik, Moderne Geschichtsphilosophie, Uber historische und
dogmatische Methode in der Theologie; il terzo (apparso nel 1922, e
ristampato nel 1961) racchiude Der Historismus und seine Probleme; il
quarto (apparso nel 1925, e ristampato nel 1966) comprende, sotto il
titolo Aufsitze zur Geistesgeschichte und Religionssoziologie, diversi
saggi di storia religiosa e intellettuale, tra cui Religion, Wirtschaft und
Gesellschaft, Epochen und Typen der Sozialphilosophie des Christen-
tums, Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Natur-
recht, Das Verhdltnis des Protestantismus zur Kultur, Luther, der Prote-
stantismus und die moderne Welt, Renaissance und Reformation, Das
Wesen des modernen Geistes, nonché numerose recensioni a libri di
argomento analogo.
Rimangono al di fuori di questa raccolta diversi volumi e saggi, i
più importanti dei quali sono stati menzionati nella nota biografica. Ad
essi occorre aggiungere le lezioni sulla G/aubenslehre, Miinchen-Leip-
zig, 1925, e la raccolta di saggi Deutscher Geist und Westeuropa (a
cura di H. Baron), Tibingen, 1925. In epoca recente sono stati ristampa-
ti i seguenti volumi: Die Absolutheit des Christentums und die Reli-
gionsgeschichte, Minchen, 1960; Augustin, die christliche Antike und
das Miztelalter, Aalen, 1963; Der Historismus und seine Uberwindung,
51. STORICISMO TEDESCO.
802 ERNST TROELTSCH
Aalen, 1966; Spektator-Briefe, Aalen, 1966; Deutscher Geist und Westeu-
ropa, Aalen, 1966.
Dell’ampia letteratura critica concernente l'opera e il pensiero di
Troeltsch segnaliamo gli studi seguenti:
E. Vermelt, La pensée religieuse de Troeltsch, Strasbourg-Paris, 1922.
A. Passerin d’EnTrÈèvEs, Il concetto del diritto naturale cristiano e la sua
storia secondo E. Troeltsch, « Atti della R. Accademia delle Scienze
di Torino », LXI, 1925-26, pp. 664-704.
O. Hintze, Troelisch und die Probleme des Historismus, « Historische
Zeitschrift», CXXXV, 1927, pp. 188-239, ora raccolto nel volume
Soziologie und Geschichte (a cura di G. Oestreich), Gòttingen, 1964 7,
PP. 323-73.
H. Liesricn, Die historische Wahrheit bei Ernst Troeltsch, Giessen, 1937.
W. BracHmann, Ernst Troeltschs historische Weltanschauung, Halle, 1940.
D. Frerssero, Das Problem der historischen Objektivitàt in der Geschichts-
philosophie von Ernst Troeltsch, Emsdetten, 1940.
W. Koncer, Ernst Troeltsch, Tibingen, 1941.
J. J. ScHaar, Geschichte und Begriff (Eine kritische Studie zur Geschichts-
methodologie von Ernst Troeltsch und Max Weber), Tiubingen, 1946.
E. Fiuino, Geschichte als Offenbarung (Studien zur Frage Historismus
und Glaube von Herder bis Troeltsch), Berlin, 1956, cap. 1v.
W. Bopenstein, Neige des Historismus: Ernst Troeltschs Entwicklungs-
gang, Giitersloh, 1959.
H. G. DrescHer, Das Problem der Geschichte bei Ernst Troeltsch, « Zeit-
schrift fir Theologie und Kirche », LVII, 1960, pp. 186-230.
A. WAIsMann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce,
Buenos Aires, 1960, parte II.
I. E. ALserca, Gewinnung theologischer Normen aus der Geschichte der
Religion bei E. Troeltsch, Miinchen, 1961.
W. F. KascH, Die Sozialphilosophie von Ernst Troeltsch, Tiibingen, 1963.
E. Lessinc, Die Geschichtsphilosphie Ernst Troeltschs, Hamburg-Berg-
stedt, 1965.
B. A. Rest, Toward a Theology of Involvement: the Thought of E.
Troeltsch, Philadelphia, 1965.
ERNST TROELTSCH 803
M. WincgeLHaus, Kirchengeschichte und Soziologie im neunzehnten ]ahr-
hundert und bei Ernst Troeltsch, Heidelberg, 1965, capp. ir.
G. von ScHLIppe, Die Absolutheit des Christentums bei Ernst Troeltsch
auf dem Hintergrund der Denkfelder des 19. Jahrhunderts, Neustadt
a.d. Aish, 1966.
H. Henrno, Max Weber und Ernst Troeltsch als Geschichtsdenker,
« Kantstudien », LIX, 1968, pp. 410-34.
L'elenco completo degli scritti di Troeltsch si trova nelle Gesammelte
Schriften cit., vol. IV, pp. 863-72. Manca invece una bibliografia aggior-
nata degli scritti su Troeltsch: si vedano però le indicazioni contenute nei
volumi sopra menzionati di I. E. ALserca e di E. Lessinc, nonché nella
traduzione de L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni
(a cura di A. Caracciolo), pp. LXI-LXIv.
CRISTIANESIMO E STORIA DELLA RELIGIONE*
Il carattere più generale della situazione religiosa — che
può essere riconosciuto da ognuno e che si impone a ognuno —
consiste in una decomposizione della religione ecclesiastica la
quale, nonostante il dominio esterno che all’occasione incide
assai profondamente, si è seriamente allentata nelle sue struttu-
re interne e non riesce più a dominare la vita interna degli
ambienti che spingono spiritualmente in avanti. La misura di
devozione soggettiva e di bisogno religioso non è oggi presumi-
bilmente molto inferiore a un tempo. Sono soltanto caduti i
mezzi di coercizione esterna e il generale attaccamento alla
chiesa che suscitavano, nelle epoche di forte dominio esteriore
delle chiese e di rigorosa subordinazione della scienza alla teolo-
gia, la parvenza di una fede diffusa. Là dove prima c’era
semplicemente una sottomissione indifferente o una fede consue-
tudinaria priva di sentimento, troviamo oggi un’antitesi aperta
e una consapevole emancipazione, oppure la medesima fede
consuetudinaria in teorie anti-religiose oppure la stessa indiffe-
renza, soltanto diventata dominante e che si ritiene interessante
o progredita. La differenza importante consiste piuttosto nella
scossa subìta dalla fede anche presso i credenti e coloro che
vogliono credere, nella lotta risolutiva delle nuove grandi cono-
scenze e dei nuovi metodi scientifici contro i concetti fondamen-
tali e i metodi espositivi della fede cristiana così come si
era fin allora presentata. Certamente, questi effetti sconcertanti
* Christentum und Religionsgeschichte, « Preussische Jahrbicher », LXXXVII, 1897,
PP. 415-447, raccolto in Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von 1.C.B. Mohr,
vol. II, 1913, pp. 328-363 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
806 ERNST TROELTSCH
non procedono soltanto dalla scienza, ma procedono in egual
misura dalle reazioni etiche, e più spesso anti-etiche, contro la
morale qual è stata finora, dall’impulso precipitoso di una felici-
tà indirizzata in senso puramente intra-mondano e all’interno
della quale manca alla fede la risonanza corroborante nella
coscienza complessiva e in una tradizione avita universalmente
venerata. Ma, ciononostante, in tutti gli spiriti gravi € pro-
fondi le conseguenze della scienza costituiscono i motivi autenti-
ci di questa situazione precaria, almeno per quanto riguarda il
Protestantesimo. Da quando nell’età illuministica si è creata
una fondazione completamente nuova del pensiero scientifico, e
quindi una nuova forma di cultura europea, il Protestantesimo
ha concluso con la scienza — in parte per un’intima concordan-
za, in parte a causa della sua minore chiusura ecclesiastica —
un’alleanza indissolubile, che lo ha legato ad essa in una lotta
perpetuamente oscillante, dove talora prevale l’influenza della
scienza moderna, talora quella della tradizione. Il Cattolicesi-
mo ha invece, dopo alcuni imbarazzi transitori, annientato la
scienza moderna all’interno del suo ambito di potere e — poi-
ché anch'esso doveva naturalmente concludere un compromesso
con il mondo moderno — lo ha fatto non già con la scienza,
ma con le correnti politiche, giuridiche e sociali dell’età moder-
na, con le potenze del suffragio universale; e a condizione di
ottenere un franco riconoscimento della sua esistenza, concede
ai dotti una posizione privata molto differenziata nei confronti
delle sue dottrine. Il suo destino dipende in primo luogo dallo
sviluppo delle conseguenze che farà scaturire la politica che
esso ha impostato nel corso del nostro secolo. Il destino del
Protestantesimo, invece, dipende in primo luogo dallo sviluppo
degli effetti che sono derivati e che derivano tuttora dall’allean-
za contratta con la scienza nel secolo xvi. Non si deve però
dimenticare che oggi l’interesse per la situazione religiosa non
si esaurisce affatto nell'interesse per il destino di queste due
confessioni. Anche se ha preso prevalentemente le mosse dal
Protestantesimo, e se è possibile solamente in base a questo,
si è tuttavia venuto formando un ambito più ampio di persone
le quali — estranee alle chiese piuttosto che irreligiose — inda-
gano oggettivamente la questione religiosa nel suo rapporto
con i problemi scientifici e cercano di districare e, per quan-
ERNST TROELTSCH 807
to è possibile, di chiarire la situazione. Anche chi, come me, è
fermamente convinto che un risanamento delle condizioni reli-
giose sia in definitiva possibile soltanto muovendo dal terreno
delle comunità religiose, deve tuttavia ammettere che al presen-
te il centro di gravità di tutte le trattazioni concernenti la
religione risiede in questo gruppo di persone, e non nella teolo-
gia corporativa. Chi vuole ottenere chiarezza sulla situazione,
deve cominciare l'indagine di qui. Le pagine seguenti devono
illuminare la situazione, appunto nel senso di una considerazio-
ne nient’affatto corporativa, per un aspetto la cui importanza
diventerà ogni anno più chiara.
Il fondamento della scossa critica non è la nuova speculazio-
ne sorta con l’Illuminismo, la quale poneva al posto della filo-
sofia ecclesiastica costruita con elementi neoplatonici, aristote-
lici e biblici una nuova metafisica che assumeva in modo auto-
nomo la tradizione antica ponendo al tempo stesso le premesse
di una metafisica la quale preparava la moderna scienza della
natura e della storia. Speculazione e teologia sono affini per
natura. Entrambe scaturiscono dall’impulso della natura umana
verso l’infinito e il soprasensibile, che l’una cerca di cogliere
scientificamente e l’altra religiosamente. Laddove c’è un genera-
le senso speculativo, si comprende anche ciò che vuole la tcolo-
gia; e dove nell’uomo è presente un forte bisogno religioso, vi
è anche l'impulso più forte alla speculazione. Per quanto possa-
no divergere nei risultati — e ciò particolarmente a partire
dall’Illuminismo, dove la speculazione assunse elementi del tut-
to nuovi, sconosciuti all’antichità e alla Bibbia — essi si ritrova-
no sempre e si rafforzano a vicenda. L’Illuminismo si è impo-
sto con una nuova speculazione proprio perché, in base alla
tradizione precedente, l'interesse religioso agiva come elemento
dominante; e proprio perché la speculazione e la teologia sono
affini nonostante qualsiasi antitesi, esso è pervenuto a soluzioni
pacifiche e di compromesso, che a molti tra gli uomini migliori
del secolo xviti apparvero una soluzione durevole del problema
posto dall’epoca e l’inizio di un periodo magnifico. L'epoca di
Schleiermacher e di Hegel parve approfondire questa soluzione
pacifica, e porla su una base di principio. Il frutto principale
della nuova speculazione, la formulazione in termini di imma-
nenza metafisica del rapporto tra Dio e il mondo e la diffusio-
808 ERNST TROELTSCH
ne etica del contenuto spirituale sull’ambito complessivo della
vita intra-mondana, sembrava debitore della sua essenza a in-
fluenze cristiane, oltre che antiche, e suscettibile di essere age-
volmente assimilato dal principio cristiano. Pareva così aprirsi
un luminoso campo di nuove indagini teologiche e filosofi-
che, a cui — come indicano le biografie di quel tempo —
prendevano parte attiva uomini di ogni professione.
Questa pace e questo interesse sono scomparsi da tempo, in
parte perché la chiesa e la religione popolare non volevano accet-
tare un compromesso del genere, che incideva assai profonda-
mente, preferendo isolarsi dalla vita scientifica, ma in parte, e so-
prattutto, perché la speculazione fu sconfitta dalla crescita auto-
noma degli elementi che all’inizio aveva saputo subordinare a sé
e tenere al proprio servizio. Le due nuove creazioni dell’Illumini-
smo, la scienza matematico-meccanica della natura e la scienza
critico-comparativa della storia, si svincolarono e conobbero
una diffusione straordinaria, che assorbiva ogni attività e ogni
interesse. La speculazione precedente non era più in grado di
affermarsi nei loro confronti. La conseguenza di ciò fu che —
nella cultura respinta dall’ortodossia rinnovata — insieme alla
speculazione andò perduto anche il senso del soprasensibile vis-
suto e insegnato dalla religione, e un pensiero educato in modo
completamente empiristico non seppe più avvicinarsi a quei
problemi. Ma ancora più importante fu l’altra conseguenza,
che ognuna delle due scienze suscitava un’enorme trasformazio-
ne dell'immagine del mondo e della storia, la quale sembrava
dover distruggere passo a passo i concetti religiosi di Dio e
dell'anima, e nello stesso tempo minava i fondamenti storici su
cui aveva poggiato la precedente intuizione che il Cristianesimo
aveva di se stesso. La lotta così scoppiata è molto più violenta e
pericolosa di quella con la speculazione nemica, ma pur sempre
affine: si tratta di una lotta con una conoscenza e una concezio-
ne dei fatti differente, che penetra in tutti i campi della vita.
La discussione richiesta da questa situazione fa tutt'uno con
esse. La speculazione compare soltanto in secondo piano.
Delle due nuove scienze, la scienza della natura sembra a
molti l'avversario autentico; essi si rallegrano o si dolgono dei
trionfi che fanno arretrare ogni giorno di più la fede. Il
tentativo di generalizzare e di trasferire conoscenze e metodi
ERNST TROELTSCH 809
che hanno dimostrato nel loro campo una straordinaria capaci-
tà di prestazione costituisce però una delle illusioni maggiori
tra quelle che di solito accompagnano i successi inattesi. Non
c'è dubbio che la legalità autonoma e la regolarità del processo
naturale, poste in luce dalla scienza della natura, hanno reso
impossibili le vecchie rappresentazioni antropomorfiche dell’a-
zione divina. Ma queste rappresentazioni sono già state scosse
da altri motivi, e in parte proprio da motivi religiosi, e posso-
no ritrarsi dinanzi a una concezione approfondita del concetto
di Dio. Nello stesso tempo i tentativi di sottomettere la vita
spirituale alle leggi naturali hanno mostrato soltanto che essa
possiede una sua propria legalità e un suo proprio modo di
agire, del tutto differente e nient’affatto coincidente con quello
della natura. Certamente, anche la scienza della natura ha raf-
forzato l'impressione che la natura proceda insensibile soltanto
in base alle proprie leggi, senza curarsi affatto della vita spiri-
tuale, dei suoi scopi e dei suoi beni, e che sembri capricciosa-
mente talora prepararla e favorirla, talora però anche annientar-
la brutalmente. Ma questa impressione è antichissima, e pro-
prio in essa la nostalgia religiosa si compiace soprattutto di
mettere radici nel fondamento più profondo della vita spiritua-
le per non rimanere soffocata da quei grandi enigmi e per
diventare libera nei riguardi della semplice natura. Del resto,
ogni indagine seria ha mostrato che, per quanto tutte le connes-
sioni possano essere concepite come puramente meccaniche, per
quanto si escluda ogni derivazione e deviazione in vista di
particolari scopi arbitrari, nelle forme di questa connessione
agiscono tuttavia idee organizzatrici; che, almeno nella vita
organica, il caso meccanico non spiega nulla; che ogni spiega-
zione fondata su leggi naturali concerne soltanto l’elemento di
regolarità generale tratto dall'esperienza, ma non l’esperienza
stessa nella sua realtà concreta. Ciò che il mondo reale offre è,
in verità, un dualismo di elementi razionali e forniti di valore
da un lato, di elementi irrazionali e puramente fattuali dall’al-
tro. Le leggi generali e i contenuti forniti di senso si compene-
trano. Le prime ricoprono ogni realtà con la rete orientativa
delle loro lince direttrici, i secondi stanno nelle maglie di
questa rete. Che uno di questi due aspetti sia parvenza, oppure
che uno soltanto sia veramente dominante, è cosa impossibile
810 ERNST TROELTSCH
da dimostrare: decidere in un senso o nell’altro è, e rimane
sempre, una questione di fede. Che però la fede secondo cui la
natura e la materia sono tutto, e che da esse deriva tutto il
resto, sia impossibile da sostenere, lo mostra l’effettiva autono-
mia del mondo spirituale. Questa soltanto è la questione che
dobbiamo porre alla scienza della natura — se il mondo spiritua-
le, con il suo dover essere e i suoi valori culturali, sia qualcosa
di autonomo e fornito di una propria forza rispetto alla natura;
per il resto possiamo lasciare che essa percorra tranquillamente
il suo cammino, il quale resta precluso a chiunque si occupa di
scienza dello spirito. La risposta di tutti gli studiosi realmente
importanti è affermativa, anche se diverse sono le intuizioni
più precise in merito a tale rapporto. Per la ricerca naturale, i
problemi particolari confluiscono nelle questioni relative al rap-
porto tra cervello e anima e alla presenza di idee teleologiche
oganizzatrici nello sviluppo della natura, che mostrano una
natura al servizio — almeno in generale — degli scopi dello
spirito. Entrambi i problemi possono essere risolti soltanto da
scienziati e filosofi uniti; essi sono ancora oggi, come tutti
sanno, straordinariamente dibattuti. Ma lo storico e l’indagato-
re della vita spirituale non ha bisogno di attendere queste solu-
zioni. Per lui è un punto fermo non soltanto ciò che costituisce
al presente un patrimonio comune nei confronti di ogni tipo di
materialismo, cioè il fatto che lo spirito è una forza autonoma
inderivabile dalla natura, ma anche il principio più importante
che questa potenza autonoma non manifesta la sua forza specifi-
ca in un adattamento formale alla natura, ma contiene piutto-
sto di per sé anche contenuti spirituali, disposizioni e impulsi
autonomi, dai quali sorge, in un'azione reciproca con le esigen-
ze della realtà sensibile, il ricco mondo della storia. Nel suo
campo l'autonomia, la legalità autonoma e la forza creativa —
meno familiari allo studioso della natura — dello sviluppo spiri-
tuale nella religione, nella morale e nella cultura si presentano
così chiaramente che egli può applicarsi a questo campo consi-
derandolo almeno relativamente autonomo, e trattare i suoi
problemi come problemi del mondo spirituale.
In questo nostro campo d’indagine risiede però anche il
vero e proprio centro di gravità della questione religiosa. Poi-
ché la religione è un elemento costitutivo della vita storica, le
ERNST TROELTSCH 811
questioni principali che la riguardano si collocano in campo
storico. La scienza storica moderna, che si estende a epoche e
a regioni prima sconosciute, ha anche posto la fede cristiana di
fronte a problemi del tutto nuovi; e il sorgere di una storia
comparativa delle religioni l’ha scossa profondamente alla ba-
se. Fino al secolo xviri la teologia, e la scienza in generale,
conosceva soltanto — con eccezioni scarse e prive di influenza
— il presupposto rigorosamente soprannaturale del mondo cri-
stiano, cosicché il Cristianesimo riposava su una rivelazione
comunemente ritenuta soprannaturale e legittimata da miracoli
che interrompevano il corso della natura. Il pensiero scienti-
fico si estendeva soltanto alla sua interpretazione, non alla sua
realtà di fatto. Di fenomeni concorrenti, non cristiani, si cono-
scevano soltanto la mitologia greco-romana e l’Islam. La prima
veniva però considerata come la corruzione peccaminosa di
residui di una conoscenza risalente all’Eden, e il secondo come
un’eresia del Cristianesimo. I suoi miracoli erano, come quelli
dell’eretico, scimmiottamenti del demonio. Al contrario, la cre-
denza in dio della filosofia greca non comportava alcuna con-
correnza alla rivelazione cristiana, ma rappresentava il frutto
del « pensiero naturale », il prodotto normale e canonico del
lumen naturale, che costituiva nei confronti della rivelazione
un’analogia e un grado preliminare più o meno amichevolmen-
te apprezzato, di cui non si poteva fare a meno per la definizio-
ne € l’esposizione del contenuto della rivelazione. Questo mon-
do angusto e ristretto, dai presupposti storici semplici ed eviden-
ti, fu distrutto dal secolo xvi. Certamente, furono in primo
luogo la moderna scienza della natura e la metafisica moderna
a porre in questione il miracolo e il soprannaturale, ma ben
presto questo effetto derivò in misura sempre crescente dalla
ricerca storica. Accanto al Cristianesimo, all’antichità e all’I-
slam si collocavano le altre grandi religioni del mondo antico
con le loro analoghe dottrine teologiche; e, al di fuori del
mondo cristiano, uno sterminato mondo « pagano» si apriva
nelle parti della terra recentemente dischiuse al commercio e
descritte da resoconti di viaggi molto ammirati. Ne venivano
così posti doppiamente in dubbio gli analoghi miracoli ed ele-
menti soprannaturali della storia ebraica e cristiana, e la prete-
sa unicità della Chiesa. Voltaire e Montesquieu amavano proce-
812 ERNST TROELTSCH
dere mediante questi paralleli tra religione cristiana e religione
pagana. L'applicazione dei nuovi metodi pragmatici e critici,
approntati dal deismo ed energicamente approfonditi dai teolo-
gi tedeschi del secolo xvi, si mostrava possibile anche per la
storia del Cristianesimo, e distruggeva sia la finzione cattolica
secondo cui la chiesa sarebbe la semplice prosecuzione del
Cristianesimo primitivo, sia la finzione protestante secondo cui
la Riforma ne costituirebbe la restaurazione. Tutte le imposta-
zioni della precedente visione confessionale della storia furono
negate c sostituite da una nuova impostazione, che inseriva la
storia della rivelazione e della chiesa nel generale pragmatismo
storico. Ciò che il secolo xvilt aveva cominciato a fare ancor
sempre esitante, cercando in ogni cosa un’immutabile verità di
ragione e onorando in tutte le religioni, ma particolarmente
nel Cristianesimo, la « religione naturale », fu proseguito dal
secolo xIxX con crescente successo e con una smisurata estensio-
ne. Esso ha dissolto la vita dell'umanità in una corrente ininter-
rotta di divenire storico, di trasformazioni continue, mostrando-
ne il frammento a noi accessibile nel suo movimento interno, e
per le parti a noi ignote — che si collocano prima e dopo tale
frammento — dispiegando agli occhi della fantasia l’immagine
di trasformazione senza fine. Ma esso ha soprattutto fornito sia
ai singoli campi sia alla considerazione complessiva della sto-
ria metodi storico-filologici concreti — e in luogo del metodo
pragmatico quello genetico, che poggia sul presupposto di uno
sviluppo continuativo e omogeneo della vita spirituale, indaga
le leggi di formazione della tradizione presso i popoli antichi
€ proprio qui mostra come, muovendo da queste tradizioni le
quali offuscano ogni sviluppo e ogni condizionamento naturale,
si possa chiaramente ricostruire il corso reale delle cose. In
quella corrente impetuosa anche le religioni piccole e grandi —
alle quali si aggiungeva con l’inizio del secolo anche la religio-
ne indiana appena scoperta, insieme alle varie religioni ad essa
imparentate — apparvero nient'altro che onde che si alzano e
si abbassano, infinitamente diverse e senza quiete. Infatti dal
nuovo metodo filologico scaturì naturalmente anche un’indagi-
ne del tutto nuova delle religioni antiche. E le « antichità reli-
giose » nella loro stretta connessione con il diritto, la politica,
l'articolazione della società, l’arte e la scienza dei popoli anti-
ERNST TROELTSCH 813
chi, costituiscono il corpo principale della tradizione. Miti e
tradizioni, culti e leggi religiose vengono sempre più riconosciu-
ti nella loro connessione naturale con la vita complessiva. Di
qui scaturirono, alla fine, le indagini degli etnologi e degli
antropologi sui popoli « senza storia », le quali hanno mostrato
la presenza presso di questi di un gran numero di tratti molto
prossimi alle tracce più antiche dello sviluppo culturale e reli-
gioso dei popoli civili e gettato nuova luce sui loro inizi. Dalla
cooperazione tra scienza dell’antichità, filologia orientale ed et-
nologia è così sorta una nuova grande disciplina, la storia delle
religioni, che è certamente elaborata in modo ancora molto
incompleto e diseguale, ma da cui provengono già ora, diretta-
mente o indirettamente, gli effetti più forti. I suoi metodi
sono profondamente penetrati nell’analisi della religione israeli-
tica e cristiana. Nessuno poteva più mettere in dubbio la sua
splendida influenza nel campo profano ed extra-cristiano; non
appena la si applicò a fondo alla totalità della tradizione cristia-
na, si vide che questa chiave, capace di aprire tutte le porte, si
adattava anche qui alla serratura. La storia del Cristianesimo è
così stata inserita irrevocabilmente nella storia generale della
religione, per quanto si cercasse di nuovo di sottrarlo ad essa
nei punti più importanti. D'altra parte, anche l’indagine di
principio sull’essenza e sulla verità delle conoscenze religiose
aveva bisogno di abbracciare con lo sguardo la molteplicità
storica delle religioni. Lo spirito del pensiero moderno, orienta-
to in senso storico, ha costretto in ogni campo filosofi e teologi
a considerazioni storiche, soppiantando il vecchio e più elemen-
tare procedimento, puramente logico-speculativo. In tal modo
il cerchio della considerazione storica religiosa si è chiuso da
tutte le parti intorno al Cristianesimo.
Gli effetti di tutto ciò sono evidenti; ma essi sono più impor-
tanti di quel che si è in un primo tempo supposto e di quel che
ancora oggi spesso si suppone. La conoscenza prossima fu che
tutti gli elementi soprannaturali, e in particolare le relazioni
causali asserite dal pensiero giudaico-cristiano, sono scomparsi
dalla concezione della storia del Cristianesimo, e che questa
storia è stata studiata secondo l’analogia con altre tradizioni,
mantenendo in pieno l’importanza che prima rivestiva. In tale
maniera il Cristianesimo ha però perduto la fondazione sopran-
814 ERNST TROELTSCH
naturale che lo distingueva da tutte le altre religioni; la sua
storia primitiva era solo più la fonte, non più la sua prova. I
suoi fondamenti storici, che avevano avuto un’importanza deci-
siva per la sua precedente concezione di se stesso, hanno comin-
ciato a vacillare, e ciò ha trasformato tutta la sua essenza. In
tale maniera, però, era minacciata non soltanto la sua sopranna-
turalità, ma anche — come presto è risultato — la sua singolari-
tà e il suo valore esclusivo di verità. Esso diventava solamente
una delle grandi religioni universali accanto all'Islam e al Bud-
dismo, una religione che, al pari di queste, si è sviluppata
attraverso una lunga preistoria e che ha raccolto l'eredità di
formazioni storiche di larga portata. Dov'è rimasta allora la
sua verità esclusiva o anche soltanto la sua posizione di privile-
gio, dov'è rimasta soprattutto la fede nella sua rivelazione esclu-
siva e unica? La questione dell’autenticità dell’anello diventava
ancora più grave di quanto era stata per la religione razionale
di Lessing. Ma la conseguenza va ancora più in là. Non soltan-
to la validità e la verità del Cristianesimo, ma anche quella
della religione in generale come campo autonomo e particolare
della vita viene trascinata via da questo vortice della molteplici-
tà storica. Come può esserci comunque una verità nella fede
religiosa, la quale si manifesta in mille forme diverse, chiara-
mente dipendenti dalla situazione e dalle circostanze, e si ripor-
ta a rivelazioni che si presentano tutte come infallibili e univer-
salmente valide, o almeno come un'opera soprannaturale imme-
diatamente procedente dalla divinità, e che al tempo stesso si
contraddicono completamente? Come può esserci ancora una
religione nell’infinita molteplicità e nelle profonde differenze
delle religioni, se la religione deve significare in verità una
comunità con la divinità? Non si dovrebbe almeno dire, con le
note parole di Schiller:
«Quale religione riconosco? Nessuna di tutte
quelle che mi nomini. — E perché? per religione »'?
Oppure con le parole di Goethe, che certamente non esprimo-
no tutta la sua autentica intuizione al riguardo:
« Chi possiede scienza ed arte
ha anche la religione;
1. ScuitLer, Epigramme, Mein Glaube (1797).
ERNST TROELTSCH 815
chi non ha né Vl’una né l’altra
s'abbia la religione »??
Si tratta di una storia di follia e di superstizione, nel miglio-
re dei casi del rozzo precedente e del surrogato popolare della
filosofia e dell’arte, scaturito esclusivamente dal pensiero e dal-
l’errore umano, non dell’opera della divinità — per lo meno
non più e non diversamente di quanto lo sia qualsiasi altro
evento — dal momento che la divinità non può mettersi in
dissenso con se stessa. Ma con ciò le questioni riprendono da
capo: perché allora queste innumerevoli vie traverse delle reli-
gioni per giungere alla verità della filosofia e dell’arte? perché
la necessità di un surrogato popolare? donde viene l’enigmatica
autonomia e la forza propria delle religioni, che ora si accorda-
no con l’arte e la scienza ispirandole alle più alte imprese, ora
le annientano nel loro fiorire e ne prendono il posto? donde
viene il caratteristico contenuto interno di relazioni coerci-
tive e viventi con la divinità, che non può essere vissuto al-
trove e che la scienza e l’arte possono soltanto trarre dalla
religione ?
Qui stanno infatti i problemi veri e propri per chi ha visto
che la scienza naturale non può decidere nulla in merito alla
possibilità o impossibilità della religione, o può decidere soltan-
to le questioni preliminari più generali. Essi costituiscono an-
che la base più profonda della crisi attuale, sebbene la cultura
media continui ad attribuire questo progresso o questa sfortuna
— secondo il punto di vista — solamente alla scienza della
natura. Come la scepsi, che invade oggi tutti i campi, ha il
suo fondamento principale nel relativismo prodotto dal diffon-
dersi degli studi storici, così ha qui la sua radice, ora più con-
sapevolmente, ora più inconsapevolmente, anche la posizione
contraddittoria della nostra migliore cultura nei confronti della
religione, che oscilla avanti e indietro tra un mezzo riconosci-
mento e una mezza contestazione, riconoscendo in qualche
modo la verità e la necessità di un fenomeno storico così potente
e tuttavia non impegnandosi seriamente con nessuna delle sue
forme concrete.
2. GoetHE, Xenien, 9.
816 ERNST TROELTSCH
Ma le grandi crisi storiche guariscono spesso — come Ja
lancia di Odino — le ferite che hanno inferto. Come la moder-
na scienza della natura costringeva, proprio in virtù della sua
coerente elaborazione, a indagini gnoseologiche sulla causalità
e sulla sostanza, conducendo perciò al superamento del suo
carattere materialistico e naturalistico, così anche la nuova scien-
za storica ha costretto a cercare con maggiore profondità di
prima le forze propulsive e unitarie della storia. Se 1’Illumini-
smo, ancora sottoposto all’influenza del soprannaturalismo, ave-
va riposto il contenuto della storia in una verità di ragione
sempre eguale, rigida, spiegando a partire da essa tutte le devia-
zioni e tutti i mutamenti in base a motivi puramente soggetti
vi, la nostra intuizione della storia procedeva all'indietro —
sotto l’influenza delle nuove idee poetiche di Lessing, Herder,
Goethe — dai variopinti e molteplici fenomeni esterni alle
tendenze spirituali di fondo della natura umana che stanno alla
loro base e che sono in essi soltanto incorporate, e insegnava
poi a riconoscere di nuovo queste tendenze nella loro interna
connessione come il dispiegarsi della ragione umana complessi
va, che nel corso dello sviluppo dispiega il proprio contenuto
spirituale — come un grande individuo — attraverso la succes-
sione delle generazioni. In tal modo è stata fondata la grande
intuizione moderna della storia, che costituisce il presupposto
nuovo di ogni scienza dello spirito: essa racchiude ancora in sé
gravi problemi, ma si è già dimostrata estremamente feconda.
Da essa è sorta anche una nuova intuizione della religione e
del suo sviluppo storico. Anche nella religione si è pervenuti,
muovendo da forme fenomeniche infinitamente diverse, a un
nucleo interno, sempre presente e almeno formalmente identi-
co, agli Er/ebnisse interni della coscienza, che si cristallizzano
e si ramificano a formare quelle forme fenomeniche soltanto in
virtù della cooperazione di varie condizioni esterne. Era questo
Erlebnis fondamentale ciò che occorreva comprendere e analiz-
zare. In base alle rivelazioni originarie e acquisite di questo
Erlebnis si doveva comprendere la formazione dei gruppi di
religioni; e nel sorgere di gruppi di religioni sempre più gran-
di e comprensivi si doveva riconoscere il dispiegarsi dell’idea
religiosa. C'erano naturalmente vie molto differenti per proce-
dere a quest’analisi, e numerosi sono stati gli errori. Il presup-
ERNST TROELTSCH 817
posto di un’indagine di questo tipo è naturalmente la conoscen-
za approfondita della storia empirica delle religioni, ma di
tale conoscenza si può finora parlare solo parzialmente. Nel
complesso questa è la strada che si accorda con la tendenza del
pensiero scientifico, e che ha già condotto a molte conoscenze
fornite di valore. Dobbiamo soltanto imparare a considerare la
religione con occhio sempre più amorevole, sempre più libero
da presupposti dottrinali, razionalistici e sistematizzanti, e a
studiarla in modo sempre più penetrante proprio nei suoi carat-
teristici e appariscenti fenomeni e personalità specificamente
religiosi, anziché nell'uomo comune. Allora ci si disvela — co-
me il nucleo più profondo della storia religiosa dell'umanità
— un Erlebnis non suscettibile di essere ulteriormente analizza-
to, un fenomeno originario ultimo che, al pari del giudizio
etico e dell’intuizione estetica, rappresenta un fatto ultimo e
semplice della vita psichica, ma che è caratteristicamente diver-
so da entrambi. Noi riconosciamo leggi particolari — proprie
di questo campo della vita — nella formazione di idee e di
norme, nella produzione di simboli e di azioni religiose, nell’al-
largamento, nella crescita e nell’elaborazione, nella contrapposi-
zione e nella lotta con forze estranee o antitetiche; nell’aliena-
zione e nell’approfondimento, nell’intreccio con altri sistemi di
vita e della concentrazione che ne viene di nuovo fuori, nella
formazione della tradizione e della comunità nonché nella pro-
duzione originale che continua sempre a sussistere accanto a
queste, nel rapporto degli spiriti produttivi con i fedeli ad essi
subordinati. In tutte queste formazioni diversissime vive pur
sempre una realtà fondamentale unitaria, ossia la religione, il
contatto indeducibile, puramente fattuale, sempre nuovamente
vissuto, con la divinità. Si può passare da una religione all’al-
tra: anche le religioni tra loro più opposte possono comprende-
re, con qualche attenzione, il linguaggio religioso l'una dell’al-
tra. Si tratta sempre della stessa realtà, che viene colta in diver-
si gradi e da diversi lati. Ma questa unità non è l’unità rigida
della religione naturale — come aveva ritenuto la concezione
della storia del secolo xvi — e non si basa sull’accordo tra ope-
razioni intellettuali coscienti; essa è invece fondata su una comu-
ne tendenza di movimento dello spirito umano, la quale spinge
avanti in direzioni diverse e si compie attraverso il movimento
52. STORICISMO TEDESCO.
818 ERNST TROELTSCH
dello spirito divino che opera misteriosamente nella profondità
inconscia dello spirito umano unitario. Incapace di raggiungere
il suo fine nel breve tratto della vita individuale, questo movi-
mento si compie attraverso il lavoro in comune di innumerevo-
li generazioni che, afferrate e condotte dall’agire divino, si
affidano ad esso vivendone sempre più riccamente e profonda-
mente l’intimo contenuto. Questo movimento è uno sviluppo
perturbato in vario modo, ma che in tutte le perturbazioni si
riprende sempre di nuovo, reca a realizzazione il contenuto
posto come possibilità e come nucleo nel sistema religioso di
vita, mostra i diversi gruppi di religioni nella loro relazione
reciproca e nella loro graduale successione, e nel corso stesso
della storia porta alla luce — con la contrapposizione di diverse
religioni — il criterio della loro valutazione. In tal modo si
innalza davanti ai nostri occhi, anziché il caos, un cosmo di
religioni, a proposito del quale non si deve dimenticare che qui
la successione di gradi indica non soltanto una serie temporale,
ma anche una contemporaneità. Questo cosmo è stato spesso
considerato un gioco che presenta in sfumature quanto mai
variopinte e ricche la realtà fondamentale comune, oppure co-
me una cooperazione di diverse verità parziali che costitui-
scono la bella totalità. Ma questa considerazione estetica, che
faceva della storia delle religioni uno spettacolo ricco e bello
per la divinità, contraddice sia il vero senso dell’idea di svilup-
po sia l’essenza reale delle religioni. L'idea di sviluppo, tratta
attraverso diverse idee mediatrici dai fenomeni spirituali del
movimento di un fine unitario, si spinge fino al conseguimento
di questo scopo finale a cui sempre si tende e che sempre
agisce; e le grandi religioni tanto meno si arrestano in sé
quanto più hanno compreso il loro fine, ma anzi tendono con
passione spesso struggente verso la verità totale e intera. Soltan-
to dove l’idea di sviluppo viene mantenuta nel suo senso pieno,
essa non opera in modo snervante e distruttivo; e soltanto dove
le religioni sono animate da questa passione, esse hanno una
vitalità intima che le spinge in avanti. Perciò occorre in ultima
analisi, e soprattutto, rintracciare il fine o almeno la tendenza
al fine della storia delle religioni, la quale non può trovare il
suo termine nei sistemi della scienza e dell’arte ad essa prossi-
mi oppure in un concetto astratto di religione elaborato in base
ERNST TROELTSCH 819
alla varietà delle religioni, ma soltanto in una religiosità concre-
ta, particolarmente profonda e potente, particolarmente forte e
coniata in forma pura. Essa deve contenere i momenti di verità
delle altre o potersene appropriare, e deve in ogni caso incorpo-
rare in modo vivente l’idea centrale che emerge dal loro svilup-
po. In quale misura essa sia configurata unitariamente e in
quale misura possa penetrare universalmente, nessun postulato
può stabilirlo 4 priori. Si tratta soltanto di un postulato che
deriva dallo stesso sviluppo religioso, in modo tale da fornire
una tendenza al fine e da fare sì che essa si renda riconoscibile,
almeno come avviamento e come tendenza verso il futuro.
Il vecchio metodo della teologia soprannaturalistica ne risul-
ta pertanto capovolto. Essa muoveva dal presupposto, assunto
come ovvio, che il Cristianesimo costituisce — a causa del suo
carattere soprannaturale — l’unica verità, e si curava soltanto
di porre le altre poche religioni conosciute in un rapporto
tollerabile con questa religione soprannaturale, ed essa sola ve-
ra. La sua filosofia della storia collegava immediatamente il
Cristianesimo, inteso come restaurazione soprannaturale, al per-
fetto e semplice inizio dell’umanità; la molteplicità delle altre
religioni non era che un prodotto dell’offuscamento successivo
al peccato, e i loro elementi di verità erano residui dell’antica
perfezione dello stato originario. Il Cristianesimo era non sol-
tanto la suprema e più profonda redenzione, ma l’unica reden-
zione operata immediatamente da Dio, mentre tutte le altre
religioni nascevano esclusivamente dal pensiero e dall’errore
umano, e la loro fede di redenzione doveva essere stata soltanto
auto-redenzione in base a una forza naturale. La ricerca storica
moderna costringe a percorrere il cammino inverso. Essa mo-
stra che questo soprannaturalismo e questa forma di fondazio-
ne costituiscono un modo, comune a tutte le religioni superio-
ri, di esprimere la loro convinzione della propria verità. Essa
distrugge l’idea di un semplice inizio soprannaturale dell’uma-
nità, e mostra anche presso i devoti dell’Indo e delle montagne
persiane la forza profondissima e vivissima della fede redentri-
ce e della comunanza immediata con Dio. Essa percorre in tal
modo la via dall’universale al particolare, dall'indagine della
religione come contatto particolare con la divinità, che ha luo-
go ovunque, all’indagine dei particolari ambiti concreti di reli-
820 ERNST TROELTSCH
gione. Cercando di coglierli nel loro rapporto interno, in una
prospettiva storico-evolutiva, essa va alla ricerca del prodotto
supremo di questa storia, guidata dalla convinzione — certamen-
te indimostrabile, e che rappresenta essa stessa una fede etico-re-
ligiosa — che la storia non è un gioco di varianti senza fine,
bensì il dispiegarsi del contenuto più profondo e unitario dello
spirito umano. Ai suoi occhi la storia della religione è una
storia di Dio con gli uomini, una storia della redenzione che
eleva l’umanità e l’uomo singolo al di sopra del legame con la
mera natura sensibile, con il bisogno e con l’aspirazione pura-
mente naturale, fino alla comunità con Dio e alla libertà dello
spirito sul mondo e sulla mera, ottusa fattualità dell’esistenza.
In quanto la storia della religione raggiunge in questo modo, o
meglio realizza, la verità — in grado diverso secondo la situa-
zione e le condizioni — vincolando l’uomo con il fondamento
più profondo della sua esistenza e con l’insieme dei suoi beni
spirituali, ne è nata la convinzione che in essa, e in essa soltan-
to, si raggiunge un reale progresso della storia e che essa può
credere, del tutto diversamente dalla storia degli altri campi
della vita, nel conseguimento di uno scopo definitivo e sempli-
ce. Mentre la morale, il diritto, la cultura, la scienza e l’arte si
riferiscono a una situazione mondana sempre mutevole e sono
perciò sempre costrette a comportare nuovi impercettibili adat-
tamenti, innumerevoli dissoluzioni e nuove formazioni, la reli-
gione ha invece a che fare con il fondamento eterno, sempre
identico a se stesso, della vita. Penetrandolo sempre più profon-
damente, essa può ritenere possibile raggiungere quella misura
di verità e di unificazione interna che è in generale concessa al-
l’uomo sulla terra — certamente sempre intrecciata, in relazioni
continuamente mutevoli, con la situazione complessiva che si
trasforma, in lotta con le potenze contrapposte dell’inerzia,
del peccato, dell’esteriorizzazione egoistica, e creando, in base
alla verità una volta raggiunta, una sempre nuova e più profon-
da forza vitale, ma pur sempre nella certezza di avere vissuto
ed esperito il nucleo del mondo soprasensibile. Si tratta di un
postulato di cui nessuno, che abbia riconosciuto nella religione
un campo autonomo della vita, può fare a meno. Certamente,
a questo punto si aprono i problemi ultimi e più profondi, le
questioni fondamentali della storia: perché abbia luogo in gene-
ERNST TROELTSCH 821
rale una storia; perché gli uomini debbano essere tratti fuori e
liberati dalla balia della natura e delle sofferenze da essa a noi
inflitte, dall’inerzia e dall’egoismo, soltanto in virtù della reli-
gione; perché le condizioni di questo processo e i suoi effetti
siano talmente differenti e non si possa parlare di una possibili-
tà identica per tutti di partecipare al suo frutto; perché innume-
revoli generazioni e individui debbano venir consumati in esso,
e pur sempre rimanere differenze di grado; se, e come, tutta
questa diseguaglianza potrà mai essere appianata. Queste sono
le questioni ultime e più profonde che un’epoca fornita del
coraggio della speculazione cercherebbe di illuminare mediante
una speculazione che muova dai fatti della vita interiore, e
nelle quali un’epoca stanca di speculazione come la nostra vene-
ra invece rassegnata i limiti della conoscenza umana; questioni
a cui risponde in modo oscuro e logoro, ma profondo e com-
prensivo, la religione stessa attraverso la dottrina dell’amore
creativo di Dio e della vita dopo la morte, dell’auto-redenzione
di Dio nell’elevazione dei regni degli spiriti finiti alla comunità
con lui.
Non sono quindi queste questioni ultime a dover essere
ancora indagate se si deve risolvere il problema posto dalla
considerazione storico-religiosa. E neppure può trattarsi di ga-
rantire l'assunzione fondamentale qui presupposta — cioè che
la religione è un campo di vita autonomo, un contatto interio-
re con la divinità — contro le obiezioni che dalla pienezza
delle particolarità storiche traggono l’occasione per una spiega-
zione di tipo illusionistico la quale deriva la religione, intesa
come prodotto secondario, da altri fatti fondamentali. Ogni
D
spiegazione del genere naufraga sempre dinanzi al fatto che la
religione non può essere derivata dal pensiero causale o dall’im-
pulso filosofico, e neppure dalla fantasia e dal bisogno di felici-
tà: ciò risulta particolarmente chiaro nelle più eminenti perso-
nalità religiose, in cui opera ancora la forza completa dell’ispi-
razione e la religione non si è ancora risolta in teologia, in
etica o in culto, ma anche ogni fedele può constatarlo in se
stesso, nella sua propria esperienza. Egli segue una coercizione
che lo trascende, una tendenza verso qualcosa che non trae
origine dal mondo delle esperienze sensibili e dai bisogni sensi
bili, ma che doveva già essere contenuto nel sentimento prima
822 ERNST TROELTSCH
di poter essere manifestato o postulato. Per una spiegazione
realmente di tipo illusionistico resterebbe soltanto l’ipotesi —
che è stata anche tentata e che da molti punti di vista sarebbe
ancora la più accettabile — che si richiama a una follia conta-
giosa, ad allucinazioni di visionari invasati, le quali poi si
sarebbero trasmesse, in forma più debole, ai comuni fedeli
mantenendo sempre un’enigmatica forza di contagio. Su un'ipo-
tesi siffatta non si può naturalmente discutere: essa significa
soltanto il riconoscimento del fatto che nella religione siamo
sempre di fronte al fenomeno fondamentale ultimo — non
ulteriormente risolubile, che rimane sempre enigmatico e in-
commensurabile — della vita spirituale, e che in esso è presen-
te un proprio autonomo principio di sviluppo condizionato sì
dal resto della vita, ma non esclusivamente prodotto da essa. Si
può quindi restare fermi, in generale, all’intuizione fondamen-
tale già ricordata, ossia alla filosofia della storia di Hegel, di
Schleiermacher e di Humboldt, che riconosce nella religione un
fenomeno universale della vita spirituale e applica alla sua sto-
ria l’idea di sviluppo, che può condurre soltanto a uno studio
sempre più realistico e impregiudicato dei fenomeni specifica-
mente religiosi e che dev'essere liberata dalla connessione trop-
po stretta — e ancora dominante — della religione con intuizio-
ni complessive di carattere metafisico ed estetico. Le questioni
che scaturiscono da tale concezione sono piuttosto quelle che si
riferiscono, in modo particolare, al rapporto della molteplicità
e relatività storica con l’unità ultima e con la propria verità,
postulato della fede religiosa. E proprio per gli storici che si
immergono nella pienezza della realtà sorgono sempre di nuo-
vo certi problemi: come si possa, da questo punto di partenza,
Spiegare o piuttosto sostenere, in rapporto a quella tendenza
all’assoluto, l'effettiva diversità delle concezioni religiose fonda-
mentali, la diversità di intensità e di purezza, la debolezza di
vita religiosa che caratterizza talvolta interi periodi e interi
popoli. L’altra questione, che tocca in maniera ancora più im-
mediata l’interesse generale, è se realmente una delle religioni
concrete oppure — dal momento che esso rappresenta la gran-
de religione storica dell'ambito di cultura europeo-america-
no, € può praticamente costituire per noi il culmine dello svi-
luppo religioso, collocandosi sicuramente, per interiorità e atti-
ERNST TROELTSCH 823
vità religiosa, al di sopra del Giudaismo, dell'Islam, del Buddi-
smo e del Bramanesimo — se il Cristianesimo possa essere real-
mente considerato il punto di convergenza della vita religio
sa e il fondamento di ogni sviluppo ulteriore.
Per rispondere alla prima questione occorre riflettere che il
concetto di religione è rimasto, con quanto si è detto, ancora
assai indeterminato e incompiuto. La storia della religione mo-
stra piuttosto chiaramente, per quanto è possibile, che la religio-
ne non può essere un’azione di Dio sul sentimento, chiusa
internamente in sé a ogni altra realtà, immediata e sempre ripro-
ducentesi in modo spontaneo. Che essa sia questo, lo afferma
ovunque soltanto la teoria della mistica, cioè di quel particola-
re risultato di complicati sviluppi storico-religiosi che compare
ogni volta che si è smarriti dinanzi alle singole forme concrete
della fede in Dio e si ritorna a un'azione ineffabile e sempre
eguale di Dio sull’anima, oppure quando, rifuggendo paurosa-
mente da ogni esteriorità e da ogni mediazione, si aspira a
una comunanza il più possibile interiore e immediata con Dio.
Il vuoto e l’auto-limitazione priva di rapporti comunitari di
questa devozione, la concentrazione artificiosa che si punisce
con l’irritazione e la spossatezza, il distacco dal mondo mostra-
no fin dall’inizio quanto poco si tratti di fenomeni normali.
Una teoria del genere passa anzi sopra fatti di importanza
fondamentale. Quell’influenza divina non si compie cioè in
ogni uomo in maniera nuova e autonoma, e in modo puramen-
te interiore come se fosse una specie di magia dell'anima, ma si
compie attraverso mediazioni di vario genere. L'impressione
religiosa o — per impiegare un’immagine tratta dalla psicolo-
gia empirica — lo stimolo religioso scaturisce sempre soltanto
da avvenimenti e da esperienze vissute di tipo esterno e inter-
no, nella natura e nella storia, nella coscienza e nel cuore. Per
la grande maggioranza degli uomini l’elemento mediatore del-
lo stimolo religioso è la tradizione religiosa, accanto alla quale
stimoli religiosi indipendenti rivestono un'importanza solita-
mente più ristretta. L’enigma proprio dello sviluppo religioso
individuale consiste nel vedere come da tradizioni non compre-
se, dapprima estranee e interpretate in modo infantile, sorga
gradualmente la devozione autonoma, interiore e personale, la
quale è cosciente, almeno nei punti più alti, della sua comunan-
824 ERNST TROELTSCH
za interiore e della sua relazione reciproca con la vita divina.
Se ci si riferisce però all’origine di questi ambiti di tradizione
— talvolta racchiusi l’uno nell’altro © incrociantisi tra di loro
— ci si imbatte, dove è possibile risalire fino agli inizi di una
religione, in personalità straordinariamente originali che, legate
meno strettamente alla mediazione della tradizione, ricevono
dai grandi avvenimenti della natura o della storia, dai destini
della vita individuale o dai processi della loro vita interiore lo
stimolo a nuove grandi intuizioni, attraendo le altre sotto la
potenza della loro devozione e della loro personalità. Quanto
più queste concezioni fondamentali, che compaiono in modo
puramente fattuale e non possono venir derivate da altre, sono
profonde e personali, e collegate con avvenimenti grandi e
importanti, tanto più esse si presentano come nuclei di grandi
contenuti di vita, come princìpi che si dispiegano nel lavoro di
molte generazioni. I visionari, gli estatici e gli ispirati delle
antiche religioni, i profeti, i riformatori e i santi sono di solito
personalità di questo genere, e la loro caratteristica principale
è un’enorme unilateralità che respinge tutto il resto, e mediante
la quale soltanto essi possono produrre tale effetto. Ma, una
volta dischiusa da essi in questo modo determinato, la comu-
nanza con Dio crea un allargamento e una diffusione straordi-
naria dei rapporti fondamentali così dati. Essa si sviluppa
finché possiede una forza di sviluppo non ancora utilizzata e
finché non viene sopraffatta da impressioni più potenti.
Il fatto che nel campo della religione, come in tutti gli
altri, le disposizioni e le capacità siano diverse, che il con-
tenuto e la portata di un principio religioso possano essere
sviluppati soltanto mediante il lavoro di appropriazione di mol-
te generazioni, che l’esperienza religiosa scaturisca da elementi
diversi di una realtà infinitamente varia, e che in tale maniera
l’unica verità sia colta diversamente in differenti concezioni
fondamentali — tutto ciò è inerente all’enigma stesso della
storia, la quale distribuisce il contenuto della vita spirituale
nel lavoro di miliardi di uomini, e il cui mistero è noto soltan-
to a Dio. Ma tutto ciò non cancella la fede che in questa
molteplicità sia vissuta una verità unitaria. Procedendo dalle
differenze condizionate dal luogo e dal tempo, da particolarità
personali e storico-culturali, dalla mescolanza dei nomi di divi-
ERNST TROELTSCH 825
nità e delle mitologie, da alienazioni e da deformazioni infanti-
li e rozze, o egoistiche e sacrileghe, fino al nucleo unitario,
troviamo sempre una verità molto affine. Osserviamo il grande
terrore dinanzi al mistero di un mondo soprasensibile che si
introduce nel corso della vita quotidiana e che desta l’uomo,
ora spaventandolo ora consolandolo, dal sonno di un'esistenza
puramente intra-mondana; la manifestazione di forze divine
nella natura, da cui scaturisce in definitiva una sensibilità pan-
teistica; l'autorizzazione di norme etiche e giuridiche da parte
della divinità, la quale si rivela come sacra ed esige anzitutto
purezza e verità, dirittura e rigore nell’agire. In particolare,
beni superiori e beatificanti si collocano al di sopra del mondo
sensibile, un elemento permanente ed eterno si eleva sul mutare
del desiderio e del bisogno, e da ciò sorge la fede nella reden-
zione, che nella religione in generale riconosce la redenzione
dal dolore e dalla colpa, dal carcere dell’insoddisfazione eterna-
mente mutevole. Tutte queste cose possono essere viste come
oggettivamente connesse, come impulsi verso una concezione
unitaria; e la questione del perché gli individui prendano
parte in modo così diseguale alla piena verità oggettivamente
connessa non può turbare questa conoscenza, in quanto è una
questione eternamente insolubile sulla terra.
In base al medesimo fatto fondamentale della mediazione di
tutte le spinte religiose si spiegano però, in collegamento con
un secondo fatto fondamentale, anche gli altri fenomeni che
abbiamo menzionato: la diversa intensità e direzione dell’inte-
resse religioso, la debolezza della vita religiosa, che non sem-
pre dipende soltanto da ottusità e da rifiuto nei confronti dell’e-
levazione ideale o da una consapevole opposizione. Non parlere-
mo qui, in quanto si tratta di cose ovvie, di quest’ultimo condi-
zionamento da parte dell’inerzia, dell’egoismo, della rozzezza e
dell’esteriorità, né degli effetti della lotta continua della religio-
ne contro gli impedimenti ad essa opposti dalla volontà. Occor-
re considerare piuttosto altre cose. L'intuizione di Dio non è
isolata in sé, e neppure è un'esperienza vissuta accolta passiva-
mente. Essa è fin dall’inizio rivestita di determinati tratti di
simbolizzazione poetica, e opera mediante riferimenti concreti a
certi campi di fenomeni naturali o etici e con determinati
strumenti di espressione linguistica. Agendo come stimolo sul-
826 ERNST TROELTSCH
l’anima in virtù di questo contenuto concreto, essa suscita im-
mediatamente — al pari di ogni altro stimolo — una quantità
di reazioni, cosicché non può mai liberarsene in tutta la sua
purezza, ma in ogni momento della sua influenza è sempre
indissolubilmente collegata con le più svariate reazioni psichi-
che. La connessione è qui più stretta e ramificata di quanto
non avvenga per qualsiasi altro stimolo, perché l’esperienza
religiosa è l’esperienza dominante, che attrae o respinge ogni
cosa, e perché eccita più di ogni altra il sentimento in tutte le
sue sfumature. Esiste anche un'« appercezione » religiosa in vir-
tù della quale lo stimolo religioso penetra immediatamente nel-
la connessione di tutte le rappresentazioni e di tutti i sentimen-
ti, e ne viene influenzato nella sua direzione, nella sua forza e
nel suo ambito, anche se poi dà a sua volta nuove linee diretti-
ve e nuove intonazioni all’intera struttura. È noto che le natu-
re specificamente religiose intrecciano impetuosamente, nelle
loro idee religiose fondamentali, tutto ciò che è vicino e ciò
che è lontano, oppure respingono tutto quanto si oppone, o che
non si connette immediatamente, come cose del mondo e cure
quotidiane; allo stesso modo coloro che hanno il loro centro di
gravità in altre disposizioni, adattano la religione a interessi
scientifici, etici, estetici, cercando di mediarla con il resto oppu-
re, dove quest’adeguazione risulta impossibile, di respingerla.
Nelle condizioni di quest’appercezione, differente in ogni indi-
viduo, risiede per lo più il motivo delle enormi diversità indivi-
duali all’interno di ogni particolare ambito religioso, delle di-
verse rappresentazioni e sensazioni religiose, della diversa posi-
zione e forza dello stimolo religioso all’interno del contenuto
psichico complessivo, della prevalente dipendenza dalla tradizio-
ne e dal simbolo, della prevalente autonomia e reazione, della
diversa misura di forza trascinante e di appropriazione riflessi-
va. Quanto più sviluppata e più ricca è la vita spirituale, tanto
più intricate e impenetrabili diventano le condizioni di quell’ap-
percezione, e tanto più energicamente la religione richiede quel
raccoglimento e quell’attenzione silenziosa allo stimolo religio-
so, che si chiama devozione e preghiera. Non si deve quindi
dimenticare che gli individui non stanno soli, ma innalzano,
nella più stretta relazione reciproca, certe inclinazioni e certe
tendenze a potenze socialmente dominanti. Così anche dal pun-
ERNST TROELTSCH 827
to di vista religioso vi sono epoche prevalentemente conservatri-
ci ed epoche prevalentemente critiche, in cui ora la tradizione
consolidata nel culto e nella chiesa domina ogni cosa con il
sentimento di una sacralità intangibile, ora un'autonomia criti-
ca suscitata da sconvolgimenti generali della vita spirituale si
ribella mettendo in questione la legittimità e la connessione di
ogni idea. Così può esserci alla fine, dopo violente lotte religio-
se, un periodo di fastidio che si rivolge alle cose del mondo e
di più facile acquisizione; può esserci, sotto l’influenza di gran-
di movimenti materiali, politici e sociali, o sotto l'influenza di
conoscenze scientifiche, una crescente ripugnanza di grandi
masse nei confronti della religione, come dimostrano per esem-
pio la cultura dell’età imperiale romana, la morale confuciana
delle classi superiori della Cina — non areligiosa ma assai
povera dal punto di vista religioso — e le moderne condizioni
della vita europea. In modo analogo si devono intendere anche
le situazioni di debolezza della vita religiosa di alcuni popoli
primitivi, a cui se ne contrappongono altri forniti di un fervore
molto più vivo e relativamente puro. Anche qui ci sorprende di
nuovo, naturalmente, la partecipazione misteriosamente dise-
guale dell'individuo al valore ultimo dell’esistenza e l’inevitabi-
le unilateralità di tutto cid che è umano; ma di per sé la
religione è, e rimane, essenzialmente la stessa. Non abbiamo
nessun motivo di dubitare della sua essenziale unità interna. Si
tratta della medesima verità, che viene raggiunta da diverse
parti e in un diverso rapporto con gli altri elementi della vita
spirituale.
Con ciò siamo di fronte alla seconda questione precedente-
mente accennata: se cioè vi sia un punto di convergenza, un
culmine che emerga in modo visibile, tra queste diverse conce-
zioni parziali della verità o, più precisamente, se il Cristianesi-
mo — che vuole esserlo — possa anche realmente valere come
tale. Il motivo che ci induce a formulare in modo così determi-
nato la questione non è la propensione ad assolutizzare la reli-
gione in cui siamo nati e siamo stati educati, e che sola ci è
completamente familiare, facendone l’essenza della verità in ge-
nerale. Infatti il suo dominio non è più così ovvio e ingenua-
mente immediato che si debba senz'altro sottostare a questo
impulso di universalizzazione. L'ottimismo del sentimento pan-
828 ERNST TROELTSCH
teistico della natura che sempre si sprigiona dall’arte antica e,
dall’altro lato, l'impressione delle religioni pessimistiche e pie-
ne di mistero dell'Oriente agiscono tra di noi in modo abbastan-
za forte da costringerci a una decisione pienamente consapevo-
le. Da questa impostazione viene fuori anche non soltanto il
necessario postulato che la piena verità della religione deve
pur rivelarsi in qualche luogo. In sé e per sé, ciò potrebbe
essere forse riservato solamente a un lontano futuro. Se impo-
stiamo così la questione, il motivo è che soltanto il Cristianesi-
mo nel suo sviluppo ha avanzato in modo sempre più netto e
penetrante questa pretesa. Sorretto dall’autorità del tutto inte-
riore e personale — ma che conteneva in sé un residuo di
incommensurabilità — del suo maestro, esso si rivolge esclusiva-
mente al nucleo interiore dell'individuo, ai bisogni più universa-
li, più profondi e più semplici di quiete e di pace del cuore, a
un senso positivo, ultimo, definitivo dell’esistenza; si rivolge a
ogni individuo senza eccezione, poiché presuppone presente in
ciascuno questo nucleo essenziale ed è sicuro di poter educare
tutti a tali bisogni. Pace dell’anima con Dio, e quindi supera-
mento della sofferenza del mondo e di tutti i dolori della
coscienza, ma anche viva e attiva realizzazione della volontà
divina; il comandamento dell’amore verso i fratelli, che sono
fratelli in virtù del Padre comune: ecco il suo vangelo. Da ciò
scaturisce anche la comunità più salda e comprensiva, in quan-
to esso fa derivare l’origine dell'essere umano dallo spirito divi-
no e lo riconduce al fine della comunità con Dio e con i
fratelli, costringendo ogni credente a collaborare a quella uni-
versalità e al fine della perfezione comune. Esso è quindi l’uni-
ca religione che pretenda una universalità assolutamente incon-
dizionata, l’unica che abbia perciò prodotto dal proprio seno
una filosofia della storia che connetta inizio, metà e fine della
storia dell'umanità, e che in questa storia riconosca una realtà
in sé internamente connessa, irripetibilmente specifica e al servi-
zio di fini incondizionatamente validi. Ma soprattutto si tratta
di una validità universale non asserita solamente in linea di
fatto: essa scaturisce per il suo sentimento dall’intima necessità
dell'essenza di Dio, che creando il mondo deve poi ricondurre
a sé le sue creature traendole dal mondo e dall’errore, dalla
colpa e dallo scoramento. La sua grazia non è arbitrio, e i suoi
ERNST TROELTSCH 829
comandamenti non sono una mera statuizione; l’una e gli altri
emanano dalla sua essenza e si realizzano dall’interno median-
te l’amore per Dio, che per primo ha amato i suoi figli. Qui la
tendenza della religione alla validità universale ha raggiunto
la sua vetta: tutto ciò che è particolare, proprio di un popolo,
condizionato dal mondo, è spazzato via; ogni dipendenza da
una situazione meramente data, sempre incoerente, è superata
dall’universalità di un fine ancora da raggiungere, ma già fon-
dato nella sua determinazione e nella sua essenza.
Certamente, ciò mostra anche l’unilateralità del tipo di vita
determinato in modo prevalentemente religioso. Ma, secondo la
legge — che domina anche la religione — della differenziazio-
ne dell’essenziale, questo non costituisce nulla di sorprendente,
e neppure costituisce un limite. Non si può concepire come
essenza dei gradi supremi un monismo di valori culturali che
non differenzia nulla, ma soltanto una costituzione dello spiri-
to che sviluppi coerentemente le singole tendenze riequilibran-
do le tensioni che ne sono derivate. Proprio in quella unilatera-
lità il Cristianesimo raggiunge la piena interiorità e l’universali-
tà puramente umana. La tensione così determinatasi, e ora più
che mai aperta, nei confronti dei valori culturali intra-monda-
ni dà al tutto il carattere della vita spirituale superiore, si
riunifica sempre di nuovo nel lavoro vivente e consapevole. In
tutte le sue trasformazioni e le sue mescolanze, in tutte le
caricature e gli abomini, in tutte le stagnazioni e gli irrigidi-
menti, il Cristianesimo annunciava tuttavia questa tendenza —
superiore a ogni cosa — verso ciò che è individuale-personale,
verso ciò che è universalmente umano, verso ciò che è totale e
ricco di tensione. Lo conferma anche lo sguardo alle altre
grandi religioni universali, che soltanto possono essere prese in
considerazione accanto al Cristianesimo. L'Islam, il fratello più
giovane scaturito dal Giudaismo insieme con il Cristianesimo,
ha accolto da essi in modo puramente estrinseco questo univer-
salismo, insieme alla forma della rivelazione scritturale e ai
frammenti della sua filosofia della storia. Esso gli inerisce sol-
tanto per l’unità del suo dio e per la semplice intelligibilità dei
suoi pochi e poveri comandamenti morali, ma non discende
dall’intima necessità dell'essenza del suo dio, che anzi è un dio
caratterizzato da un duro e imprevedibile arbitrio. L'Islam rap-
830 ERNST TROELTSCH
presenta una regressione rispetto al Giudaismo e al Cristianesi-
mo, e non ha mai potuto nascondere del tutto il suo carattere
di religione guerriera nazionale araba. Il Buddismo — per
vari aspetti parallelo al Cristianesimo — è fin dall'inizio soltan-
to la religione di un ordine monastico, al quale possono e
devono accostarsi tutti coloro che hanno riconosciuto la nullità
della volontà di vivere, e dal quale scaturisce quindi un vivo
impulso missionario. Ma la sua validità universale è conseguen-
za semplicemente della validità universale di questa conoscen-
za, non già dell’essenza di una divinità che chiami tutti a un
fine comune — al cui posto si presenta qui piuttosto un ordine
impersonale di redenzione. L’ordine degli illuminati presuppo-
ne pur sempre la grande massa degli sprovveduti e dei laici,
che forniscono sostentamento al monaco. La grande maggioran-
za ritorna sempre nel circolo della migrazione delle anime e
costituisce soltanto la massa da cui i sapienti si separano e
della cui carità vivono fin quando scompaiono nel Nirvana
uscendo dal cielo delle anime. Questo processo si ripete senza
fine e senza connessione in periodi cosmici che si susseguono
all'infinito; ma sempre alcuni illuminati si separano dal mondo
della parvenza, e sempre la massa rimane imprigionata in que-
sto stesso mondo della parvenza. Come il mondo non ha nes-
sun fine positivo unitario, così non l’hanno la vita e la devozio-
ne. Si aspira all’ordine e si apprezza la pace della redenzione,
ma nessuna necessità interiore costringe tutta l’umanità a unir-
si in vista di essa. Per quanto l'universalità della religione
possa farsi valere in esso, così come nell’Islam, e per quanto
venga talvolta reclamata, la pretesa dell'uno e dell’altro è —
per estensione di fatto e nella sua fondazione — meno intensa
che quella del Cristianesimo. Questo è l’unica religione che si
riconosce e si afferma incondizionatamente, in virtù della pro-
pria forza religiosa, come verità universalmente valida, e che
perciò consegue di fatto ciò che è insito nella tendenza della
religione in generale. Esso è l’unica religione che, in base al
proprio impulso vitale, ottiene sempre la vittoria sull’inclinazio-
ne all’irrigidimento dogmatico e rituale; l’unica che non si
irrigidisce nella legge, né si fissa, nel concepire l’idea di reden-
zione, semplicemente nella negazione.
Che essa sia veramente conclusiva, e immutabile nella sua
ERNST TROELTSCH 831
essenza per tutto il futuro, non si può certo dimostrare median-
te una semplice costruzione storico-filosofica. Per quanto con-
vinti possiamo essere che nella storia delle religioni ha luogo
un progresso continuativo, il quale poggia sul movimento inter-
no dello spirito divino in quello umano, non possiamo tuttavia
proporre un concetto generale della religione come forza di
questo sviluppo, e presentare il Cristianesimo come il suo neces-
sario compimento. Quel concetto potrebbe essere proposto sulla
base di un’esperienza difettosa ed essere trasformato in modo
sostanziale da sviluppi futuri. Né possiamo indicare nel Cristia-
nesimo la convergenza effettivamente realizzata delle diverse
serie di sviluppo, per quanto possiamo trovarvi la trascendenza
astratta del Giudaismo attenuata mediante l’assunzione degli
inevitabili elementi panteistici del paganesimo, e l’antitesi supe-
rata mediante un'unità superiore. Infatti soltanto ai nostri giorni
si profila l’incontro tra gli abitanti del nostro pianeta, e quindi
una convergenza delle diverse linee di sviluppo. La discussione
e la convergenza del Cristianesimo con le religioni orientali
appartiene ancora al futuro, e accentuerà forse in modo sorpren-
dente nel Cristianesimo aspetti rimasti finora non sviluppati.
Tutte le costruzioni del genere poggiano su un’intuizione della
storia che risulta inevitabile — nella sua idea fondamentale —
per ogni considerazione religiosa e idealistica, ma non sono
sufficienti a fornire una prova. Questa sarebbe forse possibile
soltanto alla fine dei giorni.
L'unico elemento che può essere fatto immediatamente vale-
re a conferma della pretesa del Cristianesimo è la circostanza
che a questa sua singolare pretesa corrisponde anche un'effetti-
va singolarità del suo contenuto e della sua essenza, che si
presenta chiaramente a una ricerca storico-religiosa. D'altra par-
te le religioni costituiscono un'unità che progredisce nel suo
complesso, e si può riconoscere una tendenza generale diretta a
una spiritualizzazione, interiorizzazione, eticizzazione e indivi-
dualizzazione crescente, e quindi — poiché questa è la necessa-
ria conseguenza — al formarsi di una fede sempre più profon-
da nella redenzione: a ciò si è già accennato sopra. In tutte le
grandi religioni ha luogo uno sviluppo caratterizzato in questo
modo. Attraverso la liberazione dai fenomeni naturali esso spiri-
tualizza le divinità, fino al tramonto di tutte le divinità partico-
832 ERNST TROELTSCH
lari in un’essenza divina universale, in cui esse diventano forme
del suo agire; attraverso l’eticizzazione delle singole divinità e
la compenetrazione religiosa della morale esso traduce in forma
etica la divinità, facendone il nucleo e il custode delle leggi
etiche, e subordina la fede negli spiriti alla fede negli dèi in
un’escatologia più o meno influenzata da motivi etici, mentre
le divinità che non si inseriscono in questo processo diventano
dèi locali, demoni e spiriti cattivi. Facendo sì che gli dèi si
rivolgano alla coscienza e alla volontà, anziché semplicemente
all’obbedienza culturale e alla scrupolosità cerimoniale, esso po-
ne la divinità in relazione con l’individuo in quanto tale, non
più soltanto con la famiglia, la stirpe, lo stato e la conclusione
di un'alleanza. Con l’individualizzazione comincia infine a
emergere il carattere universalistico della religione. Ma pro-
prio con questo esso innalza Dio sopra il mondo e sopra la
natura, facendone la fonte originaria più profonda, che si fa
valere al di là di ogni finitudine e di ogni confusione, e con la
divinità solleva al tempo stesso l’uomo dalla frammentarietà,
dalla dispersione e dall’inquietudine del finito, così come dalla
colpa e dal destino della vita terrena. Secondo la quantità di
forza che fin dall’inizio ha posto nella concezione fondamenta-
le, questo processo va più o meno avanti: qui si arresta prima,
là più tardi. Ma anche dove le religioni pervengono a una
completa altezza e maturità, dove sboccano nella mistica e
nella fede nella redenzione, il limite inerente al fatto di essere
sorte dall’adorazione della natura non viene per lo più supera-
to. Esse conservano le tracce della loro origine particolaristi-
ca e naturalistica, capovolgendosi in speculazioni sacerdotali
fantastiche, in una filosofia monistica, in una mistica acosmisti-
ca o — com'è il caso del Buddismo — in una metodica scettica
della redenzione. L’eticizzazione già conseguita sprofonda di
nuovo nell’abisso del panteismo, e la religione popolare decade
in culti orgiastici o in una rigogliosa superstizione sincreti-
stica, che la riporta all'antico politeismo. Soltanto «ra reli-
gione ha rotto completamente l’incanto della religione naturale
e si presenta, in quanto tale, in forma singolare: la religione
di Israele e il Cristianesimo. Davanti all'imminente decadenza
del suo popolo, la religione di Israele si è sostanzialmente svin-
colata dai suoi fondamenti particolaristici e naturalistici, colle-
ERNST TROELTSCH 833
gando la fede in Jahvè con la purezza del cuore e con la
certezza di una chiarificazione risolutiva del corso della vita
terrena alla fine dei giorni. Da questo nucleo è venuto fuori,
nella persona di Gesù, il Cristianesimo, che, pur sentendo Dio
più prossimo ai singoli cuori e immediatamente operante nel
mondo, è però impedito da questo fondamento di ricadere nel
panteismo e nella mistica di una compiuta religione della natu-
ra e che, pur donando al cuore la beatitudine e la quiete in
Dio, si aspetta tuttavia nella certezza della transitorietà dell’esi-
stenza sensibile un mondo superiore ed esclude quindi un im-
mergersi puramente immanente in Dio. In quanto esso libera
non soltanto dalla sofferenza della finitudine e dalla pressione
della natura, ma soprattutto dall’ostinazione e dalla pusillanimità
del cuore umano, dalla debolezza e dalla coscienza della colpa, in
quanto con questa liberazione del cuore e con la certezza di
una comunità con Dio che supera il tempo conferisce forza per
agire e amare sulla terra, il Cristianesimo rappresenta una reli-
gione della redenzione di ordine superiore che sovrasta in egual
misura sia il pessimismo buddistico sia la mistica neoplatonica
— i due prodotti estremi della devozione extra-cristiana. In
virtù di questa rottura di principio con ogni specie di religione
della natura, esso porta a compimento — unico tra tutte le
religioni — la tendenza alla redenzione, nello stesso modo in
cui ha recato a compimento, in connessione con questa, la
tendenza a una validità universale puramente interiore.
In virtù di questa specificità di fatto, di questo accordo
intimo tra esigenza ed essenza, noi riconosciamo nel profetismo
e nel Cristianesimo il culmine, o meglio un nuovo punto di
partenza nella storia della religione — il sorgere del sole dopo
l'aurora, non conclusione e fine che porta alla quiete, ma inizio
di un nuovo giorno con nuovo lavoro e nuove lotte. Vi sono
ancora molti lati oscuri da chiarire, occorre ancora conoscere
con maggiore purezza la sua luce propria. Un lavoro stermina-
to sta ancora di fronte ad esso, e dalla sua forza interna risulte-
rà, nel contatto con la mutevole situazione del mondo e con le
altre religioni, un'ulteriore crescita della religione, certamente
non costruibile 4 priori. Il fatto stesso che ne sia capace, che
possieda questa capacità di costante ringiovanimento e adatta-
mento, costituisce appunto un'ulteriore conseguenza della sua
53. STORICISMO TEDESCO.
834 ERNST TROELTSCH
particolarità. In quanto religione dello spirito che — a differen-
za da ogni religione della natura, sia essa approfondita in sen-
so panteistico o configurata eticamente — si riferisce al nucleo
interno, spirituale ed etico, sempre vivente e attivo, dell’essen-
za degli uomini, il Cristianesimo possiede la forza dell’autocriti-
ca e della purificazione, dell’approfondimento e del rinnova-
mento; esso può sempre richiamarsi attraverso le scorze mitolo-
giche alla sua essenza intima e purificarsi sempre di nuovo
dalle inevitabili contaminazioni con ambiti di pensiero ad esso
estranei, Il Cristianesimo non è vincolato a determinate conce-
zioni della natura e a formazioni sociali transitorie e particola-
ri; esso contiene un impulso di aspirazione, di attività e di
perfezionamento che manca a qualsiasi mistica che si immerga
soltanto nell’unità data dell’universo; contiene fini positivi che
il quietismo buddistico volto solo al pessimismo non conosce;
abbraccia infine la fede universalistica con una profondità ric-
ca di impulso, di cui l'Islam ha potuto acquisire soltanto l’aspet-
to superficiale. Poniamo per esempio il caso — in sé possibile
— che l’astronomo Schiaparelli® ha ipotizzato per il nostro
pianeta, traendo lo spunto dai cosiddetti canali di Marte, che
cioè con il raffreddamento della terra e il restringersi dei mezzi
di sussistenza che essa offre possa diventare necessaria un’analo-
ga enorme unificazione del lavoro umano; e che soltanto tali
lavori di protezione, intrapresi con un'estrema fatica collettiva,
rendano possibile ancora l’esistenza: in tal caso dovremmo pen-
sare immediatamente a infinite trasformazioni nel diritto, nel-
la morale, nella società e nello stato; e sicuramente anche nella
religione. Non è verosimile che un'impresa del genere possa
svolgersi sotto la protezione della benedizione papale o sotto
l'impulso di disposizioni di istanze ecclesiastiche superiori, o
che possa essere disturbata da una disputa sul Simbolo apostoli-
co. Nulla ci impedisce però di pensare che la forza dello spiri-
to comune, necessaria per quest'opera, scaturisca da una viva
3. Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), astronomo italiano, autore de Le
stelle cadenti (1873), delle Norme per le osservazioni delle stelle cadenti e dei bolidi
(1896) e di varie altre opere, studiò in particolare i pianeti intorno alla Terra e osservò
per primo i canali di Marte. I suoi ultimi studi furono dedicati a L'astronomia nell'An-
tico Testamento (1903).
ERNST TROELTSCIH 835
devozione teistica, quali che siano le forme che potrebbe assu-
mere in un’epoca siffatta, Come si è detto, è il significato
effettivo del Cristianesimo tra le religioni, l’elaborazione di
una religione della redenzione di tipo personalistico in antitesi
a ogni religione della natura, non già una costruzione storico-fi-
losofica conclusa, che autorizza questa fiducia. A tale fiducia
non si può quindi obiettare il fatto che essa indulga al caso, il
quale ci fa appunto apparire il sole della verità sopra il piccolo
frammento di storia a noi noto, come sopra un'isola nel mare
sconfinato. Non si tratta perciò tanto di una determinata forma
storica del Cristianesimo, quanto piuttosto dell'idea della reli-
gione personalistica della redenzione, la cui forma odierna —
essendosi formata nel tempo — sicuramente non è nulla di
eterno. Ma nel profetismo e nel Cristianesimo quest'idea è di-
ventata una forza storica e si svilupperà ulteriormente, muoven-
do da questa forma fondamentale, verso risultati che oggi non
conosciamo ancora, né abbiamo bisogno di conoscere. Basti il
fatto che, così come sono, essi significano il trapasso alla religio
ne della redenzione di tipo personalistico, e che possiamo senti-
re l’eterno in questo elemento temporale. Possiamo ben ammet-
tere che l’origine delle grandi religioni in generale avvenga
nella giovinezza dell’umanità, quando la vita è più semplice e
più facile è l’incondizionato immergersi nella religione, quan-
do le connessioni dell’esistenza sulla terra sono ancora meno
intricate e la pura formazione di forze religiose è meno distur-
bata. L’origine delle religioni della natura si perde in oscure
epoche primitive che si sottraggono all'indagine. La religione
di Israele con la sua duplice progenie — Cristianesimo e Islam
— è una religione giovane e ha impostato il tema del futuro, in
base a cui il Cristianesimo ha elaborato, come fondamento di
ogni ulteriore sviluppo, la decisiva e universale verità religiosa.
A ciò si aggiunge un’altra considerazione. Le variazioni della
vita e del pensiero umano sono imprevedibili nel particolare,
assai limitate in una prospettiva ampia. Così anche la fantasia
rivolta al futuro potrà rappresentarsi non già un gioco infinita-
mente oscillante di contenuti di vita spirituale fondamentalmen-
te diversi, bensì un’elaborazione sempre più ardua e intricata,
sempre più estesa e complicata di idee fondamentali acquisite.
Tra queste idee fondamentali la più salda e la più forte sarà
836 ERNST TROELTSCH
quella della devozione cristiana, poiché essa sola collega l’uma-
nità con il fondamento permanente ed eterno della vita spiritua-
le in maniera puramente interiore, e in questa connessione
supera, con un'attività redentrice, al tempo stesso la necessità e
la sofferenza dell’esistenza terrena.
In questo modo l’intreccio della storia della religione si
rischiara, e viene in luce una tendenza di sviluppo in cui
possiamo riconoscere la direzione del futuro. Disperso e isolato,
in lotta con la natura per la vita, commosso da impressioni e
da avvenimenti nella natura, nella vita collettiva e nella vita
individuale, il mondo primitivo dell’uomo produce innumerevo-
li religioni, esteriormente assai diverse, ma intimamente impa-
rentate, la maggior parte delle quali si sono indurite con la
vita delle orde, delle stirpi e dei popoli a cui appartengono,
arrestandosi al loro livello. Qui la natura e l’uomo vengono
presi così come si presentano immediatamente, e da questa
situazione scaturiscono impressioni religiose fornite di una capa-
cità di sviluppo molto ristretta. Soltanto pochi grandi popoli
realizzano, con la loro più ampia coesione nazionale e linguisti-
ca, una prosecuzione e un approfondimento rispetto a questo
grado di religione, in quanto i tratti fondamentali suscettibili
di sviluppo vengono estesi e approfonditi, la rozza mitologia e
il culto superstizioso vengono eliminati o depotenziati e tutti
gli impulsi religiosi che procedono dalle nuove impressioni di
vita e di cultura vengono fusi nella tradizione precedente. Essi
sfociano nella religione della moralità, nel panteismo, infine
nel pessimismo e nella mistica, ma si arrestano ancor sempre al
mondo e all'uomo lasciandolo così come l’hanno trovato, senza
indicargli fini positivi che superino la natura. Soltanto la nostal-
gia e il presentimento accennano in essi a tali fini. Soltanto za
religione ha definitivamente sciolto il legame che la univa imme-
diatamente con la natura e, riconoscendo un dio creatore che,
in quanto spirito, si distingue dalla natura, ha indicato al
tempo stesso all’uomo il fine di un’elevazione positiva sulla
natura materiale e la natura spirituale in esso innata. Questa è
stata la religione di Israele, che rappresenta uno dei fatti più
importanti all'interno della storia universale a noi nota. In
quanto conclusione dello sviluppo interno di Israele e congiun-
zione con il monoteismo filosofico ellenico, il Cristianesimo si
ERNST TROELTSCH 837
è posto saldamente sul campo di rovine delle religioni naziona-
li distrutte dagli imperi universali, mentre in Israele il profeti-
smo si rattrappiva nel Giudaismo e accanto ad essi l'Islam racco-
glieva i suoi credenti, intorno a poveri frammenti di queste reli-
gioni, sul campo di rovine dell'Asia e dell’Africa. Con il sorgere
di questi grandi princìpi religiosi, la produzione religiosa è
diventata sempre più ristretta, e si muove soltanto più nella
creazione di formazioni intermedie di tipo sincretistico o di
varianti. Il futuro appartiene alla lotta delle grandi formazioni
religiose. Tra di queste il Cristianesimo, in quanto punto di
partenza di un grado sostanzialmente nuovo, costituisce però la
forza che — ricca di tensioni con la cultura più elevata e
tuttavia inscindibilmente legata ad essa — sta al centro della
grande lotta mondiale, non già come sistema finito e rigido,
bensì come una potenza vivente che forma il punto di riferi-
mento di ogni ulteriore conoscenza e di ogni ulteriore impulso
religioso, sviluppandosi ancora nel futuro secondo la legge im-
prevedibile della vita religiosa. Una gran parte di questo proces-
so di sviluppo, che ha già prodotto mutamenti di grande rilie-
vo, si trova alle nostre spalle; mentre un momento importante
di esso, cioè la progressiva differenziazione, la dissoluzione dal
legame immediato con lo stato e la politica, con il diritto e la
morale mondana, con la scienza e la spiegazione del mondo, la
concentrazione nel suo contenuto puramente religioso e la rin-
novata influenza di questo contenuto sulla situazione complessi-
va, si compie davanti ai nostri occhi. Il Cristianesimo si racco-
glie in se stesso e si tramuta in una nuova operosità. Perciò non
deve indurci in errore la miseria ecclesiastica della sua realtà
momentanea e la ripugnanza morale per le lotte interne al
clero. Si tratta della tendenza al futuro che sempre ritorna di
nuovo alla luce, non già della sua attuale confusione confessio-
nale.
È evidente che, come l’intera intuizione della storia fino ad
oggi dominante rimanda alla nostra letteratura e filosofia classi-
ca, così questa intuizione della storia delle religioni in particola-
re ha stretti punti di contatto con le idee di Lessing, Goethe,
Herder, Kant, Hegel, Schleiermacher e di altri pensatori affini.
Essa cerca solamente di liberare la concezione della religione
dalla prossimità eccessiva in cui questi l'avevano collocata con
838 ERNST TROELTSCH
altre potenze spirituali. Lessing ha concepito il suo evangelium
aeternum secondo un “analogia troppo stretta con la libera scien-
za dell’Illuminismo, che si reggeva da sé pervenendo a dimo-
strazioni in base alla propria connessione interna. Herder ha
accostato troppo la religione al concetto etico di umanità e,
iché vedeva questa umanità ovunque, ha troppo sfumato i
confini delle religioni, mentre Schleiermacher l’ha dissolta trop-
po in uno spinozismo romantico che nelle religioni vedeva
soltanto i modi individualmente diversi in cui si è consapevoli
dell’immanenza in Dio. Analogamente, Hegel ha conformato
in modo eccessivo la religione al monismo metafisico e ha
soprattutto derivato in maniera dottrinaria e rigida il suo svi-
luppo dalla necessità logica del movimento delle idee, pregiudi-
cando così l'originaria realtà di fatto dei suoi diversi sviluppi e
la sua misteriosa potenza. Anche Goethe — questo spirito uni-
versale — ha troppo commisurato la particolarità del Cristiane-
simo tra le altre religioni, da lui chiaramente riconosciuta, alla
propria concezione poetica e organica della matura, e ne ha
invece respinto sullo sfondo gli elementi pessimistici, nella sua
avversione artistica per le rotture e le catastrofi, le tensioni e le
lotte. E tuttavia la saggezza della sua vecchiaia ha una serie di
visioni profonde, alle quali la fede e la miscredenza attuale si
richiamano volentieri come a indicazioni di uno sviluppo più
soddisfacenti. Ne è testimonianza, invece di molti altri, questo
brano spesso citato dei Warderjahre: « Ma quanto ci è voluto
non solamente per lasciare la terra sotto di sé e per richiamarsi
a un luogo di nascita più alto, ma anche per riconoscere come
cose divine pure l’abiezione e la povertà, la beffa e il disprez-
zo, l’ignominia e la miseria, il dolore e la morte; per considera-
re il peccato e il delitto non già come ostacoli, ma per venerar-
li e amarli come incrementi del sacro! In tutte le epoche si
trovano tracce di quest’atteggiamento; ma una traccia non è il
fine, e una volta raggiunto quest’ultimo l’umanità non può più
tornare indietro e si può dire che — una volta fatta la sua
comparsa — la religione cristiana non può più scomparire: una
volta preso corpo divino, non può più venir dissolta »*. I suoi
« misteri » dovevano appunto diventare un epos simboleggiante
4. Goetne, Wilhelm Meisters Lehr- und Wanderjahre, libro I, cap. 1
ERNST TROELTSCH 839
la storia della religione, che doveva essenzialmente contenere le
idee fondamentali qui prospettate e che, in un frammento com-
piuto, rappresenta — con il simbolo della Croce circondata di
rose — il Cristianesimo come scopo finale, analogamente alle
considerazioni dei Wanderjahre.
Certamente, la scienza « moderna » si è nel frattempo allon-
tanata in larga misura — almeno nella sua parte più cospicua
— da questi fondamenti profondi della nostra cultura. Determi-
nanti ai fini di questo allontanamento sono state non tanto le
conseguenze scientifiche, quanto invece gli effetti di condizioni
esterne che procedono dalle enormi trasformazioni pratiche del
nostro secolo. Le operazioni della nuova tecnica, che tutto mo-
dificano, le scottanti questioni sociali che ne derivano, il risve-
gliarsi dell’egoismo nazionale, non da ultima la popolazione
che si è accresciuta in queste condizioni pervenendo a un sosten-
tamento migliore, hanno distolto l’interesse verso questioni cul-
turali pratiche e posto al centro il problema della felicità intra-
mondana. Il dogma del progresso della cultura, l’ottimismo
culturale, domina l’opinione odierna, e tutte le conquiste scien-
tifiche vengono viste alla luce di esso. Si fa in fretta a trarre
dal periodo di pensiero storicizzante, aperto dalla nostra grande
epoca, la conseguenza del relativismo, ma soltanto per togliere
valore alle potenze ideali finora operanti, e in particolare al
Cristianesimo, mentre si crede tranquillamente nel progresso e
in una felicità assoluta del futuro. Si applica con sollecitudine
la scienza naturale allo scopo di sottoporre ogni esistenza e
ogni vita alle « leggi naturali », ma soltanto per ridurre a favo-
le tutti i valori spirituali che vanno oltre la felicità intra-monda-
na, mentre si attribuisce alla volontà umana — nei confronti
della medesima legalità naturale — un potere enorme, in grado
di sottometterla artificialmente alla felicità culturale. Ci si in-
nalza molto al di sopra dei sogni fantastici di una metafisica
alla ricerca della connessione tra mondo sensibile e mondo so-
prasensibile, e si assume senza alcuna precauzione la propria
situazione come il logico fine ultimo della storia, contrapponen-
do al periodo della spiegazione religiosa, e quindi metafisica,
del mondo il periodo « positivo », al servizio di scopi pratici
puramente intra-mondani. Contro questi stati d'animo collettivi
non si può fare nulla in modo diretto, tanto meno indicando
840 ERNST TROELTSCH
le loro contraddizioni. Essi devono dispiegare le loro conseguen-
ze pratiche ancor più chiaramente di quanto non sia avvenuto
finora. La devastazione e l’inaridimento della vita spiritua-
le, la progressiva decadenza della forza etica e della serietà
religiosa, l’ottusità che si consuma nel godimento di sempre
nuovi desideri devono mostrarci dove ci stiamo dirigendo in
questo modo, nonostante tutti i progressi esteriori, e che una
completa felicità intra-mondana è la più illusoria delle chimere.
Allora ci si richiamerà di muovo al nostro migliore possesso
spirituale, e in base ad esso sapremo valutare i progressi scienti-
fici. Allora i gravi pericoli impliciti nella storicizzazione di
ogni scienza, e anche della scienza della religione, potranno
essere superati più facilmente di adesso.
Non è questa la sede adatta per indagare in quale misura le
intuizioni qui sviluppate possano e siano in grado di influire
sulla teologia ufficiale delle chiese e delle facoltà universitarie.
Finora esse agiscono in misura abbastanza forte nella configura-
zione delle ricerche di critica biblica o di storia del dogma, le
cui conseguenze di rado vengono tratte fino in fondo. D'altra
parte esse hanno appena modificato, più che trasformato real-
mente, le loro strutture sistematiche. Ma la teologia, per sua
stessa natura, è qui di fatto costretta a una maggiore prudenza,
e deve imporsi un certo ritegno. Essa non è pura scienza, e in
ogni caso non è scienza libera; ma è piuttosto vincolata alle
determinazioni giuridiche, alla tradizione effettiva, ai rapporti
e agli scopi presenti, e costituisce pertanto più un compromesso
con la scienza che una scienza vera e propria. I suoi compiti
sono in primo luogo compiti pratici, posti dallo stato effettivo
dell’istituto ecclesiastico; ed essa può rendere operanti sulla
sua materia le conoscenze scientifiche in modo soltanto indiret-
to, eliminando le antitesi troppo aspre, e per il resto mediando
ed equilibrando. Certamente i teologi possono, in quanto uomi-
ni di cultura, promuovere in modo significativo le grandi que-
stioni; ma in quanto devono servire scopi ecclesiastici, sono
vincolati da compiti e da rapporti pratici. In realtà, pur tenen-
do conto dell'importanza della collaborazione dei teologi, le
grandi questioni scientifiche sono sempre state decise al di
fuori della teologia. Queste decisioni reagiranno poi sulla teolo-
gia, dando luogo a una specie di equilibrio delle temperature.
ERNST TROELTSCH B4r
Il singolo teologo potrà, in queste condizioni di antitesi, distin-
guere tra teologia essoterica e teologia esoterica nella misura in
cui è consapevole di volere in entrambe, in verità, il medesimo
scopo; ma non potrà spezzare il circulus vitiosus per cui ogni
chiusura della teologia rafforza l’avversione della scienza e ogni
ostilità della scienza rafforza la chiusura della teologia, almeno
fin quando la straordinaria importanza della questione ecclesia-
stica rimane celata alla vita complessiva di un’indifferenza illu-
minata.
All’interesse generale importano cose ben diverse che non le
indagini specificamente teologiche. Ciò richiede che il relativi-
smo storico, che in tutti i campi della vita intellettuale cerca
di soffocarci nell’erudizione e di paralizzare ogni forza creati-
va, venga riconosciuto come il nemico più pericoloso anche nel
campo della religione, e venga quindi superato. Da tutte le
parti aumentano i segni che si comincia a esserne stanchi. Si
cerca di superarlo mediante l’entusiasmo patriottico, mediante
l'ideale della giustizia sociale, mediante le fantasie del futuro,
mediante un altruismo areligioso; si ha sete di ideali semplici,
assoluti e universalmente validi. Ma tutto ciò non sarà sufficien-
te. Su tale strada si riconoscerà che la patria autentica di tutti
questi ideali è la religione, e che quindi occorre riacquistare la
fede sicura e gioiosa in un fine assoluto soprattutto in seno ad
essa. Certamente questo non può avvenire ignorando di colpo
la storia e rinnegando i suoi metodi. Può invece avvenire se
riprendiamo le grandi idee fondamentali della nostra letteratu-
ra, filosofia e storiografia classiche e se scorgiamo nella storia
il dispiegarsi di un contenuto spirituale unitario e semplice nel
suo nucleo; se nelle religioni più grandi e più potenti non
cerchiamo semplicemente il fenomeno storico interessante, ma
la connessione con quel nucleo eterno della vita spirituale.
Allora si riconoscerà di nuovo che anche la storia delle religio-
ni non ha soltanto elementi, ma anche un legame spirituale, e
che questo non è così difficile da trovare come ritengono le
persone prudenti le quali suppongono che la verità storica sia
accessibile soltanto allo studio specialistico. Non si avrà più
terrore della possibilità che il capo di questo filo stia in mano
nostra e richieda da noi soltanto di venire tirato in modo
schietto e semplice. Se la storia è, di fatto, soltanto la lotta
842 ERNST TROELTSCH
infinitamente complicata per il dispiegarsi di un contenuto spi-
rituale semplice, ci sarebbe poi tanto da stupirci se fossimo
pervenuti nel Cristianesimo al nucleo di tale contenuto, e doves-
simo dar forma alla nostra realtà in base ad esso e nell’ambito
della sua forza? Ci resterebbe ancora abbastanza lavoro da com-
piere per riempire una dozzina di millenni.
RELIGIONE, ECONOMIA E SOCIETÀ *
«Religione ed economia» è un tema che tempo addietro
sarebbe suonato assai strano. « Filosofia ed economia », « musi-
ca ed economia», « matematica ed economia» non avrebbero
suscitato stupore. Fin quando s’intendeva la religione in modo
puramente ideologico come dogma o come dottrina o come
metafisica, o come una morale vincolata a determinate rappre-
sentazioni del cosmo, il tema non poteva che essere privo di
senso. I dotti dell’Illuminismo si sarebbero riferiti con un sorri-
so pieno di ironica intelligenza all'economia finanziaria dei
papi, agli interessi materiali degli ecclesiastici e dei principi
devoti, e in questo tema avrebbero scorto soltanto la questione
dell'impulso assai comune che sta sotto cose in apparenza tanto
sublimi: così Hume ha considerato la Riforma come conseguen-
za di una polemica sul denaro per le indulgenze. Intorno alla
metà del secolo scorso, quando per la prima volta le conseguen-
ze del sistema capitalistico urtarono apertamente con le esigen-
ze tecniche del Cristianesimo, si aveva certamente una compren-
sione più profonda del problema. Ma qui esso si presentò come
una questione puramente etico-pratica, cioè come il problema
del modo in cui si potevano superare, dal punto di vista del senti-
mento cristiano dell'amore e dell’educazione cristiana del carat-
tere, le conseguenze devastatrici del liberalismo economico man-
chesteriano. Kingsley'!, Maurice ?, Carlyle alzarono la bandiera
di una riforma cristiana della società; e ad essi fece seguito, in
* Religion, Wirtschaft und Gesellschaft (conferenza tenuta alla Gehe-Stiftung di
Dresda, 1913), in Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von J.C.B. Mohr, vol. IV,
1925, pp. 21-33 (traduzione di Sandro Barbera e Pictro Rossi).
1. Charles Kingsley (1819-1875), sacerdote anglicano, pocta e scrittore inglese, au-
844 ERNST TROELTSCH
Germania, il socialismo cristiano di Stòcker® e di Friedrich
Naumann ‘. Ma neppure questo è il senso del tema, quale oggi
lo poniamo. Con questo tema si allude a una questione pura-
mente teorica di storia della religione e di storia della cultura:
l'impostazione scaturisce dalla teoria economica della storia della
cultura — per lo più designata erroneamente come materia-
lismo storico — che dalle grandi opere di Karl Marx si è diffusa
a tutte le concezioni storiche dell’epoca. Essa era stata già pro-
posta da qualche storico, come per esempio Karl Nitzsch', e
aveva trovato rispondenza in particolare nella storia politica e
nella storia del diritto. Essa non ha quindi nessuna connessione
necessaria con il vero e proprio sistema del socialismo. Si tratta,
in verità, di una questione che in parte è scaturita dall’affina-
mento e dall’ampliamento avvenuto nella ricerca delle relazio-
ni causali nella storia, e in parte ci è imposta dalle influenze
della struttura economica sulla vita complessiva — ovunque
percepibili nella nostra esperienza odierna. Nella storia poli-
tica essa è diventata oggi ovvia. Ma il suo significato è molto
più profondo. La connessione con i fondamenti economici ri-
sulta particolarmente chiara soltanto nella storia politica e nella
storia del diritto. Ma essa sussiste di fatto anche nel campo della
cultura spirituale fino ad arrivare al suo centro, cioè alle intui-
zioni religiose e metafisiche del mondo. Essa è in massima parte
tore di numerosi romanzi, sermoni religiosi e saggi politici, fu uno dei principa-
li rappresentanti del socialismo cristiano in Gran Bretagna.
2. John Frederick Denison Maurice (1805-1872), sacerdote anglicano e teologo in-
glese, autore della History of Moral and Metaphysical Philosophy (1850-60), dei TAco-
logical Essays (1853), delle Lectures on Ecclesiastica! History (1854), di What is Re-
velation (1859), di The Conscience (1868), di Social Morality (1869) e di varie altre
opere, svolse un'intensa azione educativa rivolta verso le masse operaie e ispirò il
movimento del socialismo cristiano.
3. Adolf Stòcker (1835-1909), teologo protestante e uomo politico tedesco, autore
di vari saggi e discorsi, fondò la Berliner Bewegung, di ispirazione cristiano-sociale,
opponendosi alla politica bismarckiana e criticando pure la social-dernocrazia.
4. Friedrich Naumann (1860-1919), teologo protestante e uomo politico tedesco,
autore di Demokratie und Kaîisertum (1900), dci Briefe tiber Religion (1903), di Mit-
teleuropa (1915), nonché di numerosi altri scritti in parte raccolti sotto il titolo Got-
teshilfe (1896-1903), fu esponente di un socialismo cristiano che aderiva ai principi di
espansione imperialistica della politica guglielmina; in seguito il suo pensiero si spostò
verso posizioni liberali. Fu amico di Weber e di Trocltsch.
5. Karl Wilhelm Nitzsch (1818-1880), storico tedesco, allievo c continuatore di
Nicbuhr, autore della Geschichte der ròmischen Republik (pubblicata postuma nel
1884-85) e di altre opere.
ERNST TROELTSCH 845
una connessione inconscia e non intenzionale, ma le connessioni
di questo genere sono appunto le più forti e durature nella vita
dello spirito. Proprio in questo Karl Marx non ha imparato
invano dalla fine arte di Hegel, che con straordinaria acutezza
sapeva portare alla luce gli intrecci e le mescolanze del com-
plesso dei contenuti dell'anima, e ricostruire le forze fondamen-
tali di quelle mescolanze. Non c’è dubbio che proprio una
attenzione maggiore a queste connessioni sia in grado di get-
tare moltissima luce sulla comprensione della religione come
potenza pratica della vita. Forse non si esagera se si afferma
che soltanto in questo modo diventa possibile una compren-
sione reale della religione e del suo significato per la vita. Con
ciò perviene alla coscienza un aspetto di essa che naturalmente
agiva anche prima di questa chiarificazione teoretica, ma che
si sottraeva alla coscienza scientifica, e se ne sottrae in gran
parte anche oggi. Finora la concezione della religione era,
soprattutto tra i Protestanti, puramente ideologica e dogma-
tica. I Cattolici avevano una comprensione più profonda alme-
no per il suo aspetto culturale e organizzativo. Il culto e l’ele-
mento irrazionale in essa presenti sono stati sottolineati in misu-
ra sempre più forte dalla ricerca etnografica, e in tal modo è stata
sempre più delimitata l’intuizione puramente ideologico-dogma-
tica dell'oggetto. Ma la stretta connessione con la vita sociale e
— poiché questa è in gran parte condizionata da motivi eco-
nomici — anche con la vita economica è stata considerata
troppo poco. Fa eccezione qui soltanto la brillante opera di
Fustel de Coulanges’ La cité antique, apparsa nel 1864, che
però non ha avuto il seguito che avrebbe meritato. Soltanto la
storia socialistica della cultura e le influenze da essa derivanti
hanno recato il problema a un più ampio — anche se non si
può ancora dire più generale — riconoscimento.
6. Numa-Denis Fustel de Coulanges (1830-1889), storico francese, autore de La
cité antique (1864), della Histoire des institutions politiques de l'ancienne France (1875),
poi rielaborata in una successiva edizione in tre volumi (La Gaule romane del ’gr,
L'invasion germanique et la fin de l'empire del *g1, La monarchie frangaise dell'88),
de L’Alleu et le domain rural pendant l'époque mérovingienne (1889), de Les ori-
gines du systeme féodal: le bénéfice et le patronat (1890), de Les transformations de
la royauté pendant l'épogue carolingienne (1892), nonché di alcune raccolte di saggi,
studiò in particolare le basi religiose della struttura politico-sociale romana, aprendo
la strada a una considerazione antropologica della città antica.
846 ERNST TROELTSCH
Di ciò è certamente colpevole in larga misura il modo in
cui tale compito è stato affrontato nella letteratura socialistica,
per esempio nelle opere di Kautsky” sulle origini del Cristianesi-
mo. Qui domina, nonostante alcune buone intuizioni particola-
ri, la più pedantesca dogmatica della ben nota costruzione
della storia: i puri rapporti economici sono la causa della strati-
ficazione di classe; ogni classe si rispecchia in una metafisica e
in una religione che proteggono la sua esistenza e i suoi interes-
si; il Cristianesimo è il rispecchiamento utopico-trascendente
della plebaglia disorganizzata e inerme della tarda antichità;
questa organizzazione puramente religiosa, e quindi impotente,
del proletariato, in disaccordo con lo sviluppo sociale dell’epo-
ca, fu poi sottomessa dalle classi dominanti e assoggettata,
attraverso certe trasformazioni della sua dogmatica e della sua
etica, agli interessi della proprietà e del potere; soltanto a
tratti si è manifestato — e si manifesta ancor oggi — l’origina-
rio carattere proletario del movimento cristiano. Questa è certa-
mente una ricostruzione del tutto fantastica dell’origine del
Cristianesimo. Ma anche nell’esposizione molto più raffinata ed
esperta che degli stessi processi ha fornito Maurenbrecher*, la
derivazione della religione cristiana dalla psicologia di massa
proletaria viene trattata come un ovvio principio di ricerca
della causalità storica, e di conseguenza al Vangelo viene attri-
buito un significato proletario del tutto astorico. Anche qui
appare, come presupposto dogmatico, la teoria di una dipenden-
za unilaterale dell'elemento religioso dalle situazioni di classe
7. Karl Kautsky (1854-1938), teorico socialista tedesco, fondatore della rivista « Die
neue Zeit » nel 1883, fu uno dei maggiori esponenti della Seconda Internazionale e
critico aperto del « revisionismo » social-democratico, contro il quale difese la tesi della
necessità della rivoluzione. Dopo il 1917 prese posizione contro la rivoluzione sovietica e
contro Lenin. È autore di numerose opere, come Das Erfurter Programm in seinem
grundsdtzlicheri Teil erldutert (1892), Bernstein und das sozialdemokratische Programm
(1899), Der Weg zur Macht (1909), Vorlàufer des Sozialismus (1909-21), Der politische
Massenstreil (1914), Die Internationale und der Krieg (1915), Die Diktatur des Proleta-
riats (1918), Ethik und materialistische Geschichtsauffassung (1922), Materialistische
Geschichtsauffassung (1927). Troelisch si riferisce qui al volume Der Ursprung des
Christentums, Stuttgart, 1908.
8. Max Heinrich Maurenbrecher (1874-1930), storico tedesco, autore di Von Na-
sareth nach Golgota: Untersuchungen tiber die weltgeschichtlichen Zusammenginge
des Urchristentums, Berlin-Schéneberg, 1909 — a cui si riferisce qui Trocltsch — e di
altri volumi di argomento storico.
ERNST TROELTSCH 847
condizionate economicamente: la religione è, nella sua essenza,
il rispecchiamento di situazioni di classe. Qui — e anche altro-
ve nella letteratura socialista — non si è tentato di illustra-
re e di provare questo principio in base al materiale generale
della storia della religione. Esso viene in fondo utilizzato soltan-
to a scopo di polemica contro il Cristianesimo. Ma soltanto con
un’indagine che si estenda a tutta la storia della religione si può
mostrare il significato reale di questo principio, e anche la
trasformazione quanto mai diversa di tale significato ai diffe-
renti gradi della vita religiosa *.
Il problema è molto più complicato. Non può esser fatto
coincidere con un problema così ampio quale quello dell’origi-
ne della religione. Infatti esso non può venir risolto in modo
puramente storico e psicologico, e conduce a costruzioni pura-
mente astratte, ben distanti da ciò che effettivamente ci mostra
la realtà concreta e vivente. Esso dev'essere riferito alla vita
reale delle religioni a noi note, e qui trova sicuramente abba-
stanza materiale per la sua trattazione. La questione puramente
filosofico-religiosa della nascita e dell’origine può quindi essere
risolta. Si tratta piuttosto di chiederci: in quale misura la vita
reale delle religioni ci rivela un condizionamento interno ed
essenziale dell’elemento religioso da parte della vita economica,
nonché da parte della struttura di classe e della stratificazione
sociale in larga misura determinata da essa? e viceversa, in
quale misura la vita economica ci rivela la presenza di effetti
essenziali e interni dell'elemento religioso sul lavoro economi-
co? Occorre pertanto lasciar da parte i contatti semplicemente
accidentali e transitori, e piuttosto considerarli soltanto nella
a. Un sociologo acuto e sensibile come Simmel ha cercato di acquisire
e di fondare, in questa maniera più generale, le conoscenze storico-reli-
giose. Egli indica nel sentimento della dedizione dei singoli membri di
una connessione sociologica alla sua potenza presente in modo non sen-
sibile, onnipenetrante, la radice psicologica della religione, derivando quin-
di la fede nei miracoli dall’inafferrabilità di tale potenza, percepita con
stupore. Soltanto attraverso l’autonomizzazione dell’elemento religioso so-
prasensibile qui racchiuso nascerebbe la religione propriamente detta. Ma
anche questa è semplicemente una fantasia spiritosa, che oltre tutto assu-
me dal marxismo soltanto la sopravvalutazione delle connessioni dei grup
pi e delle masse, ma non il loro fondamento esclusivamente economico.
848 ERNST TROELTSCH
misura in cui ne scaturisce qualcosa di durevole e di intimo.
Un tale significato di accidentale, cioè quello dell’incontro di
due direzioni di sviluppo del tutto separate e tra loro indipen-
denti, ma che s’incrociano in un determinato punto, non è raro
nella storia, e proprio nel nostro campo dobbiamo aspettarce-
lo, poiché le due forze che qui si toccano sono fin dall’inizio
prevalentemente estranee l’una all'altra. Ma proprio se si rico-
nosce questo fatto occorre escludere dalla nostra indagine que-
gli clementi accidentali meramente transitori che rimangono,
per così dire, esteriori — e che il pragmatismo illuministico
collocava volentieri in primo piano — anche se essi costituisco-
no una parte pratica, tutt'altro che priva di importanza, del
nostro problema.
Con questa impostazione si presuppone che nelle religioni
considerate storicamente l’elemento religioso presente nel mito
e nel culto, nel mondo della rappresentazione e del sentimento,
sia qualcosa di relativamente autonomo ed entri in connessione
con tutti gli interessi economici, ma non coincida mai piena-
mente con essi. Tale è il caso di tutte le religioni evolute. La
ricerca etnografico-antropologica sulla religione è ancora assai
poco orientata verso questa impostazione, e non è perciò in
grado di rispondere alla questione. Essa deve quindi restare al
di fuori della nostra considerazione. Ciò è possibile, del resto,
perché qui abbiamo di fronte cose che devono essere comprese
non già sulla base dell’originario sviluppo preistorico dello spiri-
to, bensì in base agli intrecci di una cultura in qualche misura
ormai differenziata. In essa si può riconoscere ovunque la ten-
denza a un’autonomizzazione della vita e del pensiero specifica-
mente religioso e a un’analoga autonomizzazione del lavoro
economico, che diventa così comprensibile in base al suo scopo
pratico. La nostra questione può sorgere soltanto a partire dal-
le influenze reciproche, in parte consapevoli e in parte incon-
scie, e dal compenetrarsi delle due tendenze. Ma se queste due
tendenze sono distinte nella loro essenza, il loro contatto non
può essere affatto diretto. Né le religioni sono ideali economici,
né le forme e gli interessi economici sono leggi religiose. I
contatti sono soltanto mediati. La questione consiste allora nel
determinare in che cosa consista quell’entità mediatrice; e la
risposta è molto semplice. Essa consiste nelle grandi forme
ERNST TROELTSCH 849
sociologiche dell’esistenza, che da un lato vengono continua-
mente create dalla religione e, una volta assicuratesi tale fonda-
mento, incidono nel modo più profondo su ogni lavoro econo-
mico, dall’altro sorgono su fondamenti economici — tra gli
altri — assorbendo nella loro onnipotenza il mondo della rappre-
sentazione religiosa.
Già Fustel de Coulanges aveva posto la questione in modo
straordinariamente chiaro e aderente. Egli mostra come tra gli
Indiani, i Greci e i Romani la forza organizzativa del culto
religioso dei morti o degli antenati pone i fondamenti della
famiglia patriarcale, del diritto familiare e privato, della pro-
prietà privata del suolo, dell’economia domestica o familiare
chiusa, della posizione giuridica delle donne, dei figli e degli
schiavi. Una volta consacrate e vincolate religiosamente, queste
regole conservano un potere enorme sulla vita pratica. In base
ai loro princìpi si compie l'associazione in curie e in fratrie e
infine, con forme di culto del tutto analoghe, il sinecismo verso
la città, mentre tutta la vita della polis rimane — nel diritto e
nel costume, in guerra e in pace — vincolata a un sistema
rituale che ha la massima importanza per tutta la vita politica,
per tutto il diritto e, attraverso di questo, anche per ogni
lavoro economico. Qui è chiarissima l’iniziativa fortemente de-
terminante dell’idea religiosa e dell’organizzazione sociologica
da essa creata. A questo punto ci si può certamente domandare
se, all’inverso, questa configurazione del culto degli antenati
non dipenda dall’acquisizione di una dimora stabile e dalla
transizione dell'agricoltura, cosicché l’iniziativa sarebbe di nuo-
vo dalla parte della vita economica e questa fornirebbe le condi-
zioni necessarie per la tendenza decisiva di sviluppo del culto
religioso degli antenati. Una comparazione con lo sviluppo del
culto presso popoli nomadi e semi-nomadi, come i Tartari e i
Mongoli, dovrebbe dare qui un chiarimento. In relazione agli
Israeliti, il sociologo americano Wallis*® ha di fatto mostrato
come la venerazione religiosa del dio-clan della grande fami-
glia e la comunità nomade che stava sotto la sua protezione
abbiano durevolmente impresso al popolo di Israele il carattere
9g. Wilson Dallam Wallis (1886-1970), sociologo americano, autore del volume
Messiahs: Christian and Pagan, Boston, 1918 — al quale allude qui Troeltsch — e di
vari manuali di sociologia e di antropologia.
54. STORICISMO TEDESCO.
850 ERNST TROELTSCII
di una morale economica primitivo-conservatrice o di una reli-
gione della solidarietà tribale contrapposta a una religione citta-
dina. Questa morale primitiva della fratellanza, colorata di
socialismo, che si pone in antitesi alla cultura della città e del
regno mondano, sarebbe poi stata sublimata e interiorizzata dai
profeti nella morale religiosa umanitaria che conosciamo dalle
più nobili leggi e profezie dell’Antico Testamento. A questi
esempi si potrebbe accostare la struttura delle caste indiane e
la loro connessione con il mondo della rappresentazione religio-
sa, da cui è determinato il carattere economico dell’India; ©
anche il culto familiare cinese, che possiede una grandissima
importanza per la struttura sociale dell'impero e quindi per
ogni modo e direzione di lavoro economico. In ogni caso è
chiaro che abbiamo qui davanti relazioni straordinariamente
strette, ma sviluppate e mediate in modo piuttosto vario, che
incidono profondamente da entrambi i lati — da quello della
religione e da quello del lavoro economico — sulla totalità
dello spirito e del senso della vita. Si tratta — come ha posto
giustamente in luce Fustel de Coulanges — di un rapporto di
azione reciproca che può essere determinato sempre soltanto
caso per caso e in cui è molto difficile, a causa del carattere
inconscio dei processi, stabilire l'iniziativa dell’uno o dell’altro
elemento.
Il medesimo studioso indica però anche, in modo non meno
chiaro e intuitivo, la graduale rottura dell’ordinamento sociale,
condizionato dalle originarie potenze sociologico-culturali, da
parte del razionalismo degli interessi economici e politici — il
quale impara a seguire i propri impulsi — non appena vi siano
masse sufficientemente vaste i cui bisogni non vengono più
soddisfatti nel vecchio sistema socio-culturale. In base all’esem-
pio dei Greci e dei Romani, egli descrive le rivoluzioni rivolte
contro l’ordinamento e il legame religioso della società, il razio-
nalismo dei bisogni che in esse si sprigiona e i tentativi di
nuove ricostruzioni razionali della società che poi, reagendo
sull’etica e sulla dottrina sociale della filosofia, cercano di crear-
si un nuovo ideale etico. A ciò si può aggiungere che una
rivoluzione siffatta si è relativamente affermata ed è penetrata
soltanto in Grecia e a Roma. Nel resto dell’umanità dominano
ancor oggi — prescindendo dagli ambiti delle religioni univer-
ERNST TROELTSCH 851
sali di cui avremo occasione di parlare tra poco — quelle stesse
situazioni di vincolo sociologico-culturale della società e dell’e-
conomia. Basta fare riferimento, per esempio, al libro di viaggi
dell'americano Henry Frank" Peter the Hermit (New York,
1907), con le sue immagini della società colte dal basso, per
avere l'impressione immediata dell’effetto di queste cose sulla
vita economica pratica e, reciprocamente, prove stupefacenti
della divinizzazione religiosa degli ordinamenti esistenti. In
questo consistono le difficoltà politico-religiose del Giappone
moderno, il quale ha scelto il razionalismo dello stile economi-
co europeo e non può conciliarlo con i fondamenti sociologi-
co-culturali della sua vita precedente. Da ciò derivano gli esperi-
menti religiosi che ora intendono creare artificialmente una
nuova religione statuale e imperiale, ora cercano un appoggio
nel Cristianesimo, ora si accontentano dell’indifferente ateismo
europeo.
Non è però possibile seguire qui il tema in questa sua
enorme estensione; si deve piuttosto fare riferimento a un singo-
lo punto determinato. A ciò siamo indotti anche dal fatto che
la religione etnica del culto degli antenati e dello stato — la
sola che abbiamo finora toccata — non è affatto dominante in
modo esclusivo. Essa ha subìto rotture in singoli punti, ad
opera di religioni universali e spirituali, la cui essenza consiste
soltanto nell’idea di Dio, nell’ethos, nel sentimento, nell’intui-
zione religiosa del mondo, e che producono di conseguenza
forme sociologiche del tutto differenti. In luogo della comu-
nità di culto coincidente con determinati gruppi naturali, com-
pare qui la comunità religiosa di idee e di sentimenti — cioè
una comunità universale e propagandistica. Pertanto anche il
rapporto tra religione ed economia è completamente diverso.
Si tratta del Buddismo e delle tendenze ad esso affini in Oriente,
del Giudaismo con le sue due grandi ramificazioni — Cristia-
nesimo e Islam — in Occidente. Certamente, anche queste
nuove formazioni religiose non sono sorte senza una preistoria
10. Henry Frank (1854-1933), predicatore prima metodista e poi congregaziona-
lista, passò infine a una forma di religione liberale con simpatie positivistiche. Fon-
datore della Rationalist Society di New York nel 1897, scrisse tra l'altro numerosi
romanzi filosofici (tra cui quello citato nel testo) e un poema allegorico dal titolo
The Last Enigma (1924).
852 ERNST TROELTSCH
sociale, e quindi anche economica, che le condizionasse. Qui però
non possiamo approfondire ancora quest’elemento: basti rile-
vare che emerge ora un concezione e una posizione in linea di
principio nuova del nostro problema. Qui l’idea religiosa è essa
stessa un'idea etica e metafisica; essa comporta non più soltanto
in modo mediato, attraverso le sue conseguenze sociologiche,
ma anche in modo immediato, attraverso la sua valutazione
religiosa della vita, una presa di posizione nei confronti della
vita sociale ed economica. Tuttavia essa è diversa nelle diverse
religioni che abbiamo elencato. Il Buddismo considera i vecchi
ordinamenti di casta conservati dal culto come indifferenti; li
lascia comunque sussistere e non crea affatto una propria auto-
noma comunità religiosa. Così esso agisce con la piena coerenza
della sua idea — che consiste nella totale assenza di proprietà
— soltanto attraverso i suoi specifici portatori, i monaci; per
il resto lascia sussistere gli ordinamenti così come sono, e im-
pedisce solamente il sorgere di ogni vita razionalistica diretta
al profitto, che potrebbe distruggerlo. Tra le religioni occiden-
tali il Giudaismo ha acquistato notoriamente un’enorme impor-
tanza economica, la quale in parte è fondata sull’accettazione
attiva del mondo implicita nella sua fede nella creazione e
sulla considerazione religiosa delle virtù della diligenza, del-
l’operosità, della sobrietà, ma per la maggior parte è scatu-
rita dai suoi destini storici? In verità, nel Giudaismo la
religione rimane anzitutto legata a un saldo contesto popola-
re, e la sua etica economica e il suo atteggiamento verso l’econo-
mia sono influenzati da quest'idea fortemente terrena del futu-
ro e della destinazione del popolo eletto. Qui la frattura dell’e-
lemento religioso con l’elemento sociale — e quindi anche con
quello economico — non si è ancora compiuta. Ma essa non è
avvenuta neppure nell'Islam, che rimane internamente legato,
attraverso il Corano e il suo specifico diritto, a gradi primitivi
di organizzazione della società e a livelli primitivi di economia.
a. Nel ben noto — e per molti versi illuminante — libro di Sombart!!
quest'ultimo elemento è sottovalutato, almeno quanto è sopravvalutato il
primo.
11. Troeltsch si riferisce qui alle tesi sostenute da Sombart in Die /uden und das
Wirtschaftsleben, Munchen, 1908.
ERNST TROELTSCH 853
Ciò costituisce la base della forza e del successo della sua missio-
ne tra le razze inferiori, ma anche della sua debolezza e della
sua ostilità nei confronti dello stile economico europeo. Questo
non è infatti conciliabile già con la natura primitiva del diritto
islamico e con i suoi giudizi da cadì. La liberazione reale
dell’interiorità religiosa e della comunità religiosa separata da
tutti gli elementi sociali ed economici ha avuto veramente luo-
go soltanto nel Cristianesimo, ma pur sempre in modo tale che
essa non significa una completa negazione ascetica del mondo,
ma si richiama nel medesimo tempo — insieme con il Giudai-
smo — alla bontà della creazione e al significato del mondo
come luogo di lavoro.
In ciò è però contenuta non già una soluzione particolar-
mente chiara del problema, ma piuttosto un’impostazione più
difficile e complicata del compito. In particolare si deve bada-
re ai seguenti punti di rilievo.
In primo luogo, con questa totale interiorizzazione e spiritua-
lizzazione della religione, essa viene liberata dalle sue implica-
zioni con la vita sociale ed economica. Ma ciò significa anche
che influenze e determinazioni dirette su questo mondo profa-
no della vita possono svilupparsi dall'idea religiosa soltan-
to con grande difficoltà. Tale idea si muove sempre a un'altez-
za ideale che si contrappone indifesa ai concreti rapporti della
vita e alle loro potenti formazioni di interesse. In particolare
ciò significa, reciprocamente, che il lavoro economico rimane
ora abbandonato a se stesso e può sviluppare, del tutto indistur-
bato, il suo razionalismo degli interessi e delle opportunità
come un principio puramente mondano. Ma dato che il razio-
nalismo della vita economico-sociale si configura, in ultima ana-
lisi, come lotta economica per l’esistenza 0 come concorrenza,
questa etica religiosa si contrappone ovunque alla lotta raziona-
le per l’esistenza, che non può mai impedire direttamente. Il
mondo delle idee religiose non possiede nessun mezzo suo pro-
prio e diretto per organizzare € per interrompere tale lotta,
e si rivolge ai mezzi razionali con cui la stessa visione profana
degli scopi si propone di regolarla. La santificazione religiosa
del carattere e l’amore fraterno non sono in grado di risolvere
in modo diretto, e di per sé soli, questi problemi. Il libro
854 ERNST TROELTSCH
dell'inglese Benjamin Kidd Social Evolution!" — a suo tempo
oggetto di larga considerazione, e a cui lo zoologo A. Weis-
mann ha premesso un’introduzione — ha riconosciuto in modo
molto aderente questo stato di cose, contrapponendo il raziona-
lismo della lotta per l’esistenza, come principio puramente ra-
zionale, al principio religioso dell’autorità e dell’ordine sulla
base dei sovrastanti princìpi dell'amore. Se però le cose stanno
in questo modo, allora la soluzione del problema riposerà sem-
pre su qualche mezzo atto a far tacere, o almeno a regolare, la
lotta per l’esistenza, ma che la religione non può mai sviluppa-
re semplicemente da se stessa. Essa dovrà sempre fare affida-
mento su qualche auto-regolamentazione razionale o accidenta-
le di quella lotta per l’esistenza che sia ad essa favorevole
e che le venga incontro, ma che essa può soltanto cogliere e
fissare. Si tratterà però sempre di compromessi e di equilibri
con la vita reale.
In secondo luogo, l’idea religiosa dominante sembra qui
essere, in sé e per sé, di natura puramente religiosa e ideologi-
ca. Infatti il punto di partenza non è un vincolo immediato
della vita naturale da parte del culto, una coincidenza tra cer-
te forme naturali e le forme culturali della comunità, bensì
l'ideale etico. Ma la sua indipendenza è anche qui molto condi-
zionata. Il rapporto reale è molto più complicato di quanto
non appaia a prima vista. In verità, anche qui gli ideali fonda-
mentali non sono affatto così liberi dal sostrato reale e concre-
to sul quale, e nei confronti del quale, si elevano. Gli ideali di
Gesù sono connessi con il grado di economia e con le situazioni
climatico-naturali della Galilea: non sarebbero potuti nascere
in una grande città moderna. In modo analogo, tutti i successi-
vi ideali economici dell’epoca cristiana recano, inconsapevol-
mente e involontariamente, l'impronta del suolo su cui sorgo-
no. Essi contengono sempre qualcosa che appartiene all’epoca e
alla situazione, ma che non percepiscono come tale e che fissa-
no in forma di verità eterne, di comandamenti divini, di inter-
pretazioni della Bibbia. Come il mondo ideale della Bibbia
lascia ovunque trasparire il fondamento sociale ed economico
12. Social Evolution, London, 1894; tr. ted. col titolo Soziale Evolution, Jena,
1895. La prefazione di Weismann è premessa a questa traduzione.
ERNST TROELTSCH 8355
su cui poggia, così tutte le successive interpretazioni della Bib-
bia sono da parte loro condizionate dalle idee ovvie che le
circondano e che esse presuppongono. Cattolicesimo, Luteranesi-
mo, Calvinismo, sette e mistici leggono la Bibbia in base a
certi determinati presupposti sociologici, considerati come ov-
vi, che vogliono vedere confermati e regolati dalla Bibbia. Al-
l'inverso, anche i tipi di azione in apparenza soltanto filosofici
e razionalistici, o che si presentano come costume e come pras-
si, sono inconsciamente determinati da presupposti cristiani, e
nei sistemi che pretendono di essere completamente profani vi
è una ricchezza di spirito cristiano. Il rapporto deve qui essere
ogni volta illuminato e stabilito caso per caso. Qui non vi sono
quelle leggi e formule generali di sviluppo progressivo, tanto
care al moderno bisogno di generalizzazione. Si tratta di un
gioco di forze che oscilla avanti e indietro, il cui risultato
dev'essere determinato in ogni caso particolare di un'idea econo-
mico-sociale che domina i grandi periodi.
In terzo luogo, occorre considerare che, proprio per la sua
pura interiorità e per l’autonomia dell'elemento religioso che
viene qui elevata al massimo grado, l’idea cristiana non possie-
de alcun mezzo di influenza diretta, e che anche le esigenze
etiche molto idealistiche non sono, di per sé sole, un mezzo
del genere. Essa esercita le sue influenze principali — nonostan-
te la pretesa spesso avanzata di un condizionamento diretto
puramente ideologico — non già attraverso l’esigenza etica ma
indirettamente, attraverso le forme di comunità religiosa da
essa create. Queste scaturiscono da idee dogmatiche, di culto e
puramente religiose, e non vengono mai progettate a scopi
sociali profani; tuttavia possiedono una potenza organizzatrice
e vincolante, che nessuna formazione sociale del puro raziona-
lismo possiede. Con queste forti forme sociologiche esse ab-
bracciano però anche — analogamente a quanto ha mostrato
Fustel de Coulanges per gli antichi culti degli antenati e della
città — la vita complessiva, e costituiscono la sua ovvia base
etico-spirituale. Nel Cattolicesimo e nel Protestantesimo è certa-
mente presente qualcosa del terreno sociale da cui traggono la
loro linfa vitale. Ma l’organizzazione sociologico-religiosa del-
l’autorità, dell’istituzione, dell’individualismo ha determinato
in misura ancora maggiore la generale atmosfera culturale, e
856 ERNST TROELTSCH
soltanto per il suo tramite è stata influenzata la vita profana
nell'economia e nella società. Nonostante l’apparente autono-
mia dell’ideologia etica sussiste anche qui il problema marxi-
stico, ma in modo che esso non significa semplicemente la dipen-
denza dell’elemento religioso da quello sociale ma anche, reci-
procamente, la dipendenza dell'elemento sociale da quello reli-
gioso. Ciò che si presenta nel caso singolo non può venir chiari-
to da una teoria generale, ma soltanto da un’indagine condotta
caso per caso. Partendo da ciò risulta parimenti chiaro che il
razionalismo economico, laddove perviene a un'autonomia illi-
mitata, si volgerà contro questi vincoli sociologico-religiosi e
cercherà di rendersene del tutto indipendente.
Non sono dunque soltanto l'impossibilità di abbracciare il pro-
blema in tutta l'ampiezza della sua realtà storico-religiosa, la
limitazione della sua osservazione e della sua conoscenza ai
pochi punti finora accessibili, e la necessità di indagarlo sem-
pre concretamente caso per caso, che hanno in ultima analisi li-
mitato l’indagine all’unica religione che ci è, da questo punto di
vista, perfettamente familiare. E neppure è la sua importanza
per la nostra cultura — che ha peso pratico soltanto per noi. Si
tratta piuttosto, in primo luogo, della particolare importanza in-
trinseca che, da questo punto di vista, il Cristianesimo riveste.
Esso si è sviluppato sulla linea di confine tra Oriente e
Occidente, dall’umanità religiosamente fondata e dalla speran-
za di redenzione dei profeti di Israele, e si è quindi configu-
rato — svincolandosi completamente da tutte le condizioni na-
turali e sociali — nella forma della più pura interiorità religio-
sa e della fratellanza umana, e al tempo stesso nella forma di
una radicale speranza di redenzione, che si aspettava dal cielo
lo stato corrispondente ai suoi ideali come un’imminente fonda-
zione miracolosa del regno di Dio. Questo ethos e questa spe-
ranza di redenzione si sono uniti con la venerazione religiosa
del nunzio del regno di Dio, dando così luogo a una nuova
comunità umana puramente religiosa e culturale ed essendo
poi costretti, per il mancato avvento del regno di Dio, ad
applicare il loro ideale — come regola di vita della Chiesa —
alla vita pratica e duratura nella società e nell’economia.
In tal modo ha avuto immediatamente inizio il problema,
che perdura fino ai nostri giorni.
STORIA E DOTTRINA DEI VALORI *
Il problema è quello della creazione della sintesi culturale
contemporanea sulla base dell’esperienza e della conoscenza sto-
rica. Ciò ha condotto alla connessione del comprendere storico-
individuale con l’idea di un criterio. Questo criterio si è però
dimostrato complicato, in quanto racchiudeva in sé una duplice
applicazione all’accaduto e al futuro, assumendo un diverso
significato nei due casi. Esso comportava da un lato la misura-
zione dell’accaduto in base agli ideali ad esso di volta in volta
propri, dall’altro la direzione verso il dover essere da produrre
nel presente, il quale non può scaturire da un’astratta ragion
pura, ma solamente in stretto contatto con le possibilità e le
tendenze effettive del momento. La connessione di questi due
momenti del criterio risultava infine nell’idea dell’indivi-
dualità di ogni formazione presente di un criterio, in quanto
questa è anche, da parte sua, una formazione e creazione della
vita storica. Tale essa apparirà agli storici futuri, e fin da ora
dobbiamo comprenderla e sentirla in questo modo. Tutto pog-
gia perciò anche qui sull’idea di individualità; solo che ora in
questa idea non compare soltanto la fatticità del particolare e
del singolare, come avviene prevalentemente nella logica empi-
rica della storia, ma l’individualizzazione di volta in volta di
un ideale, la concrezione di un dover essere. In questo nuovo e
più profondo senso dell’individualità idea e fattualità sono ora,
già nell’accaduto, una cosa sola; e lo sono l’una e l’altra anche,
® Der Historismus und seine Probleme, 1. Uber Masstàbe zur Beurteilung histo-
rischer Dinge und ihr Verhdltnis zu cinem gegenwirtigen Kulturideal, sezione 5: Ge-
schichte und Werilehre, in Gesammelte Schriften, Tiùbingen von J. C. B. Mohr,
vol. III, 1922, pp. 200-221 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
858 ERNST TROELTSCH
e con un interesse pratico ben altrimenti rafforzato, nella forma-
zione di un criterio e nella sintesi culturale contemporanea; in
tale senso poggia infine anche la connessione delle tendenze
ideali trascorse con quelle da creare muovendo dal presente. La
comprensione di questa connessione è però una questione di
azione e di creazione intuitiva, per la quale non esiste nessun’al-
tra oggettività al di fuori della coscienza del fatto che, essendo
creata da un tratto interno della storia stessa, si conferma nella
coscienza come vincolante e nell’esperienza come feconda.
È chiaro — ed è stato più volte sottolineato — che in questo
modo si passa dal terreno della pura logica storica al terreno di
una nuova regione scientifica. È il terreno della dottrina dei
valori o assiologia, come oggi si usa dire. L’intestazione di
questo capitolo avrebbe quindi potuto anche essere « Storia e
dottrina dei valori» — esattamente come quello precedente
avrebbe potuto anche intitolarsi «Storicismo e naturalismo ».
Se sono stati preferiti i titoli sopra segnati, lo si è fatto per
ottenere la massima prossimità ai problemi della vita di oggi e
per evitare un’astrattezza troppo esangue. Ma da un punto di
vista puramente logico si è compiuto, in questo capitolo, il
trapasso dalla storia alla dottrina dei valori; si è cioè entrati in
questa nuova regione scientifica attraversando la porta del con-
cetto di individualità, che solo può condurre dall’una all’altra.
E lo può perché il concetto di individualità non significa soltan-
to la particolarità puramente fattuale di un complesso storico-
spirituale dato di volta in volta, ma significa al tempo stesso
un’individualizzazione dell’ideale o del dover essere, che certo
non si realizza compiutamente in ogni forma particolare, ma
che aspira a realizzarsi e che in essa si incorpora, secondo le
circostanze, più o meno felicemente *. Entrare nella regione
a. Sulla.« progressiva scoperta del regno dell’individuale, che lo spi-
rito tedesco intraprese con focoso zelo », si veda F. MEINEcKE, Weltbiir-
gertum und Nationalstaat, Miinchen und Berlin, 1908, p. 277. Significa-
tiva è anche l'osservazione sulla duplicità dell’individuale che viene qui
presupposto, cioè il suo aspetto fattuale e l'aspetto della doverosità: si
veda a p. 281, dove si rimanda a Novalis! e a Ranke (nonché a Humboldt).
1. Friedrich Leopold von Hardenberg, detto Novalis (1771-1801), uno dei mag-
giori poeti romantici tedeschi, autore degli Hymnen an die Nacht (1797), del romanzo
incompiuto Die Lekrlinge zu Sais (1798), di un altro romanzo anch'esso non condotto a
ERNST TROELTSCH 859
della dottrina dei valori per questa porta non costituisce la
regola; e tuttavia ciò è imprescindibile per una filosofia materia-
le della storia, cioè per poter pensare e porre il valore in base
alla storia. Si tratta del primo grande problema di ogni filoso-
fia della storia, rispetto al quale tutti gli altri passano in secon-
da linea. Rimane da dire ancora qualche parola polemica in
merito alla consueta configurazione della dottrina dei valori
nella filosofia moderna.
Che cos'è la teoria generale dei valori o assiologia? Come si
coordina con le scienze della natura e dello spirito — entram-
be scienze del reale, fortemente e coercitivamente determinate
nel loro rapporto con l'oggetto — nel g/obus intellectualis
delle scienze? È una scienza empirica o @ priori, formale o mate-
riale? Questa impostazione influenzata dal neokantismo, e oggi
così predominante, è però troppo semplice ed esclusiva. In veri-
tà nessuna scienza è puramente empirica, ma ognuna è frammi-
sta di princìpi di elaborazione @ priori; e d'altra parte
nessuna scienza è puramente formale, ma comporta sempre
un'elaborazione dei fatti dell'esperienza e delle realtà vissute,
con la cui materialità sta al tempo stesso in stretta connessione
— prescindendo naturalmente dalla logica formale (si può qui
trascurare l'ardua filosofia della matematica, ossia la questione se
sia puramente formale e 4 priori, oppure anch'essa carica di sen-
sibilità e di intuizione). In ogni caso la dottrina dei valori non
può quindi essere una scienza puramente 4 priori e formale. An-
ch’essa rivela princìpi di elaborazione della realtà vissuta che
stanno in stretta connessione con questa e che possono venir
trovati soltanto in base all’analisi della vita reale. La sua distin-
zione dalle altre scienze della realtà consiste soltanto nel diver-
so significato e nella diversa posizione che i princìpi di elabora-
zione a cui essa fa riferimento hanno nei confronti della realtà
vissuta. Questi si propongono non già il collegamento esisten-
ziale e oggettivo del reale, ma la sua valutazione e formazione
soggettiva e normativa. Ma, come quelle forme di collegamen-
to si connettono strettamente con l’essenza del reale, così
anche queste norme di valutazione e di formazione si connetto-
termine su Heinrich von Ofterdingen (1799) c di Fragmente di argomento filosofico.
Il suo pensiero storico-politico è esposto in Die Clristenheit oder Europa (1799), roman-
tico vagheggiamento dell'unità del mondo cristiano medievale.
860 ERNST TROELTSCH
no indissolubilmente con le tendenze di contenuto già presenti
nella vita reale. Perciò, come quelle forme possono essere astrat-
te soltanto dalle scienze già esistenti e reagiscono poi sulle
scienze in forma più raffinata e sistematizzata, così anche que-
ste vengono tratte da valutazioni e formazioni effettive. Ciò
può accadere soltanto in virtù di una fenomenologia comprensi-
va, quale è stata oggi ormai intrapresa, soprattutto da parte
della scuola fenomenologica. Tutte le valutazioni, anche quelle
più soggettive, più accidentali e più legate ai sensi, vengono in
tal modo collocate su un terreno comune insieme con quelle
più oggettive, più ideali e più svincolate dalla sensibilità, per
poter poi rintracciare su questa base le diverse classi di valori e
la loro legge essenziale, e per poter infine ricondurre il rappor-
to reciproco delle varie classi di valori a una legge universale,
che naturalmente è una legge concernente non l’essere ma il
dover essere, pur essendo, in quanto tale, sempre profondamen-
te radicata nell’essere. Non è qui il caso di inoltrarci in partico-
lari assai spinosi. È necessario sottolineare la cosa principale,
cioè che questo inquadramento complessivo dei valori ha il
significato di mostrare fondamentalmente l’essere vivente non
già come un essere contemplativo e riflessivo, ma come un
essere che agisce praticamente, che sceglie, lotta e tende a qual-
cosa, in cui ogni mera intellettualità e ogni mera contemplazio-
ne si pone, in ultima istanza, al servizio della vita, sia essa
animale o personale-spirituale. Ciò è importante, nel suo signifi-
cato assolutamente decisivo, anche per il nostro argomento.
Altrettanto importante è però mettere in rilievo che, a un’anali-
si più prossima, l’unitarietà di questi valori pratici — inizial-
mente ammessa — si articola immediatamente nei valori mera-
mente animali e nei valori personali-spirituali della cultura, ai
quali appartiene il carattere formale della doverosità e dell’im-
pegno alla- realizzazione. Particolarmente significativa è poi,
sempre all’interno di questi ultimi, la scissione tra le conse-
guenze tratte dalla doverosità formale — le quali, in quanto
doveri individuali e doveri comunitari, designano l’elemento
morale in senso stretto® — e i contenuti culturali, di cui si
a. Di questa scissione si dovrà ancora parlare nell'analisi conclusiva
sull’etica e sulla filosofia della storia.
ERNST TROELTSCH 861
tratta nelle scienze della cultura o nelle scienze sistematiche
dello spirito relative allo stato, al diritto, all'economia, all’arte,
alla religione e alla scienza (per lo meno nella misura in cui
questa è bene culturale e non logica). Il fine ultimo di quest’a-
nalisi è perciò naturalmente, come ogni volta che si confidi
nell’unità e nel senso del reale, la sintesi in vista di una costru-
zione e di un sistema dei valori in cui il presupposto di questa
fiducia — che è, in ultima analisi, una fiducia religiosa — non
dev'essere dimenticato, e in cui anche l’intera questione dell’esi-
stenza e dell’origine di questi valori nell’essere vivente finito
deve riportare al rapporto della coscienza assoluta o Dio con la
coscienza finita. La dottrina dei valori conduce necessariamente
a sfondi metafisici in cui dev'essere risolto, in particolare, anche
il problema del rapporto tra vita e materia della vita, tra dover
essere ed essere ?,
a. Purtroppo lo sviluppo e la formazione storica della dottrina dei va-
lori non sono ancora stati studiati in maniera sufficiente. Sarebbe urgente
un libro in proposito del tipo della Geschichte des Materialismus di Lan-
ge? o dell’Erkenntnisproblem di Ernst Cassirer3. Le esposizioni attuali
prendono invece le mosse soprattutto da Lotze, che ha dato inizio al mu-
tamento propriamente moderno della metafisica in una dottrina dei valori
e ha quindi inserito, come in ultima istanza decisive per il contenuto
della metafisica, le idee della dottrina kantiana della ragion pratica su
una base metafisica alquanto più ampia. La dottrina dei valori costituisce
di per sé un problema molto più antico e comprensivo, e l’inserimento
kantiano-lotziano nella metafisica è soltanto una delle molte forme pos-
sibili di collegamento con la metafisica. Il suo problema ultimo, più ca-
ratteristico e generale consiste quindi nella permanente conversione dell’es-
sere nell’aspirazione e nel dovere, e di questi ultimi nuovamente nell'es-
2. F. A. Lance, Die Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in
der Gegenwart, Iserlohn, 1866. — Friedrich Albert Lange (1828-1875), filosofo tedesco
di orientamento neokantiano, fu altresì autore di Die Grundlagen der mathematischen
Psychologie (1865), di Die Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung fiir Gegenwart und Zukunfe
(1865), dei Neue Beitrige zur Geschichte des Materialismus (1867) e delle postume Logi-
sche Studien (1877).
3. E. Cassirer, Das ErZenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschafe der
neueren Zeit, Berlin, 1906-1920 (il quarto e ultimo volume sarà pubblicato in inglese a
New Haven, nel 1950). — Ernst Cassirer (1874-1945), filosofo tedesco di orientamento
neokantiano, autore di Stbstanzbegrif und Funktionsbegriff (1910), della Philo-
sophie der symbolischen Formen (1923-1929), di Zur Logik der Kulturwissenschaften
(1942), di An Essay on Man (1944) e di altre importanti opere di storia della filosofia,
in particolare sul Rinascimento e sull'Illuminismo, sviluppò l'impostazione neocritici-
stica propria della scuola di Marburg nel senso di una « filosofia della cultura ».
862 ERNST TROELTSCH
In tal modo non è stata ancora caratterizzata abbastanza la
specificità di questa scienza, e soprattutto non è stata illustrata
la particolarità dell’attuale stato del problema, sottoposto a
oscillazioni così sensibili. Essa pure riesce a fare completa chia-
rezza sul metodo e sul fine soltanto se, anche qui, si ritorna
alle radici dei punti di vista e delle terminologie moderne, cioè
alla svolta cartesiana verso la filosofia della coscienza, da cui
abbiamo già visto scaturire il naturalismo e lo storicismo. Ciò
che qui inganna è soltanto la circostanza che l’equiparazione
terminologica di tutte le reazioni pratiche, sia del sentire sia
del volere, in quanto valori, è dovuta alla filosofia moderna
successiva a Lotze e all’influenza dell'economia politica. In sé
e per sé, invece, l'impostazione è antica e coincide con il carte-
sere — un problema che non può venir risolto in base ai presupposti della
logica puramente formale e astratta della riflessione, ma che rimanda a
quel piano meta-logico giù sopra accennato. Se viene mantenuto sul piano
della logica astratta della riflessione, esso conduce sempre ad antinomie
e a impossibilità, a semplici accostamenti tra essere e dover essere, tra
causalità e teleologia, tra determinismo e libertà, tra immobilità e mo-
vimento, tra rappresentazione e volontà —- in breve, a un dualismo inso-
stenibile, in cui alla fine rimane soltanto l'essere come il più facile da
rappresentare e da elaborare logicamente. Tra le esposizioni storiche cfr.
K. WieperHoLp, Wertbegriff und Wertphilosophie (Erginzungs-Heft alle
« Kantstudien », 52, Berlin, 1920); E. HevpE, Grundlegung der Wertlehre,
Leipzig, 1916 (dal punto di vista della filosofia dell’immanenza di Grefs-
wald); W. SrricH, Das Wertproblem und die Philosophie der Gegen-
wart (Diss.), Leipzig, 1909; G. Picx, Die Ubergegensdtzlichkeit der Werte,
Tibingen, 1921 (si richiama a Lask e a Rickert). Accanto ai lavori più
volte citati di Ehrenfels, Meinong, Miinsterberg, Volkelt, si devono segna-
lare E. von Hartmann, System der Philosophie im Grundriss, vol. V:
Grundriss der Axiologie, oder Wertwigungslehre, Sachsa, 1908; E. von
Srrancer, Lebensformen, Halle, 2° ed. 1921; M. ScHeLER, Der Forma-
lismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle, 22 ed., 1921; D.
von Hitpesranp, Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis, «Jahrbuch
fiir Philosophie und phinomenologische Forschung », V, 1922, pp. 462-601
(trattazione di finissima psicologia cattolica da cura dell'anima, intesa co-
me «legge essenziale » dell'ordinamento dei valori); T. Lessine, Studien
zur Wert-Axiomatik, Leipzig, 2° ed. 1914 (di tendenza anti-psicologi-
stica e indifferente a ogni reale, con conseguenze pessimistiche). Sono lar-
gamente d’accordo con J. VoLkeLr, di cui si veda il System der Asthetik,
Miinchen, vol. III, 1914. Lo stesso problema ritornerà in seguito dal punto
di vista del concetto di sviluppo, e ci costringerà a menzionare e a distin-
guere le diverse scuole e i diversi gruppi: per ora basti un accenno.
ERNST TROELTSCH 863
sianesimo. Se il punto di partenza decisivo è la coscienza,
l'analisi dei suoi contenuti e dei suoi principi formali e la
costruzione filosofica della realtà in base agli clementi e ai
princìpi in essa trovati, allora le rappresentazioni, i sentimenti
e le volizioni — vale a dire la cosiddetta esperienza interna ed
esterna — diventano il solido nucleo di ogni pensiero, e i fatti
teoretici e pratici della coscienza si accostano gli uni agli altri
come datità in larga misura omogenee, a partire dalle quali
soltanto si può procedere a un'articolazione e a una distinzio-
ne. Le cose stavano in modo completamente diverso nella filoso-
fia antica e medievale. Qui non c’era una dottrina della ragion
pratica o dei valori, bensì una dottrina dei beni e degli scopi,
rispetto ai quali la vita affettiva sensibile apparteneva fin dall’i-
nizio all’aspetto finito e sensibile, inessenziale, dell’esistenza.
In Platone e Aristotele i beni erano scopi cosmici, contenuti
nella ragione divina, che si realizzavano nello sviluppo teleolo-
gico attraverso la « partecipazione » dello spirito finito alla ra-
gione divina. Non diversamente stavano le cose con la legge
naturale dello Stoicismo, che era una legge cosmica e alla qua-
le la ragione umana partecipava in una maniera particolare.
Anche l’edonismo, che si esprimeva in forma collaterale, sfocia-
va in un'imitazione dell'armonia e della bellezza dell’universo,
e per di più non riuscì ad affermarsi. La dottrina cristiana
fondava i beni su un ordine cosmico e su una gerarchia dei
beni, accogliendo così fondamentalmente le idee antiche, e svi-
luppava il suo sistema gerarchico dei beni come una copia dei
gradi di realizzazione della vita di Dio nel mondo. In ultima
analisi essi non procedono più qui in base alla mera « partecipa-
zione » al sistema soprasensibile delle idee e delle leggi, ma
scaturiscono da una conciliante auto-partecipazione di Dio nella
creatura, che si esprime in valori umanitario-naturali e in valori
religiosi-soprannaturali. Identità e diversità tra spirito divino e
spirito finito vengono qui affermate contemporaneamente, e da
questa coincidentia oppositorum scaturisce il sistema dei beni
come manifestazione di un movimento di vita divino *. Soltan-
a. Cfr. il mio Augustin. Die christliche Antike und das Mittelalter,
Miinchen, 1915, e H. Hemsòra, Die sechs grossen Themen der abendlin-
dischen Metaphysik und der Ausgang des Mittelalters, Berlin, 1922.
864 ERNST TROELTSCH
to la svolta cartesiana ha trasformato i beni in fatti esclusivi di
coscienza. L’empirismo inglese ne ha subito tratto la conseguen-
za dell’equiparazione di tutte le reazioni pratiche in quanto
sensazioni di piacere e si è sforzato di costruire l’etica e il
sistema culturale sulla base del piacere. I grandi razionalisti
continentali si attennero certamente, anche nella filosofia prati-
ca, alla scissione tra sensibilità e ragione, ma nel complesso
cercarono di ricondurre i valori all’intelletto, e cioè di sviluppa-
re l’etica in base al fatto — immanente alla coscienza — dell’in-
telletto e quindi della sua antitesi rispetto alla sensibilità. An-
che un metafisico dogmatico come Spinoza non faceva eccezio-
ne, poiché tutta la sua metafisica è, in definitiva, il dispiega-
mento dell’essenza formale del pensiero, e in quanto tale proce-
de da parte sua dalla coscienza. La terminologia si muove
ancora all’interno del linguaggio antico e cristiano, mescolata
con la terminologia del piacere — anch'essa del resto derivante
dall’antichità. Ma il principio è già quello dei «valori». La
dottrina kantiana produsse infine i concetti universali della ra-
gione teoretica e della ragione pratica, distinguendo poi all’in-
terno di quest'ultima tra scopi ipotetici e scopi categorici e
sovra-ordinando in linea generale il pratico al teorico. Anche la
speculazione post-kantiana non è tanto distante come può sem-
brare, poiché la sua dottrina dell'identità procede ancora dalla
conoscenza e cerca di derivare i valori dall’essenza formale
della ragione, non dalla ricchezza ontologica dell’idea di Dio. I
valori non sono partecipazione o derivazione della grazia, bensì
produzione e creazione umana in base all’impulso della ragio-
ne. Infine le dottrine del positivismo, che è assai vicino all’utili-
tarismo inglese, fanno egualmente sorgere nello sviluppo i valo-
ri culturali dall’intelletto e dal senso comune, cioè spiegano
tutto sulla base di dati fondamentali psicologici e delle loro
implicazioni evoluzionistiche, per fondare in definitiva — con
la maggiore sobrietà possibile — una sistematica dei fini socia-
li così posti sulla base di una conoscenza positiva delle leggi
della natura e della società. La naturale conseguenza di ciò è
stata alla fine la terminologia dei valori, cioè la riunione —
oggi consueta — di tutte le reazioni e formazioni pratiche nella
teoria dei valori; e l’indagine sistematica del significato del
valutare poteva ora essere intrapresa non soltanto per la coscien-
ERNST TROELTSCH 865
za, ma per la filosofia nel suo complesso — come è accaduto 2
partire da Lotze, fino a confluire oggi con la filosofia pratica
di Kant. La « filosofia dei valori » in senso stretto, sviluppatasi
oggi in seguito a questa confluenza, la quale edifica l’intera
dottrina dei valori in base al valore teoretico o al valore di
validità dell’elemento logico e la pone in questa forma al posto
della metafisica — ci riferiamo in particolare alle teorie di
Miinsterberg, di Rickert e di Lask — rappresenta pertanto un
tentativo di spremere dall’elemento soggettivo o immanente al-
la coscienza l’elemento oggettivo: tentativo che esprime, con
tutta la sua acutezza, soltanto la precarietà di un siffatto punto
di vista dell’immanenza. Queste teorie costituiscono, entro la
dottrina dei valori, soltanto una specificazione acuta ma poco
feconda.
Questo fondamentale soggettivismo non costituisce però l’e-
lemento decisivo per la connessione che abbiamo ora di fronte.
Esso non potrà venir mutato nel suo punto di partenza analiti-
co-coscienziale finché dura il pensiero moderno, e si potrà discu-
tere soltanto dei suoi risultati e del modo delle sue conclusioni
metafisiche — in quanto mutamenti siffatti non sono mai man-
cati e vengono oggi ripresi in modo sempre più pressante,
senza dimenticare l'applicazione assai approfondita di Male-
branche alla conoscenza in Dio anche dei valori pratici *. Per
il nostro argomento è però decisivo un altro punto. Dato il
carattere immanente-soggettivo dell’utilitarismo, della ragione
pratica e del positivismo, il solo mezzo per distinguere i valori
oggettivi, oggetto di dovere, o i valori culturali etici dai valori
animali e sensibili della vita e dell’utilità diventa l’universalità
a. In Spranger e in Scheler* i punti di contatto con Malebranche sono
innegabili. Sulla genesi dell'idea di individualità in Leibniz cfr. H. ScHma-
LENBACH, Leibniz, Mùnchen, 1921 — libro molto istruttivo, anche se l’asse-
rita connessione con il Calvinismo non mi sembra abbastanza persuasiva.
4. Max Scheler (1874-1928), filosofo tedesco, autore di Die transzendentale und
die psychologische Methode (1900), di Der Formalismus in der Ethik und die materiale
Wertethik (1916), di Wesen und Formen der Sympathie (1923), di Die Wissensformen
und die Gesellschaft (1926), della Philosophische Weltanschauung (1929) c di varie
altre opere, appartiene al movimento fenomenologico: egli si propose soprattutto di
costruire un'etica «materiale », fondata sulla determinazione di una gerarchia di
valori e contrapposta quindi all'etica «formale » kantiana.
55. STORICISMO TEDESCO,
866 ERNST TROELTSCH
delle valutazioni — da un lato l’uziversalità empirica e di
fatto, dall’altro la validità universale ideale, che dev'essere rico-
nosciuta. La maggiore utilità possibile del maggior numero
possibile di persone oppure la validità universale formale della
ragion pura, libera dalla sensibilità, o ancora la vittoriosa diffu-
sione riconoscibile nel corso dello sviluppo: questi diventano
gli strumenti di distinzione, e quindi i criteri di valutazione.
Ma con ciò viene scartato il concetto di individualità. Esso
diventa un insieme di punti d’intersezione accidentali di leggi
psicologiche generali da cui si deve estrarre, in modo faticoso
e artificioso, l’universale dover essere; o diventa intorbidimen-
to, adattamento e individualizzazione storica, che perviene alla
norma in sé, atemporale e universalmente valida. Nell’uno e
nell'altro caso non c’è alcuna via verso l’individuale, inteso
come unità intima di fattuale e di ideale. Una via siffatta non
è stata ancora trovata neppure nelle odierne considerazioni fe-
nomenologiche, le quali prendono tutte quante le mosse da
norme, dalla visione dell'essenza e dalla legalità atemporale,
per aggiungervi soltanto in seguito il rattoppo dell’individualiz-
zazione empirica. Proprio perciò queste dottrine dei valori urta-
no sempre, senza speranza, contro la storia. Esse disconoscono
l'autentica individualità presente nella storia, come stato parti-
colare e determinato di un intreccio reciproco di essere e dover
essere, di fattuale e ideale; disconoscono l’inesauribile e impre-
vedibile produttività della storia, la quale produce sempre nuo-
vi elementi individuali e quindi non individualizza leggi gene-
rali, ma ci pone di fronte a formazioni di valori sempre nuove
e imprevedibili. Questo è il nucleo in cui, più che altrove, la
moderna dottrina dei valori ha bisogno di una riforma. Ciò che
insegnarono i Romantici, Schleiermacher, Wilhelm von Hum-
boldt, Goethe, dev*essere sempre riconosciuto di nuovo come il
suo problema principale, e posto al centro® per cacciare via gli
a. Si veda il Politisches Gesprich di Ranke in Werke, voll. XLIX.L:
Zur Geschichte Deutschlands und Frankreichs im 19. Jahrhundert (a cu-
ra di A. Dove), Leipzig, 1887, p. 325: «Senza una tensione, senza un
nuovo inizio non si può pervenire dall’universale al particolare. Lo spiri-
tuale, che ti sta improvvisamente davanti nella sua imprevista realtà, non
si lascia derivare da nessun principio superiore. Partendo dal particolare
puoi clevarti, con cautela e risolutezza, all’universale; ma dalla teoria
ERNST TROELTSCH 867
spettri di leggi generali e atemporali, con le quali la storia e la
vita non possono cominciare nulla e che aprono sempre nuovi
abissi immaginari tra storia e dottrina dei valori, le quali tendo-
no invece a unificarsi. Il fatto che le teorie fenomenologiche,
nella loro aspirazione ben consolidata a leggi generali di essen-
za, pervengano, nei diversi pensatori, a risultati diversi — nono-
stante la conclamata visione dell'essenza — costituisce la prova
di questo stato di cose assolutamente decisivo.
È del tutto impossibile, partendo dalla fragile, isolata e
vuota coscienza — per quanto si possa attenuarla e dissolverla
mediante la teoria della non-sostanzialità o dell’inconoscibilità
dell'io — ottenere in virtù di una semplice psicologia delle
reazioni la comprensione dell’individualità, che dovrebbe ap-
punto avere la sua sede principale nella dottrina dei valori. Di
qui si perviene sempre soltanto ad acuti sofismi o a nullità
tautologiche, alla disputa se il valore risieda nell’oggetto o nel
soggetto o nella relazione tra i due termini, se esso sia una
sensazione e una percezione oppure una disposizione e una
reazione soggettiva, se sia fondato su un giudizio di esisten-
za o di non-esistenza, se sia semplicemente momentaneo o co-
stante, semplicemente relativo o se scaturisca dal sentire o dal
volere o dal rappresentare o da un elemento psichico ad esso
proprio, se sia meramente accidentale e personale oppure sovra-
personale e oggettivo, e così via. Tutte queste difficoltà artificio
se e insolubili, oppure solubili soltanto introducendo di soppiat-
to valori dogmaticamente normativi (e proprio per ciò oggetto
di fede), cadono qualora si concepisca in modo diverso il pun-
to di partenza, cioè il cosiddetto io, qualora lo si consideri non
più come qualcosa di isolato e di vuoto, provvisto soltanto delle
facoltà formali del rappresentare, del sentire e del volere, ma
come virtualmente comprensivo — e ogni volta in un ambito
assai diverso — della totalità della coscienza, oppure si conside-
ri quest’ultima come comprendente in sé l'io, qualora si ritorni
(in qualche forma oggi possibile) all'idea leibniziana della mo-
nade, e in particolare della monade umana, che assume in base
generale non c'è strada che conduca all’intuizione del particolare ». Si ve-
da inoltre p. 327: « Natura della cosa, opportunità, gezio e fortuna coope-
Priz/e » OPp 6 P
rano [al sorgere di nuove forme] ».
868 ERNST TROELTSCH
alle sue complicazioni una posizione particolare. Allora è possi-
bile intendere i valori nella loro ovvia soggettività e nel loro
carattere relazionale, che deriva dal carattere pratico e dai fini
pratici di ogni essere, cioè dalla vita che tutto riempie. Allora
le valutazioni estranee, passate e future, possono venir sentite
come proprie, perché portiamo al tempo stesso in noi gli io
estranei. Allora possono esserci coincidenze nelle valutazioni,
in quanto noi tutti deriviamo dal medesimo fondamento della
totalità della vita, e possiamo quindi sentire allo stesso modo.
Allora è possibile distinguere i valori animali, cioè i valori
meramente vitali che derivano dalle relazioni ambientali, rispet-
to ai valori oggettivi o spirituali, poiché questi ultimi esistono
per la totalità dello spirito divino nella sua totalità che compren-
de la finitudine, e poiché l’essere individuale partecipa a questa
totalità dello spirito. Allora possono esserci medie e sedimenta-
zioni sociologicamente condizionate di queste valutazioni, oscu-
rità, turbamenti e disordini dei conflitti tra motivi, da cui
scaturiscono alla fine sempre soltanto il rischio e l’auto-riflessio-
ne, cioè una propria disposizione la quale non è tuttavia inven-
zione. Psicologia e sociologia possono descrivere tutte queste
forme di realizzazione, ma non possono fondare alcun valore
particolare e scoprirne le origini ultime. Ma, soprattutto, soltan-
to in questo modo si può cogliere il senso autentico dell’indivi-
dualità, così come i Romantici e i poeti, i filosofi e gli storici
— in primo luogo Wilhelm von Humboldt — lo hanno sottrat-
to all’intellettualismo leibniziano, ancora chiuso in sé senza
finestre. Questo essere individuale che partecipa alla totalità
della vita rappresenterà e realizzerà nella sua situazione, nel
suo ambiente e nella sua influenza particolare il fondamento
comune della vita in una maniera ad esso propria — sia sotto
l'aspetto animale del soddisfacimento dei bisogni e della promo-
zione della vita, sia sotto l’aspetto della comprensione del mon-
do delle idee divine. L'uomo, nel suo grado di realizzazione
della coscienza, diventerà quindi un essere storicamente indivi-
dualizzato, nonostante i mille aspetti di omogeneità e di comu-
nanza che ha con altri uomini, e possiederà in tal modo non
soltanto una determinatezza di fatto, ma anche un compito che
è oggetto di dovere, nella cui realizzazione crca e acquisisce la
sua essenza. Rimangono naturalmente le questioni ultime —
ERNST TROELTSCH 869
come Dio o l’assoluto o la totalità della vita pervenga a questo
movimento costante dell’essere verso i valori, che altro non è
se non la vita, e come questa totalità della vita pervenga all’au-
to-divisione nelle monadi finite. Si tratta di questioni a cui
nessuno può rispondere, ma che non possono neppure essere
sostituite da altre impostazioni più corrette e più facilmente
suscettibili di risposta. Esse sono eterne come il pensiero: sol-
tanto l’auto-divinizzazione e l’auto-svuotamento dello spirito
moderno — due momenti strettamente connessi tra loro —
hanno potuto dimenticarle o considerarle mal poste. Si ritorne-
rà ancora su di esse trattando della teoria della conoscenza
storica. Qui ci limitiamo per ora ad accennare al significato
decisivo di questa impostazione per l’individualizzazione stori-
ca di tutti i valori. Essa vale sia per gli individui particola-
ri che per gli individui collettivi, senza i quali non si potrebbe-
ro concepire neppure i primi e che, da parte loro, possono
essere concepiti soltanto in base ai presupposti indicati.
In tal modo il concetto centrale della dottrina dei valori
diventa quello dell’individualità, nel senso di un’unificazione
di fattuale e di ideale, di dato naturalmente e in conformità
alle circostanze e, nel medesimo tempo, di eticamente imposto.
In questo senso il concetto di individualità coincide con quello
della fondamentale relatività dei valori. Ma relatività dei valo-
ri non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbitrio, bensì
designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò mai deter-
minabile atemporalmente e universalmente, di ciò che esiste di
fatto e di ciò che dev'essere. Questo intreccio può e dev'essere
colto ogni volta — sia che si tratti dell’individualità singola
di una persona, sia che si tratti dell’individualità collettiva di
un popolo e di una comunità culturale — mediante l’auto-rifles-
sione e l’approfondimento in se stessi, nonché mediante la com-
prensione e la conoscenza della situazione e del condizionamen-
to storico. Non è senz'altro a portata di mano, ma dev'essere
creato; non si tratta quindi di un naturalismo di tipo vegetale.
Proprio perciò questo intreccio non è qualcosa di estetico, che
induca all’auto-godimento o alla semplice curiosità — come
viene spesso frainteso — ma è un compito e un dovere, e al
tempo stesso anche un orientamento universale, assai sobrio e
pratico, sulle possibilità e sui presupposti della situazione. Esso
870 ERNST TROELTSCH
esige un sapere spassionato, una volontà chiara, uno sguardo
acuto. Tanto meno l’individuale, inteso in questo senso, costitui-
sce una mera categorica logica, che debba essere applicata a
qualsiasi oggetto in virtù di una coercizione logica, a fianco di
una considerazione dal punto di vista di leggi generali che
derivi dalla medesima coercizione. Esso è piuttosto una creazio-
ne umana e una realtà metafisica, l’intreccio di fatto e di
spirito, di natura e di ideale, di necessità e di libertà, di univer-
sale e di particolare. Esso emerge con forza e importanza mol-
to diversa dagli sfondi nascosti dei processi storici. Vi sono
uomini e periodi, strati sociali e gruppi ricchi di individualità
e poveri di individualità; i primi sono sempre caratterizzati da
una salda fede in questo loro procedere dall’universale. Essi
percepiscono la loro particolarità come missione divina e come
compito, e non badano all’interesse della propria personalità,
ma alla specificità del loro compito. Si apre così, muovendo
dall’individuale, lo sguardo verso la metafisica, del quale non
si ritiene di aver bisogno quando ci si attiene a ciò che è
astrattamente generale, poiché questo in apparenza sostituisce
la metafisica. Il costante procedere dell’individuale e dei suoi
criteri da uno sfondo oggettivo e universale è però un’idea che
non si può formulare senza la metafisica, a meno di non farla
rientrare nell’ambito — del resto impossibile — del mero acci-
dentale o dell’interessante auto-compiaciuto. A questo punto si
stabilisce la relazione della dottrina dei valori con la metafisi-
ca, che in altri punti appare meno pressante. Ma la relatività
dei valori ha senso soltanto se in questo relativo c'è qualcosa
di assoluto che vive e che crea; altrimenti essa sarebbe soltanto
relatività, non già relatività dei valori. Essa presuppone un
processo vitale dell’assoluto, nel quale questo può essere colto e
formato in ogni punto nella maniera corrispondente a tale pun-
to. L’assoluto dev'essere colto ovunque e in primo luogo dev’'es-
sere anche formato. Infatti esso è una volontà di creazione e di
forme, la quale negli spiriti finiti diventa auto-formazione in
base a un fondamento e a un impulso divino. E questi diversi
punti devono connettersi e succedersi secondo una determinata
regola, che costituisce l’essenza del divenire dello spirito
divino e che si afferma, nonostante tutto, nelle vicende acciden-
tali e negli erramenti o nei cedimenti della volontà. Tutto ciò
ERNST TROELTSCH 871
inerisce al concetto d’individualità, di relatività dei valori, di
criterio e di sempre nuova creazione. Questa connessione con
l’assoluto può essere un mito, com'era un mito la dottrina
platonica della partecipazione Ia quale conteneva già il nucleo
di una dottrina dell’individualità, almeno nella misura in cui
lo consentiva lo spirito dell’antichità, che ipostatizzava i valori
e li considerava come affari generali dello stato. Anche la dot-
trina cristiana dell’auto-disvelamento di uno spirito divino vi-
vente nello spirito finito costituisce un mito; però essa ha con-
dotto alle più fini e profonde osservazioni psicologiche, che
chiariscono gli enigmi dell'anima molto più profondamente di
quanto non possano farlo le aride teorie psico-genetiche o aprio-
ristiche con cui si sono sostituiti gli antropomorfismi e i duali-
smi, certamente sovente rozzi, di questo modo di pensare. Con
mezzi semplici come la derivazione psicologica dal piacere o
da un altro principio analogo, o come l’estrazione dei caratteri
meramente formali, non si può cogliere il miracolo dei valori,
dell’individualità e della relatività, che la storia pone in mille
modi davanti ai nostri occhi?.
a. Su tutta questa tematica si veda T. Lit, Geschichte und Leben,
Leipzig, 1918, assai vicino al punto di vista qui sviluppato. Stimolante e
per molti versi affine è pure R. MicLer-FrerenFELS, Philosophie der
Individualitàt, Leipzig, 1921. In questo libro si percorre energicamente
fino in fondo la strada, sovente tentata, della trasformazione del punto
di partenza cartesiano, sostituendo la coscienza con il concetto di incon-
scio, e con la correlazione tra soggetto e oggetto nell’universale corrente
cosmica della vita, che lampeggia nell’io singolo, nel singolo momento
della coscienza. Ma in tal modo il concetto di individualità viene dissolto
in quello del semplice io o dell'essere singolo, e quest'ultimo viene poi
radicato nell’universale corrente della vita, al di sopra o al di sotto della
coscienza. Si dissolve così l'intreccio di generale e di particolare, di asso-
luto e di relativo, che mi raffiguro; l’individuale diventa immediatamente
caos e turbine, e la valutazione diventa anche qui qualcosa di sempli-
cemente razionale-generale, che deve poi essere una « razionalizzazione »
sempre soltanto parziale e relativa, sempre fittizia, inevitabile per gli
scopi della vita. Nessuno sa da dove questa possa venire, in queste circo
stanze, dal momento che l’autore non vuole vedervi semplicemente delle
finzioni utili sotto il profilo biologico. — Analoghe obiezioni continuo a
mantenere contro le idee affini esposte da G. Simmer in Lebensanschauung,
Miinchen und Leipzig, 1918. Qui l’individuale diventa un felice caso di
coincidenza della vita con una forma che la penetra. Anch'egli conosce
872 ERNST TROELTSCH
In tal modo siamo ritornati alla storia. Di fatto l’uomo che
agisce e la storia che parla di lui non possono affatto essere
compresi senza il concetto della relatività dei valori. Per quan-
to riguarda l’uomo che agisce basta fare riferimento a Goethe,
la cui dottrina dell'attività sempre nuova e vivente, che scaturi-
sce dall'esigenza quotidiana, che trova conferma nella sua fe-
condità ed è, in ultima analisi, fondata su un impulso divino,
rappresenta addirittura il vangelo della relatività dei valori.
Da tutt'altro versante Kierkegaard ha formulato, nelle sue di-
scussioni estremamente istruttive con Hegel e con il Romantici-
smo, la stessa idea: « L'elemento storico è l’unità del metafisi-
co e dell’accidentale. Io divento a un tratto consapevole di me
stesso, nella mia necessità e nella mia finitudine accidentale
(in quanto io, questo essere determinato, nato in questa regio-
ne e in quest'epoca, sono sotto l’influenza molteplice di tutte
queste mutevoli circostanze). E quest’ultimo aspetto non può
essere trascurato, anzi la vera vita dell'individuo è l’apoteosi
quindi nella storia soltanto le epoche di grazia, cioè le poche isole in cui
si raggiunge tale felice coincidenza. Per me l’individuale come fatticità è
distinto dali’individualità che dev’esserne formata come suo compito: risul-
ta così possibile vedere un’aspirazione e un travaglio continuo attraverso cui
queste isole si riuniscono a formare dei continenti. Le isole simmeliane
sono soltanto le vette di questo massiccio montuoso che le connette. — È
facile scorgere quanto la mia idea sia vicinissima alla concezione di Wil-
helm von Humboldt. Ma ja fondazione gnoseologica e la valutazione
relativa all'etica e alla filosofia della storia sono differenti. Su Humboldt
si veda l'opera citata di E. SpranceER e l’analisi (condotta da un punto di
vista antitetico) di J. GoLDFRIEDRICH, Die historische Ideenlehre in Deutsch-
land, Berlin, 1902, che costituisce del resto la sola analisi utilizzabile del
libro. Per il modo in cui il problema si configura presso un pensatore
evoluzionista che rifiuta l’individualismo storico, si può vedere Hans
DriescH 5, Si svaluta la storia, e si hanno criteri soltanto in base all'unico
elemento che si sviluppa, cioè al sapere, Driesch stesso (nella Wirklich-
keitslehre, Leipzig, 1917, PP- 327 -34) si riferisce a Schopenhauer e agli
Indiani. Sui diversi concetti di individualità cfr. H. ScHmaLENBACH, Indi
vidualitit und Individualismus, « Kantstudien », XXIV, 1920, pp. 365-88.
5. Hans Driesch (1867-1941), zoologo, biologo e filosofo tedesco, autore di Der
Vitalismus als Geschichte und als Lehre (1905), della Philosophie des Organischen
(1909), della Ordaungslehre (1912), di Leib und Scele (1916), della Wirklichkeitslehre
(1917), della MerapAysik der Natur (1926) e di numerose altre opere, formulò una
concezione vitalistica della realtà in opposizione al punto di vista del meccanicismo.
ERNST TROELTSCH 873
della finitudine, la quale non consiste nel fatto che l’io privo
di contenuto esca di soppiatto da questa finitudine per volatiz-
zarsi e svaporare nella sua emigrazione celeste, ma nel fatto
che il divino abita e si trova nelle finitudine ». Dal lato dell’uo-
mo questo divino individualizzato non può essere colto, secon-
do lo stesso Kierkegaard, solamente nel salto e nel rischio esi-
stenziale; non si tratta di una concrezione estetico-panteistica,
ma di un prodotto dell’azione e dell’auto-formazione che si
deve rischiare nel pericolo dell'errore e che ci si deve ogni
volta riproporre per acquisire, nella ripetizione, una connessio-
ne e una consistenza *. Interessanti sono anche le considerazio-
ni con cui il generale von Radowitz® guarda retrospettivamen-
te al suo lavoro, e che si possono qui citare per le osservazioni
che vi aggiunge a commento uno dei nostri storici più significa-
tivi. Radowitz aveva combattuto per la realizzazione di un siste-
ma di norme religiose e razionali di politica e di cultura, e nei
suoi Neue Gespriche (1851), in genere veramente istruttivi, era
pervenuto a questo risultato: «la verità non è assoluta, bensì
relativa allo spazio e al tempo » — ma, beninteso, rimane pur
sempre verità. Osserva in proposito Meinecke: « Tutte queste
idee erano onde nella corrente del movimento generale dell’epo-
ca, che era diretto a frantumare dogmi, speculazioni e costru-
zioni astratte, e a sostituire l'elemento di assoluta verità e gui-
da nella vita con ciò che è storicamente vero e vivente. Così
Radowitz, nell’ultimo stadio del suo sviluppo, si approssimava
al moderno realismo storico »*. E alcune pagine prima: « Due
a. Cfr. H. Reuter, S. Kierkegaards religionsphilosophische Gedanken
im Verhéltnis zu Hegels religionsphilosophischem System, Leipzig, 1914,
Pp. 42-43. Si veda anche Ranke (Politisches Gespràch cit., pp. 337-39):
« Ogni vita reca in sé il proprio ideale: l'impulso intimo della vita spiri-
tuale è il movimento verso l'idea, verso una maggiore eccellenza. Questo
impulso è innato, radicato nella sua origine... Quante comunità spirituali
terrene, tratte alla luce dal genio e dall'energia morale, comprese entro
uno sviluppo inarrestabile, ognuna a proprio modo! Guarda a queste co-
stellazioni nei loro corsi, nella loro azione reciproca, nei loro sistemi! ».
6. Joscph Maria von Radowitz (1797-1853), uomo politico tedesco, ebbe una
parte importante nella politica prussiana dopo il 1848; nel 1858 fu per alcuni mesi
ministro degli affari esteri, conducendo una politica apertamente anti-austriaca.
7. F. Meinecge, Radowitz und die deutsche Revolution, Berlin, 1913, p. 533.
874 ERNST TROELTSCH
compiti strettamente connessi tra loro si ponevano allo spirito e
alla volontà di quell’epoca: ricollegare alla realtà la sfera delle
massime ideali, minacciate di isolamento, e riunire organica-
mente all’interno di tale realtà le potenze vitali antiche e nuo-
ve, passate e future »*. Si tratta della fondamentale teoria del
«realismo storico » di cui Meinecke parla qui e in altri passi,
e con cui si indica la trasformazione della storia ideale di tipo
hegeliano e della storia organicistica di tipo schellinghiano, ma
anche della storia politica troppo soggettivamente diretta agli
scopi del presente, nel realismo universale della metà del seco-
lo xix. Questo realismo storico è, almeno in Germania, qualco-
sa di completamente diverso dall’equiparazione della storia
con le scienze della natura. Esso non si esaurisce affatto nel
forte rilievo dato agli elementi economici e sociologici nella
comprensione storica 0 nell’apprezzamento dell’accidentale, del-
l’irrazionale e della personalità. La sua essenza più propria
non è altro che l’idea dominante della relatività dei valori e
dell’individuale, sia che si tratti di individualità particolari o
di individualità collettive. Esso risulta quindi completamente
autonomo dal realismo delle scienze naturali; e anche con la
politica realistica di Bismarck ha a che fare soltanto nella misu-
ra in cui questa ha contribuito a rendere diffidenti verso le
risoluzioni troppo idealistiche del reale e dei suoi conflitti in
generalità ideali e in contraddizioni meramente logiche. Per il
resto, questo realismo è quanto mai lontano dalla concezione
amorale e cinico-scettica della storia: esso vede nelle formazio-
ni storiche il divino nelle sue concrezioni e nella sua lotta
contro il caos e la malvagità, come mette in rilievo lo stesso
Meinecke. Certamente, esso è stato finora troppo poco indaga-
to sotto il profilo teoretico, ed è difficile estrarre i suoi tratti
fondamentali più generali dalla smisurata letteratura storica.
Esso è ancora molto insicuro nel cogliere l’assoluto nel relati-
vo, e perciò non trova o non cerca la via verso una sintesi
culturale contemporanea®. Non si può tuttavia disconoscere
a. Sul relativismo storico si veda G. P. Goocn, History and Historians
in the Nineteenth Century, London, 1913, nonché J. E. E.D. Acton, The
8. Op. cit., p. 522.
ERNST TROELTSCH 875
che proprio con la più stretta connessione tra storia politica e
storia della cultura — alla quale tende tutta la storia moderna
— il realismo storico si dirige soprattutto all’idea dell’individua-
lità nel senso qui descritto, e quindi anche all’idea della relativi-
tà dei valori. Risulta quindi chiaro che tutta questa storia non
ha affatto rinunciato all'idea di una connessione interna e di
un profondo fondamento spirituale dello sviluppo, ma anzi
scorge — almeno in linea di principio — nell’individuale un
universale e nel relativo un assoluto, anche se, per il suo timo-
re dinanzi alla filosofia, di rado si arrischia a determinare in
modo più preciso e concreto questo rapporto. Anche qui si
deve osservare che questo relativismo dei valori e questo reali-
smo appartengono in modo preponderante alla storia e all’eti-
German Schools of History, « English Historical Review », I, 1886, trad.
ted. col titolo Die neuere deutsche Geschichtswissenschaft (a cura di
J. Imelmann), Berlin, 1887, nonché E. RorHacger, Einleitung in die Gei-
steswissenschaften, Tùbingen, 1920, pp. 130-90 (la letteratura relativa si
trova a pp. 163-64). Rothacker riconosce giustamente in esso uno costitu-
zione spirituale, un atteggiamento di valore e una dottrina dello sviluppo,
senza però mai giungere a una caratterizzazione vera e propria che muova
dal punto centrale. — Un'indagine approfondita risulta qui impossibile.
Basterà accennare a varie osservazioni di Meinecke, che più di tutti accom-
pagna il pensiero storico con una riflessione su di esso e che spiega da
parte sua il realismo storico come uno specifico atteggiamento spirituale.
Del suo Radowitz ho sopra riferito i punti importanti. Da Weltbirgertum
und Nationalstaat cit. prendo nota dei punti seguenti: carattere decisivo
del concetto di individualità (p. 138); il sorgere dello spirito moderno
e in particolare del passaggio dal pensiero costruttivo al pensiero empi-
rico, dal pensiero idealistico-speculativo a quello realistico (p. 265); la rela-
tività dei valori e tuttavia l’insostituibilità dell’individuale (p. 271); il
«panteismo ottimistico-realistico, che del sentimento trapassa subito ai
fatti » (p. 281). E ancora: « Alla fine si pervenne alla giusta delimitazione,
per cui ideale ed esperienza, oggetto considerato e soggetto considerante
furono distinti in modo da rendere a tutti giustizia: una delimitazione —
si può quasi dire — nello spirito di Kant, anche se si trattava di un con-
fine fluido e dileguantesi. Ma questo fluire del particolare nel generale,
dell'esperienza nella speculazione, era fondato sulla natura vera e propria
delle cose. L'elemento principale in tutto questo era che il regno dell’espe-
rienza veniva liberato, mentre veniva allontanato ulteriormente quello dei
tentativi di interpretazione universale e speculativa » (p. 289). Noto poi
da Preussen und Deutschland, Miinchen, 1918: « Ciò che finora sembrava
intelligibile soltanto come emanazione di determinati princìpi, si tra-
876 ERNST TROELTSCH
ca tedesca, che ci hanno insegnato con Kant la separazione tra
ciò che è dato naturalmente e ciò che è imposto idealmente, e
con il Romanticismo l'intreccio organico delle forze storiche
in un’individualità di volta in volta creativa, e che quindi cerca-
no il loro compito nell’unificazione delle due tendenze. La posi-
zione di primario rilievo attribuita allo stato e alla politica
realistica costituisce perciò soltanto 40 dei suoi tratti caratteri-
stici, ma non quello decisivo. Anche senza questa particolare
inclinazione il relativismo dei valori è sempre il punto più im-
portante nel diritto, nell’economia, nella società, nella religio-
ne e nell’arte, anche nelle idee ultime e più generali di razze e
di ambiti culturali. Le idee del Politisches Gesprich di Ranke
conservano tutta la loro verità anche se le si applica non sola-
mente o non prevalentemente allo stato. Invece la storia del-
sformò — agli occhi di una considerazione realistica delle cose — nel risul-
tato di necessità momentanee, in adattamenti alla situazione » (p. It1);
« quel flusso del divenire che lascia scorrere ciò che nello spirito è saldo
non già per farne gioco di onde, ma perché l’eterna e aremporale natura
divina venga riconosciuta nella ricchezza e nella connessione interna
delle sue produzioni semporali » (p. 114). Meinecke scorge molto chiara-
mente anche la stretta connessione della sintesi culturale contemporanea
con la conoscenza storica dell’individuale passato, dove un elemento
determina l’altro. « La fonte della luce che cade sul passato risiede negli
ideali di vita dell'osservatore: così la storia e la vita, l'io e il mondo
confluiscono in modo misteriosamente vivente, in un gioco di riflessi con-
trapposti » (p. 104). « Il nostro pensiero storico e il nostro ideale culturale
vivono e si muovono nell’intuizione della molteplicità e dell’accostamento
di stati, nazioni, culture libere e forti... In questo specchio della divinità
noi guardiamo ancora oggi, affascinati e creduli come cent'anni or sono »
(p. 502). Certamente, da questa correlazione data insieme con l’idea della
relatività dei valori Meinecke si solleva — al pari di Ranke — a una con-
cezione puramente contemplativa, assoluta, della storia in sé: ma di ciò
si parlerà in seguito. — Sull’antitesi del realismo storico tedesco, che è al
tempo stesso mistica, rispetto al pensiero anglo-francese si veda l’acuto
scritto di E. KaurMann, Kritik der neukantischen Rechtsphilosophie, Ti-
bingen, 1921, p. 92 sgg., dove sono sottolineate anche le deficienze di
realizzazione. Ma anche in quel campo vi sono posizioni diverse. Cfr. anche
il saggio di E.R. Curtius, Das franzòsische Universitàtsleben, « Frank-
furter Zeitung », 22 maggio 1918 (edizione serale), il quale scrive: « è inte-
ressante che questi giovani Francesi del 1918 vedano nella Germania di
Goethe, del Romanticismo e dell’età successiva un modello per la ‘ giusta
sintesi tra speculazione ed esperienza” ».
ERNST TROELTSCH 877
l’Europa occidentale vive piuttosto nella prosecuzione dell’Illu-
minismo, il quale tendeva a sviluppare il dover essere dall’ele-
mento « naturale » e quindi a rifarsi a fini astrattamente univer-
sali, mentre il suo realismo si faceva valere nella considerazio-
ne dei condizionamenti naturali e sociologici e l’individuale
veniva per lo più nascosto o assunto in maniera inconsapevole
nell'inserimento dei propri ideali in quei valori universali « na-
turali ». Di qui è nata una vasta polemica: ciò che agli uni
appare insieme cinicamente brutale e mistico, agli altri appare
come superficialità e ipocrisia. Ma in verità il realismo privo
di pregiudizi risulta ovunque molto diffuso. Ciò appare chiara-
mente dall’eccellente libro di G. P. Gooch * — il quale si distin-
gue per il limpido panorama dei risultati conseguiti dai diversi
studiosi — anche se nella storiografia inglese e francese emer-
ge innegabilmente una preponderanza dei valori nazionali, di
partito o « naturali » rispetto all’universale relatività dei valori.
E non di rado ciò accade anche da noi.
È evidente che questa relatività storica dei valori presenta
una certa analogia con la dottrina della relatività fisica, che
oggi prevale in tutto il mondo nell’impostazione problematica
così fortemente potenziata da Einstein. Ciò non avviene a ca-
so, né è privo di fondamento oggettivo, anche se la relatività
dei valori si è formata dall’epoca del Romanticismo e del reali-
smo storico senza alcuna relazione con la seconda. Il fonda-
a. G. P. GoocH rimprovera per esempio a Sismondi? « la mancanza di
relatività » (op. cit., p. 137), e a Carlyle che «egli non si rese mai conto
che il dovere principale di uno storico non è né l'apologia né l’invettiva,
ma l’interpretazione dei processi complessivi e degli ideali in conflitto,
che hanno costituito la varietà delle vita umana » (p. 339). Questo è il
realismo storico; certamente, nella formula interpretativa che spesso ri-
corre in Gooch vi sono problemi filosofici in cui egli non si addentra.
b. Anche in me mancava qualsiasi relazione del genere, e me ne sono
reso conto solamente a fatto compiuto. Altri l'hanno rilevato prima di me:
A.C. Bouquet (Is Christianity the Final Religion?, London, p. 241) mi
9. Jean-Charles Simonde de Sismondi (1773-1842), storico ed economista svizzero,
autore della Histoire des républiques italiennes au Moyen dge (1807-1818), dei Nos-
veaux principes d'économie politique (1819), dell'Histoire des Frangais (1821-1844) e
di numerosi saggi raccolti negli Etwdes sur les constitutions des peuples libres (1836)
e negli Erudes sur l’économie politigue (1837), nonché di varie altre opere.
878 ERNST TROELTSCH
mento interno dell’incontro risiede nel fatto che la relatività
fisica è la forma d’individualità decisiva sul terreno della scien-
za fisica, cioè è la particolarità della posizione da cui si deve
ogni volta stabilire e calcolare il sistema di riferimento. Ciò
accadeva già nel sistema galileiano-newtoniano, ma qui la validi-
tà universale del principio d’inerzia, considerato come una spe-
cie di assoluta verità di ragione, poteva nascondere le conse-
guenze della relatività della posizione. Se, come avviene in Ein-
stein, l'inerzia viene dissolta e si afferma una velocità crescente
dei movimenti, la posizione stessa viene immessa da ogni par-
te in un movimento reciproco e mutevole, diventando così del
tutto singolare. Ma anche questa relatività non è un relativi-
smo illimitato, bensì — nella misura in cui il sistema di riferi-
mento viene calcolato da ogni posizione ed è possibile determi-
nare matematicamente, nonostante la sua mobilità, la relazio-
ne con gli altri oggetti — permane l’assoluto nel relativo, il
carattere di sistema e di riferimento della realtà naturale, a cui
contribuisce anche la costanza della velocità maggiore di tutte,
la velocità della luce. Ma anche se non fosse possibile conserva-
re quest’ultimo principio, si potrebbe certamente stabilire attra-
verso il calcolo il suo mutamento e costruire in tal modo la
possibilità di una sistematica, diversa soltanto da una posizione
all’altra.
In tutto il resto le due dottrine della relatività sono certo
fondamentalmente diverse. Ma il punto principale del loro ac-
cordo è abbastanza importante: l’incontro del relativo e dell’as-
soluto nell’individuale — qui come fatto, lì come compito.
Alla posizione particolare corrisponde l’individualità della situa-
zione storica; al sistema di riferimento universale, diverso di
caso in caso, corrisponde lo sviluppo interno o la connessione
del divenire storico, che dev'essere costruita di nuovo a partire
da ogni momento culturale e da ogni nuovo ideale.
Questo secondo punto, cioè l’immagine dello sviluppo stori-
definisce «una specie di Einstein del mondo religioso ». Cfr. anche
A. Dierericn, Die neue Front, Berlin, 1922, p. 168 sgg. In entrambi
i casi si tratta del problema del criterio, su cui ha attirato la mia atten-
zione, subito dopo la conferenza, uno dei più eminenti fisici. Invece il
raffronto tra Einstein e Spengler, che si trova spesso, è del tutto insen-
x
sato. Einstein non è un scettico!
ERNST TROELTSCH 879
co-universale che corrisponde alla sintesi culturale contempora-
nea, rappresenta quindi il secondo tema centrale della filosofia
materiale della storia, già presente da sempre nel primo tema,
ma che adesso richiede una considerazione a parte. Per chi
proviene da Kant, Fichte, Schiller, Nietzsche il primo punto è
da tempo in posizione di rilievo; per chi proviene da Schel-
ling, Hegel, Ranke*, Comte e Spencer lo è invece il secondo.
Ad esso sarà dedicata un’analisi particolare nel prossimo capito-
lo, dove avremo a che fare con un'elaborazione letteraria mol-
to più ricca del tema, e tratteremo in modo più approfondito
le teorie relative.
a. Ranke sottolinea però entrambi gli aspetti: « Ciò che importa è che
si rimanga sempre fedeli a se stessi, collegando il nuovo con il vecchio,
la resistenza con il procedere in avanti, incamminandosi sicuramente e
grandiosamente sul cammino dello sviluppo» (Reflexionen iiber die
Theorie [ossia sul sistema dei valori assoluti della ragione], in Werke,
volumi XLIX-L, p. 237). Ma Ranke tende a privilegiare lo sviluppo ri-
spetto alla propria e contemporanea creazione sintetica. La forza vera,
storicamente fondata, è per lui identica con l'energia morale. « Potrai
menzionarmi poche guerre importanti per le quali non si possa dimo-
strare che la vera energia morale ha riportato la vittoria » (op. cit.,
p.- 327). Certamente, che cosa voleva dire « energia vera »? Le due cita-
zioni contengono entrambi i temi di cui qui si tratta, e i loro sfondi
devono essere presi in esame separatamente. Quando assolutisti morali
e di altro genere designano Ranke come « adoratore del successo », que-
sto non è del tutto sbagliato. Ma ciò dipende dal prevalere del concetto
di sviluppo che si può riscontrare in lui, in Hegel e in molti alui. Ma
anche questo non è propriamente corretto: infatti Ranke conosceva la
correlazione del concetto di sviluppo con il concetto di valore, e se non ha
determinato con precisione quest'ultimo, lo ha sempre coscientemente
presupposto. Tale correlazione costituisce il problema vero e proprio; e
uno degli scopi principali del mio libro è di chiarirla e di trarre le neces-
sarie conseguenze pratiche da questo chiarimento. Certamente soltanto
il secondo volume conterrà le conseguenze pratiche, vale a dire l’atteg-
giamento che ne risulta nei confronti della storia; ma già il quarto capi-
tolo di questo primo volume le prepara.
FRIEDRICH MEINECKE
36. STORICISMO TEDESCO.
NOTA BIOGRAFICA
Friedrich Meinecke nacque a Salzwedel, presso Magdeburgo, il 30
ottobre 1862. Nove anni dopo la famiglia si trasferì a Berlino, dove
Meinecke compì gli studi liceali e (eccetto per due semestri passati a
Bonn) anche quelli universitari, seguendo tra gli altri l’ultimo corso di
Droysen. Dopo aver conseguito il dottorato a Berlino nel 1886, con una
dissertazione sull’autenticità di un documento della storia tedesca del
primo Seicento, entrò l’anno seguente nell'amministrazione degli archivi
prussiani. Nel 1894, alla morte di Hermann von Sybel — che aveva
guidato i suoi primi passi di storico — Meinecke assume la direzione
della « Historische Zeitschrift », destinata a diventare, sotto la sua
guida, il maggiore organo della storiografia tedesca. Risale a questi
anni la preparazione della monumentale biografia di un generale delle
guerre napoleoniche, Das Leben des Generalfeldmarschall Hermann von
Boyen (Stuttgart, 1896-99). Nel 1896 ottiene l’abilitazione a Berlino, con il
primo volume di questa biografia, e nel 1901 viene chiamato all’Universi-
tà di Strasburgo, da dove passerà nel 1906 a Friburgo e nel 1914
a Berlino.
Erede della tradizione storiografica prussiana dell'Ottocento, ammira-
tore di Bismarck e della sua costruzione politica, Meinecke ha ben
presto concentrato il proprio interesse sulla resistenza al dominio napoleo-
nico e sul processo di formazione della Germania come stato nazionale.
Rientrano in questo filone di ricerca il volume Des Zeitalter der deu-
tschen Erhebung (Bielefeld-Leipzig, 1906) e i saggi raccolti in Von Stein
zu Bismarck (Berlin, 1909), nonché il successivo volume Radowitz und
die deutsche Revolution (Berlin, 1913) e numerosi altri studi sui rap-
porti tra Prussia e Germania. Ma esso trova la sua maggiore espressione
nella prima grande opera di Meinecke, Weltbiirgertum und National
stat (Miùnchen-Berlin, 1908; tr. it. Firenze, 1930), dedicata all’esa-
me del processo di traduzione in termini politici dell'ideale nazionale
tedesco, e del contemporaneo processo di allargamento dell’atteggiamento
politico prussiano che fa suo quell’ideale c gli offre una base concreta di
realizzazione. La « nazione culturale » tedesca e la « nazione territoria-
le» prussiana appaiono qui i termini dialettici di una relazione in virtù
della quale la Germania perviene a costituirsi come stato nazionale. Il
884 FRIEDRICH MEINECKE
punto di arrivo di tale processo viene indicato nell'opera di Bismarck,
di cui Meinecke fornisce una giustificazione storico-politica, riconoscen-
do in essa la confluenza di uno sforzo storico secolare. Nel corso di
quest’analisi Meinecke enuncia una concezione dello stato che appare
fondata sull’attribuzione ad esso del carattere dell’individualità: in quan-
to individuo, lo stato possiede il diritto all'auto-determinazione, e il suo
compito è quello di provvedere alle condizioni che garantiscono la
permanenza e l’accrescimento della sua potenza. Il distacco dal cosmopo-
litismo illuministico appare quindi la premessa indispensabile per il
riconoscimento del valore autonomo dello stato, del suo diritto ad affer-
marsi e a farsi valere nei confronti degli altri stati.
Questa prospettiva, al tempo stesso politica e filosofica, è stata posta
in crisi dalla guerra e dalla sconfitta tedesca. Se già negli anni di
Strasburgo, e soprattutto in quelli di Friburgo, Meinecke aveva corretto
in senso liberale il giovanile nazionalismo conservatore di stampo prussia-
no, dopo il 1918 egli appoggia la repubblica di Weimar, pronunciandosi
in favore della democrazia. Ciò lo spinge — sulle tracce di Weber e di
Troeltsch, suo collega a Berlino — ad assumere un atteggiamento critico
verso la soluzione bismarckiana del problema nazionale tedesco e a ricono-
scerne le insufficienze. Fin dai saggi raccolti nel volume Nach der
Revolution (Minchen-Berlin, 1919) egli intraprende così un'opera di
revisione delle prospettive storiografiche tradizionali, da lui stesso condi-
vise negli anni precedenti, la quale si tradurrà, sul piano politico, in una
costante opposizione al nazismo. Questo diverso orientamento di pensie-
ro si rivela chiaramente nella seconda grande opera di Meinekce, Die
Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte (Minchen-Berlin, 1924;
tr. it. Firenze, 1942), che ha il suo motivo conduttore nell’antitesi tra
krdtos ed éthos, tra potenza e spirito. Quest’antitesi si presenta, agli
occhi di Meinecke, come costitutiva del mondo della politica; e nel
prevalere della potenza sullo spirito — quale si è avuto appunto nella
storia tedesca da Bismarck in poi — egli addita il demone intrinseco alla
politica. Lo stato è nel medesimo tempo potenza e spirito; ma proprio
per questo motivo non deve smarrire la propria essenza spirituale,
riducendosi a mera potenza. In quanto condizionata da una situazione
oggettiva, e quindi inserita in una serie di rapporti causali, l’esistenza
dello stato sorge su una base naturale; ma lo stato è pure orientato verso
la realizzazione di valori, e perciò si eleva a una vita spirituale. La
«ragion di stato» (che dà il titolo all'opera) è il ponte gettato tra la
potenza e lo spirito allo scopo di risolvere la loro antinomia e di
garantire la permanenza dello spirito nell’ambito della politica. Ma tale
antinomia non è altro che un caso specifico di un contrasto più generale,
quello tra il fondamento naturale della storia e il compito, ad essa
inerente, di realizzare valori culturali. In questi stessi anni, attraverso la
FRIEDRICH MEINECKE 885
collaborazione con Troeltsch e lo studio dell'idea della «ragion di
stato », Meinecke approda anch'egli alla teoria dei valori. Fin dal saggio
Personlichkeit und geschichiliche Welt (1918), egli aveva rivendicato
l'autonomia della personalità, definendola in base al rapporto tra necessi-
tà e libertà, poi ripreso per qualificare la potenza e lo spirito nella loro
antitesi; in seguito, in Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus
(1923) e in Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924), l’afferma-
zione dell'autonomia dei valori rispetto alle serie causali che costituisco-
no il processo storico lo conduce a doverne giustificare l’assolutezza,
messa in questione dalle conseguenze relativistiche dello storicismo.
Dopo essersi opposto all'avvento del nazismo, Meinecke è costretto al
silenzio dopo il 1933, e nel ’35 deve lasciare Ia direzione della « Histori-
sche Zeitschrift ». Il problema dello storicismo e del suo rapporto con i
valori diventa, in questo periodo, l'oggetto principale della riflessione e
dell'analisi storica meineckiana. Convinto che lo storicismo non conduca
necessariamente al relativismo, ma possa coesistere con la fede in valori
assoluti — secondo l'insegnamento che egli trova in Goethe e in Ranke
— Meinecke traccia, in Die Entstehung des Historismus (Minchen-Ber-
lin, 1936; tr. it. Firenze, 1954), un ampio quadro dello sviluppo dello
storicismo dalle sue origini settecentesche fino alla cultura romantica. Al
suo inizio, lo storicismo si è affermato in antitesi al giusnaturalismo e al
suo presupposto di una ragione umana immutabile, depositaria di un
sistema di verità eterne: l'atteggiamento giusnaturalistico appare così il
grande antagonista dello storicismo. In seguito lo storicismo ha fatto
valere, nel pensiero tedesco della fine del secolo xvitt, una diversa forma
di considerazione della realtà, fondata su due princìpi — il principio
dell’individualità di ogni fenomeno storico e il principio dello sviluppo.
Ma questa concezione individualizzante ed evolutiva del processo storico
non riveste senz'altro un significato relativistico; e proprio la lezione di
Goethe e di Ranke ci dimostra che lo storicismo non esclude la possibili
tà di considerare ogni epoca, ogni momento della storia in riferimento a
valori assoluti. In vari saggi, poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn
und vom Sinn der Geschichte (Leipzig, 1939; tr. it. Napoli, 1948) e
negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte (Leipzig, 1942, 1953; tr.
it. Napoli, 1962), Meinecke ha ribadito — richiamandosi soprattutto a
Ranke — la presenza dell’assoluto nella storia, e al tempo stesso la sua
irriducibilità al processo storico. Ma in tale maniera il rapporto tra
immanenza e trascendenza dei valori viene a configurarsi come un
mistero, la cui soluzione può essere fornita non già in termini razionali,
ma soltanto dal ricorso alla fede.
Dopo la fine della guerra e il crollo del nazismo Meinecke ha ripreso
la critica dell’edificio politico bismarckiano, cercando — in Die deutsche
Katastrophe (Wiesbaden, 1946; tr. it. Firenze, 1948) — una spiegazione
886 FRIEDRICH MEINECKE
del fenomeno nazista che ne individuasse le radici profonde nella storia
tedesca. Questa critica lo ha pure condotto a moderare l’entusiastico
richiamo a Ranke delle opere precedenti, e a rivalutare invece l’importan-
za di Burckhardt. In seguito ebbe gran parte nella costituzione della
Freie Universitit di Berlino-Ovest, di cui fu il primo rettore. Morì a
Berlino-Dahlem il 6 febbraio 1954, più che novantenne.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Gli scritti di Meinecke sono stati raccolti nei sette volumi dei
Werke, pubblicati tra il 1957 e il 1968 per iniziativa del Friedrich-Mei-
necke-Institut della Freie Universitit di Berlino, ad opera dell'editore
Oldenbourg di Minchen, della Toeche-Mittler Verlag di Darmstadt e
della Koehler Verlag di Stuttgart. Il primo volume (a cura di W.
Hofer, Miinchen, 1957) contiene Die Idee der Staatsrison in der neueren
Geschichte; il secondo (a cura di G. Kotowski, Darmstadt, 1958)
racchiude le Politische Schriften und Reden dal 1910 al 1951, ordinate
cronologicamente; il terzo (a cura di C. Hinrichs, Miinchen, 1959)
comprende Die Entstehung des Historismus; il quarto (a cura di E.
Kessel, Stuttgart, 1959) raccoglie, sotto il titolo Zur Theorie und Philo-
sophie der Geschichte, i principali saggi metodologici e filosofici, tra cui
Persòonlichkeit und geschichiliche Welt, Kausalititen und Werte in der
Geschichte, Geschichte und Gegenwart, gli scritti minori sulla storia
dello storiciimo e in particolare su Goethe, Schiller, Schleiermacher,
Ranke, Dilthey, Troeltsch, Spengler ecc.; il quinto (a cura di H.
Herzfeld, Miinchen, 1962) contiene Weltbirgertum und Nationalstaat; il
sesto (a cura di L. Dehio e P. Classen, Stuttgart, 1962) racchiude
un'ampia scelta di lettere, col titolo Ausgewdhlter Briefwechsel; il setti-
mo (a cura di E. Kessel, Miinchen, 1968) raccoglie, sotto il titolo Zur
Geschichte der Geschichtsschreibung, numerosi saggi su Ranke, Burck-
hardt, Droysen, Sybel, Treitschke, Lehmann, Delbriick, Baumgarten,
Schmoller, Lamprecht, Dove, Below, Neumann ecc.
Rimangono al di fuori di questa raccolta diversi volumi, in particola-
re la monografia su Boyen, il volume Das Zeitalter der deutschen
Erhebung, il volume Radowitz und die deutsche Revolution, e altri già
menzionati nella nota biografica. Ad essi si devono aggiungere î due
libri di memorie Er/ebtes 1862-1901, Leipzig, 1941, e Strassburg-Freiburg-
Berlin, 1901-1919, Stuttgart, 1949, poi raccolti in unico volume col titolo
Erlebtes 1862-1919, Stuttgart, 1964 (tr. it. Napoli, 1971).
Dell’ampia letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di
Meinecke segnaliamo gli studi seguenti:
888 FRIEDRICH MEINECKE
F. CHÙiasop, Uno storico tedesco contemporaneo: Federico Meinecke, « Nuo-
va rivista storica », XI, 1927, pp. 592-603.
E. Seeserc, Zur Entstehung des Historismus: Gedanken zu Friedrich
Meineckes jiingstem Werk, « Historische Zeitschrift », CLVII, 1937,
pp. 241-66.
W. Horer, Geschichtsschreibung und Weltanschauung: Betrachtungen
zum Werk Friedrich Meineckes, Miinchen, 1950.
W. Goetz, Friedrich Meinecke: Leben und Persònlichkeit, « Historische
Zeitschrift », CLXXIV, 1952, pp. 231-50 (l’intero fascicolo è dedicato
a Meinecke, ma contiene anche saggi di altro argomento).
L. Denio, Friedrich Meinecke: der Historiker in der Krise, Berlin, 1953.
H. Hottpack, Friedrich Meinecke: das Machiproblem in der neuesten
deutschen Geschichte, « Hochland », XLVI, 1953-54, pp. 437-51.
F. CuÙason, Federico Meineke, « Rivista storica italiana », LXVII, 1955,
pp. 272-88.
P. J. Wotrson, Friedrich Meinecke, « Journal of the History of Ideas »,
XIV, 1956, pp. 511-25.
R. W. SterLIino, Ethics in a World of Power (The Political Ideas of
Friedrich Meinecke), Princeton, 1958.
A. Neeri, Saggi sullo storicismo tedesco: Dilthey e Meinecke, Milano,
1959, parte II.
S. Pistone, Federico Meinecke e la crisi dello stato nazionale tedesco,
Torino, 1969.
F. Tessitore, Friedrich Meinecke storico delle idee, Firenze, 1969.
Un'ampia bibliografia degli scritti di e su Meinecke è fornita da A.
M. Reinotp nel fascicolo speciale della « Historische Zeitschrift » dedi-
cato a Meinecke, CLXXIV, 1952, pp. 503-23; successive indicazioni si pos-
sono trovare nei volumi sopra menzionati di S. Pistone e F. TESssITORE.
PERSONALITÀ E MONDO STORICO *
Quando ho accettato di svolgere il tema della conferenza
odierna, ho subito chiarito a me stesso che le applicazioni
pedagogiche (che ci si attende forse in primo luogo da questa
conferenza) potevano esaurirsi in breve tempo, mentre i princì-
pi e le convinzioni generali da cui esse devono scaturire si
affacciano su problemi che oggi toccano non soltanto lo storico,
ma ogni uomo che aspiri alla personalità. Parlare di questi
problemi e prima ancora confrontarmi con essi, mi stimolava
tanto più fortemente quanto più le tempeste di quest'epoca,
nel mezzo della lotta e della preoccupazione senza respiro a
cui ci costringono, hanno ridestato in noi tutti una nuova pre-
potente nostalgia per il raccoglimento interiore e per l’auto-ri-
flessione. La questione principale sarà quindi la seguente: che
cosa significa il mondo storico per la formazione della persona-
lità? Dalla risposta che ne seguirà si potranno trarre subito, e
facilmente, le conseguenze per lo spirito e il metodo dell’inse-
gnamento della storia.
Ma che cos'è — dobbiamo chiederci anzitutto — la persona-
lità, che cosa vuole e deve essere? Il detto di Goethe, che la
personalità è la felicità suprema dei figli della terra, risuona
* Die Bedeutung der geschichtlichen Welt und des Geschichtsunterrichts fiir die
Bildung der Einzelpersonlichkeit, « Geschichtliche Abende im Zentralinstitut fir Er-
zichung und Unterricht », 2, Berlin, E.S. Mittler und Sohn, 1918, 2* ed. col titolo
Personlichkeit und geschichtliche Welt, 1922, poi raccolto in Staat und Persònlichkeit,
Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1933, pp. 1-27, e in Schaffender Spiegel (Studien zur
deutschen Geschichtsschreibung und Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler
Verlag, 1948, pp. 211-228, infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie
der Geschichte (a cura di E. Kesscl), Stuttgart, K. F. Koehler Verlag, 1959, pp. 30-60
(traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi).
890 FRIEDRICH MEINECKE
all'orecchio come il suono di campana di una chiesa che ci dà,
nelle dispersive cure quotidiane, una promessa quieta e regolar-
mente ripetuta, una promessa che è però, al tempo stesso, una
richiesta. E invero essa promette e richiede da noi una certa
costanza interiore in mezzo a tutte le cose esterne che ci assedia-
no e che ci pongono in uno stato di attività o di compartecipa-
zione, ossia un limite saldo che possiamo e dobbiamo custodire
tra l’interno e l’esterno, e che deve non già chiudere ermetica-
mente l’interno, ma regolare e guidare il suo rapporto con il
mondo esterno, un santuario interiore con vie di entrata e di
uscita, egualmente adatto per riposare tranquillamente e racco-
gliere le forze in noi stessi come per scaricare attivamente tali
forze verso l’esterno; in breve, un mondo autonomo e tuttavia
organicamente connesso con il grande mondo, singolare e inso-
stituibile, e tuttavia soltanto configurazione particolare di
forze universali della vita, libero in sé e tuttavia dipendente
dalla totalità, che abbraccia contemporaneamente, al di là di
tutto questo, l'elemento più reale e vivente che abbiamo e che
nessuna critica della conoscenza può sottrarci, vale a dire l’io
consapevole di se stesso. Questo elemento più vitale di ogni
altro ci è dato dalla natura come un dono miracoloso. Un
miracolo altrettanto grande, ma che richiede un’elaborazione
attiva, è quello di costruire in base ad esso la personalità e di
elevarci in tal modo al di sopra della semplice natura. Si
comprende che la personalità dev'essere la felicità suprema dei
figli della terra soltanto quando si diventa consapevoli di que-
sto duplice miracolo. Mentre la natura costringe tutta la vita
di altro genere che essa reca alla luce nei ferrei vincoli della
determinatezza, all’uomo essa lascia la possibilità di sciogliere
questi vincoli, di costruire in sé un mondo della libertà, di
curare in esso il bene supremo della libertà — peculiarità inimi-
tabile — senza però perdere la connessione con tutto il resto
della vita. Non si può essere felici nell’isolamento completo,
ma non si può esserlo neppure nella completa fusione con il
mondo esterno. Per diventarlo si deve sentire nella libertà il
legame e la partecipazione alla totalità della vita e sentire di
nuovo in ogni legame e in ogni comunanza la libertà e l’unici-
tà della propria vita. In questo rapporto della personalità
con il mondo è prefigurata al tempo stesso la forma originaria
FRIEDRICH MEINECKE 801
di ogni buona e vitale costituzione dello stato e della società. Il
singolo e la totalità, l'io e l’ambiente — nella loro azione
reciproca, nella loro auto-conservazione reciproca all’interno di
una connessione inseparabile scorre anche la vita storica.
Sorgono così due problemi: che cosa significa la personalità
per il mondo storico? e che cosa significa il mondo storico per
la formazione della personalità? Viene subito in luce che il
primo problema è stato trattato molto più di frequente, e in
modo manifestamente più interessato del secondo. Forse che in
ciò si manifesta un certo sentimento di fondo che la prima
questione sia più importante della seconda? Bisognerebbe am-
mettere che la totalità ha maggior valore del singolo e che si
tratta anzitutto di indagare questa totalità del mondo storico
nei fattori in essa operanti? Non c’è dubbio che in questo
privilegiamento del primo problema si palesano sia lo spirito sto-
rico del secolo x1x sia l’allargamento della vita storica complessi-
va che ha avuto luogo nel corso di esso. Agli inizi e fino al
culmine della filosofia idealistica si muoveva ancora dai bisogni
della personalità; in Kant e in Fichte era quindi dominante il
problema della libertà etica. Ma già in Hegel il processo stori-
co complessivo, che travolge gli individui — lo vogliano o no
— nella sua corrente, diventava il tema predominante. Con lo
sviluppo della moderna scienza storica e con l’importanza cre-
scente delle masse si giunse quindi alla grossa disputa tra ten-
denza collettivistica e tendenza individualistica. Il collettivi-
smo e — in intimo accordo con esso — il positivismo e la
nuova scienza sociologica presero le mosse, nella loro imposta-
zione dei problemi, dall’importanza predominante delle colletti-
vità rispetto agli individui. La tendenza individualistica della
scienza storica e la filosofia ad essa prossima si sentivano, nei
confronti di quelle tendenze, più in difesa che all'attacco, e si
sforzavano al tempo stesso coscienziosamente di riconoscere il
nucleo di legittimità presente nelle tesi dei collettivisti. In tal
modo sulla nostra immagine della storia è stata distesa una
robusta rete di nozioni collettivistiche e, di fronte alla pres-
sione esercitata dalle grandi forze della vita storica comples-
siva sul singolo individuo, sempre più fievole è diventata la
questione del senso e dello scopo del mondo storico per la
formazione delle personalità libere e singolari. Quest'ultima mi-
892 FRIEDRICH MEINECRE
nacciava di fatto di perdere importanza e di recedere da scopo
in sé a mezzo subordinato nei confronti del corso complessivo.
Dovremo ancora occuparci della situazione che ne risultava per
il rapporto della moderna personalità con il mondo storico.
Una cosa è però certa, cioè che le due questioni dell'importan-
za della personalità per la storia e dell’importanza della storia
per la personalità sono connesse tra loro, e che la risposta
all'una pregiudica sempre la risposta all’altra. Coloro che soste-
nevano l’importanza della personalità per la storia lo facevano
proprio perché sentivano profondamente l’importanza del mon-
do storico per la loro propria vita personale. Essi nascon-
devano con pudore il loro interesse etico-pratico mascheran-
dolo sotto un problema di pura conoscenza. Ora noi torniamo
a districarlo chiarendoci le conseguenze del collettivismo e del-
l’individualismo per il nostro problema.
Il collettivismo nella sua forma più netta vede nell’indivi-
duo solamente un punto di intersezione e di passaggio delle
varie forze sociali. Le grandi istituzioni, i costumi e le opi-
nioni — diventati stabili — dei gruppi sociali e delle comunità
dei popoli trascinano e attraversano l’individuo inerte, che dal-
la natura ha ricevuto il carattere di un individuo da gregge.
Pertanto progresso e sviluppo verso nuove istituzioni e nuove
intuizioni non sono l’opera di singoli uomini, ma l’espressione
di mutati rapporti di vita esterni. Gli individui, che sembrano
rappresentare € realizzare questi rinnovamenti, sono soltanto
gli esponenti di rapporti e di tendenze più generali. Il mondo
storico, così come viene praticamente vissuto nella sua pienezza
di istituzioni tramandate e di forze vitali, ha quindi sì un’im-
portanza enorme e addirittura predominante per l’individuali-
tà, ma non lascia spazio né materia alla costruzione di una
libera e singolare personalità da parte dell'individuo. Ciò che
appare sotto forma di personalità libera e incomparabile viene
costruito piuttosto dall'ambiente, e tutti i materiali dell’edifi-
cio derivano da questo. La composizione di tali elementi all’in-
terno del singolo individuo può essere singolare e individuale,
ma soltanto come la composizione dell'immagine multicolore
nel caleidoscopio. Inoltre il mondo storico, così come può esse-
re vissuto teoricamente nell'indagine e nell’intuizione del passa-
to, darà alla testa pensante la seria e rigorosa nozione fonda-
FIMEDRICH MEINECKE 893
mentale che l’uomo è fatto di materia comune e che l’abitudine
è la sua nutrice.
Tuttavia un deprimente determinismo di tal genere non è
rimasto l’ultima parola delle teorie positivistiche e collettivisti-
che. Piuttosto, proprio dal loro centro risuona il richiamo al
progresso e all’ascesa, alla liberazione dell'umanità dalla gravo-
sa pressione del passato. Ma la sua speranza si collega in tal mo-
do non alle forze etico-individuali, ma a quelle etico-sociali. Esse
credono alla presenza e alla crescita graduale di una ragione
collettiva, di una disposizione generale dell'umanità — o di
certe razze dell'umanità — a sollevarsi dallo stato di pura
naturalità, attraverso lo stadio di semi-civiltà, fino a uno stato
di popoli compiutamente civili. E questo processo di incivili-
mento raggiunge poi anche il singolo individuo, lo arricchisce
e lo libera in qualche misura, crea il moderno uomo civile e il
moderno soggettivismo — ma sempre soltanto in virtù di un’or-
ganizzazione generale che sta al di sotto di esso e lo spinge in
avanti. Anche ogni etica pratica che si connetta a questo modo
di vedere procede in maniera caratteristica dall’affermazione di
possibilità generali, di diritti universali, di libertà e di migliora-
menti della situazione sociale, economica e politica che devono
mettere l’individuo in grado di partecipare, secondo la misura
delle sue doti, a tutti i beni culturali elaborati dalla collet-
tività. Questo è il processo ideale della moderna democrazia
occidentale, la quale riposa ampiamente su presupposti positivi-
stici e collettivistici. Ma con questo tipo di costruzione teore-
tica e pratica del mondo storico — dobbiamo ora chiederci —
si può sviluppare la piena felicità di ciò che Goethe intendeva
parlando di personalità? Ciò è possibile soltanto se essa dimenti-
ca i tetri presupposti di questa costruzione, se essa si sente non
soltanto come prodotto di uno sviluppo generale, come compar-
tecipe dei suoi frutti — dei dividendi da esso in certa misura
versati — ma anche come portatrice di uno sviluppo individua-
le del tutto specifico, come detentrice di un grado elevato di
libera auto-determinazione, come proprietaria di una fonte na-
scosta di vita spontanea. Un positivismo intelligente si spinge
anche fino ad ammettere che una fede siffatta è utile per susci-
tare nell’individuo il massimo di forza e di felicità, perché
l'illusione di essere liberi ha lo stesso effetto di esserlo veramen-
894 FRIEDRICH MEINECKE
te. Quest'illusione può poi aggirarsi nella luce crepuscolare del
dubbio e della fede, come ama fare il moderno uomo di cultu-
ra, spiritualmente differenziato e soggettivisticamente eccitabi-
le. Su tale via si possono ottenere molteplici sensazioni e im-
pressioni sul rapporto tra io e mondo, un raffinato auto-godi-
mento, anche uno slancio ostinato verso uno stato di superuo-
mo con prove svariate e perfino eroiche: spesso incontriamo
queste disposizioni nei profili dei nostri giovani in uniforme, e
la nostra poesia e la nostra arte più recenti ne sono piene. Ma
una quieta e profonda chiarezza sul rapporto del mondo stori-
co con la personalità, un’armonica sicurezza della personalità,
un vittorioso superamento del dubbio paralizzante e distruttivo
sul valore della vita storica non possono essere ottenuti in que-
sto modo.
Per sciogliere tale dubbio occorre partire da un’altra conce-
zione della personalità — proprio da quella che sviluppavo in
apertura. Essa non si fonda soltanto sul fatto che ci è gradita e
forse ci aiuta nella lotta della vita, ma sul fatto che viene
richiesta sia da un’auto-osservazione immediata sia da una con-
siderazione impregiudicata della vita storica. L’auto-osservazio-
ne ci insegna che la ferrea legge causale, entro cui vediamo
incatenata senza eccezioni la vita storica, ha tuttavia la sua
radice ultima solamente nella profondità dello spirito umano, e
che da questa stessa profondità scaturiscono anche altri bisogni,
altrettanto costrittivi, che non permettono di considerare il
mondo storico soltanto come una sezione dalla generale connes-
sione causale della natura. Lo spirito umano crea, ed è costretto
a creare — in base a un impulso spontaneo e a una disposizio-
ne originaria — un mondo di valori spirituali ed etici i cui
destini sono sì sottoposti nella vita alla legge causale e al
mutare delle cose, ma la cui esîstenza in sé rivela nell'uomo
una sfera superiore alla connessione naturale e causale. Costrui-
re questa sfera non vuol soltanto dire creare la cultura e la
storia, ma vuol dire anche creare la personalità; poiché alla
personalità spetta conservare e continuare i valori della cultura
una volta creati — questa è la sua funzione storica. Tali valori
culturali non sono solamente, come vuole il positivismo, puri
prodotti causali di rapporti e di forze generali — certamente,
questi vi cooperano potentemente e devono essere assolutamen-
FRIEDRICH MEINECKE 895
te riconosciuti — ma sono affidati, per mantenere la loro vitali-
tà ed essere incrementati, al lavoro comune di innumerevoli
individui singoli. Non è soltanto la grande personalità domi-
nante, l’eroe nel senso di Carlyle, che fa la storia e produce la
cultura; ogni singolo uomo in cui si è destata una vita spiritua-
le, liberata dal vincolo naturale, vi coopera e può contribuire
ad essa con qualcosa di originale e di proprio. In tutte le nuove
formazioni della vita storica la ricerca deve sempre, quando vi
riesce, indagare più a fondo la loro genesi; deve sentire il
respiro della vita individuale e personale — uomini che non
erano soddisfatti di sopportare ancora pazientemente il passa-
to, di essere mera impronta dell'ambiente e di rimanere un
numero nella massa oscura, ma che aspiravano inquieti, con
nostalgia e desiderio, ad acquistare per sé un frammento di
libertà e il dominio sull’ambiente, di imprimere nell'ambiente
un frammento del proprio io, creando il bene come il male ma
diventando con ciò fermento della storia. Certamente, si deve
subito aggiungere che ogni elemento di novità che la personali-
tà singola può imporre alla vita storica si trova nella più
stretta continuità e connessione causale con l’antico, con ciò
che è tramandato, e ne è a ogni passo condizionato e delimita-
to. La libertà di movimento e il carattere specifico della persona-
lità possono sì apparire talmente piccoli che si capisce che si
sia voluto eliminarli dalla storia considerata come fattore essen-
ziale; ma sono abbastanza grandi per poter comprendere il
miracolo per cui lo spirito si è sollevato al di là dei limiti della
natura, nonostante ogni legame con essa, e ha potuto produrre
un mondo storico.
Soltanto a questo punto possiamo dare una risposta all’altro
aspetto, oggi dominante, del duplice problema e cercare di
chiarire l’importanza del mondo storico per la costruzione del-
la personalità. Fin dal principio esso assume ora, per l’indivi-
duo, colori più chiari e gioiosi che in una concezione rigorosa-
mente positivistica del mondo storico. E gli fa cenno dicendo:
entra in me, io non ti soffocherò se ti farai coraggio e se
vorrai guardarmi nel cuore. Io non sono per te un ferreo desti-
no che non ti lascia scelta alcuna nel pensiero e nell'azione,
ma sono un compito alla cui soluzione sei chiamato a collabora-
re. Devi servirmi, ma non come schiavo, bensì come uomo
896 FRIEDRICH MEINECKE
libero; poiché solamente in quanto innumerevoli altri prima
di te l'hanno fatto, sono diventato ciò che sono e sono in
grado di offrirti la mano per liberarti dall’oppressione della
legge naturale. Guardami inoltre nella pienezza delle mie confi-
gurazioni, nessuna delle quali è eguale all’altra e che pure
sono tessute tutte insieme da me. Da ciò trai la speranza che
anche il tuo elemento più proprio € più peculiare sarà conserva-
to in me, anche se costituirà soltanto un piccolo filo nel mio
manto regale. E perciò ti dico: diventa libero, diventa te stesso.
Il mondo storico pone quindi alla singola personalità una
richiesta generale e una richiesta individuale. Essa deve compie-
re qualcosa di universalmente valido, impiegando tutto ciò che
di soltanto istintivo è in essa presente come materia e mezzo
per scopi etici e spirituali ed erigendo così in sé il dominio di
ciò che è ideale. Anche questi scopi ideali compaiono anzitutto
come qualcosa di universale, imposti alla personalità dall’ester-
no. Tutti i doveri e i compiti — la famiglia, il lavoro, la
società, la patria, lo stato e la cultura — rientrano in questo
ambito. In essi si nasce e non si può sceglierli a piacimento,
perché fin dall’inizio ci assalgono imperiosamente. Se dalla per-
sonalità non si richiedesse altro se non che, opprimendo i suoi
impulsi egoistici, essa si elevasse — in virtù dell’auto-determina-
zione etica nel senso kantiano — a organo degli interessi uni-
versali e agisse soltanto secondo massime di una legislazione
universale, non si sarebbe ancora fatto abbastanza. Si otterreb-
be soltanto una libertà formale, non ancora riempita di contenu-
to; poiché il contenuto di questo agire eticamente libero ci
sarebbe fornito dal mondo esterno. E all’osservatore critico gli
uomini che volessero accontentarsi di questa specie di libertà
non potrebbero ancora apparire come personalità compiute,
ma soltanto come inservienti volontari di scopi oggettivi forse
molto grandi, ma pur sempre formati dall’esterno. Inoltre que-
sti scopi storici sfocerebbero facilmente in una rigidità priva di
vita, e diventerebbero simili a quel carro degli dèi indiano il qua-
le stritola le masse dei fedeli che si buttano davanti ad esso. In
questa maniera i nostri nemici hanno rappresentato, durante
la guerra, il rapporto del Tedesco con il suo stato tramandato
e ci hanno attribuito un cieco, fanatico servilismo verso lo
stato, che per fortuna è lungi da noi ma che — comunque lo
Friedrich Meinecke intorno
FRIEDRICH MEINECKE 897
si consideri — può essere ammesso come possibilità estrema di
certi germi di sviluppo presenti in noi. La personalità stessa e
il mondo storico che la circonda soffrirebbero di questa specie
di rapporto, perché dalla personalità non si potrebbe trarre
fuori tutto quanto c’è in essa, tutto ciò che potrebbe servire e
contribuire al mondo storico. La dottrina dell’imperativo cate-
gorico — questa legge fondamentale di formazione della perso-
nalità — dev'essere quindi integrata, così come la legge del
Vecchio Testamento ha trovato il suo compimento nel Nuovo
Testamento. Diventa te stesso — dice questa legge del Nuovo
Testamento alla personalità. Coltiva la tua peculiarità non con
l’amore animale, senza capacità di scelta, per tutto ciò che ti
spinge verso la peculiarità e vorrebbe affermarsi contro il mon-
do esterno, poiché ciò conduce soltanto alla soggettività vana o
all’ostinata eccentricità. Riconosci invece la legge organica in
base a cui le tue forze individuali e i beni vitali tratti dal tuo
ambiente possono connettersi in un mondo unitario, in sé con-
cluso; cerca un principio direttivo, un’idea della tua vita in te
stesso che possa valere solamente per te e per nessun altro allo
stesso modo, perché a ogni passo decisivo nella vita devi interro-
gare solo te stesso e la tua coscienza in merito al tuo dovere.
Questa formazione in noi di un’idea individuale della vita per-
mette anche — come lo permetteva già l'imperativo categorico
— la lotta contro gli impulsi inferiori, sensibili, non già per
reprimerli bensì per ordinarli ed educarli, per dare anche al
bisogno presente in noi, indifferente e gregario, una nota parti-
colare, un valore consono con la totalità della vita. Nel concet-
to di individualità non è possibile infatti conservare la divisio-
ne netta tra spirito e materia. La dote naturale della natura
sensibile-spirituale complessiva è e rimane il terreno che alimen-
ta la personalità; e soltanto in base all’armonia, alla reciproca
compenetrazione e illuminazione dei sensi e dell'anima cresce
la sua peculiarità, la sua bellezza e la sua forza. È un’acquisi-
zione della sensibilità moderna che essa non pretenda più di
dividere questa connessione data e vivente con un atto di violen-
ta ascesi dello spirito nei riguardi del mondo sensibile. In tal
modo le svolte storiche del secolo xtx penetrano nella formazio-
ne del moderno ideale di personalità. Il carattere rigoristico
5
dell’etica kantiana tradisce ancora la sua origine dall’ascesi cri-
57. STORICISMO TEDESCO.
898 FRIEDRICH MEINECKE
stiana. Ma contemporaneamente già nasceva, con Rousseau e
Goethe, un nuovo sentimento della vita — la coscienza dell’uni-
tà ultima di natura e spirito, dello stretto e misterioso intreccio
di forze sensibili e forze spirituali, dell’accresciuta pienezza vi-
tale dell’uomo, che si immerge gioioso in questo sentimento di
unità. In stretta connessione con tutto ciò Herder, Goethe, Wil-
helm von Humboldt e i Romantici scoprivano il valore insosti-
tuibile dell'individuale, di ciò che è cresciuto in modo origina-
le e singolare nella storia e nella vita. Lo spirito realistico del
secolo x1x fece uso pratico di queste nuove sensazioni e cono-
scenze in quanto, distruggendo dottrine e pregiudizi, riconob-
be il diritto alla propria esperienza e osservazione della vita,
colse e sfruttò ovunque ciò che c’è di attivo, di naturalmente
dato e di potente, e cercò così anche di dispiegare in pieno la
forza dell’individuale e della personalità. Ne è derivata — certa-
mente con alcune riserve che dobbiamo ancora avanzare —
una più robusta ondata di sangue vitale per il nostro ideale di
personalità.
La situazione storica che si presenta di volta in volta ha
quindi un’importanza enorme per la formazione della persona-
lità. La disposizione e l’impulso a diventare personalità è uni-
versalmente umano e opera a tutti i livelli dello sviluppo, an-
che a quelli più bassi, sebbene la pressione del mondo esterno e
della tradizione permetta che su questi si dispieghino soltanto
pochi germi, particolarmente forti. Inoltre la specificità dell’am-
biente storico agisce in modo da destare in primo luogo le
disposizioni che hanno una corrispondenza con esso e da la-
sciar cadere altre disposizioni, non circondate dal favore della
costellazione. Intere pleiadi di pittori o di dotti, di teste politi-
che o di nature religiose possono prosperare stupendamente in
un'epoca, mentre l’epoca successiva ricopre nuovamente quelle
strade già aperte alla personalità. Un Goethe potrebbe diventa-
re ancor oggi Goethe? Appartiene alla tragicità della vita stori-
ca che la vocazione di un’epoca — si potrebbe dire la sua
predestinazione — tocchi sempre soltanto alcuni lasciando inve-
ce altri, che in epoca diversa avrebbero potuto attingere una
grandezza umana, nell'esercito sonnolento della massa. Ma
un'autentica natura gocthiana metterebbe in moto i suoi cle-
menti e mediterebbe la propria ascesa anche in epoca sfavorevo-
FRIEDRICH MEINECKE 899
le. Perciò anche le masse non possono mai essere considerate
nella storia come masse del tutto morte. Esse sono piene di
personalità potenziali che, se anche non possono risplendere,
gettano tuttavia un barlume di luce sul loro ambiente. Anche i
guerrieri dell'esercito sonnolento sognano la vittoria e la glo-
ria. — Buona e cattiva stagione per la personalità si alternano
quindi nel corso della storia. I tempi più favorevoli al suo
sviluppo sono quelli dell’albeggiare tra vecchie e nuove epo-
che, quando forme vitali, idee e istituzioni da tempo dominan-
ti si rilassano e si trasformano, perdendo la loro forza vincolan-
te. Allora il bisogno sociale, politico e spirituale procede incer-
to alla ricerca di nuove vie; ma presto, come in un'alta marea,
spumeggia il coraggio di un pensiero e di un agire nuovo,
fresco e perfino rivoluzionario, e brulicano d’un tratto teste
vitali e originali. Così avvenne quando la Grecia passò dall’epo-
ca arcaica a quella delle guerre persiane: le rigide costituzioni
aristocratiche delle sue città-stato furono turbate dal nuovo fer-
mento della democrazia, e contemporaneamente si destò il dub-
bio verso l’antica fede negli dèi. La stessa cosa accadde nel
mondo romano-germanico alle soglie tra Medioevo ed età mo-
derna, anzitutto nella vivace Italia del Rinascimento, ma an-
che sul pesante e più duro terreno della Germania agli inizi
dell’Umanesimo e della Riforma. Sarebbe però errato cercare
in queste epoche l’esigenza e la capacità di produrre nuova
vita personale esclusivamente presso i rinnovatori e le loro nuo-
ve idee riformatrici. Si potrebbe piuttosto azzardare la tesi
che, con quanta maggiore forza e personalità irrompe la nuo-
va vita, tanto più forza vitale dev’esserci ancora in ciò che è
vecchio. Le nuove idee non scaturiscono mai da situazioni total-
mente marce e senili. La Chiesa romana non era marcia e
senile quando Lutero se ne distaccò. Proprio ciò che vi era
ancora di vitale nel Cristianesimo medievale gli ha dato un
infinito travaglio, e Lutero non si è mai completamente sottrat-
to al suo dominio. Tutte le grandi personalità riformatrici so-
no state uomini di transizione, la cui interiorità era «campo
di battaglia tra due epoche » e il cui mondo ideale di penetran-
te ricerca mostra spesso una continuità sorprendente con la tra-
dizione dalia quale si sono liberati. Di regola il rinnovatore
respinge consapevolmente soltanto una parte di ciò che è vec-
900 FRIEDRICH MEINECKE
chio, e non ne abbandona mai completamente il terreno. Ma i
conflitti che ne derivano sono adatti, come nessun altro, ad
agitare l’assopita profondità dell’uomo, spingendolo a raccoglie-
re saldamente e a organizzare gli elementi della sua natura
per poter affrontare la lotta con il passato e il mondo esterno
— e costruire così la personalità. Allora anche nature di media
forza e di medio talento possono innalzarsi al di sopra di se
stesse. Ulrico di Hutten' non era affatto un pensatore profon-
do né un carattere armonico, e probabilmente in tempi norma-
li non sarebbe andato oltre una certa varietà problematica di
impieghi del suo focoso impulso vitale; nella sua nuova missio-
ne crebbe nel volgere di pochi anni, quasi di colpo, fino a
diventare una personalità orgogliosa, libera e sicura di sé. Con
un grande senso delle condizioni di vita della personalità Con-
rad Ferdinand Meyer? ha contrapposto allo Hutten morente il
giovane Loyola?, uno dei massimi maestri della storia universa-
le per quanto riguarda la costruzione della propria personalità.
Anche il vecchio mondo può infatti mostrare, in queste epo-
che rivoluzionarie, di che cosa sia ancora capace, e gettare con-
tro l'epoca nuova potenti caratteri rappresentativi. Quando un
secolo fa la Prussia muoveva i primi passi decisivi da stato
organizzato in base a ceti a stato borghese-nazionale e tutta
una serie di importanti personalità si sollevava storicamente
all'altezza di questo compito, era al tempo stesso uno spettaco-
lo magnifico vedere lo Junker Marwitz* impegnarsi in una
lotta cavalleresca, da antico gentiluomo della Marca, come in
1. Ulrico di Hutten (1488-1523), umanista tedesco, autore dell’Ars versificandi
(1511), del Mordus gallicus (1519) e di vari altri scritti, fu coinvolto nella vita poli-
tica c nelle polemiche letterarie della Germania del primo Cinquecento; fu tra i mag-
giori collaboratori della raccolta di Epistelae obscurorum virorum (1517). Allo scoppio
della Riforma prese posizione contro la Chiesa romana, cd ebbe un'aspra polemica
con Erasmo.
2. Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898), poeta c romanziere svizzero, autore di
Balladen (1867), di Romanzen und Bilder (1870), del poema Muttens letzte Tage
(1871) e di un altro pocma su Engelberg (1873), nonché di numerose altre poesie e
di romanzi, soprattutto di argomento rinascimentale, come /iirg Jenatsch (1876) c
Der Heilige (1880). Mcinccke si riferisce qui, ovviamente, al pocma su Hutten.
3. Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, una delle
più cminenti figure della Controriforma cattolica.
4. Friedrich August Ludwig von der Marwitz (1777-1837), generale dell'esercito
prussiano dal 1817, vagheggiò la restaurazione della vecchia società organizzata in
base ai «ceti »: le sue opere sono apparse postume nel 1852.
FRIEDRICH MEINECKE 901
un’armatura sferragliante, contro l’epoca nuova. Anche il conte-
nuto vitale della vecchia epoca può essere spesso toccato dalle
nuove idee, nonostante la sua resistenza esterna, e presentarsi
quindi in modo particolarmente ricco d’interiorità e raffinato.
I colti amici di Federico Guglielmo IV, accesi di entusiasmo
per l’autorità di diritto divino e per il vecchio stato patrimonia-
le, vedevano nel soggettivismo e nel panteismo dei moderni
un peccato mortale; tuttavia non sempre potevano, alla luce di
una sottile indagine psicologica, assolversi l’un l’altro da que-
sto peccato. Per comprendere tale gioco riflesso di idee la sem-
plice storia delle idee non è sufficiente, perché essa non può
non cedere alla tentazione di vedere l’individuale come qualco-
sa di soltanto ideale. Solamente la domanda relativa all’effetto
che questi intrecci di idee hanno avuto sulla formazione della
personalità conduce nel cuore dell’uomo.
Ogni epoca produce anche i suoi particolari tipi di personali-
tà. Nei periodi di ampio e inarrestato dispiegamento delle for-
ze nazionali, quando le lotte di liberazione e di unificazione
gloriosamente condotte a termine, la fine dei disordini cittadi-
ni, la prosperità economica elevano il sentimento di sé, risve-
gliano la fiducia in sé e nell’epoca, stimolano il senso impren-
ditoriale, la personalità si sviluppa in modo diverso che nei
tempi di lotta e di transizione. L'Atene di Pericle, la Roma
augustea, l’Inghilterra nell’epoca di Elisabetta e l'Olanda nel
suo secolo d’oro hanno vissuto periodi del genere. Allora rece-
dono le tensioni interne e le lotte psicologiche, in cui il singo-
lo cerca se stesso seguendo la sua legge; si appianano le rughe
dei volti e gli uomini ci appaiono più armonici e pacifici, più
ricchi e rigogliosi. Allora spiriti grandi, medi e piccoli possono
dispiegarsi l’uno accanto all’altro in una pienezza brulicante e
recare alla luce tutto quanto è in essi presente. Un Sofocle e
un Orazio, uno Shakespeare e un Rembrandt crebbero in que-
ste condizioni. Anche i caratteri politici possono, in queste epo-
che che scorrono tranquille o — il che è assai simile — alla
testa di piccoli stati non scossi fortemente dalle lotte per la
potenza, perdere qualcosa della rigida unilateralità della loro
5. Federico Gugliclmo IV (1795-1861), re di Prussia dal 1840 alla morte, amante
dell'antichità e delle arti.
902 FRIEDRICH MEINECRE
volontà, e apparire più rilassati, più inclini al compromesso e
più disposti al godimento e a una cultura più varia. Pericle
non ha sviluppato la sua poliedrica personalità durante le guer-
re persiane e neppure in quelle peloponnesiache, ma negli opu-
lenti decenni intermedi. E le repubbliche cittadine italiane e
tedesche, i piccoli e medi stati tedeschi, la Svizzera, hanno
prodotto non pochi uomini di stato forniti di una certa forza
mite, di costante avvedutezza e di equilibrio spirituale — dal
borgomastro strasburghese Jakob Sturm ai moderni uomini
di stato del Baden all’epoca della fondazione dell'Impero. Non
si deve certo dimenticare che un'epoca di lotta e di transizione
non è mai esclusivamente tale, c che non vi sono neppure
epoche e situazioni di pura fioritura e raccolta. Ogni epoca
storica ha sopra di sé diversi strati atmosferici disposti l’uno
sull’altro, tempestosi o sereni, e i contemporanei cercano ora
nell’uno ora nell’altro la collocazione della loro personalità.
Spesso però i caratteri più grandi e più ricchi possono muover-
si contemporaneamente con eguale energia in tutti questi stra-
ti. Occorre ancora una volta pensare al Rinascimento italiano,
in cui si vedono sovrapposti immediatamente gli strati di una
forza che erompe rigogliosamente, di una contemplazione di-
mentica del mondo, di conflitti appassionati di idee e di
tenza. Nella sua qualità di uomo di stato in esilio Machiavel-
li racconta come passava il tempo nel suo villaggio giocando
per alcune ore al giorno con gente del popolo, per poi ritorna-
re nel suo santuario e alzare con venerazione lo sguardo alle
opere degli antichi. Contemporaneamente, però, scriveva il li-
bro sul Principe, che conteneva una forza la quale avrebbe
mosso il mondo. In questa doppia vita di passione politica e di
godimento spirituale egli ebbe un precursore nell’imperatore
Federico II”, certamente la personalità più colta del Medioevo.
6. Jakob Sturm (1489-1553), giurista e uomo politico tedesco, fu uno dei capi
della Riforma protestante in Germania. Avviato alla carricra ecclesiastica c poi a
quella diplomatica, studiò diritto a Liegi c a Porigi; rientrato nel 1524 a Strasburgo,
fece parte del Senato c quindi, a partire dal 1526, del Consiglio dei Tredici; in seguito
fu varie volte presidente del Senato. Convertitosi alla dottrina luterana, prese parte
alle controversie religiose dell'epoca, e svolse un'intensa attività diplomatica, rappre-
sentando Strasburgo alla prima dicta di Spira e in varie altre occasioni.
7. Federico Il di Svevia (1194-1250), re di Germania c, dal 1220, imperatore del
Sacro Romano Impero, viene qui ricordato per i suoi interessi culturali, che fecero
FRIEDRICH MEINECKE 903
Anche questi viveva in un secolo intimamente duplice, in cui
c'era la compenetrazione e l'accostamento di vecchie e nuove
idee, il rigoglioso dispiegamento della vita e lo scontro più
violento; in tutte queste sfere Federico II si muoveva con egua-
le virtuosismo, artista nella vita e uomo di volontà a un tem-
po, e di durezza diamantina nel nucleo del suo essere. Emerge
qui la personalità, per alcuni aspetti comparabile, di Federico
il Grande, che dal suo secolo prese sia gli ideali filantropici e
i gusti spirituali della filosofia illuministica sia il lavoro di
formazione dello stato e della potenza che disprezza gli uomi-
ni, mescolando eroicamente queste contraddizioni nelle prove
imposte dal destino alla sua personalità.
Attraverso l’irradiarsi della sua natura e delle sue azioni
egli diventò uno degli elementi di formazione delle personali
tà della nostra epoca classica. Nulla agisce in modo così imme-
diato sul destarsi della personalità nell’uomo come il modello
di una personalità estranea. Tutta la vecchia concezione della
storia e la vecchia etica della storia non conoscevano consiglio
migliore che quello di fare — come ha detto Machiavelli —
come l’arciere che dirige il suo arco più in alto del bersaglio, e
di scegliersi a modelli della propria condotta di vita i maggio-
ri eroi, i grandi eroi irraggiungibili del passato. Da allora noi
sappiamo che con la semplice imitazione di tratti estranei non
si è fatto ancor nulla, e che non basta l’imitazione da sola a
mediare le influenze di una personalità sull’altra. Tutti i mate-
riali e gli stimoli del mondo storico, che l’individuo trae da
esso per formare la sua personalità, equivalgono agli elementi
del terreno che la pianta estrae scegliendo secondo il bisogno
della propria legge di formazione organica e respingendo ciò
che non le si confà. Federico il Grande aveva tratti quanto
mai estranei, addirittura antipatici, a Goethe, Schiller, Kant e
Fichte: non si appassionavano per lui, anzi lo rifiutavano in
vari modi, ma lo rivivevano. Non potevano fare a meno del
miracolo che aveva reso possibile un uomo del genere — eroe
e filosofo al tempo stesso — nella loro epoca, che ritenevano
della sua corte palermitana uno dei maggiori centri della vita intellettuale della prima
metà del secolo xt. Fu egli stesso uomo esperto di matematica e di scienza naturale;
le sue liriche ne fanno uno dei primi pocti italiani, esponente della scuola siciliana.
Alla sua iniziativa si deve il codice promulgato nel 1231.
904 FRIEDRICH MEINECKE
troppo colta e raffinata. Sicché Federico il Grande non ha sola-
mente rafforzato la loro coscienza nazionale e l'orgoglio di
essere Tedeschi, ma ha anche consolidato — cosa ancor più
necessaria per loro — la fede che la loro vocazione e il loro
dovere consisteva nel rompere i limiti della convenzione, i pre-
giudizi dell’epoca, e diventare uomini seguendo la propria
legge.
Anche dai tempi in cui vissero essi e le altre personalità
della loro generazione attinsero la linfa di cui avevano biso-
gno, secondo le leggi della più individuale affinità elettiva.
Essi vissero successivamente un’epoca di dispiegamento, un’epo-
ca di lotta e poi ancora una pacifica età di dispiegamento nei
giorni dell’ancien régime al tramonto, della Rivoluzione france-
se e di Napoleone, e poi della Restaurazione — una molteplici-
tà d’impressioni di incomparabile vantaggio non soltanto per
coloro che da esse furono chiamati ad agire e ad affrontare la
vita, ma anche per coloro che vollero accoglierle in sé soltanto
con anima silenziosa e indipendenza interiore. Dapprima si
vinse con uno sviluppo interiore la pressione esercitata sulla
vita personale dalle invecchiate articolazioni di ceto della socie-
tà e dalla tutela da parte dello stato assistenziale; si edificò in
sé un autonomo mondo spirituale, così saldamente fondato sul-
l'essenza dello spirito umano da poter affrontare tutte le scosse
e i rivolgimenti successivi delle situazioni storiche senza suscita-
re alcun dubbio sulla giustizia e sulla fecondità dei suoi princì-
pi fondamentali. La vita interiore dei nostri grandi poeti e
pensatori procedette regolare e potente senza mai deviare, pur
in mezzo a tutte le esperienze dell’epoca, dalla convinzione
che lo spirito si costruisce il corpo ed è in grado di riedificare
secondo il proprio bisogno qualsiasi forma distrutta. Perciò,
non appena questo compito si presentò allo stato prussiano do-
po il 1806,.le forze erano immediatamente disponibili. Ora essi
non avevano altro pensiero se non quello di risollevare lo stato
caduto in basso risvegliando nella nazione una nuova vita perso-
nale. Non già che si immaginassero di poter creare delle perso-
nalità ad opera dello stato: ciò che si voleva creare era soltan-
to la possibilità, per l'individuo, di diventare una personalità,
liberandolo dalle catene di un mondo storico invecchiato, of-
frendogli nuove forme di azione e confidando per il resto nell’a-
FRIEDRICH MEINECKE 905
lito dello spirito. E per quanto la distruzione delle vecchie
forme di stato e di società e la costruzione di quelle nuove non
giungessero allora neppure a metà cammino, questa fiducia con-
servò tuttavia la sua legittimità. Anche nell’ibrido mondo dell’e-
tà della Restaurazione, che da alcuni fu sentito e vissuto come
prospero dispiegamento, come «bonaccia alcionesca », da altri
come indegna vittoria delle forze del passato sulle forze del
futuro, le personalità eruppero trovando in essa sia il sereno
silenzio di cui gli uni avevano bisogno, sia la lotta turbinosa
di idee che per gli altri costituiva l’aria vitale. Fin dopo la
metà del secolo x1x l’idealismo e l’individualismo classico han-
no così fecondato, attraverso l’influenza immediata delle loro
idee originali, lo sviluppo dell’individuo a personalità. Anche
la rappresentazione dell’essenza della personalità in generale,
di cui si è detto all’inizio, si è sviluppata su questo terreno.
Ma prima essa dovette essere riconquistata perché — come ab-
biamo visto — correva il pericolo di venir svalutata da un
nuovo modo di pensare dannoso alla personalità. Questa crisi
non era però altro che l’aspetto parziale di una svolta di tutta
la nostra vita storica, che da una considerazione puramente
teoretica ci conduce sempre più ai problemi pratici del nostro
tempo e ci ripropone una duplice questione: che cosa significa
il mondo odierno, così com’è storicamente divenuto, e che cosa
significa il mondo storico del passato, così come esso ci si
rappresenta oggi, per la formazione della personalità moder-
na? Queste due questioni sono ancora una volta strettamente
connesse tra loro.
Paragoniamo i vantaggi e gli svantaggi della nostra situazio-
ne storica odierna con quella in cui Goethe e Wilhelm von
Humboldt poterono formarsi come personalità. Anzitutto si
mostrano alcuni parallelismi. Come quell’epoca dopo la pace
di Hubertusburg *, così anche noi abbiamo vissuto dopo il 1871
un'epoca di indisturbato e rigoglioso dispiegamento delle forze
nazionali. Ciò che per quell’epoca fu la personalità di Federi-
co il Grande, per noi è stato — con un'influenza ancor più
8. È la pace che conclude, nel febbraio 1763, la guerra dei Sctte anni, assicu-
rando fino allo scoppio della Rivoluzione francese — pur con alcune interruzioni —
un lungo periodo di pace in Europa.
906 FRIEDRICH MEINECKE
costrittiva e più ampia — la personalità di Bismarck. Come
quell’epoca fu risvegliata dalla sua pace dalla catastrofe mondia-
le delle guerre rivoluzionarie, così noi siamo stati risvegliati
dalla catastrofe della guerra mondiale. Alcune somiglianze più
sottili potranno un giorno svelarsi, sulla base di questi fatti
comparabili, allo sguardo dello storico. Oggi ancora non riuscia-
mo a vederle; abbiamo l’impressione che prevalgano le differen-
ze interne. Molti degli impedimenti esterni che allora ostacola-
vano lo sviluppo della vita individuale sono scomparsi — soprat-
tutto le barriere sociali e i legami della società organizzata in
ceti dell’ancien régime. Il nobile non opprime più il borghese,
i contadini sono da un secolo liberi dal giogo. Nella vita stata-
le ed economica l’impulso produttivo dell’individuo, fecondato
dagli impulsi di una grande e potente esistenza nazionale, può
agire in modo incomparabilmente più libero e più ricco. An-
che il costume e la condotta della vita si sono da allora allenta-
ti in modo che ogni forte bisogno personale può manifestarsi
liberamente. Le possibilità esterne di dispiegamento della perso-
nalità sembrano quindi essersi moltiplicate, mentre l’ambiente
che avrebbe potuto ostacolarlo sembra diventato più pieghevo-
le e flessibile. Abbiamo messo un individualismo di massa al
posto dell'individualismo della nostra epoca classica, limitato a
piccoli strati e a piccole cerchie; e nelle masse del quarto stato,
da poco comparse sulla scena, si è oggi largamente diffuso l’im-
pulso a prender parte a tutti i beni culturali secondo la misura
della propria possibilità e del proprio desiderio. E tuttavia,
nonostante tutte queste facilitazioni e moltiplicazioni di possibi-
lità, la nostra epoca non può competere con la grandezza dell’o-
pera di quella, che pur in mezzo a tutti gli ostacoli esterni
e all’angustia della vita nazionale e sociale era in grado di
costruire l’autonomo mondo spirituale della personalità. Forse
che, in presenza di un’accresciuta fecondità esterna, siamo di-
ventati interiormente più piccoli e infecondi? Può essere; ma
solamente le generazioni successive potranno giudicare in mo-
do definitivo. Possiamo tuttavia forse dire, acuendo lo sguar-
do, che il compito di diventare personalità è per l’uomo moder-
no non già più facile, ma più difficile; che lo sviluppo moder-
no non soltanto ha liberato la strada da vecchi ostacoli, ma ha
ammassato ostacoli nuovi e forse maggiori. L’ideale classico di
FRIEDRICH MEINECKE 907
umanità e di personalità fu creato con la risoluzione di ignora-
re l’ambiente storicamente divenuto con i suoi ostacoli e con la
sua meschinità, di collocarsi al di sopra di esso, di metterlo
in disparte per potersi accingere indisturbati alla costruzione
del mondo interiore e della libera personalità. Questa risoluzio-
ne fu allora possibile perché nell’ancien régime al tramonto lo
stato e l’individuo potevano ignorarsi reciprocamente e fare a
meno l’uno dell’altro, perché non avevano ancora nulla di es-
senziale da offrirsi. Altrettanto poco sviluppati erano lo scam-
bio e l’azione reciproca tra il concreto mondo economico-socia-
le e il mondo spirituale. Questa distanza dalla vita e dalla
realtà, in cui da noi si dispiegò all’inizio la libera personalità
propria dell’ideale di umanità, non poteva però durare. La per-
sonalità stessa si spinse ben presto nel calore e nella pienezza
della vita che a sua volta aveva bisogno di essa, la invocava e
le poneva compiti grandi e fecondi nello stato, nella società e
nell’economia. Questa prossimità vitale tra personalità e am-
biente concreto, acquisita nella prima metà del secolo x1x e da
allora ancor sempre accresciuta, rappresentava per la personali-
tà — come sempre avviene — tanto un guadagno quanto una
perdita. Essa acquistò in fini creativi e in impulso creativo,
sviluppando un gran numero di forze e di capacità prima son-
nolenti, che non ci si sarebbe mai aspettato dai Tedeschi; per-
dette in indipendenza interiore, in auto-riflessione e in auto-de-
terminazione interiore e quindi, in ultima analisi, anche in inti-
ma forza spontanea e rigenerativa. Essa correva ora, di fatto,
il rischio di diventare mera funzione al servizio dei nuovi com-
piti sui quali si gettava, di cessare di essere scopo autonomo e
di diventare mezzo per altri scopi, certo assai grandi ma pur
sempre impersonali. Tutte le istituzioni che spingono gli uomi-
ni a raccogliersi in una massa — pensava il giovane Wilhelm
von Humboldt — sono oggi più dannose che mai per la forma-
zione degli individui, e l’uomo non dovrebbe essere sacrificato
al cittadino. Humboldt non poteva immaginare fino a qual
punto il secolo xrx avrebbe riunito gli uomini in masse e li
avrebbe trasformati in cittadini. E non soltanto la vita politica
borghese contribuiva a raccogliere gli uomini in masse, ma
anche le diverse professioni cominciavano a impegnare la perso-
nalità con forza maggiore che nell’epoca classica. La moderna
908 FRIEDRICH MEINECKE
divisione del lavoro agevolava il lavoro collettivo e in apparen-
za anche il lavoro individuale, ma danneggiava le radici della
loro forza. Essa costringeva l'individuo a scomporsi in se stes-
so, a restringere la sfera della pura vita personale — il rifugio
dell'anima in sé — per soddisfare le accresciute pretese del
mondo esterno. Ne sono nate tensioni spesso assai feconde per
la formazione del carattere, perché si voleva ora bastare insie-
me a se stessi e al compito di vita oggettivo, e nel complesso
la vita tedesca è risultata più ricca di tipi di personalità profes-
sionalmente differenziati. Il moderno imprenditore, il moder-
no politico di professione, e inoltre i vecchi tipi del funziona-
rio amministrativo, dell’ufficiale, del dotto tedesco — adattati
ai nuovi tempi — presentano nel loro insieme un quadro in-
comparabilmente più ricco di varie forme di personalità oggi
possibili che non quello, per esempio, della società nobiliare
dei ceti superiori che compare nel Wilhelm Meister di Goethe.
Ma ora è anche facile che il tipico sopraffaccia il singolare e
l’individuale.
È chiaro che queste difficoltà, con cui deve combattere la
formazione della personalità moderna, sono prodotte da essa
in virtù del suo proprio lavoro storico, Costruendo a poco a
poco le singole sfere della cultura moderna, consacrando loro
il proprio sangue vitale, accrescendo il loro contenuto e la loro
importanza, essa fece sì che queste diverse sfere ottenessero per
sé anche individualità e personalità, che entrassero in lotta tra
loro per il proprio potere, per la propria auto-affermazione.
Procedendo dalla comunità spirituale-mondana ancora origina-
riamente unificata nel corpus christianum del Medioevo, venne-
ro dapprima a separarsi tra loro una sfera statuale e una sfera
ecclesiastica; ma anche la scienza, l’arte, l'economia, le classi
sociali ecc. si costruirono a poco a poco sedi proprie, e tale
processo si è moltiplicato nel secolo x1x. Queste diverse sfere
culturali crescono — come gli atolli corallini — in virtù del
lavoro di milioni di personalità grandi e piccole; ciò che pri-
ma era vivente opera personale diventa ben presto opera rigi-
da, inflessibile, convenzionale, costringendo sotto il suo domi-
nio la personalità che per la prima volta si presenta al posto di
lavoro. Proprio una considerazione unilaterale di questo proces-
so fu quella che produsse la dottrina positivistica della persona-
FRIEDRICH MEINECKE 909
lità. AI contrario, noi dicevamo che le diverse sfere culturali e
i beni culturali che in esse hanno la loro sede possono conser-
varsi e accrescersi soltanto attraverso l’opera delle personalità.
È chiaro però che l’epoca più favorevole per il pieno, libero,
vivente manifestarsi della personalità nel mondo culturale è ap-
punto quella in cui quest’ultima viene costruita per la prima
volta e non è ancora edificata troppo compiutamente. Dov'è
possibile scoprire un nuovo territorio, là compaiono in gran
numero i grandi costruttori di cultura. Ma la nostra situazione
è simile a quella di una città vecchia e densamente abitata che
esige sì, anche nelle sue parti antiche, parecchie trasformazioni
e muove costruzioni, ma con compromessi continui, travagliati,
che paralizzano il libero volo dei progetti. Oggi il mondo stori-
co è costruito tutto intorno alla personalità — questo è il no-
stro destino. Guai a te se sei un nipote!
Oppure c'è una possibilità di liberarsi dalla pressione del
passato, dalle opera operata, e di dispiegare di nuovo liberamen-
te l’ala della personalità? Forse che ci affanniamo troppo intor-
no a questo passato, che sappiamo troppo di esso e lo rispettia-
mo con eccessivo timore? è forse il cosiddetto storicismo a tor-
mentarci e a renderci deboli? Ne deriva la questione di ciò
che significa per la formazione della personalità la conoscenza,
l'intuizione del mondo storico passato e l’immergersi in esso
con amore — forse con troppo amore — di cui ci vantiamo
come di una delle grandi conquiste del secolo xrx. È noto che
Nietzsche cominciò la sua carriera di sovvertitore dei valori con
un attacco appassionato allo storicismo, quando nel 1873-74
scrisse la dissertazione sull’utilità e sullo svantaggio dello stu-
dio della storia’. La moderna formazione storica — egli asseri-
va — indebolisce gli istinti creativi della personalità perché la
forza plastica riposa sul dimenticare, sul poter dormire. La sa-
zietà della storia condurrebbe a una fede da epigoni, rende
l'individuo spaurito: la storia è sopportata soltanto dalle forti
personalità, mentre dissolve completamente quelle deboli, poi-
ché essa confonde il sentimento dove questo non è abbastanza
9g. Meinecke si riferisce qui alla dissertazione Vom Nutzen und Nachteil der
Historie fiir das Leben, che costituisce la prima delle Unscitgemasse Betrachtungen,
Leipzig, 1873-76.
gQIO FRIEDRICH MEINECKE
forte da commisurare a sé il passato. I Greci sono stati un
popolo eminentemente astorico. Nietzsche avrebbe anche potu-
to fare riferimento alle generazioni della nostra epoca classica,
che hanno prodotto la maggiore ricchezza in fatto di personali-
tà. Anch’esse erano in alto grado astoriche; o almeno esse co-
minciarono come tali. Come tennero il più possibile distanti lo
stato e l’ambiente sociale concreto, così esse trascurarono, anche
nella formazione dei loro ideali, il passato storico. Esse fecero
eccezione solamente per la Grecità, elevandola a proprio cano-
ne — ma non per la Grecità storica, bensì per la Grecità pla-
smata secondo i loro propri ideali, la quale diventò così un’ipo-
stasi di questi ideali. Agiva qui un potente istinto plastico che
non si sottometteva al passato, ma che sottometteva a sé il
passato trasformandolo in leva della propria volontà di vita.
Ma — miracolosamente — in questa lotta tra la personalità e
il passato accadde che anche il passato acquistò forza, la sua
ombra si riempì di sangue vitale, acquistò forma e linguaggio
e cominciò a dare testimonianza di sé. Dal movimento di pen-
siero dell’idealismo tedesco e dal Romanticismo, che ad esso si
collega, sono infatti scaturite la nuova concezione della storia
e la nuova ricerca storica culminata in Ranke. Questo movi-
mento di pensiero era nello stesso tempo strettamente connesso
con quelle grandi svolte che condussero le personalità più in
profondo nella vita concreta dello stato e della società. La con-
templazione storica e Ja creazione politico-sociale del secolo
xIx non devono essere separate nella loro origine, e si sono
pure continuamente fecondate tra loro. Potenti e istintivi biso-
gni fondamentali spinsero la personalità dapprima ad acquista-
re la propria libertà e autonomia in una distanza vitale priva
di storia e di stato, per inserire in seguito nel mondo storico,
con l’azione e il pensiero, la forza così acquisita.
Nietzsche ha completamente trascurato il fatto che lo storici-
smo, il quale uccide — a suo parere — gli istinti creativi, era
in ultima analisi scaturito proprio da istinti creativi quali quel-
li che egli esigeva. Si è a buon diritto obiettato a Nietzsche,
anche sul piano personale, che lui, il critico amaro della cultu-
ra storica, ha poi tratto la sua forza da una cultura storica di
inconsueta finezza. Una delle conoscenze più sottili che la cul-
tura storica potesse fornire era appunto la capacità di apprezza-
FRIEDRICH MEINECKE QI
re anche la forza e il significato degli istinti non storici nella vita
storica. Nessuno che abbia spinto lo sguardo fin dentro i suoi
abissi potrà negarlo. E neppure si potranno negare i pericoli
dello storicismo che Nietzsche ha scoperto. Si può tuttavia por-
re in dubbio la possibilità di liberarsi dalla cultura storica una
volta che la si è accolta in sé. Si può definire un paradiso
il mondo degli istinti creativi non gravati dal sapere storico;
ma una volta che si sia mangiata la mela della conoscenza stori-
ca, non possiamo più far ritorno in questo paradiso. Come nel
volgersi della personalità verso la vita produttiva, anche qui
c'è una necessità storica che ha prodotto dal suo seno gli irrobu-
stimenti e gli indebolimenti della nostra vita. Noi veniamo in-
deboliti dalla cultura storica quando ci lasciamo ridurre a puri
suoi recipienti, quando ci lasciamo sopraffare da un’erudizione
massiccia che però non riusciamo a penetrare del tutto spiritual-
mente. Noi veniamo ancora seriamente indeboliti nella nostra
intima forza produttiva quando non osiamo più svincolarci dal-
le dande della tradizione storica e dei modelli storici o quando
ci immaginiamo di poter padroneggiare spiritualmente la no-
stra erudizione con quel relativismo rapido e virtuosistico che
crede di comprendere tutta la realtà storica, al pari del presen-
te, attraverso un’elegante illustrazione della sua necessaria cau-
salità e quindi attraverso la sua giustificazione. A chi crede di
poter in questo modo chiudere le questioni, a chi non è capace
di tacere di fronte agli enigmi e agli abissi spaventosi dell’uma-
nità storica, e anche di fronte ai miracoli divini che in essa si
manifestano, la cultura storica ha di fatto tolto dalle ossa ogni
midollo. Nietzsche ha allora ragione: essa è veleno per il debo-
le, e nutrimento per il forte. In definitiva ogni cultura, e quin-
di anche ogni educazione, deve in primo luogo pensare ai forti
e non ai deboli. Ma spesso la forte personalità trova oggi pro-
prio nel mondo storico la consolazione e il sostegno minacciati
dal gravoso e opprimente presente. Essa trova consolazione €
sostegno partecipando interiormente alle lotte del passato, la-
sciandosi scuotere dagli oscuri destini e dai poteri sotterranei
che irrompono nella vita dello spirito, lasciandosi sollevare dal-
l’immortale volontà dello spirito, per sconfiggere il destino e
costruire un proprio mondo in mezzo al mondo della ferrea
connessione causale. Allora si riconosce che il problema della
912 FRIEDRICH MEINECKE
vita individuale non è diverso da quello della storia universale
— cioè la contrapposizione tra libertà e necessità. Ma si ricono-
sce pure che libertà e necessità non soltanto si contrappongo-
no, ma al tempo stesso si intrecciano, e che senza il fecondo
impulso coercitivo della necessità non è possibile alcuna liber-
tà. Ciò che importa è penetrare il necessario con la libertà.
Quelle potenze storiche vitali dello stato, della società, delle
sfere culturali e delle professioni, che oggi sembrano minaccia-
re più fortemente che mai la libertà e la specificità della perso-
na, hanno quest’effetto, ossia sprofondano nel regno della rigi-
da necessità, solamente quando la personalità rinuncia a traspor-
re in esse il suo elemento più proprio, sia sfuggendole codarda-
mente, sia sottomettendovisi ciecamente. Ma la pressione e la
coercizione dell’ambiente storico cedono e diventano una benefi-
ca atmosfera vitale se la personalità comprende la sua posizione
organica e il suo compito nel processo storico complessivo, e
riconosce la possibilità di rimanere libera e se stessa anche al
servizio della totalità.
Tuttavia lo stesso processo storico complessivo è il grande
modello e la camera del tesoro dell’individualità. L'aspetto di
ricchezza infinita di forme umane ch’esso offre dischiude spes-
so nell’osservatore — come una bacchetta magica — forze af-
fini, scioglie impedimenti e pregiudizi interni, lo rende indul-
gente e comprensivo. E per quanto il senso affinato della multi-
formità individuale della vita storica possa indurre nature più
deboli a perdersi in essa, il bisogno dell’individuo più forte
non si acquieterà finché non scopre la struttura interna di que-
sta pienezza brulicante, finché non scorge nella loro lucentez-
za dorata i più alti tra tutti i fenomeni individuali — le idee
— sorretti da personalità. Ma allora scocca la scintilla dentro
la vita personale, destando anche in essa l’infinita esigenza di
venir governata dalle idee.
Questa via alla personalità, che passa attraverso la cultura
storica, è quindi diversa, più faticosa e più minuziosa di quel-
la che indicano gli istinti elementari di una vita tutta immersa
nel presente. Qui la riflessione deve per più versi sostituire ciò
che la fresca natura non è più in grado di fare. Essa lotta
continuamente con la zavorra del materiale storico. Prima di
essere in grado di diventarne signore, lo spirito deve sottoporsi
FRIEDRICH MEINECKE 913
alla pressione di un’educazione rigorosa e faticosa, la quale
deve renderlo capace di creare la vita passata dalla fonte stes-
sa, anziché da torbide derivazioni. Questo tipo di educazione
rischia a sua volta di snaturarsi in mero addestramento, perché
il carattere di massa della vita moderna lo spinge a rivolgersi
più alla media degli uomini che alla individualità. Tutte le
difficoltà e le contestazioni con cui deve oggi combattere l’inse-
gnamento storico-umanistico, tutti i tormenti e le manchevolez-
ze dell'esame devono qui essere presi in considerazione. In defi-
nitiva, però, il valore o disvalore di questo processo di formazio-
ne può venir riconosciuto soltanto dai frutti che matura; e
qui, ancora una volta, decide non la quantità, ma la bellezza e
la dolcezza del frutto. E presso di noi esso continua pur sem-
pre a crescere verso una nobile perfezione. Chi tra noi, che
l’abbia gustato, potrebbe rinunciarvi? Tra noi, se non voglia-
mo diventare più poveri e ritornare in basso, non può scompari-
re quel tipo di personalità che nel mondo storico si allarga
fino all’infinità dello spirito e del senso, fino a una dolce e
forte sensibilità per tutto ciò che è umano.
Anche la vita moderna si preoccupa che altri tipi si ponga-
no a fianco di questo e lo conservino vivo con la loro concorren-
za reciproca. È emerso, senza vincoli e risoluto, il moderno
uomo di volontà e di potere, che aspira a governare con mano
salda le leve rafforzate della civiltà, dell'economia e della tecni-
ca odierna, apprezzando tutti i valori culturali in base alla
utilità ed effettualità immediata. Non è solamente un utilitari-
smo sensibile-egoistico quello che fa qui la sua comparsa e che,
se pervenisse al dominio, minaccerebbe nel modo più pesante
la vita della personalità. Anche l’utile della comunità può di-
ventare un motivo che spinge la personalità; e per sua fortu-
na lo diventa in larga misura, perché i bisogni della moderna
vita comunitaria sono cresciuti così infinitamente e sono diven-
tati talmente prepotenti che nessuno può più sottrarvisi del tut-
to; essi sono in grado di sollevare al di sopra di sé anche chi
all’inizio perseguiva soltanto il proprio utile. Questa socializza-
zione della nostra vita, che è rapidamente cresciuta nel corso
della guerra e che crescerà ancor di più per le sue conseguen-
ze, minaccia certamente anche la personalità — come abbiamo
osservato — con il destino di perdersi nella totalità e di diventa-
38. STORICISMO TEDESCO.
914 FRIEDRICH MEINECKE
re una semplice funzione di essa. Ma meno di tutti ne sono
minacciati proprio i più forti tra gli uomini di volontà e di
azione. Lo ha dimostrato già Bismark, che sotto vari aspetti
prefigurava questo tipo. Certamente egli aveva ancor sempre
un sentimento di partecipazione alla cultura storica più vivo di
quel che possiede di solito il moderno uomo di volontà. Que-
sto tipo si trova ancora in fase di sviluppo, ed è ancora troppo
presto per valutare le possibilità di una umanità superiore che
sono in esso presenti. Ma qui e là si manifesta in lui la buona
volontà di ricostruire i ponti spezzati con la cultura storica, di
diventare al tempo stesso uomo di volontà e di spirito. Allora
da un istinto veramente plastico nascerebbe tra noi qualcosa di
nuovo e di grande.
Si vorrebbe concedere la stessa fiducia anche a un terzo
tipo di aspirazione moderna alla personalità, che condivide
con il corso della cultura storica il bisogno di un contenuto
culturale interiore e con l’utilitarismo il rifiuto di una formazio-
ne storica rigorosa. Si tratta del soggettivismo moderno che,
adirato contro la rigida disciplina di questa formazione, si ab-
bandona, seguendo Nietzsche, agli innati istinti originari della
natura e dell’individualità e — «il giorno innanzi a me, la
notte alle mie spalle »1! — esce allo scoperto. Ad esso si affida-
no soprattutto le nature dotate artisticamente. La loro mancan-
za di rispetto per la cultura storica e il mondo storico ha le
proprie radici, in ultima analisi, nelle esperienze storiche del
secolo x1x e nella situazione tragica che esso ha creato per lo
spirito artistico. In esso sono state distrutte e lacerate le salde
forme di vita della vecchia società al pari dei saldi stili della
creazione artistica. Il nuovo, ciò che ne prese il posto nella
società e nell’arte, assomigliò a edifici a scopo di utilità o di
moda, rapidamente costruiti per i bisogni della massa, senza
quella patina dignitosa, senza un gusto delle forme, ma sfigura-
ti piuttosto dal gusto rozzo degli arricchiti. La vecchia forma
irrevocabilmente perduta e il ritorno ad essa afflitto dalla male-
dizione propria degli epigoni; la nuova forma insufficiente e
ripugnante, e in verità l'assenza di forma — accompagnata
tuttavia da un insopprimibile bisogno di forma: non c’era da
1o. Goetne, Faust, v. 1087 (tr. it. di F. Fortini),
FRIEDRICH MEINECKE 915
meravigliarsi che il soggetto dotato di sensibilità artistica, sen-
za sostegno nel mondo storico e rigettato su di sé, si abbando-
nasse a un’irrequieta sperimentazione e all’escogitazione di nuo-
ve forme arbitrarie, trovando la libertà della personalità nella
mancanza di legami. Ogni volta ci viene assicurato di nuovo
che ora il tempo della ricerca è finalmente passato e che è
stata trovata la nuova sintesi della vita con la nuova forma
artistica. E quando ci avviciniamo pieni di aspettative, ogni
volta ci accorgiamo di una lotta di nature altamente dotate,
che però sembra condannata a una tragica mancanza di radici
e all’artificiosità. Noi comprendiamo il fatto che la loro perso-
nalità tormentata si rivolta contro la pressione che viene dal-
l’ambiente odierno non soltanto socializzato, ma anche utilitari-
stico e meccanizzato; e a questo proposito non si deve neppure
dimenticare la pressione del falso storicismo, scolasticamente
meccanizzato. Ma i mezzi di difesa a cui ricorre lo spirito
soggettivistico ci sembrano violenti e spasmodici. La distanza
dalla vita e dalla realtà, in cui esso ritorna in varie guise a
perdersi, non è comparabile a quella in cui vivevano gli uomi-
ni della nostra epoca classica, perché viene soltanto artificiosa-
mente estorta a una vita alle cui potenti correnti complessive
nessuna personalità sana e forte può più sottrarsi. Spesso in
luogo dell’interiorità cercata e preesistente emerge soltanto
una nuova esteriorità dall’acconciatura moderna, una mera mo-
da culturale.
Nel moderno espressionismo ci si sottrae nel modo più
coerente a tutti i diritti e a tutte le catene della tradizio-
ne e della realtà. Ma ancor più immediatamente la cultu-
ra storica è minacciata dalle esigenze di riforma educativa e
scolastica avanzate dal movimento giovanile. Invece noi chiedia-
mo: è realmente impossibile pensare al tempo stesso in modo
moderno e storicamente? ed è impossibile tuffarsi nella corren-
te della vita moderna senza perdere la solitudine sacra della
vita interiore?
Occorre anzitutto riconoscere liberamente e coraggiosamen-
te la difficile situazione in cui oggi si trova la personalità. Noi
viviamo in una cultura vecchia, ma probabilmente ancora lonta-
na dall’essere decrepita. Proprio perché oggi sentiamo di nuo-
vo con tanta passione il problema della personalità, possiamo
916 FRIEDRICH MEINECKE
aver fiducia che sotto la lava irrigidita degli strati culturali del
passato, che sovrastano la nostra vita, esso arde ancora poten-
temente. Noi viviamo altresì in un’epoca di rivolgimenti inau-
diti delle condizioni di vita esterna, e come potevamo già
definire una rivoluzione ciò che avevamo vissuto nei decen-
ni prima della guerra, così possiamo farlo per ciò che è ac-
caduto dopo di allora e per ciò che dobbiamo ancora aspet-
tarci. Si susseguono nuove libertà e nuove estensioni, ma an-
che nuove forme di dipendenza e nuove restrizioni della vita
individuale. Affermare il carattere aristocratico del tipo tede-
sco di formazione della personalità, come si è configurato fino-
ra, è inevitabile, ma anche infinitamente faticoso. Noi abbia-
mo vissuto la successione e la mescolanza di epoche di rigoglio-
so dispiegamento e di epoche di transizione e di lotta. Questi
possono essere — come abbiamo già chiarito — tempi in cui le
personalità prosperano, ma noi percepiamo soprattutto la pres-
sione e la minaccia a cui siamo esposti. Contemporaneamente
sentiamo però ancora il potente appello che la nostra epoca
rivolge alla personalità. Intorno a noi si è accumulato un vec-
chio vivente, un vecchio irrigidito, un vecchio distrutto — un
mondo insieme di vita e di ruderi, oggi scosso più fortemente
che mai dalle tempeste distruttrici e purificatrici del nuovo.
Qui l’individuo deve scegliere e distinguere, secondo la propria
coscienza e il proprio impulso, ciò che vuol affermare, ciò che
vuol lasciar andare, ciò che vuol riprendere di nuovo. Egli può
farlo solamente se si conserva libero dalla coercizione gravosa
del passato, ma in profonda compartecipazione con tutti i valo-
ri vitali del passato. Pensare al tempo stesso in modo moderno
e storicamente è, in una situazione del genere, non soltanto
possibile ma necessario. Soltanto così all'impeto dall'esterno è
possibile opporre la più possente — ma nello stesso tempo sem-
pre elastica. — forza interna, e conservare il nerbo vitale della
personalità, l’auto-determinazione interiore. Mai è stata più im-
pellente l’esortazione rivolta ad essa: « diventa libera, diventa
te stessal ».
Possiamo adesso trarre le conseguenze per l'odierno insegna-
mento della storia. S'intende che qui non parlo soltanto dell’in-
segnamento della storia in senso stretto, ma di tutte le discipli-
FRIEDRICH MEINECKE 917
ne che tramandano un contenuto storico, delle lingue antiche
e moderne così come dell’insegnamento della religione. Esse
costituiscono un’unità in cui un elemento deve integrare l’altro
e in tutti quanti devono essere presenti le stesse idee direttrici.
In primo piano si colloca il desiderio che l’insegnante di disci-
pline storiche abbia egli stesso l'impulso alla personalità. Fin
dall’inizio il mondo storico può diventare vivo ai nostri occhi
soltanto attraverso la mediazione di una personalità estranea,
che sta con esso in un rapporto immediato. A ciò si collega
l’ulteriore desiderio che questo rapporto immediato con le fon-
ti del passato, a cui l'insegnante di storia si è accostato durante
i suoi studi, non lo abbandoni durante la sua professione peda-
gogica. Non già che pretenda dall’insegnante di storia un lavo-
ro produttivo di ricerca, per quanto questo sia benvenuto quan-
do deriva dall’impulso del talento. Ma desidero che l’insegnan-
te di storia si faccia un diletto personale non soltanto del legge-
re, ma anche del gustare le fonti del passato in cui si rispec-
chiano in modo particolarmente individuale lo spirito e la situa-
zione propri di un'epoca. Un’influenza particolarmente fecon-
da mostrano qui le opere dei pensatori dominanti dei secoli
precedenti. La cultura storica si rafforza fino a diventare forma-
zione della personalità per colui che, durante tutta la sua vita,
non può fare a meno di Platone e di Agostino, di Lutero,
Machiavelli e Montaigne, di Federico il Grande e Rousseau,
dei grandi idealisti tedeschi e di Bismarck. In una lettura siffat-
ta, derivante sempre da una scelta guidata dal bisogno più inti-
mo, ripongo maggior valore che nell’attenzione che l’insegnan-
te di storia dedica alla letteratura specialistica e alle controver-
sie scientifiche. Egli non potrà mai evidentemente sottrarsi del
tutto a quest'ultime; ma per conservarsi interiormente fresco,
per poter riempire l'insegnamento con fermenti di vita persona-
le, non esiste miglior mezzo della familiarità con i grandi.
L'allievo ben dotato sa distinguere con precisione l'insegnante
colto da quello che è soltanto ben informato. Se nell’insegnan-
te l'impulso ad arricchirsi interiormente con la materia che
tratta, ad acquistare nell’umanità storica la propria umanità,
non diventa visibile attraverso tutto il suo sapere, l’effetto del-
l'insegnamento della storia per il destarsi della personalità futu-
ra dell’allievo può ridursi a niente.
918 FRIEDRICH MEINECRE
Ai fini della formazione della personalità non mi aspetto
nulla da una preparazione intenzionale e sistematica all’insegna-
mento della storia. Ciò significherebbe voler ottenere frutti dal-
l’oggi al domani attraverso un’irradiazione violenta. Si diventa
una personalità mediante la vita, non già mediante la scuola;
attraverso il lavoro su di sé, non attraverso l’influenza da parte
di altri. L'insegnamento può soltanto gettare i primi semi in
un terreno di cui egli stesso non conosce affatto le possibilità
di sviluppo, le capacità e i bisogni. Ma egli dev'essere pieno di
questa intenzione magnanima del seminatore della parabola, e
quando il suo cuore è pieno del valore delle personalità stori-
che, può anche esprimersi in parole. Egli sa bene che nulla
prende l’animo dell’allievo quanto lo spettacolo dei grandi uo-
mini e degli eroi che lottano con se stessi e con la loro epoca.
Il senso storico dell’individuale si avvinghia in generale all’in-
tuizione della loro peculiarità. Nel complesso l’insegnamento
della storia rappresenterà più ciò che vi è di concluso e di
compiuto nelle personalità storiche, e non potrà evitare una
certa stilizzazione. La psiche non ancora sviluppata dell’allievo
richiede anche una tale raffigurazione semplice e monumenta-
le. Ai gradi superiori dell’insegnamento l'insegnante può an-
che osare di fargli gettare uno sguardo sui problemi del diveni-
re, delle antitesi insolute, dello Sturm und Drang: gliene offri-
ranno l’occasione gli anni dello sviluppo di Lutero, di Federico
il Grande, di Bismarck. Ma nel complesso alcune parole signifi-
cative, che il maestro lascia cadere, possono spesso trasportare lo
spirito dell’allievo in uno stato di vibrazione più forte di quan-
to non possa una psicologia portata avanti con minuzia. Ciò
vale in modo particolare anche per la trattazione delle grandi
poesie classiche nell’insegnamento del tedesco e delle lingue
straniere. Esse sono piene di problemi della personalità; ma
tutti sappiamo anche quanto si pecca di pedantesca prolissità
nell’affrontare la materia, e quanto spesso l’allievo non soltan-
to non viene introdotto alle fonti di vita personale che ne scatu-
riscono, ma ne viene distolto con spavento. E non lo si tormen-
ti con componimenti su conflitti psicologici per la cui valutazio-
ne egli dispone soltanto di mezzi primitivil Un'unica parola
accortamente allusiva dell’insegnante, che lo induca a riflettere
in maniera autonoma, lo aiuta qui molto di più della riprodu-
FRIEDRICH MEINECKE 919
zione maldestra di interi processi di pensiero che l’insegnante
cerca di inculcargli. Soprattutto, però, si inciti l’allievo alla
lettura personale e lo si incoraggi a fondare comunità di lettu-
ra con amici e compagni. Questi tentativi costituiscono spesso
il primo moto della personalità dell’allievo, il suo incontro più
peculiare con il mondo storico.
All’insegnante di storia è affidata una professione particola-
rissima, che richiede al tempo stesso piena dedizione e rigoro-
sa sobrietà. Egli sta come nessun altro immediatamente in mez-
zo tra il mondo storico e le personalità del futuro. Spesso si
domanderà, guardando i suoi scolari negli occhi: quale vita
storica avvenire dorme dentro di voi? Soltanto questa doman-
da può suscitare ritegno e rispetto, in modo da non fare violen-
za alle radici di ciò che può dispiegarsi unicamente secondo la
propria legge. Lo stesso timore contenuto si confà anche di
fronte al mondo storico e ai suoi miracoli. Individuum est ineffa-
bile. Soltanto la venerazione e l’amore possono saldare il lega-
me spirituale tra le personalità del passato e quelle del futuro.
RELAZIONI CAUSALI E VALORI NELLA STORIA *
Nell’odierno stadio di sviluppo delle scienze storiche credia-
mo di poter percepire due grandi tendenze che non operano
però isolatamente, ma ognuna delle quali reca con sé, in misu-
ra maggiore o minore, anche elementi dell’altra tendenza. Nes-
suna di queste tendenze può essere perseguita in modo unilate-
rale: per ottenere il suo fine, ognuna ha bisogno dell'altra.
Ciò che per l’una appare come fine, per l’altra costituisce una
via, una guida verso il fine. Una tendenza vuol indagare rela-
zioni causali; l’altra vuol comprendere e rappresentare valori.
Non è possibile una ricerca di relazioni causali nella storia
senza far riferimento ai valori, ma neppure è possibile una
comprensione dei valori senza un'indagine sulla loro origine
causale.
Che cosa sono le relazioni causali? che cosa sono i valori?
Noi ci poniamo, a torto o a ragione, dal punto di vista
dell’osservazione storica immediata, e distinguiamo tre differen-
ti tipi di causalità: quella meccanica, quella biologica e quella
etico-spirituale. La causalità meccanica poggia su un’equivalen-
za completa di causa ed effetto (causa aequat effectum); la
® Kausalititen und Werte in der Geschichte, in «Historische Zeitschrift »,
CXXXVII, 1927-28, pp. 1-27, poi raccolto in Staa und Persònlichkeit, Berlin, E. $.
Mittler und Sohn, 1933, pp. 28-53, c in Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen
Geschichtsschreibune und Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948,
pp. 56-93, infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a
cura di E. Kesscl), Stuttgart, K.F, Kochler Verlag, 1959, pp. 61-89 (traduzione di
Sandro Barbera e Pietro Rossi).
FRIEDRICH MEINECKE 921
causalità biologica lascia apparentemente che l’effetto oltrepas-
si la causa, mediante il pieno dispiegamento dei germi della
vita a esseri viventi forniti di una propria struttura, di una
propria conformità a uno scopo e di una propria legalità; ma
soltanto la causalità etico-spirituale spezza la connessione causa-
le puramente meccanica, rappresentando impulsi spontanei del-
la personalità, diretti a determinati scopi, che non possono esse-
re spiegabili né in termini meccanicistici né in termini biologi-
ci, che influenzano l’agire umano e incidono quindi anche sul-
la connessione causale di tipo meccanico — la quale tuttavia,
d’altra parte, si presenta di nuovo al nostro pensiero come onni-
potente e continua, escludendo ogni frattura. Miracolo su mira-
colo. Infatti, nella sua profondità ultima, ognuno dei tre tipi di
causalità rimane enigmatico. Il nostro pensiero viene così po-
sto di fronte a contraddizioni che non può risolvere o che può
risolvere soltanto in modo illusorio e apparente. Nella vita stori-
ca, ognuno dei tre tipi di causalità si impone, in modo indimo-
strabile, come operante agli occhi del ricercatore impregiudica-
to. Egli ha continuamente a che fare con tutti e tre i tipi di
causalità. Se indaga le cause della povertà e della ricchezza dei
popoli, delle vittorie e delle sconfitte nelle battaglie, egli incon-
trerà e dovrà indagare una serie di cause operanti in modo
puramente meccanico, e comprensibili in quanto tali. La sua
attenzione aumenterà allorché nei fenomeni studiati sembra
compiersi un processo interno di crescita, allorché ai suoi occhi
si manifestano determinate forme e figure di vita della comuni-
tà umana che si dispiegano, si organizzano, fioriscono in pie-
no e poi di nuovo decadono secondo un proprio processo di
crescita. Ogni esistenza umana, ogni fenomeno della vita stori-
ca gli appare, in definitiva, determinato morfologicamente —
ma non soltanto determinato morfologicamente: infatti al di
là di quelle relazioni causali meccaniche, operanti spesso in
maniera accidentale, intervengono anche le azioni spontanee
degli uomini, le quali possono quindi interrompere, stornare,
rafforzare o indebolire l’accadere morfologico, conferendo così
alla vita storica quel carattere intricato e singolare che si fa
beffa di tutti i tentativi di spiegarla secondo leggi prive di
eccezioni. Su di essa si imprimono perciò successivamente tre
diversi sigilli: a ogni lettera, a ogni immagine che uno di essi
922 FRIEDRICH MEINECKE
imprime, si sovrappone quella degli altri. Soltanto il dilettante
crede di poter distinguere tra loro in modo agevole e non sog-
getto a obiezioni questi scritti e queste immagini. Più sempli-
ci e chiare, meno discutibili possono essere le impressioni del
primo sigillo, ossia della causalità meccanica. Ma quando si
tratta di distinguere il secondo e il terzo, è fin troppo facile
incorrere nell’errore di leggerne soltanto uno e di trascurare
l’altro. La più antica concezione della storia, fino all’Illumini-
smo, vide in essa prevalentemente l'impronta di decisioni e
azioni individuali e cercò quindi — in quanto era una trattazio-
ne cosiddetta « pragmatica » della storia — di ordinare razional-
mente la confusione di queste azioni con il filo rosso di scopi
razionali o irrazionali dell'agire. La moderna concezione della
storia, che ha scoperto le relazioni causali e le formazioni so-
vra-individuali della vita storica, poteva nuovamente inclinare
— se applicata in maniera dilettantesca e sbrigativa — a sotto-
valutare l’influenza autonoma dell’individuo e a considerarlo
soltanto come organo di grandi potenze e forze collettive della
vita che si potevano rappresentare come più o meno viventi, co-
me sorte e operanti in modo prevalentemente meccanico oppu-
re prevalentemente organico. Il positivismo inclinava a una con-
cezione piuttosto, anche se non certo esclusivamente, meccani-
ca delle forze collettive; la tendenza più moderna, orientata
invece verso l’elemento organico — che ha raggiunto il suo
culmine con Spengler — presumeva di spiegare tutti i fenome-
ni storici particolari in base alle differenti leggi biologiche di
formazione delle grandi culture. La trattazione scientifica del-
la storia, che procede da Ranke, rinunciava invece a qualsiasi
spiegazione causale univoca e generale, e di conseguenza doveva
sopportare il rimprovero di fare a meno della scientificità vera e
propria; ma così vedeva in modo più fresco e immediato l’in-
treccio delle tre impronte della causalità meccanica, della causa-
lità biologica e della causalità individuale-personale. Anch’essa
non poteva rinunciare al tentativo di distinguerle tra loro e di
mostrare la prevalenza dell’azione ora dell’una ora dell’altra;
ma aveva un timore naturale di opprimere e di risolvere l’una
nell'altra. Nella spiegazione dei singoli fenomeni e nella loro
disposizione i in grandi serie e formazioni essa si lasciò guidare
più da un istinto indefinibile che da un atteggiamento consape-
FRIEDRICH MEINECKE 923
vole, assunto in linea di principio. Essa considerava l’intuizio-
ne artistica e la raffigurazione artistico-intuitiva dell’accadere
non soltanto come un ornamento bello, ma in ogni caso super-
fluo, della sostanza della storia — indagata secondo un procedi-
mento puramente causale — ma come uno strumento di lavo-
ro essenziale e indispensabile di fronte all’intreccio delle tre
impronte — intreccio che si può sciogliere solo in parte, mai
del tutto.
La scienza assume qui dunque come strumento l’arte. Essa
vuol completare la conoscenza con mezzi che si pongono al di
fuori della sfera del conoscere vero e proprio. In altre parole,
essa non rimane pura scienza che vuol spiegare soltanto causal-
mente, ma si trasforma in qualcosa d’altro. Perciò il rimprove-
ro di non-scientificità che il positivismo muove alla scienza sto-
rica condotta nello spirito di Ranke non è, dal punto di vista
formale, del tutto ingiusto. Ma questa non- “scientificità può giu-
stificarsi in base al fatto che proprio la matura delle cose, e in
certa misura la complicata situazione delle fonti storiche nel
suo complesso, spinge verso tale procedimento, che ogni tentati-
vo di padroneggiare il materiale storico con mezzi conoscitivi
esclusivamente causali conduce, se portato avanti con radicale
immodestia, a violentare la materia, a cancellare un’impronta
causale con un’altra, mentre se viene intrapreso con una mode-
stia rispettosa deve ben presto arrestarsi, perplesso, di fronte
alla Ayle della realtà. Soltanto una via non più puramente scien-
tifica, cioè non più puramente causale, ci conduce d’un sol
tratto nelle sue profondità; e anche se non può certo dischiuder-
cela completamente può tuttavia darci, attraverso un’intuizio
ne vivente, un senso partecipante di essa. Alla scienza è più
utile ricorrere a uno strumento sopra-scientifico dove lo stru-
mento scientifico vien meno, anziché applicare questo anche
dove una sua applicazione conduce necessariamente a falsi risul-
tal.
Ma il diritto di applicare strumenti sopra-scientifici nelle
scienze storiche può essere fondato ancora più profondamente
che attraverso la semplice indicazione dell’intreccio, non padro-
neggiabile in altro modo, delle tre impronte causali. Se queste
scienze volessero rimanere pure, cioè scienze che spiegano in
modo esclusivamente causale, sarebbero costrette a considerare
924 FRIEDRICH MEINECKE
come proprio campo di ricerca e a rivolgersi, almeno in linea
di principio, alla totalità dell’accadere umano. È noto che non
lo fanno; esse scelgono invece da questa massa enorme e ster-
minata soltanto una parte assai piccola, quella che si ritiene
essere essenziale, e giustamente ritengono un’oziosa micrologia
occuparsi di processi umani inessenziali. Ma che cosa significa
qui essenziale? soltanto ciò che è casualmente essenziale? sol-
tanto ciò che ha influenzato in modo particolarmente incisivo
e potente i destini degli uomini e dei popoli? A volte lo si
intende così, e si ritiene che soltanto ciò che è diventato partico-
larmente « efficace » meriti l’attenzione dello storico. Ma — di-
ce con ragione Rickert — «l'efficacia non può mai fornire da
sola il criterio di ciò che è storicamente essenziale » ®. Da un
punto di vista puramente causale, le condizioni e i bisogni
della vita di carattere fisico — suolo e sole, fame e amore —
sono i fattori « più efficaci » dell’accadere umano; mentre lo
storico — almeno lo storico non materialista — li considera di
regola soltanto come un ovvio presupposto causale di quei pro-
cessi che propriamente lo interessano, e li ritiene degni di atten-
zione soltanto laddove essi incidono in misura particolare e
non comune.
Dal punto di vista causale sono pure particolarmente « effica-
ci», accanto a questi fattori originari della vita umana, anche
le grandi decisioni nelle lotte di potenza dei popoli e degli
stati, alle quali da sempre — fin dalla storiografia più primiti-
va — è andata l’attenzione degli storici, e perciò anche l’intero
ambito delle istituzioni dello stato e della società, che a ragio-
ne attrae l'interesse comune di tutte le tendenze della moderna
ricerca storica, di quella positivistica come di quella idealistica,
della storia della cultura come della storia politica. Ma se qui
si suole porre in rilievo in quanto «essenziale » ciò che è «ef-
ficace », mettendo da parte come inessenziali altre masse di
processi umani, di regola si combinano due diverse accezioni
del termine « efficace ». Da un lato con esso si intende ciò che
a suo tempo ha esercitato effetti causali sulla vita dell'umanità
— e qui si rimane nell’ambito della pura ricerca di relazioni
a. H. Ricgerr, Kulturiwvissenschaft und Naturwissenschaft, Tubin-
gen, 1899, p. 97.
FRIEDRICH MEINECKE 925
causali. Ma con esso si intende anche ciò che agisce in modo
durevole e che anche oggi opera su di noi che viviamo. E
questa specie di influenza su di noi ha un significato insieme
causale e sovra-causale ®. Ha un significato causale in quanto i
grandi e potenti avvenimenti del passato — per esempio la
fondazione dell'Impero romano — determinano ancora causal-
mente, attraverso mille influenze secondarie, la nostra esisten-
za odierna; ha un significato sovra-causale in quanto la catena
delle relazioni causali non ci interessa da un punto di vista
puramente scientifico, ma perché ne vogliamo trarre un vantag-
gio particolare per la nostra propria vita. Questo vantaggio
può essere soltanto di tipo pratico, tale da renderci atti a incide-
re con maggiore efficacia nella vita attiva, oppure può consiste-
re in una pura contemplazione, libera da scopi pratici immedia-
ti; ma in entrambi i casi si tratta di valori, di valori vitali che
vogliamo ricavare dalla storia; in entrambi i casi essa ci forni-
sce — dovremo ritornarci sopra con maggiore precisione più
avanti — contenuto, insegnamento e guida per la nostra vita.
E questo bisogno è quello che ci spinge in fondo da sempre,
ma in modo particolarmente forte nell'epoca moderna — accan-
to e dietro al puro impulso conoscitivo rivolto alle relazioni
causali — verso la storia. Soltanto a questo punto comprendia-
mo del tutto che la ricerca delle relazioni causali, in quanto
tenta di svelare l'intreccio delle tre impronte — in fondo diret-
a. « Storico — dice Eduard Meyer nella Geschichte des Altertums,
vol. 1-1, 3* ed. 1910, p. 188 — è quel processo del passato la cui efficacia
non si esaurisce nel momento della sua comparsa, ma che agisce ancora
in modo riconoscibile in periodo successivo, producendovi nuovi pro
cessi ». In questo passo decisivo si fa purtroppo riferimento soltanto all’ele-
mento causale, e non all'elemento di valore, nella determinazione con-
cettuale di ciò che è « storico ». Tuttavia un paio di pagine dopo viene
menzionato anche il « valore interno », cioè la maggiore formazione di
una specificità individuale, come criterio di selezione di ciò che è storico.
Si tratta di una discrepanza interna che è caratteristica dello stato del
pensiero che domina la scienza specialistica. Si scorge sì l’intreccio di
causalità e di valore presente nell'interesse storico, ma non lo si affronta
in modo intrinseco soggiacendo così, dove si fornisce la definizione prin-
cipale, a una pura idea di causalità. Per una critica a Meyer si veda
anche H. Ricgert, Probleme der Geschichtsphilosophie, Heidelberg, 3? ed.
1924, P. 59.
926 FRIEDRICH MEINECKE
ta dal più personale impulso vitale — oltrepassa la ricchezza
degli strumenti conoscitivi puramente causali e cerca di avvici-
narsi allo stesso modo dell’artista, con l’intuizione e la raffigura-
zione vivente, ai fenomeni storici. È il suo valore per noi e per
la nostra propria vita che cerchiamo di conquistare per questa
strada.
Il bisogno teoretico di conoscenza causale e il bisogno di
valori vitali si sono sviluppati in modo strettamente, anzi inse-
parabilmente connesso, nell'interesse storico. Forse che il biso-
gno teoretico non è già in sé anche il bisogno di un valore
vitale, del valore di verità? Certamente, ogni scienza deve servi-
re in modo coerente e rigoroso, senza lasciarsi disturbare da
intenti pratici collaterali, alla ricerca della verità, delle vere
relazioni causali. Ma per noi servitori della scienza la nostra
vita non sarebbe una vita completa se non fosse riempita da
questa pura aspirazione alla verità. Per questo motivo noi l’ac-
cresciamo e l’approfondiamo, e la nostra teoria si trasforma in
prassi vivente e in formazione della vita. La tendenza pratica
non può introdursi troppo presto in essa, e influenzare la ricer-
ca di relazioni causali. Prima la via delle relazioni causali de-
V’essere percorsa con sicurezza fino all’ultimo punto raggiungi-
bile, e solamente allora si può, anzi si deve ricorrere a quei
mezzi sovra-causali per soddisfare il bisogno di valori vitali
che opera dal profondo.
Che l’« essenziale » nella storia comprenda però non soltan-
to relazioni causali, ma anche valori vitali, può essere illustra-
to con un esempio ipotetico. Poniamo il caso che si scopra
l'opera di un autore sconosciuto del passato, di grande forza e
profondità spirituale ma rimasta completamente ignota agli stes-
si contemporanei e quindi completamente priva di influenza
causale sul suo tempo: la dichiareremo perciò storicamente ines-
senziale e inefficace? Essa potrebbe agire nel modo più forte
su di roi e comincerebbe quindi ad agire ora causalmente tra
di noi, ma soltanto perché rappresenta per noi un valore vita-
le. Questo è perciò l'elemento primario per il nostro interesse,
e si realizza in noi — né potrebbe avvenire altrimenti — attra-
verso la causalità. Ma il nostro interesse storico non è diretto
qui alla ricerca di questa causalità, bensì alla comprensione e
alla rianimazione di un grande valore spirituale del passato.
FRIEDRICH MEINECKE 927
Questa comprensione deve naturalmente applicare ancora stru-
menti causali e tentare di mediare l’origine storico-temporale
dell’opera in questione; ma la ricerca causale è qui soltanto un
mezzo diretto allo scopo del pieno ripristino di un valore spiri-
tuale.
Un fanatico della causalità potrebbe obiettare che si può e
si deve certo indagare quell’opera rimasta causalmente ineffica-
ce nella sua epoca, ma per il fatto che essa vale come effetto di
relazioni causali, e riporta alla luce forze impulsive di quell’e-
poca finora ignote, le quali soltanto potevano produrre una
tale opera. Ma queste relazioni causali — si risponderà subito
— non ci interesserebbero affatto se qui non fosse appunto
presente un grande valore, che ci avvince di per sé arricchendo
così la nostra vita.
No: sotto ogni ricerca di relazioni causali sta, mediatamen-
te o immediatamente, la ricerca di valori, la ricerca di quella
che si chiama cultura nel senso più alto — irruzioni e manife-
stazioni dello spirituale all’interno della connessione causale della
natura. La terza delle tre impronte del corso storico è quella
che produce questi valori. La piccola selezione di ciò che consi-
deriamo degno di indagine nella sterminata massa dell’accade-
re si compie — come ha mostrato Rickert — in conformità
alla relazione che questo accadere ha avuto con i grandi valori
culturali. Egli ci insegna che lo storico indaga soltanto fatti in
relazione a valori; e aggiunge che lo storico deve soltanto inda-
garli e rappresentarli, non già valutarli, se vuol rimanere entro
i limiti della sua scienza. La seconda tesi scaturisce dalla preoc-
cupazione per la conservazione del carattere scientifico della
ricerca storica, dalla preoccupazione verso la penetrazione di
tendenze soggettive. Ma è possibile rispettare tale prescrizio-
ne? Essa è irrealizzabile *. Già soltanto la selezione di fatti in
a. H. Ricgerr (Probleme der Geschichtsphilosophie cit., p. 67) am-
mette sì l’« inseparabilità psicologica del valutare dalla designazione
di valore », ma vuol separare il valutare dall’essenza /ogica della storia.
Ora, ciò che è psicologicamente inseparabile dall’attività dello storico
dev'essere riconosciuto anche dal logico — per quanto egli possa sepa-
rarlo con i suoi strumenti — come psichicamente connesso con tale
attività in modo essenziale. E il valutare non è una funzione accessoria
superflua nell'attività dello storico. Io concedo a Rickert che «lo storico
928 FRIEDRICH MEINECKE
riferimento a valori non è possibile senza una valutazione. Lo
sarebbe solamente se i valori a cui i fatti si riferiscono consistes-
sero — come ritiene Rickert — in categorie tanto generali
quanto lo sono la religione, lo stato, il diritto. Ma lo storico
non sceglie il suo materiale soltanto secondo queste categorie
generali, ma anche in base all'interesse vivente per il loro conte-
nuto concreto. Egli lo concepisce come più o meno fornito di
valore, cioè lo valuta. La rappresentazione e l'illustrazione di
fatti culturalmente importanti non è affatto possibile senza la
più viva sensibilità per i valori che in essi si manifestano. Per
può astenersi da ogni giudizio valutativo sui suoi oggetti », ma una
siffatta storiografia, libera da valutazioni, o è soltanto raccolta di mate-
riale e lavoro preparatorio per la vera e propria storiografia oppure, se
ha la pretesa di essere storiografia, appare del tutto insulsa — a meno
che il temperamento dell'autore non la colori e la renda viva di nuovo
con valutazioni non arbitrarie, come avviene per esempio nelle stra-
ordinarie ricerche ed esposizioni storiche di Max Weber. — Anche Hein-
rich Maier (Das geschichiliche Erkennen, Gòttingen, 1914, p. 34) ritiene,
pur discostandosi fortemente da Rickert, che « cadere in giudizi di valore
non è affare della storia »; ma spiega contemporaneamente che vietare
giudizi di valore allo storico pieno di temperamento è soltanto noiosa
pedanteria. Egli distingue cioè tra una posizione propriamente storica, la
quale esclude i giudizi di valore, e un'altra posizione di fronte alla
storia, anch'essa legittima, di carattere etico-estetica e quindi valutativa.
Deve lo storico assolvere contemporaneamente entrambi i compiti nello
spazio della stessa opera, anche se il primo — il compito propriamente
storico — esclude il secondo? Ciò è impossibile e ibrido, una specie di
doppia morale professionale che rompe l’intima connessione psichica pre-
sente nell'attività dello storico. Una logica della storia che voglia raggiun-
gere il suo fine deve partire da questa, deve analizzare lo storico reale,
vivente, non lo storico costruito logicamene — ed egli di regola si com-
porta, anche se non lo vuole, in maniera valutativa. Chi sta dentro la
prassi ininterrotta della storiografia percepisce questo elemento in modo
completamente differente dal filosofo — G. von Below (Die deutsche
Geschichtschreibung von den Befreiungskriegen bis zu unseren Tagen:
Geschichtschreibung und Geschichtsauffassung, Miinchen und Berlin,
2 ed. 1924, p. 116) scrive: « una connessione di fatti non può essere
effettuata senza giudizi di valore ». Quest'affermazione si spinge forse
troppo in là. Certe connessioni causali di tipo semplice possono essere
effettuate anche senza giudizi di valore; quelle di tipo più complesso —
per esempio la constatazione delle cause della Riforma, della Rivoluzione
francese e, ora, del crollo del 1918 — vengono sempre determinate insieme
da giudizi di valore.
FRIEDRICH MEINECKE 929
quanto lo storico possa, almeno formalmente, anche sospende-
re il proprio giudizio di valore su di essi, questo è tuttavia
presente tra le righe, e in quanto tale influenza il lettore.
Sovente esso agisce quindi — particolarmente in Ranke — in
modo più profondo e incisivo di quanto non accadrebbe se
fosse rivestito della forma di una censura immediata, ed è per-
ciò da raccomandare come espediente. Il giudizio di valore sol-
tanto implicito dello storico stimola l’attività valutativa pro-
pria del lettore in maniera più forte di quello apertamente
dispiegato. Nella misura in cui si presentano in apparenza sol-
tanto relazioni causali, tanto più immediatamente e creativa-
mente lampeggia in esse l'elemento di valore, la manifestazio-
ne di una potenza spirituale all’interno della connessione causa-
le. Ma spesso il giudizio diretto di valore non dev'essere evita-
to, per recare a piena chiarezza il valore di ciò che è accaduto.
Avviene qui come in quelle forme di culto divino in cui il
silenzio sacro e la parola del sacerdote si alternano nella venera-
zione del divino. E la ricerca storica è precisamente culto del
divino, preso nel senso più ampio. Si vuole vedere confermato
nel mondo, attraverso la sua rivelazione, ciò che si percepisce
per sé come fine spirituale della vita. Si vuol diventare consape-
voli della forza e della continuità della corrente spirituale del-
la vita, che per l'individuo sfocia sempre in lui stesso; si vuol
trovare la via per cui l'uomo è venuto, per indovinare quella
che percorrerà. Si vuol venerare le potenze che consentono di
innalzare la nostra esistenza dal vincolo naturale alla libertà
dell’elemento spirituale. In qualsiasi modo si rappresenti la divi-
nità, si vuol cercarla nella storia.
Anche il ricercatore che fa valere soltanto la connessione
causale spogliata del carattere divino, e che nella storia cerca
quindi soltanto relazioni causali, è spinto — come abbiamo
chiarito — dal bisogno di un valore superiore e comprensivo,
anche se si tratta soltanto del valore della verità in sé. Certa-
mente anche lo scienziato naturale è spinto dal valore della
verità, e può tuttavia lavorare libero da tutti gli altri valori.
Ma delle tre funzioni del «distinguere, scegliere e giudica-
re »', che costituiscono il compito specifico dell’umanità, egli
1. Allusione a una coppia di versi di Goetne, Das Gòtiliche, vv. 39-40.
59. STORICISMO TEDESCO.
930 FRIEDRICH MEINECKE
deve esercitare nel suo ambito di lavoro soltanto quella del
distinguere. Lo studioso della cultura deve invece esercitarle
tutte e tre, perché i processi che indaga scaturiscono dalla natu-
ra umana nel suo complesso, si sono costituiti in virtù di un
« distinguere, scegliere e giudicare » e sono comprensibili soltan-
to attraverso le medesime operazioni. Se lo scienziato naturale
può lavorare libero da valori, lo studioso della cultura deve
lavorare vincolato ai valori, anche quando vuol trattarla secon-
do il metodo dello scienziato naturale — e perfino al semplice
raccoglitore di materiale ciò viene risparmiato di rado.
Diventa ora chiaro che nella storiografia possono esserci
due tendenze principali: la prima è attratta dalle relazioni
causali, anche se non può mai spogliarsi dei valori e quasi mai
dei propri valori; la seconda si sente attratta dai valori, pur
senza potersi sottrarre alle relazioni causali. Ognuna di esse
presenta dunque una duplice polarità, e in entrambe sono possi-
bili e presenti sfumature e transizioni, mescolanze diverse dei
due elementi. La distinzione delle due tendenze è risultata più
chiara soltanto quando la storia cominciò a venir esercitata se-
condo metodi rigorosamente scientifici, e si approfondirono le
questioni riguardanti l’essenza della storia e i compiti dello
storiografo. La più antica storiografia politica mescolava, nar-
rando gli eventi in forma epica, valori ingenuamente sentiti e
relazioni causali®. La storia illuministica voleva porre in luce i
a, Il punto di vista valutativo come criterio di selezione del materiale
storico fa la sua comparsa in modo significativo in Machiavelli. Nella pre-
fazione alle /storie fiorentine egli biasima i suoi predecessori Leonardo
Bruni? e Poggio Bracciolini* per aver narrato soltanto la storia esterna,
e non la storia interna, della città di Firenze, con tutte le sue lotte
movimentate: « Né considerarono come le azioni che hanno in sé gran-
dezza, come hanno quelle de’ governi e degli stati, comunche elle si
trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più
onore che biasimo ».
2. Leonardo Bruni (1370-1444), uomo politico c umanista italiano, fu dal 1417
fino alla morte cancelliere della Repubblica fiorentina; traduttore di Platone c di Ari-
stotele, autore degli Episcolarum libri VIII, del De studtis et litteris e del trattato di
ctica Isagogicon moralis disciplinae, nonché di duc importanti opere storiche, gli
Historiarum florentini populi libri XII e il Commentarius rerum suo tempore gestarum.
3. Poggio Bracciolini (1380-1459), uomo politico e umanista italiano, fu dap-
prima segretario apostolico e in seguito, dal 1453 al 1458, cancelliere della Repubblica
FRIEDRICH MEINECKE 931
valori della cultura progressiva dell'Illuminismo come l’unico
oggetto veramente degno della storiografia, ma non fu in gra-
do di penetrare con essi lo spessore dell’accadere politico —
che pure non osò mettere da parte — e in tal modo accostò i
due elementi in maniera disorganica. La storia politica di ten-
denza voleva e vuole proprio porre in luce dei valori, cioè i valo-
ri dei suoi ideali politici, ma dev'essere completamente esclusa
dalla nostra considerazione perché il concetto di valore storico,
nel senso in cui lo intendiamo, non abbraccia soltanto i nostri
propri ideali politici o apolitici, ma ogni forte manifestazione
di vita propriamente spirituale, e quindi anche gli ideali dell’av-
versario. Wilhelm von Humboldt è stato forse il primo a richie-
dere una storiografia del genere, rivolta a tutti i valori spiritua-
li dell'umanità — questo sono infatti le sue /deen — e fondata
sull’indagine di tutte le relazioni causali conoscibili. Ranke ha
realizzato questa storiografia riunendo tra loro organicamente,
in maniera ideale, la ricerca delle relazioni causali e la rappre-
sentazione dei valori, in ultima analisi cercando quindi Dio
nella storia; cosicché lo si può far rientrare in quella tendenza
che, nel suo fondamento ultimo e decisivo, si lascia attrarre
dai valori. Il positivismo del tardo Ottocento scatenò la controf-
fensiva e pretese una trattazione avalutativa e puramente causa-
le della storia: esso riuscì soltanto sporadicamente a farla pene-
trare in pieno nel lavoro della storiografia scientifica, tuttavia
rafforzò in essa la tendenza a porre in primo piano la ricerca
delle relazioni causali. Ne conseguì una ricerca sterminata e
specializzata del particolare, che è in auge ancor oggi. Nei
fatti indagati causalmente lampeggiavano sì nuovi valori scono-
sciuti del passato, ma la loro indagine fu eccessivamente mecca-
nizzata dall’inevitabile divisione del lavoro, e la loro massa
diventò troppo grande per poter essere padroneggiata e gusta-
ta spiritualmente. Ne derivò quindi — e ne deriva ancor oggi
— un contraccolpo che spinge a più forti e appassionate sensa-
zioni di valore, la tendenza alla raccolta e al vaglio dei valori,
al rifiuto dei valori minori, all’accentuazione (e anche alla so-
fiorentina; infaticabile scopritore di codici, autore di scritti filosofici come il De gva-
ritia (1428-1429), il De varietate fortunae (1431-1448), i! De nobilitate (1440), il De
infelicitate principum (1440), il De miseria humanae conditionis (1455), redasse gli
Historiarum florentini populi libri VII.
932 FRIEDRICH MEINECKE
pravvalutazione) dei valori culturalmente superiori. Ciò consente,
in linea di principio, la fondazione mediante una solida indagine
di relazioni causali, ma qua e là, nella prassi degli storici più
giovani, si comincia a trascurarla in modo preoccupante. La
sintesi è la parola d’ordine con cui dall’angusto lavoro dell’inda-
gine causale si aspira ai grandi valori dominanti della vita e
del passato. Si mettono in moto sensazioni soggettivistiche e
mistiche le quali premono, senza la strada faticosa della ricer-
ca del particolare, verso la riunificazione immediata con l’ani-
ma del passato. Si vuol trarre da essa — come ci si esprime
volentieri — soltanto l’« eterno» e l’« atemporale », lasciando-
ne cadere i presupposti storico-temporali. Si costruisce senza
molta induzione, in base ad alcune vestigia impressionanti del-
la tradizione e con l’aggiunta esorbitante dei propri ideali, e
poi si abbraccia l’immagine fantastica che ci si è creati da sé.
Quest’aspirazione agli alti e supremi valori culturali contrasse-
gna in modo peculiare la scuola dei cosiddetti « georgiani »,
cioè i seguaci di Stefan George* — anche perché essa si pone
pretese rigorose, rimanendo nelle sue opere migliori intatta da-
gli errori di un modo di lavoro negligente e attingendo varie
volte un'alta perfezione formale, ma con una tendenza all’ecces-
siva raffinatezza e all’assottigliamento dell’atmosfera spiritua-
le, in cui si dissolvono le rozze relazioni causali terrene.
Il lavoro di ricerca della corporazione vera e propria degli
storici è ancora relativamente poco toccata da queste tendenze,
ma chi conosce i bisogni della giovane generazione sa che qui
spesso si agita, in modo prepotente, qualcosa di esse. È la
costellazione spirituale complessiva della nostra epoca che ha
prodotto queste tendenze — la reazione di ciò che si può chia-
mare anima contro la minacciosa meccanizzazione civilizzatri-
ce della vita e contro gli sterminati poteri delle masse, che si
sono manifestati nella guerra mondiale e durante il crollo. Es-
si si gonfieranno presumibilmente in misura ancora più forte,
diventando un fattore importante nel futuro delle scienze stori-
4. Stefan George (1863-1933), pocta lirico tedesco, autore di numerosi volumi di
versi come gli Hymnen (1890), Algabal (1892), Das Jahr der Scele (1897), Der Teppichk
des Lebens und die Lieder von Traum und Tod (1899), Der siebente Ring (1907), Stern
des Bundes (1913), Das neue Reich (1928), raccolse intorno a sé un cenacolo letterario
che prese il nome di George-Kreis e in seguito di George-Bund.
FRIEDRICH MEINECKE 933
che. E dato che anche i miei tentativi si muovono in questa
direzione, posso ben parlarne in base alla mia propria esperien-
za, poiché avverto personalmente la loro grande necessità inter-
na al pari dei loro pericoli. Da un lato calcificazione corporati-
va, dall’altra imbarbarimento soggettivistico, sono i due scogli
su cui potrebbe frantumarsi la nostra scienza nel corso della
prossima generazione. La bussola può essere sempre e soltanto
questa: nessuna causalità senza valori, nessun valore senza rela-
zioni causali. Senza una robusta fame di valori l’indagine del-
le relazioni causali si trasforma, anche se condotta con tecnica
virtuosistica, in mestiere triviale. Senza il piacere immediato
della realtà concreta e delle sue connessioni causali, rozze o
raffinate, la rappresentazione di valori ideali perde il suo terre-
no naturale, diventando vuota e arbitraria. L'equilibrio tra le
due tendenze non si realizzerà — stando così le cose — in
modo ideale com'era possibile in Ranke, perché la problematici-
tà della situazione moderna e del pensiero moderno ha distrut-
to le armonie in cui egli viveva interiormente ed esteriormen-
te. Oggi sembra che solamente una certa unilateralità possa
proteggere l’uomo spirituale dallo sconcertante predominio del-
l'ambiente. Ma l’aspirazione all’armonia deve restare operante
e potrebbe estinguersi soltanto con la decadenza o il crollo
completo della nostra cultura.
II
Quando Rickert ha aperto il cammino con la sua teoria dei
valori culturali e ha collocato questo concetto al centro della
dottrina della storia, Alfred Dove ha parlato con diffidenza e
sospetto della sua « anguillesca elusività » ®. Un diretto scolaro
di Ranke qual egli era, abituato a porre l'intuizione al di
sopra della comprensione concettuale, e che per giunta viveva
e si muoveva familiarmente tra i valori culturali, non aveva
bisogno di un nome per ciò che già recava in sé. Ma il pensie-
ro concettuale segue da vicino il pensiero intuitivo e non può
a. A. Dove, Ausgewàhlte Aufsitze und Briefe (a cura di F. Meinecke
ce O. Damman), Miinchen, 1925, vol. II, p. 279.
934 FRIEDRICH MEINECRE
rinunciare al tentativo di delimitare in modo più preciso ciò
che ci stava dapprima davanti agli occhi soltanto in modo intui-
tivo e vivente. Se — come in questo caso — di chi pensa
piuttosto in modo intuitivo si deve dire che non raggiunge il
suo scopo e che rende non già più chiaro, ma più confuso
l'oggetto di cui si tratta, ci si può sì scusare della povertà
dello strumento linguistico che costringe anzitutto all’uso di
una parola equivoca, ma si deve anche tentare di sanare l’indi-
stinzione del nuovo concetto con più precise determinazioni
particolari. Tentiamone alcune. Come spesso avviene, una nuo-
va parola d'ordine, nata dalla vita e all’inizio assai cangiante,
non sviluppa una fecondità inaspettata, in quanto induce piutto-
sto a unificare in connessioni determinate i fenomeni particola-
ri che erano dispersi. Chiarimento e delimitazione, nella misu-
ra in cui sono possibili, seguono sempre soltanto gradualmen-
te. Umanità, umanesimo, nazionalità, nazionalismo, storici-
smo, individualismo e così via non sono che parole d’ordine e
concetti familiari, equivoci e sfuggenti ma tuttavia fecondi, in-
dispensabili, che si chiariscono e si approfondiscono a poco a
poco, anche se mai in modo definitivo, attraverso l’uso.
Determinare l’essenza dei valori è l'impegno scottante della
filosofia moderna. Lo storico tenterà di imparare da essa, ma
non per questo può e deve rinunciare a formare in base alle
sue esperienze più proprie la sua immagine dell’essenza dei
valori, che dal punto di vista del filosofo apparirà molto som-
maria, equivoca e perciò lacunosa, ma che proprio perché crea-
ta dalla prassi della ricerca storica possiede forse una maggiore
sicurezza di istinto rispetto a quella che nasce da sforzi di
carattere più logico-astratto.
Con Troeltsch noi distinguiamo i valori inferiori della vita,
puramente animali — che lo storico può prendere in considera-
zione soltanto sotto forma di relazioni causali — dai valori
superiori della vita, dai valori spirituali o culturali * che costitui-
a. Non posso condividere picnamente le distinzioni di H. Rickert (Le-
bensiwerte und Kulturwerte, « Logos », II, 1911-12, pp. 131-66, e Philoso-
phie des Lebens, Tiibingen, 1920, p. 156 sgg.), secondo cui non esistereb-
bero in fondo valori che siano soltanto valori vitali, e i valori culturali
sarebbero più o meno distanti o anche opposti alla vita — per quanto
FRIEDRICH MEINECRE 935
scono la sfera d'interesse propria dello storico, e la cui compren-
sione è il suo fine supremo. Con il termine «spirito» non
intendiamo semplicemente l’elemento psichico bensì — secon-
do il significato antico — la vita psichica altamente sviluppata,
ossia appunto ciò che « distingue, sceglie e giudica », producen-
do in tal modo cultura. La cultura è pertanto rivelazione e
irruzione di un elemento spirituale all’interno dell’universale
connessione causale. Tra la vita culturale e la vita naturale
dell’uomo sta un campo intermedio che partecipa di entrambe,
che designiamo con il termine (oggi sempre più impiegato in
questo senso) di civiltà e che distinguiamo dalla cultura superio-
re, spirituale in senso pieno — mentre un uso linguistico più
vago, ma anche molto più diffuso, confonde tra loro i due
concetti *. La civiltà si innalza al di sopra della mera natura,
la quale viene trasformata dall’intelletto spinto dalla volontà
vitale e rivolto all’utile. In essa rientra anzitutto l’intero ambi-
to delle scoperte tecniche. Come scoperte, come realizzazioni
di una mente spiritualmente produttiva e originale, sono an-
che opere di cultura. Ma esse possono venir spiegate anche
biologicamente, in base a ciò che si chiama « adattamento ».
L’atto stesso delle scoperte ha quindi un aspetto biologico e un
aspetto culturale. Una volta compiute, applicate ed estese, esse
minacciano, se non le sorregge una vita spirituale autonoma,
di sprofondare di nuovo nell’elemento meramente naturale —
e infatti una tecnica applicata si trova anche presso gli anima-
li. Ho cercato di illustrare questo campo intermedio dell’utilita-
rio con un esempio, quello della ragion di stato. Lo storico
dovrà avere continuamente a che fare con esso, non soltanto
perché la parte di gran lunga maggiore delle relazioni causali
mi senta vicino, anche nel contenuto, alla sua concezione dell'essenza
della cultura. In fondo, qui ci separa più la terminologia che non una
differenza sostanziale.
a. Si dovrebbe una buona volta indagare l'origine e la storia delle
distinzione tra cultura e civiltà. A quanto mi risulta, essa è stata espressa
per la prima volta da Kant nella sua /dee 2u ciner allgemeinen Geschichte
in weltbitrgerlicher Absicht. Nella settima tesi si legge: « L'idea di mo-
ralità rientra ancora nella cultura; ma l’uso di questa idea, che riguarda
soltanto ciò che è conforme al costume nell'amore dell'onore e nella cor-
rettezza esteriore, costituisce semplicemente la civiltà ».
936 FRIEDRICH MEINECKE
che deve indagare appartiene a questo ambito, ma anche per-
ché i processi in esso presenti possono diventare, in virtù di un
incremento spesso non percettibile, opere di cultura. Se ciò che
è soltanto utile deve diventare bello e buono, l’anima deve
vibrare — non abbiamo davvero altro termine; altrimenti esso
rimane appunto prestazione intellettuale senz'anima e senza spi-
rito, mera civiltà e non cultura. La cultura compare soltanto
dove l’uomo intraprende la lotta con la natura impegnandovi
tutta la sua interiorità, non soltanto la volontà e l’intellet-
to, dove agisce valutando nel senso più alto, ossia dove crea o
cerca qualcosa di buono o di bello in quanto tale, oppure cerca
il vero in quanto tale*. Tutto quanto l’uomo compie valutan-
do in tal senso, è fornito di valore anche per lo storico”, e gli
offre conferma della continuità e fecondità dell’elemento spiri-
tuale nella storia, gli indica la via che il suo dispiegarsi ha
preso fino a lui. Ma per poterlo comprendere completamente,
lo storico deve — come abbiamo detto — indagare l’intero
campo in cui si radicano processi causali che in gran parte non
hanno nulla a che fare con la cultura. All’interno della sua
rappresentazione — se questa procede onestamente — ciò che
è legato ai valori e fornito di valore risplenderà quindi soltan-
to qua e là, al pari che nella vita, come una gemma rara tra
ciò che cresce.
Ma quanto sono rari in confronto alla massa di processi
umani in generale, altrettanto incomparabilmente numerosi so-
no all’interno della storia queste realizzazioni e questi valori
a. Pongo qui a fondamento l'antica tripartizione dei beni ideali, anche
se essa non esaurisce il loro ambito e il loro contenuto. Ma essa può venir
utilizzata a scopo di abbreviazione.
b. Identifico quindi realizzazione culturale e valore culturale. I valori
culturali non soltanto « aderiscono » — come ritiene Rickert — alle realtà
storiche senza essere essi stessi realtà, ma costituiscono un fattore inte-
grante delle realtà storiche, poiché queste possono venire alla luce soltanto
in virtù della cooperazione della causalità etico-spirituale, realizzatrice di
valori, con la causalità meccanica e biologica. Si veda anche la critica che
E. TroeLTscH ha rivolto (in Der Historismus und seine Probleme, Tibin-
gen, 1922, p. 153) alla dottrina rickertiana della mera «aderenza » dei
valori culturali ai fenomeni storici reali. La questione se al di là della
realtà storica esista un sistema di valori oggettivi, è un problema metafi-
sico che lo storico deve lasciare al filosofo.
FRIEDRICH MEINECKE 937
culturali. Ogni anima umana individuale è infatti in grado di
produrre valori culturali — si tratti anche soltanto dei valori
del semplice adempimento del dovere a causa del bene. Secon-
do quali princìpi si compie qui la selezione dello storico? Anzi-
tutto, certamente, secondo il principio dell’efficacia causale.
Tutte le realizzazioni culturali che hanno influenzato con mag-
gior forza e permanenza la conservazione e l'ulteriore svilup-
po della cultura sono degne d’indagine e di rappresentazione.
Il confine tra ciò che è importante e ciò che non è importante
risulta quindi fluido, e dipende dalla sensibilità e dalla posizio-
ne dello storico. Dipende dalla posizione perché, a seconda che
si riferisca a formazioni storiche più limitate o più comprensi-
ve, egli deve vagliare in modo diverso il materiale dei fatti:
ad esempio, per l’esposizione della storia di una città assumerà
come importanti fatti che su un piano superiore, come in una
storia nazionale, devono essere senz’altro ritenuti non importan-
ti*. Altrettanto fluida e dipendente dalla sensibilità è l’applica-
zione del secondo criterio di selezione delle realizzazioni cultu-
rali, del quale abbiamo già parlato prima in un altro contesto:
quello del valore culturale proprio dei fenomeni storici. Mai e
poi mai le grandi realizzazioni culturali e le manifestazioni di
un elemento spirituale possono essere valutate esclusivamente
in base al grado della loro influenza causale sul progresso del-
la cultura. Esse poggiano — del tutto indipendentemente dal
fatto che abbiano influito o no sulla loro epoca — anche su se
stesse, e sono di per sé degne di indagine, di rappresentazione
e di venerazione. Di esse vale ciò che il poeta dice dell’antica
lampada, che non ha più nessuna utilità ma che lo incanta:
« ma ciò che è bello, sembra felice in se stesso » 5. Questo è il
punto che le abituali intuizioni degli storici su ciò che è degno
di indagine non sono ancora giunte a decidere. Ho spesso di-
scusso con Troeltsch in merito alla « sopravvalutazione delle re-
a. Heinrich Mater ha richiamato l'attenzione, in modo molto istruttivo,
su questa specie di procedimento cartografico: si veda Das geschichiliche
Erkennen cit., p. 33.
s. Eduard Mòrire, nella lirica Auf cine Lampe, in Werke in drei Binden,
Miinchen, 1951, vol. I, p. 82, v. 10.
938 FRIEDRICH MEINECRE
lazioni causali » che ancor oggi domina la scelta del materia-
le*
Si sopravvalutano le relazioni causali particolarmente quan-
do si disconosce il momento individuale dell’origine dei valori
culturali e si trascurano quindi quelle relazioni causali che sca-
turiscono dalla spontaneità dell’agire etico-spirituale personale
e che non sono perciò così facili da inserire nella connessione
causale come le relazioni causali di natura meccanica e biologi-
ca. I valori culturali nascono sempre soltanto dall’irruzione di
una forza spirituale specifica entro le serie causali meccanica-
mente o biologicamente determinate. Ogni elemento spiritua-
le, ogni valore culturale è specifico, individuale, insostituibile
da altri. Chi gusta l’individuale in esso presente proverà anche
subito il senso del suo valore e lo apprezzerà quindi non soltan-
to come un elemento importante della catena causale, ma an-
che di per se stesso. Certamente c’è pure un’individualità indif-
ferente e libera da valori — ogni oggetto ne ha una. Individua-
lità storiche sono però soltanto quei fenomeni che hanno in sé
qualche tendenza al bene, al bello o al vero, e che perciò diven-
tano per noi fornite di significato e di valore. Esse lo diventa-
no tanto più quanto più fortemente questa tendenza si aggiun-
ge, nobilitandola, alla mera tendenza all'affermazione della vi-
ta e all’auto-affermazione delle formazioni umane.
La comprensione più profonda dell’individualità, sia della
personalità singola sia delle formazioni umane sovra-personali,
fu la grande acquisizione realizzata in Germania dall’ideali-
smo e dal Romanticismo, e che creò lo storicismo moderno.
Soltanto in virtù di questa comprensione anche l’idea di svilup-
a. Tale era anche il pensiero di Alfred Dove. Alludo alla sua bella
lettera a Rickert del 2 gennaio 1899 (in Ausgewahlte Aufsitze und Briefe
cit., vol. II, p. 208). Lo storico — in essa si dice — dedica alla vita passata
«un interesse- che è del tutto indipendente dalla questione relativa alla
misura in cui ha preparato la nostra vita presente. E perché vuol far
questo? La relazione che essa ha con noi è presente anche senza una causa-
lità del genere: se appena la vita passata che si prende in considerazione
è in sé significativa, essa desta il nostro sentimento di partecipazione,
in quanto fornita di valore dal punto di vista umano in generale. Noi non
ci poniamo in relazione con il passato in modo meramente causale, anzi
saltiamo l’intero spazio causale intermedio in virtù della semplice sim-
patia ».
FRIEDRICH MEINECKE 939
po — che a torto viene spesso considerata criterio principale
dello storicismo moderno, ma che è troppo versatile ed equivo-
ca per poterlo essere — trovò il suo retto cammino *. Lo svilup-
po del feto umano è uno sviluppo biologico, non uno sviluppo
storico. Uno sviluppo storico ha luogo soltanto dove compare
il fattore spontaneo dell’uomo che agisce in base a valori e che
produce quindi qualcosa di specifico e di singolare. Perciò l’in-
dividualità storica si « sviluppa» e ciò che si sviluppa storica-
mente sono sempre soltanto individualità, le quali si manifesta-
no nello sviluppo *. Anche la storia universale intesa per esem-
pio nel senso rankiano — che possiamo ancor sempre difende-
re, con alcune correzioni e riserve — è soltanto un'unica gran-
de individualità, piena di innumerevoli individualità grandi e
piccole. Tutti i valori culturali di questa storia sono al tempo
stesso individualità storiche, fino all’individualità suprema del-
la storia universale, e quindi pienamente comprensibili sempre
soltanto in connessioni storico-universali.
Tutto nella vita lotta per avere forma e figura, e viene
sospinto da leggi di formazione. Questa conoscenza morfologi-
ca — che per quanto riguarda la storia è stata sostenuta nel
modo estremo e più unilaterale da Spengler — domina sempre
più il pensiero moderno. Storicamente fornite di valore diventa-
no però soltanto quelle forme e figure della vita umana che
a. H. Ricgert ha potuto distinguere ben sette diversi tipi di sviluppo!
Cfr. Die Grenzen der naturwissenschlichen Begriffsbildung, Tùbingen,
1896-1902, cap. V, $ 5. — Contro la sopravvalutazione dell'idea di sviluppo
si rivolge anche la lettera sopra citata di Alfred Dove a Rickert, ma con
una motivazione che non posso condividere. Egli scrive: « dall’indivi-
duale all’individuale non c'è sviluppo ». Qui si dimentica che ogni indi-
vidualità è inserita in un’individualità di grado superiore, e che lo sviluppo
che ha luogo entro questa individualità superiore collega tra di loro, con
filo spirituale, anche le individualità più concrete che si sviluppano sepa-
ratamente le une dalla altre. Così esiste di fatto, per esempio, uno sviluppo
dall’individuo Lutero all'individuo Kant, ossia lo sviluppo che si è compiu-
to nel mondo dello spirito tedesco-protestante. In merito al modo di
vedere la storia proprio di Dove, si vedano le mie osservazioni nella
« Historische Zeitschrift », CXVI, 1916, p. 83.
b. « Gli sviluppi storici non sono altro che individualità storiche con-
cepite nel loro divenire e nel loro crescere » (H. Ricxert, Probleme der
Geschichtsphilosophie cit., p. 47).
940 FRIEDRICH MEINECKE
servono non soltanto alla sua necessità vitale, ma anche a un
qualsiasi ideale e a valori etico-spirituali. Non appena dalla
forma traspare qualcosa di individuale-spirituale, essa desta l’in-
teresse dello storico; altrimenti rimane circoscritta alla sfera
biologica della semplice affermazione della vita, e lo storico
può considerarla soltanto da un punto di vista causale, per
spiegare altri valori e non come valore in sé.
Però, almeno per l’occhio umano, la sfera biologica e la
sfera dei valori etico-spirituali non sono tra loro separate chiara-
mente e univocamente, ma spesso si sovrappongono in modo
impercettibile. È quanto abbiamo mostrato — mi riferisco di
nuovo al mio libro sulla Idee der Staatsrison — a proposito
del campo intermedio dell’utilitario. Questa impossibilità di de-
terminare confini netti tra le due sfere è propriamente ciò che
ha prodotto tutte le differenze presenti nel moderno pensiero
relativo alle scienze dello spirito. Ognuno può infatti interpreta-
re e tracciare in modo diverso questi confini, riconoscerli o
non riconoscerli. Questa è la questione più tormentosa che per-
seguita lo storico. Troppo spesso egli deve lottare con l’incertez-
Za se questo o quell’elemento che egli indaga debba essere spie-
gato in base alla mera necessità vitale e naturale, oppure facen-
do anche ricorso a fattori etico-spirituali, a fattori di valore.
Le necessità vitali e naturali, le relazioni causali di tipo biologi-
co, attraversano da capo a piedi anche colui che agisce in base
a valori e lo minacciano di intorbidare i valori, di far passare
valori apparenti per valori autentici. La cosa più inquietante è
che spesso un vincolo causale strettissimo unisce tra loro le due
sfere, che spesso valori culturali grandi e benefici hanno un’ori-
gine comune e sporca, vengono su faticosamente dalla notte e
dalla profondità — cosicché sembra, in certo senso, che Dio
abbia bisogno del diavolo per realizzarsi. Se poi si è d'accordo
nel credere — di nuovo nel senso goethiano — all’unità della
natura-dio, una luce più confortante cade anche su queste con-
nessioni. Dove i processi naturali della vita umana non entra-
no in contraddizione con i precetti dell'etica, e quindi non
diventano peccato, essi possono apparire come lo sfondo natura-
le indispensabile, gentilmente alimentante, per la produzione
delle più splendide fioriture. Anche Goethe ha ben sfogato la
FRIEDRICH MEINECKE 94I
sua sensibilità nella sua arte così elevata — poco importa se ciò
sia avvenuto con o senza peccato.
È caratteristico il fatto che proprio in tale questione anche
la ricerca storica che è abitualmente più rivolta alle relazioni
causali dimentichi la causalità operante sui valori, cioè ignori
o nasconda le grandi acquisizioni della cultura rispetto alla
sua origine spesso spaventosa e disgustosa. Soltanto pochi stori-
ci hanno l’acuta sensibilità posseduta da Burckhardt quando
scoprì i presupposti politici e sociali della cultura del Rinasci-
mento in tutto il loro orrore, rimanendo egli stesso turbato da
questa connessione demoniaca. Soltanto allora si cominciano a
registrare con una certa equanimità i successi della politica di
potenza che hanno trasformato e rifecondato la vita culturale,
e a considerarne i presupposti e gli effetti collaterali più machia-
vellici come una conditio sine qua non. E in apparenza essi lo
sono anche — ma con ciò va perduto il sentimento della tragici-
tà della storia.
La cultura che si fonda sulla spontaneità, sulla causalità la
quale produce valori etico-spirituali ed è quindi di nuovo stret-
tamente connessa alle relazioni causali di tipo biologico e mec-
canico — questo è l’enigma che lo storico non può risolvere.
Cultura e natura — possiamo anche dire Dio e natura — costi-
tuiscono sì un’unità, ma un’unità scissa in sé. Dio si solleva al
di sopra della natura con lamenti e gemiti, e carico di peccati;
e perciò si trova ogni momento in pericolo di ricadere nella
natura. Questa è l’ultima parola per colui che osserva le cose
spregiudicatamente e onestamente — ma non può essere l’ulti-
ma parola in generale. Soltanto una fede che è però diventata
sempre più generale nel suo contenuto e che deve lottare in
permanenza col dubbio può offrire il conforto che esista una
soluzione trascendente del problema — per noi insolubile —
della vita e della cultura. Ma noi abbiamo perduto la fiducia
che qualche filosofo abbia fornito o possa ancora fornire que-
sta soluzione trascendente.
Il valore di verità dei sistemi filosofici e delle ideologie è
quindi dubbio; indubbio rimane invece il loro valore culturale.
Le formazioni ideali dei grandi pensatori sono quasi le più
alte vette dello spirito in mezzo alla natura che lo sorregge,
quasi sempre le realizzazioni supreme del misero essere uma-
942 FRIEDRICH MEINECKE
no, assetato di verità e sempre errante: soltanto l’opera della
grande religiosità e l’opera d’arte stanno più in alto di esse.
Se si riflette su quanto si è detto, ne risultano due specie di
valori culturali. Gli uni vengono intenzionalmente elaborati in
uno sforzo già prima diretto a tale scopo: formazioni ideali di
tipo religioso e filosofico, politico e sociale, opere d’arte, scien-
za. Gli altri fioriscono mediatamente, e non secondo un inten-
to precedente, dalle necessità della vita concreta, indirizzata in
senso pratico. Con i primi l’uomo cerca il cammino più diret-
to e rapido dalla natura alla cultura; con i secondi rimane sul
terreno della natura, ma con lo sguardo rivolto alle alte vette
dei valori che lo guidano. Soddisfacendo le necessità della vita,
egli cerca alla fine di soddisfarle in modo che si realizzino
contemporaneamente i valori del vero o del bene o del bello.
Vale quindi a questo proposito quanto ha detto Aristotele a
proposito dello stato: è stato costituito per poter vivere, ma
esiste per vivere bene. Ed è in primo luogo nello stato che la
natura diventa in questo modo, capovolgendosi, cultura. Nel
lavoro immediato o mediato entro la cultura sorgono così ovun-
que degli esseri spirituali, individualità storiche, delle quali lo
storico indaga contemporaneamente l’origine e l’efficacia causa-
le al pari del valore. La soggettività, che è ora connessa a tutti
i valori, viene posta almeno in secondo piano per il fatto che
si apprezza in primo luogo il valore del fenomeno che essa
reca in sé, come rivelazione specifica e insostituibile di vita
spirituale *. Occorre inoltre trasferirsi nell'anima stessa di chi
agisce per poterne osservare l’opera e la realizzazione culturale
in base ai presupposti che gli sono propri, e in ultima analisi
per rianimare con l'intuizione artistica la sua vita passata — il
che non è possibile senza la trasfusione del proprio sangue
vitale. Solamente un senso aperto con amore e tolleranza a
tutto quanto è umano raggiungerà quindi quel grado di ogget-
a. In ciò consiste anche la protezione contro la pericosa tendenza dei
moderni « sintetici » a considerare il fenomeno individuale soltanto come
elemento e rappresentante dello sviluppo universale, vale a dire — nella
prassi — soltanto come punto di incrocio di tanti « ismi » astratti. In tal
modo si arriva nuovamente a una pericolosa vicinanza con il positivismo,
che pure si crede di aver superato. Nella più recente storia della letteratura
e dell’arte questa tendenza spadroneggia ormai in modo inquietante.
FRIEDRICH MEINECKE 943
tività che è possibile. Qui si inserisce allora anche la teoria
della relatività dei valori, che Troeltsch ha formulato ?. « Relati-
vità dei valori non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbi-
trio, bensì designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò
mai determinabile atemporalmente e universalmente, di ciò
che esiste di fatto e di ciò che dev'essere ». Ciò significa che la
relatività dei valori non è altro che l’individualità in senso stori-
co, l’orma, in sé fornita di valore, di un assoluto ignoto —
poiché esso varrà per la fede come il fondamento creativo di
tutti i valori — in ciò che è relativo e legato alla natura tempo-
rale.
Dal valore proprio delle individualità storiche si deve logica-
mente distinguere il valore che esse hanno per noi e per la
nostra vita. Nella determinazione di questo valore deve natural-
mente agire con forza maggiore il bisogno soggettivo. Trarre
dalia storia un insegnamento, un modello e un’esortazione rien-
tra quindi tra i motivi ineliminabili che hanno da sempre con-
dotto alla storiografia. Di qui i pericoli più gravi che minaccia-
no il suo carattere scientifico: la distorsione tendenziosa, l’idea-
lizzazione o la deformazione. Un senso storico purificato, che
riconosca la legittimità sia del carattere scientifico sia di quello
sopra-scientifico della storiografia, concederà che noi vogliamo
imparare dalla storia anche per la nostra vita. Già lo studio
delle relazioni causali offre insegnamenti pratici in gran quanti-
tà. Tutte le cause generali e ricorrenti in modo tipico, che
operano nella storia, possono ripetersi anche nel presente ed
essere quindi considerate in base alle esperienze compiute nel
passato ®. Ciò che nel corso storico è individuale, inimitabile,
a. Cfr. Der Historismus und seine Probleme cit., p. 211. În questo
contesto rinunciamo ad approfondire quelli che si chiamano i pericoli
dello storicismo, cioè gli effetti relativizzanti del pensiero storico nei ri-
guardi di tutti i valori, e ci limitiamo a quest'unica osservazione: che sol-
tanto anime deboli e di poca fede possono scoraggiarsi e fallire sotto il
peso di questo storicismo relativizzante. La fede in un assoluto ignoto non
può venir scossa da esso. Ma la pretesa che questo assoluto ignoto si sveli,
in modo da poter essere toccato con mano, è un residuo di rappresentazione
antropomorfica della divinità.
b. Hegel ha sì negato che popoli e governi abbiano mai appreso qual-
cosa dalla storia e abbiano agito secondo gli insegnamenti che se ne pote-
vano trarre. Ma è più giusto dire che di rado essi hanno imparato ciò che
944 FRIEDRICH MEINECKE
insostituibile, non sopporta invece una tale applicazione prati-
ca. Può però diventare contenuto spirituale, modello ideale per
coloro che possiedono un’individualità affine e rispondente, e
contribuire in tal modo alla loro più profonda e più ricca for-
mazione. Epoche e generazioni intere possono anche nutrirsi
dei valori culturali di un determinato passato, ad esse particolar-
mente affine. Le culture tarde di regola hanno bisogno di soste-
gni siffatti. Ma sempre incombe allora il pericolo di una man-
canza di autonomia da epigoni, il pericolo di soccombere inte-
riormente agli spiriti del passato. Al contrario, uno spirito for-
te come Max Weber poteva motivare il suo disegno immagi-
nario di indagare la storia in modo avalutativo con uno scopo
altamente carico di valori: «voglio vedere fino a qual punto
posso resistere » ®. L'insegnamento più raffinato e più alto che
la storia ci dà è però quello che scaturisce senza essere cercato
— come lo abbiamo descritto sopra — dalla pura valutazione
delle individualità storiche in sé. Il suo valore proprio è allo-
ra ciò che diventa valido anche per noi. Esso non consiste in
altro che nella conferma dell’infinita forza creativa dello spiri-
to, la quale non ci garantisce certamente un processo rettili
neo, bensì — all’interno dei limiti della natura — un’eterna
rinascita di individualità storiche fornite di valore. In quanto
queste individualità sono tutte causalmente connesse tra loro e
l'osservatore desidererebbe che avessero imparato. Bene o male, Bismarck
lo ha riconosciuto: « Per me la storia è servita anzitutto a imparare da
essa qualcosa. Anche se gli avvenimenti non si ripetono, si ripetono tuttavia
le situazioni e i caratteri, in base al cui spettacolo e al cui studio si può
stimolare e formare il proprio spirito » (Gesprich mit Memminger, 1890,
in Die gesammelten Werke, Berlin, vol. IX, 3° ed. 1926, p. 90).
a. Marianne Weser, Max Weber. Ein Lebensbild, Tibingen, 1921,
p. 690.
b. A questo proposito si veda l'acuta osservazione di G. von BeLOw,
Deutsche Geschichtsschreibung cit., p. 113, nota. — Non posso quindi
considerare, con Troeltsch, la « comprensione del presente sempre come
il fine ultimo di ogni ricerca storica » (cfr. Die Bedeutung des Protestan-
tismus fiir die Entstchung der modernen Welt, Minchen, 1911, p. 6).
Essa è certo un fine assai giustificato e necessario, ma non è né l’unico
né il più alto. Ho spesso polemizzato con Troeltsch su questo punto; e
anche nel suo Historismus (p. 696) egli mi rimprovera la « tendenza a
evadere verso una contemplazione oggettiva e pura ».
FRIEDRICH MEINECKE 945
formano nel loro insieme la grande individualità complessiva
della storia universale, anche l’individualità storica della nazio-
ne, dello stato, della società, della chiesa ecc. — entro le quali
viviamo storicamente e alle quali cooperiamo — diventa co-
sciente del proprio radicarsi nel processo complessivo. Proprio
questa consapevolezza può, a sua volta, sviluppare le più robu-
ste forze etiche. La tradizione, che per conto proprio e inconsa-
pevolmente — si potrebbe dire naturalmente — opera come
legame tra le generazioni, come custode dei valori culturali
acquisiti, soltanto ora si spiritualizza veramente, diventando va-
lore culturale in senso pieno:
« E così il vivente acquista
di passo in passo nuova forza »°.
Da quanto abbiamo detto risulta che la storia non è al-
tro che storia della cultura, dove cultura significa produzio-
ne di valori spirituali di volta in volta specifici, ossia di in-
dividualità storiche. La polemica tra gli orientamenti storio-
grafici della storia politica e della storia della cultura ha
potuto aver luogo soltanto perché da entrambe le parti non
si era chiarito il rapporto tra relazioni causali e valori nel-
la storia. La storiografia politica vedeva nello stato il fat-
tore centrale della vita storica — e, dal punto di vista causa-
le, con pieno diritto, perché le influenze causali più forti an-
che sulla vita culturale provengono sempre dallo stato. E in
quanto ogni comunicazione di valori culturali ha bisogno della
più ampia fondazione causale, già per questo motivo anche lo
stato dovrà rimanere sempre al centro della ricerca storica. Ma
esso è anche il valore culturale più alto possibile? Una certa
inclinazione a elevarlo a valore supremo era presente fin da
Hegel, anche se trovò sempre un limite nel giusto sentimento
che, come valore, la religione gli è superiore. Lo stato non può
essere quindi il valore supremo, perché è vincolato in modo
più forte di quasi tutte le altre individualità storiche a necessi-
tà naturali, biologiche, che gli impediscono di spiritualizzarsi
e di eticizzarsi completamente. La religione nelle sue forme
più pure e l’arte nelle sue realizzazioni più alte costituiscono i
6. GorrHE, Zur Logenfeier des 3. September 1825, Zuwischengang, vv. 17-18.
60. STORICISMO TEDESCO.
946 FRIEDRICH MEINECKE
valori culturali supremi. Solamente dietro di esse la filosofia e
la scienza possono reclamare la loro posizione. Ma — ci si
chiederà immediatamente — la vita attiva e produttiva dell’uo-
mo non viene con ciò sminuita nel suo valore a profitto delle
attività meramente contemplative e spirituali dell’uomo? Forse
che la fuga dalla vita, la quale è sempre in qualche misura
connessa con queste, deve porsi più in alto della formazione
della vita?
La risposta a tale interrogativo non può essere semplicemen-
te un sì o un no. Si manifesta qui il peculiare incrociarsi dei
valori. Se si chiede in quali sfere l’uomo può maggiormente
innalzarsi al di sopra della natura, occorre indubbiamente indi-
care le sfere della religione, dell’arte, della filosofia e della
scienza. La vita produttiva lega l’uomo più fortemente alla
natura: i valori culturali che l'uomo produce in essa recano su
di sé più polvere terrena, sono più torbidi e impuri di quelli
delle sfere contemplative che rifuggono dal mondo. Il compito
di produrli non è soltanto più difficile, ma è anche più pressan-
te e inevitabile che quello di portare alla luce i valori culturali
delle sfere puramente spirituali. Il compito stesso di creare il
valore culturale della religione acquista la sua piena urgenza e
inevitabilità se essa non rimane auto-godimento mistico del divi-
no, ma penetra nella vita produttiva e ne diventa fermento.
Analogamente, dagli altri valori culturali elaborati in modo
contemplativo — cioè l’arte, la filosofia, la scienza — si preten-
de a buon diritto che essi fecondino non immediatamente, ma
mediatamente, la vita produttiva. Tutti i valori culturali supre-
mi sono tenuti a servire questa vita. Possiamo anche dire che
la vita produttiva non crea certamente di per sé i valori cultura-
li supremi, ma che il compito primo e più urgente è di creare
in essa valori culturali. La vita contemplativa forma soltanto
immagini della vita, non la vita stessa. Per questo motivo essa
può creare qualcosa di più spirituale e di più perfetto di quan-
to non possa fare la vita produttiva. Queste immagini devono
e possono servire come guida alla vita produttiva nella sua
lotta per i valori culturali. Lo storico deve quindi rivolgere la
massima attenzione a questo problema: fino a qual punto e in
quale grado la vita connessa alle necessità naturali venga in tal
modo trasformata e mutata in cultura.
FRIEDRICH MEINECKE 947
Attraverso queste considerazioni l’importanza centrale del-
la storiografia politica all’interno delle scienze storiche risulta
fondata più profondamente — riteniamo — che non mediante
gli argomenti finora addotti a tale scopo. Essa ha a che fare
con valori culturali più imperfetti che non la storia della reli-
gione, dell’arte ecc. Ma non invidia certamente a queste la
fortuna di muoversi sulle vette dell'umanità. Indagando lo sta-
to, il fattore causalmente più efficace della vita storica, e al
tempo stesso cercando i valori che questo è in grado di produr-
re, essa deve sempre guardare contemporaneamente alle profon-
dità e alle vette della vita, e per farlo è costretta a porsi penso-
sa nel centro della vita stessa. Essa è la più prossima alla vita
tra le scienze storiche. Si può discutere — in base al concetto
che si ha della vita storica — se la storia economica o la storia
sociale non siano ancora più vicine alla vita. Per vita storica
noi intendiamo però l’intreccio di natura e cultura; quanto più
accanita è quindi la loro lotta fecondatrice, tanto più è presen-
te la vita storica. Noi vediamo questo dualismo agire, nella
sua forma più intensa, nello stato. Esso non lo conduce ai
supremi trionfi della cultura, ma allo spettacolo più memorabi-
le e più commovente della sua lotta con la natura. Spiritualizza-
re ed eticizzare lo stato in cui si vive, anche se si sa che non ci
si può riuscire del tutto, costituisce — insieme all’esigenza di
elevare spiritualmente ed eticamente la propria personalità —
la più alta delle pretese che si possano porre all’agire etico;
perché lo stato costituisce la comunità di vita più influente e
comprensiva e perché l’uomo che aspira alla perfezione può
respirare liberamente soltanto in uno stato che aspiri anch'esso
alla perfezione. E proprio l’elemento problematico, l'elemento
di insicurezza e di precarietà presente nei valori culturali dello
stato è ciò che attira con forza magnetica lo storico politico,
per lo più in modo a lui stesso inconsapevole, verso i grandi
uomini di stato della storia universale, nei quali il conflitto tra
natura e cultura diventa grandioso.
C'è poi ancora un campo intermedio tra la storia politica,
che rappresenta la lotta per i valori culturali nella vita statale,
e la storia dei valori culturali creati contemplativamente: il
campo delle idee politiche. Qui vita attiva e vita contemplativa
si fondono. Dalle necessità della vita politica attiva scaturisco-
948 FRIEDRICH MEINECKE
no gli impulsi diretti a formare immagini di questa vita nelle
quali si mescolano tra loro realtà e ideale. Secondo il desiderio
di chi le forma, esse devono reagire sulla vita immediatamente
— e non soltanto mediatamente, come accade per le immagini
formate dall’arte e dalla scienza. Quando vi riescono, esse di-
ventano preludi di processi storici reali e sono già per questo
motivo degne di essere indagate, in quanto rappresentano rela-
zioni causali importanti. Con quanto zelo si è andati alla ricer-
ca degli inizi dell'idea di sovranità popolare e dell’ideale sociali-
stal Ma esse derivano il loro valore culturale peculiare dal
fatto di rappresentare tentativi — rettilinei e ardui come quelli
compiuti dagli uomini dediti alla vita contemplativa — di ele-
varsi al di sopra di ciò che è meramente naturale e di spiritua-
lizzare lo stato, almeno nel desiderio. Esse devono perciò venir
considerate, rivissute e rappresentate di per sé, nel loro specifi
co valore individuale, e non solamente nella loro efficacia causa-
le, con tanto sangue vitale quanto sarebbe necessario per infon-
derlo di nuovo in loro. Altri possono essere presi in misura
più forte da altri tratti della vita storica concreta; io sono sem-
pre stato profondamente commosso dallo spettacolo delle idee
individuali che — nell’urto delle rozze forze terrene della vita
statale — si destano e lottano per sottrarsi alla loro pressione.
Anche queste idee sono ancor più vincolate all’elemento terre-
no, più fortemente intrecciate con le realtà effettive che non
le formazioni spirituali della pura vita contemplativa. Per questo
motivo, a contatto con esse si diventa più consapevoli dell’indi-
spensabile terreno della realtà naturale, senza il quale non è
possibile nessuna formazione culturale, neppure la più alta.
Esse riuniscono l’odore della terra e il profumo dello spirito.
È quanto fanno anche gli stati concreti quando si elevano —
come ci ha insegnato Ranke — a esseri spirituali forniti di
realtà. Dove poi cresca il valore culturale più alto — se nello
stato stesso oppure nell’idea del pensatore che lo percorre, se
nella città-stato greca o nell’ideale platonico dello stato che da
quella è sorto — sarebbe pedantesco volerlo decidere ogni vol-
ta. Talvolta è senza dubbio lo stato, altre volte è invece l’idea
politica che ne è scaturita, accettandolo o negandolo, a rappre-
sentare la realizzazione spirituale più alta; in molti altri casi,
come nell’esempio indicato, ci si asterrà dal giudizio di valore.
FRIEDRICH MEINECKE 949
La disposizione dei valori culturali in un ordine progressivo
può essere in genere effettuato soltanto in modo sommario: lo
esige il loro carattere individuale, che si fa gioco di un criterio
generale univoco. In quanto tutti i valori culturali vengono
concepiti come individualità, ci si accorge sommariamente che
in essi è presente una misura maggiore o minore di potenza
spirituale o di vincolo naturale, senza però poterlo valutare
con precisione. Bastano già a impedirlo quelle impenetrabili
zone intermedie tra natura e cultura. Individuum est ineffabi-
le. Il fascino infinito del mondo storico consiste appunto nel
fatto che esso produce, in modo insieme misterioso e manife-
sto, sempre muove entità spirituali, senza tuttavia ordinarle in
una serie progressiva con una successione ascendente. Infatti
ogni epoca, come insegnava Ranke, è in rapporto immediato
con Dio.
Vogliamo chiudere con le parole che egli fa seguire in que-
sta frase, poiché — esattamente intese — esse dicono la stessa
cosa che abbiamo cercato di illustrare in polemica con un’opi-
nione ampiamente diffusa nella corporazione degli storici: «#
loro valore non sta affatto in ciò che da esse scaturisce, ma
nella loro stessa esistenza, nel loro proprio io »*.
a. Ùber die Epochen der neueren Geschichte (a cura di A. Dove),
Leipzig, 1888, p. 5.
STORIA E PRESENTE *
Storia e presente costituiscono un’unità, che viene concepita
dallo storico come fornita di una duplice polarità. Un polo
definisce la rigorosa concentrazione ascetica sulla conoscenza
del passato umano, con tutti gli strumenti di comprensione
storica e di ricerca critica, la quale può condurre fino all’ascesi
entusiastica che Ranke ha espresso con la frase, molto spesso
richiamata, che egli voleva dissolvere il proprio io per poter
vedere le cose nella loro purezza. L’altro polo — cioè la sfera
in cui lo storico vive — definisce al contrario la rinnovata
consapevolezza di questo io, non però del proprio piccolo io
egoistico, ma dell'io nutrito dal passato, riempito e allargato
dai grandi compiti del presente. La scienza storica è perciò
sempre, al tempo stesso, scienza e più che scienza. Abbiamo
imparato più volte — e ciò rientra nei caratteri fondamentali
della moderna impostazione delle scienze dello spirito — a
guardare al di là delle ristrette delimitazioni concettuali con
cui dobbiamo sempre orientarci in via preliminare. In ogni
formazione storica — si chiami essa scienza o stato, arte o
religione, Germania o Occidente — c’è una forza motrice che
spinge oltre i confini che sembrano esserle imposti nella realtà.
Si potrebbe quasi dire che ogni essere storico desidera essere
qualcosa di diverso da ciò che realmente è. Questa è la dinami-
* Geschichte, Staat und Gegenwart, in « Logos », XXII, 1933, pp. 161-170, poi
raccolto in forma mutata e col titolo Geschichte ind Gegenwart nel volume Vom
geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte, Leipzig, Kochler und Ameland,
1939, pp. 7-22, c infine in Werke, vol. IV: Zur Thcorie und Philosophie der Geschichte,
Stuttgart, K.F. Kochler Verlag, 1959, pp. 90-91 (traduzione di Sandro Barbera e
Pictro Rossi).
FRIEDRICH MEINECKE 9SI
ca della vita storica, per cui avviene che le cose della storia
trapassano tutte le une nelle altre, cosicché noi vediamo sussiste-
re tra di esse zone più o meno larghe di confine anziché linee
nette di separazione, e il singolo fenomeno storico può spesso
apparire tanto contradditorio in sé, e tuttavia quanto mai pie-
no di vita. È ciò che chiamiamo coincidentia oppositorum, e
su cui fondiamo, a partire da Ranke e da Hegel, la moderna
immagine della storia. Essa è molto più complicata, molto più
difficile da intendere che non l’immagine che del passato si
erano fatte tutte le generazioni precedenti e che ancora oggi
sta dinanzi al pensiero inesperto quando questo tratta di uomi-
ni, tendenze, situazioni e idee come di entità circoscritte e facil-
mente calcolabili. Dobbiamo quindi avere ben chiaro che esiste
un pensiero storico, una forma di trattazione delle realizzazio-
ni della cultura umana che devia dall’abitudine ingenua e quoti-
diana di considerare le cose nella loro cosalità e come qualcosa
di immutabile anziché di fluido, cioè fuse tra loro e determina-
te da innumerevoli relazioni enigmatiche. Si può qui ricordare
il rivolgimento avvenuto nel moderno pensiero naturalistico:
quanto più la materia diventava oggetto di un’indagine affina-
ta, tanto più si risolveva in funzioni e in relazioni enigmati-
che. Il rivolgimento avvenuto nel pensiero storico, che ci ha
condotto da una visione meccanica a una visione dinamica del-
le cose, ha avuto luogo molto prima dell’analogo rivolgimento
nel pensiero naturalistico — cioè oltre un secolo e mezzo fa,
all’epoca dello Sturm und Drang, dello scoppio della Rivoluzio-
ne francese. Di quell’epoca Goethe ha così riferito, più tardi,
in Dichtung und Wahrheit: «Un sentimento che prevaleva
violentemente in me, e che non poteva esprimersi in modo
abbastanza meraviglioso, era la sensazione dell’unità di passato
e presente»! Qui abbiamo l’inizio del processo di fusione
nel pensiero, la coincidentia oppositorum, l'influenza dinamica
dell'elemento storico sul presente e viceversa. All’inizio si tratta-
va soltanto del sentimento, della sensazione dell’uomo geniale,
non ancora di un principio che trasformasse tutta l’immagine
del mondo. Del resto questa trasformazione è avvenuta soltan-
to gradualmente, allargandosi da cerchie ristrette a cerchie più
1. GoerHt, Dichtung und Wakrheit, libro XIV.
952 FRIEDRICH MEINECRE
ampie, ed è ancora ben lontana dal termine dei suoi effetti.
Ma di fronte a tutte le altre trasformazioni della vita — di
tipo politico, sociale, economico e tecnico — che abbiamo vissu-
to dall'epoca della Rivoluzione francese, questo nuovo modo
di pensare dello storicismo dinamico ricorda il raffinato moti-
vo melodico di una sinfonia gigantesca, che spesso può scompa-
rire nel tumulto degli ottoni e dei tamburi ma che, riproposto
da un nobile violino, penetra nell'intimità del cuore. Non c’è
più nulla di saldo e di concluso in sé, tutto è divenire. « Chi sa
dove si va? si ricorda appena da dove si è venuti » — per riferir-
ci ancora a Dichtung und Wahrheit e alle sue parole conclusi-
ve?: tale è la parola d’ordine che da allora risuona nel mondo.
Si rimane sempre scossi da capo quando si riflette profonda-
mente su questo mutamento e sulle sue conseguenze. Qui vo-
glio parlare soltanto delle conseguenze che toccano il rapporto
tra storia e presente.
Mi riferisco ancora una volta alla frase di Goethe, secondo
cui nella sua sensazione passato e presente confluivano in un'u-
nità. Goethe aggiungeva che questa intuizione aveva introdot-
to nel presente qualcosa di spettrale. Essa è stata benefica per
la sua poesia. In altre parole, egli ne presagiva la meravigliosa
forza vivificatrice. Ma agli altri — aggiungeva — sarebbe ap-
parsa, nel momento in cui si esprimeva immediatamente zella
vita, strana, inspiegabile, fors’anche sgradevole. Qui Goethe
ha di nuovo avvertito, con geniale presentimento — anche se
coglieva soltanto un aspetto del nuovo potente problema — il
carattere a doppio taglio degli effetti del nuovo sentimento del-
la vita e della storia. Questo nuovo storicismo dinamico, che
superava i limiti interni frapposti tra passato e presente e rove-
sciava entrambi, con tutti i loro contenuti, nell’eterno crogiolo
di un divenire, di un’influenza e di una conversione reciproca,
ci ha dischiuso i mondi incantati di una nuova comprensione
storica per tutto ciò che reca sembiante umano; ma ha anche
scosso in lungo e in largo, non tutto di un tratto ma gradual-
mente, il saldo terreno di determinati ideali assoluti su cui
l'umanità aveva creduto fin allora di poggiare. Basterà ricorda-
re — per accennare soltanto all’elemento più importante —
2. GoetHE, Dichtung und Wahrheit, libro XX.
FRIEDRICH MEINECKE 953
quanto difficile è diventata la posizione del Cristianesimo rivela-
to dopo che la critica storica ha scoperto il divenire delle reli-
gioni, le loro influenze reciproche e le molteplici forme di
transizione delle religioni orientali della redenzione. Se poi ci
si rende conto del modo in cui tutto questo prolunga i suoi
effetti fino ai problemi religiosi del presente e quanto oscuro
sia il futuro religioso che ci sta dinanzi, allora può ben riassalir-
ci quella sensazione di spettrale che Goethe aveva provato al
primissimo balenare della nuova visione della storia. Lo storici-
smo ha suscitato un relativismo che viene a considerare ogni
singola formazione storica, ogni istituzione, ogni idea e ogni
ideologia soltanto come un momento transitorio nell’infinito
corso del divenire. Tutte le cose hanno perciò solamente valore
relativo. Come può prosperare la fede salda e la fiducia in
colui che crea di tendere a qualcosa di fornito di valore in sé?
La parola d’ordine dovrebbe essere simile a quella degli uomi-
ni di affari in epoca di inflazione: «rimanerne fuori! ».
Ciò può condurre a effetti che dissolvono e minano in mo-
do pericoloso: infatti può un giorno scaturirne uno scetticismo
sfiduciato e stanco, un dubitare del senso di questo eterno dive-
nire e passare, dal momento che il senso di ogni formazione
storica particolare viene immediatamente posto in questione
dal senso — che appare altrettanto giustificato — delle forma-
zioni in lotta con essa; tanto più se, come abbiamo già detto,
queste diverse formazioni che si succedono l’una all’altra non
si distinguono tra loro in modo preciso e determinato, ma tra-
passano l’una nell’altra. Può inoltre scaturirne un opportuni-
smo svelto e privo di princìpi, che non conosce nessun saldo
vincolo superiore, e acchiappa perciò veloce la preda dell’atti-
mo soddisfacendo l’interesse momentaneo.
Non già che intenda ricondurre tutti i fenomeni sgradevoli
della nostra vita alla causa ideologica dello snervante modo di
pensare relativistico. Questo modo di pensare è anzi connesso
causalmente, a sua volta, con tutte le altre trasformazioni, in
gran parte assai elementari e materiali, della nostra esistenza.
Esso rientra però nel motivo melodico di quel potente processo
che minaccia di sradicare gli uomini e di farne mere funzioni
nella dinamica complessiva della vita storica.
Ma l’uomo non vuole lasciarsi sradicare, non vuole diventa-
954 FRIEDRICH MEINECKE
re una mera funzione, vuol rimanere un individuo di per sé, an-
che se sa che la sua individualità è sempre intrecciata con tutto
ciò che è sovra-individuale. Egli non è soddisfatto neppure del
punto di vista secondo cui ogni cosa agisce sull’altra e trapassa
in essa, ma vuole « distinguere, scegliere e giudicare ». Alla co-
noscenza eraclitea che « tutto scorre » deve immediatamente su-
bentrare l’esigenza di Archimede: « dammi un punto di appog-
gio ». Ma in tal caso anche i compiti per i quali lavora, anche
le idee per cui combatte devono acquistare di nuovo qualcosa
di stabile.
Possiede lo storicismo — questa è la grande questione — e
il particolare tipo di relativismo da esso prodotto la forza di
guarire da solo le ferite che ha inferto? Soltanto chi abbia
avuto realmente una volta nella sua piena profondità origina-
ria — come in passato Goethe — quella sensazione meraviglio-
sa dell'unità di passato e presente, risponderà senza esitare di
sì prima ancora di aver disposto tutti gli argomenti in un ordi-
ne logico. Ciò che ci rende interiormente più ricchi, che ci
porta a un contatto vitale immediato con gli uomini e i tesori
del passato, che ci insegna a comprendere — o per lo meno a
scorgere — attraverso il ritmo dell’eterno divenire e trasformar-
si le profondità dei destini degli uomini e dei popoli, non può
recare in sé soltanto una forza distruttiva, ma deve anche posse-
dere una forza costruttiva. Ma come si dovrà definire questa
forza costruttiva? com'è possibile — per dirla in modo sempli-
ce e rozzo — mostrare l'utilità della storia e del pensiero stori-
co per il presente?
Non voglio importunare il lettore con le consuete trivia-
li verità o mezze verità con le quali si cerca di solito di
dimostrare l’utilità della storia per la vita produttiva. Nel-
la situazione spirituale odierna si deve cercare di assumere
un punto di vista più elevato. Non si deve mai perdere di vista
il fatto che nello storicismo, il quale relativizza ogni cosa, è cer-
tamente presente un veleno corrosivo, il cui effetto può essere
eliminato solo mediante altri forti ingredienti. E non si deve
neppure dimenticare che nei centocinquant’anni durante i qua-
li il pensiero storico è fiorito nella cultura tedesca gli effetti di
quel veleno non sono stati riscontrati, e sono stati tenuti indie-
tro dagli effetti positivi e creativi del pensiero storico-genetico.
FRIEDRICH MEINECRE 955
Esso diventò un’arma anzitutto per i creatori dello stato nazio-
nale tedesco. Da Dahlmann® e da Droysen fino a Treitschke,
furono gli storici politici a preparargli il cammino, e Bismarck
era pieno di intuizioni storiche che ricordano la saggezza di
Ranke. Per Ranke come per Hegel e per Droysen la storia
rappresentava il corso del divenire che tutto muove, trasforma
e forma in modo nuovo. Come sono essi riusciti — dobbiamo
chiederci — a far fronte, nonostante tutto, ad esso e a non
naufragarvi dentro, ma piuttosto a trarne forze positive e co-
struttive? Dobbiamo perciò formulare la questione in termini
ancor più generali: dove si può cercare, in generale, l'antidoto
al veleno del relativismo?
Vi sono stati tre diversi modi di coprire la prospettiva relati-
vistica del puro divenire e fluire delle cose mediante principi
che tendano all’assoluto, cioè mediante valori che possano resi-
stere alla transitorietà temporale e fecondare così più profonda-
mente la vita produttiva. Prendiamoli sommariamente in esa-
me e chiediamoci quindi se, e in quale misura, possiamo ancor
oggi adottarli.
Il primo modo è quello romantico, la fuga nel passato. Si
trasfigura e si idealizza un determinato momento di esso, lo si
trasforma per quanto è possibile in un’età dell’oro, lo si pone
in contrasto con l’oscuro presente; e nel caso che non ci distol-
ga da questo trasognati o mal contenti, si può agevolmente
acquisire da un grande passato anche impulsi creativi per il
proprio tempo. Allorché il barone von Stein‘ diede quell’ordi-
namento cittadino che fece epoca e concepì la grande idea,
rivolta verso il futuro, dello stato nazionale tedesco, a tale im-
presa cooperarono i ricordi romantici della libertà municipale
3. Friedrich Christoph Dahlmann (1785-1860), storico e uomo politico tedesco,
autore della Quellenkunde der dentschen Geschichte (1830), delia Politik, auf den
Grund und das Mass der gegebenen Zustinde zuriickgefiihrt (1835), della Geschichte
von Dinemark (1840-1843), della Geschichte der englischen Revolution (1844), della
Geschichte der franzòsischen Revolution (1845) e di altri scritti, appartiene alla storio-
grafia liberale del primo Ottocento. Fece parte dell'assemblea nazionale di Franco-
forte, cd ebbe gran parte nell'elaborazione del progetto di costituzione tedesca nel 1848.
4. Heinrich Friedrich Karl barone von Stein (1757-1831), uomo politico tedesco,
diede un contributo decisivo alla riforma dello stato prussiano prima nel 1807-1808 e
poi nel 1813-14, dopo la sconfitta di Napolcone; sostenne la necessità dell'unione
nazionale tedesca su base prussiana. Meineckc sì riferisce qui alla riforma municipale
del novembre 1808, che concedeva l'autonomia locale alle città della Prussia.
956 FRIEDRICH MEINECKE
delle antiche città tedesche della potenza imperiale del Medioe-
vo. L'intero mondo conservatore vive spiritualmente, in misu-
ra non piccola, di valori del passato idealizzati. In generale, a
un popolo pervenuto alla coscienza di se stesso è indispensabile
un frammento di culto del passato e degli antenati. Comprende-
re la storia del proprio popolo non soltanto con visione storica,
ma anche con l’animo, è un processo salutare e profondamente
giustificato. La mancanza di pietà verso il proprio passato è
innaturale e dannosa. Ma pietà senza critica non dovrebbe esi-
stere, allo stesso modo in cui non dovrebbe esistere critica sen-
za pietà.
Rispondo così alla questione se sia possibile sottrarsi agli
effetti sgretolanti del relativismo con la fuga romantica nel
passato, dicendo che in ogni caso la vita dell’uomo moderno è
povera e triste senza qualcosa del senso romantico della storia,
in generale del Romanticismo. Ma non appena si sviluppa in
modo eccessivo, esso ostacola la vita anziché promuoverla. Pas-
sato e presente non confluiscono più in unità: il passato uccide
allora il presente. E se ci interroghiamo soltanto sul valore
conoscitivo del senso romantico della storia, anche in questo
caso dovremo dire che tale elemento ci dischiude profondità
del passato che non sarebbero accessibili alla mera conoscenza
causale. Ma non appena un qualsiasi momento del passato vie-
ne elevato a norma e a criterio di valore dell’intero processo
storico e del presente in particolare, sorge un dogma arbitrario
che crolla immediatamente sotto la critica corrosiva del re-
lativismo.
Cerchiamo dunque ancora il punto saldo che ci permetta di
far fronte al relativismo. Si può anche procedere al contrario
del Romanticismo e cercare il valore non già nel passato bensì
nel futuro, cercarvi cioè il fine della storia, che deve dare un
senso al corso — altrimenti privo di significato — del divenire.
Emerge qui una quantità di volti di filosofi della storia, tutti
tesi a riconoscere nella storia un progresso reale verso un idea-
le determinato e assoluto. Alcuni credono che questo ideale sia
raggiungibile e conduca a uno stato duraturo di perfezione
dell'umanità, mentre altri si accontentano di avvicinarsi a que-
sto fine in un’approssimazione infinita. Ma nell’uno come nel-
l’altro caso è stato questo ottimismo del progresso ad agire
FRIEDRICH MEINECKE 957
potentemente nei secoli xvi e xix, diventando la bandiera
dell’umanità in marcia. Molte sarebbero le cose da dire a que-
sto proposito; ma qui mi limito a quest’unica domanda: abbia-
mo oggi ancora questa fede nell’ascesa continua dell’umanità
verso gradi superiori? Possiamo possederla ancora? A molti di
noi il coraggio qui viene meno di colpo, e all'orizzonte si
levano le ombre della moderna problematica culturale. In Ger-
mania abbiamo sentito parlare, nel periodo successivo alla guer-
ra, del tramonto dell’Occidente. Ritengo queste profezie di de-
cadenza altrettanto precarie e soggettive quanto le prognosi di
ascesa. Una volta colto il loro sfondo psicologicamente soggetti-
vo e legato a uno stato d’animo, scompare anche il loro fasci-
no. E di nuovo siamo di fronte alla corrente infinita del diveni-
re e del trasmutare storico. «Chi sa dove si va? non ci si
ricorda neppure da dove sì è venuti ».
Questa corrente del divenire, che tutto relativizza e tut-
to dissolve nel suo movimento, relativizza appunto anche i
due tentativi compiuti dall’aspirazione umana a padroneg-
giarlo spiritualmente, cioè il Romanticismo rivolto al passa-
to e l’ottimismo del progresso. È loro caratteristica — ed è
pure la loro debolezza — di immergersi essi stessi nella corren-
te, per nuotare sia contro di essa sia insieme ad essa. Ciò è
possibile, e non dev’essere respinto senza appello; si può ben pro-
cedere in avanti, praticamente, di un pezzetto. Ma la corrente
ha la meglio sul nuotatore. In altri termini, entrambe queste
visioni della storia procedono in direzione orizzontale e soccom-
bono perciò alla corrente del divenire, che si muove orizzontal-
mente. Ma si può considerare la questione anche in senso verti-
cale e tentare di costruire un solido ponte al di sopra della
corrente? Non si può forse guardare la corrente dall’alto di
questo ponte e scorgere ciò che c'è di saldo e di sicuro nel
mutamento?
Non vedo nessun’altra via. Ed essa è stata percorsa da pro-
fondi pensatori. Proprio in Goethe si trovano le indicazioni
più precise in tal senso, e Ranke l’ha imboccata, dopo essersi
immerso nella vita storica ancor più profondamente di quel
che era stato possibile a Goethe. L'ha poi di nuovo ritrovata,
con i più moderni strumenti filosofici, Ernst Troeltsch, e nella
958 FRIEDRICH MEINECKE
medesima direzione si lavora oggi da parecchie parti. Per accen-
nare la direzione in cui dev'essere trovata la soluzione del no-
stro problema voglio qui mettere a confronto due espressioni,
l’una di Goethe e l’altra di Ranke. Nella tarda poesia di Goe-
the che egli stesso chiama Vermdchtnis e che comincia con le
parole « Nulla può mai distruggersi, annullarsi », si dice:
«Ed il passato è allora duraturo,
il futuro previve nel presente,
l'attimo è eternità » 5.
Anche qui si esprime di nuovo il senso universale della
storia proprio di Goethe, che percepiva l’unità di passato e
presente. Ma l’elemento di spettralità è scomparso e nella pie-
na coscienza della corrente infinita del divenire, che unisce tra
loro passato e futuro, un’idea di eternità prevale sull’infinito
meramente temporale; e non si tratta di un’idea di eternità
soltanto trascendente e speculativa, bensì di un’idea radicata
nel cuore della realtà e dell’esperienza vissuta. L'attimo è
eternità.
Veniamo ora alla famosa frase di Ranke: «ogni epoca è in
rapporto immediato con Dio ».
Anche questa frase ci sottrae alla mera corrente del diveni-
re e ci spinge a cercare ciò che nella storia è affine a Dio
nell’attimo — nell’impulso all’eccelso di volta in volta presente
nel singolo uomo, nei singoli popoli e stati in ogni loro epoca
e momento. Verticalmente, non già orizzontalmente, la vita
storica tende a quell’altezza di cui è capace. In ogni epoca, in
ogni formazione individuale della storia si muovono forze spiri-
tuali che aspirano a elevarsi al di sopra dell’ottusa natura e del
mero egoismo, verso un mondo superiore. Il loro volo si com-
pie più in alto o più in basso, ma ciò che esse realizzano è
ogni volta qualcosa di interamente individuale, distinto da tut-
te le realizzazioni precedenti e successive della storia; ed esse
raggiungono tale scopo anche quando esteriormente falliscono.
Il loro valore consiste nella loro stessa esistenza e azione, indi-
pendentemente dal loro successo temporale — si tratti pure di
S. GorrHe, Verméchtnis, vv. 28-30 (trad. it. di F. Amoroso).
FRIEDRICH MEINECKE 959
un andare a fondo con la bandiera che sventola. In ultima
analisi opera qui la convinzione che, almeno per noi, l’elemen-
to spirituale non è qualcosa di universalmente valido nel sen-
so delle verità matematiche, ma si concreta sempre e soltan-
to in individualità. Questa prospettiva ci spinge a cercare e
a creare l’eterno nell’attimo, nella costellazione individuale del-
la vita.
Possono certamente sorgere dubbi se sia giusto fare dell’ele-
mento più fuggevole, l’attimo, il portatore dei valori dell’eterni-
tà. Ma proprio questa paradossalità ci libera dalla pressione
paralizzante della transitorietà, dando a ogni momento e a
ogni formazione ricca di spirito della corrente del divenire stori-
co la sua particolare dignità e il suo valore peculiare e svilup-
pando un impulso etico più profondo della nostalgia di un
passato più bello o della speranza di un regno millenario. In
qualsiasi modo pensiamo la divinità, sia che ce la rappresentia-
mo in forma personale o in forma impersonale, sia che osiamo
cancellarne la parola stessa e parlare soltanto di valori supremi
— in ogni attimo ognuno può sentirsi in rapporto immediato
con tali valori, e quanto più fortemente si sente in rapporto,
tanto più sicuramente troverà la sua strada e tanto più gioiosa-
mente compirà il dovere che l’attimo gli impone.
Egli può infatti abbandonarsi a una stella che lo protegge
infallibilmente dallo sviamento di una visione della vita pura-
mente relativizzante — vale a dire, per usare le parole di
Dilthey, alla « mirabile facoltà presente in noi che chiamiamo
coscienza »: e la coscienza è, per dirla con Fichte, «il raggio
con cui proveniamo dall’infinito ». Ma qui noi ne parliamo in
una prospettiva di teoria della storia, poiché una concezione
storica priva di un saldo fondamento etico diventa gioco di
onde. Nella voce della coscienza tutto quanto è fluido e relati-
vo diventa, d’un sol tratto, saldo e assoluto nella sua forma.
« Soltanto la propria coscienza — è detto nell’Historik di Droy-
sen — è per ognuno l’assolutamente certo, è per lui la sua
verità e il centro del suo mondo ». Il contenuto di ciò ch’essa
dice al singolo uomo dovrà essere, sotto vari punti di vista,
6. J.G. Droysen, Historik - Vorlesungen liber Enzyklopidie und Methodologie
der Geschichte (a cura di R. Hiibner), Miinchen und Berlin, 1937, p. 178.
960 FRIEDRICH MEINECKE
individuale e temporalmente condizionato. Ma ogni esame con-
dotto su di sé mostra che la coscienza traccia ogni volta limiti
esatti nei confronti della mera soggettività, dell’arbitrio e di
tentatori ancora peggiori. Per bocca della coscienza parlano
agli individui anche le potenze storiche superiori — il popolo,
la patria, lo stato, la religione e così via — e accanto a ciò
che esse dicono c'è di nuovo, nonostante l’essenza individuale
di tali potenze, quel mirabile carattere assoluto e vincolante
che protegge anche la vita comunitaria dal rischio di precipita-
re nell’anarchia del volere individuale. Se si arriva poi a conflit-
ti di coscienza tra il volere individuale e il volere delle forme
superiori di comunità, la coscienza è ancora l’unica istanza che
decide interiormente in proposito e che deve quindi porre fon-
damentalmente il bene comune al di sopra del bene dell’indivi-
duo. Così la coscienza è il potente mezzo connettivo della socie-
tà umana, e al tempo stesso l’autentica sorgente metafisica pre-
sente nell'uomo. Nella coscienza l’individualità si fonde con
l'assoluto, e l'elemento storico con il presente. E così mediante
la coscienza è dato all’attimo quel contenuto di eternità, di cui
abbiamo parlato. Tutti i valori di eternità della storia scaturisco-
no, in ultima analisi, dalle decisioni della coscienza degli uomi-
ni che agiscono.
Il senso della storia nella totalità dell'universo ci è ignoto.
La coscienza, in quanto costituisce l’elemento più affine a Dio
presente in noi, ci mostra per così dire soltanto un’orlatura
dorata al cui interno esso deve risiedere. Da questo senso assolu-
to della storia distinguiamo il senso che può avere per noi.
Esso non si esaurirà nel soddisfacimento del nostro bisogno
causale, ma culminerà nell’accogliere e nel rivivere in noi, com-
prendendola, la rivelazione dell'elemento affine a Dio che è
presente nell’umanità. Qualcosa di questo vive — come abbia-
mo chiarito parlando del fatto della coscienza — in innumere-
voli anime, in lotta continua con tutto ciò che le trascina verso
il basso e che spesso può sembrare preponderante. Anche nelle
formazioni individuali che cerchiamo di comprendere storica-
mente scegliendole dalla pienezza della vita complessiva, ciò
che è affine a Dio — cioè la cultura nel senso più alto —
equivarrà in una prospettiva spaziale a una sottile vena d’oro
in mezzo a masse di minerale, mentre dal punto di vista tempo-
FRIEDRICH MEINECKE 961
rale rappresenterà spesso soltanto degli attimi fuggevolissimi
della storia universale. Ma nella misura in cui abbiamo guarda-
to verticalmente verso l’alto, abbiamo anche potuto dare all’atti-
mo storico e alla sua individualità un contenuto di eternità.
«Chi sa dove si va?» — diciamo di nuovo pensando a
tutti gli abissi della storia; e tuttavia non ci è consentito di
spaventarci.
61*. STORICISMO TEDESCO.
INDICI
61. STORICISMO TEDESCO.
INDICE DEI NOMI
A
Abramo, 696.
Abramowski G., 552.
Acton }.E.E.D., 874.
Adler M., 349, 431.
Adriano, imperatore romano, 745.
Agostino (S.), 25, 140, 798, 917.
Alberca I. E., 802, 803.
Albert H., 552.
Alcibiade, ‘748.
Alembert (Le Rond d") J.-B., 215,
246.
Alessandro Magno, 148, 213, 404,
748, 753.
Alfero G.A., 256.
Alighieri D., 233, 729, 752.
Amenemhet III, faraone d’Egitto,
746.
Amoroso F., 263, 958.
Anassagora, 250, 253.
Annibale, 753.
Antigono Dosone, 778.
Antipatro, 778.
Antoni C., 75.
Antonio, 785, 789.
Apelt E. F., 252.
Appio Claudio, 783.
Archimede, 752, 954.
Archita, 752.
Ario, 148.
Aristippo, 248.
Aristonico, 778.
Aristotele, 149, 202, 214, 250, 253»
258, 260, 274, 281, 282, 320, 436,
698, 733, 734, 777, 863, 942.
Arminio, 179, 184.
Aron R., 9, 75, 553.
Attalo III, re di Pergamo, 778.
Augusto, imperatore romano, 753;
792.
Averroé, 214, 251.
B
Babeuf F.-N., 644.
Bach J.S., 195, 196, 232, 753, 766.
Bacone F., 110, 113, 315, 698.
Bacone R., 733.
Baer (von) K.E., 359.
Baltzer A., 723.
Balzac (de) H., 234.
Banfi A., 431.
Barbera S., 76, 91, 213, 271, 313,
341, 433, 725, 755» 804, 843, 857,
889, 920, 950.
Barnes H.E., 431.
Baron H., 8or.
Bastian A., 427.
Baur F.C., 149.
Bauer I., 432.
Baumgarten E., 549, 887.
Bayle P., 251.
Beck R.N., 76.
Beetham D., 554.
Beethoven (van) L., 232, 525, 727.
Below (von) G., 348, 389, 887, 928,
944.
Bendix R., 551-553.
Beonio-Brocchieri V., 722.
Bergmann ]J., 295.
Bergson H., 54, 250, 255, 336.
Bernardo (S.), 148.
966 INDICE DEI NOMI
Bernheim E., 348.
Bernstein E., 44-46.
Bernwald (S.), 745.
Bianco F., 89.
Biemel W., 86.
Bienfait W., 550.
Bischoff D., 87.
Bismarck (von) O., 60-62, 140, 146,
209, 521, 749, 760, 763, 780, 874,
883, 884, 906, 914, 917, 918, 955.
Blicher (von) G.L., 732.
Blossio, 778.
Bodenstein W., 802.
Boeckl A., 79, 113.
Bohmer (von) J.S.F., 193, 196.
Bollnow O. F., 85, 87.
Bossuet J.-B., 25.
Bouquet A. C., 877.
Boyen (von) H., 61, 887.
Bracciolini P., 930.
Brachmann W., 802.
Brands M. C., 75.
Bratuschek E., 113.
Brentano F., 295.
Brentano L., 541.
Bruni L., 930.
Bruno G., 231, 251, 256-259, 394;
411, 412, 729.
Bruun H. H., 554.
Biichner L., 246, 247.
Buckle H.T., 110, 347, 357.
Budda, 752, 776.
Buffon (Leclere de) G.-L., 216.
Burckhardt J., 66, 142, 358, 467,
886, 887, 941, 944.
Byron (Gordon, lord) G., 751.
C
Calabrò G., 88.
Calvino G., 608.
Cantimori D., 548.
Cantoni R., 431.
Caracciolo A., 803.
Carlo Magno, 745.
Carlyle T., 139, 255, 388, 690, 843,
877, 895.
Carmer (von) J. H. C., 156.
Carneade, 245.
Cassirer E., 861.
Catone il Censore, 773.
Catone, Uticense, 786.
Catulo, Quinto Lutazio, 785.
Cavalli L., 553.
Cervantes (Saavedra de) M., 194.
Cesare, Gaio Giulio, 179, 209, 752,
762, 765, 775» 778, 783-785.
Chabod F., 888.
Chamberlein J., 775.
Chretien de ‘Troyes, 750.
Cicerone, Marco Tullio, 250, 778,
783, 784, 786.
Classen P., 887.
Cleante, 778.
Cleomene III, re di Sparta, 778.
Cleone, 1768.
Cohen H., 16,
Collingwood R.G., 12, 722.
Comenio (Komensky) J. A., 113.
Comte A., 16, 20, 26, 27, 36, 106,
113, 114, 181, 246, 381, 391, 392,
879.
Condillac (Bonnot de) E., 215, 287.
Constant B., 617.
Copernico N., 108, 412, 726.
Corneille P., 234.
Coser L.A., 431.
Crasso, Marco Licinio, 784-786.
Cristo, 752, 798.
Croce B., 11, 12, 71.
Clippers C., 87.
Curione, Gaio Scribonio, 785.
Curtius E. R., 876.
Curtius L., 722.
Cusano N., 261,
Cuvier G.-L.-C., 128.
D
Dahlmann F. C., 955.
Damman O., 933.
INDICE DEI NOMI
Dante v. Alighieri.
Darwin C., 358, 392, 743.
Degener A., 87.
Dehio L., 887, 888.
Delbriick H.G.L., 887.
Democrito, 243, 249.
Descartes R., 95, 231, 272, 295; 317»
727, 752
Destutt de Tracy A.-L.-C., 215,
287.
Dewey J., 13.
Diaz De Cerio Ruiz F., 88, 89.
Dieterich A., 878.
Dilthey W., rr, 13, 15-23, 30-36,
40, 41, 43, 45, 48-52, 55, 59, 60,
63, 64, 68, 72, 74, 76, 79-83, 85,
86, 93, 96-98, 102, 150, 209, 215,
244, 252, 268, 336, 350, 410, 542,
627, 719, 887, 959.
Dilthey Misch C., 79.
Diwald H., 88.
Dove A., 396, 403, 866, 887, 933,
938, 939, 949.
Drescher H. G., 802.
Driesch H., 872.
Dronbenger Î., 553.
Droysen J. G., 61, 348, 358,
887, 955, 959.
Du Bois-Reymond E., 97, 98, 101-
103.
Diirer A., 740.
Durkheim E., 431.
883,
E
Edoardo VII, re d'Inghilterra, 767.
Ehrenfels (von) C., 862.
Einstein A., 877, 878.
Elisabetta I, regina d’Inghilterra,
901.
Engels F., 27, 44.
Engisch K., 552.
Epicuro, 249.
Eraclito, 220, 236, 242, 256, 257,
259, 260, 719, 748.
Erasmo di Rotterdam, 900.
967
Erodoto, 171.
Erxleben W., 87.
Eucken R.C., 420.
Euclide, 750.
Euripide, 662, 751.
Eusebio di Cesarea, 148,
F
Fabian W., 431.
Falk J.D., 731.
Faraday M., 735.
Fauconnet A., 722.
Faust A., 338.
Febvre L., 723.
Federici F., 338, 339.
Federico II il Grande, re di Prus-
sia, 83, 85, 156, 180, 189, 749,
762, 793, 903-905, 917, 918.
Federico II di Svevia, 189, 214, 902,
903.
Federico Guglielmo I, re di Prus-
sia, 761, 763.
Federico Guglielmo IV, re di Prus-
sia, 901.
Ferrarotti F., 552.
Feuerbach L., 246, 247, 250.
Fichte J. G., 62, 165, 204, 240, 251,
252, 258, 342, 343: 405; 414, 415,
597, 879, 891, 903, 959.
Filippo II, re di Spagna, 748.
Filippo II di Macedonia, 753.
Fischer K., 14, 79, 267, 341.
Flaminio, Caio, 773.
Flaminio, Tito Quinto, 775.
Fleischmann E., 552.
Forster F. W., 703.
Fortini F., 626, 711, 914.
Francesco (S.) d'Assisi, 520.
Frank E., 722.
Frank H., 851.
Freidank, 189.
Freisberg D., 802.
Freund ]., 552.
Fries J.F., 251, 252, 295.
Friescheisen-Kohler M., 213, 431.
968 INDICE DEI NOMI
Frost W., 431.
Fulling E., 802.
Fustel de Coulanges N.-D., 845,
849, 850, 855.
G
Gabinio Aulo, 785.
Galilei G., 315, 698, 735, 752.
Gassen K., 430, 432.
Gauhe E., 723.
Gauss C. F., 752.
Gelzer M., 775, 783, 786.
George S., 932.
Gerone, 748.
Gerth H.H., 554.
Gerth H.I., 554.
Gibbon E., 150.
Giddens A., 553.
Gierke (von) O., 27.
Giobbe, 233.
Giolitti A., 76, 548, 683.
Giordano G., 465.
Giotto, 232.
Giovanni (S.) Crisostomo, 148.
Giuliano l’Apostata, 148.
Giusso L., 87, 723.
Giustiniano I, imperatore romano,
746, 769.
Gladstone W.E., 780.
Glock C.T., 87.
Goedeckenmeyer A., 270.
Goethe W., 53, 54, 63, 64, 72, 97,
220, 233, 234, 256, 257, 259, 263,
326-328, 429, 514, 524, 626, 685,
693, 711, 719, 727-731, 734, 738,
740-743, 745» 748, 750, 751, 760,
814-816, 837, 838, 866, 872, 876,
885, 887, 889, 893, 898, 903, 905,
908, 914, 929, 940, 945 951-954;
957, 958.
Goetz W., 888.
Goldfriedrich J., 872.
Gooch G.P., 874, 877.
Gorsen P., 88, 432.
Grab H.]J., 550.
Gramsci A., 10.
Groethuysen B., 85, 86.
Guglielmo II, imperatore di Ger-
mania, 61.
Guicciardini F., 148, 150, 171.
Gurvitch G., 338.
H
Haeckel E. H., 101, 103.
Hindel G.F., 196, 232.
Haring T.L., 722.
Harnack (von) A., 610, 798.
Hartmann (von) E., 337, 862.
Hauter K., 430.
Hebbel C.F., 738.
Heberle R., 431.
Hegel G. W. F., 12, 16, 19, 25, 41,
43, 44, 51, 53, 72, 80, 83, 115, 148,
149, 154-158, 164, 181, 204, 207,
210, 220, 240, 251, 256, 258, 259,
272, 317, 342, 357» 414, 415, 420,
421, 738, 807, 822, 837, 838, 845,
872, 879, 891, 943, 945, 951, 955-
Heidegger M., 74, 337.
Heimsoeth H., 270, 863.
Hellmann S., 549
Helmholtz (von) H., 14, 358, 441,
688, 691, 728, 822.
Hennig ]., 87.
Henrich D., S51.
Herbart J. F., 204, 251, 252, 279,
292.
Herder J.G., 72, 87, 172, 216, 256,
257, 743, 816, 837, 838, 808.
Herring H., 553, 803.
Herrmann U., 86, 89.
Herzberg E., 156.
Herzfeld H., 887.
Heyde E., 862.
Hildebrand (von) D., 35, 862.
Hinrichs C., 887.
Hintze O., 802.
Hitler A., 66.
Hobbes T., 27, 243, 247.
Hodges H.A., 87, 88.
INDICE DEI NOMI
Hofer W. 887, 888.
Holbach {Dietrich d’) P-H., 243.
Holborn H., 87.
Hòélderlin J.C.F., 233.
Holldack H. 888.
Hibner R., 959.
Hufnagel G., 553.
Humboldt (von) W., 62, 756, 858,
866, 868, 872, 808, 905, 907, 931.
Hume D., 215, 216, 246, 843.
Hiinermann P., 88.
Hungar K., 553.
Husserl E., 32-34.
Hutten (von) U., 900.
Ibsen H., 234.
Iggers G.G., 75, 76.
Imaz E., 87.
Imelmann ]., 875.
Innocenzo III, papa, 760.
Ippia, 215.
Iside, 747.
J
Jackson A., 773.
Jacobi F.H., 102, 250, 251, 252,
258.
Jaffé E., 542, 556.
Jakowenko B., 270.
James W., 255, 336.
Jankélévitch V., 430.
Janoska-Bendl J., 552.
Jaspers K., 13, 74, 336, 550.
Jhering (von) R., 112.
Joél K., 722.
K
Kaesler D., 554.
Kant I., 15, 17, 98, 102, 179, 189,
190, 202, 210, 216, 231, 250, 25I,
969
253, 258, 261, 268, 269, 273, 276,
278, 279, 287, 288, 290-292, 298,
314, 316, 321, 331, 341, 342, 349
411-415, 419, 435» 436, 452, 461,
491-493, 499, 529, 530, 619, 713,
727, 733» 734; 837, 865, 875, 876,
879, 891, 903, 935, 939-
Kantorowicz G., 430.
Karsten A., Ss1.
Kasch W.F., 802.
Katsube K., 87.
Kaufmann E., 876.
Kautsky K., 846.
Kepler J., 315.
Kessel E., 887, 8809, 920.
Kidd B., 854.
Kierkegaard S., 872, 873.
Kingsley C. 843.
Klein E.F., 156.
Kluback W., 88.
Knapp G.E. 44o.
Knevels W., 431.
Knies K., 35.
Kohler W., 802.
Koktanek A.M., 722, 723.
Kon 1. S., 75.
Kénig R., 549.
Kornhardt H., 722.
Kotowski G., 887.
Krakauer S., 431.
Krausser P., 88.
L
Lachmann L.M., 553.
Lagarde (de) P. A. 393, 797.
Lamarck (Monet de) J.-B.-P.-A.,
216.
Lamprecht K., 347, 348, 358, 887.
Landmann M., 430.
Landshut S., 550.
Lange F. A., 861.
Landgrebe L., 86.
Laplace P.-S., 98, 752.
Lask E., 342, 862, 865.
Lazarsfeld P., 552.
970 INDICE DEI NOMI
Lazarus M., 427.
Lee D.E., 76.
Lefèvre W., 553.
Lehmann M., 358, 887.
Leibniz G. W., 52, 83, 85, 189, 190,
251, 257, 331; 743.
Lenin V.I., 768
Lennert R., 551.
Leonardo da Vinci, 698, 699.
Lessing G. E., 25, 80, 191, 193, 196,
216, 802, 803, 816, 837, 838.
Lessing T., 862.
Liebert A., 87.
Liebeschitz, H., 432.
Liebmann O., 14.
Liebrich H., 802.
Liefmann R., 668, 670.
Lindner T., 346.
Lincoln A., 780.
Lipps T., 36.
Litt T., 871.
Littré M-P.-E., 114.
Locke J., 318.
Loewenstein K., 552.
Loose G., 431.
Lotze H., 79, 102, 267, 295, 359;
862, 865.
Lòwith K., 550.
Loyola (de) I., 900.
Lucrezio, Tito Caro, 249.
Lukîcs G., 10, 13, 73-75, 427, 713.
Luigi XIV, re di Francia, 512.
Lutero M., 190, 899, 917, 918, 939.
M
Macaulay T.B., 150.
Machiavelli N., 70, 148, 171, 769,
902, 903, 917, 930.
Magris C., 76.
Maier H., 928, 937.
Maine de Biran (Gonthier) M,F.
P., 250, 255.
Malebranche N., 865.
Mamelet A., 431.
Mandelbaum M., 75, 76.
Mannheim K., 74.
Marbod, 184.
Marini G., 88, 80.
Mario, Gaio, 461, 773.
Marx - Li 573» 615, 776, 777: 779»
793, 8
Wo (0 der) F.A.L., 900.
Masur G., 87, 88.
Maurenbrecher M.H., 846.
Maurice J. F. D., 843.
Maxwell J. C., 359.
Mayer ].P., 551, 691.
Medicus F., 405.
Meinecke F., 11, 60, 61, 63, 67-69,
71-73, 858, 873-876, 883-885, 887,
888, 900, 909, 933, 955.
Meinong A., 862
Melantone F., 189.
Mendelssohn M., 102, 250.
Menger C., 35, 542.
Merleau-Ponty M., 551.
Messer A., 722.
Mettler A., 550.
Metzger E., 722.
Meyer C.F., 900.
Meyer E., 209, 348, 777, 783, 925.
Michelangelo Buonarroti, 232.
Mill J.S., 16, 39, 92, 93, 114, 349,
646, 706.
Miller S.M., 553.
Miller-Rostowska A., 339.
Mills T.M., 431.
Milone, Tito Annio, 784.
Mirabeau (Riqueti, de) H.-G. V.,
514.
Misch G., 85-87.
Mitra, 747.
Mitzman A., 553.
Mohl (von) R., 113, 115.
Moleschott J., 246, 247.
Moltke (von) H.C. B., 763.
Mommsen T., 112, 427, 461, 54I,
628.
Mommsen W., 551, 552, 554.
Montaigne (Eyquem dc) M., 917.
Montesquieu (de Secondat de la
Brède) C.-L., 215, 811.
INDICE DEI NOMI 971
Mori M., 76.
Mòrike E., 937.
Moser J., 72, 172, 196.
Mo Ti (Mo Tze), 776.
Mozart W.A., 746, 766.
Mihlmann W.E., 552.
Mulert H., 79.
Miiller G., 723.
Miiller H., 62, 431.
Miiller-Freienfels R., 871.
Miller-Vollmer K., 88.
Miinsterberg H., 36, 350, 862, 865.
N
Naegele K.D., 431.
Napoleone I Bonaparte, 514, 617,
748, 749, 756, 762, 788, 955.
Natorp P., 16.
Naumann F., 844, 887.
Naville A., 346.
Neander J.A.W., 148.
Negri A., 88, 888.
Newton I., 15, 349, 727, 735-
Niebuhr B.G., 128, 149, 169, 204,
844.
Nietzsche F., 53, 63, 66, 336, 411,
429, 514, 700, 719, 7720, 726, 752,
879, 910, QII, 9I4.
Nitzsch K.W., 844.
Nohl H., 85.
Northcliffe (Harmsworth, visconte
di) A.C.W., 788, 792.
Novalis (von Hardenberg F.L.),
62, 187, 858.
10)
Oberlaender K., 432.
Obershall A., 552.
Odino, 816,
Oken L., 115.
Oldenmegyer E., 552.
Omero, 149, 234, 726, 733.
Oppenheimer H., 550.
Orazio, Quinto Flacco, 748, 901.
Ottavio, Marco Cecina, 773.
Owen R., 751.
P
Paci E., 339.
Palestrina (da) G.P., 731.
Palmer R.E., 88.
Palyi M., 549.
Paolo (S.), 242, 512.
Paolo Emilio, 785.
Papirio Carbone, 786.
Parmenide, 256, 727.
Parsons T., 551, 552.
Pascal B., 93, 140.
Passerin d’Entrèves A., 802.
Paul H., 346.
Pauly A., 778.
Pericle, 752, 768, 90I, 902.
Petrarca F., 750.
Pfaff C.M., 193.
Pfister B., 550, 552.
Phlipon (M.me Roland) J.-M., 783.
Pick G., 862.
Pilato, Ponzio, 760.
Pistone S., 888.
Pitagora, 752.
Pitt W., 760.
Platone, 148, 149, 242, 250, 258,
260, 274, 280, 327, 457, 647, 692,
697, 727, 748, 751; 752, 756, 776,
777, 863, 917.
Plenge J., 682.
Plotino, 729, 752.
Pòhlmann (von) R., 786.
Polibio, 148, 171, 172.
Policleto, 753.
Polignoto, 753.
Pompeo, 209, 765, 778, 784, 785.
Popper K., 9.
Prades J. A., 552.
Protagora, 244, 245, 247, 248.
Pucciarelli E., 87.
Pufendorf (von) S., 190.
972
R
Radbruch G., 639.
Radowitz (von) J.M., 873.
Raffaello, 214, 748.
Ramming G., 339.
Rand C.G., 76.
Randone E., 76.
Ranke (von) L., 19, 20, 62, 72, 79,
140, 148, 150, 204, 357, 358, 359
389, 390, 395, 396, 403, 404, 406,
408, 416, 417, 450, 688, 729, 858,
866, 873, 876, 879, 885-887, 910,
922, 923, 929, 931, 948-951, 955,
957, 958.
Renthe-Fink (von) L., 88.
Redeker M., 79, 86.
Reinold A. M., 888.
Reist B. A., 802.
Rembrandt (Harmenszoon van
Rijn, detto), 727, 737, 740, 753»
901.
Rceuter H., 873.
Rhodes C.J., 785.
Ricardo D., 35.
Rickert H., 14-19, 23-25, 36, 37, 39
43, 45, 49, 56, 58, 59, 68, 270, 335,
336, 338, 342, 346, 349, 350, 358,
403, 405, 542, 556, 651, 799, 862,
865, 924, 925; 927, 928, 933; 934,
936, 938, 939.
Riehl A., 335, 411.
Ritter K., 79, 109, 110.
Ritter P., 85.
Ritschl A., 41, 148, 797.
Robespierre M., 438, 439, 760, 768,
9
Rodi F., 88.
Rogers R. E., 553.
Rohan (cardinale di) L. R.E., 774.
Roland, M.me, vedi Phlipon.
Roscher W. G.F., 35, 573.
Rosemberg A., 775.
Rosenthal E., 432.
Rossi P., 75, 76, 91, 121, 201, 213,
271, 313, 341, 433, 548, 551, 552,
INDICE DEI NOMI
555, 627, 725, 755, 804, 843, 857,
889, 920, 950.
Rosso C., 270, 339.
Roth G., 553.
Rothacker E., 76, 875.
Rousseau J.-J., 776, 777, 779. 898,
917.
Ruge A., 270.
Runciman W.G., 554.
Rutilio Rufo, 787.
S
Sallustio, Gaio Crispo, 778.
Salomon A., 551.
Sanchez Azcona ]., 552.
Sartre J.-P., 13.
Savigny (von) F. K., 20, 62.
Schaaf J. J., 551, 802.
Schifer D., 703.
Schiffle A., 115.
Schaidnagl B., 86.
Scheler M., 862, 865.
Schelling F., 115, 139, 251, 252,
256, 258, 259, 261, 317, 342, 738,
8
79:
Schelting (von) A., 550, 551.
Scheschics B. W., 270, 339.
Schiaparelli G. V., 834.
Schiel I., 93.
Schiller F., 233, 234, 254, 255, 411,
752, 814, 879, 887, 903.
Schlegel F., 62.
Schleiermacher F., 43, 83, 112, 113,
115, 149, 251, 256, 258, 259, 261,
807, 822, 837, 838, 866, 887.
Schlippe (von) G., 803.
Schlosser F. C., 610
Schlosser J. G., 195.
Schluchter W., 553.
Schlunke O., 338.
Schmalenbach H., 865, 872.
Schmidt G., 75.
Schmoller (von) G., 28, 541, 630,
631, 641, 643, 644, 887.
Schnitger M., 542.
INDICE DEI NOMI
Schopenhauer A., 53, 231, 256, 258,
259, 261, 273, 342; 408, 421, 429,
730, 872.
Schréter M., 722, 723.
Schiitz A., 550.
Schwartz E., 722.
Schweitzer A., 551.
Scott W., 729, 730.
Sceberg E., 888.
Seidel H., 339.
Semler J.S., 193, 196.
Senofonte, 256.
Servio Tullio, 780.
Sfero, 778.
Shaftesbury (Cooper, conte di) A.
A., 256, 257, 259.
Shakespeare W., 163, 194, 233, 789,
901.
Shih Huang Ti, 753, 778.
Sigwart C., 168, 295.
Silla, Lucio Cornelio, 760, 784, 787.
Simmel G., 11, 15, 17, 18, 22, 28-
30, 36, 48, 49, 53-55, 59, 63, 74,
336, 346, 427-432, 457, 556, 659,
847, 871.
Sismondi (Simonde de) J.-C.-L.,
877.
Smith A., 35.
Socrate, 250, 251, 698.
Sofocle, 740, 748, 901.
Sombart W., 27, 28, 542, 556, 852.
Spencer H., 27, 106, 114, 879.
Spener Ph.J., 699.
Spengler O., 63-66, 68, 336, 719-722,
767, 793, 878, 887, 922.
Spiegelberg W., 722.
Spinoza B., 231, 251, 252, 256-259;
261, 317, 864.
Spranger E., 627, 862, 865, 872.
Spykman N. ]J., 431.
Srbik (von) H. R., 75.
Ssu-Ma Ch'ien, 778.
Ssu-Ma T'An, 786.
Stammer O., 552.
Stamler R., 46, 47, 593.
Steding C., 550.
Stein A., 86.
973
Stein (von) C., 524.
Stein (von) L., 115.
Stein (barone von) H.F.K., 358,
955.
Steinbach (von) E., 525.
Steinhoff M., 431.
Steinthal H., 427.
Stendhal (Beyle H.), 234, 737.
Stenzel J., 87.
Sterling R. W., 888.
Stocker A., 844.
Streisand ]., 552.
Strich W., 862.
Strzelewicz W., 550.
Stuart Hughes H., 75, 723.
Sturm J., 902.
Stutz E., 723.
Susman M., 430, 431.
Suter J.-F., 88.
Svarez K.G., 156.
Swammerdam ]., 699.
Sybel (von) H., 61, 357, 438, 883,
887.
T
Tacito, Cornelio, 179, 184, 185.
Taine H., 347, 357.
Talleyrand-Perigord C.-M., 765.
Telemaco, 769.
Tellegen E., 553.
Temistocle, 748.
Tenbruck F.H., 551.
Teodoro di Studion, 770.
Tertulliano, Quinto Settimio Flo-
rente, 148.
Tessitore F., 76, 888.
Thomasius C., 189, 190, 193, 196.
Thutmosi, 726.
Tiberio, imperatore romano, 748.
Tiberio Gracco, 778.
Tiziano Vecellio, 746.
Tolomeo, 785.
Tolstoj L., 696, 697, 700, 711.
Tommaso (S.) d'Aquino, 94, 606.
Tònnies F., 26, 27, 30, 347, 359
974 INDICE DEI NOMI
Trebazio, Gaio Testa, 784.
Treitsche (von) H., 31, 61, 70, 357,
427, 628, 703, 887, 955.
Trendelenburg A., 79, 80.
Troeltsch E., 11, 41-47, 52, 59, 63,
67, 68, 70, 73, 797-803, 844, 846,
849, 852, 884, 885, 887, 934, 936,
943, 944, 957.
Tucidide, 148, 150, 171.
Tung Chung-Shu, 778.
Tuttle H. N., 89.
U
Unland J. L., 685.
V
Varo, Quintilio, 179.
Vermeil E., 802.
Verre, Gaio, 785, 786.
Vico G., 25.
Vischer F. T., 625.
Vittoria, regina d’Inghilterra, 767.
Volkelt J., 862.
Voltaire (Arouet J.-M.), 215, 251,
Brr.
W
Wagner A., 541.
Wagner R., 232, 233, 731, 750-752.
Waismann A., 88, 723, 802.
Wallenstein (von) A. W.E., 752.
Wallis W. D., 849.
Walter A., 550.
Warnkònig L. A., 113.
Watteau ].-A., 514, 746.
Weber Marianne, 549, 554, 944.
Weber M., 11, 13, 28, 31, 35-40,
45-49, 55-60, 62-64, 67, 73; 74, 76,
336, 427, 541-549, 554, 556, 593;
610, 646, 647, 673, 682, 713; 798,
799, 844, 884, 928.
Wegener W., 552.
Weierstrass K.T.W., 692.
Weingartner R.H., 432.
Weinreich M., 551.
Weismann A., 358, 854.
Wellhausen J., 770.
Weniger E., 85, 86.
Weyembergh M., 554.
Wiederholt K., 270, 862.
Winckelhaus M., 803.
Winckelmann J.J., 172, 196, 216,
30ò, 549, 551, 552, 554, 555, 627,
ch
Windelband W., 15-17, 19-23, 25,
43, 45» 49, 56, 59, 60, 81, 267,
268, 270, 271, 335; 341; 342, 346,
542, 556, 665, 666, 674, 675.
Wissowa G., 778.
Wolf E., 550.
Wolf F. A., 149.
Wolff C., 189-191, 193, 231, 277.
Wolff K. H., 431.
Wélflin (von) H., 663.
Wolfson P.J., 888.
Wundt W., 15, 36, 350.
Y
Yorck von Wartenburg P., 79.
Z
Zedlitz (von) K. A., 156.
Zeller E. 427.
Zenone di Cizio, 776, 793.
INDICE DELLE TAVOLE
Wilhelm Dilthey intorno al 1908... . . . . pp. 160
Georg Simmel nel 1901... L00432
Max Weber intorno al 1916. . . . . . .. » 560
Max Weber nel 1919... . 0.0.0...» 688
Friedrich Meinecke intorno al 1935. . . . . . » 896
INDICE DEL VOLUME
Introduzione .
Nota bibliografica .
WILHELM DILTHEY .
Nota biografica .
Nota bibliografica
Scienze dello spirito e scienza della natura .
La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito
Il mondo storico .
I tipi di intuizione del mende e la io daberazione nei
sistemi metafisici
WILHELM WINDELBAND .
Nota biografica .
Nota bibliografica
Che cos'è la filosofia? (Concetto e storia della filosofia) .
Storia e scienza della natura
HEINRICH RICKERT .
Nota biografica .
Nota bibliografica
La filosofia della storia .
GEORG SIMMEL
Nota biografica .
Nota bibliografica
I presupposti psicologici della ricerca storica .
Il problema della sociologia
L'essenza del comprendere storico .
978 INDICE DEL VOLUME
MAX WEBER
Nota biografica .
Nota bibliografica
L’« oggettività » conoscitiva della scienza sociale e della
politica sociale . : -
Il significato della « ivalutaiinià » delle scienze viag
che ed economiche .
La scienza come professione
OSWALD SPENGLER
Nota biografica .
Nota bibliografica
Il problema della storia universale: fisiognomica e siste-
matica . .
Filosofia della solnica:
ERNST TROELTSCH
Nota biografica .
Nota bibliografica
Cristianesimo e storia della religione
Religione, economia e società .
Storia e dottrina dei valori .
FRIEDRICH MEINECKE
Nota biografica .
Nota bibliografica
Personalità e mondo storico
Relazioni causali e valori nella storia
Storia e presente .