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Saturday, December 21, 2024

GRICE E ROSSI

 CLASSICI DELLA FILOSOFIA 



COLLEZIONE FONDATA DA 

NICOLA ABBAGNANO 



DIRETTA DA 

TULLIO GREGORY 



CLASSICI 



UTET 



Prima edizione: 1977 



Tipografia ‘Toso, via Carlo Capelli 93, Torino 



INTRODUZIONE 



I. 



È difficile isolare, nell'àmbito della filosofia contemporanea, un 

indirizzo che possa essere caratterizzato in maniera univoca, e al 

tempo stesso esaustiva, con la designazione di « storicismo ». Ciò 

dipende in primo luogo dal fatto che il termine « storicismo » — 

così come si è venuto diffondendo a partire dagli anni ’20, dappri- 

ma in Germania e poi in Italia — è stato impiegato per indicare 

posizioni filosofiche (e anche non filosofiche) disparate, recando con 

sé quasi sempre una carica polemica o, al contrario, elogiativa che 

gli ha impedito per lungo tempo di essere assunto a contrassegno di 

un’impostazione di pensiero o di diventare una designazione storio- 

grafica comunemente accettata. Nella cultura tedesca lo storicismo è 

stato infatti identificato originariamente con una considerazione stori- 

ca dei diversi campi della vita e della cultura fondata su un atteggia- 

mento relativistico, che comportava quindi una relativizzazione dei 

valori alla particolare cultura o al particolare periodo storico nel 

quale si sono formati. Nella cultura italiana esso è invece servito a 

indicare soprattutto, almeno fino alla seconda guerra mondiale, una 

concezione della storia (di derivazione hegeliana) che affermava la 

fondamentale storicità di tutto il reale, e di conseguenza la riduzio- 

ne di ogni conoscenza a conoscenza storica. In altri paesi, eccetto in 

quelli di lingua spagnola, il termine ha avuto scarso successo: nella 

cultura francese è rimasto sostanzialmente assente — tant'è vero che 

il primo studio organico del movimento storicistico tedesco, cioè il 

libro di Raymond Aron del 1938, è intitolato alla « filosofia critica 

della storia » anziché allo storicismo — mentre nella cultura anglosas- 

sone ha acquistato, in virtù della polemica di Karl Popper contro la 

« miseria dello storicismo », un significato quasi sempre negativo. 

In epoca più recente, cioè nel corso degli anni ’60, è subentrata una 

tendenza piuttosto diffusa a identificare lo storicismo con la concezio- 



10 INTRODUZIONE 



ne marxistica della storia, vale a dire con il materialismo storico: 

tendenza chiaramente connessa con il processo di rinnovamento del 

marxismo contemporaneo, operato attraverso il recupero di autori 

come il Lukdcs di Geschichte und Klassenbewusstsein e il Gramsci 

dei Quaderni del carcere, nonché attraverso l’incontro con altri orien- 

tamenti del pensiero contemporaneo, in primo luogo con l'’esisten- 

zialismo. 


AI di lì di queste considerazioni relative al significato del 

termine, e ben più importanti di esse, vi sono però altri due ordini 

di motivi i quali spiegano la difficoltà di cui si diceva. Il primo 

ordine di motivi consiste in una caratteristica intrinseca allo storici- 

smo, ossia nel fatto che esso non è soltanto, né principalmente, una 

dottrina o un complesso di dottrine filosofiche, ma è pure un 

movimento che ha avuto larga influenza sulla ricerca storica e sulle 

scienze sociali, e che presenta connessioni tutt'altro che irrilevanti 

con le vicende politiche europee del secolo xx. Le formulazioni più 

propriamente teoriche dello storicismo contemporaneo — come la 

teoria della conoscenza storica e l’analisi della struttura storica del 

mondo umano e della relazione dell'uomo con i valori — sono 

quindi aspetti di un fenomeno più vasto, al quale continuamente 

rimandano. Il secondo ordine di motivi risiede invece nel legame 

ricorrente dello storicismo con altri indirizzi della filosofia contem- 

poranea: per un verso con l’idealismo — in tutte le versioni che si 

richiamano, direttamente o indirettamente, alla concezione hegeliana 

della storia — e per l’altro verso con il neocriticismo o con l’esisten- 

zialismo o con il marxismo o con il pragmatismo, magari (in qualche 

caso) perfino con il neopositivismo. Risulta così impossibile determi- 

nare un nucleo dottrinale al quale siano riconducibili le diverse mani- 

festazioni dello storicismo contemporaneo, e che sia più o meno pre- 

sente in tutte: al contrario, le varie forme di storicismo divergono 

anche su questioni d'importanza fondamentale. La possibilità di 

individuare lo, storicismo come un indirizzo a sé stante della filoso- 

fia contemporanea appare perciò problematica sia per quanto concer- 

ne i rapporti tra pensiero filosofico e altri campi culturali, sia all’in- 

terno dello stesso pensiero fiosofico. Sarà opportuno soffermarci più 

da vicino su questi nessi. 


Già dal punto di vista biografico gli esponenti dello storicismo 

contemporaneo che siano filosofi di professione, e nient'altro che 

filosofi, sono assai rari, e non certamente i più importanti. Wilhelm 



INTRODUZIONE II 



Dilthey, pur insegnando filosofia, è stato però insieme studioso di 

psicologia e di pedagogia, e ha soprattutto dedicato gran parte della 

propria attività all’analisi e alla ricostruzione storica di alcuni mo- 

menti centrali di sviluppo della cultura moderna, dal Rinascimento 

alla Riforma, dall’Illuminismo al mondo romantico. Georg Simmel 

e Max Weber occupano un posto di grande rilievo nella sociologia 

contemporanea; inoltre, mentre il primo è autore di numerosi saggi 

di argomento artistico, letterario ed estetico, e ha ripetutamente affron- 

tato i problemi concernenti la fisionomia e il significato della cultura 

moderna, il secondo è pervenuto all'analisi metodologica delle scien- 

ze sociali muovendo da studi sulle società commerciali del Medioe- 

vo, sul diritto agrario romano, sulle condizioni dei contadini nella 

Germania e, infine, sulla scuola storica di economia. Ernst Troeltsch 

è stato in primo luogo un teologo, e tutta la prima fase della sua 

attività speculativa è ispirata da preoccupazioni tipicamente teolo- 

giche: la sua successiva riflessione sulla storia e sulla conoscenza 

storica è anch’essa radicata in una problematica religiosa, e pren- 

de le mosse dalla consapevolezza dell’urto della coscienza storica 

moderna sulla validità della fede cristiana. Friedrich Meinecke è 

giunto ai problemi dello storicismo attraverso l’analisi del processo 

di formazione dello stato nazionale tedesco e della struttura della 

«ragion di stato » nell'età moderna; anche professionalmente, egli è 

stato uno storico, e solo in secondo luogo un filosofo, In quanto a 

Benedetto Croce, anch'egli è stato all'inizio — com'è noto — soprat- 

tutto studioso di storia e di critica letteraria, e il suo sforzo di 

elaborazione filosofica è proceduto di pari passo con l’approfondi- 

mento di temi di storia etico-politica, dî estetica e di linguistica. E 

l’esemplificazione potrebbe agevolmente continuare. Ma la connessio- 

ne con altri campi culturali non è soltanto un dato biografico; essa 

è pure una dimensione intrinseca dello storicismo contemporaneo. 

Da un lato, infatti, la consapevolezza del fondamentale carattere 

storico dell’uomo e della realtà sociale ha condotto all’analisi dei 

momenti decisivi della storia culturale europea, nel duplice intento 

di delineare — secondo il programma indicato da Dilthey — la vicen- 

da dello « spirito europeo » e di porre in luce le relazioni reciproche 

tra settori diversi del processo storico, c contemporaneamente ha 

promosso il ricorso alle prospettive concettuali che erano offerte 

dalle scienze sociali, in particolare dalla sociologia. Dall'altro lato il 

riconoscimento della storicità della filosofia, del suo legame con le 



12 INTRODUZIONE 



altre manifestazioni culturali di un’epoca, della sua dipendenza dai 

risultati della ricerca condotta dalle scienze particolari, ha mostrato 

l'impossibilità di una filosofia che pretenda di configurarsi come 

una forma autosufficiente di sapere, fornita di validità incondi- 

zionata. 


Non meno arduo è discriminare lo storicismo dai diversi indiriz- 

zi della filosofia contemporanea con i quali è quasi sempre intreccia- 

to. Ciò vale sia per il legame con l’idealismo, che risulta essenziale 

al pensiero di Croce (o del suo discepolo inglese R. G. Collingwood), 

sia per il nesso con l’esistenzialismo o con il marxismo o ancora 

con il pragmatismo, allorché la problematica storicistica s’innesta su 

una piattaforma dottrinale diversa e rispondente ad altri interessi. È 

vero che Croce si è proposto — fin dal saggio Ciò che è vivo e ciò 

che è morto nella filosofia di Hegel (1906) e dalla Logica come 

scienza del concetto puro (1909) — di differenziare la propria impo- 

stazione filosofica da quella di Hegel, eliminando la distinzione 

hegeliana tra idea, natura e spirito e risolvendo quindi i primi due 

momenti nel terzo, che viene così fatto coincidere con la realtà 

intera, in maniera da identificare il processo di realizzazione dello 

spirito con lo sviluppo storico e da interpretare ogni fatto come 

fatto storico. Cionondimeno il crociano «storicismo assoluto » si 

configura come una ripresa intenzionale della concezione della sto- 

ria formulata dall’idealismo del primo Ottocento e soprattutto da 

Hegel, dal quale deriva il postulato fondamentale della razionalità 

dello sviluppo storico e l'affermazione del suo carattere progressivo. 

Del resto, la stessa qualificazione di «storicismo » è stata adottata 

da Croce molto tardi, nel corso degli anni ’30, durante il trapasso 

dal « sistema » della filosofia dello spirito alla posizione de La storia 

come pensiero e come azione e degli scritti successivi: il saggio /! 

concetto della filosofia come storicismo assoluto è, difatti, del 1939. 

Nel pensiero di Croce lo storicismo sorge quindi sulla base di 

un’impostazione chiaramente idealistica, ed è inseparabile da que- 

sta. La stessa definizione della filosofia come metodologia della 

storiografia ha ben poco in comune con una concezione metodologi- 

ca della filosofia (quale si è sviluppata partendo da una prospettiva 

neocriticistica), ma poggia su una concezione idealistica — anzi, 

neoidealistica — del sapere la quale nega il carattere conoscitivo 

delle scienze naturali, interpretandole come prodotto della forma 

economica dello spirito, e perciò riduce la conoscenza a conoscenza 



INTRODUZIONE 13 



storica, vale a dire a conoscenza dello sviluppo dello spirito nella 

serie infinita delle sue manifestazioni finite. Anche in vari altri 

autori lo storicismo si presenta come un approccio ai problemi della 

storia e della conoscenza storica condizionato dall’assunzione di 

presupposti propri di orientamenti di pensiero eterogenei, ed è 

lungi dal configurarsi in modo autonomo. 


Per esempio, la concezione heideggeriana della storicità dell’esser- 

ci è strettamente dipendente dalla teoria diltheyana della storicità; 

ma questa viene ricondotta a un quadro ontologico del tutto estra- 

neo alla filosofia di Dilthey, risolvendosi in un elemento dell’analiti- 

ca esistenziale di Sein und Zeit. Analogamente, se è vero che Karl 

Jaspers si è richiamato con insistenza a Max Weber (fino ad asseri- 

re che egli « non ha insegnato una filosofia, ma era una filosofia », 

anzi la filosofia per eccellenza del suo tempo), la problematica storici- 

stica occupa un posto del tutto secondario nell’esistenzialismo jasper- 

siano. Né le cose stanno in maniera diversa nel caso del marxismo. 

Molte delle categorie interpretative di Geschichte und Klassenbe- 

wusstsein, in primo luogo quella di « possibilità oggettiva », sono di 

origine weberiana; ma il rinnovamento del marxismo intrapreso da 

Lukdcs poggia non già su un’accettazione dell’impostazione metodo- 

logica di Weber, bensì su uno sforzo di replica a Weber, cioè sullo 

sforzo di sottrarre il materialismo storico alla critica a cui egli lo 

aveva sottoposto. Anche la recezione di posizioni storicistiche nel 

clima filosofico-culturale francese degli anni ’60, caratterizzato in 

misura prevalente dall'incontro tra esistenzialismo e marxismo — 

basti pensare alla Critigue de la raison dialectigue di Jean-Paul 

Sartre, apparsa nel 1960 — non può certo essere scambiata per una 

forma vera e propria di storicismo. Al di fuori della cultura euro- 

pea, poi, l'affermazione dell'identità tra esperienza e storia e del 

carattere problematico dell’esperienza in quanto sequenza di eventi 

storici, formulata da John Dewey in Experience and Nature (1925), 

sviluppa in modo originale temi propri del pragmatismo americano, 

€ può caso mai essere ricondotta a una matrice hegeliana filtrata 

attraverso un’interpretazione naturalistica, non già a una piattafor- 

ma storicistica. In tutti questi casi ci troviamo di fronte a forme 

d'incontro tra storicismo e altri indirizzi filosofici (se non addirittu- 

ra, come nell’ultimo, a un'affinità piuttosto remota), in cui esso 

perde inevitabilmente qualsiasi specificità. 



14 INTRODUZIONE 



Se si vuole individuare, nell’ìmbito della filosofia contempora- 

nea, un movimento storicistico che abbia proprie caratteristiche di- 

stintive, e che non sia subordinato ad altre impostazioni teoriche, 

occorre cercarlo nella cultura tedesca degli ultimi due decenni del 

secolo xix e dei primi decenni di questo secolo, fino alla vigilia 

della seconda guerra mondiale. Soltanto entro tale contesto si può 

legittimamente parlare di uno storicismo contemporaneo, cioè di 

uno storicismo che non sia la ripresa o la rielaborazione di una 

concezione della storia formulata nel primo Ottocento (quale quella 

hegeliana), e che d'altra parte non costituisca un semplice elemento 

di una costruzione filosofica fondata su presupposti eterogenei. Con 

ciò non si vuol dire affatto che esso esaurisca il panorama dello storici- 

smo nella filosofia contemporanea, in cui rientrano a buon diritto 

anche le altre forme a cui si è accennato; si vuol piuttosto afferma- 

re che è la sola forma di storicismo che possegga una sua caratterizza- 

zione autonoma rispetto ad altri indirizzi filosofici, che cioè sia sorto 

fin dall’inizio come un movimento indipendente. Anche se lo storici- 

smo tedesco appare legato, soprattutto nella sua fase iniziale di svilup- 

po, con il neocriticismo sviluppatosi — a partire dal 1860 — sulla base 

del programma di « ritorno a Kant» avanzato da Kuno Fischer, da 

Otto Liebmann e da Hermann von Helmbholtz, il suo rapporto con 

questo è un rapporto non tanto di derivazione o di dipendenza, 

quanto di differenziazione, che comporta quindi un crescente distac- 

co dai presupposti e dall'impostazione gnoseologica del neocritici- 

smo. E in seguito, già a partire dal primo decennio di questo 

secolo, tale legame appare come un'eredità del passato, che sopravvi- 

ve soltanto in figure piuttosto marginali del movimento storicistico 

(per esempio nel vecchio Rickert). Perciò la scelta presentata in 

questo volume si limita ai principali esponenti dello storicismo 

tedesco, lasciando da parte autori che trovano la loro collocazione 

primaria in altri orientamenti della filosofia contemporanea. 



II. 



Lo storicismo tedesco contemporaneo prende le mosse dal dibatti- 

to metodologico sulla conoscenza storica, cioè dalla discussione sul 

carattere peculiare, sul metodo e sull’oggetto delle discipline che stu- 

diano l’uomo e la realtà sociale nella loro dimensione storica. Alla 

base di tale dibattito c'è chiaramente un'esigenza critica in senso kan- 



INTRODUZIONE 15 



tiano, vale a dire l'esigenza di determinare le condizioni che rendono 

possibile la conoscenza e che ne garantiscono la validità. Se quest’esi- 

genza è comune pure al movimento neocriticistico nelle sue varie ma- 

nifestazioni, è invece caratteristico dello storicismo il proposito di 

estendere l’ìmbito dell’indagine critica a un campo del sapere che era 

rimasto estraneo sia alla considerazione di Kant sia agli interessi 

propri del neocriticismo, Agli occhi di Dilthey, ma anche di Windel- 

band o di Rickert o di Simmel, il limite della critica kantiana 

consiste nel fatto che essa si riferisca esclusivamente alle scienze 

naturali, alla conoscenza fisico-matematica nella sistemazione datane 

da Newton, senza rendersi ancora conto che un analogo problema 

di fondazione critica si pone pure per la conoscenza scientifica 

dell’uomo e del mondo umano, considerato nel suo sviluppo stori- 

co. Questo limite trova certamente una base di giustificazione nella 

situazione del sapere all’epoca di Kant, cioè in un’epoca in cui le 

scienze storico-sociali facevano appena i primi passi. Ma a distanza 

di un secolo — il primo (e unico) volume dell’Einleitung in die 

Geisteswissenschaften di Dilthey compare nel 1883, poco più di 

cent'anni dopo la pubblicazione della Kritik der reinen Vernunft 

— e cioè dopo i progressi decisivi che queste discipline hanno 

compiuto nella prima metà dell’Ottocento, soprattutto ad opera del- 

la scuola storica, esso risulta ormai privo di fondamento. Dilthey si 

trova dinanzi a un edificio concettuale nuovo, che si è venuto in 

larga misura costituendo dopo Kant, e che non trova posto nel 

quadro categoriale della « critica della ragion pura »; perciò si propo- 

ne di affiancare ad essa una «critica della ragione storica », vale 

a dire un'indagine concernente le condizioni di possibilità della 

conoscenza storica. Al problema kantiano della possibilità della natu- 

ra (e della conoscenza scientifica della natura) fa riscontro il proble- 

ma della possibilità della storia (e delle scienze storico-sociali). Questa 

è l'ispirazione comune, pur nella diversità di formulazioni e anche di 

presupposti, alla prima fase di sviluppo del movimento storicistico. 


Su tale base Io storicismo prende posizione contemporaneamente 

nei confronti del positivismo e del neocriticismo. Sorto in un perio- 

do in cui il positivismo veniva diffondendosi anche nella cultura 

tedesca, soprattutto nell’àmbito degli studi psicologici e psico-sociolo- 

gici — particolarmente importante è, a questo proposito, l’opera di 

Wilhelm Wundt — esso accoglie l’esigenza positivistica di un’anali- 

si scientifica dei fenomeni del mondo umano, e quindi il rifiuto di 



16 INTRODUZIONE 



una considerazione metafisica dell’uomo e della storia. Da ciò la 

sua diffidenza, se non l'ostilità, nei confronti della concezione idea- 

listica della storia; da ciò la polemica sotterranea ma non meno 

accentuata verso Hegel e la visione hegeliana del processo storico 

come realizzazione progressiva dello « spirito del mondo », che sol- 

tanto molto più tardi cederà il posto a un tentativo di recupero 

dell'eredità dell’idealismo — condotto da Dilthey sul terreno storio- 

grafico — attraverso lo studio degli scritti giovanili di Hegel, e da 

Windelband piuttosto sul piano teorico, attraverso la proclamazione 

della necessità di un «rinnovamento dell’hegelismo » (come suona 

il titolo di un saggio del 1910). Ma lo storicismo respinge, al tempo 

stesso, la riduzione dello spirito a natura che gli sembra implicita 

nel positivismo classico; e soprattutto respinge il tentativo di ricon- 

durre la conoscenza dell’uomo e del mondo umano a un modello 

di spiegazione comune a tutto il sapere, che comportava l’assimilazio- 

ne delle scienze storico-sociali al procedimento delle scienze natura- 

li. Il distacco dal positivismo — nella versione che ne avevano dato 

Auguste Comte nel Cours de philosophie positive o John Stuart Mill 

nel System of Logic, Ratiocinative and Inductive — si esprime 

proprio nella rivendicazione dell'autonomia metodologica della cono- 

scenza storica, nell’affermazione della sua irriducibilità alla conoscen- 

za della natura, e quindi nella tesi di una fondamentale dicotomia 

del sapere: scienze della natura e scienze dello spirito in Dilthey, 

scienze nomotetiche e scienze idiografiche in Windelband, conoscen- 

za naturale e « scienze storiche della cultura » in Rickert. Il model- 

lo milliano di spiegazione causale è valido, secondo Dilthey, per le 

scienze della natura: così per Windelband e per Rickert la conoscen- 

za è, e dev'essere, orientata in vista della determinazione di leggi 

generali organizzate in un sistema di leggi, a cui possano venir 

ricondotti i fenomeni. Ma quel modello non è applicabile alla 

conoscenza dell’uomo e della realtà, che ha per Dilthey un diverso 

fondamento e si serve di altre categorie; e le leggi non trovano 

diritto di cittadinanza nelle scienze storico-sociali, o per lo meno 

non possono costituirne il fine ultimo. 


Ma attraverso la critica al positivismo si compiva anche un netto 

distacco dalle prospettive neocriticistiche. Come nella Kritik der 

retnen Vernunft, così nelle opere dei neocriticisti della fine dell’Otto- 

cento — in particolare in quelle della scuola di Marburg, rappresen- 

tata soprattutto da Hermann Cohen e da Paul Natorp — non 



INTRODUZIONE 17 



trovava posto la dicotomia del sapere che il nascente movimento 

storicistico sosteneva: nella permanente identificazione della cono- 

scenza con la conoscenza fisico-matematica questo non poteva non 

scorgere una sostanziale incapacità di adeguazione al mutamento di 

orizzonte scientifico intervenuto dopo Kant. Anche in Windelband 

e in Rickert, che rimangono più legati all’impostazione gnoseologi- 

ca generale del neocriticismo, questa divergenza è esplicita: a un 

secolo di distanza dalla critica kantiana il compito della teoria della 

conoscenza è quello di estendere il proprio ambito alla conoscenza sto- 

rica, determinando anche per questa il fondamento che ne garantisce 

la validità. Ben più nettamente, nell’Einleitung in die Geisteswissen- 

schaften Dilthey si propone di fare per le scienze storico-sociali ciò 

che Kant aveva fatto per le scienze della natura; e, al pari di Kant, 

muove dal riconoscimento dell’esistenza di un complesso di discipli- 

ne organizzate, dinanzi alle quali non ha senso chiedersi se siano 

valide oppure no, ma occorre invece andare alla ricerca del fonda- 

mento della loro validità, cioè chiedersi come siano possibili e di 

quali princìpi si avvalgono nell’organizzare concettualmente il dato 

empirico. È un decennio dopo, in Die Probleme der Geschichtsphilo- 

sophie (1892), Simmel affronterà il compito di determinare le catego- 

rie della conoscenza storica e i suoi rapporti con le scienze sociali. 

Tuttavia l'allargamento o — se si vuole — il completamento della 

teoria della conoscenza formulata da Kant costituisce soltanto un 

aspetto, e forse neppure il più importante, del distacco dal neocritici- 

smo. L'altro aspetto, diversamente presente nei singoli autori, riguar- 

da la stessa impostazione gnoseologica del neocriticismo, vale a dire 

il tipo e i presupposti dell'indagine critica. 


Come si è accennato, Windelband e Rickert rimangono sostanzial- 

mente fedeli a questa impostazione: nei primi saggi teorici windel- 

bandiani — a partire da Was ist Philosophie? e da Normen und 

Naturgesetze (entrambi del 1882) e dagli altri scritti che compongo- 

no la prima edizione dei Pràludien (apparsa l’anno successivo) — il 

distacco dal neocriticismo avviene nella direzione di una teoria dei 

valori che attribuisce alla filosofia il compito di individuare i princìpi 

a priori dell'attività umana in tutti i campi, e quindi anche nell’ambi- 

to conoscitivo, e che li interpreta appunto come « valori » forniti di 

una loro intrinseca validità indipendente dall’esperienza, sulla base 

della distinzione tra essere e dover essere, tra la necessità empirica 

(propria delle leggi naturali, oggetto della scienza) e la validità ideale 



2. STORICISMO TEDESCO. 



18 INTRODUZIONE 



delle norme (di esclusiva pertinenza della filosofia). Il soggetto del co- 

noscere rimane quindi il soggetto trascendentale, capace di pervenire 

a una verità incondizionata sulla base della conformità alle norme 

proprie dell’attività conoscitiva; rimane il soggetto trascendentale 

sottratto — come Rickert ribadisce in Die Grenzen der naturwissen- 

schaftlichen Begriffsbildung (1896-1902) — a ogni determinazione 

empirica. La conoscenza storica trova il fondamento della propria 

validità, di una validità altrettanto universale e necessaria di quella 

della conoscenza naturale, nella presenza di valori incondizionati 

che costituiscono i princìpi della sua elaborazione concettuale. Le 

cose stanno ben diversamente per Dilthey, e anche per Simmel. 

Entrambi respingono infatti il postulato di un soggetto trascendenta- 

le per rivendicare il carattere empirico dell'io che indaga la storia; 

perciò respingono anche l’attribuzione alla conoscenza storica di 

una validità indipendente dall'esperienza. Per Dilthey la conoscen- 

za — quella delle scienze dello spirito ancor più di quella del- 

le scienze della natura — è inseparabile dal complesso della vita 

umana, è cioè una funzione dell’esistenza concreta dell’uomo in 

quanto individuo empirico e della situazione storico-culturale in 

cui egli vive: di conseguenza la validità di ogni sapere è condi- 

zionata dalla struttura complessiva della coscienza, dal suo ra- 

dicarsi nell’esperienza vissuta. Perciò negli anni ’go, e ancora nei 

suoi ultimi scritti, Dilthey sarà condotto ad affrontare appunto 

l’analisi di questa struttura, nell'intento di mostrare come da essa 

scaturisca il procedimento conoscitivo proprio delle scienze storico-so- 

ciali e come in essa siano presenti le condizioni che ne fanno una 

forma oggettivamente valida di sapere. Nello stesso periodo Simmel 

opera una netta riduzione della conoscenza storica alla comprensio- 

ne psicologica, assumendo così un punto di vista radicalmente oppo- 

sto a quello del neocriticismo: dal momento che i fenomeni a cui si 

riferisce tale conoscenza hanno la loro radice nella vita psichica 

degli individui, essa deve sempre risalire da certi dati esterni, 

oggetto di osservazione empirica, all’interiorità spirituale degli indivi- 

dui che in questi si manifesta. La conoscenza storica si riassume 

quindi nell'atto psicologico dell’intendere, cioè in un atto che com- 

porta la proiezione di un processo psichico vissuto dal soggetto 

conoscente a un'altra personalità, alla quale esso viene attribuito. E 

le categorie di cui si avvale nell'organizzare concettualmente il dato 

empirico non sono princìpi 4 priori, eterogenei a questo dato, ma 



INTRODUZIONE 19 



sono semplici presupposti psicologici, forniti di una validità pura- 

mente ipotetica: anch’esse derivano, seppure in maniera indiretta, 

dall'esperienza. 


AI di là del limite rappresentato dall’esclusiva considerazione 

delle scienze naturali, l'impostazione gnoseologica del neocriticismo 

appariva perciò scarsamente idonea al compito di fondazione della 

conoscenza storica, che il movimento storicistico si proponeva. Il 

mutamento di àmbito dell’indagine critica trascinava con sé anche 

un mutamento dei presupposti di quest’'indagine. E qui entra in 

gioco un’altra componente, non meno essenziale, dello storicismo 

tedesco: il richiamo all’opera della scuola storica, alla quale viene 

attribuito — secondo le parole di Dilthey — il merito di una 

« definitiva costituzione della scienza storica e, mediante questa, delle 

scienze dello spirito ». Si può anzi rilevare una correlazione precisa 

tra tale richiamo e il distacco dal neocriticismo. In Windelband e 

in Rickert, che accolgono l'impostazione gnoseologica del neocritici- 

smo, l'eredità della scuola storica è sostanzialmente assente: anche 

quando, nel primo decennio del Novecento, essi cercheranno nel 

passato le premesse di una concezione della storia coerente con la 

teoria dei valori, queste saranno rintracciate piuttosto nell’orienta- 

mento storico dell’idealismo post-kantiano, nella visione storica del- 

la realtà presente nei successori di Kant e particolarmente in Hegel. 

In Dilthey, invece, l’abbandono dei presupposti neocriticistici si 

accompagna alla consapevole recezione dei risultati e della stessa 

impostazione di ricerca della scuola storica. Tra questa e il program- 

ma di una «critica della ragione storica » non esiste, per Dilthey, 

una soluzione di continuità: lo storicismo accoglie il lavoro compiu- 

to dalla scuola storica e il suo edificio concettuale per indagarne 

criticamente le condizioni di possibilità, in maniera analoga a quel- 

la in cui Kant si era rifatto alla sistemazione newtoniana. Dilthey 

compie così una scelta esplicita tra le due grandi direzioni di 

sviluppo della concezione della storia che si possono individuare 

nella cultura tedesca della prima metà del secolo — quella rappresen- 

tata dall’idealismo post-kantiano, che era culminata nella filosofia 

della storia di Hegel, e quella rappresentata dalla scuola storica, che 

trova il suo approdo nella Weltgeschichte di Leopold von Ranke; 

ed è una scelta in favore della seconda, cioè opposta alla scelta di 

Windelband e di Rickert. Tuttavia il richiamo all'opera della scuo- 

la storica non va disgiunto da uno sforzo diretto a metterne tra 



20 INTRODUZIONE 



parentesi i presupposti più tipicamente romantici. Nello stesso mo- 

do in cui recupererà in seguito il concetto hegeliano di spirito 

oggettivo, ma interpretandolo come il prodotto dell’oggettivazione 

della vita, cioè come il complesso delle manifestazioni dell’attività 

umana nel mondo sensibile, fin dagli scritti precedenti all’Einlei- 

tung in die Geisteswissenschaften Dilthey lascia cadere la nozione 

di « spirito del popolo » di cui Savigny e altri esponenti della scuola 

storica si erano serviti per indicare il principio creativo unitario 

della vita di un popolo, considerata nel suo sviluppo storico. E 

anche l’individualità di ogni epoca storica, lungi dall’esprimere — 

come per Ranke — il suo rapporto diretto con Dio, verrà a designa- 

re, nella fase conclusiva del pensiero diltheyano, il suo carattere di 

autocentralità, vale a dire l'orizzonte entro il quale si collocano 

tutte le manifestazioni culturali, politiche, sociali di un’epoca, deri- 

vando da esso il loro significato specifico. 


Polemica contro il positivismo e contro il « riduzionismo » meto- 

dologico implicito nell’assunzione di un modello unitario di spiega- 

zione dei fenomeni; distacco dal neocriticismo e dalla sua stessa 

impostazione gnoseologica; richiamo all’opera della scuola storica, 

ma contemporaneo abbandono dei suoi presupposti romantici — que- 

ste sono le coordinate del movimento storicistico nella sua prima fase 

di sviluppo. E in relazione ad esse si determina la posizione che i 

principali esponenti dello storicismo assumono nel tentativo di perve- 

nire a una fondazione critica della conoscenza storica. La stessa 

polemica tra Dilthey e Windelband, che ha inizio nel 1894, dev’esse- 

re collocata su questo sfondo. 


La rivendicazione dell’autonomia della conoscenza storica si con- 

figura, in Dilthey, nella forma di una distinzione tra scienze della 

natura e scienze dello spirito. Fin dal 1875, nel saggio Uber das 

Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der 

Gesellschaft und dem Staat, Dilthey aveva sostenuto il carattere 

peculiare di queste discipline e l’inapplicabilità al loro sviluppo 

della legge di progresso scientifico enunciata da Comte nel Cours 

de philosophie positive. Da tale punto di vista le scienze dello spirito 

costituiscono una totalità caratterizzata — in contrapposizione alle 

scienze della natura — dall’appartenenza del soggetto conoscente allo 

stesso mondo, cioè al mondo umano, che è oggetto della loro indagi- 

ne. La distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito è 

quindi fondata, in ultima analisi, su un diverso rapporto del sogget- 



INTRODUZIONE 21 



to conoscente con il loro oggetto: un rapporto di estraneità nel 

primo caso, un rapporto dall’interno — e quindi di fondamentale 

identità — nel secondo caso. Da questa differenza derivano le varie 

antitesi mediante le quali Dilthey ha cercato, nell’Einleitung in die 

Geisteswissenschaften, di definire la fisionomia rispettiva delle scien- 

ze della natura e delle scienze dello spirito. Dal punto di vista 

dell’oggetto, le prime studiano una realtà esterna all’uomo, mentre 

le seconde si riferiscono al mondo umano considerato nella sua 

dimensione storica. Dal punto di vista della « fonte » da cui provie- 

ne il dato empirico, le prime muovono dall’esperienza esterna, cioè 

dall’osservazione sensibile, mentre le seconde si radicano nell’espe- 

rienza vissuta che l’uomo ha di sé, della propria vita interiore e dei 

propri rapporti con gli altri. Dal punto di vista del procedimento, le 

prime tendono a fornire una spiegazione causale dei fenomeni, 

mentre le seconde si propongono di «intenderli », avvalendosi di 

categorie eterogenee a quelle della conoscenza naturale. Così caratte- 

rizzato, l’edificio delle scienze dello spirito si presenta come un 

complesso di discipline che abbracciano lo studio dell’individuo al 

pari di quello della società, l’analisi delle strutture del mondo 

umano (sistemi di cultura e sistemi di organizzazione esterna della 

società) al pari dell’analisi del suo sviluppo storico, cioè delle sue 

varie epoche. « Universale » e « particolare », studio comparativo 

delle uniformità presenti nella struttura psichica o nella struttura 

del mondo umano e studio delle sue manifestazioni singole, con- 

siderate nella loro individualità, costituiscono perciò i due scopi 

conoscitivi, tra loro inscindibili, delle scienze dello spirito. 


Proprio contro questa conclusione si rivolge la polemica di 

Wildelband, allorché egli affronta, undici anni dopo — nel saggio 

Geschichte und Naturwissenschaft (1894) — il problema della cono- 

scenza storica. Anche Windelband intende garantire l’autonomia 

della conoscenza storica rispetto alla scienza naturale, ma il criterio 

di distinzione tra di esse viene cercato sul terreno puramente metolo- 

logico, vale a dire nella diversità del loro orientamento. Da un lato 

vi sono scienze che mirano alla costruzione di leggi generali (le 

scienze nomotetiche), dall’altro vi sono invece scienze che mirano 

alla determinazione della fisionomia di un fenomeno nella sua 

individualità (le scienze idiografiche). Le prime costituiscono, nel 

loro insieme, la conoscenza naturale; le seconde costituiscono la 

conoscenza storica. Una distinzione siffatta risulta perciò indifferen- 



22 INTRODUZIONE 



te al carattere « naturale » o « spirituale » dei fenomeni studiati, su 

cui aveva insistito Dilthey; anzi, la distinzione diltheyana tra scien- 

ze della natura e scienze dello spirito non poteva non apparire, agli 

occhi di Windelband, come l’eredità di un’antitesi metafisica. Le 

scienze naturali sono tali non già in quanto studino fenomeni 

ontologicamente distinti da quelli spirituali, ma in quanto sono 

orientate verso la conoscenza di rapporti generali, esprimibili sotto 

forma di leggi; e la conoscenza storica si differenzia da esse in 

quanto cerca in ogni fenomeno ciò che gli è proprio, vale a dire la 

sua individualità. 


Quando Windelband criticava il criterio di distinzione formula- 

to da Dilthey, questi era ormai impegnato in uno sforzo di appro- 

fondimento della posizione dell’Einleitung in die Geisteswissenschaf- 

ten. In un saggio apparso nello stesso anno, cioè nelle Ideen dider cine 

beschreibende und zergliedernde Psychologie (1894), egli muoveva 

dal rapporto tra scienze dello spirito ed esperienza vissuta per 

affrontare l’analisi della struttura della vita psichica: se il compito 

di queste discipline è un compito non già di spiegazione, ma di 

comprensione dei fenomeni, e se la comprensione riposa sulla cono- 

scenza che l’uomo ha di sé, ossia sull’introspezione, allora lo studio 

di tale struttura assume un'importanza centrale per la fondazione 

delle scienze dello spirito. L'analisi della struttura della vita psichi- 

ca, condotta dalla psicologia, viene perciò a coincidere con l’indagi- 

ne critica delle condizioni di possibilità delle scienze dello spirito. 

Dilthey perviene così — in significativa consonanza con le tesi 

espresse due anni prima da Simmel — a privilegiare la psicologia 

come scienza «fondamentale », facendone la base e il punto di 

partenza di ogni conoscenza dell’uomo e del mondo umano. Ma la 

psicologia capace di assolvere questa funzione non è la psicologia 

associazionistica della tradizione herbartiana, diffusa nella cultura 

tedesca di fine Ottocento, che Dilthey respinge in quanto « esplicati- 

va e costruttiva»: è una nuova psicologia « descrittiva e analitica » 

che deve porre in luce la struttura della vita psichica, analizzarne i 

diversi elementi e i loro rapporti, senza pretendere di offrirne una 

spiegazione che avrebbe inevitabilmente carattere naturalistico. 


L'attribuzione alla psicologia di un compito di fondazione criti- 

ca era esposta alle obiezioni di Windelband in misura ancora mag- 

giore di quanto non lo fossero le formulazioni dell’Einleitung in 

die Geisteswissenschaften. Di ciò Dilthey era consapevole: e difatti 



INTRODUZIONE 23 



egli abbandonerà ben presto tale strada, per affrontare direttamente 

la polemica con Wildelband nei Beitràge zum Studium der Indivi- 

dualitit (1895-96). Nel respingere la distinzione windelbandiana tra 

scienze nomotetiche e scienze idiografiche Dilthey è condotto non 

soltanto a lasciar cadere la pretesa di assegnare alle scienze dello 

spirito un fondamento psicologico, ma anche ad approfondire l'anali- 

si del loro procedimento di ricerca. Se nell’Einlestung in die Geistes- 

wissenschaften uniformità e individualità rappresentavano due aspet- 

ti distinti della struttura del mondo umano, ai quali corrispondeva- 

no due scopi conoscitivi diversi delle scienze dello spirito, ora il 

secondo termine acquista un’importanza preminente. Il problema 

centrale dell'analisi metodologica diltheyana diventa quello del sorge- 

re dell’individuazione sulla base dell’uniformità, vale a dire del 

configurarsi in forma singolare di fenomeni che pur presentano 

caratteristiche analoghe. Dilthey lo risolve inserendo tra uniformità 

e individuazione un termine medio, il «tipo», che costituisce al 

tempo stesso l’elemento comune a una molteplicità di fenomeni e la 

loro norma intrinseca. L’uniformità deriva dal legame con la realtà 

naturale, con il mondo fisico e biologico che condiziona il sorgere 

dei fenomeni spirituali; sulla sua base si realizza l'individuazione, 

resa possibile da un insieme di forme fondamentali che sono appun- 

to i vari tipi di questi fenomeni. Il compito delle scienze dello 

spirito viene riposto non più nello studio separato dell’uniformità e 

dell’individuazione, ma nello studio del loro rapporto: ma in tal 

modo il tipo diventa il termine di riferimento del processo dell’inten- 

dere, il quale cessa di identificarsi con l’introspezione — o di essere 

riconducibile ad essa — per configurarsi soprattutto come compren- 

sione degli altri individui e delle loro manifestazioni di vita. Il 

procedimento delle scienze dello spirito viene quindi a coincidere 

con la comprensione, vale a dire con la «riproduzione» di stati 

interiori altrui, i quali vengono « rivissuti » dall’individuo sulla ba- 

se della propria esperienza. Alla distinzione tra conoscenza delle 

leggi e conoscenza dell’individuale, formulata da Windelband, Dil- 

they contrappone pertanto l’antitesi tra spiegazione causale e com- 

prensione; ma all’interno di questa impostazione confluisce una nuo- 

va esigenza, quella di affermare il carattere individuale — in ultima 

analisi — del mondo umano. 


Spetterà però a un allievo di Windelband, Heinrich Rickert, 

concludere, per quanto provvisoriamente, questo dibattito in Die 



24 INTRODUZIONE 



Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung e nella contem- 

poranea, più breve trattazione di Kulturwissenschaft und Naturwis- 

senschaft (1899): due opere scolastiche che avranno però larga fortu- 

na, e che saranno più volte ripubblicate con modifiche e ampliamen- 

ti (di particolare rilievo saranno, per i Grenzen, la seconda edizione 

del 1913 e la terza del ’21). Rickert riprende la distinzione windelban- 

diana, cercando di ricondurla a un quadro sistematico. Il procedi- 

mento della conoscenza storica e la sua autonomia vengono « dedot- 

ti» attraverso un'analisi dei limiti propri della scienza naturale, 

cioè mostrando che l’ideale di quest’ultima — l'ideale di un’integra- 

le spiegazione meccanica della realtà, da conseguire mediante la 

costruzione di un sistema di leggi di sempre maggiore generalità — 

si lascia sfuggire l’individualità di ogni fenomeno nella sua immedia- 

tezza empirica. Da ciò la necessità di un’altra forma di conoscenza 

che si riferisca proprio a questa individualità, e che risulta irriducibi- 

le alla scienza naturale e al suo tipo di elaborazione concettuale del 

dato. In questa prospettiva la distinzione tra le due forme di 

conoscenza — scienza naturale e conoscenza storica — rimane fonda- 

ta su una differenza di metodo: la medesima realtà può essere 

oggetto di entrambe, indipendentemente dall’eventuale determinazio- 

ne ontologica dei fenomeni, ed anzi si presenta come natura quando 

è considerata in riferimento a leggi generali e come storia quando è 

considerata in riferimento al particolare. Ma l’individualità storica 

non coincide con l'immediatezza empirica del dato; anch’essa è 

infatti il risultato di un procedimento di elaborazione concettuale, 

sebbene differente da quello della scienza naturale. Rickert indica 

la base di tale procedimento nella relazione ai valori, vale a dire nel 

rapporto con valori forniti di validità incondizionata, i quali presie- 

dono alla scelta del dato empirico e alla costruzione un «indivi- 

duo » storico. L’individualità di un oggetto risulta così fondata sul 

suo riferimento ai valori, che ne costituisce il significato. In tal 

modo la conoscenza storica viene a differenziarsi dalla scienza natu- 

rale anche ‘per quanto riguarda il campo di ricerca; e questo è 

identificato con la «cultura», cioè con una realtà che abbraccia 

tutti i possibili fenomeni a cui viene attribuito un significato in 

virtù della relazione a qualche valore. 


Il dibattito metodologico degli ultimi due decenni dell’Ottocento 

mette perciò capo a un approfondimento di rilievo delle posizioni 

iniziali degli studiosi che vi hanno preso parte. Dinanzi alla critica 



INTRODUZIONE 25 



di Windelband, Dilthey è condotto ad accentuare l’importanza del- 

l'individualità e a riformulare la distinzione tra scienze della natura 

e scienze dello spirito nei termini di un’antitesi tra spiegazione e 

comprensione, dalla quale prenderà le mosse l’elaborazione conclusi- 

va del suo pensiero, contenuta negli scritti del periodo 1905-1911. 

D'altra parte la distinzione enunciata da Windelband nel °94 trova 

in Rickert uno sviluppo sistematico nell’ambito della teoria filosofi- 

ca dei valori; e in questo quadro Rickert è costretto a riconoscere 

all’antitesi tra scienza naturale e conoscenza storica anche una 

dimensione oggettiva, che il suo maestro aveva inteso escludere. 

Anzi, la conoscenza storica risulta nient'altro che il complesso delle 

« scienze della cultura », cioè il complesso delle discipline che han- 

no per oggetto fenomeni forniti di significato, di un significato che 

può essere stabilito — com’egli dirà nel 1913, richiamandosi esplicita- 

mente a Dilthey — mediante l’«intendere ». Erano così poste le 

premesse perché venisse messa in disparte la questione se l’autono- 

mia della conoscenza storica abbia un fondamento oggettivo oppure 

una base puramente metodologica, mentre d’altra parte nuovi proble- 

mi, suscitati dal costituirsi di nuove discipline e dall'incontro con 

altri indirizzi di pensiero, si affacciavano ormai all'orizzonte dello 

storicismo tedesco. 



III. 



Quando Dilthey scriveva l’Einleitung in die Geisteswissenschaf- 

ten, la sociologia era ancora una scienza estranea all'ambiente cultu- 

rale tedesco. In un capitolo di quell’opera egli conduce una critica 

radicale dell’impostazione sociologica comtiana, coinvolgendo la so- 

ciologia nella medesima condanna della filosofia della storia. Filoso- 

fia della storia e sociologia rappresentano, ai suoi occhi, due espres- 

sioni di un medesimo atteggiamento metafisico nei confronti del 

processo storico, cioè di un atteggiamento che pretende di fare a 

meno del paziente lavoro delle discipline particolari per attingere di 

colpo la totalità della storia, per determinarne le leggi costitutive, 

le fasi e la direzione di sviluppo. È vero che alla base della filosofia 

della storia c'è una prospettiva teologico-religiosa, esplicita da Agosti- 

no a Bossuet e poi implicita da Vico e da Lessing fino a Hegel, 

mentre la sociologia poggia su una concezione naturalistica; ma 

anch'essa non è altro che una forma di metafisica, e precisamen- 



26 INTRODUZIONE 



te una «metafisica naturalistica della storia» che presuppone la 

« subordinazione dei fenomeni spirituali all'insieme della conoscen- 

za della natura ». Contro la sociologia nella formulazione datane da 

Comte — ma la critica vale, in fondo, per tutta la sociologia 

positivistica — Dilthey fa valere la tesi che il processo storico può 

essere conosciuto soltanto attraverso l’analisi dei suoi diversi aspetti, 

compiuta da una pluralità di discipline particolari, non già attraver- 

so la pretesa illusoria di abbracciarlo nella sua totalità. 


Anche in seguito lo storicismo tedesco manterrà la posizione 

critica verso la sociologia positivistica, enunciata da Dilthey. Ma 

pochi anni dopo, nel 1887, un giovane studioso di formazione 

filosofica, Ferdinand Ténnies, pubblicava un libro destinato a inau- 

gurare un tipo di sociologia svincolato dai presupposti del positivi- 

smo, dal titolo Gemeinschaft und Gesellschaft. Esso si proponeva di 

mostrare l’esistenza di due diverse forme di organizzazione, designa- 

te appunto la prima come « comunità » e la seconda come « socie- 

tà », e fondate rispettivamente su rapporti di carattere organico e su 

rapporti di carattere meccanico tra gli individui che ne fanno parte. 

Attraverso l’analisi comparativa delle due forme di organizzazione 

Tonnies perveniva a delineare due modelli differenti di relazioni 

tra gli uomini e, al tempo stesso, due momenti storicamente successi- 

vi nello sviluppo dell'umanità. Il modello della comunità è quello 

di una relazione organica tra i membri del corpo sociale, la quale 

riposa su un’unità fondamentale delle volontà individuali e si espri- 

me dapprima nell’ambito della parentela, del vicinato e dell’amici- 

zia: è la forma originaria di organizzazione, che comporta il 

possesso e il godimento in comune dei beni, nonché l’azione solida- 

le del gruppo nella difesa come nell’offesa. Il modello della società 

è invece quello di una relazione meccanica, e quindi «arbitraria », 

la quale riposa sull'incontro e sulla somma di volontà individuali 

separate e sulla stipulazione di un contratto che le vincola all’osser- 

vanza di determinate norme: è una forma derivata di organizzazio- 

ne, che si esprime soprattutto nei rapporti di scambio. La comunità 

è universalmente diffusa, e caratterizza in modo esclusivo ogni tipo 

di associazione primitiva: è propria del villaggio, ma si ritrova an- 

che nella città antica e in quella medievale, organizzata sulla base di 

un'economia corporativa. La società è, al contrario, la forma specifica- 

mente capitalistica di associazione tra gli individui: essa è definita 

dalla divisione del lavoro, dall’equivalenza tra lavoro e merce, dalla 



INTRODUZIONE 27 



proprietà privata, dal sorgere di un’economia monetaria, dallo svilup- 

po del capitalismo e dall’allargamento del mercato fino a dimensio- 

ni mondiali. 


In quest’analisi Tònnies proseguiva indubbiamente lo sforzo 

della sociologia positivistica di individuare le caratteristiche struttura- 

li della società industriale moderna, distinguendola dalle precedenti 

forme di organizzazione sociale: sotto tale profilo il suo rapporto 

con Comte (e in qualche misura anche con Spencer) è esplicito, 

ancorché non privo di sostanziali riserve. Ma egli si richiamava 

soprattutto ad altri due filoni culturali, dai quali desumeva gli 

elementi per determinare la fisionomia rispettiva della comunità e 

della società. Nel caratterizzare la comunità egli si rifaceva infatti 

— per il tramite di Otto von Gierke e della sua opera Das deutsche 

Genossenschaftsrecht, apparsa tra il 1868 e il 1881 — alla scuola 

storica: la «comunità » tònnesiana non è altro, in fondo, che la 

trasposizione in termini analitici dell'ideale romantico di una socie- 

tà organica, fondata sull’unità dello « spirito del popolo ». Ma in tal 

modo questo ideale veniva per così dire storicizzato, e le categorie 

di cui la scuola storica si era servita per costruire la propria concezio- 

ne della società venivano utilizzate per definire una forma specifica 

di organizzazione sociale. Nel caratterizzare la società Ténnies si 

rifaceva, assai più che alla sociologia positivistica, per un verso a 

Hobbes e per l’altro verso a Marx. Dal primo egli derivava la 

visione di un’organizzazione su base contrattuale, a cui gli indivi- 

dui partecipano in quanto individui, mossi dalla duplice aspirazione 

alla potenza e al guadagno; dal secondo traeva gli strumenti per 

individuare il contenuto economico della società moderna e per 

identificarla quindi con il capitalismo. Sul rapporto con la scuola sto- 

rica — che tanta importanza riveste in Dilthey — si innestava così 

il riferimento a Marx e alla sua interpretazione della società mo- 

derna come società capitalistica. 


Bisognerà tuttavia attendere l’ultimo decennio del secolo perché 

il materialismo storico, fin allora rimasto un indirizzo « eterodos- 

so» ed emarginato dagli ambienti accademici, entri nella cultura 

tedesca. Nel 1894, annunciando la pubblicazione del terzo e ultimo 

volume di Das Kapital (a cura di Engels), Werner Sombart richia- 

mava gli studiosi tedeschi a una diversa considerazione dell’opera 

di Marx, e insisteva sulla necessità di tener conto dell’analisi che 

questa offriva del processo capitalistico di produzione. E proprio sul 



28 INTRODUZIONE 



terreno dell'interpretazione del capitalismo e della sua struttura eco- 

nomica doveva compiersi l’incontro tra il pensiero marxistico e la 

storiografia economica ufficiale, rappresentata soprattutto dalla suo- 

la di Gustav von Schmoller. In un paese che, seppur parecchi 

decenni dopo l’Inghilterra e anche dopo altre nazioni continentali 

come il Belgio c la Francia, aveva conosciuto un rapido e fiorente 

sviluppo capitalistico — fino a diventare ormai una delle potenze 

dominatrici del mercato mondiale — il problema delle origini del 

capitalismo e dei suoi caratteri distintivi rispetto ad altre forme di 

economia, nonché dei rapporti tra l'economia capitalistica e gli altri 

aspetti fondamentali della società moderna, acquistava un rilievo 

preminente. Ed esso costituirà, all’inizio del nuovo secolo, il terna 

centrale delle maggiori opere di Sombart, a partire da Der moderne 

Kapitalismus (1902), e delle contemporanee ricerche di Max Weber 

sul condizionamento reciproco tra religione e sviluppo economico. 


Nell'ultimo decennio dell’Ottocento lo storicismo tedesco si tro- 

va perciò inserito in un panorama culturale in rapida trasformazio- 

ne. Esso non deve più fare i conti soltanto con l’eredità della scuola 

storica e con l’edificio concettuale che essa aveva costruito, ma ha 

davanti a sé una sociologia che sta sorgendo sulla base di presuppo- 

sti diversi da quelli della sociologia positivistica, ha davanti a sé 

altre scienze sociali che si propongono di sviluppare un’analisi 

empirica di particolari settori della società; e sullo sfondo comincia 

a profilarsi l'ombra scomoda del materialismo storico. Nuovi proble- 

mi si impongono quindi alla sua riflessione: non più quello dell’au- 

tonomia della conoscenza storica e della sua distinzione dalle scien- 

ze della natura — che appaiono ormai cosa acquisita — ma i pro- 

blemi dei rapporti tra la sociologia e le altre discipline, tra le scienze 

sociali e la ricerca storica, tra l’interpretazione economica della 

storia e altre direzioni di analisi. Ad essi rivolge la propria atten- 

zione Georg Simmel, dal saggio Uber soziale Differenzierung (1890) 

al volume Die Probleme der Geschichtsphilosophie (1892) e alla con- 

temporanea, ampia E:nleitung in die Moralwissenschaft (1892-93), 

dalla Philosophie des Geldes (1900) alla Soziologie (1908). 


Simmel muove dal presupposto del compito descrittivo delle 

scienze sociali. In esso si manifesta il suo atteggiamento ambivalen- 

te verso il positivismo, dal quale accoglie il postulato della possibili- 

tà di una descrizione empirica dei fenomeni sociali ma di cui re- 

spinge, al tempo stesso, l’assunzione di una struttura legale della 



INTRODUZIONE 209 



realtà alla quale la conoscenza scientifica debba, in ultima analisi, 

riferirsi. Con ciò Simmel non giunge a negare l’esistenza di una 

struttura del genere, ma la considera inattingibile alla conoscenza, e 

quindi irrilevante. Le leggi dei fenomeni sociali — questa tesi è 

formulata fin dal 1890 — sono leggi non macroscopiche ma micro- 

scopiche, e regolano non già il comportamento e il processo evoluti- 

vo delle varie forme di associazione e di organizzazione, bensì i 

rapporti tra gli individui che ne costituiscono gli elementi ultimi. 

Non esistono quindi o, se anche esistono, non si possono determina- 

re — il che è la medesima cosa — leggi di sviluppo della società in 

quanto tale, considerata nella sua totalità: al massimo, esistono 

leggi psicologiche a cui si conforma l’azione degli individui. All’anti- 

tesi diltheyana tra spiegazione e comprensione Simmel sostituisce 

così la distinzione tra un procedimento esplicativo, fondato su leggi 

generali, e un procedimento rivolto alla descrizione dei fenomeni; e 

questo gli appare l’unico legittimo nell’ambito delle scienze sociali 

come nella ricerca storica. Tuttavia la descrizione non costituisce la 

semplice riproduzione di una realtà oggettivamente sussistente: essa 

comporta un’elaborazione del dato empirico che può avvenire solo 

sulla base di categorie. Queste rappresentano l’elemento formale 

della conoscenza, distinto dal contenuto: la loro funzione è di 

organizzare il dato, e quindi di determinare la direzione di ricerca 

delle varie discipline. Ma l’apriorità delle categorie, la loro differen- 

za rispetto al contenuto della conoscenza, non significa affatto che 

esse siano forme universali e necessarie dell’intelletto: al contrario, 

anch'esse derivano dall'esperienza e sono diverse da una disciplina 

all’altra. Compito dell'indagine critica è perciò quella di individuare 

tali categorie, di stabilirne la funzione, di accertare il modo in cui 

operano nelle varie scienze sociali, attraverso un’analisi del procedi- 

mento concreto € del campo di ricerca di ogni disciplina. 


Simmel ha condotto quest'analisi non tanto in termini generali, 

quanto in riferimento a problemi specifici; né è possibile rintraccia- 

re nelle sue varie opere una linea coerente e unitaria di sviluppo. In 

Die Probleme der Geschichtsphilosophie egli affronta l'esame dei 

rapporti tra psicologia e ricerca storica, cercando di determinare i 

presupposti psicologici sui quali poggia il procedimento di compren- 

sione di quest’ultima, per giungere infine alla negazione del caratte- 

re scientifico delle leggi storiche — a cui viene riconosciuto un 

valore puramente ipotetico e anticipatorio — e al rifiuto dei vari 



30 INTRODUZIONE 



tentativi di scoprire un « senso » della storia scientificamente valido. 

Nell’Einleitung in die Moralwissenschaft egli si propone di dimostra- 

re la possibilità di una conoscenza scientifica della vita morale e di 

individuarne il campo di ricerca, ai confini tra psicologia, scienze 

sociali e ricerca storica. Nella Philosophie des Geldes egli prende in 

considerazione un concetto economico fondamentale, quello di dena- 

ro, per analizzare il processo attraverso il quale il valore economico 

diventa un'entità misurabile e trova quindi la propria unità di 

misura appunto nel denaro. 


Più tardi, nel 1908, Simmel perverrà ad affrontare il problema 

dell'autonomia della sociologia nei confronti delle altre scienze socia- 

li, proponendone una concezione svincolata sia dai presupposti positi- 

vistici sia dall’impostazione storico-tipologica ch’essa aveva trovato 

nell’opera di Tònnies, La concezione simmeliana è fondata sull’af- 

fermazione del carattere puramente formale della sociologia. Dal 

punto di vista del contenuto non è possibile differenziare la sociolo- 

gia dalle altre scienze sociali: i fenomeni che esse studiano sono pur 

sempre i medesimi, e sono riconducibili a processi psichici individua- 

li. Ma la sociologia rappresenta un nuovo tipo di considerazione di 

questi fenomeni, in quanto essa li studia non già come fenomeni 

morali o economici o politici, e via dicendo, bensì nei modi di 

relazione — in certa misura permanenti — tra gli individui, da cui 

hanno origine i processi di « associazione ». La sociologia prescinde 

dal contenuto dei fenomeni sociali, che sono sempre variabili, per 

limitarsi all'analisi delle forme di associazione; essa è la « dottrina 

dell’essere-società dell'umanità ». In altri termini, mentre le singole 

scienze sociali studiano i fenomeni sociali in quanto qualificati nel 

loro contenuto, la sociologia indaga i processi in cui i rapporti 

reciproci tra gli uomini dànno luogo alle strutture della società. Il 

suo oggetto specifico consiste perciò nelle forme di associazione, che 

costituiscono l’elemento formale onnipresente nella vita sociale e 

che, pur essendo anch'esse sottoposte a un mutamento e a una 

trasformazione, posseggono tuttavia un grado di permanenza supe- 

riore al ritmo della vita individuale. 


Quando Simmel pubblicherà la Soziologie, questa disciplina 

avrà ormai trovato una piena legittimazione nella cultura tedesca; e 

lo stesso Dilthey — in contrasto soltanto apparente con la posizione 

assunta nell’Einl/eitung in die Geisteswissenschaften — avrà parole 

di apprezzamento per la prospettiva simmeliana. Nel corso degli 



INTRODUZIONE 3I 



anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo la sociologia aveva 

cercato non soltanto di definire teoricamente il proprio compito e i 

propri metodi, ma si era impegnata in uno sforzo di analisi empirica 

di diversi aspetti della realtà tedesca contemporanea, Molto tempo 

era trascorso da quando Heinrich von Treitschke aveva sbrigati- 

vamente asserito che la conoscenza della società si esaurisce nel- 

la scienza politica, in quanto ogni aspetto della vita sociale è 

riconducibile allo stato: i problemi della struttura economico-so- 

ciale della Germania post-bismarckiana richiedevano un altro tipo 

di considerazione, che era appunto offerto dalla nuova scienza. In 

questo contesto si viene compiendo la formazione di una delle 

più importanti personalità del movimento storicistico, cioè di Max 

Weber. Partito da studi a cavallo tra storia del diritto e storia 

economica, il giovane Weber prende ben presto parte a un'inchiesta 

sulla situazione del lavoro agricolo in Germania, promossa dal 

« Verein fir Sozialpolitik », analizzando — nel volume Die Ver- 

haltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (1892) — 

il processo di trasformazione dell’agricoltura tedesca nelle regioni 

orientali e i problemi, anche politici, che ne derivavano; in seguito 

altri aspetti dell’economia capitalistica contemporanea attraggono la 

sua attenzione, finché nel ’97 una grave crisi nervosa non lo costrin- 

ge a interrompere per vari anni ogni attività. Ma già in questo 

primo, intenso periodo di lavoro intellettuale viene a delinearsi il 

posto centrale che, negli studi successivi di Weber, assumerà il 

problema del capitalismo moderno e della sua individualità storica, 

cioè della sua specificità rispetto alle altre forme di economia. Nel 

medesimo tempo l’emergere di sempre più marcati interessi metodo- 

logici lo spinge a seguire da vicino la discussione sul materialismo 

storico, che proprio verso la metà degli anni ’go si estende dalla 

Germania verso altri paesi europei, e ad avvertire l’esigenza di defi- 

nire il procedimento delle scienze sociali. Così egli si accosta alla pro- 

blematica dello storicismo, al cui sviluppo offrirà poi un contributo 

decisivo agli inizi del nuovo secolo. 



IV. 



Nel 1905, dopo quasi un decennio dedicato prevalentemente 

all'analisi dei principali momenti di sviluppo della cultura moder- 

na, Dilthey riprendeva il progetto di una «critica della ragione 



32 INTRODUZIONE 



storica », formulato nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. 

Egli si rendeva certamente conto — ne sono prova i tentativi 

piuttosto disparati di prosecuzione, compiuti negli anni ’90 — di 

non essere riuscito a realizzare quella fondazione delle scienze dello 

spirito che si era proposto. Anzi, si rendeva anche conto che la 

soluzione prospettata nel 1883 rischiava di vanificare la validità 

oggettiva di tali discipline, riducendole all’immediatezza dell’espe- 

rienza vissuta. Infatti, se le scienze dello spirito hanno la propria 

base nell’esperienza vissuta che l’uomo ha di sé e degli altri, e se la 

comprensione degli altri poggia sulla capacità di «rivivere» gli 

stati interiori altrui — com'era asserito nei Beitràge zum Studium 

der Individualitit — è chiaro che la validità della conoscenza 

storica e delle discipline che la costituiscono rimane confinata al 

piano psicologico. Per dare alle scienze dello spirito un fondamento 

conoscitivo adeguato era necessario abbandonare questo piano, e 

garantire in qualche modo l’oggettività dell’intendere, la partecipabi- 

lità dei suoi risultati. 


Ancora una volta il punto di partenza era offerto dall'analisi 

della struttura della vita psichica, alla quale sono dedicate in massi- 

ma parte le tre Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften 

(1905-10). Ma in quest’analisi Dilthey non soggiace più, come nelle 

Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, alla 

tentazione di risolvere il compito di fondazione critica delle scienze 

dello spirito in una descrizione psicologica del loro procedimento. 

Un’impostazione del genere non poteva ormai non apparirgli inficia- 

ta di psicologismo, cioè di una confusione arbitraria tra determina- 

zione delle condizioni di validità del conoscere e analisi delle sue 

condizioni psichiche; e proprio lo psicologismo era stato sottoposto 

pochi anni prima a una critica spietata da parte di Edmund Hus- 

serl nelle Logische Untersuchungen (1900-1901), l’opera che segna 

l'inizio del movimento fenomenologico. Come aveva rilevato Hus- 

serl, la psicologia è una scienza sperimentale, che non può avanzare 

alcuna pretesa di fondazione; anzi, essa stessa richiede di esser 

fondata nella sua validità, Dilthey, che aveva letto attentamente le 

Logische Untersuchungen, recepisce questa critica: se il punto di 

partenza della fondazione delle scienze dello spirito consiste nell’ana- 

lisi della struttura della vita psichica, essa non è tuttavia riducibile 

a quest’analisi. L'indagine critica concerne la validità delle scienze 

dello spirito: al di là della descrizione delle varie operazioni conosci- 



INTRODUZIONE 33 



tive, sulla cui base si costituiscono le singole discipline, si pone 

appunto un altro problema, quello della fondazione del loro meto- 

do e dei loro risultati. 


In questo contesto anche l’esperienza vissuta viene in qualche 

modo ridimensionata nella sua importanza. Certamente, ogni mani- 

festazione della vita psichica ha la sua radice in essa, cioè nel corso 

ininterrotto dell’ErleZer, nella successione di stati interiori da cui 

questo è formato. Ma l’Erleben possiede una sua struttura, rappre- 

sentata dalla relazione tra atto e contenuto; e dai diversi modi di 

questa relazione sorgono le varie forme di atteggiamento della vita 

psichica, i suoi «sistemi» — cioè l'apprendimento oggettivo, il 

sentimento e la volontà. La conoscenza coincide appunto col primo 

di questi sistemi, nel quale è presente una tendenza verso l’oggetto, 

verso un oggetto concepito — e qui è evidente la suggestione di 

Husserl — come « parzialmente trascendente » rispetto all’esperien- 

za vissuta. Perciò essa si sviluppa su un piano ulteriore rispetto 

all’Erleben: su questo piano sorgono le operazioni comuni a ogni 

specie di apprendimento oggettivo, da quelle elementari (come la 

comparazione, la distinzione, la relazione) a quelle proprie del 

pensiero discorsivo (come la riproduzione memorativa di uno stato 

passato, il rapporto tra espressione e ciò che è espresso, il giudizio, 

il concetto, il sillogismo), e si compie altresì la differenziazione tra i 

metodi delle varie discipline, in particolare tra scienze della natura 

e scienze dello spirito. 


In tale prospettiva Dilthey affronta, nell’ultima delle Studier 

zur Grundlegung der Geisteswissenschaften e, più ampiamente, in 

Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften 

(1910), il duplice problema della delimitazione delle scienze dello 

spirito e della loro fondazione critica, Esso viene impostato indivi- 

duando il fondamento di queste discipline non più nell’esperienza 

vissuta, ma nel nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere 

— comune sia all’introspezione sia alla comprensione storica, vale 

a dire sia alla conoscenza di sé sia alla conoscenza degli altri. Ogni 

elemento del mondo umano è infatti, per Dilthey, l’espressione di 

un'esperienza vissuta, l’espressione della vita di un individuo. Ma 

questa espressione, la quale comporta la realizzazione dell’esperien- 

za vissuta all’esterno, in forme sensibili, è una realtà oggettiva e 

osservabile: a questa realtà, non alla vita psichica nella sua immedia- 

tezza, si rivolge il processo dell'intendere. L’intendere non si riduce 



3. STORICISMO TEDESCO. 



34 INTRODUZIONE 



quindi a un atto di «penetrazione simpatetica », al rivivere un 

certo stato interiore proprio o di un altro individuo; tanto meno si 

riduce all’introspezione, poiché — come Dilthey afferma esplicita- 

mente — «l’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante 

l’introspezione ». Tuttavia intendere un elemento della realtà spiri- 

tuale vuol dire pur sempre riportarlo all’esperienza vissuta da cui è 

scaturito, ossia considerarlo come espressione della vita: l’intendere 

non è altro che «un ritrovamento dell’io nel tu», la scoperta, in 

tutte le manifestazioni storiche, della vita psichica dalla quale proce- 

dono. Il nesso tra esperienza vissuta, espressione e intendere viene 

quindi a configurarsi come un nesso circolare: come l’espressione 

deriva dall’esperienza vissuta e l’intendere si riferisce all’espressione, 

così l’intendere deve anche risalire — per il tramite dell’espressione 

— all’esperienza vissuta. Essendo fondate su tale nesso, le scienze 

dello spirito risultano caratterizzate da un «riferimento retrospetti- 

vo» all’esperienza vissuta. Come già nell’Ein/eitung in die Geistes- 

wissenschaften, così anche nell'ultima fase del pensiero diltheyano 

esse poggiano dunque sul presupposto di un’identità fondamentale 

tra soggetto e oggetto, e la loro possibilità deriva appunto dal fatto 

che «la vita coglie qui la vita». La loro certezza non è più 

immediata ma mediata, in quanto trova una garanzia nel rapporto 

tra esperienza vissuta, espressione e intendere; tuttavia anche questa 

garanzia trae origine, in ultima analisi, dall’appartenenza dell’uomo 

allo stesso mondo studiato dalle scienze dello spirito, vale a dire 

dalla struttura dell’uomo come essere storico. Perciò le categorie 

della ragione storica, i modi di apprendimento del mondo umano, 

coincidono con le forme strutturali di tale mondo: esse ne costitui- 

scono la semplice traduzione concettuale. 


Dilthey rimaneva così legato, anche nell’ultima fase del suo pen- 

siero, all’eredità metodologica della scuola storica. L’insistenza sull’e- 

sperienza vissuta come radice di tutta la vita psichica, sul costante 

« riferimento retrospettivo » ad essa delle scienze dello spirito, e nel 

medesimo tempo il privilegiamento della vita considerata come la 

dimensione fondamentale del mondo umano — che ha fornito lo 

spunto a un’interpretazione metafisica della filosofia di Dilthey, 

senza dubbio arbitraria ma tuttavia sintomatica — ne sono una 

chiara dimostrazione. Non del tutto a torto Husserl estendeva allo 

storicismo diltheyano, nel saggio Philosophie als strenge Wissen- 

schaft (1910), la critica rivolta allo psicologismo. La « costruzione 



INTRODUZIONE 35 



del mondo storico » delineata negli scritti del periodo 1905-11 rima- 

ne sempre in un difficile, precario equilibrio tra lo sforzo di 

svincolarsi dal piano dell’immediatezza, dalla tendenziale riduzione 

della conoscenza storica all’esperienza vissuta, e il permanente lega- 

me con la scuola storica e con i suoi presupposti metodologici. Ma 

nei medesimi anni in cui il vecchio Dilthey esponeva all'Accademia 

delle Scienze di Berlino i risultati conclusivi della sua analisi delle 

scienze dello spirito, quei presupposti subivano una critica radicale 

e definitiva da parte di Max Weber — di trent'anni più giovane — 

sulle colonne prima dello « Schmollers Jahrbuch » e poi del rinnova- 

to « Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik ». Se per Dil- 

they la conoscenza storica coincideva pur sempre con l’edificio con- 

cettuale della scuola storica, per Weber s’identificava ormai con un 

complesso di discipline che si erano costituite — la sociologia in 

primo luogo, ma anche la scienza economica nella versione margina- 

listica — distaccandosi da tale edificio e respingendone sia l’imposta- 

zione generale sia la pretesa di onnicomprensività. A queste discipli- 

ne, al loro procedimento concreto e ai loro rapporti si riferisce 

l’analisi metodologica di Weber, che non a caso prende le mosse 

dalla polemica contro la scuola storica di economia. 


Quando Weber ritorna agli studi nel 1901, il suo interesse è 

attratto soprattutto dal problema — largamente dibattuto in quel 

periodo — del metodo della scienza economica; e a questo è dedica- 

to il suo primo saggio metodologico, Roscher und Knies und die 

logischen Probleme der historischen Nationalbkonomie (1903-06). 

Da circa mezzo secolo la scuola storica dominava gli studi di 

economia negli ambienti accademici tedeschi: essa si proponeva, in 

opposizione all'economia classica di Smith o di Ricardo, di indaga- 

re i fenomeni economici nel loro sviluppo, come parte integrante 

della totalità della vita di un popolo. Ciò facendo Roscher, Hilde- 

brand, Knies avevano in realtà trasferito all'ambito economico l’im- 

postazione organicistica della scuola storica, la visione del processo 

storico come prodotto di uno « spirito del popolo » che garantisce, 

in ogni momento di sviluppo, la connessione dei diversi aspetti 

della realtà sociale. Questa impostazione era stata criticata fin dal 

1883 da Karl Menger nelle Untersuchungen ùiber die Methode der 

Sozialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere, 

un’opera che aveva dato inizio a una celebre disputa. Weber ripren- 

de le obiezioni di Menger, respingendo la pretesa di determinare 



36 INTRODUZIONE 



leggi di sviluppo economico, cioè tendenze evolutive dei fenomeni 

economici fornite di significato legale. Ma la sua critica si estende 

subito all’intera eredità metodologica della scuola storica, all’edificio 

concettuale che essa aveva costruito. E a tal fine egli si richiama a 

un’altra opera apparsa da poco, ai Grenzen di Rickert, accogliendo 

la distinzione che egli aveva formulato tra scienze naturali e scien- 

ze della cultura, Rickert gli offriva infatti gli strumenti per condur- 

re una duplice polemica: da un lato contro l’oggettivismo storico, 

cioè contro la dottrina che ripone il fondamento dell’autonomia 

della conoscenza storica in una determinazione oggettiva del campo 

di ricerca, cioè in una presunta specificità ontologica dei fenomeni 

storici, dall’altro contro l’intuizionismo storico, cioè contro la dottri- 

na che cerca tale fondamento in qualche forma di comprensione 

intesa come intuizione immediata. Se Dilthey non è nominato, 

cadono invece sotto i colpi della polemica di Weber autori come 

Wundt, Miinsterberg, Lipps, come il Simmel dei Probleme der 

Geschichtsphilosophie e il Croce dell’Estetica. 


Il richiamo a Rickert aveva però anche una portata positiva. 

Accogliendo un criterio puramente metodologico di distinzione tra 

scienze naturali e scienze storico-sociali Weber lasciava da parte l’an- 

titesi — di origine diltheyana — tra spiegazione e comprensione, e 

poteva rivendicare anche alla conoscenza storica un compito di spiega- 

zione causale. Soltanto che questa assumeva una connotazione parti- 

colare. Nelle scienze naturali, infatti, la spiegazione consiste nel 

riportare un fenomeno a leggi generali, di cui esso costituisce un 

semplice caso particolare: tra l'avvenimento da spiegare e le leggi 

vi è un rapporto di « sussunzione ». Nelle scienze storico-sociali la 

spiegazione riveste invece un carattere individuale: essa è rivolta 

alla determinazione del rapporto causale specifico che intercorre tra 

due o più fenomeni individuali, ossia tra momenti successivi di uno 

stesso processo individuale di sviluppo. Sulla strada indicata da 

Rickert era quindi possibile attribuire un compito esplicativo anche 

alle scienze storico-sociali, ma asserirne al tempo stesso la diversità 

da quello delle scienze naturali. La metodologia storiografica di 

origine romantica e — al pari di essa — anche il positivismo 

avevano identificato la causalità con la legalità; rifiutando tale identi- 

ficazione Weber affermava, al contrario, la specificità della spiegazio- 

ne causale-individuale e la sua compatibilità con il processo dell’in- 

tendere. Egli perveniva così a recuperare un elemento centrale del- 



INTRODUZIONE 37 



l'impostazione diltheyana: la conoscenza storica deve, a differenza 

delle scienze naturali, comprendere il proprio oggetto. Ma questa 

comprensione è inseparabile dalla spiegazione causale. Più precisa- 

mente, la comprensione consiste nella formulazione di ipotesi inter- 

pretative concernenti il « senso » degli avvenimenti, che occorre poi 

verificare attraverso il ricorso alla spiegazione causale. Si compie in 

tal modo l’incontro tra due orientamenti di analisi metodologica, 

che nel corso degli anni ’90 erano apparsi inconciliabili: da una 

parte la spiegazione causale viene svincolata dal riferimento esclusi- 

vo a leggi generali, e si riconosce la possibilità di un tipo di 

spiegazione proprio della conoscenza storica, orientato in senso indi- 

vidualizzante; dall’altra l’intendere acquista una propria autonomia 

metodologica nei confronti dell'esperienza vissuta, e il suo procedi- 

mento viene ricondotto a regole oggettive. 


Su questa base Weber affronta, nel saggio Uber die « Objektivitàt» 

sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntis (1904) e nel- 

le Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen 

Logik (1906), il problema dell’oggettività delle scienze storico-sociali 

— che rimarrà centrale nella sua riflessione metodologica. Le condi- 

zioni di tale oggettività vengono determinate per un verso nell’esclu- 

sione dei giudizi di valore, per l’altro verso nel ricorso alla spiegazio- 

ne causale. Weber accoglie infatti la distinzione rickertiana tra 

giudizio di valore e relazione ai valori, per affermare l’estraneità 

del primo a ogni forma di conoscenza e per individuare nella 

presenza o nell’assenza di quest’ultima la differenza principale tra 

conoscenza storica e scienze naturali. Le scienze storico-sociali pog- 

giano su una relazione ai valori che designa il riferimento a certi 

criteri di scelta del dato rilevante per la loro indagine, i quali 

presiedono quindi alla sua elaborazione concettuale. Ma nell’analisi 

di questa relazione Weber si distacca nettamente da Rickert, lascian- 

do cadere il presupposto della validità incondizionata dei valori. 

Egli muove, al contrario, dall’affermazione della relatività dei crite- 

ri di scelta impiegati dalle scienze storico-sociali, e perciò dalla 

constatazione del carattere inevitabilmente « soggettivo » delle loro 

premesse, cioè del loro condizionamento culturale. Si pone così il 

problema di stabilire come, date queste premesse soggettive, le 

scienze storico-sociali possano tuttavia pervenire a risultati validi 

oggettivamente. La garanzia di tale validità è rintracciata nel princi- 

pio di causalità, che vale — seppure in forma diversa — sia nelle 



38 INTRODUZIONE 



scienze naturali sia nelle scienze storico-sociali. Ma la relatività dei 

criteri di scelta incide, in realtà, sullo stesso procedimento di spiega- 

zione causale. Essa rende impossibile in linea di principio, e non sola- 

mente di fatto, determinare tutti gli elementi del processo causale da 

cui scaturisce un certo evento: ogni spiegazione è sempre parziale, 

in quanto individua una particolare serie di antecedenti e mai la 

totalità degli antecedenti di un fenomeno. Ciò implica che il rappor- 

to tra una certa condizione o un certo complesso di condizioni 

(considerate come cause del fenomeno) e il fenomeno da spiegare 

non è esprimibile in un giudizio di necessità, cioè in un giudizio il 

quale asserisca che, data quella condizione o quel complesso di 

condizioni, ne deriva immancabilmente come suo effetto quel feno- 

meno; esso deve venir formulato su una diversa base categoriale, 

cioè in un giudizio di possibilità oggettiva, La spiegazione di un 

avvenimento consiste perciò nella determinazione delle condizioni che 

lo hanno reso oggettivamente possibile, nonché del grado di rilevanza 

di ognuna di queste condizioni; tant'è vero che i giudizi di possibili 

tà oggettiva si dispongono lungo una scala i cui estremi sono 

costituiti dalla « causazione adeguata » e dalla « causazione accidenta- 

le », cioè dalla determinazione rispettivamente dell’indispensabilità 

o della non-indispensabilità di una certa condizione per il verificarsi 

del fenomeno da spiegare. 


Un oggetto storico, considerato nella sua individualità, non è 

soltanto — come si è visto — indeducibile da un sistema di leggi 

generali, ma non è neppure suscettibile di una spiegazione esausti- 

va. Le scienze storico-sociali possono spiegarlo sempre in maniera 

parziale, riportandolo a una o più serie particolari di condizioni; e i 

giudizi che enunciano tale rapporto sono appunto giudizi di possibili- 

tà oggettiva. Affermando l’orientamento individualizzante della spie- 

gazione storica Weber non ha però inteso escludere il riferimento a 

leggi generali, o per lo meno a uniformità di comportamento dei 

fenomeni sociali : il sapere nomologico è anzi presupposto indispensa- 

bile per la stessa formulazione di giudizi di possibilità oggettiva. Ma 

esso ha una funzione puramente strumentale, nel senso che quelle 

che Weber chiama «regole generali dell’esperienza » intervengono 

nel procedimento esplicativo soltanto come supporto per la costruzio- 

ne di processi tipico-ideali con i quali comparare il processo reale, e 

sono impiegate in vista della determinazione di un nesso causale tra 

fenomeni individuali. La relazione tra generale e individuale si 



INTRODUZIONE 39 



presenta così in maniera inversa nelle scienze naturali e nelle scien- 

ze storico-sociali. Nelle prime il fenomeno viene ridotto a caso 

particolare di una legge, e anche il rapporto di causa ed effetto tra 

due fenomeni viene considerato come una semplice specificazione di 

un rapporto esprimibile in forma generale, cioè in forma di legge. 

Nelle seconde il riferimento a regole empiriche generali serve inve- 

ce come mezzo: il sapere nomologico di cui la conoscenza storica si 

avvale è costituito del resto da tipi ideali, cioè da concetti formati 

attraverso un processo di astrazione dalla realtà empirica e di 

accentuazione unilaterale di alcuni suoi elementi. 


Weber non si è però limitato a fornire una caratterizzazione del 

procedimento esplicativo delle scienze storico-sociali in termini indivi- 

dualizzanti, sulla linea tracciata da Rickert; gli ha anche dato una 

struttura categoriale diversa da quello delle scienze naturali. Lo 

schema di spiegazione della conoscenza storica, definito in termini 

di giudizi di possibilità oggettiva, si presenta infatti come uno 

schema « condizionale ». Sotto questo profilo — che è probabilmen- 

te il più importante — la teoria weberiana della spiegazione rappre- 

senta un radicale rifiuto del postulato di una struttura legale della 

realtà sociale, che il positivismo ottocentesco aveva sovente associato 

al modello di spiegazione su base deduttiva formulato da John 

Stuart Mill. Per Weber la realtà sociale non è il dominio di leggi 

necessarie: in esse si possono ritrovare soltanto uniformità di com- 

portamento verificabili empiricamente, la cui elaborazione concettua- 

le dà luogo alle leggi che costituiscono l'apparato teorico delle 

scienze storico-sociali. Perciò il procedimento esplicativo di queste 

discipline poggia non già su relazioni invariabili, bensì su possibili- 

tà oggettive; e i rapporti che esso pone in luce sono rapporti di 

condizionamento i quali esprimono il grado maggiore o minore di 

probabilità del verificarsi, sulla base di condizioni date, di un deter- 

minato fenomeno. 


Mentre Dilthey concludeva una fase del dibattito metodologico 

dello storicismo tedesco, Weber ne apriva contemporaneamente 

un’altra. Ci troviamo qui di fronte a una svolta decisiva nello 

sviluppo del movimento storicistico, a una svolta caratterizzata non 

soltanto dalla consapevole rottura con l'eredità della scuola storica, 

ma anche dallo sforzo di risolvere l'indagine critica nell’analisi 

metodologica del procedimento concreto delle scienze storico-sociali 

e del loro tipo di spiegazione, abbandonando le ambizioni di una 



40 INTRODUZIONE 



loro « fondazione » filosofica. L'impostazione weberiana avrà conse- 

guenze durature, e di ampia portata, sullo sviluppo di queste discipli- 

ne, in primo luogo della sociologia. Del resto lo stesso Weber 

simpegnerà in seguito, sulla linea tracciata nei suoi primi saggi 

metodologici, nella definizione del compito e delle categorie della 

« sociologia comprendente », indicando il suo oggetto specifico nelle 

uniformità dell'agire umano dotate di senso e affermandone l’autono- 

mia, anzi l’antitesi relativa, nei confronti della ricerca storica. Su 

questa base egli giungerà a fornire, in quella che è rimasta fino ad 

oggi l’opera più importante della sociologia novecentesca — cioè in 

Wirtschaft und Gesellschaft, pubblicata postuma nel 1921 — una 

sistemazione organica della teoria sociologica e dei principali campi 

d’indagine della nuova scienza. 



V. 



La problematica dello storicismo tedesco non si esaurisce tutta- 

via nel dibattito metodologico al quale abbiamo finora limitato la 

nostra attenzione. Al contrario, alla discussione sul metodo della 

conoscenza storica, sulla sua autonomia rispetto alle scienze naturali 

e sui suoi rapporti con le scienze sociali si affianca, fin dall’inizio, 

la consapevolezza che lo sviluppo di questo nuovo tipo di sapere 

non può non incidere sull'immagine dell’uomo e della realtà, la 

consapevolezza che la dimensione storica deve in qualche modo 

trovare diritto di cittadinanza in una concezione filosofica generale. 

Molti anni prima dell’Etz/eitung in die Geisteswissenschaften, in 

una lettera che risale al 1860, Dilthey aveva individuato la caratteri- 

stica fondamentale di questa nuova concezione filosofica nello sfor- 

zo di « comprendere l’uomo come un essere essenzialmente storico, 

la cui esistenza si realizza soltanto nella comunità». E in base a 

questo egli assumeva fin da allora una duplice posizione critica: da 

una parte nei confronti di ogni metafisica la quale pretenda di 

cogliere il significato della storia ancorandolo a un piano provviden- 

ziale divino, dall’altra nei confronti di qualsiasi tentativo di ricondur- 

re il processo storico a un principio assoluto ad esso immanente, Il 

rifiuto dell’interpretazione teologica della storia diventerà esplicito 

nell’Einleitung in die Geisteswissenschaften, in cui il sorgere delle 

scienze dello spirito viene collegato al processo di liberazione del 

sapere dalla metafisica tradizionale; ma era già implicito negli 



INTRODUZIONE 4I 



scritti precedenti, nella stessa adesione del giovane Dilthey ai presup- 

posti metodologici della scuola storica. Ad esso si accompagna però 

l'atteggiamento polemico verso Hegel, il rifiuto del postulato della 

razionalità della storia e di una visione del processo storico come 

successione razionalmente ordinata di incarnazioni dello « spirito 

del mondo ». Fin dal 1864, affrontando il problema dell’essenza 

della storia, Dilthey la identificava con il puro e semplice « movi- 

mento storico », inteso come «il lavorare di una generazione per la 

successiva, il concretarsi dell'individuo in rapporti sociali ricchi di 

contenuto, per cui egli lavora ». Questa presa di posizione anti-meta- 

fisica, sorretta dal richiamo alle prospettive neocriticistiche, verrà 

poi chiaramente in luce nell’Einleitung in die Geisteswissenschaf- 

ten, in cui è asserita in modo esplicito la storicità dell’individuo e 

del mondo umano nel suo complesso, e in cui viene compiuto il 

tentativo di dare una definizione della storia che prescinda dal 

riferimento a princìpi speculativi. La vita dell’uomo si risolve nel 

processo storico, nell’instaurazione di rapporti con gli altri individui 

e nella costruzione dei sistemi di cultura e dei sistemi di organizza- 

zione esterna della società; e ogni stato sociale è inserito in questo 

processo, per cui risulta « uno stato storico ». La storicità viene in 

tale maniera assunta a dimensione costitutiva non soltanto dell’uo- 

mo in quanto individuo, ma dello stesso mondo umano che è 

oggetto delle scienze dello spirito. 


Dilthey ritornerà più tardi, nell’ultima fase del suo pensiero, su 

queste implicazioni più generali della propria filosofia, cercando di 

darne una sistemazione organica. Ma già prima esse erano ben 

percepibili. Che lo storicismo avesse conseguenze di ampia portata 

— e soprattutto conseguenze negative — sulla considerazione di 

tutti gli aspetti della vita umana, che non soltanto richiedesse nuove 

prospettive di analisi ma mettesse contemporaneamente in crisi cre- 

denze e sistemi tradizionali, appariva chiaro già pochi anni dopo la 

pubblicazione dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften. Ed era 

quasi inevitabile che il primo terreno a venirne investito dovesse 

essere quello religioso. La consapevolezza delle implicazioni filosofi- 

che dello storicismo poneva infatti in questione il postulato del 

valore assoluto della fede cristiana e, insieme ad esso, la possibilità 

di una teologia. Dalla coscienza di questa crisi prende le mosse la 

speculazione di Ernst Troeltsch. Erede della teologia liberale, allie- 

vo di Albrecht Ritschl, Troeltsch avverte il carattere antinomico del 



42 INTRODUZIONE 



rapporto tra storia e religione: se ogni forma di vita religiosa è 

storicamente condizionata, se può esser compresa soltanto in relazio- 

ne ai diversi aspetti di una certa cultura o di una certa epoca, 

nessuna religione può aspirare a una validità incondizionata. E 

quindi anche il Cristianesimo diventa una religione come le altre, 

ossia un prodotto dello sviluppo storico, privo perciò di quel fonda- 

mento soprannaturale che doveva distinguerlo dalle religioni non cri- 

stiane. In questa prospettiva Troeltsch affronta — a partire dal saggio 

Christentum und Religionsgeschichte (1897) — il problema della 

specificità e della validità del Cristianesimo. 


Di questo problema Troeltsch ha dato soluzioni oscillanti e non 

sempre coerenti, dapprima indicando nel Cristianesimo non già la 

religione assoluta ma la religione più alta alla quale l’umanità 

sia pervenuta nel suo sviluppo storico, e recuperando così un qua- 

dro storico-evolutivo che aveva respinto nella sua polemica con- 

tro il tentativo di «conciliazione » tra storia e religione compiuto 

dalla concezione romantica, poi andando in cerca di un «@ priori 

proprio della vita religiosa che ne garantisca l’irriducibilità alle altre 

forme di attività umana e affermando la presenza di valori assoluti 

all’interno del processo storico. Pur nel variare delle soluzioni, 

l'orientamento del suo pensiero rimane abbastanza determinato. Es- 

so muove infatti dal riconoscimento che, con il sorgere della coscien- 

za storica moderna, anche la considerazione della religione e quindi 

la costruzione di una teologia devono collocarsi sul terreno della 

storia. Che cosa sia il Cristianesimo, quale sia la sua origine, se sia 

giustificata la sua pretesa di validità universale, se abbia ancora 

senso una teologia — tutte queste sono questioni da affrontare sulla 

base di una prospettiva storica, facendo rientrare il Cristianesimo 

nell’ambito di una storia generale della religione. Nel volume Die 

Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (1902) 

Troeltsch lascia cadere il tentativo di ricondurre tutte le religioni a 

un nucleo comune o a una linea unitaria di sviluppo, per guardare 

invece al Cristianesimo come a un fenomeno storico individuale, nel 

quale si realizza non già il possesso — impossibile in linea di principio 

— ma il grado più elevato di partecipazione alla verità religiosa. Il 

Cristianesimo è interpretato quindi come una religione storicamente 

condizionata, da indagare nel suo sviluppo e nelle sue diverse 

manifestazioni: qualsiasi fondazione della fede cristiana deve proce- 

dere ormai da questo riconoscimento, senza di cui essa è destinata a 



INTRODUZIONE 43 



naufragare di fronte alla coscienza storica. Tuttavia la storia non 

costituisce, per Troeltsch, una realtà autosufficiente e chiusa in se 

stessa: al contrario, può riferirsi a valori assoluti, a una realtà 

trascendente che si colloca al di fuori del processo storico e che è 

accessibile soltanto in maniera parziale e in forme differenti. 


Troeltsch trova così nella teoria dei valori il punto di partenza 

di una giustificazione della vita religiosa. Fin dal saggio Die Selbst- 

dindigkeit der Religion (1895) egli si era richiamato al neocritici- 

smo; cercando il fondamento della religione e della sua autonomia 

in un principio trascendentale distinto da quelli che presiedono alla 

conoscenza o alla moralità o all'arte: ma un fondamento del genere 

rimaneva puramente formale, e non garantiva affatto la validità 

oggettiva delle credenze religiose, tanto meno quella di una determi- 

nata forma storica di religione. Anche in seguito il compito della 

filosofia della religione è additato nella determinazione della possi- 

bilità della vita religiosa come sfera a sé stante dell’attività umana; 

ma questa viene individuata non tanto nella struttura della vita psi- 

chica — come farà Dilthey nei saggi dedicati alla teoria dell’intuizione 

del mondo e, in particolare, nel breve saggio Das Wesen der Religion 

(1911) — quanto nella relazione con valori trascendenti. In tal modo 

il rapporto tra coscienza religiosa e valori si configura come un caso 

specifico di un rapporto più generale, cioè del rapporto tra l’uomo 

nella sua esistenza storica e un mondo al di là della storia, dal 

quale egli deve trarre i propri criteri normativi. 


La posizione assunta da ’Troeltsch negli scritti di filosofia della 

religione degli anni ’90 e dei primi anni del nuovo secolo era, per 

molti aspetti, emblematica. Nell’intento di salvaguardare la vita 

religiosa dall’urto della coscienza storica e dalle conseguenze relati- 

vizzanti che essa sembrava comportare, Troeltsch iniziava un processo 

di recupero di prospettive metafisiche all’insegna della teoria dei valo- 

ri, che sarebbe stato ripreso con maggior coerenza dall'ultimo Win- 

delband e dal Rickert del dopoguerra (oltre che da lui stesso, nei 

successivi scritti di filosofia della storia). Egli si rendeva ben conto 

che il riconoscimento della storicità dell’uomo e del mondo umano 

era un'acquisizione definitiva, e che per ritrovare nuove certezze 

occorreva pur sempre muovere da tale base. Il tentativo idealistico 

di conciliare storia e religione — comune a Schleiermacher e allo 

Hegel delle Vorlesungen tiber die Philosophie der Religion — gli 

appariva una sostanziale mistificazione della vita religiosa e della 



44 INTRODUZIONE 



sua storia, arbitrariamente interpretata come la manifestazione pro- 

gressiva di un’ipotetica «essenza» della religione. Agli occhi di 

Troeltsch la realtà storica era una realtà finita, distinta dal mondo 

trascendente dei valori e in un rapporto problematico con questi; di 

conseguenza, il divino gli si presentava come qualcosa di lontano, 

di accessibile soltanto parzialmente e con fatica, in una dimensione 

diversa da quella del sapere scientifico. La concezione romantica 

della storia, la concezione del processo storico come sede di realizza- 

zione di un piano provvidenziale, era così respinta esplicitamente: 

tanto la filosofia hegeliana della storia, che nella successione dei 

singoli «spiriti dei popoli» scorgeva la marcia incessante dello 

« spirito del mondo », quanto la visione rankiana che in ogni epoca 

ritrovava un rapporto immediato con la divinità, appartenevano per 

lui a un passato ormai concluso. 


Il nuovo storicismo veniva perciò a differenziarsi nettamente, 

nella sua concezione della storia, da quello della prima metà del secolo 

XIX; e questa eterogeneità traspariva con chiarezza dalla presa di 

posizione nei confronti di Hegel, Esso era così destinato a incontrar- 

si — in un dialogo che non cesserà mai di essere più o meno 

polemico — con il materialismo storico, il quale pure aveva preso le 

mosse dalla crisi della filosofia idealistica della storia e dalla critica 

dei suoi presupposti. Negli anni in cui l'emergere del problema del 

capitalismo moderno, della sua origine e delle sue caratteristiche distin- 

tive costringeva la cultura accademica tedesca a fare i conti con l’anali- 

si marxiana (ed engelsiana) del sistema capitalistico e del suo sviluppo, 

il materialismo storico si trovava da parte sua impegnato in un difficile 

compito di revisione delle proprie prospettive. Il crollo del capitali- 

smo, che nel 1848 era potuto sembrare imminente, si allontanava 

sempre più nel tempo, trasformandosi in un obiettivo di lungo 

periodo; il sistema capitalistico si rivelava in grado di assorbire le 

spinte del movimento operaio e di sopravvivere ai periodi di depres- 

sione economica; la previsione di un progressivo accentuarsi della 

divisione della società in due classi contrapposte appariva priva di 

fondamento. Lo stesso Engels era costretto a riconoscere, nel 1895, la 

discrepanza tra teoria e realtà, tra le aspettative rivoluzionarie e il 

consolidamento del capitalismo. In questa situazione uno dei maggio- 

ri esponenti della socialdemocrazia tedesca, Eduard Bernstein, avvia- 

va tra il 1896 e il 99 un processo di revisione dei princìpi dottrinali 

del marxismo, i cui risultati — pubblicati dapprima sulla rivista 



INTRODUZIONE 45 



« Neue Zeit » — confluiranno in seguito nel volume Die Vorausset- 

zungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie 

(1889). La polemica di Bernstein si rivolge contro le interpretazioni 

del materialismo storico in chiave deterministica, contro la trasfor- 

mazione della teoria materialistica della storia in una dottrina 

della necessità storica, esprimibile in presunte «leggi» di sviluppo. 

A tale polemica si accompagna lo sforzo di sottrarre il materialismo 

storico al postulato della riconducibilità di ogni fenomeno a cause 

(in ultima analisi) economiche, di cui gli altri aspetti della vita 

sociale sarebbero semplici manifestazioni sovra-strutturali, Contro la 

distinzione tra struttura economica e sovrastruttura Bernstein fa 

valere infatti la tesi della molteplicità dei « fattori » del processo 

storico, rivendicando quindi l’autonomia della sfera politica e soprat- 

tutto della sfera ideologica rispetto ai processi economici. Ogni 

fenomeno dev'essere spiegato come il risultato dell'incontro e della 

cooperazione di cause diverse, tra cui quelle economiche rivestono 

certamente un’importanza essenziale, ma in nessun modo esclusiva 

e determinante. 


Questa riformulazione del materialismo storico, che tendeva chia- 

ramente a presentarlo non più come una concezione generale ma 

come una teoria scientifica della storia, era destinata ad avere larga 

risonanza — fin dai primi anni del nuovo secolo — anche nell’ambito 

del movimento storicistico. Certo non in Dilthey, concentrato nella 

realizzazione del programma di una «critica della ragione storica », 

e neppure in Windelband o in Rickert, che si proponevano di svilup- 

pare una filosofia della storia sulla base della teoria dei valori; ma 

piuttosto nei suoi esponenti più giovani, da Max Weber allo stesso 

Troeltsch. E ancora una volta la religione diventava il terreno 

principale di questa discussione, il terreno sul quale lo storicismo, 

impegnato in un’interpretazione storica dei fenomeni religiosi, dove- 

va però evitare al tempo stesso la loro riduzione a processi puramen- 

te economici e assicurarne in qualche modo l'autonomia. Fin dal 

1904 Max Weber, ritornato al lavoro dopo una parentesi di alcuni 

anni, affrontava il problema dell’origine del capitalismo e dello 

«spirito capitalistico », e formulava la celebre tesi della derivazione 

di quest’ultimo dalla ricerca calvinistica di una «conferma» della 

salvezza individuale attraverso il successo conseguito nell’agire mon- 

dano, in particolare nell’attività professionale. In questa prospettiva 

il rapporto tra fenomeni economici e fenomeni religiosi risultava 



46 INTRODUZIONE 



rovesciato: lungi dal determinare lo sviluppo della religione, il 

capitalismo è esso stesso condizionato all’origine — in uno dei suoi 

elementi costitutivi — da un fenomeno religioso qual è l’etica calvini- 

stica. Tuttavia Weber era ben lontano da una concezione spirituali- 

stica della storia, del tipo di quella enunciata da Rudolf Stammler 

in Wirtschaft und Recht nach der materialistischen Geschichtsauffas- 

sung (1896) — nei cui confronti egli assumerà anzi una posizione 

aspramente critica in un saggio del 1907. Weber concepiva piuttosto 

la relazione tra economia e religione (al pari di quella tra l’econo- 

mia e qualsiasi altra sfera della realtà sociale) come un nesso di 

condizionamento reciproco, del quale si deve di volta in volta 

indagare la direzione e la portata. Riconducendo l’origine non già 

del capitalismo ma di una sua particolare componente, cioè dello 

spirito capitalistico, all’etica calvinistica, Weber respingeva il materia- 

lismo storico come concezione generale della storia, ma riconosceva 

la sua validità (e fecondità) in quanto principio euristico, in quanto 

ipotesi interpretativa. In una sostanziale convergenza con Bernstein 

— anche se muovendo da una posizione di critica al materialismo 

storico, non già di revisione interna — egli rifiutava di ammettere 

un condizionamento univoco dei processi storici, e quindi anche di 

quelli religiosi, da parte di una presunta struttura economica della 

storia, e affermava l’impossibilità di ricondurre qualsiasi fenomeno 

a cause solamente economiche; ma rivendicava l’importanza di 

un’indagine diretta ad accertare il peso del condizionamento econo- 

mico sulle diverse sfere della vita sociale. L’unilateralità del materia- 

lismo storico gli appariva nient’altro che un caso specifico della 

unilateralità di ogni criterio di interpretazione: non la sua limitatez- 

za, ma la sua assolutizzazione è da respingere. E difatti nei successi- 

vi saggi sull’etica economica delle religioni universali — che conflui- 

ranno nei Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie (1920) — 

Weber allargherà il proprio ambito di considerazione, affrontando 

lo studio sia delle influenze che la situazione economica e i rapporti 

di classe e di ceto esercitano sulla formazione e sullo sviluppo delle 

dottrine religiose, sia del modo in cui queste orientano l’attività eco- 

nomica di determinati gruppi sociali, il loro atteggiamento tradizio- 

nalistico o razionalistico nei confronti del guadagno e del lavoro pro- 

fessionale. 


In quei medesimi anni anche Troeltsch si accingeva a un’analisi 

storica delle dottrine economico-sociali sorte sul terreno del Cristiane 



INTRODUZIONE 47 



simo. Lo separava da Weber non soltanto un’originaria diversità di 

interessi, ma anche una differente valutazione della Riforma protestan- 

te, che questi considerava un elemento decisivo per la formazione dello 

spirito capitalistico e quindi della civiltà moderna, mentre Troeltsch 

vi scorgeva piuttosto — nel volume Die Bedeutung des Protestanti- 

smus fiir die Entstehung der modernen Welt (1906) — la continua- 

zione di una cultura su base teologica quale quella medievale. Ma 

la lunga consuetudine degli anni di Heidelberg, dove Troeltsch 

insegnò dal 1894 al 1915, lo portò ad attenuare questo giudizio e a 

riconoscere le possibilità di sviluppo in senso liberale e democratico 

del Calvinismo, contrapposto al Luteranesimo conservatore. Così, 

mentre Weber estendeva la propria analisi alle religioni della Cina 

e dell’India, oltre che alla religiosità ebraica, Troeltsch dedicava alla 

sociologia del Cristianesimo un’opera di ampio respiro, Die Sozial- 

lehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1908-12). Anch’egli 

si proponeva di indagare lo sviluppo del Cristianesimo, dall’epoca 

primitiva al Cattolicesimo medievale e poi alla Riforma, nei suoi 

mutevoli rapporti con la vita economica e con l’organizzazione 

della società, ponendo in luce il trapasso dall’originario atteggiamen- 

to di indifferenza rispetto al « mondo » a uno sforzo sistematico di 

subordinarlo a fini religiosi. E in quest’impresa si trovava a dover 

fare i conti con il materialismo storico, a rivendicare nei suoi 

confronti quell’autonomia della religione che costituiva la preoccupa- 

zione dominante degli scritti degli anni '90. Ma la posizione di 

Troeltsch veniva a divergere in maniera significativa — al di là 

delle dichiarazioni di principio — da quella di Weber, in quanto 

egli postulava l’esistenza di una causalità autonoma della vita religio- 

sa e concepiva così il condizionamento reciproco tra i vari tipi di 

fenomeni storici come incontro di serie causali indipendenti. Se la 

critica di Weber si collocava sullo stesso versante metodologico di 

Bernstein, quella di 'Troeltsch era piuttosto assimilabile alla concezio- 

ne spiritualistica di uno Stammler, in quanto si richiamava a una 

definizione ontologica della struttura del processo storico. Questa 

divergenza, ancora celata negli anni fino al 1915, verrà chiaramente 

in luce più tardi, condizionando l’elaborazione della filosofia della 

storia di Troeltsch e orientandola verso un esito assai diverso da 

quello a cui era pervenuto Weber. 



48 INTRODUZIONE 



VI. 



Allargando la propria considerazione dal metodo della conoscen- 

za storica alla struttura oggettiva della realtà studiata dalle scienze 

storico-sociali, il movimento storicistico si trovava impegnato nella 

critica delle concezioni della storia prodotte dalla cultura filosofica 

della seconda metà del Settecento e della prima metà dell’Ottocen- 

to, In tale maniera si compiva, da un lato attraverso il rifiuto della 

visione del processo storico come manifestazione o realizzazione di 

un principio assoluto, dall’altro attraverso la riduzione del materiali- 

smo storico in termini metodologici, la dissoluzione della « storia 

universale ». Il processo storico tendeva ad articolarsi in una molte- 

plicità di processi particolari, in una molteplicità di rapporti e di 

direzioni di sviluppo non riconducibili a una matrice unitaria — 

sia essa il cammino dello « spirito del mondo » o la presenza della 

divinità o anche soltanto l’azione determinante della struttura econo- 

mica. Non più la storia come totalità, ma la storicità dell’uomo e 

del mondo umano nelle sue dimensioni concrete diventava il centro 

di riferimento di una considerazione filosofica della storia. Il proble- 

ma del «senso» della storia, di un senso inerente al processo 

storico in quanto tale ed esprimibile in una direzione di sviluppo o 

in un termine ultimo, lasciava perciò posto alla ricerca del significa- 

to dei singoli avvenimenti, delle singole epoche e dei loro rapporti 

reciproci. Questo mutamento di impostazione non rivestiva soltanto 

un carattere negativo: al contrario, esso dava luogo a un'analisi 

strutturale del mondo umano e della sua storicità, alla determinazio- 

ne dei modi concreti in cui questa permea la vita degli individui e 

della società. Tale sforzo speculativo accomuna, al di là delle diffe- 

renze, autori come Dilthey o Simmel o lo stesso Weber, e costitui- 

sce — accanto al dibattito sul metodo della conoscenza storica — il 

secondo nucleo problematico dello storicismo tedesco. 


L'analisi strutturale dell’uomo e del mondo umano viene condot- 

ta lungo tre direttrici principali. La prima è rappresentata da Dil- 

they, il quale tende sempre più chiaramente — dopo l’Einleitung in 

die Geisteswissenschaften — a trasformare la critica della ragione 

storica in una filosofia dell’uomo come essere storico, riportando le 

categorie delle scienze dello spirito alla struttura del mondo umano 

che costituisce il loro oggetto complessivo. La seconda è rappresenta- 

ta da Simmel che, dopo il 1910, compie il trapasso dalla prospettiva 



INTRODUZIONE 49 



relativistica formulata nel periodo precedente a una metafisica di 

tipo immanentistico, la quale individua nel rapporto tra la « vita » 

e le sue « forme » la struttura fondamentale dell’esistenza. La terza 

è rappresentata da Weber, il quale muove dall’analisi della relazio- 

ne ai valori per definire su tale base l’esistenza dell’uomo, e con essa 

il significato da un lato della scienza e dall’altro della politica. Le 

tre direttrici di analisi si distinguono, già a prima vista, per il 

diverso atteggiamento che assumono nei confronti del relativismo. 

Dilthey afferma la relatività di ogni fenomeno storico e l'immanenza 

dei valori alla storia; ma il suo relativismo è enunciato soprattutto 

in chiave negativa, e viene a coincidere con il riconoscimento della 

finitudine dell’uomo e del mondo umano — in sostanza, esso non è 

altro che il rifiuto di una concezione metafisica della storia la quale 

pretenda di determinarne il senso attraverso il riferimento a qual- 

che principio assoluto. In Simmel lo storicismo viene invece identifi- 

cato col relativismo, e la conseguenza di ciò è che l’affermazione 

della relatività della vita si trasforma nella sua assunzione a fonda- 

mento di ogni realtà: dal relativismo, teorizzato in forma positiva, 

si sviluppa così una filosofia della vita di stampo chiaramente roman- 

tico. Un esplicito atteggiamento anti-relativistico caratterizza invece 

il pensiero di Weber: ai suoi occhi il relativismo poggia su una 

teoria organicistica, che egli respinge per sostenere l’irriducibilità 

dei valori al processo storico e per qualificare il rapporto dell’uomo 

con i valori come una presa di posizione che comporta una scelta 

tra i diversi valori e le diverse sfere di valori. Il riferimento ai 

valori perde quindi quella funzione di garanzia della validità incon- 

dizionata della conoscenza e dell’agire umano, che Windelband e 

Rickert gli avevano attribuito. 


Fin dall’Einleitung in die Geisteswissenschaften Dilthey si è 

proposto di determinare, sia pure in maniera sommaria, la struttura 

del mondo umano come realtà storica. Questa struttura è caratteriz- 

zata dalla polarità tra l'individuo e i «sistemi» costituiti in virtù 

delle relazioni che si instaurano tra gli individui. L'individuo è 

il nucleo fondamentale, il Grundkòrper del mondo umano, e quin- 

di della storia. Ma l’individuo assume un’esistenza storica soltanto 

nella misura in cui entra in rapporto con altri individui, cercando 

di soddisfare i propri bisogni attraverso la divisione del lavoro e nel 

corso delle generazioni. Da quest’azione reciproca, da queste relazio- 

ni che acquistano una loro consistenza autonoma rispetto ai singoli 



4. STORICISMO TEDESCO. 



50 INTRODUZIONE 



uomini, sorgono due tipi di sistemi, i sistemi di cultura e i sistemi 

di organizzazione esterna della società. I sistemi di cultura — vale 

a dire l’arte, la religione, la filosofia, la scienza e così via — 

nascono da una comunanza di scopi presenti in una molteplicità di 

individui, che vi trovano la base della loro cooperazione. I sistemi 

di organizzazione sociale — cioè le varie istituzioni, dalla famiglia 

allo stato e alla chiesa — si reggono invece non soltanto su interessi 

comuni, ma anche su rapporti di dominio e di subordinazione, e 

hanno quindi sempre un carattere più o meno coercitivo. Gli uni e 

gli altri si sviluppano nel corso temporale della vita, hanno cioè 

una dimensione storica: anche se il grado della loro permanenza 

nel tempo è assai superiore a quello dell’esistenza individuale, non 

per questo acquistano un’esistenza metastorica. Questa struttura 

del mondo umano si riflette nell’edificio delle scienze dello spirito, 

il quale comprende da un lato due discipline — la psicologia e 

l’antropologia — che studiano in modo specifico l’individuo, dall’al- 

tro la ricerca storica e le scienze dei vari sistemi di cultura e di 

organizzazione sociale. 


In seguito, negli scritti del periodo 1905-1911, Dilthey è pervenu- 

to a concepire le categorie delle scienze dello spirito come la tradu- 

zione delle forme strutturali del mondo umano. La vita, la tempora- 

lità, l'essenza e lo sviluppo, il valore, lo scopo, il significato non 

sono categorie astratte, applicabili a un oggetto qualsiasi; esse sono 

radicate nella struttura stessa del mondo umano, la quale condizio- 

na perciò il procedimento conoscitivo delle scienze dello spirito. Su 

questa base il mondo umano viene inteso come il prodotto del 

processo di oggettivazione della vita, vale a dire come « spirito 

oggettivo» — anche se in senso del tutto differente da quello 

hegeliano, ossia come il complesso delle manifestazioni storiche del- 

l’attività umana — e la sua struttura è definita facendo ricorso alla 

nozione di « connessione dinamica ». Questa nozione, introdotta dap- 

prima per caratterizzare la struttura della vita psichica e in seguito 

estesa a ogni espressione della vita, designa un insieme organizzato 

di elementi che ha il proprio centro in se stesso, che si prefigge 

scopi suoi propri e che produce valori peculiari. È quindi una 

connessione dinamica sia il mondo umano nel suo complesso sia 

ogni suo elemento singolo, dall’individuo ai sistemi di cultura e ai 

sistemi di organizzazione sociale; anzi, il mondo umano è una 

connessione dinamica la quale si articola, al suo interno, in una 



INTRODUZIONE SI 



molteplicità di connessioni che ne ripetono i caratteri strutturali. 

Non soltanto la vita storica è orientata in vista di determinati scopi 

e crea valori, ma ogni connessione dinamica è contraddistinta da 

scopi e valori particolari, che la differenziano da tutte le altre. 

Riprendendo i risultati dell'analisi strutturale condotta nell’Ein/ei- 

tung in die Geisteswissenschaften, Dilthey riconduce i vari elementi 

del mondo umano al concetto unificante di connessione dinamica. 

Ma accanto ai sistemi di cultura e ai sistemi di organizzazione sociale 

si collocano ora anche le epoche storiche, che vengono a costituire 

la struttura diacronica del mondo umano: se i due tipi di sistemi 

rappresentano le forme permanenti di relazione tra gli individui, le 

epoche storiche dànno alla loro attività una fisionomia diversa nel 

tempo. E difatti ogni epoca, pur essendo collegata da molteplici 

rapporti sia con quelle precedenti sia con quella che la segue — 

come Dilthey pone in luce analizzando l’esempio dell’Illuminismo 

— è caratterizzata da un proprio orizzonte, nel quale rientrano 

tutte le sue manifestazioni. Di conseguenza, queste traggono il loro 

significato dall’appartenenza a una data epoca, e possono essere 

comprese soltanto in relazione ai suoi scopi e ai suoi valori peculia- 

ri. La tesi dell’autocentralità delle epoche storiche sfocia quindi 

nell’affermazione della relatività di ogni fenomeno storico. 


Questa conclusione vale anche per il sapere, e più specificamente 

per la filosofia. Negli ultimi anni di vita Dilthey ha cercato di 

porre in luce le implicazioni che il riconoscimento della fondamenta- 

le storicità dell’uomo e del mondo umano comporta per la filosofia 

e per la sua tradizionale aspirazione a una validità universale. 

Dapprima nel saggio Das Wesen der Philosophie (1905), in seguito 

in Das geschichtliche Bewusstsein und die Weltanschauungen e in 

Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den meta- 

physischen Systemen (entrambi del rgri), Dilthey ha tracciato le 

linee di una «filosofia della filosofia » impostata sulla considerazio- 

ne della filosofia come una forma non già di sapere scientifico, 

bensì di intuizione del mondo. La filosofia, infatti, non è in grado 

di offrire alcuna conoscenza oggettiva: il suo sforzo di affrontare il 

mistero del mondo e della vita è accostabile più a quello dell’arte e 

della religione che non al procedimento d'indagine delle scienze 

della natura o delle scienze dello spirito. Arte, religione e filosofia 

trovano così la loro unità non nello « spirito assoluto » a cui Hegel le 

aveva ricondotte, bensì nell’intuizione del mondo, cioè in un atteg- 



52 INTRODUZIONE 



giamento di fronte alla vita che è caratterizzato da un complesso di 

conoscenze, di modi di sentire e di princìpi di condotta. Tutte e tre 

sorgono su questa base, proponendosi di dare per vie diverse una 

risposta al mistero del mondo e della vita: l’arte lo fa in forma 

intuitiva, la religione andando in cerca di un rapporto con l’invisibile, 

la filosofia formulando soluzioni che aspirano a una validità universa- 

le. Perciò la filosofia risulta anch’essa condizionata dal tipo di 

intuizione del mondo che esprime, e la sua pretesa di dare una 

soluzione del problema della realtà che valga per sempre è contrad- 

detta dalla stessa molteplicità delle dottrine filosofiche. Questo condi- 

zionamento è però duplice, in quanto procede per un verso dalla 

struttura della vita psichica e per l’altro verso dal processo storico. 

In quanto esprime concettualmente un'intuizione del mondo, ogni 

dottrina filosofica rientra in un tipo particolare di visione della realtà, 

caratterizzata dall’importanza preminente accordata a un certo aspet- 

to della struttura psichica; rientra cioè nell’ambito o del naturali- 

smo o dell'idealismo oggettivo o dell'idealismo della libertà, che 

corrispondono alle tre possibili forme di atteggiamento dell’uomo 

nei confronti del mondo. Nel medesimo tempo ogni dottrina filosofi- 

ca, appartenendo a una data epoca storica, ne riflette i problemi e le 

caratteristiche peculiari. La storia della filosofia viene perciò a confi- 

gurarsi come lo sviluppo e la lotta reciproca di tre tipi fondamenta- 

li di metafisica, che ricorrono in veste nuova nelle varie epoche. 


Da quest’analisi Dilthey trae la conclusione che la filosofia deve 

abbandonare la pretesa metafisica di determinare un principio incon- 

dizionato della realtà. Anch’essa deve, in altri termini, riconoscere 

la propria storicità, accogliendo i risultati della coscienza storica 

moderna. Dilthey riprende così, a proposito della filosofia, le conside- 

razioni che Troeltsch aveva formulato in riferimento alla religione. 

Ma, a differenza di Troeltsch, egli si guarda bene dal proporsi una 

« fondazione » della filosofia che ne ristabilisca la validità universa- 

le, rivelatasi ormai illusoria: egli intende piuttosto costruire una 

« filosofia della filosofia » intesa come «l’autoriflessione storica della 

filosofia sopra di sé», che si sviluppa in primo luogo attraverso 

l’approfondimento del significato storico delle diverse dottrine filoso- 

fiche. In questa prospettiva si inquadrano i molteplici studi che 

Dilthey è venuto conducendo, soprattutto dopo il 1890, sulla conce- 

zione dell’uomo nel Rinascimento e nella Riforma, sull’età di Leib- 

niz e sulla cultura illuministica tedesca, e infine sulla concezione 



INTRODUZIONE 53 



filosofica romantica e sull’influenza che questa ha esercitato sulla 

formazione di Hegel. La relatività della filosofia è considerata non 

già come la conseguenza negativa della coscienza storica moderna, 

come una conclusione paralizzante a cui ci si debba sottrarre, ma 

come la condizione indispensabile di una nuova impostazione di 

ricerca filosofica. 


Nei medesimi anni — a partire dalla Philosophie des Geldes 

(1900) fino agli Hauptprobleme der Philosophie (1910) e alla raccol- 

ta di saggi PAilosophische Kultur (1911) — anche Simmel era 

impegnato nel delineare una prospettiva rigorosamente relativistica. 

Ma il relativismo di Simmel aveva una base più psicologica che stori- 

ca, ed era alimentato dal richiamo ad autori di matrice romantica co- 

me Goethe, Schopenhauer e soprattutto Nietzsche. Il suo punto di 

partenza era infatti rappresentato da un’interpretazione psicologica 

delle categorie: anche se le forme del conoscere assolvono una 

funzione distinta dal contenuto, e servono anzi a organizzarlo, non 

per questo sono eterogenee rispetto ad esso. Le categorie deriva- 

no dall’esperienza, e hanno quindi un'origine psicologica, non già 

un carattere trascendentale. Questa impostazione — che comportava 

un netto distacco dal neocriticismo e dal suo sforzo di distinguere il 

piano della validità del conoscere da quello del procedimento psicolo- 

gico con cui lo si attinge — conduceva Simmel ad affermare la 

relatività non soltanto della conoscenza, ma di ogni attività umana. 

La verità scientifica è relativa all'assunzione di determinati presuppo- 

sti, i quali rivestono carattere psicologico e non posseggono alcuna 

validità universale; analogamente, il valore di un'azione morale o 

di un atto economico dev'essere commisurato a criteri che sono 

anch'essi sempre relativi. La stessa filosofia può pervenire a una 

verità soltanto relativa, la quale consiste nella capacità di esprimere 

l'elemento tipico di una certa persona e di renderlo comunicabile ad 

altri individui. 


In questo relativismo Simmel individuava l’essenza della civiltà 

moderna, il risultato di un secolare processo di distacco dalla 

fede in una verità universale e in valori incondizionati. Lo stesso 

«rovesciamento dei valori » proclamato da Nietzsche era interpreta- 

to — in maniera storicamente discutibile — come l’affermazione 

della relatività di ogni criterio di condotta etica. Ma il relativismo 

simmeliano del primo decennio del secolo era pur sempre definito 

in modo prevalentemente negativo; e in ciò stava la sua genericità e 



54 INTRODUZIONE 



insieme la sua ambiguità. Infatti il riconoscimento della relatività di 

tutti gli aspetti della vita umana tendeva a trasformarsi in un 

principio assoluto, ed esprimeva né più né meno che l’impossibilità 

di trascendere la vita, considerata come l’orizzonte onnicomprensivo 

di ogni attività umana. Erano così poste le premesse per il passag- 

gio da una prospettiva relativistica a una metafisica della vita, che 

Simmel compie negli anni successivi al 1910 e che si manifesta 

soprattutto nei saggi apparsi su « Logos», nel volume Kan: und 

Goethe (1916) e infine nella Lebensanschuung (1918). Di questa 

metafisica egli rintraccia i presupposti remoti nella concezione ro- 

mantica della realtà, in particolare nell’organicismo di Goethe; e da 

Goethe, l’antitesi del razionalismo kantiano, trae la visione della 

vita come un processo continuo che si realizza in una molteplicità 

di forme, le quali si distaccano dal divenire per acquistare una 

propria autonoma consistenza. La dialettica tra la vita e le forme 

diventa così il tema centrale dell'ultima fase del pensiero simmelia- 

no. La vita è intesa come un corso infinito e ininterrotto, che 

produce forme finite e che, dopo averle create, tende a distruggerle. 

Le forme nascono così dal divenire della vita ma nel medesimo 

tempo gli si contrappongono, e devono quindi resistere allo sforzo 

incessante che la vita fa per riassorbirle in sé e per produrre altre 

forme. La vita è per Simmel contemporaneamente « più-vita » (Me4r- 

Leben) e « più-che-vita » (Me4r-als-Leben): è « più-vita » nel senso 

che è continuo superamento di ogni limite che essa stessa pone; è 

« più-che-vita » nel senso che si auto-trascende producendo una mol- 

teplicità di forme finite le quali diventano indipendenti da essa. Da 

questa dialettica emergono i « mondi ideali », prodotto dell’organiz- 

zazione sistematica delle forme, che nel loro insieme costituiscono 

lo «spirito»: ognuno di questi mondi è trascendente rispetto al 

puro e semplice divenire della vita, e ha la propria base in un 

principio fondamentale comune a tutte le sue forme, Tra questi 

mondi ideali vi è anche il mondo della storia, nel cui ambito gli 

avvenimenti acquistano un proprio significato elevandosi al di sopra 

del divenire della vita. In tal modo la storicità, lungi dall'essere un 

attributo o una dimensione della vita, viene a qualificare un piano 

di realtà trascendente rispetto ad essa, in cui la temporalità del 

divenire — non dissimile dalla «durata reale» di Bergson, un 

filosofo verso il quale Simmel nutriva una non casuale simpatia — 

lascia posto al tempo propriamente storico. 



INTRODUZIONE 55 



Ben diverso è l’esito a cui perviene Weber riprendendo in esa- 

me, durante e dopo la guerra, il problema del rapporto con i valori, 

e dando ad esso una portata più generale. Dopo i grandi saggi me- 

todologici degli anni 1903-06 Weber aveva concentrato i suoi interes- 

si da un lato sull’analisi dell'etica economica delle religioni universa- 

li, in riferimento al problema dell'individualità del capitalismo mo- 

derno, dall’altro sulla determinazione delle categorie sociologiche 

(alla quale è dedicato il saggio Uber einige Kategorien der ver- 

stehenden Soziologie del *13). Lo scoppio del conflitto aveva poi 

accentuato — come vedremo — il suo impegno politico, che farà di 

lui, fino alla morte, uno dei maggiori protagonisti del dibattito 

post-bellico in Germania. Sollecitato da questo impegno, egli ritor- 

na nel 1917, in un saggio dal titolo Der Sinn der « Wertfreiheit » 

der soziologischen und òkonomischen Wissenschaften, sul tema 

della « avalutatività » delle scienze storico-sociali, per ribadire la 

differenza di principio tra il compito di queste discipline e la 

funzione dei giudizi di valore. Ma il discorso si allarga ben presto a 

un tentativo di enucleare le implicazioni filosofiche della propria 

impostazione metodologica, che Weber sviluppa sia in quel saggio 

sia in due conferenze tenute a Monaco nel 1919 sulla « scienza come 

professione » e sulla « politica come professione ». Diversamente da 

Dilthey (c anche da Simmel), Weber non si propone di fornire 

un'analisi strutturale del mondo umano muovendo dall’analisi del 

procedimento delle scienze storico-sociali: il campo di ricerca di 

queste discipline non può essere per lui oggetto di un tipo di 

considerazione distinto da quella metodologica, ma può essere indivi- 

duato nelle sue relazioni interne soltanto nell’ambito di questa, In 

altri termini, non esiste una struttura oggettiva del mondo umano o 

della realtà storica a cui la filosofia possa riferirsi prescindendo dal 

— o pretendendo di andare oltre il — lavoro delle varie discipline, 

in un tentativo di unificarne i molteplici (e anche variabili) punti di 

vista. Tuttavia la relazione di valore inerente al procedimento cono- 

scitivo delle scienze storico-sociali offre la base per un discorso più 

ampio, che assume il rapporto con i valori come fondamento di un’a- 

nalisi dell’esistenza umana e della sua stessa storicità. 


Come si è visto, Weber si era avvalso della nozione rickertiana 

di relazione ai valori per distinguere le scienze storico-sociali per un 

verso dalle scienze naturali, per l’altro verso dalla presa di posizio- 

ne pratica che è costitutiva della politica e dai giudizi di valore in 



56 INTRODUZIONE 



cui questa si esprime. Le scienze storico-sociali si differenziano dalle 

scienze naturali in quanto hanno a loro fondamento una relazione 

con certi valori i quali presiedono alla selezione del dato empirico, 

orientando la ricerca in una determinata direzione; si differenziano 

dall’agire politico in quanto sono neutrali nei confronti dei fenome- 

ni che esse studiano. L’oggettività delle scienze storico-sociali è 

perciò garantita, in primo luogo, dal fatto che il loro rapporto con i 

valori è eterogeneo rispetto a quello implicito nei giudizi di valore. 

Ne deriva una duplice conseguenza, e cioè che — prescindendo 

dalle scienze naturali, a proposito delle quali Weber accoglie acritica- 

mente l’interpretazione che ne aveva dato il positivismo ottocente- 

sco — l’attività umana è qualificata, in generale, da un rapporto 

con i valori, ma che questo rapporto assume una configurazione 

diversa nelle sue varie sfere. Si pone così a Weber il problema, fin 

allora rimasto in ombra, di determinare le forme di tale relazione e 

di ricondurle eventualmente a una comune modalità. La risposta a 

questo problema segna il distacco definitivo di Weber dalla teoria 

dei valori qual era stata elaborata da Windelband e da Rickert, e 

soprattutto dal suo sviluppo in senso metafisico, verso cui Rickert si 

avviava in quello stesso periodo, Per Weber il rapporto con i valori 

non rappresenta più in alcun modo un fondamento assoluto, capace 

di garantire la validità incondizionata del sapere o dell’agire uma- 

no: al contrario, in ogni momento della propria esistenza l’uomo si 

trova a dover compiere una scelta tra valori e tra sfere di valori in 

conflitto reciproco. I valori cessano infatti di apparire come un 

mondo organizzato sistematicamente, fornito di una propria coeren- 

za interna: le sfere di valori sono molteplici e non riconducibili a 

un ordine gerarchico, così come i valori che appartengono a ogni 

sfera possono essere non soltanto diversi, ma addirittura inconciliabi- 

li tra loro. Nel suo rapporto con i valori l’uomo è obbligato a una 

scelta incessante, poiché l'assunzione di determinati valori come 

criterio di orientamento del processo conoscitivo o dell’agire politico 

comporta nel medesimo tempo la negazione o il rifiuto di altri. La 

relazione tra l’uomo e i valori viene perciò a configurarsi sempre 

come una relazione problematica, definita in termini di scelta da 

parte dell’uomo. 


Su questa base Weber ha cercato di individuare il senso della 

scienza e, parallelamente ad esso, il senso della politica. La scienza 

riveste ovviamente un'importanza tecnica, in quanto consente l’elabo- 



INTRODUZIONE 57 



razione di determinati strumenti suscettibili di uso pratico. Ma il 

suo significato non si esaurisce in questo; anzi, la stessa funzione 

tecnica della scienza — si tratti di scienze naturali oppure di 

scienze storico-sociali — rimanda alla questione se si debba o no 

dominare tecnicamente la vita, e in vista di quali scopi. Muovendo 

da quest’analisi Weber ha indicato, nel saggio Wissenschaft als 

Beruf (1919), il senso della scienza nella sua capacità di fornire 

all’uomo la «chiarezza », vale a dire la consapevolezza del proprio 

agire e soprattutto del rapporto tra gli scopi che si prefigge e i 

mezzi dei quali si serve per conseguirli, In tal modo la scienza, pur 

non potendo formulare giudizi di valore, assolve una funzione 

critica nei confronti dei valori, in quanto pone in luce le condizioni 

e le conseguenze della loro realizzazione: se non la validità, alme- 

no la realizzabilità dei valori cade quindi sotto la sua considerazio- 

ne. Ma anche il senso della politica risulta definito in base a un 

rapporto con i valori, seppure di diverso genere. Nel saggio Politik 

als Beruf (anch’esso del ’19) Weber muove dalla constatazione che 

la politica consiste sempre in rapporti di forza, in quanto ogni 

agire politico è diretto all’acquisizione o al mantenimento di un 

potere garantito coercitivamente; ma perviene a riconoscerne il sen- 

so nella dedizione a una «causa», a un compito che dev'essere 

assolto appunto attraverso la conquista e l’esercizio del potere. Il 

semplice dominio sugli altri non costituisce lo scopo ultimo dell’agi- 

re politico più di quanto l’utilizzazione tecnica di certi strumenti 

non costituisca il fine principale della scienza: anch'esso acquista 

significato soltanto se vien posto in rapporto con i valori. E infatti 

la dedizione a una « causa », che dà all’agire politico la sua coeren- 

za interna, coincide sempre con una presa di posizione in favore di 

determinati valori e contro altri. 


Così stando le cose, l’agire politico non può non entrare in una 

relazione positiva o negativa con l’etica. E infatti il rapporto tra 

etica e politica diventa un tema centrale nell'ultima fase della 

riflessione filosofica di Weber — fin dall'articolo Zwischen zwei 

Gesetzen del 1916 — intrecciandosi strettamente con l’analisi del 

rapporto dell’uomo con i valori. Weber muove dalla distinzione tra 

due forme fondamentali di etica, che obbediscono a criteri del tutto 

differenti: l’etica della « coscienza » o dell’intenzione e l’etica della 

responsabilità, La prima è caratterizzata dall'assunzione di un certo 

valore come scopo assoluto, da perseguire sempre e in ogni caso, 



58 INTRODUZIONE 



senza tener conto dei mezzi che occorrono per la sua realizzazione; 

la seconda è caratterizzata invece dalla considerazione del rapporto 

tra il valore assunto come fine e le sue condizioni o, una volta che 

sia realizzato, con le sue conseguenze. L'etica dell’intenzione si 

esprime in norme incondizionate, le quali prescrivono un determina- 

to comportamento prescindendo dalla possibilità di attuarlo di fat- 

to: la sua manifestazione più elevata è indicata da Weber nel 

Sermone della montagna, nell’etica evangelica indifferente alle condi- 

zioni del « mondo ». Essa è un'etica irrelativa, che non tiene conto 

dell’esistenza di altre sfere di valori o, al massimo, pretende di 

subordinarle tutte al proprio imperativo assoluto: come tale, è indif- 

ferente anche alla politica, se non addirittura ostile ad essa. Al 

contrario, l’etica della responsabilità si esprime in norme le quali 

tengono presenti sia le condizioni di realizzazione dei valori a cui 

l'agire si riferisce, sia le conseguenze che questa comporta: il suo 

interesse è rivolto non soltanto al perseguimento, ma anche all’attua- 

zione effettiva di tali valori. Essa riconosce quindi l’esistenza di 

altre sfere di valori, e in particolare l'importanza dell’agire politico. 

Tra queste due forme di etica non c'è possibilità di conciliazione e 

neppure d’incontro, ma c’è piuttosto un contrasto permanente. Non 

diversamente dalle altre sfere di valori, anche quella etica contiene 

in sé una scissione che le impedisce di offrire agli individui delle 

regole univoche e incontrovertibili di comportamento. 


Così l’uomo risulta sempre coinvolto nel conflitto tra i valori, e 

questi vengono a loro volta a dipendere dall’assunzione o dal 

rifiuto che di essi compiono, in una situazione concreta, i singoli 

individui. La stessa storicità dell’esistenza umana viene a coincidere 

con questa presa di posizione di fronte ai valori, mediante la quale 

l’uomo è impegnato a dare un senso al mondo. D’altra parte la 

validità dei valori è definita dal loro rapporto con la storicità, in 

quanto lo sviluppo storico è il terreno della loro possibile realizzazio- 

ne. In tale maniera i valori perdono quella trascendenza ontologica 

che aveva loro attribuito Rickert, ma mantengono una trascendenza 

che si può dire normativa, nel senso che assolvono una funzione di 

orientamento e di guida per l'agire umano. La loro validità, se da 

un lato non è certo incondizionata, dall’altro non è neppure circo- 

scritta a una singola epoca o a un particolare ambito culturale. Ciò 

spiega perché Weber abbia sempre respinto il relativismo, scorgen- 

do in esso il prodotto di una concezione organicistica che conduce a 



INTRODUZIONE 59 



eliminare la relazione problematica dell’uomo con i valori. Se la 

filosofia dei valori ne postulava arbitrariamente la validità per tutte 

le epoche e per tutte le culture, il relativismo presuppone non meno 

arbitrariamente un legame necessario tra i valori e l'orizzonte stori- 

co di una singola epoca o di una singola cultura: in entrambi i casi 

i valori cessano di essere il termine di riferimento di una scelta da 

parte dell’uomo, per configurarsi come una struttura determinante 

della sua esistenza. Coerentemente, perciò, il distacco definitivo da 

un’interpretazione metafisica dei valori si accompagnava negli ulti- 

mi saggi filosofici di Weber con la polemica anti-relativistica, e con 

l’esplicito richiamo alla dottrina platonica secondo cui «l’anima 

sceglie il suo proprio destino — e cioè il senso del suo agire e del 

suo essere ». 



VII. 



Nel corso del conflitto mondiale il panorama dello storicismo 

tedesco si trasforma rapidamente. Scompaiono intanto, in breve 

volger di tempo, i maggiori rappresentanti della sua prima genera- 

zione. Nel 1grr era morto Dilthey, dopo aver dedicato la sua lunga 

esistenza al tentativo sempre rinnovato di costruire una «critica 

della ragione storica» e dopo averne dato negli ultimi anni la 

formulazione più compiuta. Nell'ottobre 1915 moriva Windelband 

e tre anni dopo, nel settembre 1918, lo seguiva Simmel. Weber e 

Troeltsch, che appartenevano ormai a una generazione successiva 

— in quanto erano nati rispettivamente nel 1864 e nel 1865 — 

sopravviveranno ancora per qualche anno, il primo fino al 1gzo e il 

secondo fino al 1923; e saranno per entrambi anni di intensa 

attività intellettuale e di impegno politico. Rickert vivrà invece più 

a lungo, fino al 1936; ma le sue opere, a partire da Die Philosophie 

des Lebens del ’20, sono sempre più caratterizzate dallo sforzo di 

affermare l’autonomia ontologica dei valori e di fornirne un’elabora- 

zione sistematica, e si collocano ormai al di fuori del movimento 

storicistico. 


Accanto a questi elementi biografici, un altro fattore interviene a 

modificare in maniera profonda il panorama dello storicismo tede- 

sco: l’importanza decisiva che la politica e i suoi problemi assumo- 

no nel dibattito filosofico. Dilthey, Windelband, Rickert, in fondo 

lo stesso Simmel (pur così attento allo sviluppo delle scienze sociali) 



60 INTRODUZIONE 



avevano prestato scarsa attenzione alle vicende della Germania bi- 

smarckiana e post-bismarckiana, o per lo meno i loro interessi 

politici non si erano mai tradotti in uno sforzo di formulazione 

teorica. La stessa esaltazione del passato tedesco, che si può trovare 

nel lavoro di ricostruzione storica di Dilthey, e il risalto da lui 

dato alle peculiarità della tradizione culturale tedesca rispetto a 

quella francese o inglese esprimevano assai più il richiamo retrospet- 

tivo al mondo romantico anziché un'adesione al processo di unifica- 

zione politica della Germania, Del resto, la formazione di Dilthey 

si era compiuta prima dell'avvento di Bismarck al potere, in un 

ambiente ancora permeato di motivi liberali su cui aleggiava il 

recente ricordo dell'assemblea di Francoforte. Più in generale, il 

prevalere del problema dell’autonomia e delle condizioni di validità 

della conoscenza storica e la connessione tra analisi metodologica e 

analisi strutturale avevano contribuito a dare allo storicismo tedesco 

un’impronta sostanzialmente apolitica; e i suoi esponenti erano stati 

difatti filosofi accademici, inseriti nella vita universitaria tedesca ma 

scarsamente partecipi a ciò che avveniva al di fuori. Questo stato di 

cose cambia del tutto con la prima guerra mondiale: anche Windel- 

band, poco prima di morire, dedica il suo ultimo scritto, la « lezio- 

ne di guerra » sulla Geschicktsphilosophie (apparsa postuma nel 1916), 

alla ricerca di un senso razionale della storia, impostandola in 

riferimento allo scoppio del conflitto e alla rottura della solidarietà 

morale tra i popoli che esso comporta. Il richiamo all’idea di 

umanità, intesa come principio regolativo del processo storico, rap- 

presenta la sua risposta al venir meno della fiducia in uno sviluppo 

ordinato e pacifico del genere umano, che la guerra aveva drammati- 

camente messo in questione. 


Sarebbe tuttavia errato far coincidere l'emergere degli interessi 

politici in seno al movimento storicistico con la crisi del 1914-18. 

Già prima, infatti, il processo di unificazione politica della Germa- 

nia e la soluzione bismarckiana erano stati oggetto della riflessione 

sia di Weber che di uno storico a lui quasi coetaneo, Friedrich 

Meinecke. Figlio di un deputato liberale, Weber aveva esordito 

sulla scena politica tedesca da posizioni nazionalistico-conservatrici, 

ma ben presto se ne era distaccato per avvicinarsi al gruppo dei 

« socialisti della cattedra ». Nei saggi del periodo 1893-95, che traeva- 

no le conclusioni dell'inchiesta condotta sulla situazione del lavoro 

agricolo nella Germania orientale, egli poneva in rilievo il decadere 



INTRODUZIONE 6I 



dell’aristocrazia fondiaria prussiana in un ceto di imprenditori capita- 

listici, ormai incapace di assolvere la funzione politica di un tempo. 

Negli anni successivi la sua opposizione al regime personale di 

Guglielmo II e alla politica imperialistica divenne sempre più aper- 

ta; e con essa maturava anche una valutazione più positiva del 

sistema parlamentare, favorita dallo studio e dall’esperienza diretta 

della democrazia americana. Meinecke muove anch'egli da una 

sostanziale adesione a posizioni conservatrici, condividendo il giudi- 

zio della scuola storica prussiana sul modo in cui la monarchia 

degli Hohenzollern e Bismarck avevano realizzato l’unità politica 

della Germania. Allievo di Droysen, di Sybel, di Treitschke, egli è il 

continuatore della loro impostazione storiografica e al tempo stessso 

l’erede della loro visione politica; anzi, le sue indagini si ispirano a 

un preciso obiettivo di giustificazione storico-politica del processo di 

formazione dello stato nazionale tedesco. Fin dalla biografia dedica- 

ta a uno degli eroi delle guerre anti-napoleoniche, il maresciallo 

Hermann von Boyen (pubblicata nel 1886-99), l’analisi di questo 

processo è diretta a mostrare il carattere positivo, e storicamente 

inevitabile, della soluzione prussiana, in contrapposizione alla vani- 

tà dei tentativi compiuti dal liberalismo riformatore del ’48. Non 

soltanto l’edificio politico bismarckiano, ma in generale il concretar- 

si delle aspirazioni nazionali tedesche in un’organica struttura stata- 

le diventa — dal volume Das Zeitalter der deutschen Erhebung 

(1906) ai saggi raccolti sotto il titolo Von Stein zu Bismarck (1909) 

e a Radowitz und die deutsche Revolution (1913) — il centro di 

riferimento delle successive ricerche di Meinecke. Bisognerà attende- 

re la guerra e la sconfitta tedesca perché egli avverta finalmente i 

limiti della costruzione di Bisrmarck e si impegni in una sostanziale 

revisione delle prospettive della scuola storica prussiana. 


La prima grande opera di Meinecke, Weltbirgertum und Natio- 

nalstaat (1908), costituisce infatti il tentativo più compiuto di giustifi- 

care l’edificio politico bismarckiano, considerato come il punto di 

confluenza e d’incontro tra la «nazione culturale » tedesca e la 

« nazione territoriale » prussiana. Meinecke si propone qui di mostra- 

re come da una parte le aspirazioni della cultura tedesca al consegui- 

mento dell'unità nazionale si siano gradualmente svincolate dalle 

idee universalistiche di origine settecentesca, e come dall'altra lo 

stato prussiano sia diventato, dopo il 1848, l’interprete di tali aspira- 

zioni e abbia saputo realizzarle concretamente. Da Wilhelm von 



62 INTRODUZIONE 



Humboldt a Novalis, a Friedrich Schlegel, a Fichte, a Miiller, a 

Savigny, e infine a Ranke — momento conclusivo di questo proces- 

so — la «nazione culturale » tedesca acquista coscienza della pro- 

pria individualità e del proprio diritto di costituirsi in una struttura 

statale unitaria; e tale coscienza comporta appunto il progressivo 

abbandono della visione cosmopolitica dell'Illuminismo e del suo 

astratto ideale di umanità. Contemporaneamente la Prussia subordi- 

na i propri interessi particolari a quelli della causa nazionale tede- 

sca, assumendo l’egemonia del processo di unificazione politica del- 

la Germania. Dopo il fallimento del ’48 Bismarck dà così esistenza 

storica all’ideale nazionale che la cultura romantica aveva proclama- 

to, innestandolo sulla struttura dello stato prussiano. 


Questa giustificazione dell’edificio politico bismarckiano era pe- 

rò destinata a rivelare la sua intrinseca debolezza al momento della 

sconfitta tedesca. Già prima e durante il conflitto Weber aveva 

denunciato i limiti della costruzione di Bismarck, imputando ad 

essa la mancanza di una classe politica in grado di dirigere il paese 

e di controllare il potere della burocrazia. In numerosi saggi scritti 

nel corso della guerra, e soprattutto nel volume Parlament und 

Regierung im neugeordneten Deutschland (1917), egli insisteva sul- 

la necessità di tener distinti i compiti del funzionario e del politico, 

ossia di non ridurre la vita politica ad amministrazione; e ciò lo 

conduceva a sottolineare la funzione dei partiti e del parlamento 

come sede di formazione di una classe politica. La situazione della 

Germania guglielmina, con la sua dipendenza diretta della burocra- 

zia dal potere monarchico, gli appariva caratterizzata da uno « pseu- 

do-costituzionalismo » che sottraeva al parlamento la direzione e il 

controllo dell'amministrazione pubblica. Se in Weber la critica a 

Bismarck e all’eredità politica bismarckiana si innestava su una 

linea di sviluppo che risaliva all’ultimo decennio dell'Ottocento, in 

Meinecke la sconfitta tedesca aveva invece un effetto traumatico, e 

lo costringeva a un profondo processo autocritico. Il suo originario 

conservatorismo lasciava posto alla rivendicazione del regime demo- 

cratico, la quale si accompagnava alla denuncia del militarismo 

prussiano e del fallimento dei suoi sogni imperialistici. Venivano 

così in luce i difetti insanabili, già indicati da Weber, di una 

costruzione che non era riuscita a modificare il vecchio ordinamen- 

to economico-sociale di origine feudale né a rendere le masse popola- 

ri partecipi alla vita politica. Quella che un decennio prima era 



INTRODUZIONE 63 



potuta sembrare una felice sintesi tra « nazione culturale » e « nazio- 

ne territoriale », tra le aspirazioni della cultura romantica all’unità 

nazionale e gli interessi della monarchia prussiana, si rivelava ora a 

Meinecke come una soluzione debole, come un compromesso instabile 

realizzato all’insegna di una « politica di potenza» che avrebbe 

condotto al fallimento del 1918. Avanzata per la prima volta nel 

saggio Kultur, Machtpolitik und Militarismus (1915), sviluppata 

più ampiamente nei saggi di Nach der Revolution (1919), questa 

critica sfocierà in seguito — in Das preussisch-deutsche Problem im 

Jahre 1921 — nella revisione del quadro storiografico tracciato in 

Weltbiirgertum und Nationalstaat. Più tardi ancora, nel 1924, 

Meinecke ne trarrà spunto per affrontare il problema dell’antitesi 

tra potenza e spirito, considerati come i momenti antinomici della 

vita politica. 


Mentre Weber e Meinecke si portavano (al pari di Troeltsch) su 

posizioni apertamente democratiche, appoggiando la repubblica di 

Weimar e prendendo parte alla sua travagliata esistenza, la coscien- 

za della sconfitta tedesca trovava un'espressione emblematica in un’o- 

pera destinata ad avere larghissima fortuna — in Der Untergang 

des Abendlandes di Oswald Spengler, apparsa tra il '18 e il ’22. A 

differenza degli altri esponenti del movimento storicistico, Spengler 

viveva ai margini della cultura accademica: dopo aver conseguito il 

dottorato aveva dapprima insegnato in liceo, e si era quindi dedica- 

to all'attività pubblicistica. La sua stessa formazione filosofica non 

era priva di aspetti dilettanteschi: i suoi « autori » prediletti erano 

Goethe e Nietzsche, ma l’uno e l’altro subivano nell’opera spengle- 

riana un sostanziale travisamento. Accanto alla loro presenza non è 

difficile cogliere alcuni temi caratteristici dell’ultimo Dilthey e di 

Simmel: anzi, i presupposti fondamentali di Der Untergang des 

Abendlandes mostrano chiaramente la loro derivazione da Dilthey, 

anche se si tratta di un Dilthey interpretato (e il più delle volte 

frainteso) in senso relativistico. Spengler accoglie infatti la distinzio- 

ne diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito, trasfor- 

mandola nell’antitesi tra il « mondo come natura» e il « mondo 

come storia » e affermando l’irriducibilità della conoscenza storica 

al metodo della scienza naturale; analogamente, egli fa propria 

la tesi dell’autocentralità delle epoche storiche, traducendola nel 

postulato della radicale eterogeneità delle culture e della loro recipro- 

ca incomunicabilità. Su questa piattaforma s'innesta il richiamo alla 



64 INTRODUZIONE 



prospettiva organicistica di Goethe, in virtù del quale ogni cultura 

viene interpretata come un organismo biologico che deve necessaria- 

mente percorrere il ciclo vitale proprio della specie alla quale appar- 

tiene. Dalla visione della storia come sviluppo di una molteplicità 

di culture chiuse in se stesse, destinate a morire dopo aver esaurito 

il complesso di possibilità che le caratterizza al momento della 

nascita, deriva la profezia spengleriana dell’imminente « tramonto 

dell'Occidente », nella quale il crollo della potenza della Germania si 

trasfigura nell’inevitabile destino di morte di un'intera civiltà. 


L’impianto dottrinale di Der Untergang des Abendlandes si 

regge in primo luogo, come si è accennato, sull’antitesi tra il 

«mondo come natura » e il « mondo come storia »; e questa vien 

fatta coincidere con la contrapposizione goethiana tra divenuto e 

divenire. Il « mondo come natura » è infatti il mondo del divenire, 

caratterizzato dall’estensione spaziale e dalla necessità causale, che 

trova la propria formulazione nella legge matematica; il « mondo 

come storia » è il mondo del divenire, caratterizzato dalla direzione 

del corso temporale e dalla necessità organica, che si esprime nella 

forma vivente. La loro conoscenza comporta perciò due specie diffe- 

renti di logica: la natura può essere appresa avvalendosi di una 

logica meccanica, che si regge sul principio di causalità e sulla 

determinazione di rapporti matematici, mentre la storia può essere 

colta soltanto attraverso la logica organica, che si regge sull’intuizio- 

ne della forma vivente. Spengler riprende quindi da Dilthey la 

distinzione tra spiegazione e comprensione, ma riduce al tempo 

stesso quest’ultima — procedendo in senso opposto a Weber — a 

un atto intuitivo, all’immediatezza dello « sguardo storico ». Il rifiu- 

to del metodo naturalistico e della spiegazione causale mette così 

capo all’antitesi tra due tipi di conoscenza, che vengono rispettiva- 

mente designati come sistematica e come fisiognomica. C'è però 

ancora un’altra differenza, non meno importante. I due tipi di 

conoscenza non si pongono più sullo stesso piano, come avveniva in 

Dilthey: dal momento che ogni divenuto procede dal divenire, il 

«mondo come storia » acquista una preminenza ontologica rispetto 

al « mondo come natura », e l’immagine della natura viene a dipen- 

dere dalla concezione del mondo, storicamente condizionata, delle 

singole culture. 


Su questa base Spengler si propone di realizzare una « morfolo- 

gia della storia universale », concepita come studio delle forme 



INTRODUZIONE 65 



viventi del divenire storico. Ma la « storia universale » si articola, ai 

suoi occhi, in una molteplicità di forme non riconducibili a una 

superiore unità. Il divenire storico non è il progressivo dispiegamen- 

to di un principio unitario, ma coincide con la ripetizione necessa- 

ria di una medesima vicenda, che è poi il ciclo biologico delle 

culture. La struttura portante del « mondo come storia » è perciò 

non il singolo individuo e neppure l'umanità nel suo complesso, ma 

la singola cultura, nel suo sorgere attraverso il distacco dall’umanità 

primitiva — astorica per definizione — e nel suo successivo svilup- 

po fino alla morte inevitabile, a una morte cui non può sottrarsi 

come non può sottrarvisi nessun altro organismo. La storia è quin- 

di storia di culture, e l’esistenza storica dell’individuo è definita 

dalla sua appartenenza a una cultura e al suo particolare mondo sim- 

bolico. Infatti, se è vero che tutte le culture percorrono uno stesso ci- 

clo, esse si differenziano d’altra parte tra loro per quanto riguarda la 

concezione del mondo. Ogni cultura è infatti caratterizzata, fin 

dalla nascita, da un complesso di possibilità, da una propria eredità 

biologica che è diversa da quella delle altre culture. La visione 

organicistica della storia e l'affermazione della relatività delle cultu- 

re e dei loro rispettivi mondi simbolici rappresentano così i due 

aspetti — strettamente connessi — dell’impostazione di Der Unter- 

gang des Abendlandes. "Tra le varie manifestazioni delle culture vi 

è sì una corrispondenza formale, che consente di stabilire analogie e 

di dar luogo a uno studio comparativo, ma c’è anche una radicale 

eterogeneità di contenuto: la matematica occidentale e la matemati- 

ca indiana, tanto per fare un esempio, non hanno alcun rapporto 

tra loro. Non soltanto non esiste alcuna verità assoluta, ma ogni 

prodotto storico — e quindi anche ogni teoria scientifica, ogni 

dottrina filosofica o religiosa, ogni norma etica — non è altro che 

l’espressione di una data cultura in un particolare momento del suo 

sviluppo. Di conseguenza, la sua validità è circoscritta all'ambito 

della cultura che l’ha prodotta, ed è ulteriormente limitata a una 

certa fase del suo processo evolutivo. Ogni cultura ha un proprio 

orizzonte che abbraccia tutte le sue manifestazioni, e che le rende 

perfino incomunicabili alle altre culture. 


Spengler perviene in tal modo a preannunciare l'imminente tra- 

monto dell’Occidente. L'analisi del processo evolutivo della cultura oc- 

cidentale rivela infatti che essa non soltanto ha da tempo concluso la 

sua fase creativa, ma è ormai prossima alla fine. Anzi, essa non è pro- 



3. STORICISMO TEDESCO. 



66 INTRODUZIONE 



priamente più una cultura, ma è una cultura meccanizzata e « divenu- 

ta», una « cultura-in-declino » (Zivilisation): ne è prova il rovescia- 

mento dei valori che caratterizza l’epoca moderna, al pari di qualsia- 

si epoca di declino di una cultura. Spengler accoglie così la diagnosi 

che della civiltà contemporanea avevano dato i critici aristocratici 

della seconda metà dell'Ottocento, da Burckhardt a Nietzsche, i 

quali avevano guardato con timore e preoccupazione all’avvento 

della democrazia e del socialismo, all’irrompere delle masse sulla 

scena storica, all’importanza crescente del sapere scientifico e della 

tecnica. La stessa contrapposizione tra Kultur e Zivilisation esprime 

per un verso la predilezione, tipicamente romantica, per i valori 

originari e « primitivi » della cultura, per l’altro verso la valutazione 

negativa dell’azione uniformante della civiltà industriale moderna e 

delle tendenze egualitarie che tendono a eliminare le differenze di 

ceto. Anche per Spengler la dissoluzione del vecchio ordine sociale, 

il mutamento dei rapporti tra le classi, il declino dell’aristocrazia e 

l’ascesa della borghesia, la preminenza dell’economia sulla politica, 

l’onnipotenza del denaro sono aspetti di una crisi che investe non 

soltanto la Germania, ma l’intero Occidente. A questa crisi è impos- 

sibile sottrarsi, in quanto essa è il portato inevitabile del ciclo 

biologico delle culture e si colloca quindi sotto il segno del destino. 

L'individuo può soltanto riconoscerne la necessità, e cercare di 

disporsi nella direzione del processo storico anziché pretendere vana- 

mente di opporglisi. 


L’opera di Spengler esprimeva la crisi politico-culturale della 

Germania sconfitta, ma rivelava altresì l'incapacità di analizzarne i 

motivi storici concreti e la tendenza a trasporla su un piano metafisi- 

co. Attraverso la polemica contro la democrazia e il socialismo, 

attraverso l’esaltazione degli aspetti primitivi della storia e il rifiuto 

della civiltà industriale moderna, Spengler forniva elementi preziosi 

all'elaborazione dell’ideologia nazista. In una serie di volumi di più 

immediato intento politico — da Preussentum und Sozialismus 

(1919) a Der Mensch und die Technik (1931) e a Jahre der Entschei- 

dung (1933) — egli avanzava infatti la proposta di un « socialismo 

prussiano » capace di restaurare l’autorità dello stato, e concepito 

come la continuazione dell’ideale germanico della subordinazione 

dell'individuo alla volontà collettiva del corpo sociale. Anche se 

Spengler guarderà sempre con diffidenza a Hitler, rifiutando di 

riconoscersi nel movimento che andava al potere nel °33, non per 



INTRODUZIONE 67 



questo si può negare l’affinità profonda tra la sua posizione anti-de- 

mocratica (e anti-marxista) e l’ideologia del nazismo. La stessa affer- 

mazione del dovere etico di accettare il destino poteva facilmente 

tradursi in un atteggiamento di convinta adesione al nuovo regime, 

esaltato come il segno dei tempi nuovi e lo strumento della riscossa 

tedesca. Su un versante diverso, le conclusioni relativistiche di Der 

Untergang des Abendlandes ponevano in luce un’altra crisi, quella 

dello storicismo; ponevano cioè in luce il pericolo di una vanificazione 

dei valori a cui questo era esposto. Non a caso lo stesso Weber, e con 

lui Troeltsch e Meinecke, si affrettarono a prendere le distanze da 

Spengler e a denunciare le aporie della sua opera. Dopo di allora 

l'ombra del relativismo graverà sempre minacciosa sulla cultura 

filosofica tedesca, spingendola verso una restaurazione dei valori che 

ne salvaguardasse, in qualche modo, la validità oltre l'ambito della 

singola cultura o della singola epoca storica. 



VIII. 



Toccherà a ‘Troeltsch e a Meinecke tentare una risposta alla 

crisi dello storicismo. Partiti da interessi e da esperienze culturali 

differenti, essi si trovano alla fine del conflitto impegnati in una co- 

mune battaglia contro le conseguenze relativistiche dello storicismo e 

contro l’« anarchia dei valori » che questo sembra comportare. La- 

sciata Heidelberg nel 1915, Troeltsch si era trasferito a Berlino 

passando contemporaneamente dall’insegnamento della teologia siste- 

matica a una cattedra di filosofia; e qui egli incontrava Meinecke, 

che era approdato alla capitale l'anno precedente. S’inizia così tra 

loro un periodo d’intensa collaborazione filosofica a cui porrà termi- 

ne, nel febbraio 1923, la morte di Troeltschj; e la piattaforma 

dottrinale definita in questi anni continuerà a ispirare per lungo 

tempo l’elaborazione teorica di Meinecke, ancora sotto il regime 

nazista e negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Comu- 

ne a entrambi è la consapevolezza della crisi dello storicismo, intesa 

— secondo la formulazione di Troeltsch, che Meinecke sostanzial- 

mente condivide — non già come una crisi della ricerca storica ma 

come una crisi del « pensiero storico », e cioè del significato che la 

storia riveste per la concezione del mondo. Lo storicismo si configu- 

ra ai loro occhi come una concezione generale della realtà, che 

procede « dalla fondamentale storicizzazione del nostro sapere e del 



68 INTRODUZIONE 



nostro pensiero»: non tanto uno sforzo di analisi metodologica 

delle scienze storico-sociali o di analisi strutturale del mondo uma- 

no, quanto una visione complessiva del mondo e della vita. Comu- 

ne a Troeltsch e a Meinecke è pure l’intento di sottrarsi alla crisi 

dello storicismo attraverso una restaurazione dei valori che ne re- 

cuperi l’assolutezza — un’assolutezza senza la quale l’uomo ri- 

mane privo di criteri di orientamento per il proprio agire. La 

riduzione dei valori a prodotto storico, nella quale Dilthey aveva 

visto una conquista positiva dello storicismo, appare invece una sua 

conseguenza negativa, che mette in pericolo la stessa possibilità di 

norme etiche. Perciò essi cercano nella teoria dei valori un punto di 

appoggio per opporsi all’esito relativistico dello storicismo, che l’ope- 

ra di Spengler esprimeva in modo emblematico. 


Già nel 1904, al suo primo approccio ai problemi della filosofia 

della storia, Troeltsch si era richiamato alla definizione rickertiana 

dell’oggetto storico, indicandone il fondamento nella relazione ai 

valori. Anche nel periodo berlinese — in Der Historismus und 

seine Probleme (1922) e poi nei saggi postumi raccolti sotto il titolo 

Der Historismus und seine Uberwindung (1924) — la teoria dei 

valori costituisce lo sfondo dell’elaborazione filosofica di Troeltsch. 

Il punto di partenza del suo tentativo di restaurazione dei valori è 

rappresentato infatti dalla caratterizzazione dell'oggetto storico co- 

me una «totalità individuale », a cui è inerente una connessione di 

senso che la distingue in maniera radicale dall'oggetto della cono- 

scenza naturale. A differenza dei processi naturali, l’oggetto storico 

è costituito da un rapporto con i valori che ne garantisce l’unità, 

anzi un'unità di significato la quale abbraccia i molteplici elementi 

che lo compongono. Troeltsch afferma così la presenza nell’oggetto 

storico di un senso immanente, il quale viene identificato con il 

valore (individuale) di tale oggetto. Ciò comporta un mutamento 

rilevante, ancorché non esplicito, rispetto alla posizione di Rickert. 

Mentre per quest'ultimo il senso dell’oggetto storico consisteva nel 

riferimento a valori incondizionati che si realizzano storicamente 

ma che sussistono indipendentemente dalla storia, per Troeltsch 

senso e valore coincidono: il mondo dei valori non è più un 

mondo fornito di autonomia ontologica, ma diventa la connessione 

significativa inerente allo sviluppo storico. Al pari del singolo ogget- 

to storico nella sua individualità, anche lo sviluppo storico nel suo 

complesso risulta costituito dalla presenza immanente dei valori. 



INTRODUZIONE 69 



Questi diventano perciò la struttura assiologica della storia, la sua 

struttura per così dire « assoluta ». Il recupero dell’assolutezza dei 

valori avviene postulandone non più la trascendenza metafisica ma 

l'immanenza, e quindi ‘attraverso il ritorno alla nozione romantica 

di individualità. 


In questa impostazione Meinecke poteva trovare una sostanziale 

continuità rispetto al punto di vista espresso in Welrbirgertum 

und Nationalstaat. Quando nel 1918, nel saggio Persònlichkeit und 

geschichiliche Welt, egli affronta per la prima volta il problema del 

rapporto tra storia e valori, è proprio la nozione romantica di 

individualità che gli permette di riconoscere da un lato l’autonomia 

della singola persona e dall’altro la presenza nella storia di forze 

sovra-personali che s'intrecciano dando vita ai fenomeni storici. Lo 

sviluppo storico gli appare un processo nel quale l'uomo, pur 

essendo inserito in una molteplicità di serie causali, produce tutta- 

via un mondo di valori spirituali che, collocandosi oltre il livello 

dell’esistenza naturale, si contrappongono alla causalità della natu- 

ra. Si ripropone così, sul terreno della storia, il problema kantiano 

del rapporto tra necessità e libertà, concepito in termini per un 

verso di antitesi e per l’altro verso di connessione. Per Meinecke lo 

sviluppo storico è infatti un intreccio indissolubile di necessità e di 

libertà, dove il primo termine è identificato con l’azione causale 

delle condizioni naturali e il secondo con la capacità di creare valori 

culturali. Ma quest’intreccio è tutt'altro che una coesistenza armoni- 

ca: al contrario, la realizzazione dei valori comporta una lotta 

costante contro le condizioni naturali e quindi lo sforzo di rompere 

il quadro della loro causalità. 


La drammaticità di questo rapporto è stata posta in luce da 

Meinecke soprattutto a proposito del mondo della politica e, in 

particolare, dell’esistenza dello stato. Nella sua seconda grande ope- 

ra storica, Die Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte 

(iniziata durante la guerra ma pubblicata soltanto nel ’24), egli ha 

additato nell’antitesi tra potenza e spirito la struttura fondamentale 

della politica e l’essenza stessa della « ragion di stato ». Ma quest’an- 

titesi non è altro che una manifestazione del contrasto tra necessità e 

libertà. Da una parte la politica è legata a condizioni naturali: al 

pari di ogni organismo, lo stato tende all’autoconservazione e, per 

conservarsi, deve affermare la propria potenza nei confronti degli 

altri stati e, occorrendo, in conflitto con essi, Dall'altra parte la 



70 INTRODUZIONE 



politica è in rapporto con i valori: anche lo stato si propone di 

produrre o quanto meno di salvaguardare i valori culturali, proce- 

dendo oltre la propria base naturale e abbracciando in sé la vita 

etica, giuridica, religiosa, artistica di un popolo. Lo stato ha così 

un'essenza in qualche modo duplice: esso è insieme necessità e 

libertà, natura e spirito, o più precisamente krdtos e é:h05 — vale 

a dire aspirazione alla potenza e aspirazione alla realizzazione di 

valori culturali. La sua esistenza si svolge tra due poli, tra il polo 

della naturalità da cui prende le mosse e il polo della spiritualità 

verso cui si eleva. Questo contrasto intrinseco al mondo della politi- 

ca costituisce l’antinomia della «ragion di stato », nel suo sempre 

rinnovato tentativo di conciliare due termini tra loro inconciliabili. 

Che questo tentativo sia aleatorio, e dia luogo soltanto a sintesi 

provvisorie, è dimostrato soprattutto dalla tendenza del primo termi- 

ne a prevalere sul primo, cioè dalla tendenza dell'impulso alla 

potenza a subordinare a sé i valori culturali. La potenza è infatti 

indifferente ai valori culturali e alla loro realizzazione, è « indifferen- 

te rispetto al bene e al male». Ma quest'amoralità della potenza 

trapassa di continuo — come dimostra la storia dell'idea di « ragion 

di stato », da Machiavelli fino a Treitschke — nell’immoralità, ossia 

nel rifiuto o nella soppressione dei valori culturali, Il diritto dello 

stato alla propria conservazione e al proprio accrescimento lo spinge 

verso una politica di potenza di stampo bismarckiano, nella quale 

l'autonomia dei valori va inevitabilmente perduta. 


L’antinomia tra &rdtos e éthos appare quindi, in sostanza, un 

aspetto particolare dell’antitesi tra il fondamento naturale della sto- 

ria e l’aspirazione a valori culturali; e l'esigenza di garantire l’auto- 

nomia di questi ultimi nei confronti dell’opposta aspirazione alla 

potenza coincide con l’esigenza di salvaguardarne l’assolutezza che, 

essa sola, può evitare che la « relatività dei valori» degeneri in un 

«relativismo dei valori ». In Der Historismus und seine Probleme 

(apparso due anni prima di Die Idee der Staatsrison) Troeltsch si 

proponeva di offrire una via di uscita da questa difficoltà attraverso 

la formulazione di una filosofia « materiale » della storia. Compito 

della filosofia della storia è, in generale, quello di elaborare una 

« sintesi culturale » adeguata a una certa situazione storica, e capace 

perciò di indicare agli individui la direzione di sviluppo da percorre- 

re in riferimento ad essa. Anche per l’epoca contemporanea si pone 

un problema del genere: non diversamente dal passato, la filosofia 



INTRODUZIONE 71 



deve oggi proporre agli uomini un ideale di civiltà costruito attraver- 

so una critica immanente del processo evolutivo della cultura occi- 

dentale e la determinazione delle sue possibilità di sviluppo. Perciò 

la « sintesi culturale » contemporanea non può non essere condiziona- 

ta dai valori specifici di un certo ambito di civiltà, ed anzi esprimere 

questi valori assumendoli a criterio direttivo per il futuro. Ancora 

una volta, quindi, i valori rivelano la loro intrinseca relatività; e il 

rapporto con l'assoluto, lungi dal configurarsi come un dato incon- 

trovertibile, si presenta piuttosto come un compito da realizzare. Il 

divenire storico, con la molteplicità e la variabilità delle sue forme, 

si incontra e si scontra con il bisogno insopprimibile di trovare 

delle norme in grado di fornire un orientamento sicuro all’agire 

umano. Ma allora — come risulta chiaramente dai saggi postumi di 

Der Historismus und seine Uberwindung — la conciliazione tra 

relatività storica e assolutezza rimane sempre problematica. Essa è 

fondata, in ultima analisi, su una convinzione personale, su un atto 

di fede. 


Una posizione del genere era senza dubbio assai debole; né i 

tentativi di approfondimento compiuti in quegli stessi anni da Mei- 

necke — nei saggi Ernst Troeltsch und das Problem des Histori- 

smus (1923) e Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924) — 

riuscivano a darle una base più solida. La stessa distinzione tra 

causalità naturale e causalità etico-spirituale, che riposava sull’identifi- 

cazione di quest'ultima con lo sforzo umano di realizzazione dei 

valori culturali, si richiamava sempre alla nozione romantica di 

individualità, mettendo capo all’affermazione dell’individualità del 

valore e della sua inerenza al processo storico. Non a caso, un 

decennio più tardi, l’adesione allo storicismo e lo sforzo di sottrarlo 

alle spire mortali del relativismo si compongono non tanto sul 

terreno teorico, quanto in un nostalgico quadro retrospettivo delle 

origini dello storicismo. In Die Entstehung des Historismus (1936) 

Meinecke muove dalla convinzione che lo storicismo costituisca la 

maggiore «rivoluzione » culturale dell’età moderna, in virtù della 

quale la fede giusnaturalistica in una ragione eterna e atemporale 

ha lasciato il posto al duplice riconoscimento dell’individualità dei 

singoli momenti del mondo umano e della loro appartenenza a un 

processo di sviluppo che tutti li comprende. Il diritto naturale — 

elemento costante della tradizione filosofica occidentale, dal pensiero 

antico al Cristianesimo, dal Rinascimento all'Illuminismo — è consi- 



72 INTRODUZIONE 



derato da Meinecke il grande antagonista dello storicismo, e al tempo 

stesso il suo immediato antecedente storico. Sorto attraverso un secola- 

re distacco dall’impostazione giusnaturalistica, che ha avuto inizio con 

il trapasso dal razionalismo seicentesco alla cultura illuministica, lo 

storicismo è giunto alla sua piena maturità nel pensiero tedesco di 

fine Settecento con Herder, con Mîser, con Goethe. In questa 

prospettiva il rapporto tra Illuminismo e storicismo si presenta 

come un rapporto di opposizione, ma anche di continuità: la cultura 

illuministica ha messo in crisi, dall’interno, la fiducia nell’esistenza 

di norme razionali immutabili, creando così le premesse di un 

nuovo senso della storia. Perciò lo storicismo di cui Meinecke 

delinea il processo genetico è pur sempre identificato con la concezio- 

ne romantica della storia e con l’elaborazione dottrinale che questa 

ha subìto da parte della scuola storica tedesca, in particolare ad 

opera di Ranke. E nel richiamo a Ranke, il quale concepisce « Dio 

al di sopra del mondo, il mondo creato da lui, ma anche percorso 

dal suo spirito, e perciò affine a Dio e al tempo stesso anche sempre 

imperfetto in quanto terreno », Meinecke cerca il modo di sottrarre lo 

storicismo al suo esito relativistico. Contro l’idealismo post-kantiano 

e contro la filosofia della storia di Hegel egli ribadisce — in 

polemica con Croce, che aveva sostenuto l’ascendenza hegeliana 

dello storicismo e la sua identità col «razionalismo concreto» — 

l'impossibilità di ricondurre il processo storico a un principio razio- 

nale; contemporaneamente egli rivendica nei confronti del movimen- 

to storicistico degli ultimi decenni l’assolutezza dei valori, un’assolu- 

tezza operante nell’ambito della storia che designa (rankianamente) 

la presenza di Dio in ogni epoca storica. 


Questa impostazione, esplicitamente formulata in una serie di 

saggi poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der 

Geschichte (1939) e negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte 

(1942), segnava la conclusione dello sforzo speculativo dello storici- 

smo tedesco contemporaneo. Ma ne segnava anche, in larga misura, 

il fallimento. L'ombra del relativismo dava luogo a un tentativo di 

restaurazione dei valori che si risolveva, in fondo, nel ritorno alla 

visione romantica della storia, a quella visione da cui il movimento 

storicistico aveva cercato — a partire da Dilthey — di svincolarsi. E 

significativamente l’affermazione della presenza dell’assoluto in 

ogni momento del processo storico veniva a coincidere proprio con 



INTRODUZIONE 73 



quella relativizzazione dei valori che Troeltsch e Meinecke si erano 

proposti di evitare. La via di uscita dal relativismo era trovata in un 

vago e generico rinvio al senso ignoto della storia, alla possibilità di 

conciliare immanenza e trascendenza su un piano inaccessibile alla 

logica umana. 


Caratteristico prodotto di un’epoca che aveva guardato alla sto- 

ria con fiducia, di un’epoca che aveva visto il consolidarsi del 

capitalismo industriale e l’affermazione della potenza del nuovo 

stato nazionale tedesco, di un’epoca che aspirava a penetrare scientifi- 

camente i processi storici senza però ridurli naturalisticamente a 

processi biologici o psicologici, il movimento storicistico non ha 

retto al trauma della guerra e della sconfitta. Anche se i rapporti 

tra la crisi politico-culturale della Germania post-bellica e la crisi 

dello storicismo tedesco sono tutt'altro che diretti, e sfuggono 

in ogni caso a troppo facili semplificazioni — del tipo di quelle 

predilette dal Luk&cs della Zerstorung der Vernunft — non si 

può negarne né la sostanziale contemporaneità né la correlazio- 

ne. Intorno al 1920 il movimento storicistico ha ormai esaurito 

la sua carica produttiva; e la morte di Weber può essere assun- 

ta come data emblematica di questa svolta. Da allora esso guar- 

da al futuro con timore, con il timore che il processo storico 

porti non già all’accrescimento ma alla perdita del patrimonio 

culturale che la storia precedente ha trasmesso. Da ciò il ripie- 

gamento sul passato che spinge Troeltsch e Meinecke a idealiz- 

zare l’eredità del pensiero romantico e a cercarvi un rifugio. Il 

grandioso quadro storiografico di Die Enzstehung des Historismus 

è sì un esame di coscienza dello storicismo, ma ne costituisce anche 

— quasi inconsapevolmente — l’elogio funebre. In una Germania 

dominata dal nazismo, la quale si apprestava a tentare una rivincita 

che avrebbe condotto a un nuovo più grave disastro, in un clima 

culturale ormai caratterizzato dalla presenza di altri orientamenti 

filosofici — in primo luogo la fenomenologia e l’esistenzialismo — 

non c’era più posto per lo sforzo di analisi metodologica e di analisi 

strutturale che lo storicismo aveva perseguito. Il ritorno alla concezio- 

ne romantica, al senso di uno sviluppo pervaso da forze irrazionali 

mai completamente eliminabili, rappresentava la resa dinanzi al pre- 

sente, e insieme un tentativo di fuga dalla sua opprimente e dispe- 

rata realtà. 


Non per questo, tuttavia, l’eredità del movimento storicistico 



74 INTRODUZIONE 



andava perduta. Nella breve e travagliata stagione della repubblica 

di Weimar esso aveva fecondato per vie diverse il sorgere dell’esisten- 

zialismo, il rinnovamento del pensiero marxistico, lo sviluppo lella 

sociologia del sapere. Dalla Psychologie der Weltanschauungen (1919) 

di Jaspers a Sein und Zeit (1927) di Heidegger, da Geschichte 

und Klassenbewusstsein (1923) di Luk&cs a Ideologie und Utopie 

(1929) di Mannheim, esso ha contribuito in maniera decisiva al deli- 

nearsi di nuove prospettive filosofiche e di nuove direzioni d'indagine 

storico-sociologica. Anche più tardi, quando il nazismo sarà pervenu- 

to al potere, il movimento storicistico continuerà ad agire soprattut- 

to fuori dei confini tedeschi, e un'intera generazione di studiosi più 

giovani — educati nell'immediato dopoguerra e costretti all'esilio 

all’inizio degli anni ’30 — recherà all’estero l'insegnamento di 

Dilthey, di Simmel e soprattutto di Weber, Così lo storicismo 

tedesco è sopravvissuto in forme molteplici alla propria crisi, mo- 

strando la sua non ancora cessata capacità di trasfigurazione. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Vengono qui indicate soltanto opere di carattere generale, che si rife- 

riscono in tutto o in parte allo storicismo tedesco contemporaneo e ai suoi 

rapporti con la cultura filosofica otto-novecentesca. Le monografie dedicate 

a singoli autori sono menzionate nelle rispettive note bibliografiche. 



R. Aron, Essai sur la théorie de l'histoire dans l’ Allemagne contempo- 

raine (La philosophie critique de l’histoire), Paris, 1938, 19502. 



M. ManpeLsaum, The Problem of Historical Knowledge, New York, 1938, 

parte I. 



C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1939 (ristampa 1973). 



H. R. von SrBik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismus bis 

zur Gegenewart, Miinchen, 1950-51. 



G. Luracs, Die Zerstorung der Vernunft, Berlin, 1953; tr. it. Torino, 1959. 

P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, 1971?. 



H. Stuart HucHes, Consciousness and Society (The Reorientation of 

European Social Thought), New York, 1958; tr. it. Torino, 1967. 



P. Rossi, Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Milano, 1960. 



I. S. Kon, Die Geschichtsphilosophie des 20. Jahrhunderts - Kritischer 

Abriss (tr. dal russo), Berlin, 1964. 



G. ScHmipr, Deutscher Historismus und der Ùbergang zur parlamenta- 

rischen Demokratie: Untersuchungen zu den politischen Gedanken 

von Meinecke, Troeltsch, Max Weber, Liùbeck-Hamburg, 1964. 



M. C. Branps, MHistorisme als Ideologie: Het « onpolitieke » en « anti-nor- 

mative » Element in de Duitse Geschiedwetenschap, Assen, 1965. 



G. G. Iccers, The German Conception of History: The National Tradi- 

tion of Historical Thought from Herder to Present, Middletown 

(Conn.), 1968; tr. tedesca col titolo Deussche Geschichtswissenschaft, 

Miinchen, 1971. 



76 NOTA BIBLIOGRAFICA 



F. Tessitore, Lo storicismo, nella Storia delle idee politiche, economiche 

e sociali, Torino, vol. IV, 1972, pp. 27-126. 



Sulla storia e sui significati del termine « storicismo » si rimanda ai 

seguenti studi: 



E. RorHacger, Historismus, « Schmollers Jahrbuch », LXII, 1938, pp. 388-99. 



D. E. Lee e R. N. Beck, The Meaning of « Historicism », « American 

Historical Review », LIX, 1953-54, pp. 568-77. 



C. G. Ranp, Two Meanings of Historicism in the Writings of Dilthey, 

Troeltsch and Meinecke, « Journal of the History of Ideas», XXV, 



1964, pp. 503-18. 



P. Rosst, Storicismo, nella Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, vol. XIV : Filo- 

sofia, Milano, 1966, pp. 446-72. 



M. ManpeLBAUM, Historicism, in The Encyclopedia of Philosophy, New 

York, 1967, vol. IV, pp. 22-25. 



G. G. Iccers, Historicism, nel Dictionary of the History of Ideas, New 

York, 1973, vol. II, pp. 456-64. 



La presente edizione 



I testi compresi in questo volume sono stati tradotti ex mzovo anche 

quando ne esisteva un'altra traduzione italiana. Si è fatta eccezione sol- 

tanto per gli scritti filosofici di Dilthey e per i saggi metodologici di 

Weber, a suo tempo tradotti dal curatore in due volumi della « Biblioteca 

di cultura filosofica» di Einaudi, nonché per il primo capitolo della 

Soziologie di Simmel, del quale si è utilizzata la traduzione (non ancora 

pubblicata) di Giorgio Giordano per i « Classici della sociologia » delle 

Edizioni di Comunità, e per l’altro saggio weberiano Wissenschaft als 

Beruf, del quale si è utilizzata l'ottima traduzione di Antonio Giolitti. 

Anche in questi casi, però, la traduzione è stata sottoposta a una revi- 

sione accurata, e in diversi passi modificata a scopo di uniformità termi- 

nologica. 


Il curatore desidera ringraziare pubblicamente Sandro Barbera, che 

ha prestato la sua valida opera di traduttore, nonché Claudio Magris, Mas- 

simo Mori ed Enzo Randone, che lo hanno aiutato a rintracciare alcune 

citazioni. Un particolare ringraziamento va a Massimo Mori, che ha con- 

tribuito alla correzione delle bozze. 



WILHELM DILTHEY 



NOTA BIOGRAFICA 



Wilhelm Dilthey nacque a Biebrich am Rhein, nel ducato di Nas- 

sau, il 19 novembre 1833, figlio di un pastore calvinista. Dopo aver 

compiuto gli studi liceali a Wiesbaden, si iscrisse all’Università di 

Heidelberg e quindi a quella di Berlino, seguendo corsi di teologia, di 

filosofia e di discipline storiche: a Heidelberg fu allievo dello storico 

della filosofia Kuno Fischer, a Berlino di alcuni dei maggiori maestri 

della scuola storica come il filologo classico August Boeckh, lo storico 

Leopold von Ranke, il geografo Karl Ritter, nonché di un altro illustre 

storico della filosofia, Adolf Trendelenburg. In virtù del loro insegna- 

mento la partecipazione di Dilthey al mondo della cultura romantica, 

soprattutto alla poesia e alla musica da un lato e alla religiosità dal- 

l’altro — partecipazione di cui è testimonianza il diario giovanile, 

pubblicato postumo dalla figlia Clara Misch Dilthey col titolo Der junge 

Dilthey (Leipzig-Berlin, 1933; Gottingen, 1960?) — si traduce nell’inte- 

resse storico per la concezione del mondo e per le manifestazioni artistico- 

letterarie, religiose, filosofiche del Romanticismo tedesco. Da questo interes- 

se prese le mosse una serie di studi su Hamann (1859) e su Schleierma- 

cher, che metteranno capo — dietro suggerimento di Trendelenburg — 

prima alla dissertazione di dottorato De principiis ethices Schleiermache- 

ri (Berlin, 1964; tr. it. Napoli, 1974) e poi al primo volume di un'ampia 

biografia rimasta incompiuta, il Leben Schleiermachers (Berlin, 1867-70; 

2° ed. a cura di H. Mulert, Berlin-Leipzig, 1922; 3* ed. a cura di M. 

Redeker, Berlin, 1970). Dopo aver ottenuto l'abilitazione a Berlino, Dil- 

they diventa professore di filosofia a Basilea nel 1867, per poi trasferirsi 

a Kiel nel 1868 e a Breslau nel 1871. In quest'ultima città egli stringe 

amicizia col conte Paul Yorck von Wartenburg, con il quale egli avrà 

un intenso e fecondo scambio intellettuale fino alla morte di lui: testimo- 

nianza di questo scambio sono le lettere pubblicate postume (nel Brief- 

wechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von 

Wartenburg, Halle, 1923). Nel 1882, infine, Dilthey fu chiamato a 

succedere a Hermann Lotze all’Università di Berlino, dove insegnò fino 

al 1906. Priva di avvenimenti esteriori di rilievo (Dilthey non partecipò 

mai alla vita politica tedesca), la vita di Dilthey coincide sostanzialmen- 



80 WILHELM DILTHEY 



te con la sua carriera accademica e con la sua attività intellettuale. Morì 

a Siusi (Bolzano) il 1° ottobre 1911. 


Negli anni dal 1864 (in cui scrive il VersucA einer Analyse der 

moralischen Bewusstsein, presentato come lavoro di dissertazione) al 

1875 (in cui pubblica il saggio Uber das Studium der Geschichte der 

Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat) Dilthey 

ha elaborato i presupposti della propria impostazione filosofica, staccando- 

si gradualmente dalle posizioni romantiche della sua gioventù e avvici- 

nandosi al movimento neoccriticistico. L'Habilitationsschrift del 1864, 

dedicata a un'analisi della coscienza morale che riflette da vicino l'inse- 

gnamento di Trendelenburg, vuol rivendicare nei confronti dell'etica 

kantiana il carattere storico delle prescrizioni in cui si esprime l’imperati- 

vo categorico, e quindi la variabilità del contenuto della morale. In 

seguito, la prolusione con la quale Dilthey dà inizio nel 1867 al suo 

insegnamento a Basilea (Die dichterische und philosophische Bewegung 

in Deutschland 1770-1800), se da un lato pone in rilievo l’importanza 

del contributo che la cultura tedesca di fine Settecento, da Lessing a 

Hegel, ha dato alla comprensione delle manifestazioni storiche del mon- 

do umano, dall’altro fa valere l'esigenza di estendere l’indagine critica 

alle scienze che studiano la realtà storico-sociale. Il saggio del 1875 

riprende questi temi impostando per la prima volta in termini espliciti il 

problema della fondazione critica di queste discipline, ossia delle « scien- 

ze dello spirito ». Questo problema costituisce il punto di partenza di 

tutta la successiva produzione filosofica diltheyana del periodo berlinese. 


Nel 1883 compare il primo (e anche unico) volume dell’Ein/eitung in 

die Gersteswissenschaften (tr. it. Firenze, 1974), in cui Dilthey si propo- 

ne di rivendicare l'autonomia delle scienze storico-sociali nei confronti 

delle scienze naturali, determinandone le caratteristiche specifiche e quin- 

di le condizioni che ne garantiscono la validità. Le scienze della natura 

e le scienze dello spirito si differenziano — secondo l'analisi diltheyana 

— in primo luogo per il loro oggetto, in quanto le prime studiano un 

complesso di fenomeni esterni all'uomo, mentre le seconde studiano 

invece un dominio di cui l’uomo è parte integrante e di cui possiede 

una coscienza immediata. A questa differenza di oggetto si accompagna 

perciò una differenza di carattere gnoscologico, dal momento che i dati 

delle scienze della natura provengono dall'osservazione esterna e i dati 

delle scienze dello spirito derivano, in primo luogo, dall'esperienza inter- 

na, dall'esperienza vissuta (Er/ebnis) che l'uomo ha di sé e dalla com- 

prensione che può avere degli altri uomini; inoltre, mentre le prime si 

propongono di fornire una spiegazione causale, le seconde si avvalgono 

di categorie peculiari come quelle di significato, di scopo, di valore ecc. 

Entrambi questi criteri di distinzione riconducono però a una differen- 



WILHELM DILTHEY 8I 



za di rapporto tra soggetto e oggetto: nelle scienze della natura i due 

termini sono eterogenei tra loro, mentre nelle scienze dello spirito il 

soggetto conoscente appartiene allo stesso mondo umano che costituisce 

l'oggetto dell'indagine. Ma non soltanto il rapporto tra soggetto e 

oggetto, bensì la stessa struttura del mondo umano presenta un proprio 

carattere specifico. Il mondo umano ha il suo nucleo elementare, il suo 

Grundkéòrper (come Dilthey lo chiama), nell’individuo, e appare costitui 

to da un complesso di rapporti storicamente condizionati, dai quali 

sorgono i sistemi di cultura e i sistemi di organizzazione sociale. Gli 

uni e gli altri devono essere compresi nella loro esistenza storica, in 

quanto la struttura del mondo umano è appunto storica. Da ciò deriva 

l’articolazione sistematica dell’edificio delle scienze dello spirito. Da una 

parte la ricerca storica indaga le manifestazioni del mondo umano nella 

loro individualità; dall’altra le discipline di tipo generalizzante cercano 

di scoprire le uniformità del mondo umano. E di queste fanno parte sia 

la psicologia e l’antropologia, che hanno per oggetto l'individuo, sia le 

scienze dei sistemi di cultura e le scienze dell’organizzazione esterna 

della società, le quali studiano rispettivamente le forme culturali (arte, 

religione, filosofia, scienza ecc.) e le istituzioni politiche, economiche, 

giuridiche in cui si strutturano i rapporti tra gli uomini. 


L'Einleitung in die Geisteswissenschaften segna così la data d'inizio, 

per così dire, del movimento storicistico tedesco. Le due direzioni di 

ricerca che in essa si intrecciano, cioè l’analisi metodologica delle scien- 

ze dello spirito e l’analisi della struttura del mondo umano come mondo 

storico-sociale, vengono riprese da Dilthey in una serie di saggi successi- 

vi, particolarmente nelle /deen tiber eine beschreibende und zergliedern- 

de Psychologie (1804) e nei Beitrige zum Studium der Individualitit 

(1895-96). Nel primo, partendo dalla determinazione della struttura della 

vita psichica, Dilthey formula il programma di una psicologia descrittiva 

e analitica che si contrappone alla psicologia esplicativa e costruttiva di 

impostazione positivistica, e attribuisce ad essa un compito di fondazione 

rispetto alle altre scienze dello spirito — compito che verrà in seguito 

messo in disparte. Nel secondo egli addita nella spiegazione e nella 

comprensione i procedimenti caratteristici propri rispettivamente delle 

scienze della natura e delle scienze dello spirito e, respingendo la 

distinzione tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche che Windel- 

band aveva formulato (come vedremo) nel 1894, determina il compito 

delle scienze dello spirito nello studio dell’individuazione storica, quale 

essa sorge sulla base dell'uniformità attraverso la mediazione del tipo. 


Negli scritti del periodo 1905-1911 (cioè, all'incirca, del periodo suc- 

cessivo alla conclusione dell’insegnamento berlinese) il problema della 

fondazione delle scienze dello spirito trova la sua più matura formulazio 



6. STORICISMO TEDESCO. 



82 WILHELM DILTHEY 



ne. Soprattutto nelle Studien zur Grundlegung der Geisteswissenchaf- 

ten (1905-10), in Der Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswis- 

senschaften (1910) e negli appunti manoscritti che ne costituiscono il 

Plan der Fortsetzung (1910-11) Dilthey realizza nella sua forma definiti 

va il progetto, perseguito fin dalla gioventù, di una «critica della 

ragione storica » (tr. it. Torino, 1954). Attraverso l’analisi delle scienze 

dello spirito egli perviene a individuare il fondamento della loro validità 

nel nesso tra l’Erleben (ossia il divenire della vita, di cui il soggetto è 

immediatamente consapevole), l’espressione della vita e l’intendere: la 

vita si realizza in un complesso di manifestazioni oggettive o di « ogget- 

tivazioni » che devono essere intese, cioè che devono costituire il termi- 

ne di riferimento dello sforzo umano di comprensione. La conoscenza 

del mondo umano, fornita dalle scienze dello spirito, si configura pertan- 

to come una conoscenza dall’interno, che è opera dell’uomo stesso; però 

questa conoscenza non è data immediatamente nell’introspezione, ma 

può essere ottenuta soltanto attraverso lo studio dei prodotti storici 

dell'attività umana. L’intendere implica un riferimento retrospettivo al- 

l’Erleben, il quale è mediato dall'espressione; esso esprime la consapevo- 

lezza dello scaturire di tutte le manifestazioni storiche dal processo 

produttivo della vita. D'altra parte il mondo umano si configura come 

l’oggettivazione dello spirito, cioè come « spirito oggettivo » — anche se 

in senso ben diverso da quello hegeliano. E l’analisi di questa struttura 

pone in luce che ogni fenomeno del mondo umano è una connessione 

dinamica, la quale produce valori e realizza scopi, avendo il proprio 

centro in se stessa. Di tale specie sono non soltanto i sistemi di cultura 

e i sistemi di organizzazione sociale, ma anche le epoche storiche, le 

quali si differenziano per i loro valori e fini particolari e sono caratteriz- 

zate ognuna da un proprio orizzonte; cosicché ogni epoca deve essere 

compresa in base al suo sistema di valori, il quale costituisce il criterio 

di valutazione di ogni sua manifestazione. Attraverso quest'analisi della 

struttura del mondo umano Dilthey perviene, negli scritti del periodo 

1905-1911, a riconoscerne la fondamentale storicità: già l'individuo in 

quanto tale è un essere storico, e storicamente condizionati sono tutti i 

fenomeni del mondo umano. La critica della ragione storica sfocia così in 

una critica « storica » della ragione, vale a dire in una filosofia dell’uo- 

mo come essere storico. 


La storicità del mondo umano coinvolge la stessa filosofia, che risulta 

qualificata come una forma particolare di intuizione del mondo. Nel 

saggio Das Wesen der Philosophie (1907; tr. it. Torino, 1954) e negli 

altri due saggi dedicati al medesimo tema, Das geschichtliche Bewusst- 

scin und die Weltanschauungen e Dice Typen der Weltanschauung 

und ihre Ausbildung in den metaphysischen Systemen (entrambi del 



WILHELM DILTHEY 83 



1911), Dilthey ha definito il rapporto tra filosofia e intuizione del mon- 

do. Arte, religione e filosofia sono tutti e tre modi di esprimere un'’intui- 

zione del mondo che non è soltanto una forma di conoscenza della 

realtà, ma anche un complesso di valori, di fini e di regole di condotta, 

ossia un atteggiamento di fronte alla vita; e la filosofia si distingue 

dall’arte e dalla religione per la sua aspirazione a una validità incondi- 

zionata — un’aspirazione che è però contraddetta dalla coscienza storica, 

la quale pone in luce il condizionamento storico di tutte le dottrine 

filosofiche. Su questa base Dilthey individua le forme tipiche di intuizio- 

ne del mondo (e quindi anche di filosofia) nel naturalismo, nell’ideali- 

smo oggettivo e nell’idealismo della libertà, e interpreta la storia della 

filosofia come una lotta tra questi tre tipi ricorrenti. Tra la pretesa di 

validità incondizionata della filosofia e la coscienza storica si determina 

quindi un’antinomia, la quale trova la propria soluzione in una « filoso- 

fia della filosofia » intesa come indagine critica sulla possibilità e sui li- 

miti della filosofia. Essa deve porre in luce il carattere illegittimo della 

pretesa metafisica di offrire una spiegazione globale della realtà, e richia- 

mare la ricerca filosofica alla consapevolezza della propria relatività storica. 


Questa concezione della filosofia e della sua storia ispira anche le 

numerose opere di storiografia filosofica a cui Dilthey ha dedicato gran 

parte della sua attività. Dai primi studi su alcune figure del mondo 

culturale romantico e dalla biografia di Schleiermacher egli è venuto 

allargando il proprio campo di ricerca al Rinascimento, alla Riforma, 

all’Illuminismo, per poi ritornare all’analisi del Romanticismo tedesco e 

dell’idealismo post-kantiano. Un primo gruppo di saggi, pubblicati per 

la maggior parte negli anni 1891-94 e quindi raccolti sotto il titolo 

generale Weltanschauung und Analyse des Menschen seit Renaissance 

und Reformation (tr. it. Firenze, 1927), è dedicato al Rinascimento e 

alla Riforma, nonché al processo di fondazione del « sistema naturale 

delle scienze dello spirito » nel secolo xvi. Un secondo gruppo concer- 

ne invece la cultura filosofica del Settecento, con particolare riguardo a 

Leibniz e a Federico Il: particolarmente importante tra di essi è quello 

dedicato alla concezione illuministica della storia, Das achtzehnte Jahr 

hundert und die geschichiliche Welt (1901; tr. it. Milano, 1967). Un 

terzo gruppo riguarda invece gli aspetti poetici e musicali della cultura 

romantica tedesca, considerati nel loro rapporto con l'intuizione del 

mondo propria del Romanticismo: essi sono raccolti in Das Erlebnis und 

die Dichtung (Leipzig, 1906; tr. it. Milano, 1947) e nel volume postumo 

Von deutscher Dichtung und Musik (Leipzig, 1933). A questo filone di 

studi si collega l’ultimo dei lavori storici di Dilthey, cioè l'ampia biogra- 

fia del giovane Hegel tracciata in Die Jugendgeschichte Hegels (1905-6), 

nella quale la formazione del pensiero hegeliano viene studiata nei suoi 



84 WILHELM DILTHEY 



legami con l’ambiente culturale del Romanticismo tedesco e indagata nei 

suoi motivi « teologici ». Al centro di tutti questi scritti sta la connessio- 

ne tra la filosofia e l'intuizione del mondo propria delle varie epoche, 

analizzata nel ripresentarsi di certe posizioni fondamentali — corrispon- 

denti ai vari tipi di intuizione del mondo — che fanno della successione 

delle diverse dottrine un processo storico unitario. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Le opere di Dilthey sono state raccolte nelle Gesammelte Schriften, 

edite dalla casa editrice Teubner in undici volumi (vol. IIX e XI-XII) 

dal 1914 al 1936. Dopo la guerra, la casa Vandenhoeck und Ruprecht di 

Géttingen ha ristampato più volte le opere di Dilthey, aggiungendovi 

nuovi volumi: la raccolta è tuttora da completare. Il primo volume (a 

cura di B. Groethuysen) comprende l'Einlcitung in die Geisteswissen- 

schaften; il secondo (a cura di G. Misch) racchiude gli studi sul Rinasci- 

mento e sulla Riforma, sotto il titolo Weltanschauung und Analyse des 

Menschen seit Renaissance und Reformation; il terzo (a cura di P. 

Ritter) raccoglie gli studi sull’età di Leibniz, sull'età di Federico il 

Grande e il saggio Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche 

Welt, sotto il titolo Studien zur Geschichte des deutschen Geistes; il 

quarto (a cura di H. Nohl) comprende la Jugendgeschichte HRegels und 

andere Abhandlungen zur Geschichte des deutschen Idealismus; il 

quinto e il sesto (a cura di G. Misch, che vi ha premesso un ampio e 

importante Vorbericht) raccolgono, sotto il titolo complessivo Die geisti- 

ge Welt: Einleitung in die Philosophie des Lebens, alcuni saggi fonda- 

mentali tra cui Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften 

vom Menschen, der Gesellschaft und dem Staat, i Beitrige zur Lòsung 

der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realitàt der Aussen- 

welt und seinem Recht, le Ideen iiber eine beschreibende und zergliedern- 

de Psychologie, i Beitrige zum Studium der Individualitit, Das Wesen 

der Philosophie, nonché diversi altri saggi di poetica e di estetica; il 

settimo (a cura di B. Groethuysen) racchiude, sotto il titolo Der Aufbau 

der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, le tre Studien 

zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, l'ampio saggio che dà il 

titolo al volume e il relativo Plan der Fortsetzung; l'ottavo (a cura 

di B. Groethuysen) comprende i saggi dedicati alla Weltanschauungs- 

lehre, e cioè Das geschichtliche Bewusstsein und die Weltanschauungen e 

Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphy- 

sischen Systemen; il nono (a cura di O. F. Bollnow) è dedicato alla 

Pidagogik; il decimo (a cura di H. Nohl, e apparso nel 1958) racchiude 

il System der Ethik; l'undicesimo (a cura di E. Weniger) raccoglie, 

sotto il titolo complessivo Vom Ausgang des geschichtlichen Bewusst- 



86 WILHELM DILTHEY 



sein, numerosi saggi giovanili su storici tedeschi dell'Ottocento; il dodice- 

simo (a cura di E. Weniger) comprende vari saggi Zur politischen 

Geschichte, a cui fa seguito l'elenco completo degli scritti di Dilthey 

fino al 1883 (pp. 208-12); il quattordicesimo (a cura di M. Redeker, e 

apparso nel 1966, su licenza dell’editore de Gruyter) contiene il vol. II 

del Leben Schleiermachers; il sedicesimo (a cura di U. Herrmann, e 

apparso nel 1972) raccoglie, sotto il titolo complessivo Zur Geistesge- 

schichte des 19. Jahrhunderts, una serie di articoli e di recensioni del 

periodo 1859-74. 


Rimangono al di fuori delle Gesammelte Schriften i seguenti volumi, 

già menzionati nella nota biografica: Der junge Dilthey. Ein Lebensbild 

in Briefen und Tagebiichern (1852-1870), Leipzig-Berlin, 1933, e Gòttin- 

gen, 1960?; Das Erlebnis und die Dichtung, Leipzig-Berlin, 1906, 1907”, 

1g1o3, e Géttingen, 1965 4; Von deutscher Dichtung und Musik, Leip- 

zig-Berlin, 1933, e Gòttingen, 19572. Il Leben Schleiermachers è stato 

completato con la pubblicazione del secondo volume, Schleiermachers 

System als Philosophie und Theologie (a cura di M. Redeker), Berlin, 

1966; lo stesso Redeker ha in seguito dato una nuova edizione critica 

del primo volume, Berlin, 1970? Rimangono inoltre al di fuori delle 

Gesammelte Schriften varie raccolte di lettere, e precisamente: il Brief- 

wechsel zwischen Wilhelm Dilthey und dem Grafen Paul Yorck von 

Wartenburg (1877-1897), Halle, 1923; i Briefe Wilhelm Diltheys an Beyrn- 

hardt und Luise Scholz (1859-1864), « Sitzungsberichte der Preussischen 

Akademie der Wissenschaften », Philosophisch-historische Klasse, 1933, 

n. 10, pp. 416-71; i Briefe Wilhelm Diltheys an Rudolf Haym (1861-1873), 

« Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften », Ber- 

lin, 1936. Si veda inoltre W. Biemel, Einleitende Bemerkung zum Brief- 

wvechsel Dilthey-Husserl, « Man-World », I, 1968, pp. 428-46. 


Tra l'ormai vasta letteratura critica dedicata all'opera e al pensie- 

ro di Dilthey segnaliamo gli studi seguenti: 



B. GroetHursen, Wilhelm Dilthey, « Deutsche Rundschau », CLIV, n. 4, 

1913, pp. 69-92, € n. 5, 1913, pp. 24970. 


A. Stern, Der Begriff des Geistes bei Dilthey, Tùbingen, 1913, 2° ed. col 

titolo Der Begriff des Verstehen bei Dilthey, Tiibingen, 1926. 


B. ScHarpnact, Diltheys Verhdltnis zur Geschichte, Berlin, 1927. 


L. Lanporese, Wilhelm Diltheys Theorie der Geisteswissenchaften, Hal- 

le, 1928. 



G. MiscH, Lebensphilosophie und Phinomenologie. Eine Auscinander- 

setzung der Diltheyschen Richtung mit Heidegger und Husserl, Bonn, 

1930, e Leipzig-Berlin, 1931, infine Stuttgart, 1967?. 



WILHELM DILTHEY 87 



K. Karsuse, Wilhelm Diltheys Methode der Lebensphilosophie, Hiroshi- 



ma, 193I. 

A. Decener, Dilthey und das Problem der Metaphysik, Bonn-Kéln, 1933. 

A. Liesert, Wilhelm Dilthey, Berlin, 1933. 


C. Cuppers, Die erkenntnistheoretischen Grundgedanken Wilhelm Dil- 


theys, Leipzig-Berlin, 1934. 


J. Hennic, Lebensbegriff und Lebenskategorie. Studien zur Geschichte 



und Theorie der geisteswissenschaftlichen Begriffsbildung mit beson- 

derer Beriicksichtigung Wilhelm Diltheys, Aachen, 1934. 



J. StenzeL, Dilthey und die deutsche Philosophie der Gegenwart, « Phi- 

losophische Vortrige der Kant-Gesellschaft », Berlin, 1934. 



G. Masur, Wilhelm Dilthey und die europdische Geistesgeschichte, « Deut- 

sche Vierteljahrschrift  fir Literaturwissenschaft und Geistesge- 



schichte », XII, 1934, pp. 479-503. 


D. BiscHorr, Wilhelm Diltheys geschichiliche Lebensphilosophie, Leipzig- 

Berlin, 1935. 


O. F. BoLLnow, Dilthey. Eine Einfihrung in seine Philosophie, Leipzig- 

Berlin, 1936, e Gottingen, 19557, 19672. 



W. ErxLEDEN, Erlebnis, Verstehen und geschichiliche Wahrheit. Unter- 

suchungen tiber die geschichiliche Stellung von Wilhelm Diltheys 

Grundlegung der Geisteswissenschaften, Berlin, 1937. 



E. Puccraretti, Introduccibn a la filosofia de Dilthey, La Plata, 1938. 


C.T. Grocx, Wilhelm Diltheys Grundlegung einer twissenschaftlichen 

Lebensphilosophie, Berlin, 1939. 


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1940. 


F. Henner, Der Begriff der Lebendigkeit im Diltheys Menschenbild, Ber- 

lin, 1940. 


H. A. Hopces, Wilhelm Dilthey: an Introduction, London, 1944, 1949*, 

1969 ?. 


G. MiscH, Vom Lebens- und Gedankenkreis Wilhelm Diltheys, Frankfurt 

a.M., 1947. 


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H. Hotsorn, Wilhelm Dilthey and the Critique of Historical Reason, 

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G. Masur, Wilhelm Dilthey and the History of Ideas, «Journal of the 

History of Ideas », XIII, 1952, pp. 94-107. 



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F. Diaz pe Cerio Ruiz, W. Dilthey y el problema del mundo histérico, 

Barcelona, 1959. 


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1959, parte I. 



A. WaisMann, Dilthey o la lirica del historicismo, Tucumîn, 1959. 

J.-F. Suter, Philosophie et histoire chez Wilhelm Dilthey, Basel, 1960. 



F. Diaz pE Certo Ruiz, Introduecibn a la filosofia de W. Dilthey, Barce- 

lona, 1963. 


H. Diwarp, Wilhelm Dilthey: Erkenntnistheorie und Philosophie der 

Geschichte, Géttingen, 1963. 



K. MuLLer-VoLuMER, Towards a Phenomenological Theory of Literature: 

A Study of Wilhelm Dilthey's « Poetik », The Hague, 1963. 



L. von REnTHE-FinK, Geschichilichkeit: ihr terminologische und begriff- 

liche Ursprung bei Hegel, Haym, Dilthey und Yorck, Gòttingen, 

1964, 1968 2, parte II 



G. Marini, Dilthey e la comprensione del mondo umano, Milano, 1965. 



P. Gorsen, Zur Phinomenologie des Bewusstseinsstroms. Bergson, Dil- 

they, Husserl, Simmel und die lebensphilosophischen Antinomien, 

Bonn, 1966. 



P. Hiunermann, Der Durchbruch geschichtlichen Denkens im 19. Jahrhun- 

dert: Johann Gustav Droysen, Wilhelm Dilthey, Graf Paul Yorck 

von Wartenburg, Freiburg i.B., 1967. 


G. Catasrò, Dilthey e il diritto naturale, Napoli, 1968. 



P. Krausser, Kritik der endlichen Vernunft. Wilhelm Diltheys Revolu- 

tion der allgemeinen Wissenschafts- und Handlungstheorie, Frankfurt 

a.M., 1968. 



R.E. Parmer, Hermeneutics: Interpretation Theory in Schleiermacher, 

Dilthey, Heidegger and Gadamer, Evanston (IIl.), 1969. 



F. Robi, Morphologie und Hermeneutik. Zur Methode von Diltheys 

Asthetik, Stuttgart, 1969. 



WILHELM DILTHEY 89 



H. N. TurtLe, Wilhelm Dilthey's Philosophy of Historical Understanding, 

Leiden, 1969. 



F. Branco, Dilthey e Schleiermacher, « Proteus », I, 1970, pp. 87-133, poi 

raccolto nel volume Storicismo ed ermeneutica, Roma, 1974, pp. 77-123. 



G. Marini, Dilthey e il giovane Hegel, nel volume Incidenza di Hegel 

(a cura di F. Tessitore), Napoli, 1970, pp. 793-841. 



F. Branco, Dilthey e la genesi della critica storica della ragione, Milano, 

1971. 


U. Hernmanw, Die Pédagogik Wilhelm Diltheys, Gòttingen, 1971. 


G. Marini, Dilthey filosofo della musica, Napoli, 1973. 



Un'ampia bibliografia si trova in F. Diaz pe Cerro Ruiz, W. Dilthey 

y el problema del mundo histérico, cit., pp. xrx-Lv. Del medesimo au- 

tore si veda però ora il saggio Bibliografia de W. Dilthey, « Pensamien- 

to », XXIV, 1968, pp. 195-258. Ma il lavoro più completo è quello di 

U. Herrmann, Bibliographie Wilhelm Diltheys: Quellen und Literatur, 



Wernheim/Bergstr.-Berlin-Basel, 1969. 



SCIENZE DELLO SPIRITO 

E SCIENZE DELLA NATURA * 



I. LE SCIENZE DELLO SPIRITO: UN COMPLESSO AUTONOMO ACCANTO 

ALLE SCIENZE DELLA NATURA 



Il complesso delle scienze che hanno come loro oggetto la 

realtà storico-sociale viene qui compreso sotto la designazione 

di scienze dello spirito. Il concetto di queste scienze, in virtù 

del quale esse costituiscono un complesso unitario, e la delimita- 

zione di tale complesso nei confronti delle scienze della natura 

potranno essere spiegati e fondati in maniera definitiva soltanto 

nel corso dell’analisi; all'inizio ci limitiamo a stabilire il signifi- 

cato in cui impiegheremo l’espressione e a indicare provvisoria- 

mente l'insieme dei fatti sul quale si fonda la delimitazione di 

tale complesso unitario delle scienze dello spirito nei confronti 

delle scienze della natura. 


L’uso linguistico comprende sotto il nome di «scienza» un 

insieme di proposizioni i cui elementi sono concetti, cioè perfet- 

tamente determinati, costanti in tutta la connessione di pensie- 

ro e forniti di validità universale, i cui legami sono fondati, in 

cui infine le parti sono reciprocamente connesse in una totalità 

allo scopo di poter comunicare, cosicché un elemento della 

realtà può essere concepito nella sua compiutezza in virtù di 

questa connessione di proposizione oppure un ramo dell'attività 

umana può esser regolato in base ad essa. Indichiamo perciò 



* Einleitung in die Geisteswissenschaften, libro I: Ubersicht tiber den Zusammen- 

hang der Einzelwissenschaften des Geistes, Leipzig, Duncker und Humblot, 1883, ca- 

pitoli u-vir, pp. 5-35, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. I, 1914, 

PP. 4-28 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



92 WILHELM DILTHEY 



qui col termine «scienza» ogni insieme di fatti spirituali 

in cui si ritrovano le caratteristiche sopra indicate e a cui 

dunque generalmente viene applicato il nome di «scienza»: in 

modo corrispondente presentiamo provvisoriamente il nostro 

compito. Questi fatti spirituali, quali si sono storicamente svi- 

luppati nell’umanità, e ai quali è stata tramandata — secondo 

un comune uso linguistico — la denominazione di scienze del- 

l’uomo, della storia, della società, costituiscono realtà che noi 

non vogliamo dominare, ma anzitutto comprendere. Il metodo 

empirico esige che anche in questo settore delle scienze venga 

determinato in modo storico-critico il valore dei singoli procedi- 

menti di cui il pensiero qui si serve per la soluzione dei suoi 

compiti, e che venga chiarita, nell’intuizione di questo grande 

processo che ha per soggetto l’umanità stessa, la natura del 

sapere e del conoscere relativi a questo campo. Un tale metodo 

sta in antitesi a quell'altro — di recente troppo di frequente 

praticato dai cosiddetti positivisti — che deriva il contenuto 

del concetto di scienza da una determinazione concettuale del 

sapere sorta per lo più sul terreno delle attività proprie delle 

scienze della natura, e che in base ad essa decide quali siano 

le attività intellettuali a cui spetta il nome e il rango di 

scienza. In tal modo alcuni, prendendo le mosse da un concetto 

arbitrario di sapere, hanno con miopia e presunzione negato 

alla storiografia, qual è stata praticata da grandi maestri, il 

rango di scienza; altri hanno creduto di dover trasformare in 

conoscenza della realtà quelle scienze che hanno a loro fonda- 

mento imperativi, e non già giudizi sulla realtà. 


L'insieme dei fatti spirituali che ricadono sotto questo con- 

cetto di scienza viene di solito suddiviso in due rami. L’uno è 

designato col nome di « scienza naturale »; per quanto riguar- 

da l’altro non si dispone, abbastanza stranamente, di una desi- 

gnazione universalmente riconosciuta. Aderisco qui all’uso lin- 

guistico di quegli studiosi che indicano quest'altra metà del 

globus intellectualis con l’espressione di «scienze dello spiri- 

to». Da una parte questa designazione è diventata — e non 

poco lo deve all’ampia diffusione del System of Logic di John 

Stuart Mill! — abituale e universalmente intelligibile. D’al- 



1. Il System of Logic, Ratiocinative and Inductive di John Stuart Mill (1806-1873) 



WILHELM DILTHEY 93 



tra parte, confrontata con tutte le altre designazioni inadegua- 

te tra cui è possibile scegliere, essa appare la meno impropria. 

‘È pur vero che essa esprime molto incompiutamente l’oggetto 

di questo studio, giacché in esso i fatti della vita spirituale 

non sono separati dalla vivente unità psico-fisica della natura 

umana. Una teoria che voglia descrivere e analizzare i fatti 

storico-sociali non può prescindere da questa totalità della natu- 

ra umana e limitarsi all'elemento spirituale. Ma l’espressione 

ha in comune questo difetto con tutte le altre che si sono 

applicate: scienza della società (sociologia), scienze morali, scien- 

ze storiche, scienze della cultura — tutte queste designazioni 

soffrono del medesimo errore, di essere cioè troppo ristrette in 

rapporto all’oggetto che devono esprimere. Il nome che qui si è 

scelto ha per lo meno il vantaggio di designare adeguatamente 

l'ambito centrale di fatti a partire dal quale è stata vista in 

realtà l’unità di queste scienze, abbozzato il loro ambito, com- 

piuta — benché ancora in maniera assai incompleta — la loro 

delimitazione rispetto alle scienze della natura. 


Il motivo di cui è derivata l’abitudine di delimitare queste 

scienze rispetto a quelle della natura, intendendole come una 

unità, è radicato nella profondità e nella totalità dell’autoco- 

scienza umana. Ancor prima di procedere a indagini sull’origi- 

ne del mondo spirituale, l’uomo trova in questa autocoscienza 

una sovranità del volere, una responsabilità delle sue azioni, 

una capacità di sottoporre tutto al pensiero e di opporsi a tutto 

nella libertà della sua persona, mediante cui si distingue da 

tutta la natura. Egli si ritrova infatti, in questa natura — per 

impiegare un'espressione spinoziana — come un Imperium in 

imperio®. E poiché per lui esiste solamente ciò che è fat- 



a. Pascal esprime in modo molto geniale questo sentimento della vita 

nelle Pensées: « Tutte queste miserie provano la sua grandezza: sono mi- 

serie da gran signore, miserie di un re spodestato » (I, 3). « Noi abbiamo 



fu pubblicato a Londra nel 1843 e tradotto in tedesco da I. Schiel nel 1849. Questa tra- 

duzione utilizza appunto il termine Geistessvissenschaften per rendere l'espressione mil- 

liana moral sciences: così, per esempio, il titolo del sesto libro (On the Logic of Moral 

Sciences) risulta tradotto Logik der Geisteswissenschaften. Dilthcy fa ricorso per la pri- 

ma volta al termine Geistestvissenschaften proprio in riferimento a Mill, nel saggio Uber 

das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Menschen, der Gesellschaft und 

dem Staat (1875), ora raccolto in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 31-73. 



94 WILHELM DILTHEY 



to della sua coscienza, ogni valore e ogni scopo della vita 

risiede in questo mondo spirituale che agisce in lui in maniera 

autonoma, e ogni fine delle sue azioni risiede nella costruzione 

di fatti spirituali. Così egli distingue dal regno della natura un 

regno della storia, nel quale — in mezzo alla connessione di 

una necessità oggettiva, che costituisce la natura — la libertà 

emerge in innumerevoli punti. In antitesi al corso meccanico 

dei mutamenti naturali, il quale già contiene fin dall’inizio 

tutto ciò che in esso ha luogo, i fatti della volontà producono 

realmente qualcosa in virtù del loro impiego di forza e dei loro 

sacrifici, del cui significato l'individuo è consapevole nella pro- 

pria esperienza; essi suscitano lo sviluppo, sia nella persona sia 

nell’umanità — attraverso e oltre la vuota e desolata ripetizione 

del corso della natura nella coscienza, della cui rappresentazio- 

ne come ideale di progresso storico si compiacciono gli adorato- 

ri dello sviluppo intellettuale. 


Invano l’epoca metafisica, per la quale questa differenza 

nelle basi di spiegazione si configurava immediatamente come 

una differenza sostanziale inerente alla struttura dell’universo, 

ha lottato per stabilire e giustificare formule in vista della 

fondazione di questa differenza dei fatti della vita spirituale da 

quelli del corso naturale. Tra tutte le trasformazioni che la 

metafisica antica ha conosciuto presso i pensatori medievali, 

nulla è stato più ricco di conseguenze del fatto che in questo 

periodo, in connessione con tutti i movimenti religiosi e teologi- 

ci dominanti in cui erano inseriti questi pensatori, s’introdusse 

nel nucleo centrale del sistema la determinazione della differen- 

za tra mondo degli spiriti e mondo dei corpi, e quindi la 

relazione di entrambi questi mondi con la divinità. La principa- 

le opera metafisica del Medioevo, la Summa de veritate catholi- 

cae fidei di Tommaso, abbozza—a partire dal secondo libro — 

una struttura del mondo creato in cui l’essenza (essentia quiddi- 

tas) è distinta dall’essere (esse), mentre in Dio i due momenti 

sono una sola cosa*. Essa dimostra che nella gerarchia del 



un'idea così grande dell'anima umana che non possiamo sopportare di es- 

serne disprezzati, di non esserne stimati » (I, 5) (Oeuvres complètes, Pa- 

ris, 1866, vol. I, pp. 248-49). 



a. Summa contra Gentiles, libro I, cap. xxt1; cfr. pure libro II, cap. LIV. 



WILHELM DILTHEY 95 



creato c'è un elemento necessario superiore, costituito dalle so- 

stanze spirituali che non risultano dall’unione di forma e mate- 

ria ma sono incorporee per sé — gli angeli — e dalle quali si 

distinguono le sostanze intellettuali o forme incorporee che, per 

il completamento della loro specie (cioè della specie « uomo »), 

abbisognano dei corpi. Su tale base essa elabora —in polemica 

con la filosofia araba — una metafisica dello spirito umano la 

cui influenza può venir seguita fino agli ultimi scrittori metafi- 

sici nei giorni nostri*; da questo mondo di sostanze imperitu- 

re si distingue la parte del creato che ha la propria essenza 

nell’unione di forma e materia. Questa metafisica dello spirito 

(psicologia razionale) fu posta poi da altri eminenti metafisici 

in relazione con la concezione meccanicistica della natura e con 

la filosofia corpuscolare, non appena queste ultime diventarono 

dominanti. Ma ogni tentativo di elaborare sul fondamento di 

questa dottrina delle sostanze, e con i mezzi della nuova conce- 

zione della natura, una rappresentazione sostenibile dei rappor- 

ti tra spirito e corpo naufragò. Quando Descartes sviluppò sulla 

base delle proprietà chiare e distinte dei corpi in quanto gran- 

dezze spaziali la sua rappresentazione della natura come un 

immenso meccanismo, considerando costanti le grandezze di 

movimento presenti in questo complesso, si introdusse nel siste- 

ma — insieme con l’ipotesi che una sola anima imprime dall’e- 

sterno un movimento in questo sistema materiale — la contrad- 

dizione. L’impossibilità di rappresentare un'influenza da parte 

di sostanze non-spaziali su questo sistema esteso non veniva 

certo diminuita dal fatto che Descartes raccolse in un punto il 

luogo spaziale di tale azione reciproca — come se potesse con 

ciò far scomparire la difficoltà. L’avventurosità della concezio- 

ne secondo cui la divinità sorreggerebbe con ripetuti interventi 

questo gioco di azioni reciproche, oppure di quell’altra, secon- 

do cui invece Dio avrebbe, come il più abile degli artefici, 

predisposto fin dall’inizio i due orologi del sistema materiale e 

del mondo degli spiriti in modo tale che un avvenimento natu- 

rale produca una sensazione e un atto di volontà realizzi una 

trasformazione del mondo esterno, dimostrano nel modo più 

chiaro l’inconciliabilità della nuova metafisica della natura con 



a. Summa contra Gentiles, libro II, cap. xvi. 



96 WILHELM DILTHEY 



la precedente metafisica delle sostanze spirituali. Cosicché tale 

problema operò come pungolo sempre stimolante, favorendo la 

dissoluzione del punto di vista metafisico in generale. Questa 

dissoluzione si completerà nella conoscenza — che si svilupperà 

più tardi — che l’Erlebnis dell’autocoscienza è il punto di 

partenza del concetto di sostanza, che questo concetto sorge 

dall’adattamento di tale Erlebris alle esperienze esterne — pro- 

dotto dal conoscere che procede secondo il principio di ragion 

sufficiente — e che in tal modo questa dottrina delle sostanze 

spirituali altro non è che un riportare il concetto, formatosi in 

tale metamorfosi, all’ErleBnis entro cui era originariamente da- 

to il suo presupposto. 


In luogo dell’antitesi tra sostanze materiali e sostanze spiri- 

tuali subentrò quella tra il mondo esterno dato nella percezione 

esterna (sensation) mediante i sensi, e mondo interiore, dato 

primariamente in virtù dell’apprendimento interno degli eventi 

e delle attività psichiche (reffection)?. Il problema assume in 

tal modo un aspetto più modesto, che implica però la possibili- 

tà di un'impostazione empirica. Di fronte al nuovo e migliore 

metodo si fanno ora valere gli Erlebrisse che avevano trovato 

un'espressione scientificamente insostenibile nella dottrina delle 

sostanze propria della psicologia razionale. 


Per la costituzione in forma autonoma delle scienze dello 

spirito occorre anzitutto che — in base a questo punto di vista 

critico — da quei processi i quali sono formati mediante un 

collegamento concettuale sulla base del dato sensibile, e soltan- 

to di questo, si distinguano, come un ambito particolare di 

fatti, quegli altri processi che sono invece dati primariamente 

nell’esperienza interna, cioè senza alcuna cooperazione dei sen- 

si, e sono quindi formati sulla base del materiale dell’esperien- 

za interna, dato in modo primario, in occasione di processi 

naturali esterni, per esser sottoposti a questi mediante un proce- 

dimento equivalente, per la sua funzione, al ragionamento ana- 

logico. Nasce così un particolare dominio di esperienze che ha 

la sua origine autonoma e il suo materiale nell’Erlebnis interio- 

re, e che diventa quindi spontaneamente oggetto di una partico- 



2. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra sensazione e riflessione formulata da 

Locke. 



WILHELM DILTHEY 97 



lare scienza di esperienza. E finché qualcuno non asserirà di 

essere in grado di derivare dalla struttura del cervello di Goe- 

the e dalle qualità del suo corpo — e di rendere così meglio 

conoscibile — l'insieme di passioni, di figure poetiche e di 

invenzione concettuale che noi indichiamo come la vita di 

Goethe, non sarà neppure contestata la posizione autonoma di 

una scienza siffatta. Orbene, ciò che per noi qui esiste, ed 

esiste in virtù di questa esperienza interna, ciò che per noi ha 

valore o costituisce uno scopo ci è dato soltanto nell’Er/ebnis 

del nostro sentimento e della nostra volontà: in questa scienza 

sono così contenuti i princìpi del nostro conoscere, che determi- 

nano in quale misura la natura può esistere per noi, e i princì- 

pi del nostro agire, che spiegano l’esistenza di scopi, di beni, di 

valori su cui è fondato ogni commercio pratico con la natura. 


Una fondazione più approfondita della posizione autonoma 

delle scienze dello spirito accanto alle scienze della natura, che 

costituisce qui il nucleo della costruzione delle scienze dello 

spirito, sarà compiuta più avanti, gradualmente, nella misura 

in cui si procederà nell’analisi dell’Erlebnis complessivo del 

mondo spirituale nella sua incomparabilità con ogni esperienza 

sensibile concernente la natura. Mi limito qui a chiarire il 

problema, facendo cenno al duplice senso in cui si può asserire 

l’incompatibilità dei due ambiti di fatti: corrispondentemente, 

anche il concetto dei limiti della conoscenza della natura acqui- 

sta un duplice significato. 


Uno dei nostri maggiori scienziati ha intrapreso la determi- 

nazione di questi limiti in un trattato assai discusso, e ha di 

recente illustrato questa determinazione dei limiti della sua 

scienza®. Supponiamo di aver tutte le trasformazioni del mon- 

do corporeo in movimenti di atomi, causati dalle loro forze 

centrali costanti: in questo caso la totalità del mondo sarebbe 

conosciuta in base alle scienze della natura. « Uno spirito — 



a. E. Du Bors-ReyMonp, Uber die Grenzen des Naturerkennens, Leip- 

zig, 4° ed. 1872: dello stesso autore si veda pure Die sieben Weltritsel, 

Berlin, 18813. 



3. Emil Du Bois-Reymond (1818-1896), fisiologo positivista, autore delle due opere 

citate da Dilthey, sostenne l'impossibilità per l’uomo di risolvere gli enigmi « trascen- 

denti » e la necessità di attenersi al principio dell’ignorabimus. 



7. STORICISMO TEDESCO. 



98 WILHELM DILTHEY 



egli prende le mosse da quest'immagine di Laplace — che per 

un dato istante conoscesse tutte le forze operanti della natura, 

e la reciproca posizione degli esseri di cui essa consta, € che 

inoltre fosse anche abbastanza sapiente da sottomettere ad anali- 

si questi dati, sarebbe in grado di comprendere in una medesi- 

ma formula i movimenti dei massimi corpi celesti come dell’a- 

tomo più leggero » ®. Siccome l'intelligenza umana nella scien- 

za astronomica è una « debole copia di uno spirito di tal fat- 

ta», Du Bois-Reymond indica la conoscenza di un sistema ma- 

teriale prospettata da Laplace come conoscenza astronomica. 

Partendo da tale immagine si approda di fatto a una concezio- 

ne assai chiara dei limiti entro cui è racchiusa la tendenza 

dello spirito proprio delle scienze naturali. 


Ci sia ora concesso di introdurre in questa considerazione 

del problema una distinzione relativa al concetto di limite 

della conoscenza naturale. Dal momento che la realtà, in quan- 

to correlato dell’esperienza, ci è data nella cooperazione della 

struttura dei nostri sensi con l’esperienza interna, dalla differen- 

za di provenienza dei suoi elementi costitutivi che ne deriva 

scaturisce un'incomparabilità tra gli elementi del nostro calcolo 

scientifico, la quale esclude la derivazione dei fatti di una deter- 

minata provenienza da quelli di provenienza diversa. Dalle 

qualità dell'elemento spaziale perveniamo così attraverso la fat- 

ticità del senso del tatto — nel quale viene esperita la resisten- 

za — alla rappresentazione della materia; ogni senso è racchiu- 

so entro il suo specifico ambito di qualità; e se dobbiamo 

apprendere uno stato della coscienza in un momento determina- 

to, siamo costretti a passare dalla sensibilità alla percezione 

degli stati interni. Pertanto noi possiamo soltanto accogliere i 

dati nell’incomparabilità in cui essi si presentano a seguito del- 



a. P. S. LarLace, Essai philosophique sur les probabilités, Paris, 1814, 

p. 3°. 



4. Pierre-Simon Laplace (1749-1827), matematico e astronomo francese, autore del- 

l'Exposition du système du monde (1796), del Traité de mécanique céleste (1798-1825), 

della TAéorie analytique des probabilités (1812) e del saggio citato da Dilthey, diede un 

contributo decisivo alla formulazione della teoria — già enunciata da Kant — dell'ori- 

gine del sistema solare da una massa gassosa. L'Essai sviluppa le implicazioni filosofiche 

del calcolo delle probabilità. 



WILHELM DILTHEY 99 



la loro diversa provenienza; la loro esistenza di fatto rimane 

per noi priva di giustificazione; ogni nostro conoscere è limita- 

to alla constatazione di uniformità nella successione e nella 

contemporaneità, secondo le quali esse sono in relazioni recipro- 

che nella nostra esperienza. Si tratta di limiti inerenti alle 

condizioni stesse del nostro esperire, cioè di limiti che sussisto- 

no in ogni punto della scienza della natura, non già di barriere 

esterne in cui urti la conoscenza della natura, bensì di condizio- 

ni immanenti allo stesso esperire. La presenza di questi confini 

immanenti della conoscenza non costituisce però impedimento 

alcuno per la funzione del conoscere. Se col termine compren- 

dere si designa una completa trasparenza nell’apprendimento 

di una connessione, allora ci troviamo di fronte a barriere 

contro cui urta il comprendere. Ma, sia che la scienza sottomet- 

ta al suo calcolo, riconducendo i mutamenti della realtà a movi- 

menti di atomi, delle qualità oppure dei fatti della coscienza 

— sempre che questi si lascino sottomettere — l’inderivabilità 

non costituisce impedimento alcuno alle sue operazioni. È tan- 

to poco possibile trovare un passaggio da una determinatezza 

meramente matematica o da una grandezza di movimento a un 

colore o a un suono, quanto a un evento della coscienza: non 

posso spiegare la luce azzurra mediante il corrispondente nume- 

ro di oscillazioni più di quel che possa spiegare il giudizio 

negativo mediante un processo che accade nel cervello. Come la 

fisica cede alla fisiologia il compito di spiegare la qualità sensi- 

bile dell’« azzurro », così la fisiologia — che nel movimento di 

parti materiali non possiede neppur essa un mezzo per far 

apparire d’incanto l'azzurro — trasmette alla psicologia il suo 

compito, che rimane in definitiva, come in un gioco di specchi 

magici, affidato alla psicologia. Ma l’ipotesi che le qualità sor- 

gano dal processo della sensazione è di per sé solamente un 

mezzo ausiliario di calcolo, che riconduce le trasformazioni 

della realtà — quali si dànno nella mia esperienza — a una 

certa classe di trasformazioni al suo interno che costituisce un 

contenuto parziale della mia esperienza, per poterle collocare 

in certo modo su uno stesso piano a scopo di conoscenza. Se 

fosse possibile sostituire a fatti definiti in maniera determina- 

ta, che nel contesto della considerazione meccanicistica della 

natura occupano un posto stabilito, fatti di coscienza definiti in 



100 WILHELM DILTHEY 



modo costante e determinato, e con ciò stabilire — conforme- 

mente al sistema di uniformità in cui si trovano i primi — il 

presentarsi dei processi della coscienza in un accordo completo 

con l’esperienza, allora questi fatti di coscienza sarebbero inseri- 

ti nella connessione della conoscenza naturale allo stesso modo 

di un qualsiasi suono o colore. 


Ma proprio a questo punto l’incomparabilità tra processi 

materiali e processi spirituali assume un diverso senso, e pone 

alla conoscenza naturale limiti di tutt'altro genere. L’impossibi- 

lità di derivare i fatti spirituali da quelli dell'ordine meccanico 

della natura, che si fonda sulla diversità della loro provenienza, 

non impedirebbe l’inserimento dei primi nel sistema dei secon- 

di. Soltanto quando le relazioni tra i fatti del mondo spiri- 

tuale si presentano incomparabili nella loro specie con le unifor- 

mità della natura, viene esclusa una subordinazione dei fatti 

spirituali a quelli accertati dalla conoscenza meccanica della 

natura: infatti qui non ci si trova di fronte a confini immanen- 

ti al conoscere empirico, bensì a limiti in cui la conoscenza 

naturale finisce e ha invece inizio un’autonoma scienza dello 

spirito, che si costituisce intorno a un proprio centro. Il proble- 

ma fondamentale consiste pertanto nello stabilire quella data 

specie di incomparabilità tra le relazioni dei fatti spirituali e le 

uniformità dei processi materiali che esclude la subordinazione 

dei primi e una loro interpretazione come qualità e aspetti 

della materia, e che dev'essere di tutt’altro genere della differen- 

za sussistente tra i diversi ambiti particolari di leggi della mate- 

ria — così come queste si presentano nella matematica, nella 

fisica, nella chimica e nella fisiologia, sotto forma di un rappor- 

to di subordinazione che si sviluppa in modo coerente. L’esclu- 

sione dei fatti spirituali dalla connessione della materia, delle 

sue qualità e delle sue leggi presupporrà sempre un contrasto 

che si manifesta, in qualsiasi tentativo di subordinazione siffat- 

ta, tra le relazioni dei fatti di un campo e quelle di un altro. 

E ciò appare chiaro quando l'incomparabilità della realtà spiri- 

tuale viene ricondotta ai fatti dell’autocoscienza e dell’unità 

della coscienza ad essa inerente, alla libertà e ai fatti della vita 

normale ad essa collegati, in antitesi all’organizzazione spaziale 

e alla divisibilità della materia nonché alla necessità meccanica 

a cui soggiace il comportamento di ogni sua parte. Vecchi 



WILHELM DILTHEY IOI 



quasi quanto la riflessione rigorosa sulla posizione dello spirito 

rispetto alla natura sono i tentativi di formulare questo tipo di 

incomparabilità dell’elemento spirituale con qualsiasi ordine na- 

turale, sulla base dei fatti dell’unità della coscienza e della 

spontaneità del volere. 


Nella misura in cui nell'esposizione di questo illustre scien- 

ziato viene introdotta la distinzione tra i confini immanenti 

dell’esperire e i limiti della subordinazione dei fatti alla connes- 

sione della conoscenza naturale, i concetti di limite e di inespli- 

cabilità acquistano un senso esattamente definibile, e scompaiono 

quindi difficoltà che si sono fatte ampiamente rilevare nella 

polemica intorno ai limiti della conoscenza naturale provocata 

da questo scritto. L'esistenza di confini immanenti all’esperien- 

za non è affatto decisiva rispetto alla questione riguardante la 

subordinazione di fatti spirituali alla connessione della cono- 

scenza della materia. Se ci si propone — come nel caso di 

Haeckel5 e di altri scienziati — di inserire i fatti spirituali 

nella connessione della natura, assumendo l’esistenza di una 

vita psichica negli elementi in base ai quali si costituisce l'orga- 

nismo, tra un tentativo del genere e la conoscenza dei confini 

immanenti di ogni esperienza non sussiste assolutamente alcun 

rapporto di esclusione; su di esso decide soltanto il secondo 

tipo di indagine sui limiti del conoscere naturale. Per questo 

anche Du Bois-Reymond ha proseguito nel secondo tipo di 

indagine, e nella sua dimostrazione si è servito dell’argomento 

dell’unità della coscienza così come dell’argomento della sponta- 

neità del volere. La dimostrazione della tesi «che gli elementi 

spirituali non possono mai essere compresi sulla base delle Ioro 

condizioni materiali »° viene condotta come segue. Anche nel 

caso di una conoscenza compiuta di tutte le parti del sistema 

materiale, della loro reciproca posizione e del loro movimento, 



a. E. Du Bors-RexMonD, op. cit., p. 28. 



5. Ernest Heinrich Hacckel (1834-1919), biologo e filosofo positivista, autore di nu- 

merose opere di argomento zoologico e di una Generelle Morphologie der Organismen 

(1866), nonché di vari volumi sulla teoria dell'evoluzione, fu uno dei maggiori espo- 

nenti del darwinismo in Germania. Il libro Die Welrétse! (1899), scritto in polemica con 

Du Bois-Reymond, rappresenterà un tentativo di risposta in chiave positivistica a quelli 

che Du Bois-Reymond aveva indicato come gli enigmi insolubili del mondo. 



102 WILHELM DILTHEY 



rimane però del tutto incomprensibile perché a un certo nume- 

ro di atomi di carbonio, d’idrogeno, di azoto, di ossigeno, non 

dovrebbe essere indifferente in qual modo essi sono collocati e 

si muovono. L'impossibilità di spiegare l'elemento spirituale 

rimane tuttavia immutata anche se ognuno di questi elementi è 

corredato di coscienza al pari delle monadi; in base a quest’ipo- 

tesi non si può spiegare la coscienza unitaria dell’individuo*. 



a. E. Du Bois-RerMonD, op. cit., pp. 29-30; cfr. anche Die sieben Welt- 

ritsel cit., p. 7. Quest'argomentazione ha del resto valore conclusivo sol- 

tanto se alla meccanica atomistica si attribuisce una validità per così dire 

metafisica. Alla sua storia, accennata da Du Bois-Reymond, si può avvi- 

cinare anche la formulazione che troviamo nel classico della psicologia ra- 

zionale, Moses Mendelssohn? Leggiamo per esempio in Schriften, Leip- 

zig, 1880, vol. I, p. 277: « 1) Tutto quanto distingue il corpo umano da 

un blocco di marmo può essere ricondotto a movimento. Ma il movimento 

non è altro che il mutamento del luogo o della posizione. È evidente che 

tutti i mutamenti di luogo possibili al mondo, per quanto possano essere 

raccolti insieme, non comportano affatto la percezione di questi muta- 

menti di luogo. — 2) Tutta la materia è costituita da più parti. Se le sin- 

gole rappresentazioni fossero isolate nelle parti dell'anima così come gli og- 

getti lo sono nella natura, non si incontrerebbe mai la totalità. Noi non po- 

tremmo paragonare tra loro le impressioni dei vari sensi, confrontare le 

rappresentazioni, percepire rapporti, riconoscere relazioni. Ne deriva chia- 

ramente che non soltanto nel pensiero, ma anche nella sensazione la mol- 

teplicità deve convergere nell'unità. Dal momento però che la materia non 

è mai un soggetto singolo ecc. ». Kant sviluppa questo « tallone d'Achille 

di ogni conclusione dialettica della dottrina pura dell’anima » come il se- 

condo paralogismo della psicologia trascendentale. In Lotze? questi « atti 

del sapere relazionante » sono stati svilupppati in vari scritti (da ultimo 

nella Metaphysik, Leipzig, 1841, p. 476) come «il fondamento insuperabi- 

le, su cui può riposare con sicurezza la convinzione dell'autonomia dell'a- 

nima », e costituiscono la base di questa parte del suo sistema metafisico. 



6. Moses Mendelssohn (1729-1786), autore dei P/ilosophische Gespriche (1755), dei 

Briefe tiber die Empfindungen (1755), del Phédon (1767), delle Morgenstunden (1785) 

c di varie altre opere, fu uno dei maggiori esponenti della « filosofia popolare » di ispi- 

tazione illuministica; amico di Lessing, lo difese dall'attribuzione di spinozismo sostc- 

nuta da Jacobi. Dilthey si riferisce qui al tentativo di dimostrazione dell'immortalità 

dell’anima, criticato da Kant nella Critica della ragion pura. 


7. Rudolph Hermann Lotze (1817-1881), autore della MetapAysik (1841), della Lo- 

gi% (1843), del Mikrokosnus (1856-58), del System der Philosophie (1874-79) e di nu- 

merose altre opere, alcune delle quali pubblicate postume, fu il maggiore rappresentante 

dello spiritualismo ottocentesco tedesco: il suo pensiero ebbe larga diffusione, influen- 

zando la cultura filosofica della seconda metà del sccolo in senso anti-positivistico c anti- 

psicologistico. 



WILHELM DILTHEY 103 



Già la sua tesi contiene in quel « non possono mai essere com- 

presi » un doppio senso che ha come conseguenza l'emergere, 

nella dimostrazione stessa, di due argomenti di portata ben 

differente. Da un lato egli afferma che il tentativo di derivare 

fatti spirituali da trasformazioni materiali (attualmente caduto 

in oblio in quanto rozzo materialismo, e compiuto ancora sol- 

tanto attraverso l’ipotesi dell’esistenza di proprietà psichiche 

negli elementi) non può eliminare i confini immanenti di ogni 

esperienza: il che è certo, ma non decisivo contro la subordina- 

zione dello spirito alla conoscenza naturale. Egli afferma allo- 

ra che tale tentativo deve naufragare davanti alla contraddizio- 

ne tra la nostra rappresentazione della materia e il carattere di 

unità che è proprio della nostra coscienza. Nella sua posteriore 

polemica con Haeckel, a quest'argomento aggiunge quell’altro 

che, se si mantiene tale ipotesi, si ha un’ulteriore contraddizio- 

ne tra il modo in cui un elemento materiale è meccanicamente 

condizionato nella connessione naturale e l’Er/ebnis della spon- 

taneità del volere; una « volontà » presente negli elementi della 

materia che « deve volere, voglia o non voglia, e ciò in rappor- 

to diretto al prodotto delle masse e in rapporto inverso al 

quadrato delle distanze » è una contradictio in adiecto *. 



II. IL RAPPORTO DI QUESTO COMPLESSO CON IL COMPLESSO DELLE 

SCIENZE DELLA NATURA 



In un ambito più ampio, però, le scienze dello spirito com- 

prendono in sé fatti naturali, hanno a fondamento la conoscen- 

za della natura. 


Se si concepissero esseri puramente spirituali in un regno 

di persone costituito soltanto da essi, il loro venire alla luce, la 

loro conservazione e il loro sviluppo, al pari della loro scompar- 

sa (in qualsiasi modo ci si rappresenti lo sfondo da cui proven- 

gono e a cui sono destinati a fare ritorno), sarebbero legati a 

condizioni di tipo spirituale; il loro benessere sarebbe fondato 

sulla loro posizione rispetto al mondo spirituale; la loro connes- 

sione reciproca, le loro origini si compirebbero con mezzi pura- 



a. E. Dv Bois-Revmonp, Die sieben Weltritsel cit., p. 8. 



104 WILHELM DILTHEY 



mente spirituali e gli effetti durevoli di tali azioni sarebbero 

anch'essi di tipo puramente spirituale; lo stesso loro ritrarsi 

dal regno delle persone avrebbe il suo fondamento nell’elemen- 

to spirituale. Un sistema composto da individui siffatti potreb- 

be venir conosciuto da pure scienze dello spirito. In realtà un 

individuo nasce, si conserva e si sviluppa sulla base delle funzio- 

ni dell’organismo animale e delle sue relazioni col corso natura- 

le dell'ambiente; il suo sentimento vitale è, almeno in parte, 

fondato su queste funzioni; le sue impressioni sono condiziona- 

te dagli organi di senso e dalle influenze del mondo esterno; la 

ricchezza e la mobilità delle sue rappresentazioni, la forza e la 

direzione dei suoi atti di volontà dipendono sovente dalle modi- 

ficazioni del suo sistema nervoso. L'impulso della sua volontà 

comporta un accorciamento delle fibre muscolari, cosicché l’agi- 

re verso l’esterno è connesso ai mutamenti di posizione delle 

particelle dell’organismo, e le conseguenze durevoli delle sue 

azioni volontarie esistono soltanto nella forma di trasformazio- 

ni all’interno del mondo materiale. La vita spirituale di un 

uomo è perciò una parte — separabile solo in virtù di un’astra- 

zione — della vivente unità psico-fisica in cui si manifesta 

un'esistenza e una vita umana, Il sistema di queste unità viven- 

ti è la realtà che costituisce l’oggetto delle scienze storico- 

sociali. 


In virtù del duplice punto di vista del nostro apprendimen- 

to, l'uomo come unità vivente è per noi (quale che sia il suo 

stato metafisico) una connessione di fatti spirituali fin dove 

giunge la consapevolezza interiore, ed è invece un complesso 

corporeo nella misura in cui apprendiamo per mezzo dei sensi. 

La consapevolezza interiore e l'apprendimento esterno non si 

compiranno mai nello stesso atto, e quindi il fatto della vita 

spirituale non ci è mai dato contemporancamente a quello del 

corpo. Ne derivano necessariamente per la coscienza scientifica 

che voglia cogliere i i fatti spirituali e il mondo corporeo nella 

loro connessione, di cui è espressione la vivente unità psico-fisi- 


due punti di vista differenti, e tra loro irriducibili. Se 

procedo dall’esperienza interna, troverò l’intero mondo esterno 

dato nella mia coscienza: le leggi di questo complesso naturale 

sottostanno alle condizioni della mia coscienza e dipendono 

quindi da esse. Questo è il punto di vista che la filosofia 



WILHELM DILTHEY 105 



tedesca a cavallo tra il secolo xvi e il nostro designava come 

filosofia trascendentale. Se invece assumo la connessione della 

natura quale essa mi si offre come realtà nel mio apprendimen- 

to naturale, e percepisco i fatti psichici come inseriti nella 

successione temporale di questo mondo esterno nonché nella 

sua suddivisione spaziale, troverò che le trasformazioni della 

vita spirituale dipendono dall’intervento della natura o dell’e- 

sperimento, consistente in trasformazioni materiali provocate 

agendo sul sistema nervoso: un'osservazione dello sviluppo del- 

la vita e degli stati morbosi allarga queste esperienze in un 

quadro complessivo del condizionamento dell’elemento spiri- 

tuale da parte dell’elemento corporeo. Sorge allora il modo di 

concepire proprio dello scienziato che procede dall’esterno ver- 

so l’interno, dalle trasformazioni materiali alle trasformazioni 

spirituali. Così l’antagonismo tra il filosofo e lo scienziato è 

condizionato dall’antitesi dei loro rispettivi punti di partenza. 

‘Procediamo ora dal tipo di considerazione proprio della 

scienza naturale. Finché questo tipo di considerazione rimane 

consapevole dei propri limiti, i suoi risultati sono incontesta- 

bili. Essi ricevono una più precisa determinazione del loro valo- 

re conoscitivo soltanto dal punto di vista dell'esperienza inter- 

na. La scienza della natura analizza la connessione causale del 

corso naturale. Laddove quest’analisi ha raggiunto il punto in 

cui una situazione o una trasformazione materiale è legata in 

maniera regolare con una situazione o una trasformazione psi- 

chica, senza che sia possibile rinvenire tra loro un ulteriore 

elemento intermedio, allora si può soltanto constatare questa 

relazione regolare, ma non si può applicare a tale relazione il 

rapporto di causa ed effetto. Noi scopriamo che le uniformità 

di un ambito di vita sono regolarmente collegate con uniformi- 

tà dell’altro, e l’espressione di questo rapporto è dato dal concet- 

to matematico di funzione. Una concezione di tale rapporto, 

che consenta di paragonare il corso delle trasformazioni spiri- 

tuali e di quelle corporee alla marcia di due orologi caricati in 

modo identico, è in accordo con l’esperienza tanto quanto una 

concezione che assuma come base esplicativa uno solo dei due 

orologi, considerando entrambi gli ambiti di esperienza come 

manifestazioni diverse di uno stesso fondamento. La dipenden- 



DI 



za dell’elemento spirituale dalla connessione della natura è 



106 WILHELM DILTHEY 



quindi il rapporto secondo il quale la connessione universale 

della natura condiziona causalmente quelle situazioni e trasfor- 

mazioni materiali che sono per noi collegate regolarmente, e 

senza un’ulteriore mediazione, con situazioni e trasformazioni 

spirituali. In tal modo la conoscenza naturale vede la concatena- 

zione delle cause spingere i suoi effetti fino alla vita psico-fisi- 

ca; qui sorge una trasformazione in cui la relazione tra materia- 

le e psichico si sottrae alla concezione causale, e questa trasfor- 

mazione ne richiama a sua volta una nel mondo materiale. In 

questo contesto l’importanza della struttura del sistema ner- 

voso si rivela all’esperimento del fisiologo. I confusi fenomeni 

della vita vengono dipanati in una chiara rappresentazione dei 

rapporti di dipendenza, nella cui successione il corso naturale 

spinge le sue trasformazioni fino all’uomo; queste poi penetra- 

no, attraverso le porte degli organi di senso, nel sistema nervo- 

so: sorgono la sensazione, la rappresentazione, il sentimento e 

il desiderio, che hanno poi un’azione retroattiva sul corso della 

natura. La stessa unità vivente, che ci riempie col sentimento 

immediato della nostra inscindibile esistenza, viene risolta in 

un sistema di relazioni tra i fatti della nostra coscienza e la 

struttura e le funzioni del sistema nervoso che possono essere 

empiricamente accertate: infatti ogni azione psichica si mostra 

collegata con una trasformazione all’interno del nostro corpo 

soltanto attraverso il sistema nervoso, e da parte sua la trasfor- 

mazione corporea è accompagnata da un mutamento del nostro 

stato psichico soltanto attraverso l’effetto che ha sul sistema 

nervoso. 


Da quest’analisi delle viventi unità psico-fisiche sorge ora 

una più chiara rappresentazione della loro dipendenza dalla 

connessione complessiva della natura, all’interno della quale 

esse compaiono e operano, e dalla quale nuovamente si ritraggo- 

no, nonché dalla dipendenza dello studio della realtà storico-so- 

ciale dalla conoscenza della natura. Su questa base si può stabi- 

lire il grado di attendibilità delle teorie di Comte e di Spencer 

in merito alla posizione di queste scienze all’interno della gerar- 

chia della scienza nel suo insieme, da essi formulata. Poiché 

questo scritto si propone di fondare la relativa autonomia delle 

scienze dello spirito, esso deve pure sviluppare — in quanto 

aspetto complementare della loro posizione nel complesso delle 



WILHELM DILTHEY 107 



scienze — il sistema delle dipendenze in virtù del quale esse 

sono condizionate dalla conoscenza naturale e costituiscono 

quindi il momento ultimo e supremo della costruzione che ha 

inizio con la fondazione matematica. I fatti dello spirito sono i 

limiti superiori dei fatti della natura; i fatti della natura costi- 

tuiscono le condizioni inferiori della vita spirituale. Proprio 

perché il regno delle persone, cioè la società umana, è la mani- 

festazione suprema del mondo dell’esperienza terrena, la sua 

conoscenza ha bisogno in innumerevoli punti della conoscenza 

del sistema di presupposti che risiedono, per il suo sviluppo, 

nella natura. 


E invero l’uomo, in virtù della sua posizione entro la con- 

nessione causale della natura, è condizionato da questa secon- 

do una duplice relazione. 


Come abbiamo visto, l’unità psico-fisica riceve continuamen- 

te influenze, per il tramite del sistema nervoso, dal corso uni- 

versale della natura, e a sua volta agisce su di esso. È tuttavia 

proprio della sua natura che le influenze che da essa procedono 

assumano principalmente la forma di un agire diretto da scopi. 

Per questa unità psico-fisica il corso della natura e la sua quali- 

tà da un lato determina la formazione degli scopi, dall'altro 

contribuisce al raggiungimento di questi scopi come un sistema 

di mezzi. E perciò noi stessi esistiamo là dove vogliamo, dove 

operiamo sulla natura, appunto perché non siamo forze cieche, 

bensì volontà che stabiliscono riflessivamente i loro scopi indi- 

pendenti dalla connessione della natura. Pertanto le unità psi- 

co-fisiche si trovano in una duplice dipendenza rispetto al corso 

naturale. Da una parte questo condiziona, in quanto sistema di 

cause — a partire dal posto della terra nell'insieme del cosmo 

— la realtà storico-sociale, e il grande problema del rapporto 

tra connessione naturale e libertà all'interno di tale realtà si 

scompone, per lo scienziato empirico, in innumerevoli questio- 

ni particolari riguardanti il rapporto tra fatti dello spirito e 

influenze della natura. D'altra parte, dagli scopi di questo re- 

gno di persone scaturiscono effetti retroattivi sulla matura, sul- 

la terra — che l’uomo considera in questo senso come propria 

abitazione, e in cui agisce per accomodarvisi; anche questi 

effetti retroattivi sono legati all’utilizzazione della connessione 

legale della natura. Tutti gli scopi si presentano in definitiva 



108 WILHELM DILTHEY 



all'uomo soltanto all’interno del processo spirituale, giacché so- 

lo in esso esiste qualcosa per lui; ma lo scopo cerca i suoi 

mezzi nella connessione della natura. Quanto poco percepibile 

è spesso la trasformazione prodotta nel mondo esterno dalla 

potenza creatrice dello spirito! E tuttavia soltanto su di essa 

poggia la mediazione in virtù della quale il valore così creato 

esiste anche per gli altri. I pochi fogli che, come residuo mate- 

riale di un più profondo lavoro intellettuale degli antichi nella 

direzione dell’ipotesi di un movimento della terra, pervennero 

nelle mani di Copernico, sono diventati il punto di partenza 

di una rivoluzione nella nostra visione del mondo. 


A questo punto si può intuire quanto sia relativa la recipro- 

ca delimitazione di queste due classi di scienze. Polemiche co- 

me quelle condotte a proposito della posizione della linguistica 

generale sono infruttuose. In entrambi i luoghi di trapasso che 

conducono dallo studio della natura a quello dello spirito, nei 

punti in cui la connessione della natura influenza lo sviluppo 

dell’elemento spirituale e negli altri in cui invece riceve l’in- 

fluenza dell'elemento spirituale oppure costituisce il luogo di 

passaggio per l’influenza su un altro elemento spirituale, le 

conoscenze relative alle due classi di scienze si mescolano sem- 

pre. Le conoscenze delle scienze naturali si mescolano con quel- 

le delle scienze dello spirito. E infatti in questa connessione — 

in conformità alla duplice relazione con cui il corso naturale 

condiziona la vita dello spirito — la conoscenza dell'influenza 

formativa della natura si intreccia spesso con la constatazione 

dell’influenza che essa esercita come materiale dell’agire. Così 

dalla conoscenza delle leggi naturali di formazione dei suoni 

deriva una parte importante della grammatica e della teoria 

musicale, e il genio del linguaggio o della musica è a sua volta 

legato a queste leggi naturali: lo studio delle sue funzioni è 

quindi condizionato dalla comprensione di tale dipendenza. 


A questo punto si può inoltre intuire che la conoscen- 

za delle condizioni presenti nella natura, e formulate dalla 

scienza naturale, costituisce in larga misura il fondamento 

dello studio dei fatti spirituali. Come lo sviluppo ‘dell’uomo 

singolo, così anche la diffusione del genere umano sulla terra e 

la formazione dei suoi destini nella storia sono condizionate 

dall’intera connessione cosmica. Per esempio, le guerre costitui- 



WILHELM DILTHEY 109 



scono un elemento fondamentale di ogni storia: in quanto 

storia politica, essa ha a che fare con la volontà di stati, ma 

questa si presenta in armi e si impone per mezzo loro. La 

teoria della guerra dipende però in primo luogo dalla conoscen- 

za dell’elemento fisico, che offre terreno e mezzi alle volontà 

in conflitto: la guerra persegue infatti lo scopo di imporre al 

nemico la nostra volontà con i mezzi della violenza fisica. Ciò 

implica che l’avversario dev'essere costretto, fino a essere privo 

di difesa — che è lo scopo teorico di quell’atto di violenza 

designato come guerra — cioè fino al punto in cui la sua 

situazione diventa più svantaggiosa del sacrificio che gli si 

richiede, e può essere scambiata soltanto con una situazione 

ancor più svantaggiosa. In questo grande calcolo, dunque, i 

numeri che risultano più importanti per la scienza, e di cui 

essa si occupa in primo luogo, sono le condizioni e i mezzi 

fisici, mentre c'è assai poco da dire circa i fattori psichici. 


Le scienze dell’uomo, della società e della storia hanno dun- 

que a loro fondamento le scienze della natura, anzitutto per- 

ché le stesse unità psico-fisiche possono essere studiate soltanto 

con l’aiuto della biologia, e inoltre perché il mezzo in cui ha 

luogo il loro sviluppo e la loro attività teleologica, e al cui 

dominio tale attività si riferisce in gran parte, è la natura. 

Sotto il primo aspetto, il loro fondamento è costituito dalle 

scienze dell’organismo, sotto il secondo prevalentemente da 

quelle della natura inorganica. La connessione che si deve spie- 

gare in questi termini poggia da una parte sul fatto che queste 

condizioni naturali determinano lo sviluppo e la distribuzione 

della vita spirituale sulla superficie terrestre, dall'altra sul fatto 

che l’attività teologica dell’uomo è legata alle leggi della natura 

e quindi condizionata dalla loro conoscenza e utilizzazione. Il 

primo rapporto indica pertanto solo una dipendenza dell’uomo 

dalla natura, mentre il secondo contiene questa dipendenza 

soltanto come aspetto complementare della storia del suo cre- 

scente dominio sulla terra. Quella parte del primo rapporto che 

racchiude in sé le relazioni dell’uomo con la natura circostante 

è stata sottoposta da Ritter al metodo comparativo. Brillanti 

intuizioni, e in particolare la sua valutazione comparativa dei 

continenti in base alla struttura dei loro contorni, lasciavano 

intravvedere una predestinazione della storia universale fissata 



II10 WILHELM DILTHEY 



nei rapporti spaziali della terra. I lavori successivi non hanno 

però confermato quest’intuizione, concepita da Ritter" come 

una teleologia della storia universale, e poi posta da Buckle® al 

servizio del naturalismo: al posto della rappresentazione di 

una dipendenza uniforme dell’uomo dalle condizioni naturali è 

subentrata la rappresentazione più prudente secondo cui la lot- 

ta delle forze etico-spirituali contro le condizioni della morta 

spazialità ha continuamente diminuito nei popoli storici — a 

differenza dai popoli privi di storia — il rapporto di dipenden- 

za. Anche qui si è affermata una scienza autonoma della realtà 

storico-sociale, che utilizza a scopo di spiegazione le condi- 

zioni naturali. L’altro rapporto mostra invece — con la dipen- 

denza inerente all’adattamento alle condizioni naturali — che 

il dominio della spazialità è così legato al pensiero scientifico e 

alla tecnica che l'umanità nella sua storia riesce a prevalere 

proprio in virtù della subordinazione. Natura enim non nisi 

parendo vincitur®. 


Il problema del rapporto delle scienze dello spirito con la 

conoscenza della natura può quindi esser considerato risolto 

soltanto se si risolve l’antitesi, dalla quale siamo partiti, tra il 

punto di vista trascendentale, secondo cui la natura è sottoposta 

alle condizioni della coscienza, e il punto di vista oggettivo-em- 

pirico, secondo cui lo sviluppo dell’elemento spirituale è sotto- 

posto alle condizioni della totalità della natura. Questo compito 

costituisce un aspetto del problema della conoscenza. Se si isola 

questo problema per le scienze dello spirito, non appare impos- 

sibile una soluzione convincente per tutti. Le sue condizioni 

sarebbero la dimostrazione della realtà oggettiva dell’esperienza 

interna e la comprova dell’esistenza di un mondo esterno; per- 



a. Bacone, De interpretatione naturae et regno hominis, aforisma 3. 



8. Karl Ritter (1779-1859) fu uno dei maggiori gcografi tedeschi della prima me- 

tà dell'Ottocento: la sua opera principale è Die ErdAunde im Verhiltnis zur Natur 

und Geschichte des Menschen (1817-18, 2° cd. 1822-58), che offre una descrizione siste- 

matica del Vecchio Mondo, ispirata al presupposto (di origine herderiana) dell’indivi- 

dualità dei continenti e alla considerazione dell'azione trasformatrice dell'ambiente da 

parte dell’uomo. 


9. Henry Thomas Buckle (1821-1862), storico inglese, autore di una History of 

Civilization in England (1857-61) di ispirazione positivistica. 



WILHELM DILTHEY III 



tanto in questo mondo esterno fatti ed esseri spirituali esistono 

in virtù di un processo di trasposizione della nostra interiorità 

in essi. Come l'occhio accecato dal sole ne ripete in modo 

variopinto l’immagine nei luoghi più vari dello spazio, così il 

nostro apprendimento moltiplica l’immagine della nostra vita 

interiore e la colloca in svariate maniere nei più diversi luoghi 

della natura circostante: questo processo può essere però espo- 

sto e giustificato logicamente come un’inferenza analogica da 

questa vita interiore originaliter data in modo immediato sol- 

tanto a noi, attraverso le rappresentazioni delle manifestazioni 

ad essa concatenate, a qualcosa di affine corrispondente a mani- 

festazioni affini del mondo esterno, che sta a loro fondamento. 

Qualunque cosa sia la natura in se stessa, lo studio delle cause 

della realtà spirituale può accontentarsi del fatto che in ogni 

caso i suoi fenomeni possono venir concepiti e utilizzati come 

segni del reale, e le uniformità presenti nei suoi rapporti di 

coesistenza e di successione possono venir concepite come segni 

di uniformità presenti nel reale. Se però ci si introduce nel 

mondo dello spirito e si indaga la natura o in quanto contenu- 

to dello spirito o in quanto scopo o mezzo intessuto nelle 

volontà, per lo spirito la natura è appunto ciò che essa è in lui, 

e qui è del tutto indifferente quale possa essere in sé. È suf- 

ficiente che lo spirito possa far conto nel suo agire, comunque 

la natura gli sia data, sulla sua legalità, e possa gustare la 

bella apparenza della sua esistenza. 



III. PROSPETTIVE SULLE SCIENZE DELLO SPIRITO 



Le scienze dello spirito non si sono ancora costituite a com- 

plesso unitario; esse non sono ancora in grado di stabilire una 

connessione in cui le singole verità siano ordinate secondo i 

loro rapporti di dipendenza da altre verità e dall'esperienza. 


Queste scienze sono cresciute nella prassi stessa della vita, 

sviluppandosi in base alle esigenze della formazione professiona- 

le, e la sistematicità delle facoltà al servizio di tale formazione 

è quindi la forma spontanea della loro connessione. I loro 

primi concetti e le loro prime regole sono state quindi trovate 



112 WILHELM DILTHEY 



per lo più nell’esercizio delle funzioni sociali. Jhering!® ha di- 

mostrato che il pensiero giuridico ha prodotto i concetti fonda- 

mentali del diritto romano mediante un cosciente lavoro spiri- 

tuale compiutosi nella stessa vita del diritto. Anche l’analisi 

delle più antiche costituzioni greche indica in esse i precipitati 

dell’ammirevole forza di un pensiero politico consapevole fon- 

dato su concetti e princìpi chiari. L'idea fondamentale in base 

alla quale la libertà dell’individuo viene riposta nella sua parte- 

cipazione al potere politico, ma questa è regolata dall’ordina- 

mento statale in conformità alla funzione che l’individuo assol- 

ve per il tutto, è stata dapprima decisiva per l’arte politica, e 

soltanto in seguito è stata elaborata in forma scientifica dai 

grandi teorici della scuola socratica. Il progredire verso teorie 

scientifiche comprensive si appoggiava quindi prevalentemente 

sul bisogno di una formazione professionale dei ceti dirigenti. 

Così già nella Grecia, dai compiti di un insegnamento politico 

superiore sorsero, nell’età dei Sofisti, la retorica e la politica; e 

la storia della maggior parte delle scienze dello spirito nei 

popoli moderni mostra l’influenza dominante del medesimo 

rapporto fondamentale. La letteratura dei Romani riguardo al- 

la loro comunità ricevette la sua struttura più antica dal fatto 

di essersi sviluppata in forma di istruzioni per i sacerdoti e per 

i singoli magistrati®. Perciò la sistematica di quelle scienze 

dello spirito che contengono la base per la formazione professio- 

nale degli organi dirigenti della società, come anche l’esposizio- 

ne di tale sistematica in veste enciclopedica, è emersa in definiti- 

va dal bisogno di un compendio su quanto occorre a tale prope- 

deutica; e la forma più naturale delle enciclopedie sarà sempre 

— come Schleiermacher ha magistralmente mostrato a proposi- 

to della teologia — quella che si articola con la coscienza di 

tale scopo. Con queste condizioni limitative, chi penetri nelle 



a. Cir. T. Mommsen, Romisches Staatsrecht, Leipzig, vol. I, 1871, p. 

3 SBg- 



10. Rudolph von Jhering (1818-1892), giurista c filosofo del diritto tedesco, autore 

di Der Geist des ròmischen Rechts (1852-65), di Der Kampf ums Recht (1872), di Der 

Zweck im Recht (1877-84) c di numerose altre opere, alcune delle quali pubblicate po- 

stume, diede un contributo fondamentale alla considerazione storico-istituzionale del 

diritto c, in particolare, all'analisi del diritto romano. 



WILHELM DILTHEY 113 



scienze dello spirito troverà nelle opere enciclopediche uno 

sguardo d’insieme sui singoli gruppi importanti di queste scien- 

ze?. 


Vari tentativi — che vanno al di là di queste funzioni — di 

scoprire la struttura complessiva delle scienze che hanno per 

oggetto la realtà storico-sociale hanno preso le mosse dalla filo- 

sofia. In quanto cercavano di derivare questa connessione da 

princìpi metafisici, essi sono ricaduti nel destino che tocca a 

ogni metafisica. Già Bacone si servì di un metodo migliore, 

ponendo le scienze dello spirito allora esistenti in relazio- 

ne con il problema di una conoscenza della realtà sulla base 

dell’esperienza, e commisurò a questo compito le loro funzioni 

e i loro difetti. Comenio" si propose, con la sua « panso- 

fia», di derivare dal rapporto di reciproca dipendenza interna 

delle verità la successione di gradi in cui esse devono presen- 

tarsi nell’insegnamento; e poiché in tal modo, opponendosi al 

falso concetto di una istruzione formale, scoprì il principio 

fondamentale di un’educazione futura (purtroppo al di là da 

venire ancor oggi), con il principio della dipendenza reciproca 

delle verità preparò anche una struttura appropriata delle scien- 

ze. Comte, sottoponendo a indagine la relazione tra questo 

rapporto logico di dipendenza in cui stanno tra loro le verità e 

il rapporto storico di successione in cui esse compaiono, creò il 

fondamento per un'autentica filosofia delle scienze. Egli consi- 



a. Per uno sguardo d'insieme di questo tipo su particolari campi delle 

scienze dello spirito, si rimanda alle seguenti enciclopedie: R. von MoHI, 

Enzyklopidie der Staatswissenschaften, Tubingen, 1859, 2° ed. non rive- 

duta 1873; 3* ed. 1881 (si veda inoltre la panoramica e la valutazione di 

altre enciclopedie nella sua Geschichte und Literatur der Staatswissen- 

schaften in Monographien dargestellt, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 111-46); 

L. A. WarNnKONIG, /uristische EnzyKlopéidie oder organische Darstellung 

der Rechtswissenschaft, Erlangen, 1853; F. E. D. ScHLErERMAcHER, Kurze 

Darstellung des theologischen Studiums, Berlin, 1810, 2° ed. riveduta 1830; 

A. Bòcgn, Enzyklopidie und Methodologie der philologischen Wissen- 

schaften (a cura di E. Bratuschek), Leipzig, 1877. 



11. Jan Amos Komensky, lat. Comenius (1592-1670), filosofo e pedagogista mora- 

vo, autore della Didactica magna (1631) e di varie altre opere, appartenne alla comu- 

nità dei Fratelli Boemi e fu coinvolto nelle guerre di religione, che lo costrinsero 

all'esilio. Il suo pensiero, ispirato all'ideale della « pansofia », ha ispirato un largo 

movimento di riforma educativa, in Germania e fuori. 



8. STORICISMO TEDESCO. 



114 WILHELM DILTHEY 



derò la costituzione delle scienze delle realtà storico-sociali co- 

me il fine del suo grande lavoro, e di fatto la sua opera diede 

luogo a un forte movimento in questa direzione: John Stuart 

Mill, Littré!”, Herbert Spencer hanno ripreso il problema 

della connessione delle scienze storico-sociali®. Questi lavori 

assicurano a colui che si introduca nelle scienze dello spirito 

uno sguardo d'insieme di tipo completamente diverso da quello 

che offre la sistematica degli studi professionali. Essi collocano 

le scienze dello spirito nella connessione della conoscenza, ne 

colgono il problema nel suo ambito complessivo e ne intrapren- 

dono la soluzione entro una costruzione scientifica che com- 

prende tutta la realtà storico-sociale. Però, pieni della smania 

temeraria di costruzione scientifica oggi dominante in Inghilter- 

ra e in Francia, privi dell’intimo sentimento della realtà sto- 

rica che si forma solamente in base a una consuetudine plurien- 



a. Uno sguardo d'insieme sui problemi delle scienze dello spirito, se- 

condo la connessione interna in cui stanno tra loro in rapporto sotto il pro- 

filo metodologico e in cui si può quindi ottenerne una coerente soluzione, 

si trova abbozzata in A. Comte, Cours de philosophie positive, Paris, 1820- 

42 (nei volumi IV-VI). Le sue opere successive, che contengono un punto 

di vista modificato, non possono servire a questo scopo. Il più importante 

abbozzo di sistema delle scienze ad esso opposto è quello di Herbert Spen- 

cer. Al primo attacco a Comte (in Essays, prima serie, London, 1858) Spen- 

cer faceva seguire un'esposizione più precisa in The Classification of the 

Sciences, London, 1864 (cfr. la difesa di Comte in E. Lirtré, Auguste 

Comte et la philosophie positive, Paris, 1863). Ma la più compiuta esposi- 

zione del complesso delle scienze dello spirito è ora offerta dal suo System 

of Synthetic Philosophy, del quale sono apparsi per primi, nel 1855, i Prin- 

ciples of Psychology, e poi a partire dal ’76 i Principles of Sociology (in 

relazione all'opera Descriptive Sociology); la parte conclusiva, i Principles 

of Ethics — e Spencer stesso dichiara di «ritenerli quelli per cui tutti 

i precedenti costituiscono soltanto il fondamento » — tratta nel primo vo- 

lume, apparso nel 1879, i « fatti dell'etica » [The Data of Ethics, London, 

1879]. Accanto a questo tentativo di delineare una teoria della realtà sto- 

rico-sociale, merita ancora di essere menzionato quello di John Stuart Mill, 

contenuto nel sesto libro di A System of Logic, Ratiocinative and Inductive, 

London, 1851 (che tratta della logica delle scienze dello spirito o scienze 

morali), e nello scritto August Comte and Positivism, London, 1866. 



12. Maximilien-Paul-Emile Littré (1801-1881), scienziato e filosofo francese, fu al- 

lievo e divulgatore del pensiero di Comte, a cui dedicò vari scritti; si distaccò tuttavia 

dal maestro, rifiutando l'esito religioso della filosofia comtiana, 



WILHELM DILTHEY 115 



nale con questa realtà nella ricerca particolare, i positivisti non 

hanno trovato quel punto di partenza per i loro lavori che 

avrebbe dovuto corrispondere al loro principio della connessio- 

ne delle scienze particolari. Essi avrebbero dovuto cominciare 

il loro lavoro studiando l’architettonica dell'immenso edificio 

delle scienze positive, continuamente ampliato da aggiunte, 

sempre trasformato dall'interno, sorto a poco a poco attraverso 

i millenni, renderlo comprensibile attraverso l’approfondimento 

del suo piano di costruzione e così render giustizia — con 

un’intuizione feconda per la ragione della storia — alla molte- 

plicità di aspetti con cui si sono effettivamente sviluppate que- 

ste scienze. Essi hanno invece innalzato un edificio provvisorio 

che non è sostenibile più di quanto lo siano le temerarie specu- 

lazioni di Schelling o di un Oken” sulla natura. È così accadu- 

to che le filosofie dello spirito tedesche — sviluppate sulla base 

di un principio metafisico — di Hegel, di Schleiermacher e del 

tardo Schelling impieghino l’acquisizione delle scienze positive 

dello spirito con una penetrazione più profonda dei lavori di 

questi filosofi positivi. 


Dall’approfondimento dei compiti delle scienze dello stato 

hanno preso le mosse in Germania altri tentativi di fornire 

una struttura comprensiva nel campo delle scienze dello spiri- 

to, provocando però ovviamente un'unilateralità del punto di 

vista ?. 


Le scienze dello spirito non costituiscono un complesso for- 

nito di una costituzione logica analoga alla struttura della cono- 



a. Il punto di partenza è rappresentato dalle discussioni sul concetto 

di società e sul compito delle scienze sociali, nelle quali si è cercata un'in- 

tegrazione alle scienze dello stato. La spinta è stata data da L. von STEIN, 

Der Sozialismus und Communismus des heutigen Frankreichs, Leipzig, 2° 

ed. 1848, e da R. von Mont, Gesellschafts-Wissenschaften und Staats-Wis- 

senschaften, « Zeitschrift fr die gesamte Staatswissenschaft », VII, 1851, 

PP. 3-71, ripreso nella sua Geschichte und Literatur der Staatswissenschaf- 

ten, Erlangen, vol. I, 1855, pp. 67-110. Indichiamo come particolarmente 

rilevanti due tentativi di articolazione, cioè quelli di L. von STEIN, System 

der Staatswissenschaft, Stuttgart, 1852-56, e di A. ScHarrLe, Bau und Leben 

des sozialen Kòrpers, Tùbingen, 1875-78. 



13. Lorenz Oken (1779-1851), naturalista, autore di numerose opere di filosofia 

della natura che si ispirano all’organicismo schellinghiano. 



116 WILHELM DILTHEY 



scenza naturale. La loro connessione si è sviluppata diversamen- 

te e deve quindi essere considerata ora così come è storicamen- 

te cresciuta. 



IV. IL MATERIALE DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO 



Il materiale di queste scienze è costituito dalla realtà storico-' 

sociale in quanto essa è conservata nella coscienza dell’umanità 

come un insieme di conoscenze storiche, ed è stata resa accessi- 

bile alla scienza sotto forma di una conoscenza sociale che va 

al di là della situazione attuale. Per quanto sterminato sia 

questo materiale, salta tuttavia agli occhi la sua incompiutezza. 

Interessi in nessun modo corrispondenti all'esigenza della scien- 

za e condizionati dalla tradizione — pure privi di qualsiasi 

relazione con quest’esigenza — hanno determinato lo stato del- 

la nostra conoscenza storica. Fin dall'epoca in cui, raccolti 

intorno al fuoco dell’accampamento, i compagni di tribù e 

d’arme narravano le gesta dei loro eroi e l’origine divina della 

loro stirpe, il forte interesse della vita in comune ha salvato e 

conservato alcuni fatti dall’oscuro fluire della vita umana abi- 

tuale. L'interesse dell’epoca successiva e la vicenda storica han- 

no deciso che cosa di questi fatti dovesse giungere fino a 

noi. La storiografia come libera arte espositiva accoglie una 

parte di questo sterminato complesso, cioè quella che appare 

fornita di interesse da un qualche punto vista. Ne consegue che 

la società odierna vive, per così dire, sugli strati e sulle rovine 

del passato; i precipitati del lavoro culturale presenti nel lin- 

guaggio e nella superstizione, nel costume e nel diritto, come 

pure nelle trasformazioni materiali che vanno oltre le testimo- 

nianze, contengono tutti una tradizione che sorregge le testimo- 

nianze in modo inestimabile. Anche per la loro conservazione 

ha deciso la mano della vicenda storica. Soltanto in due punti 

si trova uno stato del materiale che corrisponde alle esigenze 

della scienza. Il corso dei movimenti spirituali nell'Europa mo- 

derna è conservato con sufficiente compiutezza negli scritti che 

ne sono parte costitutiva. Così pure i lavori della statistica 

consentono — per il breve periodo e il ristretto ambito di paesi 



WILHELM DILTHEY II7 



in cui sono stati applicati — di gettare uno sguardo numerica- 

mente fondato nei fatti della società che quei lavori accolgo- 

no: essi permettono di fornire alla conoscenza dello stato attua- 

le della società un fondamento esatto. 


L’impossibilità di penetrare nella connessione di questo ma- 

teriale sterminato conduce a tale lacunosità; anzi ha contri- 

buito non poco a rafforzarla. Non appena lo spirito umano 

cominciò a sottoporre la realtà ai suoi principi, esso si rivolse 

anzitutto, preso dallo stupore, al cielo; questa vòlta al di sopra 

di noi, che sembra poggiare sul cerchio dell’orizzonte, lo occu- 

pò tutto: una totalità spaziale in sé conclusa che sempre e 

dovunque avvolge gli uomini. Così l’orientamento nell'edificio 

del mondo fu il punto di partenza della ricerca scientifica, nei 

paesi orientali come in Europa. Il cosmo dei fatti spirituali 

non si offre invece alla vista nella sua immensità, ma si offre 

soltanto allo spirito raccoglitore del ricercatore; esso emerge in 

alcune parti singole, dove uno studioso collega dei fatti, li 

esamina e li accerta: allora esso si costituisce nell’interiorità 

dell'animo. Un vaglio critico delle tradizioni, l'accertamento 

dei fatti e la loro raccolta costituiscono quindi un primo lavoro 

comprensivo delle scienze dello spirito. Dopo che la filologia 

elaborò una tecnica esemplare sulla materia più difficile e bella 

della storia, l’antichità, questo lavoro in parte viene condotto 

in innumerevoli ricerche particolari, in parte viene a costituire 

un elemento di indagini ulteriori. La connessione di questa 

pura descrizione della realtà storico-sociale — in quanto si 

propone, sulla base della fisica della terra, con l'ausilio della 

geografia, di descrivere la distribuzione dell’elemento spirituale 

e delle sue differenze sulla terra, nel tempo e nello spazio — 

può acquistare la sua capacità di penetrazione sempre soltanto 

se la riconduce a chiare misure spaziali, a rapporti numerici, a 

determinazioni temporali, con strumenti di rappresentazione 

grafica. La semplice raccolta e il semplice vaglio del materiale 

si trasformano qui gradualmente in una sua elaborazione e 

articolazione concettuale. ° 



118 WILHELM DILTHEY 



V. LE TRE CLASSI DI ASSERZIONI PRESENTI NELLE SCIENZE DELLO 

SPIRITO 



Le scienze dello spirito, così come esse sono e operano, in 

virtù della ragione immanente che agisce nella loro storia — 

non già nel modo che desiderano alcuni architetti temerari, i 

quali vorrebbero costruirle su nuova base — congiungono in sé 

tre distinte classi di asserzioni. Le asserzioni della prima classe 

esprimono un reale che è dato nella percezione: esse contengo- 

no l’elemento storico della conoscenza. Le asserzioni della se- 

conda classe enunciano il comportamento uniforme delle parti 

di questa realtà, isolate mediante un’astrazione: esse formano 

l'elemento teorico di essa. Le asserzioni dell’ultima classe espri- 

mono giudizi di valore e prescrivono regole: in esse è racchiu- 

so l'elemento pratico delle scienze dello spirito. Fatti, teoremi, 

giudizi di valore e regole — da queste tre classi di proposizioni 

sono costituite le scienze dello spirito. E la relazione tra orienta- 

mento storico, orientamento teorico astratto e orientamento pra- 

tico si presenta come un rapporto fondamentalmente comune a 

tutte queste discipline. La comprensione del singolare, dell’indi- 

viduale rappresenta in esse uno scopo ultimo — e in ciò esse 

sono la costante confutazione del principio spinoziano omnis 

determinatio est negatio — al pari della formulazione di unifor- 

mità astratte. Dalla sua prima radice nella coscienza fino alla 

vetta suprema, la connessione dei giudizi di valore e degli 

imperativi è indipendente dalla connessione delle prime due 

classi. La relazione reciproca di questi tre compiti nella 

scienza pensante può essere sviluppata soltanto nel corso di 

un'analisi di teoria della conoscenza (o, in senso più ampio, 

dell’auto-riflessione). In ogni caso le osservazioni concernenti la 

realtà rimangono separate dai giudizi di valore e dagli imperati- 

vi anche alla radice: sorgono così due tipi di proposizioni, che 

sono distinte in linea di principio. Al tempo stesso si deve 

riconoscere che questa distinzione all’interno delle scienze dello 

spirito ha come conseguenza una loro duplice connessione. Una 

volta sviluppate, le scienze dello spirito contengono, accanto 

alla conoscenza di ciò che è, la coscienza della connessione dei 

giudizi di valore e degli imperativi, nella quale si congiungono 



WILHELM DILTHEY 119 



valori, ideali, regole, nonché la tendenza alla formazione del 

futuro. Un giudizio politico che respinge un'istituzione non è 

né vero né falso, ma è giusto o ingiusto, in quanto se ne 

valuta la tendenza, il fine; vero o falso può essere invece un 

giudizio politico che illustri le relazioni di questa istituzione 

con altre istituzioni. Soltanto se si assume questa prospettiva 

per interpretare la proposizione, l’asserzione, il giudizio, si 

può fondare una teoria della conoscenza che non comprima la 

realtà oggettiva delle scienze dello spirito nei limiti ristretti di 

una conoscenza di uniformità, secondo l’analogia con le scienze 

della natura, venendo pertanto a mutilarle, ma che le compren- 

da e dia loro un fondamento così com’esse si sono sviluppate. 



VI. LA DISTINZIONE DELLE SCIENZE PARTICOLARI IN BASE ALLA 

REALTÀ STORICO-SOCIALE 



Gli scopi delle scienze dello spirito — cogliere l’aspetto sin- 

golare e individuale delle realtà storico-sociale, conoscere le uni- 

formità operanti della sua formazione, determinare fini e rego- 

le per il suo ulteriore sviluppo — possono essere conseguiti 

soltanto mediante gli strumenti del pensiero, cioè mediante 

l’analisi e l’astrazione. L'espressione astratta in cui si prescinde 

da determinati aspetti della situazione, mentre se ne sviluppano 

altri, non è il fine ultimo esclusivo di queste scienze, ma è il 

loro mezzo indispensabile. Come il conoscere che procede per 

astrazione non può risolvere in sé l’autonomia degli altri scopi 

di queste scienze, così né la conoscenza storica né quella teori- 

ca né lo sviluppo delle regole che dirigono di fatto la società 

possono far a meno di tale conoscere. La disputa tra la scuola 

storica e la scuola astratta è sorta in quanto la scuola astratta 

ha commesso il primo di questi errori, e la scuola storica l’al- 

tro. Ogni scienza particolare sorge soltanto mediante l’artificio 

dell'isolamento di una parte dall’insieme della realtà storico-so- 

ciale. La storia prescinde da quei caratteri della vita di un 

particolare uomo o di una particolare società che si presentano 

identici, nell’epoca da essa indagata, con quelli di tutte le altre 

epoche; il suo sguardo è diretto a quel che c’è di distintivo e di 

singolare. In ciò il singolo storico può ingannarsi, in quanto da 



120 WILHELM DILTHEY 



tale direzione del suo sguardo già deriva la selezione di certi 

aspetti nelle sue fonti; ma chi mette a confronto il procedimen- 

to effettivo dello storico con il complesso della realtà storico-so- 

ciale, dovrà ben riconoscerlo. Da ciò deriva l'importante princi- 

pio che ogni scienza particolare dello spirito conosce la realtà 

storico-sociale solo relativamente, in quanto ha coscienza della 

propria relazione con le altre scienze dello spirito. L’organizza- 

zione di queste scienze e il loro corretto sviluppo nella loro 

particolarità dipendono pertanto dalla capacità di tener presen- 

te la relazione di ognuna delle loro verità con il complesso 

della realtà della quale fanno parte, nonché della costante con- 

sapevolezza dell’astrazione in virtù della quale queste verità 

sussistono e del limitato valore conoscitivo che ad esse spetta a 

causa di questo loro carattere astratto. 



LA COSTRUZIONE DEL MONDO STORICO 

NELLE SCIENZE DELLO SPIRITO * 



Tre diversi compiti deve assolvere la fondazione delle scien- 

ze dello spirito. Essa determina il carattere generale della con- 

nessione in cui, sulla base del dato, sorge in questo campo un 

sapere universalmente valido: si tratta qui della struttura logi- 

ca generale delle scienze dello spirito. Occorre poi illustrare la 

costruzione del mondo spirituale nei suoi campi particolari, 

quale avviene nelle scienze dello spirito attraverso l’intreccio 

delle loro operazioni. Questo è il secondo compito, e nel corso 

della sua soluzione verrà gradualmente in luce, per astrazione 

dal loro stesso procedimento, la dottrina del metodo delle scien- 

ze dello spirito. Infine si cercherà quale sia il valore conosci- 

tivo di queste operazioni delle scienze dello spirito e in quale 

misura sia possibile, mediante la loro cooperazione, un sapere 

oggettivo intorno ai fenomeni spirituali. 


Tra questi due ultimi compiti c'è una stretta connessione 

interna. La distinzione delle varie operazioni rende possibile 

provarne il valore conoscitivo, e questo esame mostra in quale 

misura sia possibile, in virtù di esse, tradurre in sapere la 

realtà che è oggetto delle scienze dello spirito e la connessione 

reale in essa sussistente: in tale maniera si otterrà un fonda- 

mento autonomo della conoscenza per il nostro campo, mentre 



* Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, parte III: 

Allgemeine Sitze fiber den Zusammenhang der Geisteswissenschaften, « Abhandlungen 

der kSniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften » (Philosophisch-historische 

Classe), 1910, pp. 49-123, ora in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VII, 

1927, pp. 120-188 (La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, tr. it. 

di Pietro Rossi, in Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, pp. 200-289). 



122 WILHELM DILTHEY 



si apre la possibilità di una connessione generale della teoria 

della conoscenza, il cui punto di partenza risieda nelle scienze 

dello spirito. 


Il carattere generale della connessione nelle scienze dello 

spirito è dunque il nostro prossimo problema. Il punto di 

partenza è la dottrina della struttura dell’apprendimento ogget- 

tivo in genere. Essa mostra in ogni apprendimento una linea 

progressiva dal dato ai rapporti fondamentali della realtà, che 

al di lù di quello si rivelano al pensiero concettuale. Le medesi- 

me forme di pensiero e le medesime classi di operazioni di 

pensiero, ad esse subordinate, rendono possibile la connessione 

scientifica nelle scienze della natura e nelle scienze dello spiri- 

to. Su questa base sorgono poi, nell’applicazione di quelle for- 

me e di quelle operazioni di pensiero ai compiti particolari e 

sotto le condizioni particolari delle scienze dello spirito, i meto- 

di specifici di queste. E poiché i compiti delle scienze produco- 

no i metodi di soluzione, i singoli procedimenti costituiscono 

una connessione interna, condizionata dallo scopo del sapere. 



SEZIONE I 



L'APPRENDIMENTO OGGETTIVO 



L'apprendimento oggettivo costituisce un sistema di relazio- 

ni, nel quale sono contenuti percezioni ed Er/ebnisse, rappresen- 

tazioni della memoria, giudizi, concetti, deduzioni, insieme al- 

le loro forme composte. A tutte queste operazioni nel sistema del- 

l'apprendimento oggettivo è comune la presenza in esse soltan- 

to di relazioni di fatto: così nel sillogismo sono presenti soltan- 

to i contenuti e le loro relazioni senza che lo accompagni 

alcuna coscienza di operazioni di pensiero. Il procedimento che 

suppone al di sotto del dato, come sue condizioni di coscienza, 

singoli atti che vengono concepiti come corrispondenti alle rela- 

zioni di fatto, derivando dalla loro cooperazione la realtà del- 

l'apprendimento oggettivo, contiene un'ipotesi che non può 

mai essere verificata. 



WILHELM DILTHEY 123 



I vari Erlebnisse entro questo apprendimento oggettivo so- 

no elementi di una totalità determinata dalla connessione psi- 

chica. In questa connessione psichica la conoscenza oggettiva 

della realtà è la condizione per l’esatta constatazione dei valori 

e per l’agire conforme allo scopo. Così il percepire, il rappresen- 

tare, il giudicare, il dedurre sono operazioni che collaborano 

nella teleologia della connessione dell’apprendimento, la quale 

assume quindi il suo posto nella connessione della vita. 



1. La prima operazione dell’apprendimento oggettivo sul da- 

to eleva a coscienza distinta ciò che in esso è contenuto, senza 

far subire un mutamento alla forma della datità. Io chiamo 

primaria questa operazione, in quanto l’analisi che muove dal 

pensiero discorsivo non ritrova nessuna operazione più sempli- 

ce. Essa sta al di là del pensiero discorsivo, il quale è legato al 

linguaggio e si svolge nei giudizi; poiché gli oggetti, su cui si 

giudica, presuppongono già operazioni di pensiero. 


Comincio qui con l’operazione della comparazione. Io trovo 

il simile e il dissimile, concepisco gradi di distinzione. Davanti 

a me stanno due foglioline di diverso colore grigio: si osserva la 

diversità e il grado di diversità nel colore non in base a una 

riflessione sul dato ma come un elemento di fatto, poiché il colo- 

re stesso è uno stato di fatto. Del pari distinguo, nella mia espe- 

rienza immediata, gradi di piacere, quando passo dal tocco di un 

tono determinato e della sua ottava a una completa armonia. Que- 

sta operazione di pensiero, con cui soltanto la logica ha che fare, 

è semplice. E il suo risultato, in rapporto al suo valore di verità, 

non è diverso dall’osservare un colore o un suono; qualcosa che 

esiste diventa osservabile. Identità e differenza non sono qualità 

delle cose come l’estensione o il colore: esse sorgono in quanto 

l’unità psichica reca a coscienza rapporti che sono contenuti nel 

dato. E poiché l’affermazione dell’identità e l'affermazione del- 

la differenza trovano soltanto ciò che è dato, così come sono 

dati l'estensione e il colore, esse costituiscono un analogo della 

percezione stessa; ma in quanto creano concetti di rapporti 

logici come quelli di identità, di differenza, di grado, di affini- 

tà, contenuti nella percezione ma non dati in questa, esse appar- 

tengono al pensiero. Sulla base della comparazione sorge un’al- 

tra operazione. Quando separo due stati di fatto siamo di 



124 WILHELM DILTHEY 



fronte, dal punto di vista logico — e non si tratta affatto di 

processi psicologici — a un'operazione di pensiero diversa dalla 

distinzione. Nel dato sono contenuti separatamente due stati di 

fatto, e viene colta la loro estraneità. Così in un bosco una voce 

umana, il rumore del vento, il canto di un uccello vengono 

colti non solo come distinti tra di loro, ma anche come una 

pluralità. Quando un suono della stessa qualità, cioè della stes- 

sa altezza, dello stesso timbro, della stessa intensità e della 

stessa durata, ritorna una seconda volta in un altro punto del 

corso temporale, in questa seconda operazione di pensiero sorge 

la coscienza che il secondo suono è altro dal primo. Un ulterio- 

re rapporto è concepito in un secondo caso di separazione. In 

una foglia verde posso separare tra loro colore e forma, e 

allora ciò che coerisce nell’unità dell’oggetto, e che non può 

venir realmente separato, diventa tuttavia separabile idealmen- 

te. Anche quando le condizioni preliminari di quest'operazione 

di separazione sono molto complesse, l'operazione stessa è tutta- 

via semplice. Essa è determinata, al pari della comparazione, 

dal contenuto di fatto che reca a conoscenza. 


E qui si apre la prospettiva sul processo di astrazione, così 

importante per la costruzione della logica. La distinzione delle 

membra di un corpo inerisce alla realtà concreta del corpo; in 

ognuna delle sue parti è mantenuta questa realtà concreta, ma 

quando estensione e colore vengono tra loro separati, e il pensie- 

ro si rivolge al colore, allora da tale distinzione sorge l’operazio- 

ne dell’astrazione: di ciò che è stato idealmente separato viene 

posto in evidenza un aspetto. 


L'unione di vari elementi distinti si può compiere solo sulla 

base di una relazione tra questi vari elementi. Noi cogliamo il 

rapporto spaziale tra stati di fatto distinti,o gli intervalli in 

cui i processi si susseguono temporalmente. Anche questo colle- 

gare e questo unire portano soltanto a coscienza rapporti che 

già sussistono; ma ciò avviene mediante operazioni di pensiero 

che hanno a base relazioni, come quelle di spazio e di tempo, 

di fare e subire. Questo prendere insieme è la condizione per- 

ché si costituisca l'intuizione del tempo. Quando il battito di 

un orologio si succede varie volte, davanti a me sta soltanto il 

susseguirsi di tali impressioni, ma solo prendendole insieme 

diventa possibile comprendere questa successione. Questo pren- 



WILHELM DILTHEY 125 



dere insieme dà luogo al rapporto logico di una totalità con le 

sue parti. Sulla base dei rapporti di separazione e della gradua- 

le differenza delle relazioni contenute nel sistema di suoni 

sorge, in questo collegamento, un complesso così condizionato 

che viene però in luce soltanto nel collegamento stesso, e cioè 

l'accordo o la melodia. Qui appare particolarmente chiaro co- 

me il prendere insieme avviene entro ciò che è contenuto nel- 

l’Erlebnis di percezione o di ricordo, e come tuttavia sorge in 

esso qualcosa che non esisteva senza quel prendere insieme. 

Noi ci troviamo qui ai limiti che conducono al di sopra della 

constatazione di ciò che è contenuto in tali rapporti, nella 

regione della libera fantasia. 


Questi esempi — e non si tratta di nulla di più — dimostra- 

no che le operazioni elementari del pensiero spiegazo il dato. 

Precedendo il pensiero discorsivo, esse ne contengono le premes- 

se, in quanto nella comparazione si preparano la formazione 

dei giudizi e dei concetti generali e il procedimento comparati- 

vo, nella separazione le astrazioni e il procedimento analitico, 

e infine nelle relazioni ogni specie di operazioni sintetiche. 

Così un’interna connessione fondante va dalle operazioni ele- 

mentari di pensiero al pensiero discorsivo, dall’apprendimento 

del contenuto di fatto degli oggetti ai giudizi su di essi. 


Ciò che è percepito sensibilmente o immediatamente vissuto 

trapassa, a un ulteriore grado di coscienza, nella rappresentazione 

della memoria. In essa si compie un'ulteriore operazione del- 

l'apprendimento oggettivo, a cui corrisponde un particolare rap- 

porto della nuova formazione con il suo fondamento. Questo 

rapporto della rappresentazione della memoria con il contenuto 

dell’apprendimento sensibile e dell’Erlebnis è un rapporto di 

riproduzione. Infatti la libera mobilità delle rappresentazioni 

è, nel campo dell’apprendimento oggettivo, limitata dall’inten- 

zione di adeguarsi alla realtà e tutti i modi di formazione 

delle rappresentazioni sono determinati da questo orientamen- 

to verso la realtà. In esso sorgono rappresentazioni totali e 

rappresentazioni generali, preparando un nuovo grado della co- 

scienza. 


Questo nuovo grado viene alla luce nel pensiero discorsivo: 

il rapporto di riproduzione cede qui il posto a un’altra relazio- 

ne entro l'apprendimento oggettivo. 



126 WILHELM DILTHEY 



Il pensiero discorsivo è legato all’espressione, in primo luo- 

go al linguaggio. In ciò consiste la relazione dell’espressione 

con ciò che è espresso, mediante la quale sorgono forme 

linguistiche sulla base dei movimenti degli organi linguistici e 

delle rappresentazioni dei loro prodotti. La relazione con ciò 

che in esse viene espresso costituisce la loro funzione: esse han- 

no un significato come elementi della proposizione, mentre la 

proposizione medesima ha un senso. La direzione dell’apprendi- 

mento va dalla parola e dalla proposizione all'oggetto che esse 

esprimono: in tal modo sorge la relazione tra Gi proposizione 

grammaticale, o l’espressione effettuata mediante altri segni, e 

il giudizio che produce tutte le parti del pensiero discorsivo. 


Qual è ora il rapporto tra il dato o il contenuto rappresenta- 

tivo, condizionato dalle precedenti operazioni degli Erlebnisse 

di apprendimento, e il giudizio? In questo uno stato di fatto 

viene predicato di un oggetto: da ciò deriva che non si può qui 

parlare di una riproduzione del dato o del contenuto rappresen- 

tativo. Dalla connessione di pensiero procedo alla determinazio- 

ne positiva del rapporto. Ogni giudizio è analiticamente conte- 

nuto in essa, e viene inteso come suo elemento. Nella connessio- 

ne dell’apprendimento oggettivo ogni sua parte si riferisce, per 

il tramite della connessione in cui è inserito, al fatto di essere 

contenuto nella realtà. Questa è infatti la regola suprema a cui 

sottostà ogni giudizio: esso deve essere contenuto nel dato se- 

condo le leggi formali del pensiero e secondo le forme del 

pensiero. Anche giudizi che esprimono qualità o azioni di Zeus 

o di Amleto sono riferiti nella connessione del pensiero a 

un dato. 


Così tra il giudizio e le forme finora illustrate dell’apprendi- 

mento oggettivo sorge un nuovo rapporto, il quale mostra due 

aspetti. Questa duplicità è determinata dal fatto che il giudizio 

da una parte è fondato nel dato, ma dall'altra rende esplicito 

ciò che in questo è contenuto solo implicitamente, ma in forma 

esplicitabile. Nella prima relazione sorge il rapporto di rappre- 

sentazione: il giudizio rappresenta per mezzo di contenuti di 

fatto, racchiusi nel dato, elementi del pensiero che soddisfano 

le esigenze di costanza, chiarezza, distinzione, legame stabile 

con i segni verbali che sono inerenti al sapere. D'altro lato, i 

giudizi realizzano l’intenzione dell’apprendimento oggettivo di 



WILHELM DILTHEY 127 



avvicinarsi dal condizionato, dal particolare e dal mutevole ai 

rapporti fondamentali della realtà. 


Il rapporto di rappresentazione si estende all’intera connes- 

sione del pensiero discorsivo entro l'apprendimento oggettivo, 

in quanto questo si compie mediante il giudicare. Il dato nella 

sua concreta intuitività e il mondo di rappresentazioni che lo 

riproduce sono in ogni forma del pensiero discorsivo rappresen- 

tati da un sistema di relazioni tra elementi stabili del pensiero. 

E a ciò corrisponde, nella direzione inversa, che quando si 

ritorna all’oggetto questo conferma e verifica, nella pienezza 

della sua esistenza intuitiva, il giudizio o il concetto. Proprio 

per le scienze dello spirito è particolarmente importante che 

l’intera freschezza e l’intera forza dell’Er/ebris ritornino poi 

direttamente, o nella direzione dall’intendere all'Erleden. Il rap- 

porto di rappresentazione implica che, in determinati limiti, 

il dato e il pensato discorsivo siano scambiabili. 


Se si sottopone ad analisi la connessione del pensiero discor- 

sivo, si presentano in questa dei modi di relazione, i quali 

ritornano regolarmente prescindendo dal mutamento dei conte- 

nuti del pensiero e sussistono al tempo stesso in ogni luogo 

della connessione del pensiero, nonché in rapporto interno tra 

di loro; tali forme del pensiero sono il giudizio, il concet- 

to e il sillogismo, che si presentano in ogni parte della connes- 

sione del pensiero discorsivo e formano la sua intelaiatura. Ma 

anche le classi di operazioni del pensiero discorsivo, subordina- 

te a queste forme elementari — la comparazione, l'analogia, 

l’induzione, la partizione, la definizione, e infine la connessio- 

ne fondante — sono indipendenti dalla delimitazione dei singo- 

li campi del pensiero, in particolare dalla reciproca delimitazio- 

ne delle scienze della natura e delle scienze dello spirito. Esse 

si distinguono secondo i compiti dell’intera connessione del 

pensiero, che la realtà pone secondo i suoi rapporti generali, 

mentre sono le forme particolari del metodo a esser condiziona- 

te dalle qualità dei singoli campi. 


Alla regolarità di queste forme corrisponde la validità del 

loro lavoro concettuale, e di questa acquistiamo certezza me- 

diante la coscienza dell’evidenza. E le qualità più generali a 

cui è legata la validità di queste diverse forme, indipendente 

dal mutare degli oggetti e costante nel venire e nell’andare 



128 WILHELM DILTHEY 



degli Erlebnisse di pensiero e dei loro soggetti, si esprimono 

nelle leggi del pensiero. Noi non abbiamo bisogno di superare 

il rapporto di rappresentazione, quando passiamo dai giudizi 

di realtà ai giudizi necessari. Un assioma di geometria è neces- 

sario in quanto esso esprime i rapporti fondamentali ovunque 

constatabili con l’analisi dell’intuizione spaziale, e del pari il 

carattere di necessità delle leggi del pensiero è abbastanza spie- 

gato dal fatto che esse sono ovunque contenute analiticamente 

nella connessione del pensiero. 


Un metodo scientifico sorge in quanto le forme e le operazio- 

ne generali del pensiero vengono collegate in un tutto compo- 

sto mediante lo scopo racchiuso nella soluzione di un determi- 

nato compito scientifico. Se si presentano problemi simili a 

questo compito, allora il metodo applicato a un campo limitato 

si rivelerà fecondo anche per un campo più ampio. Spesso un 

metodo, nello spirito del suo scopritore, non è ancora legato 

alla coscienza del carattere logico e della portata che lo carat- 

terizzano: questa coscienza sorge soltanto in seguito. Essendosi il 

concetto di metodo sviluppato per secoli particolarmente nell’u- 

so linguistico dello studioso della natura, anche il procedimen- 

to che tratta una questione di dettaglio, ed è quindi assai più 

complesso, può venir designato come metodo. Quando si apro- 

no differenti vie per la soluzione dello stesso problema, esse 

vengono differenziate come metodi diversi. Dove le forme di 

procedere di uno spirito mostrano qualità comuni, la storia 

delle scienze parla di un metodo di Cuvier! nella paleontolo- 

gia o di un metodo di Niebuhr? nella critica storica. Con la 

dottrina del metodo entriamo nel campo in cui comincia a farsi 

valere il carattere particolare delle scienze dello spirito. 



1. Gcorges-Léopold-Chrétien-Frédéric Dagobert barone di Cuvier (1769-1832), na- 

turalista frapcese, autore del Tableau élfmentaire de l'histoire naturelle (1798), delle 

Legons d’anatomie comparée (1800), delle Recherches sur les ossements fossiles des qua- 

drupèdes (1812), de Le règne animal distribué après son organisation (1817) e di nume- 

rose altre opere, si dedicò a studi di zoologia, con particolare riguardo all'analisi della 

struttura dci molluschi e dei pesci, e di paleontologia. Le sue indagini hanno aperto la 

strada all'esplorazione degli animali fossili. 


2. Barthold Georg Niebuhr (1776-1831), storico tedesco, autore di una fondamen- 

tale Rémische Geschichte (1811-32), impostò la propria analisi del mondo antico sulla 

base di una critica sistematica delle fonti; il suo « scetticismo » mise capo a una radi- 

cale svalutazione delle testimonianze antiche sulla storia romana. 



WILHELM DILTHEY 129 



Tutti gli Erlebnisse dell’apprendimento oggettivo sono, en- 

tro la sua connessione teleologica, diretti alla penetrazione di 

ciò che è, vale a dire della realtà. Il sapere forma una graduali- 

tà di operazioni: il dato è spiegato nelle operazioni elementari 

del pensiero, riprodotto nelle rappresentazioni, tradotto nel pen- 

siero discorsivo e così rappresentato in differenti modi. Perciò 

la spiegazione del dato mediante le operazioni elementari del 

pensiero, la riproduzione nella rappresentazione rammemorata 

e la traduzione nel pensiero discorsivo possono venir racchiuse 

entro il più ampio concetto di rappresentazione. Tempo e ricor- 

do liberano l'apprendimento della dipendenza dal dato e com- 

piono una scelta di ciò che è significativo per l’apprendimen- 

to; il particolare viene sottoposto agli scopi dell’apprendi- 

mento della realtà mediante la relazione col tutto e mediante 

la subordinazione sotto il generale; la mutabilità del dato intui- 

tivo viene elevata a rappresentazione universalmente valida in 

una relazione concettuale; mediante l’astrazione e il procedi- 

mento analitico il concreto viene inserito in serie uniformi che 

consentono asserzioni di regolarità, oppure penetrato nella sua 

articolazione attraverso un’opera di suddivisione. L’apprendi- 

mento tende così a esaurire sempre di più ciò che ci è accessibile 

nel dato. 



2. In due direzioni sono logicamente collegati gli Er/ebnisse 

che appartengono all’apprendimento oggettivo: nell’una gli Er- 

lebnisse sono in rapporto tra loro in quanto, come gradi nell’ap- 

prendimento del medesimo oggetto, cercano di esaurire me- 

diante esso ciò che è contenuto nell’Erlebez o nell’intuire, e 

nell'altra l'apprendimento collega un elemento di fatto con l’al- 

tro mediante le relazioni reciproche che vengono colte. Là si 

ha un approfondimento nell’oggetto particolare e qui un’esten- 

sione universale: approfondimento ed estensione che sono in 

dipendenza reciproca. 


Intuizione, ricordo, rappresentazione totale, denominazione, 

giudizio, subordinazione del particolare all’universale, collega- 

mento delle parti in un tutto — queste sono forme dell’appren- 

dimento: senza che l’oggetto debba mutare, cambia il modo e 

la forma di coscienza in cui esso esiste per noi, quando si 

passa dall'intuizione al ricordo o al giudizio. La direzione ver- 



9. STORICISMO TEDESCO, 



130 WILHELM DILTHEY 



so lo stesso oggetto, che è loro comune, le collega in una 

connessione teleologica, in cui hanno posto solo quegli Erlebnis- 

se che compiono qualche operazione nella tendenza a cogliere 

questo determinato elemento oggettivo. Questo carattere teleolo- 

gico della connessione, che qui si presenta, condiziona il passag- 

gio da un elemento all’altro entro di essa. E finché l’Erlebnis 

non è pienamente esaurito, o l’oggettività data parzialmente e 

unilateralmente nelle intuizioni particolari non è ancora perve- 

nuta a pieno apprendimento e a compiuta espressione, vi è 

sempre un clemento di insoddisfazione, e questo esige che si 

proceda oltre. Le percezioni che riguardano lo stesso oggetto 

sono tra loro legate in una connessione teleologica, in quanto 

procedono riferendosi al medesimo oggetto. Così una particola- 

re osservazione sensibile ne richiede sempre più altre, che ven- 

gono a completare l'apprendimento dell’oggetto; e in questo 

processo di completamento si esige già il ricordo, come ulterio- 

re forma di apprendimento. Esso sta, entro la connessione del- 

l'apprendimento oggettivo, in un saldo rapporto con il fonda- 

mento intuitivo, in maniera che ha la funzione di riprodurre, 

ricordare e mantenere così utilizzabile questo fondamento per 

l'apprendimento oggettivo. Qui appare assai chiaramente la di- 

stinzione tra l'apprendimento dell’Erlebris della memoria che 

studia il processo che sta a base di esso nelle sue uniformità, e 

la nostra considerazione della memoria secondo la sua funzione 

nella connessione dell’apprendimento, per cui esso riproduce 

ciò che è immediatamente vissuto o appreso. La memoria può 

accogliere in sé, sotto un’impressione o sotto l'influenza 

di uno stato d'animo, molteplici contenuti distinti dal loro fon- 

damento, e proprio qui hanno la loro origine le immagini 

estetiche della fantasia: ma la memoria presente in tale connes- 

sione teleologica, basata sulla penetrazione dell’oggetto, possie- 

de la tendenza verso l’identità con il contenuto intuitivo o 

vissuto dell’apprendimento oggettivo. E che la memoria abbia 

compiuto la sua funzione nell’apprendimento oggettivo risulta 

dalla possibilità di constatare la sua somiglianza con il fonda- 

mento percettivo dell’apprendimento. In questa tendenza degli 

Erlebnisse conoscitivi verso un oggetto particolare è già presen- 

te il procedere verso qualcosa di sempre nuovo. I mutamenti 

nell’oggetto mostrano la connessione dinamica in cui esso si 



WILHELM DILTHEY 13I 



trova, e, in quanto il contenuto di fatto può venir spiegato 

solo mediante nomi, concetti, giudizi, è richiesto un ulteriore 

passaggio dall’intuizione particolare all’universale. A questa 

tendenza verso la totalità, l’elemento attivo, l’universale, corri- 

sponde il procedere delle relazioni rintracciabili nel singolo og- 

getto a quelle che hanno luogo in più grandi connessioni ogget- 

tive. In tal modo la prima tendenza delle relazioni conduce 

alla seconda. 


Nella prima tendenza erano tra loro collegati quegli Erleb- 

nisse di apprendimento che tendono a cogliere in maniera sem- 

pre più adeguata lo stesso oggetto mediante diverse forme di 

rappresentazione. Nella seconda sono invece collegati gli Er/eb- 

nisse che si estendono a sempre nuovi oggetti e penetrano le 

loro relazioni reciproche, sia nella stessa forma di apprendimen- 

to sia attraverso l’unione di diverse sue forme. Sorgono così 

rapporti complessi, i quali risultano particolarmente chiari nei 

sistemi omogenei, che rappresentano cioè rapporti di spazio, di 

suono o di numero ®. Ogni scienza si riferisce a un’oggettività 

suscettibile di delimitazione, in cui risiede la sua unità, e la 

connessione del campo scientifico dà ai principi che esso rac- 

chiude la loro coerenza reciproca. Il completamento di tutte le 

relazioni contenute in ciò che è immediatamente vissuto o intui- 

to costituirebbe il concetto di mondo: in esso è racchiusa la 

pretesa di esprimere tutto ciò che può venir immediatamente 

vissuto o intuito mediante la connessione delle relazioni di 

fatto in esso racchiuse. Questo concetto di mondo è l’esplicazio- 

ne che è data anzitutto nell'orizzonte spaziale. 


Spiegazione, riproduzione e rappresentazione sono gradi del- 

la relazione col dato, in cui l’apprendimento oggettivo si ap- 

prossima al concetto di mondo. Essi sono gradi, poiché in ognu- 

na di queste posizioni dell’apprendimento oggettivo quella pre- 

cedente costituisce la base di quella successiva. 



a. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, « Sitz- 

ungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften », 

1894, p. 1352 (ora in Gesammelte Schriften, vol. V, p. 132]. 


b. Qui lo sguardo si dirige anche al compito logico di riduzione delle 

forme del pensiero discorsivo a forme di espressione dei rapporti presenti 

nel dato, così come vengono posti in luce dalle operazioni elementari del 

pensiero. Dai fatti contenuti nel campo dell’apprendimento sensibile noi 



132 WILHELM DILTHEY 



Sezione II 

LA STRUTTURA DELLE SCIENZE DELLO SPIRITO 



Allorché questa connessione dell’apprendimento oggettivo 

sottostà alle condizioni contenute nelle scienze dello spirito, 

viene a delinearsi la particolare struttura di tali discipline. 

Sulla base delle forme e delle operazioni generali del pensiero 

si fanno qui valere compiti specifici, che trovano la loro solu- 

zione nell’intreccio di metodi propri. 


Nell’elaborazione di queste forme di procedimento le scien- 

ze dello spirito sono state ovunque influenzate dalle scienze 

della natura; e poiché queste hanno elaborato prima i loro 

metodi, si è avuto in larga misura un adattamento di essi ai 

compiti delle scienze dello spirito. In due punti ciò risulta 

particolarmente evidente: nella biologia sono stati scoperti per 



siamo condotti a considerare l’immanenza dell'ordine entro la materia del- 

la nostra esperienza sensibile, e la distinzione della materia delle impres- 

sioni dalle forme di collegamento si rivela un mero strumento di astra- 

zione. Il principio di identità dice che ogni proposizione vale indipenden- 

temente dal posto mutevole che essa occupa entro la connessione del pen- 

siero e dal mutamento che avviene nei soggetti delle asserzioni; e il prin- 

cipio di contraddizione ha a suo fondamento quello di identità. In questo 

al principio di identità si aggiunge la negazione, che è soltanto il rifiuto 

di un'assunzione che si presenta in noi o al di fuori di noi, e si riferisce 

sempre a un’asserzione già formulata, sia questa contenuta in un atto co- 

sciente del pensiero o in un'altra forma. Il principio di identità esige per 

la proposizione una validità costante; e perciò viene esclusa l'eliminazione 

di tale proposizione. Noi non possiamo al tempo stesso affermarla e ne- 

garla, in quanto viene alla coscienza il rapporto di contraddizione. E 

quando dichiaro falso il giudizio negativo, io rifiuto di eliminare la pro- 

posizione, e ne risulta confermata l’'asserzione affermativa: il principio 

del terzo escluso esprime questo fatto. Così le leggi del pensiero non de- 

signano alcuna condizione aprioristica per il nostro pensiero; e i rapporti 

racchiusi nella comparazione, nella separazione, nell’astrazione, nella re- 

lazione, si ritrovano poi nelle operazioni del pensiero discorsivo e nelle 

categorie formali, di cui si parlerà poi. Non è necessario ritenere che il 

giudizio presupponga il subentrare del rapporto categoriale tra cosa e 

qualità, poiché questo può venir inteso in base alla relazione tra l'ogget- 

to e ciò che da esso è predicato. 



WILHELM DILTHEY 133 



la prima volta i metodi comparativi poi sempre maggiormente 

applicati alle scienze sistematiche dello spirito, e i metodi speri- 

mentali elaborati dall’astronomia e dalla fisiologia sono stati 

trasferiti alla psicologia, all'estetica e alla pedagogia. Anche 

oggi, nello sforzo di soluzione di compiti particolari, lo studio- 

so di psicologia di pedagogia, di linguistica o di estetica si 

chiederà spesso se i mezzi e i metodi scoperti nelle scienze 

della natura per la soluzione di problemi analoghi possano 

venir sfruttati nel proprio campo. 


Ma, nonostante tali punti particolari di contatto, la connes- 

sione delle forme di procedimento delle scienze dello spirito è, 

fin dal suo inizio, diversa dalla connessione delle scienze della 

natura. 



I. LA VITA E LE SCIENZE DELLO SPIRITO 



Qui vengono considerati soltanto i principi generali necessa- 

ri per la penetrazione della connessione delle scienze dello spiri- 

to, mentre la trattazione dei metodi appartiene allo studio della 

costruzione delle scienze dello spirito. Due spiegazioni termino- 

logiche devono essere qui anticipate: per unità della vita psichi- 

ca intendo gli elementi del mondo storico-sociale, e con struttu- 

ra psichica designo la connessione in cui, nelle unità della 

Vita psichica, sono tra loro legate diverse operazioni. 



1. La vita. 



Le scienze dello spirito poggiano sul rapporto di Erledn:s, 

espressione e intendere. Così il loro sviluppo dipende sia dal- 

l’approfondimento degli Erlebnisse sia dalla crescente tendenza 

all'esaurimento del loro contenuto, ed è nel medesimo tempo 

condizionato dall’estensione dell’intendere all'intera oggettiva 

zione dello spirito e dalla capacità di cogliere in modo sempre 

più compiuto e metodico il contenuto spirituale delle diverse 

manifestazioni della vita. 


Il complesso di ciò che ci si rivela nell’Erleden e nell’inten- 

dere è la vita come connessione che comprende il genere uma- 

no. E quando per la prima volta ci troviamo di fronte a que- 



134 WILHELM DILTHEY 



sto grande fatto, che per noi è il punto di partenza non soltan- 

to delle scienze dello spirito ma anche della filosofia, occorre 

andar oltre la sua elaborazione scientifica e penetrare il fatto 

stesso nella sua costituzione grezza. 


Infatti, dove la vita ci si presenta come uno stato di fatto 

proprio del mondo umano, noi incontriamo le sue determinazio- 

ni nelle varie unità della vita; incontriamo rapporti vitali, pre- 

sa di posizione, l’atteggiamento, la creazione effettuata sulle 

cose e sugli uomini e la sofferenza che ne deriva. Nello sfondo 

permanente da cui emergono le operazioni differenziate, non 

c'è nulla che non contenga un rapporto vitale dell'io. Come 

tutto ha qui una posizione di fronte ad esso, altrettanto viene 

però a mutare la situazione dell’io secondo il rapporto che le 

cose e gli uomini hanno con esso: non esistono nessun uomo e 

nessuna cosa che siano soltanto oggetti per me, e che non 

racchiudano una pressione o un vantaggio, il fine di una ten- 

denza o un’obbligazione del volere, un'importanza, una prete- 

sa di esser preso in considerazione, una vicinanza interna o 

una resistenza, una distanza e una estraneità. Il rapporto vi- 

tale, sia esso limitato a un dato momento o duraturo, fa sì che 

tali uomini e tali oggetti mi rechino felicità, estendano la mia 

esistenza, accrescano la mia forza, oppure vengano a limitare 

in questo rapporto lo spazio della mia esistenza, a esercitare 

una pressione su di me, a diminuire la mia forza. E ai predica- 

ti che le cose acquistano soltanto nel rapporto vitale con me 

corrisponde il mutare degli stati in me stesso che ne scaturisce. 

Su questo sfondo della vita emergono poi l'apprendimento og- 

gettivo, la valutazione, la posizione di scopi, come tipi di atteg- 

giamento che hanno luogo in innumerevoli sfumature che pas- 

sano l’una nell'altra: essi sono legati nel corso della vita in 

interne connessioni, le quali comprendono e determinano ogni 

occupazione e ogni sviluppo. 


Se illustriamo ciò con il modo in cui il poeta lirico reca a 

espressione l’Erlebnis, si vede che egli muove da una situazio- 

ne e raffigura uomini e cose nel rapporto vitale con un io 

ideale, in cui la sua esistenza e entro di essa il corso della sua 

esperienza vengono accentuate nella fantasia; questo rapporto 

di vita determina ciò che il vero lirico vede ed esprime degli 

uomini e delle cose e di se stesso. Anche il poeta epico può dire 



WILHELM DILTHEY 135 



soltanto ciò che emerge in un rapporto di vita da lui raffigura- 

to. Oppure, quando lo storico descrive situazioni e persone 

storiche, egli desterà un'impressione della vita reale, tanto più 

forte quanto meglio raffigura tali rapporti di vita. Egli deve 

porre in luce le qualità degli uomini e delle cose che scaturisco- 

no e operano in tali rapporti di vita — e, si potrebbe dire, dare 

alle persone, alle cose, ai processi, la forma e il colore in cui 

essi hanno dato forma, dal punto di vista del rapporto di vita, 

a percezioni e a immagini di memoria nella vita stessa. 



2. L'esperienza della vita. 



L'apprendimento oggettivo scorre nel tempo, e così in esso 

sono già contenute immagini di memoria. E in quanto ciò che 

è immediatamente vissuto cresce continuamente e sempre più 

svanisce con il progredire del tempo, sorge il ricordo del corso 

della propria vita. Parimenti, sulla base della comprensione di 

altre persone, si formano i ricordi dei loro stati e le immagini 

esistenziali delle diverse situazioni; e certo in tutti questi ricor- 

di la situazione è sempre legata con il suo ambiente di contenu- 

ti di fatto, di avvenimenti e di persone. Dalla generalizzazione 

di ciò che in tal modo si presenta insieme sorge l’esperienza di 

vita dell’individuo. Essa sorge in forme di procedimento equiva- 

lenti a quelle dell’induzione. Il numero dei casi, in base ai 

quali questa induzione decide, cresce di continuo nel corso 

della vita; e le generalizzazioni che si formano vengono sem- 

pre corrette. La sicurezza che spetta all'esperienza personale 

della vita è distinta dalla validità universale di tipo scientifico: 

infatti queste generalizzazioni non sono compiute metodica- 

mente e non possono venir racchiuse in formule rigorose. 


Il punto di vista individuale, inerente all’esperienza persona- 

le della vita, si corregge e si amplia nell’esperienza generale 

della vita: con questa io intendo i princìpi che si formano in 

qualsiasi ambito di persone in rapporto reciproco e che sono 

comuni ad esse. Si tratta di asserzioni sul corso della vita, di 

giudizi di valore, di regole della condotta di vita, di determina- 

zioni di scopi e di beni: il loro contrassegno sta nel fatto che 

esse sono creazioni della vita collettiva, le quali riguardano 

tanto la vita dell’uomo singolo quanto la vita delle comunità. 



136 WILHELM DILTHEY 



Sotto il primo aspetto, in quanto costume, abitudine e, in riferi- 

mento alla persona individuale, come opinione pubblica, esse 

esercitano, per il prevalere del numero e per il sopravvivere 

della comunità alla persona singola, un potere su di questa e 

sulla sua esperienza o forza di vita, che sovrasta di solito la 

volontà di vita dell’individuo. La sicurezza di questa esperienza 

generale della vita rispetto a quella personale è maggiore, in 

quanto i punti di vista individuali pervengono in essa a un 

equilibrio e cresce il numero dei casi che stanno a base dell’in- 

duzione. D'altra parte in questa esperienza generale si rivela, 

in modo ancor più forte che in quella individuale, l’incontrolla- 

bilità dell'origine del suo sapere dalla vita. 



3. La distinzione delle forme di atteggiamento nella vita e le 

classi di asserzioni nell'esperienza della vita. 



Nell’esperienza della vita si presentano ora diverse classi di 

asserzioni, le quali si rifanno alla distinzione di atteggiamento 

nella vita. Infatti la vita non è solo la fonte del sapere, conside- 

rata nel suo contenuto d'esperienza; le tipiche forme di atteg- 

giamento dell’uomo condizionano pure le diverse classi di asser- 

zioni. Qui si deve soltanto constatare per adesso il fatto di 

questa relazione tra la diversità di atteggiamento della vita e 

le asserzioni dell’esperienza della vita. 


Nei singoli rapporti di fatto della vita, che si presentano tra 

l'io da un lato e le cose e gli uomini dall’altro, sorgono i 

diversi stati della vita: situazioni differenziate dell’io, sentimen- 

ti di pressione o di accrescimento dell’esistenza, desiderio di un 

oggetto, timore o speranza. E come cose o uomini esercitanti 

una pretesa sull'io assumono uno spazio nella sua esistenza, 

come sono portatori di vantaggi o di impedimenti, come sono 

oggetti di desiderio, di aspirazione, di distacco, così da questi 

rapporti vitali derivano le determinazioni a essi relative, che si 

aggiungono all’apprendimento oggettivo di uomini e di cose. 

Tutte queste determinazioni dell’io e degli oggetti o delle perso- 

ne, quali scaturiscono dai rapporti della vita, vengono elevate a 

riflessione ed espresse nel linguaggio: così nascono in esso di- 

stinzioni come asserzioni di realtà, desiderio, esclamazione, im- 



WILHELM DILTHEY 137 



erativo. Se si prendono ora in esame le espressioni che si 

riferiscono alle forme di atteggiamento, cioè alle varie prese di 

posizione dell'io di fronte agli uomini e alle cose, risulta che 

esse rientrano in certe classi supreme. Esse constatano una real- 

tà, valutano, designano una posizione di scopo, formulano una 

regola, esprimono il significato di un fatto in base alla più 

ampia connessione in cui esso è inserito. Inoltre vengono in 

luce Je relazioni tra queste forme di asserzione contenute nell’e- 

sperienza della vita: gli atti di penetrazione della realtà forma- 

no uno strato sul quale poggiano le valutazioni, e questo strato 

è a sua volta la base per le posizioni di scopo. 


Le forme di atteggiamento contenute nei rapporti vitali e i 

loro prodotti vengono oggettivati nelle asserzioni che constata- 

no tali forme in quanto stati di fatto; analogamente vengono 

rese indipendenti le predicazioni di uomini e di cose, che scatu- 

riscono dai rapporti vitali. Questi stati di fatto sono nell’espe- 

rienza della vita elevati a sapere universale mediante un proce- 

dimento equivalente all’induzione: così sorgono le molteplici 

proposizioni, poste in luce nella saggezza generalizzante del 

popolo e nella letteratura sotto forma di proverbi, di regole di 

vita, di riflessioni sulle passioni, sui caratteri e sui valori della 

vita. Anche in queste ritornano le differenze che si sono osserva- 

te nell’espressione delle nostre prese di posizione o delle nostre 

forme di atteggiamento. 


Ancora nuove distinzioni si fanno valere nelle asserzioni 

dell’esperienza della vita. Già nella vita medesima la conoscen- 

za della realtà, la valutazione, l’elaborazione di regole, la posi- 

zione di scopi si sviluppano in differenti gradi, di cui ognuno è 

il presupposto del successivo. Essi sono stati indicati per l’ap- 

prendimento oggettivo; ma sussistono del pari nelle altre forme 

di atteggiamento. Così la stima dei valori dinamici di cose o di 

uomini presuppone che siano state constatate le possibilità di 

recar utile o danno racchiuse negli oggetti, e una decisione 

diventa possibile solo mediante la ponderazione del rapporto 

delle rappresentazioni di fine con la realtà e i mezzi, in essa 

dati, di realizzare tali rappresentazioni. 



138 WILHELM DILTHEY 



4. Le unità ideali come sostegni della vita e dell'esperienza 

della vita. 



Un’infinita ricchezza di vita si sviluppa nell’esistenza indivi 

duale delle varie persone, attraverso i loro rapporti con l’am- 

biente, gli altri uomini e le cose. Ma ogni singolo individuo è 

nel medesimo tempo un punto di incrocio di connessioni che 

pervadono gli individui e sussistono in essi, ma sovrastano la 

loro vita e posseggono un'esistenza autonoma e un proprio 

sviluppo per il contenuto, il valore, lo scopo che vi si realizza. 

Sono cioè soggetti di tipo ideale: a essi è intrinseco qualche 

sapere intorno alla realtà; in essi si sviluppano punti di vista 

di valutazione; in essi si realizzano scopi; per cui acquistano e 

mantengono un significato nella connessione del mondo spiri- 

tuale. 


Ciò avviene già in alcuni sistemi di cultura nei quali non 

c'è un’organizzazione che racchiuda i suoi elementi, come in 

generale nell'arte e nella filosofia. Altrove sorgono però unioni 

organizzate. Così la vita economica crea le sue associazioni, e 

nella scienza nascono centri per la realizzazione dei suoi compi- 

ti, e le religioni dànno vita alle organizzazioni più salde tra 

tutti i sistemi di cultura. Nella famiglia, nelle varie forme 

intermedie tra questa e lo stato, nello stato medesimo si trova 

poi la suprema elaborazione di un’unitaria posizione di scopi 

entro una comunità. 


Ogni unità organizzata di uno stato sviluppa una conoscen- 

za di se stesso e delle regole, a cui è legata la sua sussistenza, 

così come della sua situazione di fronte al tutto. Essa gode dei 

valori sviluppatisi nel suo grembo; essa attua gli scopi che 

riposano sul suo essere e che servono alla conservazione e alla 

promozione della sua esistenza. Essa stessa è un bene dell’uma- 

nità, realizza beni e acquista un significato specifico entro la 

connessione dell'umanità. 


Arriva ora il punto in cui si presentano al nostro sguardo la 

società e la storia. Sarebbe però erroneo voler limitare la storia 

al cooperare degli uomini in vista di scopi comuni. L'uomo 

singolo, nella sua esistenza individuale che poggia su se stessa, 

è un essere storico. Egli è determinato dalla sua posizione nella 

linea del tempo, dal suo luogo nello spazio, dalla sua situazio- 



WILHELM DILTHEY 139 



ne nell’azione reciproca dei sistemi di cultura e delle comuni- 

tà. Lo storico deve quindi intendere l’intera vita degli indivi- 

dui com’essa si manifesta in un determinato tempo e in un 

determinato luogo. Proprio l’intera connessione che va dagli 

individui, in quanto orientati verso lo sviluppo della propria 

esistenza, ai sistemi di cultura e alle comunità, e infine all’uma- 

nità, costituisce la natura della società e della storia. I soggetti 

logici, a cui ci si riferisce nella storia, sono tanto gli individui 

particolari quanto le comunità e le connessioni. 



5. Lo scaturire delle scienze dello spirito dalla vita degli indivi- 

dui e delle comunità. 



La vita, l’esperienza della vita e le scienze dello spirito 

stanno dunque in una costante connessione interna e in un 

costante scambio reciproco. Non un procedimento concettuale 

costituisce il fondamento delle scienze dello spirito, ma la con- 

sapevolezza di uno stato psichico nella sua totalità e il suo 

ritrovamento nel rivivere. La vita coglie qui la vita, e la forza 

con cui vengono compiute le due operazioni elementari delle 

scienze dello spirito è la condizione preliminare della loro com- 

piutezza in ogni parte di esse. 


Così anche in questo punto si nota una differenza decisiva 

tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. In 

quelle la distinzione del nostro rapporto con il mondo esterno 

avviene sulla base del pensiero naturalistico, le cui operazioni 

produttive hanno un riferimento esterno, mentre in queste si 

mantiene una connessione tra vita e scienza, per cui il lavoro 

della vita nell’elaborazione del pensiero costituisce la base per 

la creazione scientifica. L’approfondimento in se stesso pervie- 

ne nella vita, sotto certe circostanze, a una perfezione a cui 

neppure Carlyle? è pervenuto, e la comprensione degli altri 

viene qui condotta a un livello di virtuosismo che neppur Ran- 



3. Thomas Carlyle (1795-1881), storico e filosofo romantico inglese, autore del Sar- 

tor Resartus (1833-34), della History of the French Revolution (1838), di On Heroes, 

Hero-Worship, and the Heroic in History (1841) c di varie altre opere, contribuì in mi- 

sura rilevante all’introduzione dell'idealismo tedesco, in particolare del pensiero di 

Schelling, nella cultura inglese. La sua concezione della storia mette in risalto l’impor- 

tanza decisiva degli « eroi ». 



140 WILHELM DILTHEY 



ke' ha raggiunto. Da una parte le grandi nature religiose, 

come Agostino e Pascal, sono gli eterni modelli per l’esperien- 

za che si nutre del proprio Erlebnis, e dall’altra, nella compren- 

sione delle altre persone, la corte e la politica educano a un'arte 

che guarda al di là di ogni apparenza; un uomo di azione 

come Bismarck, al quale sono sempre presenti per natura i 

suoi fini in ogni lettera che scrive e in ogni colloquio, non può 

venir eguagliato da nessun interprete di atti politici e da nes- 

sun critico di narrazioni storiche per ciò che riguarda l’arte di 

leggere le intenzioni che stanno al di là dell’espressione. Tra la 

penetrazione di un dramma da parte di un ascoltatore di forte 

sensibilità poetica e la più eccellente analisi di storia letteraria 

non c’è, in parecchi casi, alcuna distanza. E anche l’elaborazio- 

ne concettuale è continuamente determinata, nelle scienze stori- 

co-sociali, dalla vita medesima: mi riferisco alla connessione 

che conduce continuamente dalla vita, dall’elaborazione concet- 

tuale intorno al destino, ai caratteri, alle passioni, ai valori e 

agli scopi dell’esistenza, fino alla storia come disciplina scientifi- 

ca. Nell’epoca in cui, in Francia, l’azione politica era fondata 

più sulla conoscenza degli uomini e delle personalità eminenti 

che su uno studio scientifico del diritto, dell'economia e dello 

stato, e la posizione nella vita di corte poggiava su tale arte, 

anche la forma letteraria delle memorie e degli scritti sui carat- 

teri e sulle passioni è pervenuta a un’altezza non più raggiunta 

in seguito, ed è stata coltivata da persone poco influenzate 

dallo studio scientifico della psicologia e della storia. Una con- 

nessione interna unisce qui l'osservazione della società illu- 

stre, i letterati e i poeti che da essa imparano, i filosofi sistema- 

tici o gli storici scientifici che si formano sulla base della poe- 

sia e della letteratura. Si è visto, agli inizi della scienza poli- 

tica in Grecia, che lo sviluppo dei concetti relativi alle costitu- 

zioni e alle funzioni politiche ha preso le mosse dallo stesso 



4. Leopold von Ranke (1795-1886), storico tedesco, autore della Geschichte der 

romanischen und germanischen Vélker von 1494 bis 1535 (1824) seguita dalla celebre 

dissertazione Zur Kritik neuerer Geschichtsschreiber, di Die ròmischen Pùpste, ihre 

Kirche und ihr Staat im 16. und 17. Jahrhundert (1834-36), della Deutsche Geschich- 

te im Zeitalter der Reformation (1839-47) e di numerose altre opere, è la principale 

figura della scuola storica tedesca. La sua attività storiografica culmina nelle conferenze 

dedicate alle Epochen der neueren Geschichte (1854) e nella Weltgeschichte (1881-1885), 

rimasta incompleta. 



WILHELM DILTHEY I4I 



sviluppo della vita statale, e che muove creazioni in questa 

hanno poi condotto a nuove teorie. Questo rapporto risulta 

quanto mai evidente nei più antichi stadi della scienza giuridi- 

ca tanto romana quanto germanica. 



6. La connessione delle scienze dello spirito con la vita e il 

loro compito di validità universale. 



Così il sorgere dalla vita e la perdurante connessione con 

essa costituisce il primo tratto fondamentale della struttura del- 

le scienze dello spirito; esse poggiano infatti sull’Er/eden, sul- 

l’intendere e sull’esperienza della vita. Questo rapporto imme- 

diato, in cui stanno tra loro la vita e le scienze dello spirito, 

conduce in tali discipline a un’antitesi tra le tendenze della 

vita e il loro fine scientifico. Dal momento che gli storici, gli 

economisti, i teorici del diritto pubblico, gli studiosi della reli- 

gione sono inseriti nella vita, vogliono anche influire su di essa. 

Essi sottopongono al loro giudizio persone storiche, movimenti 

di massa, tendenze, ma tale giudizio è condizionato dalla loro 

individualità, dalla nazione a cui appartengono, dal tempo in 

cui vivono. Anche quando credono di procedere senza presup- 

posti, essi sono determinati da questo loro orizzonte: ogni 

analisi intrapresa sui concetti di una generazione passata mo- 

stra che in questi sono contenuti elementi, i quali derivano dai 

presupposti dell’epoca. Però nel medesimo tempo in ogni scien- 

za come tale è contenuta l'esigenza della validità universa- 

le. Se debbono esserci scienze dello spirito nel significato ristret- 

to del termine, esse debbono porsi questo fine in maniera sem- 

pre più cosciente e più critica. 


Sull’antitesi di queste due tendenze si basa gran parte dei 

contrasti scientifici che si sono manifestati, negli ultimi tempi, 

nella logica delle scienze dello spirito. Tale antitesi si esprime 

nella maniera più forte entro la scienza storica, che è diventata 

il punto centrale in questa discussione. 


La soluzione di questa antitesi si compie soltanto nella co- 

struzione delle scienze dello spirito; gli ulteriori principi gene- 

rali sulla connessione delle scienze dello spirito già contengono 

il principio di tale soluzione. Il risultato finora da noi consegui- 

to permane. La vita e l’esperienza della vita sono le fonti 



142 WILHELM DILTHEY 



sempre nuove della comprensione del mondo storico-sociale; la 

comprensione procede dalla vita verso sempre maggiori profon- 

dità; e soltanto nella reazione sulla vita e sulla società le scien- 

ze dello spirito pervengono al loro più alto significato, che è in 

continuo accrescimento. Ma la strada verso questa azione deve 

passare attraverso l’oggettività della conoscenza scientifica. La 

coscienza di ciò era già operante nella grande epoca creatrice 

delle scienze dello spirito. In seguito a vari disturbi che si 

possono riscontrare nel corso del nostro sviluppo nazionale, ma 

anche nell’applicazione di un ideale culturale unilaterale dopo 

Burckhardt®, noi cerchiamo ora di elaborare questa oggettività 

delle scienze dello spirito in maniera sempre più priva di pre- 

supposti, più critica, più rigorosa. Io trovo il principio per la 

soluzione dell’antitesi che si presenta in queste scienze nella 

comprensione del mondo storico come una connessione dinami- 

ca, la quale è centrata in se stessa, in quanto ogni connessione 

dinamica particolare in essa contenuta ha in sé, in virtù della 

posizione e della realizzazione di valori, il proprio centro, ma 

tutte sono strutturalmente unite in una totalità nella quale il 

senso della connessione del mondo storico-sociale deriva dalla 

significatività delle singole parti; cosicché ogni giudizio di valo- 

re e ogni posizione di scopi diretta verso il futuro, devono 

essere fondati esclusivamente su questa connessione strutturale. 

A questo principio ideale ci avviciniamo ora nei seguenti princì- 

pi generali sulla connessione delle scienze dello spirito. 



II. LE FORME DI PROCEDIMENTO IN CUI È DATO IL MONDO SPIRI- 

TUALE 



La connessione delle scienze dello spirito è determinata dal 

suo fondamento nell’Erlebden e nell’intendere, e tanto nell’uno 



5. Jacob Burckhardt (1818-1897), storico svizzero, autore di Die Zeit Constantins 

des Grossen (1853), di Die Cultur der Renaissance in Italien (1860) e di una postuma 

Griechische Kulturgeschichte (1898-1902), nonché di varie altre opere, è uno dei mag- 

giori esponenti della storiografia post-romantica; il suo libro sulla civiltà del Rinasci- 

mento ha rinnovato l'interpretazione di questo periodo storico. Le sue idee sulla sto- 

ria sono esposte nel corso di lezioni Uber das Studium der Geschichte, pubblicato postu- 

mo col titolo Weltgeschichiliche Betrachtungen (1905). 



WILHELM DILTHEY 143 



quanto nell’altro si fanno subito valere importanti differenze 

rispetto alle scienze della natura, le quali dànno un carattere 

proprio alla costruzione di tali discipline. 



1. La linca delle rappresentazioni che procede dall’Erlebnis. 



Ogni immagine ottica è diversa da un’altra, che si riferisca 

al medesimo oggetto, per il punto di vista e le condizioni 

dell’apprendimento: queste immagini sono legate in un siste- 

ma di relazioni interne in virtù dei vari modi di apprendimen- 

to oggettivo. La rappresentazione totale, che così sorge dalla 

serie delle immagini secondo i rapporti fondamentali racchiusi 

nel contenuto di fatto, è qualcosa di rappresentato e di pensato 

in aggiunta. Gli Erlebrisse sono invece legati tra loro in un’uni- 

tà di vita entro il corso temporale; e ognuno di essi ha così il 

suo posto in un corso i cui elementi sono uniti reciprocamente 

nella memoria. Non parlo qui ancora del problema della realtà 

di questi Er/ebrisse, e tanto meno delle difficoltà inerenti all’ap- 

prendimento di un Er/ebnis: basta che il modo in cui l’Erleb- 

nis esiste per me sia del tutto diverso dal modo in cui stanno 

davanti a me le immagini. La coscienza di un Erlebnis e della 

sua qualità, il suo esistere-per-me e ciò che in esso esiste per 

me, sono la stessa cosa: l’Er/ebrnis non si contrappone a chi lo 

apprende come un oggetto, ma la sua esistenza per me non è 

distinta da ciò che in esso esiste per me. Non vi sono diverse 

posizioni spaziali da cui possa venir visto ciò che in esso esi- 

ste; e differenti punti di vista, da cui esso può venir appreso, 

possono sorgere soltanto in seguito, mediante la riflessione, e 

non incidono sul suo carattere di Erlebris. Esso è sottratto alla 

relatività di ciò che è dato sensibilmente, per cui le immagini si 

riferiscono all'elemento oggettivo soltanto nella relazione con il 

soggetto conoscente, con la sua posizione nello spazio e con ciò 

che sta in mezzo tra lui e gli oggetti. Dall’Erlebris una linea 

diretta di rappresentazioni procede fino all’ordine dei concetti 

in cui esso viene appreso pensando. Esso viene anzitutto spiega- 

to mediante le operazioni elementari del pensiero; e qui trova- 

no il loro significato specifico i ricordi, in cui esso viene poi 

appreso. E che cosa accade quando l’Erlebnis diviene oggetto 

della mia riflessione? Io sto sveglio di notte, mi preoccupo 



144 WILHELM DILTHEY 



della possibilità di terminare nella mia vecchiaia i lavori inizia- 

ti, rifletto su ciò che vi è da fare. In questo Erlebris c'è una 

connessione strutturale di coscienza: l’apprendimento oggettivo 

costituisce il suo fondamento, su questo poggia una presa di 

posizione come preoccupazione e come sofferenza provocata dal- 

l'elemento soggettivamente appreso, e come tendenza a andare 

oltre di esso. E tutto ciò esiste per me in questa sua connes- 

sione strutturale. Io reco a coscienza distinta un certo stato, 

pongo in luce ciò che in esso è strutturalmente collegato, lo 

isolo: ma tutto ciò che vengo in tal modo a trarne fuori è 

contenuto nell’Erlebris stesso e viene in tal modo solo spie- 

gato. Il mio apprendimento dell’Erlebris stesso viene però svi- 

luppato, sulla base dei momenti in esso contenuti, in Er/ebrisse 

che, sebbene separati da un lungo spazio di tempo, sono legati 

strutturalmente nel corso della vita con tali momenti: io ho 

coscienza dei miei lavori in virtù di un esame precedente, e con 

questo stanno in relazione, in un passato ancor più lontano, i 

processi da cui sono sorti tali lavori. 


Un altro momento si dirige verso il futuro; ciò che ora 

sussiste richiederà ancora un lavoro incalcolabile da parte mia; 

io ne sono preoccupato e mi oriento internamente a tale opera- 

zione. Tutto questo s, di e a, tutte queste relazioni di ciò 

che è immediatamente vissuto con ciò che è ricordato e anche 

con il futuro, mi spinge — indietro e avanti. Essere trascinato 

in questa serie poggia sull’esigenza di sempre nuovi elementi, 

richiesti, dall’Erleden; a ciò può cooperare pure un interesse 

che deriva dalla forza emotiva di questo. È un essere trascina- 

to, non una volizione, tanto meno quell’astratta volontà di 

sapere a cui si è fatto ricorso dopo la dialettica di Schleierma- 

cher. Nella serie, che in tal modo sorge, tanto il passato quanto 

il futuro o il possibile sono trascendenti rispetto al momento 

riempito dall'Erlebnis: ma entrambi, il passato e il futuro, 

sono legati all’Er/ebris in una serie che si articola mediante tali 

relazioni in una totalità. Ogni passato è legato strutturalmente 

come riproduzione a un Er/ebnis trascorso, in quanto il suo 

ricordo implica un riconoscimento. Anche il possibile da venire 

è legato a tale serie mediante l’ambito di possibilità da essa 

determinate. Così in questo processo sorge l’intuizione della 

connessione psichica nel tempo, la quale costituisce il corso 



WILHELM DILTHEY 145 



della vita, in cui ogni singolo Erlebnis è legato a una totalità. 

E tale connessione della vita non è una somma o un complesso 

di momenti successivi, ma un’unità costituita da relazioni che 

uniscono tutte le parti. Muovendo dal presente noi percorriamo 

indietro una serie di ricordi fin dove il nostro piccolo, debole 

e informe io si perde nel crepuscolo, e ci spingiamo innanzi, 

da questo presente, verso possibilità in esso racchiuse, che assu- 

mono vaghe ed ampie dimensioni. 


Da ciò deriva un risultato importante per la connessione 

delle scienze dello spirito. Gli elementi, le regolarità, le relazio- 

ni che costituiscono l’intuizione del corso della vita, sono insie- 

me contenuti nel corso della vita; e al sapere relativo al corso 



della vita spetta quindi lo stesso carattere di realtà proprio 

dell’Er/ebnis. 



2. Il rapporto di reciproca dipendenza nell’intendere. 



Se negli Erlebnisse cogliamo la realtà della vita nella molte- 

plicità dei suoi rapporti, quel che ci appare, in questa prospetti- 

va, è sempre soltanto qualcosa di singolare, cioè la nostra pro- 

pria vita di cui siamo coscienti nell’Erleden. Tale sapere resta 

un sapere relativo a qualcosa di irripetibile, e nessun strumento 

logico può superare la limitazione alla singolarità contenuta 

nella forma di esperienza dell’Erleden. Soltanto l’intendere eli- 

mina tale limitazione dell’Erlebnis individuale, come d’altro 

lato conferisce agli Erlebnisse della persona il carattere di espe- 

rienza della vita. Estendendosi a più uomini, a varie creazioni 

spirituali e a varie comunità, esso amplia l’orizzonte della vita 

individuale e apre nelle scienze dello spirito la via che reca, 

attraverso ciò che è comune, al generale. 


L’intendersi reciproco ci assicura del rapporto di comunaz- 

za che sussiste tra gli individui: questi sono infatti tra loro 

legati da una comunanza in cui sono intrecciate appartenenza 

reciproca o connessione, uniformità o affinità. La stessa relazio- 

ne di connessione e di uniformità pervade tutte le cerchie del 

mondo umano. Questa comunanza si esprime nell’identità del- 

la ragione, nella simpatia presente nella vita affettiva, nell’obbli- 

gazione reciproca del dovere e del diritto, accompagnata dalla 

coscienza di ciò che deve essere. 



10. STORICISMO TEDESCO. 



146 WILHELM DILTHEY 



La comunanza delle unità viventi è il punto di partenza per 

tutte le relazioni tra particolare e universale nelle scienze dello 

spirito. L'esperienza fondamentale della comunanza pervade 

l’intero apprendimento del mondo spirituale, collegando la co- 

scienza dell’io unitario e la coscienza dell’uniformità con gli 

altri, l'identità della natura umana e l’individualità. Essa costi- 

tuisce il presupposto dell’intendere. Dall’interpretazione elemen- 

tare, che richiede soltanto Ia conoscenza del significato delle 

parole e delle regolarità con cui esse sono legate in proposizio- 

ni dotate di senso, cioè la comunanza del linguaggio e del 

pensare, l'ambito di ciò che è comune si estende di continuo, 

rendendo possibile il processo di comprensione nella misura in 

cui il suo oggetto è costituito da nessi superiori di manifestazio- 

ni della vita. 


Dall'analisi dell’intendere risulta però un secondo rapporto 

fondamentale, che è determinante per la struttura della connes- 

sione delle scienze dello spirito. Noi abbiamo visto come le 

verità delle scienze dello spirito poggiano sull’Erlede e sull’in- 

tendere: ma l’intendere presuppone d'altra parte l’utilizzazio- 

ne delle verità delle scienze dello spirito. Per illustrare ciò con 

un esempio si prenda il compito di comprendere Bismarck: 

una straordinaria quantità di lettere, di documenti, di narrazio- 

ni e di racconti su di lui costituisce il materiale che si riferisce 

al corso della sua vita. Lo storico deve ampliare il confine di 

questo materiale, per cogliere ciò che ha influito sul grande 

uomo di stato e ciò che egli ha prodotto. Fin quando dura il 

processo dell’intendere, la delimitazione del materiale non è 

ancora conclusa. Già per conoscere uomini, avvenimenti, situa- 

zioni come appartenenti a questa connessione dinamica, egli ha 

bisogno di princìpi generali, i quali stanno anche a base della 

sua comprensione di Bismarck, estendendosi dalle qualità comu- 

ni dell’uomo alle qualità di classi particolari. Lo storico darà a 

Bismarck un posto tra gli uomini d’azione in base alla psicolo- 

gia individuale, seguendo in lui la specifica combinazione dei 

tratti che sono loro comuni. Da un altro punto di vista si 

ritroveranno nella sovranità del suo essere, nell’abitudine a co- 

mandare e a dirigere, nell’inflessibilità del volere, le qualità 

fondamentali del nobile prussiano latifondista. E, in quanto la 

sua lunga vita ha occupato un posto determinato nel corso 



WILHELM DILTHEY 147 



della storia prussiana, ecco di nuovo un altro gruppo di princì- 

pi generali da cui sono determinati i tratti comuni agli uomini 

di questo tempo. L'enorme pressione che si esercitava, secondo 

la situazione dello stato, sulla consapevolezza politica produce- 

va naturalmente le più diverse forme di reazione. La compren- 

sione di queste esige princìpi generali sulla pressione che una 

certa situazione esercita su una totalità politica e sui suoi ele- 

menti, nonché sulle sue ripercussioni. I gradi di sicurezza meto- 

dica nella comprensione dipendono dallo sviluppo delle verità 

generali mediante cui tale rapporto consegue il suo fondamen- 

to. Risulta ora chiaramente che questo grande uomo di azione, 

il quale ha avuto le sue radici completamente nella Prussia c 

nel suo regno, dovrà sentire in modo particolare la pressione 

che si esercita su di essa dall’esterno. Egli dovrà pure valutare 

le questioni interne della costituzione di questo stato principal- 

mente dal punto di vista del potere statale. In quanto poi è il 

punto di incontro di comunità quali lo stato, la religione, 

l'ordine giuridico, e in quanto ha pure, come personalità stori- 

ca, determinato e mosso în modo eminente una di queste comu- 

nità, e nel medesimo tempo opera in esse, egli richiede da 

parte dello storico una conoscenza generale intorno a queste 

comunità. In breve, il suo intendimento giungerà a compimen- 

to solo in virtù della relazione col complesso di tutte le scienze 

dello spirito. Ogni relazione, che deve essere elaborata nella 

rappresentazione di questa personalità storica, acquista la massi- 

ma sicurezza e distinzione solo attraverso la sua determinazio- 

ne mediante i concetti scientifici relativi ai vari campi. E il 

rapporto reciproco di questi campi è fondato infine su una 

intuizione totale del mondo storico. 


Così il nostro esempio ci illustra la duplice relazione insita 

nell’intendere: l’intendere presuppone l’Erleben, e l’Erleb- 

nis si eleva a esperienza della vita solo in quanto l’intendere 

conduce al di fuori della ristrettezza e della soggettività dell’Er- 

leben, nella regione della totalità e dell’universale. Inoltre, la 

comprensione della personalità singola esige per la sua compiu- 

tezza il sapere sistematico, come d'altra parte il sapere sistemati- 

co dipende dalla viva penetrazione della singola unità vitale. 

La conoscenza della natura inorganica si compie in una costru- 



148 WILHELM DILTHEY 



zione scientifica nella quale il grado sottostante è sempre indi- 

pendente da quello che esso fonda: invece nelle scienze dello 

spirito tutto, a partire dal processo dell’intendere, è determi- 

nato dal rapporto di reciproca dipendenza. 


A ciò corrisponde il corso storico di queste discipline. La 

storiografia è in ogni punto condizionata dalla conoscenza delle 

connessioni sistematiche che si intrecciano nel corso storico, e 

la cui profonda investigazione determina il progredire dell’in- 

tendere storico. Tucidide si fondava sul sapere politico sorto 

nella prassi dei liberi stati greci, e sulle dottrine intorno allo 

stato sviluppatesi nel periodo sofistico. Polibio ha riunito in sé 

l'intera saggezza politica dell’aristocrazia romana, che in que- 

sto tempo era al culmine del suo sviluppo sociale e spirituale, 

con lo studio delle opere politiche greche da Platone fino allo 

Stoicismo. L’unione della saggezza politica fiorentina e venezia- 

na, sviluppatasi in una élite assai evoluta e piena di vivaci 

dibattiti politici, con il rinnovamento e la prosecuzione delle 

dottrine antiche ha reso possibile la storiografia di Machiavelli 

e di Guicciardini. La storiografia ecclesiastica di Eusebio”, dei 

sostenitori e degli avversari della Riforma, come Neander” e 

Ritschl*, è piena di concetti sistematici riguardanti il processo 

religioso e il diritto ecclesiastico. E infine la fondazione della 

storiografia moderna nella scuola storica e in Hegel aveva die- 

tro di sé da un lato il legame della scienza giuridica moderna 

con le esperienze dell’età rivoluzionaria e dall’altro l’intera si- 

stematica delle scienze dello spirito sorte da poco. Quando 

Ranke sembra avvicinarsi alle cose con ingenua gioia di narra- 



6. Eusebio di Cesarca (265-339), padre della Chiesa ispirato dal neoplatonismo, au- 

tore del Chronicon, della Historia ecclesiastica, della Praeparatio evangelica, della De- 

monstratio evangelica, del De ecclesiastica theologia e di vari altri scritti, è una delle 

fonti principali per la storia del Cristianesimo primitivo. Scrisse parecchi pampAlets di 

polemica anti-pagana, e prese parte alla controversia tra Ario e Alessandro sull’inter- 

pretazione della trinità. 


7. Johann August Wilhelm Neander (1789-1850), storico della chiesa e teologo te- 

desco, autore di diversi volumi sull’imperatore Giuliano, su Bernardo di Chiaravalle, 

su Giovanni Crisostomo, su Tertulliano, nonché di una Allgemeine Geschichte der 

christlichen Religion und Kirche (1825-45) rimasta incompiuta. 


8. Albrecht Ritschl (1822-1889), teologo protestante tedesco, autore di Die Ent 

stehung der altkatholischen Kirche (1850), di Die christliche Lehre von Rechifertigung 

und Versohnung (1870-74), della Geschichte des Pietismus (1880-86), di Theologie und 

Metaphysik (1881) e di varie altre opere. 



WILHELM DILTHEY 149 



tore, la sua storiografia può venir tuttavia intesa solo se si 

ripercorrono le molteplici fonti di pensiero sistematico, che si 

sono incontrate nella sua formazione. E questa reciproca dipen- 

denza dell’elemento storico e dell’elemento sistematico cresce 

sempre di più avvicinandoci al presente. 


Proprio la critica storica, nei suoi lavori fondamentali, ha 

mostrato la sua dipendenza non solo dallo sviluppo formale dei 

metodi ma anche dalla più profonda penetrazione delle connes- 

sioni sistematiche, dai progressi della grammatica, dallo studio 

della connessione del discorso, quale si è sviluppato dapprima 

nella retorica, e inoltre dalla nuova concezione della poesia — 

come ci appare sempre più chiaramente nel caso dei precursori 

di Wolf° che hanno derivato le loro conclusioni su Omero da 

una nuova poetica — e dalla nuova cultura estetica nel medesi- 

mo F. A. Wolf, dalle considerazioni economiche, giuridiche e 

politiche in Niebuhr, dalla nuova filosofia congeniale con Plato- 

ne in Schleiermacher, e in Baur!° dalla comprensione del pro- 

cesso in cui si sono formati i dogmi, come l’avevano sviluppata 

Schleiermacher e Hegel. 


E, viceversa, il progresso nelle scienze sistematiche dello spi- 

rito è stato sempre condizionato dal movimento dell’Er/ebez 

verso nuove profondità, dall’allargarsi dell’intendere in un mag- 

giore ambito di manifestazioni della vita storica, dalla scoperta 

di fonti storiche fin allora ignote o dall’emergere di grandi 

masse di esperienze in nuove situazioni storiche. Ciò è già 

dimostrato dalla formazione delle prime linee di una scienza 

politica nell’età dei Sofisti, di Platone e di Aristotele, così 



9. Friedrich August Wolf (1759-1824), pedagogista e filologo tedesco, autore della 

Geschichte der ròmischen Literatur (1787), dei Prolecomena ad Homerum (1794), di 

una Enzyklopidie der Philologie pubblicata postuma (1830), nonché di diversi altri vo- 

lumi di argomento classicistico 0 pedagogico, occupa un posto importante nella storia 

della critica omerica. 


1o. Ferdinand Christian Baur (1792-1860), storico e teologo tedesco, autore di Das 

manichdische Religionssystem (1831), di Die christliche Gnosis oder die christliche Reli- 

gionsphilosophie in ihrer geschichtlichen Entwicklune (1835), del LeArbuch der christ- 

lichen Dogmengeschichte (1837), di Paulus der Apostel Jesu Christi (1845), di Die 

Epochen der kirchlichen Geschichtsschreibung (1852-55) e di numerose altre opere, tra 

cui le postume Vorlesungen ùber die christliche Dogmengeschichte (1865-67), è il mag- 

giore esponente dell'atteggiamento razionalistico nella storiografia religiosa della pri- 

ma metà dell'Ottocento, La sua concezione della religione e della storia della religione 

si ispira in larga misura a Hegel. 



150 WILHELM DILTHEY 



come dall’origine di una retorica e di una poetica in quanto 

teoria della creazione spirituale nella medesima epoca. 


Sempre tale intreccio dell’Erleben con la comprensione di 

persone singole o di comunità come soggetti sovra-individuali è 

stata determinante nei grandi progressi delle scienze dello spiri- 

to. I geni dell’arte narrativa come Tucidide, Guicciardini, Gib- 

bon, Macaulay ", Ranke producono anche nella loro limitazio- 

ne opere storiche non soggette al tempo; e nella totalità delle 

scienze dello spirito vi è dunque un progresso, in quanto viene 

gradualmente conquistata alla coscienza storica la penetrazione 

delle connessioni che cooperano nella storia, la storiografia si 

immerge nelle loro relazioni che costituiscono una nazione, 

un'epoca, una linea di sviluppo storico, e di qui si dischiudono 

poi profondità della vita, quali sono esistite nelle varie situazio- 

ni storiche, che vanno al di Îà di ogni intendere precedente. 

Come potrebbe venir comparata quella passata con la compren- 

sione che uno storico odierno ha di artisti, poeti, scrittori? 



3. La spiegazione graduale delle manifestazioni della vita attra- 

verso la costante azione reciproca deî due orientamenti scien- 

tifici. 


Il rapporto di condizionamento reciproco ci appare dunque 

come rapporto fondamentale tra l’Erleden e l’intendere. Più 

da vicino, esso viene a determinarsi come rapporto di spiegazio- 

ne graduale nella costante azione reciproca tra le due classi di 

verità. L’oscurità dell’Erlebris viene chiarita, gli errori derivan- 

ti dalla ristretta comprensione del soggetto vengono corretti, 

l’Erlebnis medesimo è ampliato e completato nell’intendimento 

di altre persone, come d’altra parte le altre persone sono intese 

mediante i propri Erlebnisse. L'intendere allarga sempre più 

l'ambito del sapere storico mediante la più intensa utilizzazio- 

ne delle fonti, mediante il ritorno indietro nel passato finora 

non compreso, e infine mediante il progredire della storia me- 

desima, che produce sempre nuovi avvenimenti estendendo così 



11. Thomas Babington Macaulay (1800-1859), uomo politico e storico inglese, au- 

tore della History of England from the Accession of James II (1849-61), nonché di nu- 

merosi Essays e Biographical Essays, recò nella sua storiografia un'impostazione libe- 

rale: Dilthey si riferisce qui soprattutto alle suc grandi qualità narrative. 



WILHELM DILTHEY ISI 



l'oggetto dell’intendere. In tale procedere l'ampliamento di am- 

bito richiede sempre nuove verità generali per la penetrazione 

di questo mondo della singolarità; e l’estensione dell’orizzonte 

storico rende nel medesimo tempo possibile l'elaborazione di 

concetti sempre più generali e sempre più fecondi. Così in ogni 

punto e in ogni tempo si presenta, nel lavoro delle scienze 

dello spirito, una circolarità di Erleden, di intendere e di rap- 

presentazione del mondo spirituale in concetti generali. E ogni 

grado di questo lavoro possiede un’unità interna nel suo appren- 

dimento del mondo spirituale, poiché la conoscenza storica del 

singolare e le verità generali si sviluppano in un'azione recipro- 

ca e quindi appartengono alla stessa unità dell’apprendimento. 

A ogni grado l’intendimento del mondo spirituale è qualcosa 

di omogeneo e unitario, dalla concezione del mondo spirituale 

ai metodi di critica e di indagine particolare. 


Qui possiamo rivolgere ancora uno sguardo all’epoca in cui 

è sorta la moderna coscienza storica. Essa è stata realizzata 

quando l'elaborazione concettuale delle scienze sistematiche si è 

coscientemente fondata sullo studio della vita storica, e la cono- 

scenza del singolare è stata coscientemente fecondata dalle disci- 

pline sistematiche dell'economia politica, del diritto, dello sta- 

to, della religione. A questo punto poteva sorgere la compren- 

sione metodica della connessione delle scienze dello spirito: il 

medesimo mondo spirituale diventa, secondo la diversità del 

punto di vista da cui è considerato, oggetto di due classi di 

discipline. La storia universale come connessione singolare, il 

cui oggetto è l’umanità, e il sistema di scienze dello spirito 

indipendenti che si riferiscono all’uomo, al linguaggio, all’eco- 

nomia, allo stato, al diritto, alla religione e all’arte, si completa- 

no reciprocamente. Esse sono distinte dal fine e dai metodi che 

questo determina, ma al tempo stesso cooperano nel loro costan- 

te legame alla costruzione del sapere relativo al mondo spiritua- 

le: Erleben, rivivere e verità generali sono legati dall’operazio- 

ne fondamentale dell’intendere. L'elaborazione concettuale non 

è fondata su norme o valori che si presentano al di lì dell’ap- 

prendimento oggettivo, ma sorge dal carattere dominante di 

ogni pensiero concettuale, cioè dalla tendenza a porre in luce 

ciò che è stabile e duraturo entro il corso del divenire, Il 

metodo si muove così in una duplice direzione: nella tendenza 



152 WILHELM DILTHEY 



verso il singolare procede dalla parte al tutto e da questo di 

nuovo alla parte, e nella tendenza verso il generale tra questo 

e il particolare ha luogo la medesima azione reciproca. 



III. L’OGGETTIVAZIONE DELLA VITA 



1. Se abbracciamo l’insieme di tutte le operazioni dell’inten- 

dere, allora appare in esso, di fronte alla soggettività dell'Er/ed- 

nis, l’oggettivazione della vita. Accanto all’Erlebris l’intuizio- 

ne dell’oggettività della vita, e del suo manifestarsi in moltepli- 

ci connessioni strutturali, diventa il fondamento delle scienze 

dello spirito. L'individuo, le comunità e le opere in cui si sono 

trasposti la vita e lo spirito, costituiscono il dominio esterno 

dello spirito. Queste manifestazioni della vita, quali si presenta- 

no nel mondo esterno alla comprensione, sono per così dire 

inserite nella connessione della natura. Questa grande realtà 

esterna dello spirito ci circonda sempre: essa è una realizzazio- 

ne dello spirito nel mondo sensibile, a partire dall’espressione 

fuggevole fino al dominio secolare di una costituzione o di un 

testo giuridico. Ogni manifestazione particolare della vita rap- 

presenta, nel campo di tale spirito oggettivo, ur elemento co- 

mune. Ogni parola, ogni proposizione, ogni gesto e ogni for- 

mula di cortesia, ogni opera d’arte e ogni impresa storica sono 

comprensibili solamente in quanto un rapporto di comunanza 

unisce chi in essi si esprime con chi li intende; l’indivi- 

duo vive, pensa e agisce di continuo in una sfera di comunan- 

za, e solo in questa può intendere. Tutto ciò che viene inteso 

reca, per così dire, il marchio della sua conoscibilità in base a 

questa comunanza: noi viviamo in questa atmosfera, che ci 

circonda costantemente, e siamo immersi in essa. Noi siamo 

ovunque a casa in questo mondo storico che intendiamo, ne 

penetriamo il senso e il significato, siamo coinvolti in questi 

rapporti di comunanza. 


Il mutare delle manifestazioni della vita, che agiscono su di 

Noi, ci spinge di continuo a una nuova comprensione; ma nel 

medesimo tempo anche nell’intendere si ha, poiché ogni mani- 

festazione della vita e la sua comprensione sono legate ad 

altre, un movimento che progredisce secondo i rapporti di 



WILHELM DILTHEY 153 



affinità dal singolo individuo dato verso il tutto. E, crescendo 

le relazioni tra ciò che è affine, aumentano nel medesimo tem- 

po le possibilità di generalizzazione già racchiuse nella comu- 

nanza come determinazione di ciò che è inteso. 


Nell’intendere si fa valere anche un'ulteriore qualità dell’og- 

gettivazione della vita, che determina tanto l'articolazione se- 

condo affinità quanto la tendenza della generalizzazione. L’og- 

gettivazione della vita contiene in sé una molteplicità di ordini 

articolati. Dalla distinzione delle razze fino alla diversità delle 

forme di espressione e dei costumi in una stirpe, in una città, 

vi è un'articolazione di differenze spirituali condizionata su 

base naturale. Differenze di altro tipo si presentano nei sistemi 

di cultura, altre separano tra loro le epoche — in breve, molte 

linee che delimitano da qualche punto di vista ambiti di vita 

affine attraversano il mondo dello spirito oggettivo e si incrocia- 

no in esso. La pienezza della vita si manifesta in innumerevoli 

sfumature e viene compresa mediante il ricorrere di tali diffe- 

renze. 


Mediante l’idea dell’oggettivazione della vita noi pervenia- 

mo per la prima volta a gettare uno sguardo sull’essenza di 

ciò che è storico. Tutto è qui sorto dall’attività spirituale 

e reca quindi il carattere della storicità: perfino nel mondo 

sensibile esso si inserisce come prodotto della storia. Dalla distri- 

buzione degli alberi in un parco, dalla disposizione delle case 

in una strada, dallo strumento appropriato di un artigiano fino 

alla sentenza del tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, 

storicamente divenuto. Ciò che lo spirito immette oggi del 

proprio carattere nella sua manifestazione di vita, è domani, 

quando ci sta dinanzi, storia. Col procedere del tempo noi 

siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, dai ca- 

stelli della monarchia assoluta. La storia non è nulla di separa- 

to dalla vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua 

distanza nel tempo. 


Guardiamo il risultato: le scienze dello spirito hanno, come 

loro datità complessiva, l’oggettivazione della vita. Ma in quan- 

to l’oggettivazione della vita diventa per noi qualcosa di inte- 

so, essa racchiude sempre, in quanto tale, la relazione dell’ester- 

no all’interno. Perciò tale oggettivazione è ovunque legata nel- 

l’intendere all’Er/eben, in cui all'unità della vita si dischiude 



154 WILHELM DILTHEY 



il suo contenuto, permettendo così ad essa di interpretare quel- 

lo di tutte le altre. Dal momento che qui stanno i dati delle 

scienze dello spirito, risulta pure che tutto ciò che è stabile 

ed estraneo, in quanto proprio alle immagini del mondo fisico, 

deve venir eliminato dal concetto del dato proprio di questo 

campo. Tutto il dato è qui venuto alla luce, e quindi è storico; 

è inteso, e quindi contiene in sé un elemento comune; è noto 

in quanto è inteso, e contiene in sé un raggruppamento del 

molteplice, poiché già l’interpretazione del manifestarsi della 

vita nell’intendere superiore poggia su un raggruppamento. An- 

che il procedimento di classificazione di tali manifestazioni è 

quindi già presente nei dati delle scienze dello spirito. 


E qui viene a completarsi il concetto delle scienze dello 

spirito. Il loro ambito si estende quanto l’intendere, e l’intende- 

re ha il suo oggetto unitario nell’oggettivazione della vita. Così 

il concetto di scienza dello spirito è determinato, in base all’am- 

bito dei fenomeni che rientrano in essa, mediante l’oggettivazio- 

ne della vita nel mondo esterno. Lo spirito intende soltanto ciò 

che esso stesso ha creato. La natura, cioè l’oggetto della scienza 

naturale, comprende la realtà prodotta indipendentemente dall’o- 

pera dello spirito. Tutto ciò in cui l'uomo ha impresso, operan- 

do, la sua impronta, costituisce l’oggetto delle scienze dello 

spirito. 


E anche l’espressione « scienza dello spirito » riceve a questo 

punto la sua giustificazione. Si è nel passato discorso dello 

spirito delle leggi, del diritto, della costituzione: ora possiamo 

dire che tutto ciò in cui lo spirito si è oggettivato, rientra 

nell’ambito delle scienze dello spirito. 



2. Io ho finora designato questa oggettivazione della vita 

anche con il nome di spirito oggettivo: tale termine è stato 

profondamente e felicemente coniato da Hegel. Debbo però 

indicare anche con precisione il senso in cui lo uso, distinguen- 

dolo da quello che Hegel gli attribuisce. Tale distinzione ri- 

guarda tanto il posto sistematico del concetto quanto la sua 

finalità e il suo ambito. 


Nel sistema hegeliano il termine designa un grado nello 

sviluppo dello spirito, un grado posto tra lo spirito soggetti- 

vo e lo spirito assoluto. Il concetto di spirito oggettivo ha 



WILHELM DILTHEY 155 



pertanto presso di lui il suo posto nella costruzione ideale dello 

sviluppo dello spirito, la quale trova il suo substrato reale nella 

realtà storica e nelle relazioni che in essa sussistono e si propo- 

ne di comprenderla speculativamente, lasciando così alle sue 

spalle le relazioni temporali, empiriche, storiche. L'idea, la qua- 

le nella natura si manifesta nel suo essere altro, estraniandosi 

da sé, ritorna in se stessa nello spirito, sul fondamento di tale 

natura. Lo spirito del mondo ritorna alla sua pura idealità, 

realizzando la sua libertà nel suo sviluppo. 


Come spirito soggettivo esso è la molteplicità degli spiriti 

individuali; e poiché in questa il volere si realizza sulla base 

della conoscenza dello scopo razionale attuantesi nel mondo, 

nello spirito individuale si compie il passaggio alla libertà. In 

tal modo è dato il fondamento per la filosofia dello spirito 

oggettivo. Questa mostra come la volontà libera razionale, e 

quindi in sé universale, viene a oggettivarsi in un mondo eti- 

co: «questa libertà, che ha il contenuto e lo scopo della li- 

bertà, è anzitutto soltanto concetto, principio dello spirito e 

del cuore, ed è destinata a svilupparsi come oggettività, come 

realtà giuridica, etica e religiosa e come realtà scientifica » *. In 

tal modo è posto lo sviluppo dallo spirito oggettivo allo spirito 

assoluto: «lo spirito oggettivo è l’idea assoluta, ma solo come 

idea che è in sé; e in quanto esso è sul terreno della finitudine, 

la sua razionalità reale conserva in sé l’aspetto dell’apparenza 

esterna » È. 


L'oggettivazione dello spirito si compie nel diritto, nella 

moralità e nell’eticità. L’eticità realizza la volontà razionale 

universale nella famiglia, nella società civile e nello stato; e lo 

stato realizza nella storia universale la sua essenza, in quanto 

realtà esterna dell'idea etica. 


In tal modo la costruzione ideale del mondo storico ha rag- 

giunto il punto in cui i due gradi dello spirito, la volontà 

razionale universale del soggetto singolo e la sua oggettivazione 

nel mondo etico come sua superiore unità, rendono possibile 



a. Hecet, Werke, vol. VII, parte II (1845), p. 375 [EnzyK/opadie der 

philosophischen Wissenschaften, parte III, $ 482]. 


b. Op. cit., p. 376 [EnzyKWopidie der philosophischen Wissenschaften, 

parte III, $ 483]. 



156 WILHELM DILTHEY 



l’ultimo e massimo grado: il sapere che lo spirito ha di se 

stesso come forza creatrice di ogni realtà nell’arte, nella religio- 

ne e nella filosofia. «Lo spirito soggettivo e oggettivo devono 

esser considerati il cammino su cui si» costituisce la suprema 

realtà dello spirito, lo spirito assoluto. 


Qual è stata la posizione e l’importanza storica di questo 

concetto dello spirito oggettivo, scoperto da Hegel? L’Illumini- 

smo tedesco, troppo spesso disconosciuto, aveva posto in luce il 

significato dello stato come il più ampio ente collettivo che 

realizza l’eticità intrinseca degli individui. Mai dopo i giorni 

dei Greci e dei Romani la comprensione dello stato e del 

diritto è stata più fortemente e profondamente espressa come in 

Carmen, Svarez, Klein, Zedlitz, Herzberg, i massimi funziona- 

ri dello stato federiciano!. Questa intuizione dell’essenza e del 

valore dello stato si è unita in Hegel con le idee antiche di 

eticità e di stato, e con la penetrazione della realtà di queste 

idee nel mondo antico: egli ha fatto così valere il significato 

dei rapporti di comunanza nella storia. La scuola storica perve- 

niva nello stesso tempo, sulla strada della ricerca storica, alla 

scoperta dello spirito collettivo, a cui Hegel era giunto median- 

te una propria specie di intuizione storico-metafisica. Anch'essa 

perveniva a una comprensione, che andava oltre i filosofi ideali- 

stici greci, dell’essenza della comunità, quale si manifesta nel 

costume, nello stato, nel diritto e nella fede, e che non può 

venir derivata dal cooperare degli individui. In tal modo sorge- 

va in Germania la coscienza storica. 


Hegel ha raccolto il risultato di tutto questo movimento in 

un solo concetto — nel concetto di spirito oggettivo. Ma i 



12. Johann Heinrich Casimir barone von Carmer (1720-1801), fu dal 1779 al 1795 

gran cancelliere e presidente della Commissione Icgislativa dello stato prussiano; sot- 

to la sua direzione fu pubblicato, nel 1780-81, il primo volume del Corpus iuris Frie- 

dericianum. — Karl Gottlieb Svarez (1746-1798), collaborò alla redazione del codice 

prussiano, — Ernst Ferdinand Klein (1744-1810), anch'egli collaboratore di Carmer nel- 

la redazione del codicc prussiano, autore dei Grundsùtze des gemeinen deutschen pein- 

lichen Rechts (1799) e di mumerose altre opere giuridiche, soprattutto di carattere pe- 

nalistico. — Karl Abraham barone von Zedlitz (1731-1793), ministro di Federico II, 

ebbe gran parte nella riforma del sistema scolastico prussiano. — Ewald Herzberg (1725- 

1795), anch'egli ministro sotto il regno di Federico II, autore del Mémoire raisonné 

con cui il sovrano cercò di giustificare nel 1756 l'invasione della Sassonia, che diede ini- 

zio alla Guerra dei sette anni. 



WILHELM DILTHEY 157 



presupposti sui quali Hegel ha fondato questo concetto non 

possono più venir mantenuti. Egli ha costruito le comunità 

sulla base della volontà universale della ragione: noi dobbiamo 

oggi muovere dalla realtà della vita, poiché nella vita opera la 

totalità della connessione psichica. Hegel ha costruito metafisi- 

camente; noi analizziamo il dato. E l’analisi attuale dell’esisten- 

za umana suscita in tutti noi la coscienza della fragilità, della 

forza dell'impulso oscuro, della sofferenza derivante dalle tene- 

bre e dalle illusioni, della finitudine presente in tutto ciò che è 

vita, anche dove da essa derivano le supreme forme della vita 

della comunità. Non possiamo quindi intendere lo spirito ogget- 

tivo sulla base della ragione, ma dobbiamo rifarci alla connes- 

sione strutturale delle unità viventi che si continua nelle comu- 

nità. E non possiamo costringere lo spirito oggettivo entro una 

costruzione ideale, ma dobbiamo piuttosto porre a base la sua 

realtà nella storia. Noi cerchiamo di intendere e di rappresenta- 

re con concetti adeguati questa realtà. E in quanto lo spirito 

oggettivo viene così liberato dalla sua fondazione unilaterale in 

una ragione universale, che esprimeva l’essenza dello spirito del 

mondo, e liberato anche dalla costruzione ideale, diventa allora 

possibile un nuovo concetto di esso, il quale comprende il 

linguaggio, il costume, ogni specie di forma della vita e di 

stile di vita al pari della famiglia, della società civile, dello 

stato e del diritto. Così cade anche quello che Hegel ha distin- 

to, rispetto allo spirito oggettivo, come spirito assoluto: arte, 

religione e filosofia rientrano in questo concetto, poiché proprio 

in esse l'individuo creatore si mostra nel medesimo tempo co- 

me rappresentante della comunanza spirituale, e lo spirito si 

oggettiva proprio in tali forme vigorose, e può esservi ricono- 

sciuto. 


Questo spirito oggettivo contiene certo in sé un’articolazio- 

ne, che va dall’umanità fino ai tipi di minore estensione: in 

esso agisce questa articolazione, cioè il principio di individua- 

zione. E quando l’individuale viene appreso nell’intendere, in 

base a ciò che è universalmente umano e attraverso la sua 

mediazione, si ha un rivivere della connessione interna che 

conduce da ciò che è universalmente umano alla sua individua- 

zione. Questo movimento viene appreso nella riflessione, e la 



158 WILHELM DILTHEY 



psicologia individuale abbozza la teoria che fonda la possibi- 

lità dell’individuazione *. 


A base delle scienze sistematiche dello spirito sta pertanto 

lo stesso rapporto tra le uniformità, che stanno a fondamento, 

e l'individuazione che sorge sulla loro base — cioè il rapporto 

tra teorie generali e procedimenti comparativi. Le verità genera- 

li, quali possono esservi accertate a proposito della vita etica 

o della poesia, diventano così il fondamento per la penetrazio- 

ne delle differenze dell’ideale morale o dell’attività poetica. 


E in questo spirito oggettivo tutte le realtà del passato, in 

cui si sono formate le grandi forze totali della storia, sono 

diventate presente. L'individuo, come portatore e rappresentan- 

te dei rapporti di comunanza che in lui sono intrecciati, gode 

e penetra la storia in cui essi sono sorti. Esso intende la storia 

perché è un essere storico. 


In un ultimo punto il concetto qui formulato di spirito 

oggettivo si distingue da quello di Hegel. Sostituendo alla ra- 

gione universale di Hegel la vita nella sua totalità, l’Er/ebnis, 

l’intendere, la connessione della vita storica, la forza dell’irra- 

zionale in essa presente, sorge il problema della possibilità della 

scienza storica. Per Hegel questo problema non esisteva: la sua 

metafisica, nella quale lo spirito del mondo, la natura come sua 

alienazione, lo spirito oggettivo come sua realizzazione e lo 

spirito assoluto fino alla filosofia come attuazione della sua 

autocoscienza interiore sono identici, lascia alle sue spalle que- 

sto problema. Ma oggi occorre viceversa riconoscere il dato del- 

le manifestazioni storiche della vita come il vero fondamento 

del sapere storico, e trovare un metodo per affrontare la questio- 

ne della possibilità di un sapere universalmente valido intorno 

al mondo storico sulla base di questo dato. 



IV. IL MonDo SPIRITUALE COME CONNESSIONE DINAMICA 



Così nell’Erleben e nell’intendere — attraverso l’oggettiva- 

zione della vita — si apre dinanzi a noi il mondo spirituale. E 



a. Cfr. il mio saggio Beitrige zum Studium der Individualitàt, « Sitz- 

ungsberichte der koniglich Preussischen Akademie der Wissenschaften », 

1896, pp. 295-335 [ora in Ges. Schr., vol. V, pp. 241-316]. 



WILHELM DILTHEY 159 

il nostro compito è ora quello di determinare più da vicino 

nella sua essenza questo mondo dello spirito, questo mondo 

storico e sociale, in quanto oggetto delle scienze dello spirito. 


Riprendiamo anzitutto i risultati delle indagini precedenti 

in rapporto alla connessione delle scienze dello spirito. Questa 

connessione poggia sul rapporto tra Erleben e intendere, e da 

ciò derivano tre princìpi fondamentali. L'ampliamento del no- 

stro sapere intorno a ciò che è dato nell’Erleder si compie 

mediante l’interpretazione delle oggettivazioni della vita, e que- 

sta interpretazione è a sua volta possibile soltanto sulla base 

della profondità soggettiva dell’Erledez. Così pure la compren- 

sione del singolare è possibile soltanto mediante la presenza in 

esso del sapere generale, e questo ha a sua volta il proprio 

presupposto nell’intendere. Infine, la comprensione di una parte 

del corso storico si compie pienamente solo mediante la relazio- 

ne della parte col tutto, e l’analisi storico-universale della totali- 

tà presuppone la comprensione delle parti che sono in essa 

unite. 


In tal modo viene in luce la reciproca dipendenza in cui 

stanno tra loro l'apprendimento di ogni particolare elemento 

oggettivo delle scienze dello spirito nella totalità storico-sociale 

di cui l'elemento fa parte, e la rappresentazione concettuale di 

questa totalità nelle scienze sistematiche dello spirito. Così nel 

progresso delle scienze dello spirito, in ogni punto del loro 

corso, si rivelano l’azione reciproca dell’Erleben e dell'intende- 

re nell’apprendimento del mondo spirituale, la dipendenza reci- 

proca del sapere generale e del sapere singolare, e infine la 

graduale spiegazione del mondo spirituale. Perciò noi li ritro- 

viamo in tutte le operazioni delle scienze dello spirito, in quan- 

to formano in generale il substrato della loro struttura. Così 

noi dovremo riconoscere la dipendenza reciproca di interpreta- 

zione, critica, collegamento delle fonti, sintesi di una connessio- 

ne storica: un rapporto simile sussiste nella formazione dei 

concetti di soggetti quali l'economia, il diritto, la filosofia, 

l’arte, la religione, che designano le connessioni dinamiche di 

diverse persone in una operazione comune. Ogni volta che il 

pensiero scientifico cerca di compiere un’elaborazione concettua- 

le, la determinazione dei segni distintivi costituenti il concetto 

presuppone pure la constatazione degli stati di fatto che devono 



160 WILHELM DILTHEY 



esser compresi nel concetto; e la constatazione e la scelta di 

questi stati di fatto esige segni distintivi, sulla base dei quali 

poter decidere sulla loro appartenenza all'ambito del concetto. 

Per determinare il concetto di poesia, io debbo trarlo da quegli 

stati di fatto che costituiscono l’ambito di tale concetto, e per 

constatare quali opere appartengano alla poesia debbo già posse- 

dere un segno distintivo sulla base del quale l’opera può venir 

riconosciuta come poetica. 


Questo rapporto è quindi il carattere più generale della 

struttura delle scienze dello spirito. 



1. Carattere generale della connessione dinamica del mondo spi- 

rituale. 



Da ciò deriva il compito di concepire il mondo spirituale 

come una connessione dinamica, cioè come una connessione 

contenuta nei suoi prodozti duraturi. Le scienze dello spirito 

hanno il loro oggetto in questa connessione dinamica e nelle 

sue creazioni. Esse analizzano sia tale connessione sia quella 

logica, estetica, religiosa, che si manifesta in solide formazioni 

e che caratterizza i vari tipi di queste, sia la connessione presen- 

te in una costituzione o in un libro giuridico, che si riferisce 

poi appunto alla connessione dinamica da cui è sorta. 


Questa connessione dinamica si distingue dalla connessione 

causale della natura in quanto, conformemente alla struttura 

della vita psichica, essa produce valori e realizza scopi. E inve- 

ro non è un fatto occasionale, ma dipende dalla struttura stessa 

dello spirito che questo produca valori e realizzi scopi nella 

propria connessione dinamica, sulla base dell’apprendimento: 

tale carattere può venir definito il carattere teleologico imma- 

nente delle connessioni dinamiche dello spirito. Con ciò inten- 

do una connessione di operazioni, che è fondata nella struttura 

di una connessione dinamica. La vita storica crea; essa è conti- 

nuamente attiva nella produzione di beni e di valori, e tutti i 

concetti relativi sono soltanto riflessi di questa sua attività. 


I portatori di questa costante creazione di valori e di beni 

nel mondo spirituale sono individui, comunità e sistemi di 

cultura in cui gli individui agiscono insieme. La cooperazione 

tra gli individui è determinata dal fatto che essi si sottopongo- 



Wilhelm Dilthey intorno al 190 



WILHELM DILTHEY 16I 



no a regole per la realizzazione dei valori e si prefiggono degli 

scopi. Così in ogni specie di questa cooperazione c’è un rappor- 

to vitale, che inerisce all’essenza dell’uomo e lega tra loro gli 

individui — quasi come un nucleo che non si può afferrare 

psicologicamente, ma che si manifesta in ogni sistema di rela- 

zioni tra uomini. L’azione entro di esso è condizionata dalla 

connessione strutturale tra l'apprendimento, gli stati psichici 

che si esprimono nella scelta di valori e quelli che consistono 

nella posizione di scopi, di beni e di norme. Questa connessio- 

ne dinamica si rivela in primo luogo negli individui. In quanto 

poi essi sono punti di incrocio tra sistemi di relazioni, di cui 

ognuno costituisce un centro permanente di attività, entro tali 

sistemi vengono a svilupparsi beni comuni e forme di attuazio- 

ne di tali beni secondo regole, a cui viene attribuita una specie 

di validità incondizionata. Ogni relazione permanente tra indi- 

vidui racchiude perciò in sé uno sviluppo nel quale valori, 

regole e scopi vengono prodotti, elevati a coscienza e consolida- 

ti nel corso dei processi del pensiero. Questa creazione che si 

compie in individui, comunità, sistemi di cultura, nazioni, sot- 

to le condizioni naturali che sempre offrono a essa il suo mate- 

riale e la sua spinta, perviene nelle scienze dello spirito alla 

riflessione su se stessa. 


Da tale connessione strutturale deriva poi che ogni unità 

spirituale 4a il suo centro in se stessa. Come l’individuo, così 

anche ogni sistema di cultura e ogni comunità ha il suo centro 

entro di sé; in virtù di esso l’apprendimento della realtà, la 

valutazione e la produzione di beni sono collegati in un com- 

plesso unitario. 


Ora si presenta un nuovo rapporto fondamentale nella con- 

nessione dinamica che costituisce l'oggetto delle scienze dello 

spirito. I diversi soggetti creativi sono intrecciati in più ampie 

connessioni storico-sociali, come le nazioni, le età, i periodi 

storici. Così sorgono forme più complicate di connessione sto- 

rica. I valori, gli scopi, i nessi che in esse si presentano, 

portati da individui, comunità, sistemi di relazioni, debbono 

essere compenetrati dallo storico. Essi debbono venir comparati, 

ponendo in luce l'elemento comune che è in essi e raccogliendo 

le diverse connessioni dinamiche in sintesi. E qui dall’autocen- 

tralità, intrinseca a ogni unità storica, deriva un’altra forma di 



11. STORICISMO TEDESCO. 



162 WILHELM DILTHEY 



unità. Ciò che opera nel medesimo tempo in un nesso recipro- 

co, come individui e sistemi di cultura e comunità, vive in un 

continuo scambio spirituale e completa anzitutto la sua vita 

psichica con quella altrui: già le nazioni vivono più sovente in 

una forte chiusura reciproca e hanno perciò il loro orizzonte 

proprio; se però considero un periodo come quello medievale, 

il suo ambito visuale è separato da quello dei periodi preceden- 

ti. Anche quando i risultati di tali periodi mantengono la loro 

influenza, essi vengono tuttavia assimilati nel sistema del mon- 

do medievale. Questo ha così un orizzonte chiuso. E un'epoca 

è così incentrata in se stessa în un muovo senso. Le varie 

persone dell’epoca hanno il criterio di misura del loro operare 

in un elemento comune. Il nesso delle connessioni dinamiche 

nella società dell’epoca ha tratti simili. Le relazioni dell’appren- 

dimento oggettivo mostrano in essa una interna affinità; il 

modo di sentire, la vita dell'animo, gli impulsi che ne deri- 

vano sono affini tra loro. E così anche il volere si sceglie scopi 

uniformi, mira agli stessi beni e si trova vincolato in maniera 

simile. È compito dell’analisi storica ritrovare negli scopi, nei 

valori, nei modi di pensare concreti la concordanza in un ele- 

mento comune che domina l’epoca. Proprio da questo elemento 

comune sono determinate anche le antitesi che qui si presenta- 

no. Così ogni azione, ogni pensiero, ogni creazione comune, in 

breve ogni parte di questa totalità storica acquista la propria 

significatività in virtù del suo rapporto con la totalità dell’epo- 

ca o dell’età. E quando lo storico giudica, egli constata ciò che 

l'individuo ha compiuto in tale connessione, e anche in quale 

misura il suo sguardo e il suo operare sono andati già oltre di 

essa. 


Il mondo storico come una totalità, questa totalità come una 

connessione dinamica, questa connessione dinamica come pro- 

duttrice di valori e di scopi, cioè creatrice, quindi la compren- 

sione di questa totalità in base a se stessa, infine l’autocentrali- 

tà dei valori e degli scopi nelle età, nelle epoche, nella storia 

universale — questi sono i punti di vista da cui deve essere 

concepita la connessione, a cui dobbiamo pervenire, delle scien- 

ze dello spirito. Così il rapporto immediato della vita, dei suoi 

valori e dei suoi scopi con l’oggetto storico viene gradualmente 

sostituito nella scienza, in base alla sua tendenza alla validità 



WILHELM DILTHEY 163 



universale, dall'esperienza delle relazioni immanenti che sussi- 

stono nella connessione dinamica del mondo storico tra la forza 

attiva, i valori, gli scopi, il significato e il senso. Soltanto 

su questo terreno della storia oggettiva può sorgere il proble- 

ma se e come siano possibili le previsioni sul futuro e sulla 

subordinazione della nostra vita a fini comuni dell’umanità. 


L’apprendimento della connessione dinamica si forma in pri- 

mo luogo in chi ne ha coscienza immediata, per il quale la 

successione del divenire interiore si sviluppa in relazioni struttu- 

rali. E tale connessione è poi ritrovata, mediante l’intendere, in 

altri individui. La forma fondamentale della connessione sorge 

così nell’individuo, riunendo il presente, il passato e le possibili- 

tà del futuro in un corso vitale: questo corso si riproduce poi 

nel corso storico, in cui sono inserite le unità della vita. In 

quanto lo spettatore di un avvenimento vede connessioni più 

ampie o una narrazione le racconta, sorge l'apprendimento dei 

fatti storici. E in quanto questi assumono un posto nel corso 

temporale, presupponendo in ogni punto l’azione del passato e 

spingendo le loro conseguenze fin nel futuro, ogni avvenimen- 

to implica un movimento ulteriore e il presente conduce avan- 

ti verso il futuro. 


Altri modi di connessione sussistono in opere che, scisse dai 

loro autori, recano in sé la propria vita e la propria legge. 

Prima di spingerci entro la connessione dinamica da cui esse 

sono sorte, noi cogliamo le connessioni sussistenti nell’opera 

compiuta. Nell’intendere sorge la connessione logica in cui so- 

no legati tra di loro i princìpi giuridici che formano un libro 

di diritto. Se leggiamo una commedia di Shakespeare, trovia- 

mo che gli elementi di un accadimento, legati secondo i rappor- 

ti di tempo e di azione, sono qui elevati secondo le leggi della 

composizione poetica a un’unità che li solleva, all’inizio e alla 

fine, al di fuori del corso dinamico collegando le loro parti in 

una totalità. 



2. La connessione dinamica come concetto fondamentale delle 

scienze dello spirito. 



Nelle scienze dello spirito noi cogliamo il mondo spirituale 

sotto forma di connessioni che si formano nel corso temporale. 



164 WILHELM DILTHEY 



Operare, energia, corso temporale, accadere sono quindi i mo- 

menti che caratterizzano l’elaborazione concettuale delle scien- 

ze dello spirito. Da queste determinazioni di contenuto non 

dipende però la funzione generale del concetto nella connessio- 

ne delle scienze dello spirito, la quale richiede determinatezza 

e costanza in tutti i giudizi. I caratteri di un concetto, il cui 

nesso ne forma il contenuto, debbono soddisfare tali esigenze; e 

le asserzioni, in cui i concetti sono collegati, non debbono conte- 

nere contraddizioni né entro di sé né tra di loro. Questa validi- 

tà indipendente dal corso temporale, che sussiste in tal modo 

nella connessione del pensiero e determina la forma dei concet- 

ti, non ha alcun rapporto con il fatto che il contenuto dei con- 

cetti propri delle scienze dello spirito può rappresentare il corso 

temporale, l’operare, l'energia e l’accadere. 


Noi vediamo operante nella struttura dell'individuo una ten- 

denza o una forza impulsiva che si partecipa a tutte le forme 

più complesse del mondo spirituale. In questo mondo si presen- 

tano forze collettive che si fanno valere in una determinata 

direzione nella connessione storica. Tutti i concetti delle scien- 

ze dello spirito, in quanto rappresentano qualche elemento del- 

la connessione dinamica, contengono in sé questo carattere di 

processo, di corso, di accadere o di agire. E quando le oggetti- 

vazioni della vita spirituale vengono analizzate come qualcosa 

di compiuto, quasi di fisso, resta sempre il compito ulteriore 

di penetrare la connessione dinamica in cui tali oggettivazioni 

sono sorte. In un ambito più vasto i concetti delle scienze dello 

spirito sono rappresentazioni fissate di un procedere, e costitui- 

scono la solidificazione nel pensiero di ciò che è corso o direzio- 

ne di movimento. Pure le scienze sistematiche dello spirito 

racchiudono il compito di un'elaborazione concettuale, che 

esprime la tendenza insita nella vita, la sua mutabilità e la sua 

mobilità, ma soprattutto la finalità che vi si realizza. E nelle 

scienze dello spirito, sia storiche sia sistematiche, si presenta il 

compito ulteriore di dare alle relazioni una corrispondente ela- 

borazione concettuale. 


È stato merito di Hegel aver cercato di esprimere nella sua 

logica l'incessante corrente dell’accadere. Ma è stato suo errore 

ritenere che tale esigenza fosse inconciliabile con il principio 

di contraddizione: contraddizioni non risolubili sorgono soltan- 



WILHELM DILTHEY 165 



to se si vuol spiegare il fatto del fluire della vita. E altrettanto 

erroneo è stato, ed è, giungere da tale presupposto al rifiuto 

dell’elaborazione concettuale sistematica nel campo storico. Co- 

sì nel metodo dialettico di Hegel la varietà della vita storica è 

venuta a irrigidirsi, mentre gli avversari dell’elaborazione con- 

cettuale sistematica nel campo storico lasciano sprofondare in 

una profondità irrappresentabile della vita la molteplicità dell’e- 

sistenza. 


A questo punto si può comprendere la più profonda inten- 

zione di Fichte. Nel faticoso approfondirsi dell’io in se medesi- 

mo, esso si ritrova non come sostanza, essere, datità, ma come 

vita, attività, energia. In tale modo egli aveva già elaborato i 

concetti che esprimono l’energia del mondo storico. 



3. Il procedimento di determinazione delle connessioni dinami- 

che particolari. 



La connessione dinamica è in sé sempre complessa. Il punto 

di partenza è un’azione particolare, per la quale cerchiamo — 

procedendo indietro — i momenti causanti. Tra i molti fattori, 

ne è determinabile soltanto un numero limitato che abbia im- 

portanza per questa azione. Quando ricerchiamo l'intreccio del- 

le cause del mutamento della nostra letteratura, in virtù del 

quale è stato superato l’Illuminismo, distinguiamo allora grup- 

pi di cause, ci sforziamo di misurarne l'influenza, e delimitia- 

mo in qualche modo lo sconfinato contesto causale secondo il 

significato dei momenti e secondo i nostri scopi. Così poniamo 

in luce una connessione dinamica per spiegare il mutamento in 

questione. D'altra parte noi distinguiamo, in un'analisi metodi- 

ca condotta da diversi punti di vista, le connessioni particolari 

presenti nella concreta connessione dinamica; e su questa anali- 

si poggia precisamente il progresso che ha luogo sia nelle scien- 

ze sistematiche dello spirito sia nella storia. 


L’induzione, che constata i fatti e i nessi causali, la sintesi 

che lega tra loro con l’aiuto dell’induzione le connessioni causa- 

li, l’analisi che distingue tra loro singole connessioni dinami- 

che, la comparazione — questi, o equivalenti, sono i modi in 

cui si costituisce in prevalenza la nostra conoscenza della con- 

nessione dinamica. E noi applichiamo gli stessi metodi quando 



166 WILHELM DILTHEY 



indaghiamo le creazioni durature scaturite da questa connessio- 

ne dinamica — quadri, statue, drammi, sistemi filosofici, scrit- 

ti religiosi, libri giuridici. La connessione in essi presente è 

diversa secondo il loro carattere, ma anche qui l’analisi dell’in- 

sieme dell’opera su base induttiva e la ricostruzione sintetica 

della totalità in base alla relazione delle sue parti, sempre su 

base induttiva, si intrecciano tra loro con la costante presenza 

di verità generali. A questa tendenza del pensiero verso la 

connessione è legata nelle scienze dello spirito un’altra tenden- 

za che, procedendo dal particolare al generale e viceversa, inda- 

ga le regolarità presenti nelle connessioni dinamiche. Qui si 

manifesta il più ampio rapporto di reciproca dipendenza tra le 

forme di procedimento. Le generalizzazioni servono a formare 

delle connessioni, e l’analisi della concreta connessione universa- 

le in connessioni particolari è la strada più feconda per la 

scoperta di verità generali. 


Se si tiene presente il procedimento di constatazione delle 

connessioni dinamiche nelle scienze dello spirito, viene in luce 

la grande differenza che lo separa da quello che ha reso possibi- 

li gli enormi successi delle scienze della natura. Le scienze 

della natura hanno a proprio fondamento la connessione spazia- 

le dei fenomeni: la numerabilità e la misurabilità di ciò che si 

estende spazialmente o si muove nello spazio rendono in esse 

possibile la scoperta di leggi generali esatte. Ma l’interna con- 

nessione dinamica è solo aggiunta dal pensiero, e i suoi elemen- 

ti ultimi non possono venir indicati. Invece, come abbiamo 

visto, le unità ultime del mondo storico sono date nell’Erleden 

e nell’intendere. Il loro carattere di unità è fondato nella con- 

nessione strutturale in cui sono collegati l'apprendimento ogget- 

tivo, i valori e la posizione di scopi. Noi abbiamo un’esperien- 

za vissuta di questo carattere dell'unità vivente anche per il 

fatto che può costituire uno scopo soltanto ciò che è posto nel 

suo volere, che è vero soltanto ciò che trova conferma di fronte 

al suo pensiero, e che possiede valore per essa soltanto ciò che 

ha un rapporto positivo con il suo sentire. Il correlato di questa 

unità vivente è il corpo che si muove e opera in base a un 

impulso interno. Il mondo storico-sociale dell’uomo è costitui- 

to da queste viventi unità psico-fisiche: tale è il risultato sicuro 

dell’analisi. E anche la connessione dinamica di queste unità 



WILHELM DILTHEY 167 



mostra poi qualità particolari che non sono esaurite dai rappor- 

ti di unità e di pluralità, di tutto e di parte, di composizione e 

di azione reciproca. 


Procedendo, l’unità vivente risulta una connessione dinami- 

ca che si pone al di là della natura in quanto viene immediata- 

mente vissuta, ma le cui parti attive non possono venir misura- 

te secondo la loro intensità bensì solo valutate, e la cui indivi- 

dualità non può venir scissa dall’elemento umano comune, di 

modo che l’umanità è soltanto un tipo indeterminato. Pertanto 

ogni stato particolare nella vita psichica è una nuova posizione 

dell’intera unità vivente, un rapporto della sua totalità con le 

cose e con gli uomini; e, in quanto ogni manifestazione della 

vita procedente da una comunità o appartenente alla connessio- 

ne dinamica di un sistema di cultura è il prodotto del coopera- 

re di varie unità viventi, gli elementi di queste forme compo- 

ste rivestono un carattere corrispondente. Per quanto ogni pro- 

cesso psichico appartenente a tale totalità possa dipendere dal- 

l'intenzione della connessione dinamica, tuttavia questo proces- 

so non è mai determinato da essa in maniera esclusiva. L'indivi- 

duo, in cui esso si compie, si inserisce come unità vivente nella 

connessione dinamica; e nella sua manifestazione esso opera 

come totalità. La natura, per la differenziazione dei sensi di 

cui ognuno racchiude un ambito di qualità sensibili omogenee, 

è distinta in diversi sistemi ognuno dei quali è internamente 

omogeneo. Lo stesso oggetto, una campana ad esempio, è duro, 

bronzeo, capace di produrre al rintocco una serie di suoni; e 

ognuna delle sue proprietà occupa un posto in uno dei sistemi 

dell’apprendimento sensibile, senza che ci sia data una connes- 

sione interna tra queste qualità. Nell’Erlebder io esisto a me 

stesso come connessione. Ogni situazione mutata produce una 

nuova posizione della vita intera. Del pari in ogni manifestazio- 

ne della vita, che appare dinanzi alla nostra comprensione, 

opera sempre tutta la vita. Perciò né nell’Erleden né nell’inten- 

dere ci sono dati sistemi omogenei, che ci consentano scoprire 

leggi di mutamento. Comunanza e affinità si presentano a noi 

nell’intendere, e questo ci porta d’altro lato a cogliere innume- 

revoli sfumature di differenziazione, dalle grandi distinzioni 

tra razze, stirpi e popoli, fino all’infinita molteplicità degli 

individui. Perciò nelle scienze della natura domina la legge dei 



168 WILHELM DILTHEY 



mutamenti, mentre nel mondo spirituale domina la comprensio- 

ne dell’individualità, dalla persona singola all'umanità intera, 

nonché il procedimento comparativo, che cerca di ordinare con- 

cettualmente questa molteplicità individuale. 


Da questi rapporti derivano i limiti della conoscenza spiri- 

tuale in rapporto sia allo studio della psicologia sia alle discipli- 

ne sistematiche, che dovranno essere illustrati più da vicino 

nella dottrina del metodo. Da un punto di vista generale è 

evidente che sia la psicologia sia le singole discipline sistemati- 

che avranno un prevalente carattere descrittivo e analitico; e 

qui possono servire le mie precedenti considerazioni sul procedi- 

mento analitico nella psicologia e nelle scienze sistematiche del- 

lo spirito, a cui mi rifaccio nell’insieme *. 



4. La storia e la sua comprensione per mezzo delle scienze 

sistematiche dello spirito: il sapere storico. 



La conoscenza spirituale si compie, come si è visto, attraver- 

so la reciproca dipendenza della storia e delle discipline sistema- 

tiche; e poiché l'intenzione dell’intendere precede in ogni caso 

l'elaborazione concettuale, noi cominciamo con le proprietà ge- 

nerali del sapere storico. 


L'apprendimento della connessione dinamica, costituita dal- 

la storia, sorge anzitutto in base a punti particolari, in cui i 

resti raccolti del passato vengono tra loro collegati nell’intende- 

re mediante la relazione con l’esperienza della vita; ciò che ci 

circonda da vicino diventa mezzo per comprendere ciò che sta 

lontano ed è passato. La condizione di questa interpretazione 

dei resti storici risiede nel carattere di persistenza nel tempo e 

di universale validità umana di ciò che noi vi rechiamo dentro. 

Così noi vi trasponiamo la nostra conoscenza dei costumi, delle 

abitudini, delle connessioni politiche, dei processi religiosi; e il 



a. Cfr. Ideen tiber eine beschreibende und zergliedernde Psychologie, 

« Sitzungsberichte der kòniglich Preussischen Akademie der Wissenschaf- 

ten », 1894, pp. 1309-1407 [ora in Gesammelte Schriften, vol. V, pp. 139- 

237]. Si vedano inoltre le Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaf- 

ten: Erste Studie, « Sitzungsberichte » cit., 1905, vol. II, pp. 322-43 [ora in 

Gesammelte Schriften, vol. VII, pp. 3-23], l’Eiz/eitung in die Geistewissen- 

schaften, e C. Siwart, Logik, Tubingen, vol. II, 3° ed. 1904, p. 633 sgg. 



WILHELM DILTHEY 169 



presupposto ultimo di questa trasposizione è costituito sempre 

dalle connessioni che lo storico ha vissuto in sé. La cellula 

originaria del mondo storico è l’Erlebnis, nel quale il soggetto 

si trova in rapporto al suo ambiente nella connessione dinamica 

della vita. Questo ambiente opera sul soggetto e ne subisce 

l'influenza: esso è composto dall'ambiente fisico e spirituale. In 

ogni parte del mondo storico vi è quindi la medesima connes- 

sione del corso di un accadere psichico in rapporto dinamico 

con il suo ambiente. Qui sorge il problema di valutare le 

influenze naturali sull'uomo e di constatare pure l’azione che 

su di lui esercita l’ambiente spirituale. 


Come la materia prima viene nell’industria sottoposta a di- 

versi modi di lavorazione, così anche i resti del passato vengo- 

no elevati a piena comprensione storica mediante diverse proce- 

dure. La critica, l’interpretazione e il procedimento che reca 

unità nella comprensione di un processo storico si collegano tra 

di loro. L'aspetto caratteristico sta però anche qui nel fatto che 

non si ha una semplice fondazione di un’operazione sull’altra: 

la critica, l’interpretazione e il collegamento concettuale hanno 

compiti diversi; ma la soluzione di ogni compito richiede conti- 

nuamente cognizioni ottenute per altre vie. 


Proprio questo rapporto ha però come conseguenza che la 

fondazione della connessione storica dipende sempre da un in- 

treccio di operazioni che non può venir illustrato logicamente 

in modo completo, e che mai può giustificarsi di fronte allo 

scetticismo storico mediante prove incontestabili. Si pensi alle 

grandi scoperte di Niebuhr sull’antica storia romana. La sua 

critica è in ogni punto inseparabile dalla sua ricostruzione del 

corso effettivo. Egli ha dovuto constatare come sia sorta la 

tradizione della più antica storia romana e quali conclusioni si 

possano trarre sul suo valore storico in base a tale origine. Egli 

ha dovuto nel medesimo tempo cercar di trarre da un’argomen- 

tazione oggettiva i lineamenti fondamentali della storia reale. 

Senza dubbio questo procedimento metodico si muove in un 

circolo, se si applicano le regole di una dimostrazione rigo- 

rosa. E quando Niebuhr si è contemporaneamente servito della 

conclusione analogica da processi di sviluppo affini, la conoscen- 

za di tali processi sottostà allo stesso circolo, e la conclusione 

analogica qui impiegata non dà nessuna certezza rigorosa. 



170 WILHELM DILTHEY 



Anche le narrazioni contemporanee debbono prima venir 

esaminate in riferimento alla concezione dell’autore, alla sua 

attendibilità e al suo rapporto con il processo in questione. E 

quanto più le narrazioni vengono a distare temporalmente dal- 

l'avvenimento, tanto più diminuisce la loro credibilità, se il 

loro valore non può venir accertato mediante una riduzione ad 

altre più antiche e contemporanee all’avvenimento stesso. La 

storia politica del mondo antico ha una base sicura dove esisto- 

no dei documenti, e così pure la storia politica del mondo 

moderno dove sono conservati gli atti che fanno parte del 

corso di un avvenimento storico. Con le raccolte critico-metodi- 

che dei documenti e il libero accesso degli storici agli archivi 

è cominciata per la prima volta una conoscenza sicura della 

storia politica. Questo può arrestare completamente lo scettici- 

smo storico di fronte ai fatti, di modo che su tali fondamenti 

sicuri viene a costruirsi, con l’aiuto dell’analisi delle narrazioni 

in rapporto alle loro fonti, e dell'esame dei punti di vista dei 

narratori, una ricostruzione che possiede probabilità storica e la 

cui utilità può venir negata soltanto da menti spiritose ma non 

scientifiche. Questa ricostruzione non perviene certo a un sape- 

re sicuro intorno ai motivi delle persone che agiscono, ma vi 

perviene intorno alle azioni e agli avvenimenti, e gli errori a 

cui sempre rimaniamo esposti per i fatti particolari non metto- 

no in dubbio l'insieme. 


In posizione assai più favorevole che nella comprensione del 

corso politico la storiografia si trova di fronte ai fenomeni di 

massa, ma soprattutto quando si tratta di opere artistiche o 

scientifiche che si possono sottoporre ad analisi. 



5. I gradi della comprensione storica. 



Il graduale assoggettamento del materiale storico si compie 

per diversi gradi, che sono sempre più immersi nelle profondi- 

tà della storia. 


Molteplici interessi spingono anzitutto alla narrazione di 

ciò che è accaduto. Qui viene in primo luogo soddisfatto il 

bisogno originario di curiosità per le cose umane, in particola- 

re per quelle della propria patria; e si fa pure valere la consape- 

volezza della nazione e dello stato. In tal modo sorge l’arte 



WILHELM DILTHEY 171 



narrativa, il cui modello per ogni tempo resta Erodoto. Ma poi 

viene in primo piano la tendenza alla spiegazione. La cultura 

ateniese nell’età di Tucidide ha per la prima volta offerto le 

condizioni indispensabili per tale spiegazione. Le azioni sono 

state derivate, mediante un’acuta osservazione, da motivi psico- 

logici; le lotte tra gli stati, il loro corso e il loro esito so- 

no stati spiegati in base alle forze militari e politiche, e sono 

stati studiati gli effetti delle costituzioni statali. E quando un 

grande pensatore politico come Tucidide spiega il passato me- 

diante il sobrio studio della connessione dinamica in esso presen- 

te, ne deriva contemporaneamente che la storia ammaestra anche 

intorno al futuro. Per conclusione analogica, quando si è ricono- 

sciuto un corso dinamico antecedente e si è mostrata l'affinità 

con esso dei primi stadi di un processo, si può prevedere il 

ripresentarsi di un simile corso in seguito. Questa conclusione, 

sulla quale Tucidide ha fondato la capacità della storia di amma- 

estrare sul futuro, è infatti di decisiva importanza per il pensie- 

ro politico. Come nelle scienze naturali, così anche nella storia 

una regolarità entro la connessione dinamica consente di effet- 

tuare asserzioni € di svolgere un’azione fondata sul sapere. Se 

già il contemporaneo dei Sofisti aveva studiato le costituzioni 

come forze politiche, in Polibio ci si presenta una storiografia 

in cui la trasposizione metodica delle scienze sistematiche del- 

lo spirito nella spiegazione della connessione dinamica della 

storia consente di introdurre nel procedimento esplicativo l’azio- 

ne di forze permanenti, come la costituzione e l’organizzazione 

militare o le finanze. L'oggetto di Polibio è stata l’azione reci- 

proca degli stati che, dall’inizio della lotta tra Roma e Cartagi- 

ne fino alla distruzione di Cartagine e di Corinto, costituirono 

per lo spirito europeo il mondo storico; egli ha quindi cercato 

di derivare dallo studio delle forze permanenti in essi operanti i 

singoli processi politici. Il suo punto di vista diventa storico-uni- 

versale, in quanto egli riunisce in sé la cultura teoretica greca, 

lo studio della raffinata politica e della condotta militare della 

sua patria, con una conoscenza di Roma che era resa possibile 

soltanto dal contatto con i maggiori uomini di stato della nuo- 

va potenza mondiale. E numerose forze spirituali operano nel 

tempo da Polibio fino a Machiavelli e a Guicciardini, in primo 

luogo l’approfondirsi senza fine del soggetto in se medesimo e 



172 WILHELM DILTHEY 



nello stesso tempo l'estensione dell’orizzonte storico; ma i due 

grandi storici italiani restano affini a Polibio nel loro procedi- 

mento. 


Un nuovo livello è stato raggiunto dalla storiografia soltan- 

to nel secolo xvitr. Allora sono stati introdotti due grandi 

princìpi, in quanto la connessione dinamica concreta, estratta 

come oggetto storico dal grande fluire della storia, è stata 424 

lizzata in connessioni particolari, come quelle del diritto, della 

religione, della poesia, comprese nell’unità di un’epoca. Ciò 

presupponeva che lo sguardo dello storico mirasse, al di là 

della storia politica, alla storia della civiltà, che per ogni suo 

campo fosse già conosciuta, mediante le scienze sistematiche 

dello spirito, la funzione che esso esercita, e che si fosse già 

formata una comprensione del cooperare di tali sistemi di cultu- 

ra. La storiografia moderna ha avuto inizio nell'età di Voltai- 

re. E in seguito è stato introdotto un nuovo principio, quello 

di sviluppo, a opera di Winckelmann”, di Justus Méser" e di 

Herder: esso afferma che in una connessione dinamica storica 

è racchiusa, come nuova qualità fondamentale che essa percor- 

ra — in virtù della sua essenza — una serie di mutamenti di 

cui ognuno è possibile soltanto sulla base dei precedenti. 


Questi diversi gradi designano momenti che, una volta con- 

quistati, sono rimasti vitali nella storiografia. L'arte narrativa 

di intrattenimento, la spiegazione acuta, l’applicazione ad essa 

del sapere sistematico, l’analisi in connessioni dinamiche parti- 

colari e il principio dello sviluppo — questi momenti sono 

venuti a sommarsi e a rafforzarsi reciprocamente. 



13. Johann. Joachim Winckelmann (1717-1768), archeologo e storico dell’arte te- 

desco, autore della Geschichte der Kunst des Altertums (1764) e di varie altre opere, 

fu il maggior teorico del classicismo settecentesco: la sua dottrina del bello ebbe larga 

influenza sull'estetica di fine Settecento c della prima metà dell'Ottocento. 


14. Justus Mser (1720-1794), storico tedesco, autore della Osnabriickische Ge- 

schichte (1768-1824) e di altre opere, fu un rappresentante della reazione anti-illumini- 

stica del pensiero tedesco della seconda metà del Settecento: la sua impostazione sto- 

riografica, fondata suli’csaltazione della struttura feudale e patrimoniale della vecchia 

Germania c quindi orientata in senso fortemente conservatore, è stata considerata un 

importante momento preparatorio dello storicismo romantico. 



WILHELM DILTHEY 173 



6. L’isolamento di una connessione dinamica dal punto di vista 

dell'oggetto storico. 



Sempre più chiaro ci appare il significato dell’analisi della 

concreta connessione dinamica e della sintesi scientifica delle 

singole connessioni dinamiche in essa contenute. 


Lo storico non segue all’infinito, partendo da un punto, il 

nesso degli avvenimenti in tutte le direzioni; piuttosto nell’uni- 

tà di un oggetto, che costituisce il suo tema, risiede un princi- 

pio di selezione che è dato proprio insieme al compito dell’ap- 

prendimento di tale oggetto. Infatti la trattazione dell’oggetto 

storico non richiede soltanto il suo isolamento dalla vastità 

della concreta connessione dinamica, ma l’oggetto contiene al 

tempo stesso un principio di selezione. La caduta di Roma, la 

liberazione dell'Olanda, la Rivoluzione francese richiedono la 

selezione di processi e di connessioni che racchiudano le cause 

tanto particolari quanto generali, cioè le forze operanti in tut- 

te le loro trasformazioni, per la rovina dell’Impero romano o 

per la liberazione dell'Olanda o per il compiersi della rivoluzio- 

ne. Lo storico che lavora con connessioni dinamiche deve distin- 

guerle e collegarle in maniera che nessun dettaglio vada smarri- 

to, poiché ogni particolare viene rappresentato nei forti tratti 

della connessione dinamica complessiva. In ciò non consiste 

soltanto la sua capacità rappresentativa, ma questa è piuttosto 

il risultato di un determinato modo di vedere. Quando si inda- 

gano queste salde e profonde connessioni, risulta anche qui 

che la loro comprensione deriva dal nesso tra il progredire 

dell’intendere storico delle fonti con una sempre più profonda 

penetrazione delle connessioni della vita psichica. Se ci si avvici- 

na poi alla specie di connessione dinamica che sì presenta nei 

maggiori avvenimenti storici, le origini del Cristianesimo o la 

Riforma o la Rivoluzione francese o le guerre di liberazione 

nazionale, la si può concepire come opera di una forza totale 

che supera, nella sua tendenza unitaria, tutti gli ostacoli. E si 

troverà sempre che in essa operano due specie di forze. L'una è 

costituita da tensioni che risiedono nel sentimento di bisogni 

imperiosi e non soddisfatti dalla situazione presente, in nostal- 

gie di ogni specie, nell’accrescersi degli attriti e delle lotte, e 

anche nella coscienza di un'insufficienza delle capacità di difen- 



174 WILHELM DILTHEY 



dere ciò che esiste. L’altra è costituita dalle energie che spingo- 

no in avanti, da un volere e un potere e un credere di carattere 

positivo. Esse riposano sugli istinti vigorosi di molti, ma sono 

manifestati e rafforzati da Erlebnisse di personalità importan- 

ti. In quanto tali tendenze positive derivano dal passato per 

dirigersi verso il futuro, esse sono creatrici: racchiudono in sé 

degli ideali, la loro forma è l’entusiasmo, e in questo è insita 

una forma peculiare di parteciparsi e di estendersi. 


Da ciò deriviamo il principio generale che nella connessione 

dinamica di grandi avvenimenti storici i rapporti tra pressione, 

tensione, sentimento di insufficienza dello stato di fatto — cioè 

sentimenti con segni negativi e con forme di rifiuto — costitui- 

scono il fondamento per l’azione, sorretta da sentimenti positi- 

vi di valore, da fini da raggiungere e da determinazioni di 

scopo. Quando entrambi gli elementi cooperano, si verificano i 

grandi mutamenti del mondo. Nella connessione dinamica l’a- 

gente peculiare è perciò costituito dagli stati psichici che si 

esprimono nel valore, nel bene e nello scopo, e tra i quali non 

si debbono considerare come forze operanti soltanto le tenden- 

ze verso i beni di cultura, ma anche la volontà di potenza, 

anche l’inclinazione a opprimere gli altri. 



7. I sistemi di cultura. 



Da ciò risulta che già la determinazione dell’oggetto di 

un’opera storica implica una selezione degli avvenimenti e del- 

le connessioni. Ma la storia racchiude un sistema coerente per 

cui la sua concreta connessione dinamica riposa su campi parti- 

colari isolabili, in cui sono compiute operazioni separate, di 

modo che i processi svolgentisi negli individui in rapporto a 

un’operazione comune costituiscono una connessione dinamica 

unitaria e omogenea. Tale relazione è già stata illustrata da me 

in precedenza ®: su di essa poggia l'elaborazione concettua- 

le mediante cui diventano conoscibili, nell’indagine storica, con- 

nessioni di carattere generale. L’analisi e l'isolamento mediante 

cui vengono poste in luce tali connessioni dinamiche è quindi il 



a. Einleitung in die Geistestissenschaften, p. 52 sgg. [ora in Gesam- 

melte Schriften, vol. I, p. 42 sgg.]. 



WILHELM DILTHEY 175 



procedimento decisivo che l’analisi logica delle scienze dello 

spirito deve prendere in esame. Appare subito evidente l’affini- 

tà di tale analisi con quella in cui viene scoperta la connes- 

sione strutturale dell’unità della vita psichica. 


Le più semplici e omogenee connessioni dinamiche, che 

compiono una funzione culturale, sono l’educazione, la vita 

economica, il diritto, le funzioni politiche, le religioni, la socia- 

lità, l’arte, la filosofia, la scienza. Io prendo ora in esame le 

qualità di un sistema siffatto. 


In esso viene compiuta un’operazione. Così il diritto realiz- 

za le condizioni coercitive per l’attuazione dei rapporti della 

vita. La poesia ha la sua essenza nell’espressione di ciò che è 

immediatamente vissuto e nella rappresentazione dell’oggettiva- 

zione della vita, in maniera tale che l'avvenimento isolato dal 

poeta si presenta, nel suo significato per la totalità della vita, 

ricco di conseguenze. In questa operazione gli individui sono 

legati tra di loro. I processi particolari, che in essi hanno 

luogo, si riferiscono alla connessione dinamica costituita da tale 

operazione e le appartengono: così essi sono membri di una 

connessione che realizza l'operazione. 


Le regole giuridiche del testo legislativo, il processo in cui 

le parti avverse discutono, dinanzi a un tribunale, intorno a 

un'eredità, secondo le regole del testo legislativo, la decisione 

del tribunale e la sua esecuzione costituiscono una lunga serie 

di processi psichici particolari, che si distribuiscono e si intrec- 

ciano in diverse persone, per risolvere infine il compito ineren- 

te al diritto relativamente a un determinato rapporto della vita. 


Il compimento della funzione poetica è, in grado assai mag- 

giore, legato al processo unitario che avviene nell’animo del 

poeta; ma nessun poeta è il creatore esclusivo della sua opera, 

in quanto egli trae un avvenimento dalla saga, si trova davanti 

la forma epica in cui lo eleva a poesia, studia l’efficacia di 

scene particolari nei suoi predecessori, impiega una misura me- 

trica, deriva la sua concezione del significato della vita dalla 

coscienza popolare o da individui eminenti, ha bisogno di ascol- 

tatori che godano nell’accogliere in sé l'impressione dei suoi 

versi e nell’attuare così il suo sogno di influenza. Così la funzio- 

ne del diritto, della poesia o di un altro sistema di scopi della 

cultura si realizza in una connessione dinamica che riposa su 



176 WILHELM DILTHEY 



determinati processi, legati da tale operazione, i quali hanna 

luogo in certi individui. 


Nella connessione dinamica di un sistema di cultura si fa 

valere anche una seconda qualità. Il giudice, oltre a esplica- 

re la sua funzione nell’ordine giuridico, è inserito anche in 

varie altre connessioni dinamiche; agisce nell’interesse della sua 

famiglia, deve realizzare una funzione economica, esercita la 

sua finzione politica, forse scrive pure dei versi. Perciò gli 

individui non sono legati nella loro totalità a tale connessione 

dinamica, ma nella molteplicità dei rapporti dinamici sono uni- 

ti tra loro soltanto quei processi che appartengono a un deter- 

minato sistema, e l’individuo è inserito in diverse connessioni 

dinamiche. 


La connessione dinamica di un tale sistema di cultura si 

realizza mediante una posizione differenziata dei suoi membri. 

La solida impalcatura di ognuno di essi è formata da persone 

in cui i processi, che servono a tale funzione, costituiscono 

l’occupazione principale della loro vita, sia per inclinazione sia 

per motivo professionale. Tra di esse emergono poi le persone 

che incorporano in sé, per così dire, l'intenzione verso tale 

funzione, e che per la loro unione di talento e di professione 

diventano i rappresentanti di questo sistema di cultura. E infi- 

ne i portatori veri e propri della creazione che ha luogo in tale 

campo sono le nature produttive — i fondatori delle religioni, 

gli scopritori di una nuova intuizione filosofica del mondo, gli 

scopritori scientifici. 


Così in una connessione dinamica siffatta ha luogo un intrec- 

cio: le tensioni, accumulate in un vasto ambito, spingono al 

soddisfacimeno del bisogno; l'energia produttiva trova la stra- 

da per la quale si compie tale soddisfacimento o suscita l’idea 

creatrice che spinge in avanti la società; infine si aggiungono 

i collaboratori e poi i molti che l’accolgono. 


Procedendo nell’analisi, ognuno di tali sistemi di cultura, 

che realizza un’operazione, attua un valore comune a tutti 

coloro che sono ad essa indirizzati. Ciò di cui l’individuo ha 

bisogno, e che non può mai realizzare, gli proviene dall’ agire 

della totalità: un valore creato in comune, a cui egli può 

partecipare. L'individuo ha bisogno delia sicurezza della sua 

vita, della sua proprietà, dell'insieme della sua famiglia; ma 



WILHELM DILTHEY 177 



soltanto una forza indipendente della comunità soddisfa il suo 

bisogno mediante il mantenimento di regole coercitive della 

vita comune, che rendono possibile la protezione di questi be- 

ni. L'individuo soffre, nei tempi primitivi, sotto la pressione 

di forze indomabili intorno a lui, di forze cioè che stanno al 

di là dell’ambito ristretto di attività della sua stirpe o del suo 

popolo; ma una diminuzione di tale pressione è ottenuta solo 

mediante la creazione della fede da parte dello spirito colletti- 

vo. In ognuno di tali sistemi di cultura, dall'operazione a cui 

mira la connessione dinamica deriva un ordine dei valori; que- 

sto viene creato nel lavoro comune compiuto in vista di essa; 

sorgono oggettivazioni della vita in cui il lavoro si è condensa- 

to; e sorgono pure organizzazioni che servono alla realizzazio- 

ne delle varie operazioni nei sistemi di cultura — libri giuridi- 

ci, opere filosofiche, poesie. Il bene, che la funzione doveva 

realizzare, è ora creato e sarà sempre più perfezionato. 


Le parti di tale connessione dinamica acquistano una signifi- 

catività nel loro rapporto con la totalità quale portatrice di 

valori e di scopi. Anzitutto le parti del corso della vita hanno 

un significato in base al loro rapporto con la vita, con i suoi 

valori e con i suoi scopi, con lo spazio che qualcosa occupa in 

essa. E quindi gli avvenimenti storici diventano significativi in 

quanto sono elementi di una connessione dinamica, cooperando 

alla realizzazione di valori e di scopi della totalità insieme ad 

altre parti. 


Mentre noi ci troviamo perplessi di fronte alla complessa 

connessione dell’accadere storico, senza percepire in esso né 

una struttura né delle regolarità né uno sviluppo, ogni connes- 

sione dinamica, che realizza una funzione culturale, ha una 

propria struttura. Se concepiamo la filosofia come connessione 

dinamica, essa si presenta anzitutto come una molteplicità di 

operazioni: elevazione delle intuizioni del mondo a validità 

universale, riflessione del sapere su se stesso, relazione della 

nostra attività conforme a uno scopo e del sapere pratico con la 

connessione della conoscenza, spirito critico sempre presente 

nell’intera cultura, opera di collegamento e di fondazione. L’in- 

dagine storica mostra però che abbiamo qui da fare ovunque 

con specifiche funzioni che si presentano sotto certe condizioni 

storiche, ma che sono alla fine fondate su una funzione unita- 



12. STORICISMO TEDESCO. 



178 WILHELM DILTHEY 



ria propria della filosofia. Essa è riflessione universale che proce- 

de continuamente verso le più alte generalizzazioni e le fonda- 

zioni ultime. La struttura della filosofia sta quindi nel rappor- 

to di questo suo carattere fondamentale con le funzioni partico- 

lari, in base alle condizioni temporali. Così la metafisica si 

sviluppa sempre nell’interna connessione della vita, dell’espe- 

rienza della vita e dell’intuizione del mondo. In quanto la 

tendenza a un saldo fondamento, che in noi lotta continuamen- 

te contro l’accidentalità della nostra esistenza, non trova 

alcuna soddisfazione duratura nelle forme religiose e poetiche 

di intuizione del mondo, sorge allora il tentativo di elevare 

l'intuizione del mondo a sapere universalmente valido. Inoltre 

nella connessione dinamica di un sistema di cultura si può ogni 

volta rintracciare un’articolazione in forme particolari. 


Ogni sistema di cultura ha uno sviluppo che si compie sulla 

base della sua funzione, della sua struttura, delle sue regola- 

rità. Mentre nel concreto corso dell’accadere non si può trova- 

re nessuna legge di sviluppo, la sua analisi in connessioni dina- 

miche particolari e omogenee rivela la successione di stati deter- 

minati dall’interno, che si presuppongono l’un l’altro in manie- 

ra che dallo strato sottostante ne emerge ogni volta uno superio- 

re, e che procedono a una crescente differenziazione e a un 

crescente collegamento. 



8. Le organizzazioni esterne e l'insieme politico: le nazioni 

organizzate politicamente. 



a) Sulla base dell’articolazione naturale dell'umanità e dei 

processi storici si sviluppano gli stati del mondo civile, ognuno 

dei quali riunisce in sé connessioni dinamiche di sistemi di 

cultura, e soprattutto le nazioni organizzate in forma statale. 

L'analisi si limita qui a questa forma tipica dell’attuale organiz- 

zazione politica. 


Ognuno di questi stati è un’organizzazione composta da 

varie comunità: la coesione delle comunità in esso racchiuse è 

quindi il potere sovrano dello stato, al di sopra del quale non 

esiste nessun'altra istanza. E chi potrebbe negare che il senso 

della storia, fondato nella vita, venga a esplicarsi tanto nella 

volontà di potenza che riempie questi stati, nel bisogno di 



WILHELM DILTHEY 179 



dominio verso l’interno e verso l’esterno, quanto nei sistemi di 

cultura? E a tutto questo aspetto di brutalità, di temibilità, di 

distruzione, che è contenuto nella volontà di potenza, a tutta la 

pressione e a tutta la coercizione intrinseche al rapporto di 

dominio e di obbedienza, non è forse legata la coscienza della 

comunità, dell’appartenenza reciproca, la gioiosa partecipazio- 

ne al potere dell'insieme politico, tutti Erlebrisse propri dei 

supremi valori umani? Il lamento sulla brutalità del potere 

dello stato è fuori luogo poiché, come Kant ha visto, il più 

difficile compito del genere umano sta proprio nel riuscire a 

contenere il volere individuale e la sua tendenza a estendere la 

propria sfera di potenza e di godimento mediante la volontà 

collettiva e la coercizione che essa esercita, e inoltre perché per 

tale volontà, in caso di conflitto, la decisione risiede soltanto 

nella guerra, e anche all’interno la coercizione resta l’ultima 

istanza. Sul terreno di questa volontà di potenza, intrinseca 

all’organizzazione politica, sorgono le condizioni che rendono 

possibili i sistemi di cultura. Così si presenta qui una struttura 

complessa, nella quale i rapporti di forza e le relazioni dei 

sistemi di scopo sono legati in un’unità superiore, e la comunan- 

za sorge anzitutto dall’azione reciproca dei sistemi di cultura. 

Io cerco ora di illustrare tutto questo rifacendomi alla più anti- 

ca società germanica a noi nota, quale ce la descrivono Cesare e 

Tacito. Qui la vita economica, lo stato e il diritto si trovano 

legati alla lingua, al mito, alla religiosità e alla poesia proprio 

come in ogni epoca successiva: tra le qualità dei singoli campi 

della vita c'è un’azione reciproca che pervade in un dato tempo 

la totalità. Così, nella Germania di Tacito, dallo spirito guerrie- 

ro è sorta la poesia eroica che già magnificava Arminio"! nei 

suoi canti, e questa poesia a sua volta rafforzava lo spirito 

guerriero. Da questo spirito guerriero è derivata pure l’inumani- 

tà presente nella sfera religiosa, come mostrano il sacrificio dei 

prigionieri e l’impiccagione dei loro cadaveri in luoghi sacri. 

Proprio tale spirito influiva sulla posizione del dio della guerra 



15. Arminio (17 a. C.-21 d. C.), principe dei Cherusci, sconfisse le legioni romane, 

guidate da Quintilio Varo, nella Foresta di Teutoburgo nel 9 d. C., e in seguito gui- 

dò la resistenza germanica contro l'invasore, costringendo i Romani ad abbandonare la 

frontiera dell'Elba per ritirarsi sul Reno. La sua figura fu esaltata come quella di un 

eroe nazionale tedesco. 



180 WILHELM DILTHEY 



entro il mondo divino, e da ciò risultava di nuovo una ripercus- 

sione sul sentimento bellico. Così viene a costituirsi una concor- 

danza tra i diversi campi della vita, la quale è così forte che 

dallo stato di uno di essi possiamo compiere un’illazione sullo 

stato di un altro. Ma quest’azione reciproca non spiega com- 

piutamente i rapporti di comunanza che collegano tra loro le 

diverse operazioni di una nazione. Che tra economia, guerra, 

costituzione, diritto, linguaggio, mito, religiosità e poesia 

vi sia in questa età una straordinaria concordanza e una straor- 

dinaria armonia, non deriva dal fatto che una funzione fonda- 

mentale qualsiasi, sia essa anche la vita economica o l’attività 

bellica, abbia condizionato le altre. Il fatto non può venir consi- 

derato neppure come prodotto dell’azione reciproca dei diversi 

campi nella loro situazione in quel dato periodo. In termini 

generali, quali che siano le influenze derivanti dalla forza € 

dalle proprietà di certe operazioni, tuttavia l’affinità che lega 

tra loro i diversi campi della vita entro una nazione deriva da 

una profondità comune che nessuna descrizione può esaurire. 

Essa esiste per noi soltanto nelle manifestazioni della vita che 

scaturiscono da tale profondità e che la esprimono. È l’uomo, 

facente parte di una certa nazione in un dato tempo, che inseri- 

sce in ogni manifestazione della vita entro un determinato cam- 

po della civiltà qualcosa della sua particolare essenza; poiché i 

momenti della vita degli individui, legati nella connessione del- 

le operazioni, non procedono da essa esclusivamente come abbia- 

mo visto, ma l’uomo intero è sempre operante in ognuna di 

queste attività e partecipa loro le proprie qualità peculiari. E 

poiché l’organizzazione statale racchiude in sé diverse comuni- 

tà fin giù alla famiglia, l'ambito più vasto della vita naziona- 

le racchiude pure piccole connessioni e comunità che hanno 

propri movimenti, e tutte queste connessioni dinamiche si incro- 

ciano nei singoli individui. Più ancora lo stato attrae l’attività 

che ha luogo nei sistemi di cultura; e la Prussia di Federico è 

l'esempio tipico di tale estremo aumento di intensità e di esten- 

sione dell’influenza statale. Accanto alle forze indipendenti, 

che collaborano nei sistemi di cultura, agiscono in essi anche 

le attività che procedono dallo stato; e nei processi appartenen- 

ti a tale totalità statale, l’attività autonoma e il condizionamen- 

to da parte della totalità sono sempre legati tra loro. 



WILHELM DILTHEY 181 



5) Il movimento proprio di ogni cerchia particolare in que- 

sta grande connessione dinamica è determinato dalla tendenza 

a compiere la propria funzione. Questa forza attiva ha in sé la 

duplicità della tensione e di un’energia positiva volta alla posi- 

zione di scopi: tutte le connessioni dinamiche concordano in 

ciò, ma ognuna ha pure la sua peculiare struttura, dipendente 

dall’operazione che compie. Molto differente è infatti la struttu- 

ra di un sistema di cultura, in cui si realizza una connessione 

articolata di operazioni, in cui i processi individuali vengono 

mossi da tale connessione, in cui lo sviluppo dei valori, dei 

beni, delle regole, degli scopi è determinato dall’essenza imma- 

nente di questa funzione, da quella propria della connessione 

dinamica di un’organizzazione politica, poiché in questa non 

esiste tale legge di sviluppo immanente in una funzione, i fini 

mutano in genere secondo la natura delle organizzazioni, la 

macchina è per così dire impiegata per attuare un altro compi- 

to, mentre vengono risolti compiti del tutto eterogenei e realiz- 

zati valori di classe totalmente differente. 


Da tale articolazione del mondo storico in connessioni dina- 

miche particolari risulta una conclusione, che ci fornisce l’indi- 

cazione per l'ulteriore soluzione del problema contenuto nel 

mondo storico. La conoscenza del significato e del senso del mon- 

do storico è stata spesso ottenuta, per esempio da Hegel o da 

Comte, mediante la determinazione di una direzione generale 

del movimento della storia universale; questa operazione riuni- 

sce il cooperare di diversi momenti in un'intuizione indetermi- 

nata. In realtà risulta che il movimento storico si compie nelle 

connessioni dinamiche particolari; e inoltre appare chiaro che 

l’intera problematica diretta a porre in luce un fine della sto- 

ria è del tutto unilaterale. Il senso manifesto della storia deve 

essere cercato anzitutto in ciò che sussiste sempre, in ciò che 

ricorre nelle relazioni strutturali, nelle connessioni dinamiche, 

nella formazione di valori e di scopi entro di esse, nell'ordine 

interno in cui stanno tra loro — dalla struttura della vita 

individuale fino all’ultima più vasta unità: questo è il senso 

che la storia ha sempre e ovunque, che poggia sulla struttura 

dell’esistenza individuale e che si manifesta nella struttura 

delle connessioni dinamiche più complesse entro l’oggettivazio 

ne della vita. Tale regolarità ha determinato anche lo sviluppo 



182 WILHELM DILTHEY 



passato e ad essa è sottoposto il futuro. L'analisi della costruzio- 

ne del mondo spirituale avrà soprattutto il compito di mostrare 

tali uniformità nella struttura del mondo storico. 


In tal modo viene pure eliminata la concezione che ha visto 

il compito della storia nel progresso da valori, obbligazioni, 

norme, beni relativi ad altri incondizionati: con essa ci trasferi- 

remmo dal campo delle scienze empiriche al campo della specu- 

lazione. Infatti la storia assiste pure alla posizione di un ele- 

mento incondizionato, sotto forma di valore, di norma o di 

bene. Elementi del genere si presentano sempre in essa — sia 

come dati nella volontà divina, sia come dati in un concetto 

razionale di perfezione, in una connessione teleologica del mon- 

do, in una norma universalmente valida del nostro agire, fonda- 

ta su base trascendentale. Ma l’esperienza storica ha conoscen- 

za soltanto dei processi, per essa così importanti, in virtù dei 

quali questi elementi vengono posti: essa non sa nulla, di per 

sé, in merito a una loro validità universale. Seguendo il corso 

in cui si elaborano tali valori, beni o norme incondizionate, 

essa osserva per diversi di essi il modo in cui la vita li ha 

prodotti; la posizione incondizionata è stata possibile solo in 

virtù della limitazione dell’orizzonte temporale. Essa guarda di 

qui alla totalità della vita nella pienezza delle sue manifestazio- 

ni storiche, e osserva la disputa mai appianata che si svolge tra 

queste posizioni incondizionate. La questione se la subordina- 

zione a tale elemento incondizionato, che è appunto un fatto 

storico, debba essere ricondotta in maniera logicamente necessa- 

ria a una condizione generale, non limitata temporalmente, 

insita nell'uomo, o se sia da considerare come prodotto della 

storia, conduce alle estreme profondità della filosofia trascen- 

dentale, che stanno al di là dall’ambito dell’esperienza storica e a 

cui neppur la filosofia è in grado di fornire una risposta sicura. E 

se anche tale questione fosse decisa nel primo, ciò non potreb- 

be servire allo storico per la selezione, la comprensione, la 

scoperta di qualche connessione, qualora non potesse venir de- 

terminato il contenuto di tale elemento incondizionato: così 

l'intervento della speculazione nel campo di esperienza dello 

storico difficilmente potrà avere successo. Lo storico non può 

rinunciare al tentativo di intendere la storia in base a se stessa, 

in base all’analisi delle varie connessioni dinamiche. 



WILHELM DILTHEY 183 



c) Così una nazione organizzata in forma statale può venir 

concepita come un’unità strutturale individualmente determina- 

ta di connessioni dinamiche. Il carattere comune delle nazioni 

organizzate in forma statale poggia su regolarità che consisto- 

no nella forma di movimento delle connessioni dinamiche, nel- 

le loro relazioni reciproche e, poiché esse sono creatrici di 

valori e di scopi, nel rapporto tra connessione dinamica, deter- 

minazione di valori, posizione di scopi e connessione di signifi- 

cato entro un’organizzazione politica. Ognuna di queste connes- 

sioni dinamiche è incentrata in se stessa in un modo particola- 

re, e su ciò è fondata la regola interna del suo sviluppo. Sulla 

base di tali regolarità, che pervadono tutte le nazioni organizza- 

te statalmente, si elevano le loro forme individuali, lottando e 

cooperando nella storia per la loro vita e la loro validità. 


In ogni nazione organizzata in forma statale l’analisi — e 

soltanto questa, non già la storia dell'origine delle nazioni inter- 

viene in tale connessione — distingue vari momenti. Tra gli 

individui in essa racchiusi, che stanno tra loro in un rapporto 

di azione reciproca, esistono uniformità di carattere e di manife- 

stazioni della vita; essi hanno coscienza di queste uniformità e 

dell’appartenenza reciproca che su queste riposa; in essi vive 

perciò una tendenza a rafforzare tale appartenenza reciproca. 

Queste uniformità possono venir constatate negli individui sin- 

goli, ma pervadono e caratterizzano anche tutte le connessioni 

esistenti entro la nazione. L'analisi mostra inoltre in ogni nazio- 

ne un nesso di connessioni dinamiche particolari. Il potere ester- 

no e interno dello stato fa della nazione un'unità che opera in 

forma autonoma. Entro questa unità si sovrappongono vari 

gruppi sociali, e ognuno costituisce una connessione dinamica 

relativamente indipendente. I sistemi strutturali, che procedo- 

no al di là della singola nazione, si presentano qui in rapporto 

con altre connessioni dinamiche, e sono modificati dalle unifor- 

mità che pervadono l’intero popolo; e la forza della loro azio- 

ne è accresciuta dai gruppi che si costituiscono in base alla loro 

tendenza a una determinata funzione. Così sorge la complessa 

struttura di una nazione organizzata in forma statale: ad essa 

corrisponde una nuova interna disposizione di questa totalità. In 

essa viene vissuto un valore per tutti; l’agire degli individui ha 

in essa un fine comune. La sua unità si oggettiva nella letteratu- 



184 WILHELM DILTHEY 



ra, nei costumi, nell'ordinamento giuridico e negli organi della 

volontà collettiva, manifestandosi pure nella connessione dello 

sviluppo nazionale. 


Voglio ora illustrare in alcuni punti fondamentali la coope- 

razione dei diversi momenti che fanno parte di una totalità 

statale organizzata, così come sono stati determinati, nella vita 

nazionale di una certa epoca. 


A tale scopo mi rifaccio ai Germani dell’età di Tacito. 

Quando Tacito scriveva, il fondamento della vita germanica 

era sempre l'unione della guerra con lo sfruttamento del terre- 

no, della caccia con l’allevamento del bestiame e con l’agricoltu- 

ra. L’'arrestarsi della diffusione delle stirpi germaniche ha acce- 

lerato il corso naturale verso la fissazione del domicilio, e la 

Germania è divenuta un paese agricolo. Da questo rapporto 

con il suolo e il terreno nella caccia, nell'allevamento del bestia- 

me e nell’agricoltura, è derivato il legame dei Germani di 

allora con la terra e con ciò che su di essa-cresce e vive: tale 

legame è il primo momento decisivo per la vita spirituale dei 

Germani in questa epoca, Altrettanto chiara è l’influenza del- 

l’altro fattore sociale, prima accennato, di questa età, cioè 

dello spirito guerriero delle stirpi germaniche nella vita politi- 

ca, negli ordinamenti sociali e nella cultura intellettuale del 

tempo. I compiti della guerra pervadevano tutti i settori della 

vita; si facevano valere nel rapporto delle famiglie con l’ordina- 

mento militare, cioè nelle centurie; incidevano sulla posizione 

dei capi e dei prìncipi. Dallo spirito guerriero è sorto poi 

anche il sistema del seguito, di importanza decisiva per lo svi- 

luppo militare e politico. Il principe è circondato da un segui- 

to composto da gente libera, che costituisce la sua corte milita- 

re: soltanto la guerra poteva nutrire tale seguito. Esso era 

legato quindi al principe dal più saldo rapporto di fedeltà, da 

un rapporto che a noi si rivela nel canto eroico e nell’epica 

popolare con la sua bellezza propriamente germanica. Dalla 

guerra scaturisce poi il regno militare di un Marbod". 


A questi fattori si aggiunge l’individualità dello spirito na- 

zionale. Le sue uniformità si fanno valere nel risultato delle 

connessioni dinamiche. Lo spirito guerriero, che le stirpi germa- 



16. Marbod, principe dei Marcomanni, contemporanco e avversario di Arminio. 



WILHELM DILTHEY 185 



niche di quest'epoca hanno in comune con gli stadi primitivi di 

altri popoli, mostra tuttavia presso di esse una forza e un 

carattere particolare. Il valore della vita di una persona singola 

è riposto nelle sue qualità belliche. Da Tacito appare che i 

migliori di essi vivevano in modo completo soltanto in guerra; 

la cura della casa, del focolare e del campo era lasciata alle 

donne e agli individui inadatti alla guerra. Un carattere peculia- 

re spinge questi Germani a operare nella pienezza del loro 

essere e ad abbandonarsi senza riserve alla lotta. Il loro agire 

non è determinato e limitato da una posizione razionale di 

scopi; in esso c'è una sovrabbondanza di energia che li spinge 

al di là dello scopo, c'è qualcosa di irrazionale. Nella loro 

passione inconsumabile e indomabile essi mettono in gioco con 

i dadi la loro persona e la loro libertà. Nella battaglia si 

rallegrano del pericolo; dopo la lotta cadono in una pigra 

quiete. Il loro mito e Ia loro saga eroica sono totalmente perva- 

si da questo carattere ingenuo e inconscio che ripone il valore e 

il piacere maggiore dell’esistenza non già nella serena intuizio- 

ne del mondo propria dei Greci, non già nella razionale deter- 

minazione di scopi propria dei Romani, ma nella manifestazio- 

ne illimitata della forza in quanto tale, nella scossa e nell’esten- 

sione e nell’elevazione che ne deriva per la personalità. Questo 

aspetto, che trova la sua suprema espressione nella gioia della 

lotta, esercita la sua influenza sull'intero sviluppo dei nostri 

ordinamenti politici e della nostra vita spirituale. 


L’ultimo tra i momenti contenuti in una totalità nazionale, 

e che determinano il suo sviluppo, risiede nella subordinazione 

dei gruppi minori alla totalità politica, quale essa sorge in 

virtù dei rapporti di dominio e di obbedienza e dei rapporti di 

comunità compresi in una volontà statale sovrana. Così in Ger- 

mania vengono a susseguirsi il regno popolare in piccole comu- 

nità di struttura imperfettamente differenziata, poi, sulla base 

della crescente divisione del lavoro, l’articolazione professio 

nale e la distinzione dei ceti in una totalità nazionale poco 

solida, la formazione della signoria indipendente con la sua 

intensiva ed estesa attività statale negli stati territoriali, che 

gradualmente stritola, in mezzo ai diritti individuali e alla 

volontà di potenza dei prìncipi, l’ordinamento fondato sulle 

professioni e sui ceti, e infine lo sviluppo di tali stati verso 



186 WILHELM DILTHEY 



un continuo ampliamento dei diritti individuali, dei diritti del- 

la comunità popolare nel sistema rappresentativo, conforme a 

ordinamenti democratici, e d’altra parte la subordinazione dei 

diritti principeschi all’impero nazionale. Se si guarda a tale 

sviluppo, esso appare ovunque condizionato in duplice modo: 

da un lato esso dipende dal rapporto mutevole delle forze 

entro il sistema statale, e dall’altro è condizionato dai fattori 

dello sviluppo interno, propri dello stato particolare, che noi 

abbiamo seguito. 


Così risulta chiara la possibilità di sottoporre ad analisi la 

connessione dinamica che condiziona i momenti particolari del- 

lo sviluppo di una nazione e lo sviluppo totale di essa, distin- 

guendola nei suoi fattori. Le regolarità presenti nella struttura 

della totalità politica determinano le situazioni della totalità c 

i suoi mutamenti. Vi sono quasi degli strati successivi nell’ordi- 

namento di vita di questa totalità, di cui il posteriore presuppo- 

ne il precedente, come abbiamo visto dai mutamenti dell’orga- 

nizzazione politica. Ognuno mostra un ordine interno in cui, 

a partire dall’individuo, le connessioni dinamiche formano valo- 

ri, realizzano scopi, raccolgono beni, sviluppano regole di con- 

dotta. I portatori e i fini di tali operazioni sono però differenti. 

Così sorge il problema dell’interna relazione reciproca tra tutte 

queste operazioni, dalla quale esse traggono il loro significato. 

Pertanto l’analisi della connessione logica delle scienze dello 

spirito ci conduce di fronte a un compito ulteriore, sulla cui 

soluzione getterà luce la costruzione delle scienze dello spirito 

in virtù del collegamento dei loro vari metodi. 



9. Età ed epoche. 



In un determinato periodo di tempo si possono quindi porre 

in luce analiticamente singole connessioni dinamiche e mostra- 

re i momenti di sviluppo in esse contenuti, determinando inol- 

tre le relazioni che uniscono tali connessioni in una totalità 

strutturale e le uniformità presenti nelle parti di un insieme 

politico: così noi possiamo pure intendere l’altro aspetto del 

mondo storico, la linea del corso temporale e dei mutamenti 

che esso racchiude in riferimento alle connessioni dinamiche, 

come una totalità continua e tuttavia separabile in sezioni tem- 



WILHELM DILTHEY 187 



porali. Ciò che caratterizza anzitutto le generazioni, le età, le 

epoche *, sono tendenze dominanti di profonda incidenza. Ciò 

che le caratterizza è la concentrazione dell’intera cultura di un 

periodo in se stessa, cosicché nella determinazione di valori, 

nella posizione di scopi, nelle regole di vita dell’epoca risiede 

il criterio di giudizio, di valutazione e di stima delle persone e 

degli orientamenti che attribuisce a una determinata epoca il 

suo carattere. Un individuo, una tendenza, una comunità acqui- 

stano il proprio significato in questa totalità in base al loro 

rapporto interno con lo spirito del tempo. E in quanto ogni 

individuo è inserito in tale periodo, ne deriva pure che il suo 

significato per la storia consiste in questo suo rapporto con 

l'età. Quelle persone che procedono vigorosamente innanzi in 

un certo periodo sono gli esponenti dell’età, i suoi rappre- 

sentanti. 


In questo senso si parla di spirito di un’epoca, per esempio 

dello spirito del Medioevo o dell’Illuminismo. Da ciò risulta 

pure che ognuna di tali epoche trova una limitazione in un 

orizzonte di vita: con questo intendo la limitazione per cui gli 

uomini di un'età vivono in rapporto al suo pensiero, al suo 

modo di sentire, alla sua volontà. In essa c'è una relazione di 

vita, rapporti vitali, esperienza della vita e formazione intellet- 

tuale, che mantiene e lega gli individui in un determinato 

ambito di modificazioni dell’apprendimento, della formazione 

di valori e della posizione di scopi. Elementi inevitabili sovra- 

stano qui gli individui particolari. 


Accanto alla grande tendenza che domina e pervade un'inte- 

ra età, dando a quel periodo il suo carattere, ve ne sono altre 

che si contrappongono a essa. Esse mirano a conservare l’anti- 

co, osservano le conseguenze dannose dell’unilateralità dello spi- 



a. Già nel 1865, nel saggio su Novalis [ora in Er/ebnis und Dichtung] 

ho illustrato e impiegato il concetto storico di generazione, usandolo più 

ampiamente nel primo volume del Leben Schleiermachers e poi, nel 1875, 

nel saggio Uber das Studium der Geschichte der Wissenschaften vom Men- 

schen, der Gesellschaft und dem Staat [ora in Gesammelte Schriften, vol. 

V, pp. 31-73], sviluppandolo insieme ai concetti ad esso collegati. L’ulterio- 

re determinazione dei concetti di « continuità storica », « movimento sto 

rico », « generazione », «età », «epoca » è possibile soltanto nell’illustra- 

zione della costruzione delle scienze dello spirito. 



188 WILHELM DILTHEY 



rito dell’epoca e si rivolgono contro di questo; se invece si 

presenta qualcosa di creativo e di nuovo, che sorge da un altro 

sentimento della vita, allora comincia entro questo periodo il 

movimento indirizzato a produrre una nuova età. Ogni con- 

trapposizione resta quindi sul terreno dell’età o dell’epoca; ciò 

che in essa si oppone ha nel medesimo tempo la struttura di 

quell'età. In questo elemento creativo ha allora inizio un nuo- 

vo rapporto di vita, di relazioni vitali, di esperienza della vita 

e di formazione intellettuale. 


Così i rapporti di significato che esistono in un periodo tra 

le forze storiche sono fondati in quella relazione reciproca 

delle uniformità e delle connessioni dinamiche, che si possono 

designare come tendenze, correnti, movimenti. Da esse si pervie- 

ne per la prima volta al problema più complicato di determina- 

re analiticamente la connessione strutturale di un’età o di un 

periodo. 


Tale problema può venire illustrato considerando l’Illumini- 

smo tedesco dal punto di vista di questa interna connessione: 

compiendo l’analisi di un’età anzitutto in una nazione particola- 

re, si viene infatti a semplificare il compito. 


La scienza si era costituita nel secolo xvi. Dalla scoperta 

di un ordine legale della natura e dall’applicazione di questa 

conoscenza causale al dominio sulla natura era sorta la fiducia 

dello spirito in un regolare progresso della conoscenza. In que- 

sto lavoro di indagine le varie nazioni civili erano unite tra 

loro: così è sorta l’idea di un’umanità unita nel progresso. Si 

formò l’ideale di un dominio della ragione sulla società; esso 

ispirò le forze migliori; così queste si unirono in uno scopo 

comune, lavorando in base agli stessi metodi e attendendo dal 

progresso del sapere il miglioramento dell’intero ordinamento 

sociale. L'antico edificio alla cui costruzione avevano cooperato 

il dominio della chiesa, i rapporti feudali, il dispotismo illimita- 

to, i capricci dei principi, l'inganno pretesco — edificio sempre 

trasformato dai tempi e sempre bisognoso di nuovi restauri — 

doveva venir mutato in una costruzione razionale chiara e sim- 

metrica. Questa è l’unità interna in cui sono legate in una 

totalità la vita spirituale degli individui, la scienza, la reli- 

gione, la filosofia e l’arte nella connessione europea dell’Illumi- 

nismo. 



WILHELM DILTHEY 189 



Questa unità si compì in modo differente nei vari paesi, 

atteggiandosi in maniera particolarmente felice e solida in Ger- 

mania. Qui una tendenza generale si fece valere nella sua più 

alta vita spirituale. Se ci si rifà indietro in Germania si può 

trovare, a partire da Freidank”, la tendenza a subordinare 

coscientemente la vita a salde regole; e se si volesse designarle 

come morali, il fatto sarebbe rappresentato da un punto di 

vista unilaterale e determinato entro un ambito troppo ristret- 

to. La serietà dei popoli nordici è qui legata a un bisogno di 

riflessione, che deriva da un orientamento verso l’interiorità 

della vita ed è senza dubbio connesso con le situazioni politi- 

che. Come nell’immobilità della vita statale le clausole giuridi- 

che, i privilegi, gli accordi ostacolano il libero movimento del- 

la vita, così anche nell’individuo il sentimento dell’obbligazio- 

ne sovrasta la libera posizione di scopi: nel godimento della 

vita si scorge sempre qualcosa di illecito. I potenti lo arraffano 

per sé, ma in esso c'è qualcosa che mette in crisi la loro 

coscienza. Così nella filosofia tedesca del secolo xviti vi è un 

tratto fondamentale che unisce tra loro Leibniz, Thomasius *, 

Wolff”, Lessing, Federico il Grande, Kant e innumerevoli altri 

minori. Tale tendenza all’obbligazione e al dovere era stata 

promossa dallo sviluppo del Luteranesimo e della sua morale 

fin da Melantone. Essa era favorita dall’articolazione della so- 



17, Freidank, nome o (più probabilmente) pseudonimo di un poeta didattico te- 

desco della prima metà del secolo x1tr, che seguì Federico II in Palestina: il suo poema 

Bescheidenheit (pubblicato nel 1508) ebbc larga fortuna. 


18. Christian Thomasius (1655-1728), giurista e filosofo tedesco, autore di tre libri 

Institutionum iurisprudentiue divinae (1688), della Introductio in philosophiam ratio. 

nalem (1701), dei Fundamenta iuris naturae et gentium (1705) e di numerose altre ope- 

re soprattutto di etica, fu uno dei maggiori esponenti della scuola del diritto naturale 

alla fine del Seicento: la sua opera si ispira in larga misura all'insegnamento di Pu- 

fendorf. 


19. Christian Wolff (1679-1754), filosofo tedesco, è il principale rappresentante del- 

l'Illuminismo di derivazione Icibniziana: fu autore di numerosi manuali scientifici e di 

opere filosofiche come la Philosophia rationalis, sive logica methodo scientifico pertrac- 

tata (1728), la Philosophia prima sive Ontologia (1729), la Cosmologia generalis (1731), 

la Psychologia empirica (1732), la Psychologia rationalis (1734), la Theologia naturalis 

(1736-37), la Plilosophia practica universalis (1738-39), lo Jus naturae methodo scien- 

tifico pertractatum (1740-48), lo Ius gentium (1749), le Institutiones suris naturae (1750), 

la Philosophia moralis sive Ethica (1750-53) e l'Oeconomica (1750). Il suo lavoro di si- 

stemazione del sapere filosofico ebbe larga influenza nella cultura tedesca del Settecento, 

e ad esso si richiamerà anche Kant. 



190 WILHELM DILTHEY 



cietà in base al concetto di professione e di ufficio, che Lutero 

aveva introdotto nell’età moderna. E nella misura in cui la 

tendenza all’autonomia della persona progrediva nell’Illumini- 

smo, la perfezione diventava dovere: nella ragione vi è una 

legge naturale dello spirito, che richiede dall’individuo la realiz- 

zazione della perfezione in sé e negli altri. Questa esigenza è 

dovere: un dovere che non è imposto dalla divinità, ma che 

deriva dalla legge della nostra propria natura e può venir stabi- 

lito su basi razionali. Soltanto in seguito la regola razionale 

può venir riferita al fondamento delle cose: questa è la dottri- 

na di Wolff, che si rifà indietro a Pufendorf ”, Leibniz, Thoma- 

sius, e che procede in avanti fino a Kant, riempiendo tutta la 

letteratura dell’Illuminismo tedesco. In questa dottrina risiede 

il legame che unisce i Tedeschi dell’Illuminismo con i Tedeschi 

del secolo xvi, producendo uno spirito unitario in quest’epo- 

ca, un qualcosa di imponderabile che, ovunque modificato e 

pur sempre il medesimo, pervade l’intera nazione: una determi- 

nazione del valore della vita, che sta a base della connessione 

vitale dell’Illuminismo tedesco. Il nuovo schema di movimento 

dell’anima verso il suo valore supremo è fondato nel carattere 

razionale dell’uomo. La persona individuale realizza il suo sco- 

po in quanto divenuta maggiorenne in virtù delle sue capacità 

razionali, realizza in sé il dominio della ragione sulle passioni, 

e questo della ragione si manifesta come perfezione. In quanto 

la ragione è poi universalmente valida e a tutti comune, e la 

perfezione della totalità mediante la ragione è superiore alla 

perfezione dell'individuo — nel senso che la perfezione di tutti 

ha un valore superiore a quella di una persona sola — e sorge 

qui l'obbligazione suprema in virtù della quale l’individuo è 

legato al bene della totalità, ne deriva la più precisa determina- 

zione di questo principio come principio di perfezione di tutti 

gli individui, da raggiungersi mediante il progresso della totali- 

tà. Questo principio dell'Illuminismo non ha la sua base nel 

puro pensiero, e il suo dominio non poggia su questo, ma in 



20. Samuel von Pufendorf (1632-1694), giurista e filosofo tedesco, autore dei De 

iure naturae ei gentium libri octo (1672), dei De officio hominis et civis iuxta legem 

natttralem libri duo (1673) c di Eris scandica (1686), nonché di varie altre opere di ar- 

gomento storico e giuridico, è la maggiore figura del giusnaturalismo seicentesco. 



WILHELM DILTHEY 19I 



esso pervengono a un'espressione astratta tutti i valori della 

vita di cui hanno esperienza gli uomini dell’Illuminismo. Per 

queste menti, Wolff soprattutto, la perfezione diventa quindi, 

in modo abbastanza strano, un dovere, la tendenza verso di 

essa diventa una legge vincolante per l'individuo, e infine la 

divinità diventa per Wolff e i suoi scolari oggetto di doveri i 

quali hanno il loro centro di riferimento nella tendenza alla 

perfezione. La stessa esperienza della vita, in cui sono fondate 

queste idee, può venir studiata in Leibniz nel modo migliore. 

Essa poggia sull’Erlebnis della felicità dello sviluppo. E il gran- 

de pensatore, come poi anche Lessing, ripone nel progredire 

medesimo la suprema felicità dell’uomo, in quanto essa non 

può mai essergli offerta dal contenuto del momento. E che tale 

progredire non si riferisca a questo o a quello scopo partico- 

lare, ma allo sviluppo della persona individuale, comprenden- 

do e legando tutto ciò che vi è in essa, Leibniz per primo lo 

esprime mediante il suo Er/eden. Questo Erlebnis è stato ovun- 

que preparato dal fatto che l’individuo nell’infelicità della vita 

nazionale veniva spinto sempre verso se stesso, e indirizzato ai 

compiti culturali comuni. E così come Leibniz lo aveva enuncia- 

to, esso agì dappertutto. Con i concetti di valore derivanti 

dalla vita stessa, che Leibniz accoglieva, è determinato anche 

il compito che egli poneva alla sua filosofia, cioè quello di deri- 

vare il significato della vita e il senso del mondo dalla connes- 

sione dei valori individuali dell’esistenza. 


Così nell’età dell’Illuminismo una connessione unitaria con- 

duce dalla forma della vita all'esperienza della vita, dagli Erleb- 

nisse in essa contenuti alla loro rappresentazione in concetti di 

valore, in imperativi del dovere, in determinazioni di scopo, 

nella coscienza del significato della vita e del senso del mondo. 

In questa connessione cresce la coscienza che tale epoca ha di 

sé, e nel passaggio a formule astratte queste pervengono, me- 

diante la dimostrazione razionale, a un carattere assoluto; ven- 

gono formulati valori, obbligazioni, doveri, beni incondiziona- 

ti, mentre proprio qui lo storico percepisce chiaramente la loro 

origine dalla vita medesima. 


Se nella riflessione dell'individuo sulla vita troviamo in Ger- 

mania una tendenza alla sua formazione razionale, una tenden- 

za analoga si sviluppa nel medesimo tempo nella vita statale, 



192 WILHELM DILTHEY 



sulla base delle condizioni particolari della connessione dinami- 

ca della vita politica. 


Sempre più invadente diventava l’attività statale nello svilup- 

po europeo dell’età moderna, in tutti i vari campi della cultu- 

ra: nella burocrazia, nella classe militare, nelle istituzioni finan- 

ziarie risiede il centro di organizzazione di tutti i rapporti di 

forza, e l’attività dello stato diventa una forza propulsiva del 

movimento culturale. Su questo processo influiscono ovunque 

la lotta reciproca dei grandi stati per la potenza e per l'amplia- 

mento, e il bisogno interno di trasformare in una totalità unita- 

ria le parti messe insieme attraverso le guerre e le successioni 

ereditarie. L'unità degli stati moderni si concentra nel monar- 

ca, nella sua burocrazia e nel suo esercito. Ma essi debbono 

pervenire a una più salda articolazione dei loro organi e a un 

impiego più intensivo delle loro forze. Ciò diventa possibile 

soltanto con una più razionale condotta degli affari; il progres- 

so politico non avviene spontaneamente ma viene prodotto. 

Ogni attività dell’insieme è determinata da una razionale posi- 

zione di scopi. Questo insieme include sempre in sé vari compi- 

ti culturali — la scuola, la scienza, anche la vita ecclesiastica, 

ove essa può venir raggiunta. I prìncipi rappresentano in sé 

non solo l’unità, ma anche l’orientamento culturale di tutto lo 

stato. Le libere forze irrazionali della fedeltà della persona alla 

persona vengono sostituite da altre operanti in modo più calco- 

labile e più sicuro. Così anche nella vita statale si attua la 

relazione di forze che dà all’età illuministica la sua unità. 

All’ordine razionale della vita e all’utilizzazione razionale della 

natura, di cui lo stato ha bisogno, viene incontro il movimento 

scientifico fondato nel secolo xvII, e questo trova a sua volta 

nello stato l'organo necessario per sottoporre tutti i settori 

della vita a una regolamentazione razionale, dall'impresa eco- 

nomica alle regole del buon gusto nelle arti. 


Nessun paese era politicamente preparato come la Germania 

a questa interna relazione, nella quale risiedeva l’essenza dell’Il- 

luminismo. I suoi piccoli stati dipendevano dallo sviluppo della 

cultura, e la Prussia anche dal progredire delle forze spirituali 

necessarie alla lotta per il potere. La circolazione delle forze 

religiose e scientifiche, dalla vita delle comunità protestanti al 

sistema scolastico e alle università, da queste allo sviluppo del 



WILHELM DILTHEY 193 



pensiero religioso presso il clero e alle teorie giuridiche presso 

i giuristi, e poi di nuovo giù giù fino al popolo, non fu mai in 

alcun paese sviluppata come in esso. 


Nell’Illuminismo tedesco cooperano forze di origine assai 

diversa, e connessioni dinamiche colte in stati assai differenti 

del loro sviluppo. 


Mentre l’unità dello spirito dell’Illuminismo si realizza nel- 

la scienza e nella riflessione filosofica come nella vita sociale, 

essa viene ad attuarsi pure mediante l’efficacia di questo spirito 

in tutti i singoli campi della vita spirituale. Nello sviluppo del 

diritto troviamo in Germania un interessante esempio di tale 

fenomeno nell’origine della più compiuta legislazione dell’epoca, 

il diritto territoriale. A Halle, dallo spirito dello stato prussia- 

no si forma un indirizzo autonomo del diritto naturale e della 

giurisprudenza che su esso si fonda. Thomasius, Wolff, B6h- 

mer? e vari seguaci diffondono dappertutto, con i loro scritti, 

la concezione giuridica di tale scuola. Essi formano i funziona- 

ri adatti, per l’unità e il carattere nazionale del loro orienta- 

mento spirituale, a compiere l’opera legislativa, a lungo blocca- 

ta, della Prussia. Sotto l’influenza di questo diritto naturale 

stanno il re, che promuove tale opera, e i ministri e i consiglie- 

ri che la eseguono. La stessa connessione interna si trova nel 

movimento religioso dell’età illuministica: anch'esso mostra la 

duplicità peculiare dell’Illuminismo tedesco, in quanto è a un 

tempo polemico e costruttivo. La storia ecclesiastica, il diritto 

naturale e il diritto ecclesiastico cooperano nel Protestantesimo 

tedesco a formare una visione del Cristianesimo primitivo che 

in Bòhmer, Semler ”, Lessing, Pfaff” diventa la forza produtti- 



21. Johann Samuel Friedrich von Bòhmer (1704-1772), giurista tedesco, autore de- 

gli Elementa iurisprudentiae criminalis (1733), delle Observationes selectae ad B. Carp- 

zovii Practicam novam rerum criminalium (1759) e di Meditationes sulle recenti leggi 

penali (1770), fu uno dei più importanti studiosi di diritto penale del Settecento. 


22. Johann Salomon Semler (1725-1791), teologo protestante tedesco, autore delle 

Vorbereitungen zur theologischen Hermeneutik (1760-69), della /nstiturio brevior ad 

liberalem eruditionem theologicam (1765-66), dell'Apparatus ad liberalem Novi Testa- 

menti interpretationem (1769), delle Asketische Vorlesungen zur Beforderung einer 

verniinftiger Anwendung der christlichen Religion (1722) e di altre operc, sostenne — 

in polemica col Pietismo — una teologia liberale, fondata sulla distinzione della paro- 

la divina dalla parola della Bibbia. 


23. Christoph Matthàus Pfaff (1686-1760), teologo protestante tedesco, autore delle 

Institutiones theologiae dogmaticae et moralis (1719), del De origine iuris ecclesiastici 



13. STORICISMO TEDESCO. 



194 WILHELM DILTHEY 



va di un nuovo ideale della religiosità e dell'ordinamento della 

chiesa. E anche qui si ha la medesima circolazione delle idee 

che dall’insoddisfazione per lo stato presente e dalla forza posi- 

tiva delle nuove idee universali, attraverso le scuole e le univer- 

sità che sono indipendenti dal potere dell'ortodossia ecclesiasti- 

ca e che stanno in connessione con lo spirito scientifico, condu- 

ce alla formazione del singolo sacerdote che fa valere nella 

città o nella campagna un Cristianesimo illuminato, affine allo 

spirito dell’epoca. La religiosità cristiana non ha mai esercitato 

in nessun altro tempo all’infuori dell’Illuminismo tedesco un’in- 

fluenza così schietta, così coerente, così orientata verso le supre- 

me idee morali e religiose, e nel medesimo tempo così concorde 

con il teismo cristiano. Nuovi valori religiosi di grande portata 

si sono allora formati nella vita ecclesiastica e religiosa. Anche 

la poesia tedesca dell’epoca è determinata dalla trasformazione 

dei valori e degli scopi che si compie nell’età dell’Illuminismo. 

Negli stati indipendenti tedeschi l’Illuminismo incide sulla crea- 

zione poetica. Muovendo dalla Francia, anche in Germania 

viene elaborata la prosa moderna in rapporto con la società 

colta. Vengono assegnati ai generi poetici le loro regole, e 

queste disciplinano la forma superiore di arte fantastica di 

Shakespeare e di Cervantes in componimenti poetici articolati 

in maniera strettamente logica. L'ideale di questa poesia diven- 

ta l’uomo determinato dall’idea della perfezione e dell’Illumini- 

smo; e la sua intuizione del mondo è la fede nell’ordine teleolo- 

gico del mondo a partire dalla natura. La diretta espressione di 

questo ideale e di questa intuizione del mondo diviene la poe- 

sia didattica; ad essa seguono l’idillio e l’elegia. Non viene 

afferrato il carattere tragico della vita: la commedia, il dram- 

ma e soprattutto il romanzo diventano la suprema espressione 

poetica dell’epoca, e acquistano una struttura corrispondente: 

un realismo guidato da idee ottimistiche pervade ogni opera 

poetica. 


Questa connessione unitaria, nella quale si esprime nei di- 

versi campi della vita l'orientamento dominante dell’Illumini- 

smo tedesco, non determina però tutti gli uomini che apparten- 



(1719), delle Institutiones iuris ecclesiastici (1727) e di varie altre opere, fu uno dei 

maggiori rappresentanti della dottrina teologica della prima metà del Settecento. 



WILHELM DILTHEY 195 



gono a tale età; e anche là dove essa influisce, trova accanto a 

sé altre forze. Si fanno valere le opposizioni delle età preceden- 

ti: particolarmente efficaci si mostrano le forze che si riallaccia- 

no a situazioni e a idee antiche, cercando però di dare loro una 

nuova forma. 


Nella sfera religiosa si è presentato così il Pietismo. Esso è 

stato la più robusta tra le forze in cui l’antico ha assunto 

forme nuove. Esso è affine all’Illuminismo nella crescente in- 

differenza per tutte le forme ecclesiastiche esteriori e nell’esigen- 

za di tolleranza, ma soprattutto nel fatto che, al di là della 

tradizione e dell’autorità distrutte dalla critica, cerca un sempli- 

ce e chiaro fondamento di legittimità per la fede. Tale fonda- 

mento risiede nel contatto con Dio e nell’esperienza religiosa 

che ne deriva. Soltanto il convertito intende la Bibbia; a lui si 

rivela la parola divina che gli è partecipata in essa; egli è in 

grado di fare delle scoperte, per così dire, nel campo del Cristia- 

nesimo. La tolleranza del Pietismo sta nel riconoscimento di 

ogni fede cristiana fondata sulla conversione: il Pietista risve- 

gliato da essa deve completare la propria esperienza religiosa 

mediante la storia di conversioni altrui. E così vediamo che il 

Pietismo appartiene al grande movimento individualistico, poi- 

ché esso procede oltre il Luteranesimo escludendo la chiesa dal 

processo interiore della persona. Ma nel medesimo tempo si 

contrappone all’Illuminismo per la sua adesione alla fiducia di 

Lutero nell’esperienza religiosa derivante dal contatto con 

Dio. Il Pietismo si ritrova poi in un rapporto interno con la 

compiutezza raggiunta dalla nostra musica religiosa in J. S. 

Bach. Certo, Bach non era pietista, ma i canti dell'anima cri- 

stiana, che accompagnano la rappresentazione della vita di Cri- 

sto, mostrano già di per sé abbastanza chiaramente la sua con- 

nessione con la soggettiva interiorità religiosa, che era venuta 

in luce nel movimento pietistico. 


La medesima tendenza verso lo stato di cose esistente si 

manifesta di fronte alle tendenze politiche del governo illumi- 

nato. Essa è diretta al mantenimento del regno e dei privilegi 

di ceto nei singoli stati, e alla conservazione degli antichi dirit- 

ti. Ma anche queste tendenze raggiungono la loro più alta 

coscienza e la loro fondazione mediante lo studio della lettera- 

tura illuministica di teoria dello stato, e Ie proposte di Schlos- 



196 WILHELM DILTHEY 



ser e di Méser cercano anche di soddisfare i nuovi bisogni e 

lo spirito dell'Illuminismo. Le idee politiche dell'Illuminismo 

dovevano circondare Méser quando egli, in base alla situazione 

presente, sviluppava la sua comprensione di essa e le sue ten- 

denze pratiche. 


Dall’esempio dell’Illuminismo tedesco si comprende quindi 

la relazione interna delle tendenze che hanno determinato le 

antitesi c la mutabilità in tale periodo, allorquando si constata- 

no i momenti che, entro il suo orientamento fondamentale, 

rendono possibile rivolgersi verso il futuro. Proprio la ten- 

denza illuministica verso ciò che è regolare ha prodotto in 

diversi campi una penetrazione degli avvenimenti storici, in cui 

sembrava essersi realizzata la regola. Così nel Cristianesimo 

primitivo si trovava il tipo di una religiosità più libera e que- 

sta rafforzava la tendenza al suo studio in Thomasius, in B6h- 

mer e in Semler. Le regole, che la critica contemporanea stabili- 

va nell’arte, erano rafforzate dall’analisi approfondita del tipo 

dell’arte antica, e da questo punto di vista Winckelmann e 

Lessing illustravano l’arte antica e le leggi della creazione arti- 

stica, spiegando l’un termine con l’altro. Un altro momento 

dell’orientamento verso i compiti del futuro stava nel fatto che 

la comprensione della persona singola conduceva a porre l’ac- 

cento sull'individualità della creazione e del genio. 


Se ci chiediamo poi come, in mezzo al corso degli eventi 

che trascina la Germania e procede dando luogo a ininterrotti, 

continui mutamenti, possa venir delimitata tale unità, la rispo- 

sta è anzitutto questa: che ogni connessione dinamica reca in 

sé la sua legge, e le sue epoche sono del tutto diverse da quelle 

delle altre in virtù di tale legge. Così la musica ha un movi- 

mento peculiare, secondo cui lo stile religioso che scaturiva 

dalla massima forza dell’ErleBnis cristiano raggiungeva il suo 

culmine nella stessa età con Bach e con Hiindel, quando l’Illu- 

minismo era già la tendenza dominante in Germania. E nella 

stessa epoca in cui sorgono le più importanti opere di Lessing 



24. Johann Georg Schlosser (1739-1799), giurista c uomo politico tedesco, autore 

del Kasechismus der Sittenlehre fiirs Landvolk (1771), dell’Anti-Pope, oder Versuch 

tiber den natiirlichen Menschen (1776), dei Politische Fragmente (1777), del saggio Uber 

Scelenwanderung (1781), fu esponente dell'Illuminismo tedesco; polemizzò contro la 

filosofia kantiana, 



WILHELM DILTHEY 197 



nasce il nuovo movimento creatore dello Sturm «nd Drang, 

che segna l’inizio di un'epoca successiva nella letteratura. 

E se ci chiediamo quali siano i legami che creano un’unità tra 

le diverse connessioni dinamiche, la risposta è questa: essa non 

è un’unità esprimibile in un pensiero fondamentale, ma piutto- 

sto una connessione tra le tendenze della vita medesima, che si 

costituisce nel suo corso. 


Nel corso storico si possono delimitare periodi nei quali, 

dalla costituzione della vita fino alle idee supreme, un'unità 

spirituale si forma, raggiunge il suo culmine e di nuovo si 

dissolve. In ognuno di tali periodi vi è una struttura interna 

che esso ha in comune con gli altri, e che determina la connes- 

sione delle parti del tutto, il corso e le modificazioni nelle 

tendenze: noi vedremo in seguito a che cosa può servire il 

metodo di comparazione per l'apprendimento della struttura. 

Nell’efficacia costante dei rapporti strutturali generali ci si rive- 

la anzitutto il significato e il senso della storia. Nel modo in 

cui questi dominano in ogni punto e in ogni età, determinando 

la vita dell’uomo, risiede in primo luogo il senso del mondo 

spirituale. Il compito è ora quello di studiare sistematicamente 

le regolarità che costituiscono la struttura della connessione di- 

namica nei suoi portatori, a partire dall’individuo. In qual modo 

queste leggi strutturali consentano di formulare asserzioni sul 

futuro, può venir determinato solo se è posto tale fondamento. 


L'aspetto immutabile e regolare dei processi storici è il primo 

oggetto di studio, e da ciò dipende la risposta a tutte le questio- 

ni sul progresso nella storia, e sulla direzione in cui si muove 

l'umanità. La struttura di una certa età si mostra quindi come 

una connessione delle connessioni e dei movimenti particolari 

entro il grande complesso dinamico di tale età. In base a mo- 

menti quanto mai molteplici e mutevoli viene a costituirsi una 

totalità più complicata; e questa determina il significato che 

riveste tutto ciò che agisce nell’epoca. Quando lo spirito di tale 

età è nato da dolori e dissonanze, allora ogni individuo ha in 

esso e mediante esso il suo significato. Da questa connessione 

sono in primo luogo determinati i grandi uomini storici: la 

loro creazione non si muove a distanza storica, ma assume i 

suoi fini dai valori e dalla connessione di significato dell'età 

medesima. L'energia produttiva di una nazione in un dato 



198 WILHELM DILTHEY 



tempo riceve la sua forza maggiore proprio in quanto gli uomi- 

ni di tale età sono limitati entro il suo orizzonte; il loro lavoro 

serve alla realizzazione di ciò che costituisce la tendenza fonda- 

mentale dell’ epoca. Così essi diventano i loro rappresentanti. 


Tutto in un'età acquista il suo significato dalla relazione 

con l’energia che dà ad essa il suo orientamento fondamentale. 

Essa si esprime nella pietra, sulla tela, nelle azioni o nelle 

parole; e si oggettiva nella costituzione e nella legislazione 

delle nazioni. Pieno di essa, lo storico penetra le epoche passa- 

te, e il filosofo cerca in base ad essa di interpretare il senso del 

mondo. Tutte le manifestazioni dell'energia che determina l’e- 

poca sono imparentate tra di loro. Qui si presenta il compito 

dell’analisi, cioè il compito di riconoscere nelle diverse manife- 

stazioni della vita l’unità della determinazione di valore e della 

tendenza verso uno scopo. E in quanto le manifestazioni di 

vita di questa tendenza spingono verso valori e scopi assoluti, 

si chiude il cerchio in cui sono racchiusi gli uomini di questa 

età; poiché in esso sono contenute pure le tendenze che vi si 

contrappongono. Si è visto come il tempo imprime anche su di 

esse la propria impronta e come la tendenza dominante ostaco- 

la il loro libero sviluppo. Così l’intera connessione dinamica 

dell’epoca è determinata in forma immanente dal nesso della 

vita, del mondo affettivo, della formazione di valori e delle 

relative idee di scopo. È storico ogni agire che si inserisca in 

questa connessione: essa costituisce l'orizzonte dell’età, e da 

essa è determinato infine il significato di ogni parte in questo 

sistema dell’epoca. Tale è l’autocentralità delle età e delle epo- 

che, in cui si risolve il problema del significato e del senso che 

sì possono trovare nella storia. 


Ogni età contiene il riferimento retrospettivo a quella prece- 

dente e continua le forze sviluppatesi in quella, ma nel medesi- 

mo tempo è già presente in essa la tendenza creativa che prepa- 

ra l’età successiva. Come essa è sorta dall’insufficienza dell'età 

che la precede, così reca con sé i limiti, le tensioni e la sofferen- 

za che preparano l’età posteriore. E poiché ogni forma della 

vita storica è finita, deve esservi contenuta una mescolanza di 

forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esistenza e di 

ristrettezza della vita, di soddisfacimento e di bisogno. Il culmi- 

ne degli effetti della sua tendenza fondamentale è breve; e da 



WILHELM DILTHEY 199 



un'età all’altra Ia fame passa attraverso tutti i modi di soddisfa- 

cimento, senza mai poter essere saziata. 


Qualsiasi cosa ci risulti in merito al rapporto delle età e dei 

periodi storici tra loro, in relazione alla crescente complessità 

della struttura della vita storica, è proprio della natura finita di 

tutte le forme della storia che esse siano accompagnate dall’atro- 

fia e dalla schiavitù, cioè da una brama insoddisfatta: e questo 

soprattutto in quanto i rapporti di potere non possono venir 

eliminati dalla vita comune degli esseri psico-fisici. Come lo 

stato sovrano dell’età illuministica produceva pure le guerre di 

gabinetto e lo sfruttamento dei sudditi per il godimento della 

corte, al pari della tendenza allo sviluppo razionale delle for- 

ze, così ogni altro ordinamento dei rapporti di potere racchiude 

pure una siffatta duplicità di effetti. E il senso della storia può 

venir cercato soltanto nel rapporto di significato di tutte le 

forze legate nella connessione delle varie età. 



10. L'elaborazione sistematica delle connessioni dinamiche e dei 

rapporti di comunanza. 



In quanto la comprensione della storia avviene mediante 

l'applicazione ad essa delle scienze sistematiche dello spirito, 

l’illustrazione precedente della connessione logica della storia 

ha già rivelato i caratteri generali della sistematica delle scien- 

ze dello spirito. Infatti l'elaborazione sistematica delle connes- 

sioni dinamiche, poste in luce entro la storia, ha come proprio 

fine la scoperta dell’essenza di tali connessioni dinamiche. Per 

ora mi limito a stabilire solo i seguenti tre punti di vista per 

l'elaborazione sistematica. 


Lo studio della società poggia sull’analisi delle connessioni 

dinamiche contenute nella storia. Quest’analisi procede dal con- 

creto all’astratto, dallo studio scientifico dell’articolazione natu- 

rale dell'umanità e dei popoli verso la distinzione delle singole 

scienze della cultura e la separazione dei campi dell’organizza- 

zione esterna della società *. 


Ogni sistema di cultura forma una connessione dinamica 



a. Ciò è trattato più ampiamente nell’Einleitung in die Geisteswissen- 

schaften, p. 44 sgg. [ora in Gesammelte Schriften, vol. I, p. 35 sgg.]- 



200 WILHELM DILTHEY 



che poggia su rapporti di comunanza; poiché la connessione 

compie un'operazione, essa ha un carattere teleologico. Ma qui 

si presenta una difficoltà riguardante l’elaborazione concettuale 

che avviene in queste scienze. Gli individui, che cooperano in 

tale operazione, appartengono alla connessione soltanto nei pro- 

cessi in cui collaborano a realizzare l’operazione stessa, ma 

tuttavia agiscono con tutto il loro essere, e quindi un campo 

siffatto non si può mai costruire in base allo scopo dell’operazio- 

ne, poiché accanto all’energia orientata verso tale operazione 

stanno sempre anche gli altri aspetti della matura umana; e si 

fa valere la sua mutabilità storica. Qui risiede il problema 

logico fondamentale della scienza dei sistemi di cultura; e ve- 

dremo come per la sua soluzione si sono formati e combattuti 

metodi differenti. 


A questa difficoltà si aggiunge un limite che riguarda l’ela- 

borazione concettuale delle scienze dello spirito: esso deriva 

dal fatto che le connessioni dinamiche realizzano operazioni e 

hanno un carattere teleologico. L'elaborazione concettuale non 

è pertanto qui una semplice generalizzazione che ricavi l’ele- 

mento comune dalla serie dei casi particolari. Il concetto espri- 

me un tipo, e sorge nel procedimento comparativo. Ad esem- 

pio, io cerco di precisare il concetto di scienza, comprendendo 

sotto di essa ogni connessione diretta a ottenere una conoscen- 

za. Tuttavia entro i libri dedicati a lavori scientifici vi è molto 

di infruttuoso e di illogico, cioè di erroneo: ciò contraddice 

all’intenzione orientata verso la loro funzione. L'elaborazione 

concettuale pone in luce quei tratti in cui è realizzata la funzio- 

ne di tale connessione: questo è il compito della dottrina della 

scienza. Oppure, se voglio precisare il concetto di poesia, an- 

che qui ha luogo una costruzione concettuale a cui non tutti i 

versi possono venir subordinati. La molteplicità dei fenomeni 

in un campo siffatto si raggruppa intorno a un punto centrale, 

costituito dal caso ideale in cui l'operazione è realizzata in 

modo compiuto. 


La discussione intorno alla connessione generale delle scien- 

ze dello spirito è pertanto conclusa. L'analisi seguente della 

costruzione delle scienze dello spirito illustrerà i metodi partico- 

lari in cui si realizza la connessione logica generale. 



IL MONDO STORICO * 



1. L'uomo storico!. 



Il mondo storico esiste sempre, e l’individuo non lo conside- 

ra soltanto dall’esterno, ma è intrecciato in esso; né è possibile 

scindere queste relazioni. Ciò che rimarrebbe sarebbe soltanto 

la condizione inafferrabile dalla quale si dovrebbero derivare, 

astratte dal corso storico, le condizioni necessarie di questo 

corso in tutte le età insieme con il dato: problema insolubile al 

pari di quello della possibilità della conoscenza prima o indi- 

pendentemente dal conoscere stesso. Noi siamo esseri storici 

prima di considerare la storia, e soltanto perché siamo quelli 

diveniamo questi. 


Tutte le scienze dello spirito poggiano sullo studio della 

storia trascorsa fino a ciò che sussiste nel presente, in quanto 

questo è il limite di ciò che rientra nella nostra esperienza 

relativa all'oggetto costituito dall’umanità. Quello che può ve- 

nir immediatamente vissuto, inteso e tratto fuori dal passato 

nella coscienza, viene qui compreso: in tutto questo noi cerchia- 

mo l’uomo, e anche la psicologia è soltanto una ricerca dell’uo- 



* Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichilichen Welt in den Geisteswis- 

senschaften: Zweîtes Projekt einer Fortsetzung, in Gesammelte Schriften, Leipzig und 

Berlin, vol. VII, 1927, pp. 277-282, 287-291 (Secondo progetto: il problema della sto- 

ria, tr. it. di Pietro Rossi, in Critica della ragione storica, Torino, Einaudi, 1954, 

PP. 372-384). — Non sono stati tradotti alcuni paragrafi che, per il loro carattere di 

puri e semplici appunti, nonché per le frequenti interruzioni del discorso, sarebbero 

risultati di troppo difficile lettura. I passi omessi vengono indicati di volta in volta 

nelle note. 



1. Non è stata tradotta la parte iniziale del paragrafo (Gesammelte Schriften, vol. 

VII, p. 276-77). 



202 WILHELM DILTHEY 



mo in ciò che viene immediatamente vissuto e inteso, nelle 

espressioni e negli effetti che ne derivano. Perciò ho indicato 

come compito fondamentale di ogni riflessione sulle scienze 

dello spirito quello di una critica della ragione storica. Occorre 

che la ragione storica risolva il compito rimasto fuori dall’ambi- 

to visuale della critica della ragione di Kant, il cui problema è 

stato determinato in riferimento ad Aristotele, secondo cui la 

conoscenza avviene nel giudizio. 


Noi dobbiamo uscire dall’aria pura e raffinata della critica 

della ragione kantiana per adeguarci alla natura del tutto diffe- 

rente degli oggetti storici. Qui si presentano le questioni se- 

guenti: io ho esperienza immediata delle mie situazioni e sono 

intrecciato nelle azioni reciproche della società come punto di 

incrocio dei suoi diversi sistemi, i quali sono sorti dalla stessa 

natura umana che io vivo in me e intendo negli altri. La 

lingua in cui penso è sorta nel tempo, i miei concetti si sono 

formati in esso: io sono, fino alla profondità non più penetrabi- 

le del mio io, un essere storico. In tal modo si presenta il primo 

importante momento per la soluzione del problema conoscitivo 

della storia: la prima condizione di possibilità della scienza 

storica risiede nel fatto che io stesso sono un essere storico, € 

che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la storia. 

Così sono possibili giudizi storici sintetici e universalmente vali- 

di. Ma i princìpi della scienza storica non possono essere 

formulati in princìpi astratti che esprimano equivalenze, poi- 

ché, in conformità alla natura del loro oggetto, debbono poggia- 

re su rapporti fondati nell’Erleden. Nell'Erleben vi è la 

totalità del nostro essere, che riproduciamo poi nell’intendere: 

qui è dato il principio della reciproca affinità tra gli individui. 



2. Il concetto storico. 



L’uomo si conosce soltanto nella storia, mai mediante l’in- 

trospezione. In fondo noi tutti lo cerchiamo nella storia, anzi 

vi cerchiamo anche l’elemento umano quale si manifesta nella 

religione, ecc.: noi vogliamo sapere che cosa esso sia. Se vi 

fosse una scienza dell’uomo, questa sarebbe un’antropologia ca- 

pace di intendere la totalità degli Erlebnisse secondo la loro 

connessione strutturale. L’uomo singolo realizza sempre una 



WILHELM DILTHEY 203 



sola possibilità del suo sviluppo, che poteva sempre assumere 

un’altra direzione in base all'orientamento del suo volere. L’uo- 

mo in generale esiste per noi solo sotto la condizione di certe 

possibilità realizzate. Anche nei sistemi di cultura noi cerchia- 

mo una struttura antropologicamente determinata, nella quale 

si attua un x; e noi lo diciamo essenza, ma questa è soltanto 

una parola per designare un procedimento spirituale che costi- 

tuisce una connessione concettuale in questo campo. Anche qui 

le possibilità di tale campo non vengono esaurite. 


L'orizzonte si allarga. Infatti, anche quando lo storico ha 

dinanzi a sé un materiale limitato, mille fili lo conducono 

sempre più avanti nell’illimitatezza di tutti i ricordi del ge- 

nere umano. La storiografia comincia in quanto, muovendo dal 

presente e dal proprio stato, si rappresenta ciò che ancora qua- 

si vive nella memoria della generazione presente; ciò costitui- 

sce un ricordo ancora in senso proprio. Oppure vengono stesi 

degli annali in cui si registra, procedendo negli anni, ciò che è 

accaduto. Col procedere della storia lo sguardo si allarga al di là 

del proprio stato, e una sezione sempre più vasta del passato 

entra nel regno dei morti della memoria. Di tutto ciò è rimasta 

l’espressione dopo che la vita stessa è trascorsa, sia sotto forma 

di espressione diretta, con la quale certe anime hanno manife- 

stato ciò che sono state, sia sotto forma di narrazioni relative 

ad azioni e a situazioni di individui, di comunità e di stati. E 

lo storico sta in mezzo a tutti questi resti di cose passate, e di 

manifestazioni di anime racchiuse in fatti, parole, suoni, imma- 

gini di anime che da tempo non sono più. Come deve egli 

evocarle? Tutto il suo lavoro diretto a tal fine poggia sull’inter- 

pretazione dei resti conservati. Si pensi a un uomo che non 

abbia alcun ricordo del suo passato, ma che pensi o agisca 

soltanto in base a ciò che questo passato ha prodotto in lui, 

senza esser cosciente di alcuna sua parte: tale sarebbe anche la 

situazione delle nazioni, delle comunità, dell'umanità medesi- 

ma se essa non riuscisse a completare i resti, a interpretare le 

espressioni, a ricondurre la narrazione dei fatti dal loro isola- 

mento alla connessione in cui sono sorti. Tutto questo è inter- 

pretazione, ossia un’arte ermeneutica. 


Il problema è ora di vedere quale forma questa assuma 

quando essa è completamente staccata dall’esistenza individua- 



204 WILHELM DILTHEY 



le, e si debbono formulare asserzioni su soggetti che costituisco- 

no in qualche senso delle connessioni di persone, cioè su sistemi 

di cultura, nazioni o stati. 


Anzitutto occorre qui un metodo per ritrovare, in questa 

illimitata azione reciproca tra esistenze individuali, delle rigoro- 

se delimitazioni, quando queste mancano invece nell’unità vi- 

vente della persona. È come se si dovessero tirare linee e 

disegnare figure che rimangono ferme nella corrente continua 

di un fiume. Tra questa realtà e l’intelletto non sembra possibi- 

le alcun rapporto conoscitivo, poiché il concetto separa ciò che 

è legato nel fluire della vita e rappresenta qualcosa di valido 

universalmente e per sempre, indipendentemente dalla mente 

che lo ha formulato, mentre il fluire della vita è ovunque 

soltanto singolare, e ogni onda va e viene entro di esso. Questa 

difficoltà, dopo che Hegel contrappose per primo la conoscenza 

intellettuale, caratteristica dell’Illuminismo, all'essenza del mon- 

do storico € umano, costituisce il problema proprio del metodo 

storico. Ma questo problema può venir risolto: non abbiamo 

bisogno di rifugiarci nell’intuizione e di rinunciare ai concetti, 

ma dobbiamo invece rielaborare i concetti storici e psicologici. 

È stato merito geniale di Fichte aver formulato tali concetti 

adatti alla vita psichica e in generale allo spirito, mettendo 

l'energia al posto della sostanza, e ponendo le attività spirituali 

in relazione con le precedenti e in antitesi con quelle contempo- 

ranee, in modo che venga a delinearsi un progredire che diven- 

ta possibile in virtù del tempo, dell’energia che in questo 

opera e dell’unità che si differenzia. Tuttavia egli si è limitato a 

formulare questo schema di dinamica psichica, ma la sua realiz- 

zazione si richiama ai concetti kantiani anziché alla realtà. Her- 

bart e Hegel non sono pervenuti neppur essi all'aria aperta del 

mondo storico reale. Tuttavia ciò è stato l’inizio di uno sconvol- 

gimento di tutto il pensiero relativo al mondo storico, in una 

connessione interna che scaturisce nella maniera più chiara nel 

Romanticismo, prima con Niebuhr e poi con Hegel e con Ran- 

ke, conducendo così alla moderna storiografia. Noi possiamo 

liberarci dalla confusione concettuale in cui quest’antitesi tra 

realtà storica e conoscenza intellettuale si esprimeva allora me- 

diante concetti ispirati al principio di identità, in quanto guar- 

diamo alla natura stessa dei concetti storici. Il loro carattere 



WILHELM DILTHEY 205 



logico è l'indipendenza dell’asserzione dal soggetto in cui si 

presentano e dal momento in cui essa ha luogo: la loro validità 

è indipendente dal luogo e dal tempo in senso psicologico. Il 

loro contenuto è invece l’accadere, il corso di qualsiasi specie; 

l’asserzione è indipendente dal tempo, mentre ciò che viene 

espresso è il corso temporale. Anzi, non tutti i concetti storici ri- 

sultano correttamente formulati da questo punto di vista; ma, 

soltanto in quanto lo sono, possono occupare un posto nell’ap- 

prendimento del mondo storico. Nel medesimo tempo i concet- 

ti esistenti debbono spesso venir rielaborati in modo che possa 

esprimersi in essi ciò che è mutevole e dinamico. 


In fondo il problema appare simile a quello della matematica 

superiore, che cerca di dominare i mutamenti della natura. Ogni 

parte della storia, ad esempio un'età, non può venir colta me- 

diante concetti che esprimano qualcosa di stabile in essa, cioè in 

un sistema di relazioni tra qualità definite, quali sarebbero state 

per l’età illuministica l'autonomia nello stato o l’Illuminismo 

nella vita spirituale. In tal modo non si coglie la natura specifi- 

ca del tempo, ma si tratta piuttosto di un sistema di relazioni 

le cui parti sono dinamiche e inoltre mostrano continui muta- 

menti qualitativi nell'azione reciproca. Infatti le relazioni me- 

desime, poggiando sull’azione reciproca tra forze, sono mutevo- 

li, cioè ognuna di esse racchiude in sé una regola di mutamen- 

to. Applicando questo al periodo illuministico risulta che l’'ordi- 

ne sociale che era esistito fino al termine del secolo xvi e all’ini- 

zio del xvi diventa impossibile poiché i contrasti tra gli interessi 

particolari della nobiltà, dei ceti e del governo, e quelli tra gli 

interessi delle province tra di loro e in rapporto all'insieme, 

non consentono in Germania il sorgere di una volontà statale 

unitaria, una cura comune per il tutto e un continuo persegui- 

mento degli scopi statali. Diverse sono invece le epoche nelle 

quali, in Inghilterra, in Francia e in Italia, si fa valere la 

medesima insufficienza dell’esistenza politica. Essa diventava 

insopportabile verso l’esterno, poiché l'aspirazione alla potenza 

in questi stati concorrenti si manifestava assai diversamente che 

in qualsiasi epoca precedente. Essi erano sorti l’uno accanto 

all’altro, condizionati nella loro forma soprattutto dall’eredità 

e dalla guerra, senza ancora esser legati da nessuna letteratura 



206 WILHELM DILTHEY 



unitaria e da nessuna lingua comune sviluppatasi entro di que- 

sta. Tale letteratura, e tale lingua, fu creata per la prima volta 

per gli Italiani da Dante. In tal modo sorse la tendenza all’uni- 

tà nazionale, che però non trovò alcuna possibilità di attuazio- 

ne per la politica contrastante dei tiranni e delle repubbliche, 

secondo la situazione delle forze. Tale sviluppo ha avuto luogo 

altrimenti sia in Inghilterra sia in Francia; mentre per la Ger- 

mania il momento decisivo è stata la terribile pressione che 

grandi stati quali la monarchia universale spagnola e la poten- 

za francese hanno esercitato su un paese che è stato in tal 

modo costretto a cercare la sua unità nazionale. 


Sorge però ora la questione del modo in cui può formarsi nel- 

lo storico una connessione che non è prodotta da una mente né è 

immediatamente vissuta, e neppure può venir ricondotta all’Er- 

lebnis di una persona, in base alle sue espressioni e alle asserzioni 

relative ad esse. Ciò ha come presupposto la possibilità di for- 

mare soggetti logici, e non psicologici. Devono quindi esserci 

strumenti per delimitarli e un fondamento di legittimità per ap- 

prenderli come unità o connessione. Noi cerchiamo l’anima: 

questo è l’ultimo punto a cui siamo pervenuti nel lungo sviluppo 

della storiografia. Ma qui si pone il problema: certamente ogni 

azione reciproca avviene tra unità psichiche, ma per quale via 

noi troviamo un’anima dove non c'è anima individuale? La 

base più profonda è offerta dalla vita e da ciò che da essa 

procede, dal raggiungimento della vitalità e, per così dire, 

dalla melodia della vita psichica nell’eliminazione di ogni rego- 

la rigida”. 



3. Il progresso. 



Quando si parla della storia, il presupposto dell’intendere 

storico sta nel fatto che vi sia un significato dei momenti 

storici e un senso del corso storico. Secondo questo presuppo- 

sto, anche se lo scopo della sua esistenza è posto nell’individuo 

stesso, nella storia dovrebbe tuttavia esserci un progredire della 



2. Non sono stati tradotti i paragrafi sulle nazioni e sullc ctà (Gesammelte Schrif- 

ten, vol, VII, p. 282-87). 



WILHELM DILTHEY 207 



felicità individuale e un estendersi della felicità a molti: questa 

è insomma la concezione dei moderni storici inglesi. Ma tale 

concezione procede al di là di se stessa: anche se qui il progres- 

so della vita individuale di generazione in generazione è conce- 

pito come un’azione quasi meccanica di accumulazione di valo- 

ri, viene in tal modo presupposto un modo di azione nella cui 

natura è insito un progresso. Proprio in questa maniera agisce 

nella storia un rapporto in virtù del quale il suo corso ha un 

senso; infatti questo termine designa soltanto il presupposto in 

base al quale può venir inteso il corso storico, ma non un’affer- 

mazione su qualche forza distinguibile dal modo di agire mede- 

simo, la quale possa conferire alle varie parti del corso il loro 

significato core un'essenza immanente a questo corso. 


In ciò risiede soltanto la condizione sotto cui può venir 

intesa la storia, e il prodotto e il risultato di questa è la 

storia universale. Ma anche qui non c’è alcun presupposto ulte- 

riore su qualsiasi agente unitario nella storia, sia esso un 

agente immanente o una condizione reale, il quale possa venir 

considerato nella filosofia della storia come provvidenza o co- 

me scopo immanente o come forza di svolgimento storico. 



4. La connessione storica universale: dalla fatticità all’ideale. 



Le epoche sono differenti tra loro per struttura. Ad esem- 

pio, il Medioevo contiene una connessione di idee affini che 

dominano nei suoi vari campi, quali le idee di fedeltà nel 

feudalesimo, la successione di Cristo come principio di obbe- 

dienza, il cui contenuto è costituito dalla trascendenza dello 

spirito rispetto alla natura in virtù dell’abnegazione, la succes- 

sione teleologica di gradi nella scienza. Ma si deve riconoscere 

che lo sfondo di queste idee è la violenza, che questo mondo 

più alto non può superare. 


E ovunque è così: la fatticità della razza, dello spazio e dei 

rapporti di violenza costituisce la base che non può mai venir 

elevata spiritualmente. È stato un sogno di Hegel credere che 

queste età costituiscano un grado dello sviluppo della ragione: 

rappresentare un’età implica sempre un chiaro sguardo su tale 

fatticità, Ma c’è tuttavia una connessione interna, la quale con- 



208 WILHELM DILTHEY 



duce dai rapporti condizionanti, dalla fatticità, dalla lotta delle 

forze allo sviluppo degli ideali. 


Ogni situazione data in questa serie senza fine condiziona un 

mutamento, poiché i bisogni, che trasformano le energie esistenti 

în attività, non possono mai venir soddisfatti, e il desiderio di 

ogni specie di soddisfacimento non può mai venir saziato. 


Ogni forma della vita storica è finita, e contiene perciò un 

insieme di forza gioiosa e di pressione, di estensione dell’esisten- 

za e di ristrettezza della vita, di soddisfazione e di penuria, 

provocando così le tensioni di forza e una nuova distribuzione 

da cui derivano di continuo altre azioni. Inoltre, soltanto in 

pochi punti della vita storica vi è un temporaneo stato di 

quiete, le cui cause sono diverse — equilibrio, forze opposte, 

ecc.: ma la storia è movimento. 


Anche nello stesso procedere c’è una felicità, poiché in esso 

si risolve la tensione e si realizza l’ideale. Tra la morta necessi- 

tà di fatto e Ja più alta vita spirituale sta il continuo sviluppo 

dell’organizzazione, dell’istituzione, dell'impiego regolato della 

forza: l'intelletto crea, per così dire, meccanismi che servono al 

soddisfacimento dei bisogni, perfezionandoli di continuo. Lo 

scopo, che l’intelletto pone, dà luogo a tali meccanismi, che 

possono essere tanto ferrovie quanto armate, tanto fabbriche 

quanto miglioramenti costituzionali: essi costituiscono il cam- 

po proprio dell'intelletto, che cerca mezzi per certi scopi e 

calcola le azioni come cause. 


Qui appare una combinazione, la quale rivela propriamente 

l’essenza della storia. La sua base è la fatticità irrazionale, da 

cui deriva da un lato il parteciparsi della tensione fino ai 

meccanismi e dall’altro la differenziazione in nazioni, in costu- 

mi, in forme di pensiero, fino all’individualità su cui riposa la 

vera e propria storia dello spirito. 



5. Realtà, valori, cultura. 



Gli avvenimenti diventano significativi in quanto si riferisco 

no a una connessione per la quale essi lo sono. Se mi formo un 

concetto di connessione di valore fondata sovra-individualmente 

e trascendentalmente — poiché trascendentale è ogni determina- 

zione avente la sua base nel sovra-individuale — allora sorge la 



WILHELM DILTHEY 209 



questione se tale procedimento sia possibile, anche se si inten- 

dessero soltanto punti di riferimento formali, dotati di caratte- 

re incondizionato, per ciò che è empirico. Ma se si lascia da 

parte tale fondazione mediante la filosofia trascendentale, non 

c’è più alcun metodo per stabilire norme, valori o scopi incondi- 

zionati: ve ne sono soltanto di quelli che avanzano la pretesa a 

una validità incondizionata, ma che, per la loro origine, sono 

inficiati di relatività. 


Noi attribuiamo invece un significato effettivo a qualsiasi 

connessione di tipo reale o ideale, in rapporto a cui un uomo o 

un avvenimento acquisti questo carattere. Quando considero 

nella connessione dinamica un luogo in quanto tale, come fa 

Meyer?, e lo valuto in conformità al presente, dovrei però 

avere prima un criterio che serva a determinare ciò che è 

significativo nel presente, perché altrimenti sarebbe significati- 

vo tutto ciò che ha agito sull’infinita serie delle situazioni 

presenti. E una cosa è chiara: che io trovo significativo nel 

presente ciò che è fecondo per il futuro, per la mia azione in 

esso, per il progredire della società verso tale futuro. 


E qui vedo in maniera assai chiara, nella mia posizione pra- 

tica, che, se voglio regolare il futuro, io parto da giudizi univer- 

salmente validi su ciò che deve essere realizzato. Il presente non 

contiene situazioni, ma processi e connessioni dinamiche, che 

racchiudono anche il procedere verso il futuro di qualcosa che 

può venir prodotto. La frase di Bismarck, secondo cui egli sareb- 

be stato collocato dalla sua religione e dal suo stato in una posizio- 

ne nella quale il servizio di tale stato era più importante di 

ogni altro compito culturale, aveva per lui una validità univer- 

sale in virtù del suo fondamento religioso. Da ciò deriva che 

noi dobbiamo ammettere tale rapporto anche per il passato. In 

un’età si sviluppano norme, valori, scopi universali, in rap- 

porto ai quali deve esser anzitutto compreso il significato delle 

azioni. Se questi debbano venir determinati solo in una limita- 

zione o incondizionatamente, è una questione ulteriore. Sembra 



3. Eduard Meyer (1855-1930), storico tedesco autore di una monumentale Ge- 

schichte des Altertums (1884-1902), nonché di altri importanti volumi sulla cronologia 

dell'antico Egitto, su Cesare e Pompeo, sulle origini del Cristianesimo. Dilchey si ri- 

ferisce qui alla tesi sostenuta in Zur TAcorie und Methodik der Geschichte, Halle, 1902. 



14. STORICISMO TEDESCO. 



210 WILHELM DILTHEY 



che anche in una nazione abbia luogo un antagonismo a propo- 

sito dei valori. 


In questa maniera si perviene al principio che lo svilu 

po di tali idee si muove entro contrapposizioni (Kant, Hegel) 

che sono contenute entro il corso dello svolgimento delle istitu- 

zioni, di modo che il loro rapporto reciproco rende sempre 

possibile un’altra posizione più ampia e più libera. Anzitutto 

non vi sono valori che valgano per tutte le nazioni. Nell'Impe- 

ro romano si è sviluppata una concezione aristocratica dell’uma- 

nità come sostegno dell’humanitas; nel Cristianesimo l’umani- 

tà è divenuta soggetto di valore; tale concezione si è poi trasfor- 

mata nell’Illuminismo. La storia è essa medesima la forza pro- 

duttiva delle determinazioni di valore, degli ideali e degli sco- 

pi, in base a cui viene commisurato il significato di uomini e di 

avvenimenti. In tale processo questo rapporto mostra una dupli- 

ce direzione, verso le epoche e verso il progresso dell'umanità. 



6. Il problema del valore nella storia. 



Si dice che in tal modo sorga soltanto la coscienza della 

relatività storica. Senza dubbio la relatività è propria di ogni 

fenomeno storico per fatto che esso è finito... Si pone però il 

problema seguente: ciò che viene espresso nelle categorie stori- 

che sussiste soltanto come momento del movimento storico? in 

altri termini, nella storia è contenuto qualcosa che ha valore 

solamente in quanto sorge, agisce e tramonta in questa connes- 

sione? ed è possibile per caso una determinazione di valori 

separata da questo corso? 


L’ultimo problema di una critica della ragione storica su 

questa direzione è il seguente. Ovunque nella storia c’è formu- 

lazione e selezione nella ricerca della connessione interna, ovun- 

que c'è un progresso secondo i rapporti di finitudine, dolore, 

forza, antitesi, accumulazione, che lega una parte della storia 

con le altre, e la forza, il valore, il significato e lo scopo sono 

ovunque gli elementi a cui è legata la connessione storica: ma 

la connessione, il valore, il significato, lo scopo, quali essi 

vengono colti nell’esperienza, costituiscono l’ultima parola del- 

lo storico? 


La strada che imbocco è determinata dai seguenti princìpi: 



WILHELM DILTHEY 2II 



il concetto di valore deriva dalla vita, e il criterio per ogni 

giudizio è offerto da concetti relativi di valore, di significato e 

di scopo, propri di certe nazioni e di certe epoche. Occorre 

perciò illustrare come questi si siano ampliati in qualcosa di 

assoluto: ciò vuol dire, insomma, il pieno riconoscimento del- 

l’immanenza dei valori e delle norme, anche presentantisi come 

incondizionati, nella coscienza storica. 



7. Conclusione. 



La coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno stori- 

co, di ogni situazione umana o sociale, la coscienza della relati- 

vità di ogni specie di fede è l’ultimo passo verso la liberazione 

dell’uomo. Con esso l’uomo perviene alla sovranità di trovare 

in ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a questo completa- 

mente, senza il vincolo di nessun sistema filosofico o religioso. 

La vita si libera dalla conoscenza concettuale; lo spirito diven- 

ta sovrano rispetto a tutte le ragnatele del pensiero dogmatico. 

Ogni bellezza, ogni santità, ogni sacrificio, rivissuti e interpre- 

tati, schiudono delle prospettive che rivelano una realtà. E così 

pure accogliamo in noi tutto ciò che c’è di malvagio, di terribi- 

le, di brutto, riconoscendo che occupa un posto nel mondo e 

che racchiude in sé una realtà, la quale dev'essere giustificata 

nella connessione del mondo: qualcosa su cui non ci si può 

illudere. E di fronte alla relatività si fa valere, come il fatto 

storico essenziale, la continuità della forza creatrice. 


Così dall’Erleden, dall’intendere, dalla poesia e dalla storia 

deriva un'intuizione della vita, la quale esiste sempre in e con 

questa. La riflessione la eleva a distinzione e a chiarezza concet- 

tuale. La considerazione teleologica del mondo e della vita viene 

riconosciuta come una metafisica che poggia su una visione 

unilaterale, non arbitraria cioè ma parziale, della vita, e la dottri- 

na di un valore oggettivo della vita come una metafisica che va 

oltre ogni possibile esperienza. Ma noi abbiamo esperienza di una 

connessione della vita e della storia, in cui ogni parte ha un 

significato. Come le lettere di una parola, la vita e la storia 

hanno un senso, e come una particella o una coniugazione, 

nella vita e nella storia vi sono momenti sintattici che hanno 

un significato. Ogni uomo procede alla sua ricerca. Nel passato 



212 WILHELM DILTHEY 



si è cercato di penetrare la vita in base al mondo; ma c'è solo 

la via che procede dall’interpretazione della vita al mondo, e la 

vita esiste solo nell’Erleben, nell’intendere e nella compren- 

sione storica. Noi non rechiamo nella vita nessun senso del 

mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che senso e significato 

sorgano soltanto nell’uomo e nella sua storia. Ma non nell’uo- 

mo singolo, bensì nell’uomo storico, poiché l’uomo è un essere 

Storico... 



I TIPI DI INTUIZIONE DEL MONDO 

E LA LORO ELABORAZIONE NEI SISTEMI METAFISICI * 



INTRODUZIONE 



SULL’ANTITESI TRA I SISTEMI 



Tra i motivi che sempre dànno nuovo alimento allo scettici- 

smo, l’anarchia dei sistemi filosofici è uno dei più potenti. Tra 

la coscienza storica della loro illimitata molteplicità e la pre- 

tesa di ognuno di essi a una validità universale sussiste una 

contraddizione che sostiene lo spirito scettico in misura maggio- 

re di qualsiasi dimostrazione sistematica. Illimitata, caotica, la 

molteplicità dei sistemi filosofici sta alle nostre spalle e si esten- 

de intorno a noi: in ogni tempo, fin da quando esistono, essi si 

sono esclusi e combattuti a vicenda. E non si intravvede alcuna 

speranza che si possa giungere a una decisione tra di essi. 


La storia della filosofia conferma questo effetto che l’antitesi 

dei sistemi filosofici, delle intuizioni religiose e dei princìpi 

etici ha sull’incremento della scepsi. La lotta tra le spiegazioni 

del mondo del pensiero greco più antico produsse la filosofia 

del dubbio all’epoca dell’illuminismo greco. Quando le campa- 

gne di Alessandro e l’unione di differenti popoli in regni più 

grandi misero davanti agli occhi dei Greci le diversità dei 

costumi, delle religioni, delle visioni della vita e del mondo, si 



* Die Typen der Weltanschauung und ihre Ausbildung in den metaphysischen 

Systemen, nella raccolta Weltanschauung, Philosophie und Religion in Darstellungen 

(a cura di M. Frischeisen-Kéhler), Berlin, Verlag Reichl und Co., 1911, pp. 1-51, ora 

in Gesammelte Schriften, Leipzig und Berlin, vol. VIII, 1931, pp. 75-118 (tradu- 

zione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



214 WILHELM DILTHEY 



formarono le scuole scettiche, le quali estesero le loro operazio- 

ni corrosive anche ai problemi della teologia — il male e la 

teodicea, il conflitto tra la personalità divina e la sua infinitez- 

za e perfezione — e alle assunzioni concernenti il fine etico 

dell'uomo. Anche il sistema di credenze dei popoli europei 

moderni e la loro dogmatica filosofica vennero seriamente scos- 

si, nella loro universale validità, dal momento in cui — alla 

corte di Federico II Hohenstaufen — Maomettani e Cristiani 

pervennero a un raffronto reciproco delle loro convinzioni e 

nell'orizzonte del pensiero scolastico penetrò la filosofia di 

Averroè e di Aristotele. E quando l’antichità risorse, quando 

gli scrittori greci e romani furono compresi nei loro autentici 

motivi e l'epoca delle scoperte geografiche pervenne a conosce- 

re in misura crescente la varietà dei climi, dei popoli e dei 

loro modi di pensare presenti sul nostro pianeta, scomparve 

del tutto la fiducia degli uomini nelle credenze fin allora salda- 

mente delimitate. Oggi i viaggiatori accertano e annotano con 

cura i più diversi tipi di fede; noi registriamo e analizziamo i 

potenti, grandi fenomeni delle convinzioni religiose e metafisi- 

che che si trovano presso i ceti sacerdotali dell'Oriente, nelle 

città-stato greche, nella cultura araba. Noi guardiamo indietro 

alla sconfinata distesa di rovine delle tradizioni religiose, delle 

affermazioni metafisiche, dei sistemi dimostrati: lo spirito uma- 

no ha tentato e saggiato, nel corso di molti secoli, possibili- 

tà di ogni tipo per fondare scientificamente la connessione 

delle cose, per rappresentarla poeticamente o per annunciarla 

religiosamente; e la ricerca storica condotta con metodo critico 

indaga ogni frammento, ogni residuo di questo lungo lavoro 

compiuto dalla nostra specie. Ogni sistema esclude l’altro, lo 

confuta; e nessuno riesce a dimostrare se stesso. Nelle fonti 

storiche non ci è dato trovare nulla di analogo al sereno dialo- 

go che caratterizza la Scuola d’Atene dipinta da Raffaello, 

espressione della tendenza eclettica di quel tempo. In tal modo 

la contraddizione tra la crescente coscienza storica e la pretesa 

delle filosofie a una validità universale è diventata sempre più 

aspra, e sempre più generale la disposizione alla curiosità dilet- 

tevole nei confronti di nuovi sistemi filosofici, quale che sia il 

pubblico che possono raccogliere intorno a sé e il tempo per cui 

possono trattenerlo. 



WILHELM DILTHEY 215 



2. 



Assai più in profondo delle conclusioni scettiche che muo- 

vono dal carattere antitetico delle opinioni umane giungono però 

i dubbi cresciuti sul terreno della progressiva formazione della 

coscienza storica. Era un tipo d’uomo compiuto, dotato di un 

contenuto spirituale determinato, che costituiva il presupposto 

dominante del pensiero storico dei Greci e dei Romani. Questo 

stesso tipo stava alla base della dottrina cristiana del primo e 

del secondo Adamo, del figlio dell'uomo. Il sistema naturale 

del secolo xvi era sorretto dal medesimo presupposto. Il siste- 

ma naturale scoprì nel Cristianesimo un paradigma astratto e 

durevole di religione — la teologia naturale; dalla giurispruden- 

za romana astrasse la dottrina del diritto naturale e dalla produ- 

zione artistica greca un modello di gusto. Secondo questo siste- 

ma naturale, in ogni diversità storica erano quindi contenute 

forme fondamentali, costanti e universali, di ordinamenti socia- 

li e giuridici, di fede religiosa e di eticità. II metodo di de- 

rivare dalla comparazione delle forme di vita storica un ele- 

mento comune, di estrarre dalla molteplicità dei costumi, delle 

proposizioni giuridiche e delle teologie, attraverso il concetto 

di un tipo supremo, un diritto naturale, una teologia naturale e 

una morale razionale — secondo un procedimento che, a parti- 

re da Ippia!, si era sviluppato attraverso lo Stoicismo e il 

pensiero romano — dominava ancora il secolo della filosofia 

costruttiva. La dissoluzione del sistema naturale ebbe ini- 

zio con lo spirito analitico del secolo xvi. Esso prese l’avvìo 

dall'Inghilterra, dove la più libera prospettiva su forme di vita, 

costumi e modi di pensare barbari e stranieri si incontrerà con 

le teorie empiristiche e con l'applicazione del metodo analitico 

alla teoria della conoscenza, alla morale, all'estetica. Con Vol- 

taire e Montesquieu questo spirito passò poi in Francia. Hume 

e d’Alembert, Condillac e Destutt de Tracy? videro nel fascio 



I. Ippia di Elide, sofista vissuto tra la seconda metà del secolo v e la prima del 

secolo Iv a. C., si occupò di problemi matematici e astronomici, nonché di grammati- 

ca, di retorica e di dialettica. Dilthey si riferisce qui alla distinzione tra « leggi scritte », 

proprie delle singole città, e le « leggi non scritte », comuni a tutti gli uomini e aventi 

il loro fondamento nella natura. 


2. Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (1754-1836), sviluppò la teoria della co- 

noscenza di Condillac nell'« ideologia », concepita come analisi delle facoltà e del pro- 



216 WILHELM DILTHEY 



di impulsi e di associazioni — così concepirono l’uomo — illi- 

mitate possibilità di far emergere le forme più svariate tra la 

diversità di clima, di costumi e di educazione. 


L'espressione classica di questo modo di considerazione stori- 

ca furono la Natural History of Religion e i Dialogues concer- 

ning Natural Religion di Hume. E dai lavori di questo secolo 

xvi scaturì già l’idea dello sviluppo, che doveva poi dominare il 

secolo xix. Da Buffon? fino a Kant e a Lamarck* viene acqui- 

sita la conoscenza dello sviluppo della terra, del succedersi su 

di essa di differenti forme di vita. D'altra parte si formava, in 

lavori di importanza decisiva, lo studio dei popoli civili: a 

partire da Winckelman, Lessing e Herder, questi lavori applica- 

rono ovunque l’idea di sviluppo. Da ultimo, nello studio dei 

popoli primitivi si trovò l’elemento intermedio tra la dottrina 

scientifica dello sviluppo e le conoscenze storico-evolutive fonda- 

te sulla vita statale, sulla religione, sul diritto, sui costumi, sul 

linguaggio, sulla poesia e sulla letteratura dei popoli. In tal 

modo il punto di vista storico-evolutivo poteva venir realizzato 

nello studio dell’intero sviluppo naturale e storico dell’uomo, e 

il tipo «uomo» si risolveva in questo processo di sviluppo. 


La dottrina dello sviluppo così formatasi è necessariamente 

legata alla conoscenza della relatività di ogni forma di vita 

storica. Di fronte allo sguardo che abbraccia la terra e tutto il 

passato scompare la validità assoluta di qualsiasi singola forma 

di vita, costituzione, religione o filosofia. Così la formazione 

della coscienza storica distrugge, ancora più radicalmente della 

disputa tra i vari sistemi, la fede nella validità universale di 

qualsiasi filosofia che abbia voluto esprimere in modo rigoroso 

la connessione del mondo mediante una connessione concettua- 



cesso di formazione e di combinazione delle idec. La sua opera principale è rappre- 

sentata dagli E/4ments d'idéologie (1801-17). 


3. Gcorges-Louis Leclerc conte di Buffon (1707-1788), grande naturalista autore 

di una monumentale Histoire naturelle, générale et particuliòre (1749-1804), intraprese 

per primo un tentativo di classificazione sisternatica delle specie viventi affermando la 

loro continuità nell’ambito della « catena » degli esseri. 


4. Jcan-Baptiste-Pierre-Antoine de Monet de Lamarck (1744-1829), naturalista au- 

tore di numerose opere tra cui la Philosophie zoologique (1809) e la Histoire naturelle 

des animaux sans vertèbres (1815-22), fu tra i fondatori della teoria evoluzionistica: egli 

affermò la capacità di trasformazione delle specie biologiche in conseguenza del rap- 

porto con l'ambiente, nonché la trasmissibilità dei caratteri acquisiti nel corso della 

trasformazione. 



WILHELM DILTHEY 217 



le. La filosofia deve cercare non già nel mondo ma nell’uomo 

la connessione interna delle proprie conoscenze. Intendere la 

vita vissuta dell’uomo — questa è l’aspirazione dell’uomo mo- 

derno. La molteplicità dei sistemi, che hanno cercato di coglie- 

re la connessione del mondo, è in connessione manifesta con la 

vita; essa è una delle sue creazioni più importanti e più istrutti- 

ve, per cui la stessa formazione della coscienza storica, che ha 

esercitato una funzione così distruttiva rispetto ai grandi siste- 

mi, dovrà fornirci gli strumenti per eliminare l’aspra contraddi- 

zione esistente tra la pretesa di validità universale di ogni 

sistema filosofico e l'anarchia storica di questi sistemi. 



I. VITA E INTUIZIONE DEL MONDO 



1. La vita. 



La radice ultima dell’intuizione del mondo è la vita. Diffu- 

sa sulla terra in innumerevoli corsi di vita particolari, rivissuta 

in ogni individuo, saldamente assicurata nella risonanza del 

ricordo — dal momento che, in quanto mero attimo del presen- 

te, si sottrae all’osservazione — e d’altra parte afferrabile più 

compiutamente in tutta la sua profondità, così come essa si è 

oggettivata nelle sue manifestazioni, da parte dell’intendere e 

dell’interpretazione che non in qualsiasi percezione interiore e in 

qualsiasi apprendimento del proprio Er/ebris, la vita ci è presen- 

te nel nostro sapere in innumerevoli forme, e mostra tuttavia o- 

vunque gli stessi tratti comuni. Tra le sue diverse forme ne met- 

to in rilievo «24. Non spiego, non separo in parti; mi limito a 

descrivere lo stato che ognuno può osservare in se stesso. Ogni 

pensiero, ogni azione interna o esterna emerge come una punta 

raccolta e penetra avanti. Mi è però anche possibile rivivere 

uno stato di quiete interiore; esso è sogno, gioco, distrazione, 

sguardo all’intorno e lieve agilità — come sostrato della vita. 

In esso comprendo altri uomini e altre cose non soltanto come 

realtà che stanno con me e tra di loro in una connessione 

causale: da me si dipartono in ogni direzione relazioni vitali, 

io mi rapporto a uomini e cose, prendo posizione nei loro 

confronti, soddisfo le loro esigenze verso di me e mi attendo 



218 WILHELM DILTHEY 



da essi qualcosa. Le une mi rendono felice, ampliano la mia 

esistenza, accrescono la mia forza; le altre esercitano su di me 

una pressione e mi limitano, E dove la determinatezza della 

singola tendenza che spinge in avanti lascia spazio all’uomo, 

egli nota e sente queste relazioni. L'amico è per lui una forza 

che innalza la sua esistenza, ogni membro della famiglia ha un 

posto determinato nella sua vita, e tutto quanto lo circonda 

viene da lui inteso come vita e come spirito che si sono oggetti- 

vati. La panca davanti alla porta di casa, l’albero ombroso, la 

casa e il giardino hanno in questa oggettivazione la loro essen- 

za e il loro significato. È in questo modo che la vita di ogni 

individuo crea da sé il proprio mondo. 



2. L'esperienza della vita. 



Dalla riflessione sulla vita sorge l’esperienza della vita. I 

singoli eventi, che il fascio di impulsi e di sentimenti richiama 

in noi all'atto dell’incontro con il mondo circostante e col 

destino, vengono in essa raccolti in un sapere oggettivo e uni- 

versale. Nello stesso modo in cui la natura umana è sempre la 

medesima, sono comuni a tutti anche i tratti fondamentali 

dell'esperienza della vita: la transitorietà delle cose umane e 

la nostra forza di godere l’attimo; la tendenza delle nature 

forti o anche limitate a superare questa transitorietà con la 

costruzione di una solida impalcatura della loro esistenza; l’in- 

soddisfazione delle nature meno resistenti o più pensierose di 

fronte ad essa e la nostalgia per un elemento realmente duratu- 

ro in un mondo invisibile; la penetrante potenza delle passioni 

che, come un sogno, creano immagini fantastiche finché in esse 

si smarrisce l'illusione. Così l’esperienza della vita si forma in 

maniera differente nei singoli individui. Il loro substrato comu- 

ne in tutti è formato dalle intuizioni della potenza del caso, 

della corruttibilità di tutto ciò che possediamo, amiamo o an- 

che odiamo e temiamo, della costante presenza della morte, che 

determina onnipotente per ciascuno di noi il significato e il 

senso della vita. 


Nella catena degli individui sorge l’esperienza universale 

della vita. Sulla base della ripetizione regolare delle singole 

esperienze si forma — nella coesistenza e nella successione de- 



WILHELM DILTHEY 219 



gli uomini — una tradizione di espressioni, che col trascorrere 

del tempo acquistano una precisione e sicurezza sempre mag- 

giore. La loro sicurezza poggia sul numero sempre crescente 

dei casi da cui perveniamo a una conclusione, sulla loro subor- 

dinazione a generalizzazioni precedenti e su una continua veri- 

fica. Anche dove, in un singolo caso, i princìpi dell’esperienza 

della vita non vengono recati a coscienza, essi agiscono su di noi. 

Tutto quanto ci domina sotto forma di costume, di consuetudi- 

ne, di tradizione, è fondato su tali esperienze della vita. Ma 

sempre, nelle esperienze particolari come in quelle universali, 

il tipo di certezza e il carattere della formulazione è assoluta- 

mente diverso dalla validità universale propria della scienza. Il 

pensiero scientifico può controllare il procedimento sul quale 

poggia la sua sicurezza, può formulare esattamente e fondare 

le sue proposizioni: la nascita del nostro sapere dalla vita non 

può essere controllato nello stesso modo, e non possiamo proget- 

tare formule fisse per esprimerla. 


A queste esperienze della vita appartiene anche il saldo siste- 

ma di relazioni entro cui l’identità dell'io è collegata con le 

altre persone e con gli oggetti esterni. La realtà di se stesso, 

delle persone estranee, delle cose intorno a noi, e le loro relazio- 

ni regolari formano l’impalcatura dell’esperienza della vita e 

della coscienza empirica che in essa si forma. L’io, le persone, 

le cose circostanti possono essere designati come fattori della 

coscienza empirica, che ha la sua consistenza nelle relazioni 

reciproche di questi fattori. E quali che siano le procedure del 

pensiero filosofico mediante cui esso astrae dai singoli fattori o 

dalle loro relazioni, questi rimangono i presupposti determinan- 

ti della vita stessa, indistruttibili al pari di essa e non modifica- 

bili da alcun pensiero, in quanto sono fondati nell'esperienza 

della vita di innumerevoli generazioni. Tra queste esperienze 

della vita le più importanti sono quelle che fondano la realtà 

del mondo esterno e le mie relazioni con esso, poiché limitano 

la mia esistenza, esercitano su di essa una pressione che non 

posso eliminare e ostacolano le mie intenzioni in una maniera 

inattesa e non modificabile. L’insieme delle mie induzioni, la 

somma del mio sapere riposa su questi presupposti fondati 

nella coscienza empirica. 



220 WILHELM DILTHEY 



3. Il mistero della vita. 



Dalle mutevoli esperienze della vita emerge, di fronte all’ap- 

prendimento orientato verso la totalità, il volto della vita: vol- 

to contraddittorio, vitalità e al tempo stesso legge, ragione e 

arbitrio, volto che offre aspetti sempre nuovi, e quindi chiaro 

forse nei particolari ma completamente misterioso nell’insieme. 

L’anima cerca di raccogliere in un complesso le relazioni della 

vita e le esperienze in esse fondate, ma non vi riesce. Al 

centro di tutte le cose incomprensibili stanno la procreazione, 

la nascita, lo sviluppo e la morte. Il vivente sa della morte, e 

non è tuttavia in grado di intenderla. Già dal primo sguardo a 

un morto, la morte risulta incomprensibile alla vita: su ciò 

poggia anzitutto la nostra posizione di fronte al mondo come a 

qualcosa di altro, di estraneo e di terribile. Nel fatto della 

morte vi è quindi una forza che costringe a rappresentazioni 

fantastiche che hanno il compito di rendere intelligibile questo 

fatto; fede nei morti, culto degli antenati, culto dei trapassati 

generano le rappresentazioni fondamentali della fede religiosa 

e della metafisica. E l’estraneità della vita si accresce nella 

misura in cui l’uomo sperimenta nella società e nella natura 

una lotta permanente, l’annientamento continuo di una creatu- 

ra da parte di un’altra, la spietatezza di ciò che opera nella 

natura. Emergono strane contraddizioni che nell'esperienza del- 

la vita vengono sempre più forti alla coscienza e non sono mai 

risolte: tra l’universale transitorietà e la volontà in noi pre- 

sente verso qualcosa di saldo, tra la potenza della natura e 

l'autonomia del nostro volere, tra la limitatezza di ogni cosa 

nello spazio e nel tempo e la nostra facoltà di oltrepassare ogni 

limite. Questi misteri hanno impegnato i sacerdoti egizi e babi- 

lonesi al pari della predicazione cristiana, Eraclito al pari di 

Hegel, il Prometeo eschileo al pari del Faust di Goethe. 



4. La legge di formazione delle intuizioni del mondo. 



Ogni grande impressione mostra all'uomo la vita in un 

aspetto particolare; il mondo appare in una luce diversa; dal 

momento che queste esperienze si repetono e si connettono, 

sorgono le nostre disposizioni interiori nei confronti della vita. 



WILHELM DILTHEY 221 



Da una relazione vitale la vita intera riceve una colorazione e 

un’interpretazione nelle anime affettive o pensierose — così 

sorgono le disposizioni universali. Esse cambiano man mano 

che la vita mostra all'uomo aspetti sempre nuovi; ma nei diver- 

si individui predominano, secondo la loro essenza, determinate 

disposizioni di vita. Gli uni si attaccano alle cose concrete, 

sensibili, e vivono nel godimento immediato; altri perseguono, 

attraverso il caso e il destino, grandi scopi che dànno durata 

alla loro esistenza; vi sono nature gravi che non sopportano la 

transitorietà di ciò che amano e posseggono, e alle quali la 

vita appare quindi priva di valore e quasi intessuta da vanità e 

da sogni, oppure che cercano qualcosa di permanente al di là 

di questa terra. Le più universali tra le grandi disposizioni di 

vita sono l’ottimismo e il pessimismo. Essi si differenziano però 

in svariate sfumature. A chi lo contempla in qualità di spettato- 

re, il mondo — estraneo — appare come uno spettacolo vario- 

pinto e fuggevole; a chi governa ordinatamente la propria vita 

secondo un progetto, lo stesso mondo appare invece familiare, di 

casa: egli sta nel mondo a pie’ fermo e appartiene ad esso. 


Queste disposizioni di vita, le innumerevoli sfumature della 

posizione di fronte al mondo, costituiscono il terreno per la 

formazione delle intuizioni del mondo. In queste si compiono, 

sulla base delle esperienze di vita in cui sono operanti le molte- 

plici relazioni vitali degli individui nei confronti del mondo, i 

tentativi per risolvere il mistero della vita. E proprio nelle loro 

forme superiori si fa valere in modo particolare un procedimen- 

to: la comprensione di un dato incomprensibile mediante uno 

più chiaro. Ciò che è chiaro diventa mezzo di comprensione o 

fondamento di spiegazione di ciò che è incomprensibile. La 

scienza analizza, e quindi sviluppa relazioni generali dalle si- 

tuazioni omogenee così isolate; religione, poesia e metafisica 

originaria esprimono il significato e il senso della totalità. Quel- 

la conosce, queste intendono. Una tale interpretazione del mon- 

do, che rende trasparente la sua essenza molteplice attraverso 

un'essenza più semplice, comincia già col linguaggio, per svi- 

lupparsi poi nella metafora in quanto sostituzione di un'intui- 

zione mediante un’altra affine che la rende in qualche senso 

più chiara, nella personificazione che avvicina e rende com- 

prensibile umanizzando, oppure attraverso ragionamenti analo- 



222 WILHELM DILTHEY 



gici, che determinano il meno noto a partire dal più noto sulla 

base dell’affinità e così si accostano ormai al pensiero scientifi- 

co. Ovunque la religione, il mito, la poesia e la metafisica 

originaria cercano di rendere qualcosa intelligibile e capace di 

suscitare impressione, ciò avviene mediante il medesimo proce- 

dimento. |, 



5. La struttura dell’intuizione del mondo. 



Tutte le intuizioni del mondo, quando si propongono di 

fornire una soluzione compiuta del mistero della vita, contengo- 

no di regola la stessa struttura. Questa struttura è sempre una 

connessione in cui, sulla base di un'immagine del mondo, ven- 

gono decise le questioni relative al significato e al senso del 

mondo, e da essa vengono derivati l’ideale, il sommo bene, i 

princìpi supremi della condotta della vita. Essa è determinata 

dalla legalità psichica in virtù della quale l'apprendimento del- 

la realtà nel corso della vita costituisce la base per la valutazio- 

ne delle situazioni e degli oggetti secondo i criteri di piacere e 

di dispiacere, di gradevole e di sgradevole, di approvazione e di 

disapprovazione; e questa valutazione della vita forma quindi a 

sua volta il substrato delle determinazioni del volere. Il nostro 

comportamento attraversa regolarmente queste tre posizioni del- 

la coscienza, e la natura peculiare della vita psichica si fa 

valere nel fatto che in tale connessione dinamica persiste lo 

strato sottostante: le relazioni presenti negli atteggiamenti in 

base a cui io giudico gli oggetti, provo piacere di fronte ad essi 

e sono indirizzato alla realizzazione di qualcosa in essi, deter- 

minano la costruzione di questi diversi strati e costituiscono in 

tal modo la struttura delle formazioni in cui la connessione 

dinamica della vita psichica. trova la propria espressione. La 

lirica mostra nella forma più semplice questa connessione — 

una situazione, una successione di sentimenti da cui spesso sca- 

turisce un desiderio, una tensione, un'azione. Ogni rapporto 

vitale si sviluppa verso una connessione in cui le medesime 

forme di atteggiamento sono legate strutturalmente. Così anche 

le intuizioni del mondo sono formazioni regolari in cui si 

esprime questa struttura della vita psichica. Il loro substrato è 

sempre un'immagine del mondo; essa sorge dall’atteggiamento 



WILHELM DILTHEY 223 



dell’apprendere quale si presenta nella successione regolare dei 

gradi del conoscere. Noi osserviamo processi interiori e oggetti 

esterni. Noi spieghiamo le percezioni che in questo modo sorgo- 

no rendendo in esse trasparenti, mediante le funzioni clementa- 

ri del pensiero, i rapporti fondamentali del reale; quando le 

percezioni svaniscono, esse vengono tuttavia riprodotte e ordina- 

te nel nostro universo di rappresentazioni, che ci solleva al di 

sopra dell’accidentalità delle percezioni; la saldezza e la libertà 

che lo spirito acquisisce a questo livello, il suo dominio sulla 

realtà giungono poi a compimento nella regione dei giudizi e 

dei concetti, dove la connessione e l’essenza del reale vengono 

colte come fornite di validità universale. Quando un’intuizione 

del mondo giunge al suo pieno sviluppo, ciò avviene di regola 

a questi gradi di conoscenza della realtà. A questo punto su di 

essa si costruisce un altro atteggiamento tipico, in un’analoga 

regolare successione di livelli. Nel sentimento di noi stessi assa- 

poriamo il valore della nostra esistenza, attribuiamo a persone 

e a oggetti che ci circondano una capacità di influenza sulla 

nostra esistenza, in quanto la elevano e la estendono: quindi 

determiniamo questi valori secondo le possibilità di recar giova- 

mento 0 danno che sono contenute negli oggetti, valutiamo tali 

possibilità e cerchiamo per questa valutazione una misura in- 

condizionata. In tal modo situazioni, persone e cose acquistano 

un significato in rapporto al complesso della realtà, e questo ne 

riceve un senso. Percorrendo questi gradi nell’ atteggiamento 

del sentire si forma per così dire, nella struttura dell’intui- 

zione del mondo, un secondo strato; l’immagine del mondo 

diventa fondamento della vita e della comprensione del mon- 

do. Secondo la medesima legalità della vita psichica, dall’ap- 

prezzamento della vita e dalla comprensione del mondo emer- 

ge uno stato supremo della coscienza: gli ideali, il sommo 

bene e i princìpi supremi in cui l'intuizione del mondo ottiene 

la sua energia pratica — come dire, la punta con cui essa si 

apre un varco nella vita umana, nel mondo esterno e nella 

profondità dell'anima. L’intuizione del mondo si fa ora forma- 

trice, plasmatrice. riformatrice! E anche questo stato supremo 

dell’intuizione del mondo si sviluppa attraverso gradi differen- 

ti. Dall’intenzione, dalla tensione, dalla tendenza si sviluppa- 

no le posizioni di scopo durevoli indirizzate alla realizzazione 



224 WILHELM DILTHEY 



di una rappresentazione, il rapporto tra scopi e mezzi, la scelta 

tra gli scopi, la selezione dei mezzi e infine la connessione 

delle posizioni di scopo in un ordinamento supremo del nostro 

comportamento pratico — in un progetto complessivo di vita, 

in un sommo bene, in norme supreme dell’agire, in un ideale 

di formazione della vita personale e della società. 


Questa è la struttura dell’intuizione del mondo. Ciò che è 

confusamente contenuto come un fascio di compiti nel mistero 

della vita, viene qui elevato a una connessione consapevole e 

necessaria di problemi e di soluzioni. Questa progressione si 

svolge secondo gradi determinati in maniera regolare dall’inter- 

no: ne consegue che ogni intuizione del mondo ha uno svilup- 

po e nel corso di questo perviene all’esplicazione del suo conte- 

nuto; essa ottiene così gradualmente durata, saldezza e poten- 

za, nel corso del tempo: essa è un prodotto della storia. 



6. La molteplicità delle intuizioni del mondo. 



Le intuizioni del mondo si sviluppano in condizioni diffe- 

renti. Il clima, le razze, le nazioni determinate attraverso la 

storia e la formazione degli stati, le delimitazioni temporalmen- 

te condizionate secondo epoche ed età in cui le nazioni coopera- 

no, si collegano alle condizioni specifiche che producono la 

molteplicità delle intuizioni del mondo. La vita, che nasce in 

queste condizioni specificate, ha moltissimi aspetti; lo stesso 

vale per l’uomo che apprende la vita. A queste differenze tipi- 

che si aggiungono quelle delle singole individualità, del loro 

ambiente e della loro esperienza di vita. Nello stesso modo in 

cui la terra è ricoperta di innumerevoli forme viventi, tra le 

quali ha luogo una lotta continua per la sopravvivenza e per lo 

spazio vitale, nel mondo umano si sviluppano le forme di 

intuizione del mondo, contendendosi tra loro il potere sul- 

l’anima. 


Si fa così valere un rapporto regolare per cui l’anima, 

spinta dall’incessante mutamento delle impressioni e dei desti- 

ni, nonché dalla potenza del mondo esterno, deve tendere a 

una saldezza interiore per potersi contrapporre a tutto ciò: 

essa viene condotta dal mutamento, dalla discontinuità, dallo 

scivolare e dal fluire della sua costituzione, delle sue intuizioni 



WILHELM DILTHEY 225 



della vita, a una valutazione durevole della vita e a fini ben 

definiti. Le intuizioni del mondo che promuovono la compren- 

sione della vita e conducono a fini utili, si conservano e sop- 

piantano quelle che meno rispondono a queste esigenze. Si 

compie così una selezione tra di esse. E nella successione delle 

generazioni le intuizioni del mondo più vitali si sviluppano 

verso una forma sempre più compiuta. E come nella molteplici- 

tà della vita organica opera la stessa struttura, così anche le intui- 

zioni del mondo sono formate secondo un medesimo schema. 


Il profondo mistero della loro specificazione ha la sua base 

nella regolarità che la connessione teleologica della vita psichi- 

ca imprime alla particolare struttura delle formazioni di intui- 

zione del mondo. i 


AI centro dell’apparente accidentalità di queste formazioni 

vi è, in ognuna di esse, una connessione teleologica che scaturi- 

sce dalla reciproca dipendenza delle questioni contenute nel 

mistero della vita, e in modo particolare dal rapporto costante 

tra immagine del mondo, apprezzamento della vita e fini della 

volontà. Una comune natura umana e un ordine dell’individua- 

zione stanno in salde relazioni vitali con la realtà; e quest'ulti- 

ma è sempre e dovunque la stessa, la vita mostra sempre gli 

stessi aspetti. 


In questa regolarità della struttura dell’intuizione del mon- 

do e del suo differenziarsi in forme particolari si presenta un 

momento impercettibile: le variazioni della vita, il mutamento 

delle epoche, le trasformazioni della situazione scientifica, il 

genio delle nazioni e degli individui. In virtù di ciò cambia 

incessantemente l’interesse ai problemi, la potenza di determi- 

nate idee che sorgono dalla vita storica e che la dominano; 

nelle intuizioni del mondo si fanno valere, secondo il luogo 

storico che occupano, combinazioni sempre nuove dell’esperien- 

za della vita, disposizioni interiori e pensieri sempre nuovi: 

esse sono irregolari in conformità ai loro elementi, alla forza e 

al significato che questi ultimi assumono nel complesso. Tuttavia, 

a causa della legalità che opera nel profondo della struttura e del- 

la regolarità logica, esse non sono aggregati ma formazioni. 


A questo punto, sottoponendo queste formazioni a un proce- 

dimento comparativo, risulta inoltre che esse si ordinano in grup- 

pi all’interno dei quali sussiste una certa affinità. Come le lingue, 



15. STORICISMO TEDESCO. 



226 WILHELM DILTHEY 



le religioni, gli stati rivelano — in virtù del metodo comparativo 

— certi tipi, certe linee di sviluppo e regole di trasformazione, la 

stessa cosa si può mostrare anche nelle intuizioni del mondo. 


Questi tipi attraversano la singolarità storica delle formazioni 

particolari. Essi sono sempre condizionati dalla particolarità 

propria del campo in cui sorgono. Ma volerli derivare da tale 

particolarità è stato un grave errore, proprio del metodo costrut- 

tivo. Soltanto il procedimento storico comparativo può accostar- 

si alla determinazione di questi tipi, delle loro variazioni, dei 

loro sviluppi e incroci. La ricerca deve pertanto tener sempre 

aperta, nei confronti dei suoi risultati, ogni possibilità di prose- 

cuzione. Qualsiasi analisi è solamente provvisoria. Essa è e 

rimane nient’altro che uno strumento per vedere in modo stori- 

camente più profondo. E al procedimento storico comparativo 

si collega sempre la sua preparazione mediante l’osservazione 

sistematica e l’interpretazione dell’elemento storico che ne scatu- 

risce. Anche quest’interpretazione psicologica e storico-sistemati- 

ca della realtà storica è esposta all'errore del pensiero costrutti- 

vo, che in ogni campo dell’ordinamento vuol porre alla base un 

rapporto semplice, come se fosse un impulso formativo in esso 

presente. 


Riassumiamo ora quanto è stato fin qui posto in luce in un 

principio, che la considerazione storica comparativa conferma 

in ogni punto. Le intuizioni del mondo non sono prodotti del 

pensiero; esse non nascono dalla mera volontà di conoscenza. 

L'apprendimento della realtà è certo un momento importante, 

ma è soltanto un momento. Esse scaturiscono dall’atteggiamen- 

to di vita, dall'esperienza della vita, dalla struttura della 

nostra totalità psichica. L’elevazione della vita a coscienza 

nella conoscenza della realtà, nella valutazione della vita e 

nell'operazione della volontà è il lungo e difficile lavoro che 

l'umanità ha compiuto nello sviluppo delle intuizioni della vita. 


Questo principio della dottrina delle intuizioni del mondo 

riceve conferma se poniamo mente al corso della storia nel suo 

insieme: mediante tale corso risulta confermata una conseguen- 

za importante del nostro principio, che ci riporta al punto di 

partenza di questo saggio. La formazione delle intuizioni del 

mondo è determinata dalla volontà rivolta alla stabilità dell’im- 

magine del mondo, della valutazione della vita, dell’azione del- 



WILHELM DILTHEY 227 



la volontà, derivante dal carattere fondamentale — sopra de- 

scritto — della successione di gradi dello sviluppo psichico. Sia 

la religione sia la filosofia cercano la stabilità, l’efficacia, il 

dominio, la validità universale. Ma su questa via l'umanità non 

ha fatto un solo passo avanti. La lotta reciproca tra le intuizio- 

ni del mondo non è pervenuta ad alcuna decisione in nessuno 

dei suoi punti nodali. Certamente la storia compie una selezio- 

ne tra di esse, ma i grandi tipi permangono autosufficienti, 

indimostrabili e indistruttibili, gli uni accanto agli altri. Essi 

non devono la loro origine ad alcuna dimostrazione, perché 

non possono essere risolti da alcuna dimostrazione. I singoli 

gradi e le formazioni specifiche di un tipo vengono sì confuta- 

te, ma la loro radice nella vita perdura, continua ad agire e 

produce sempre nuove formazioni. 



II. I TIPI DI INTUIZIONE DEL MONDO NELLA RELIGIONE, NELLA POE- 

SIA E NELLA METAFISICA 



Prendo le mosse da una distinzione tra le intuizioni del 

mondo che è condizionata dai campi della cultura in cui esse 

compaiono. 


Il fondamento della cultura è formato dall’economia, dalla 

vita sociale, dal diritto e dallo stato. In ciascun campo domina 

una divisione del lavoro in virtù della quale la singola persona 

assolve, in un determinato luogo storico del suo operare, una 

funzione determinata. Qui la volontà è inquadrata in compiti 

delimitati che vengono ad essa assegnati dalla connessione teleo- 

logica propria di un dato campo. La scienza introduce in que- 

sta connessione pratica della vita, mediante la conoscenza, una 

regolamentazione razionale del lavoro; in questo modo sta in 

connessione strettissima con la prassi e, poiché anch'essa sotto- 

stà alla legge della divisione del lavoro, ogni scienziato si pre- 

figge, in un determinato campo e in un determinato punto del 

lavoro conoscitivo, un compito limitato. La stessa filosofia è 

sottomessa, in una parte dalle sue funzioni, a questa divisione 

del lavoro. Invece il genio religioso, poetico o metafisico vive 

in una regione in cui è sottratto al vincolo sociale, al lavoro 

racchiuso in compiti delimitati, alla subordinazione a ciò che 



228 WILHELM DILTHEY 



può venir raggiunto nei limiti del tempo e della situazione 

storica. Ogni riguardo a tale vincolo falsifica anzi la sua com- 

prensione della vita, che deve porsi di fronte a ciò che è dato 

in piena spontaneità e sovranità. Essa diventa non vera già a 

causa della limitazione della prospettiva, del riferimento a una 

situazione temporale — a causa di una qualsiasi tendenza. In 

questa regione della libertà sorgono e si formano le intuizioni 

del mondo più valide e più potenti. 


Le intuizioni del mondo sono però distinte nel genio religio- 

so, in quello artistico e in quello metafisico secondo la loro 

legge di formazione, la loro struttura e i loro tipi. 



1. L'intutzione religiosa del mondo. 



Le intuizioni religiose del mondo scaturiscono da un partico- 

lare rapporto di vita dell’uomo. Al di là della realtà dominabi- 

le in cui l’uomo primitivo — in quanto guerriero, cacciatore, la- 

voratore e fruitore del suolo — produce trasformazioni nel mon- 

do esterno, mediante il suo agire fisico, in una razionale posizio- 

ne di scopi, il campo di tale operare si estende fino all’inaccessi- 

bile, a ciò che non è attingibile da parte della conoscenza. 

E in quanto di qui gli sembrano procedere effetti che gli 

procurano fortuna nella caccia, successo nella guerra, mentre 

nella malattia, nella follia, nella vecchiaia, nella morte, nella 

perdita della moglie, dei figli, del gregge, si scopre dipendente 

da qualcosa di sconosciuto, nasce allora la tecnica diretta a 

influenzare questa realtà incomprensibile — che non si lascia 

dominare dall’attività fisica — con le proprie preghiere, con le 

proprie offerte, con la propria subordinazione. Egli vuole acco- 

gliere in sé le forze di esseri superiori, stabilire un buon rappor- 

to con essi, unirsi ad essi. Le azioni dirette a questo fine 

costituiscono il culto originario. Nasce la professione dello stre- 

gone, del guaritore o del sacerdote; man mano che questo ceto 

si organizza sempre più saldamente, in esso si concentrano 

abilità, esperienza, sapere, e vi si forma un modo di vita parti- 

colare che lo separa dagli altri membri della società. In questo 

modo nelle piccole comunità chiuse dell’orda e della tribù na- 

sce una tradizione di esperienza religiosa della vita, che si è 

sviluppata nel rapporto con gli esseri superiori, e di ordinamen- 



WILHELM DILTHEY 229 



to spirituale di vita; e dalle pratiche del culto magico lo svilup- 

po di questa religiosità superstiziosa perviene a poco a poco 

fino al processo religioso, nel quale l'animo e la volontà dell’uo- 

mo vengono assoggettate mediante una disciplina interiore al 

volere divino. II momento decisivo risiede nel modo in cui le 

idee religiose primitive si sviluppano sulla base degli Er/ebnis- 

se, sempre e dovunque ricorrenti, della nascita, della morte, 

della malattia, dei sogni, della follia, sulla base di interventi 

malvagi o benefici dell'elemento demoniaco sul corso della vita, 

sulla base di strane commistioni di ordine nella natura — che 

comporta sempre un rapporto teleologico di colui che apprende 

nei confronti di essa — e infine sulla base del caso, della forza 

distruttiva e del conflitto. Il secondo io presente nell’uomo, le 

forze divine del cielo, nel sole e nelle stelle, il demoniaco nella 

foresta, nella palude e nelle acque — queste rappresentazioni 

fondamentali determinate da rapporti vitali costituiscono i pun- 

ti di partenza di una vita fantastica condizionata affettivamen- 

te, che viene alimentata da esperienze religiose sempre nuove. 

L'influenza dell’invisibile è la categoria fondamentale della vi- 

ta religiosa elementare. Il pensiero analogico combina poi le 

idee religiose fino a tradurle in dottrine concernenti l’origine 

del mondo, dell’uomo e dell’anima. 


L'influenza del soprasensibile, presente nelle cose e negli 

uomini, conferisce loro un significato religioso. Queste cose e 

questi uomini sono sensibili, visibili, distruttibili, limitati, e 

tuttavia sono una sede di influenze divine o demoniache. Il 

mondo è pervaso da un rapporto religioso di cose e persone 

singole, concrete e finite, con l’invisibile, in virtù del quale il 

loro significato religioso risiede nell'influenza dell’invisibile ce- 

lata in esse. Luoghi e persone sacri, immagini della divinità, 

simboli, sacramenti sono tutti casi particolari di questo rappor- 

to: nella religione esso ha lo stesso significato che possiede il 

simbolico nell'arte e il concettuale nella metafisica. E la tradu- 

zione diventa, all’interno del rapporto religioso — proprio a 

causa dell’oscurità della sua origine — una potenza di eccezio- 

nale efficacia. 


Questa è la base di tutto l’ulteriore sviluppo religioso. Men- 

tre negli stadi primitivi opera in prevalenza lo spirito della 

comunità, il passaggio verso gradi superiori si compie in virtù 



230 WILHELM DILTHEY 



del genio religioso — nei misteri, nella vita dell’eremita, nel 

profetismo. A influenze particolari tra l'uomo e gli esseri supe- 

riori subentra, nel genio religioso, un rapporto dell’uomo nella 

sua totalità nei confronti di essi. Questa esperienza religiosa 

concentrata raccoglie quindi le idee religiose elementari per 

tradurle in intuizioni religiose del mondo, le quali hanno la 

loro essenza nel fatto che qui l’interpretazione della realtà, 

l'apprezzamento della vita e l'ideale pratico scaturiscono dal 

rapporto con l’invisibile. Esse sono contenute nel discorso meta- 

fisico e nelle dottrine della fede; poggiano su una costituzione 

della vita; si sviluppano nella preghiera e nella meditazione. 


Tutte le formazioni tipiche di queste intuizioni religiose del 

mondo comportano, fin dal loro inizio, l’antitesi tra esseri bene- 

fici ed esseri malvagi, tra esistenza sensibile e mondo superiore. 


L’immanenza della religione universale negli ordinamenti 

della vita e nel corso naturale, l’Uno-Tutto spirituale che costi- 

tuisce la verità, la connessione e il valore di tutte le cose 

particolari e a cui l’esistenza particolare deve quindi fare ritor- 

no, la volontà divina creatrice che produce il mondo e che crea 

gli uomini secondo la sua immagine o che sta in opposizione a 

un regno del male e per combatterlo prende al suo servizio gli 

uomini pii — questi sono i tipi principali delle varie intuizioni 

religiose del mondo. E come fin dall'inizio il rapporto con 

l'invisibile è separato dal lavoro e dal godimento inerenti all’esi- 

stenza sociale terrena, così queste intuizioni religiose del mon- 

do sono in contrasto permanente con la concezione mondana 

della vita: in questa si fa spesso valere, all’interno di tale 

antitesi, un naturalismo originario che trae la sua energia e la 

sua potenza proprio dall’antitesi nei confronti delle intuizioni 

religiose del mondo. 


Nelle epoche religiose troviamo quindi la lotta tra tipi diver- 

si che mostrano una chiara affinità con quelli della metafisica. 

Il monoteismo giudaico-cristiano, la forma cinese e indiana di 

panenteismo e — per contro — la posizione e il modo di 

pensare naturalistici sono i gradi preliminari e i punti di par- 

tenza per l'ulteriore sviluppo della metafisica. Ma il rapporto 

religioso, con la sua magia, con le sue forze, le sue figure e i 

suoi luoghi di culto religiosi, con le immagini del simbolismo 

religioso, costituisce sempre il substrato delle intuizioni religio- 



WILHELM DILTHEY 231 



se del mondo, nello stesso modo in cui il popolo costituisce 

l'ampio strato inferiore della vita comunitaria della chiesa. In 

queste intuizioni del mondo si conserva sempre un nucleo oscu- 

ro, specificamente religioso, che il lavoro concettuale dei 

teologi non è mai in grado di spiegare e di giustificare. Mai 

può essere superata l’unilateralità di un’esperienza che scaturi- 

sce dal rapporto di preghiera, di sollecitazione, di sacrificio di 

sé con esseri superiori e che dalle relazioni dell'anima con essi 

perviene a coglierne i predicati. 


Di qui nasce un rapporto per cui l’intuizione religiosa del 

mondo è sì la preparazione di quella metafisica, ma non può 

mai risolversi completamente in quest’ultima. La dottrina giu- 

daico-cristiana del dio puramente spirituale, che crea liberamen- 

te, e delle anime formate a sua immagine si è trasformata 

nell’idealismo monoteistico della libertà; le differenti forme del- 

la dottrina religiosa dell’Uno-Tutto hanno preparato il panen- 

teismo metafisico; nella speculazione indiana, nei misteri e nel- 

la Gnosi si è sviluppato lo schema dell’emanazione della molte- 

plicità del mondo dall’Uno e del ritorno in esso, qual è stato 

elaborato dai neoplatonici, da Bruno, da Spinoza e da Schopen- 

hauer. Altrettanto chiara è la connessione che dal monotei- 

smo conduce alla teologia scolastica dei pensatori giudaici, ara- 

bi e cristiani, e da essa a Descartes, a Wolff, a Kant e ai filosofi 

dell'età della Restaurazione nel secolo xrx. Ma per quanto il 

lavoro concettuale che la teologia compie nelle intuizioni reli- 

giose del mondo possa accostarle alla metafisica, la loro legge 

di formazione e la loro struttura le separano pur sempre dal 

pensiero metafisico. Il punto di vista unilaterale della costituzio- 

ne religiosa della vita e dell’intuizione religiosa del mondo 

costituisce il loro limite. L’animo religioso è sempre, con le sue 

esperienze, nel giusto. Lo spirito progressivo riconosce che il 

fissarsi dell'anima al mondo sopra-sensibile — questo prodotto 

storico della tecnica sacerdotale — manteneva in piedi l’ideali- 

smo, sia pure in virtù di una trasposizione artificiosa, e impone- 

va un disciplinamento della vita, sia pure con ascetica rigidi- 

tà, ma anche che il procedere dello spirito nella storia deve 

cercare posizioni più libere nei confronti della vita e del mon- 

do, le quali non devono essere legate a tradizioni che scaturisco- 

no da discutibili origini misteriose. 



232 WILHELM DILTHEY 



2. Le posizioni dell’intuizione del mondo nella poesia. 



Nella religione cose e uomini acquistavano la loro significati- 

vità in virtà della fede nella presenza in essi di un forma 

soprasensibile. La significatività dell’opera d’arte consiste nel 

fatto che un elemento singolare, un dato sensibile viene separa- 

to dal nesso dei rapporti di causa ed effetto ed elevato a espres- 

sione ideale delle relazioni vitali così come esse ci parlano con 

il colore e la forma, la simmetria e la proporzione, gli accordi 

dei suoni e il ritmo, il processo psichico e l’accadimento. C'è 

in tutto questo una tendenza a formare un’intuizione del mon- 

do? In sé, la produzione artistica non ha niente in comune 

con l’intuizione del mondo; ma il rapporto della costituzione 

vitale dell’artista con la sua opera ha qui tuttavia dato luogo a 

una relazione secondaria tra opera d’arte e intuizione del mon- 

do. L’arte si è sviluppata, in un primo momento, sotto l’influen- 

za della religione. L'ambito delle cose sacre è il suo oggetto 

più prossimo; gli scopi della comunità religiosa si fanno valere 

nell’architettura e nella musica; in questa connessione l’arte ha 

elevato il contenuto della religiosità all’eternità in cui scompaio- 

no i dogmi transitori, e da questo contenuto è scaturita la 

forma interna dell’arte più alta — come mostrano l’epica reli- 

giosa di Giotto nella pittura, la grande architettura ecclesia- 

stica e la musica di Bach e di Handel. Ciò che costituisce 

quindi l'andamento storico del rapporto dell’arte con le intui- 

zioni del mondo è il fatto che la costituzione vitale dell’artista 

è pervenuta a una libera espressione sulla base di questo appro- 

fondimento religioso dell’arte. Questo non dev'essere cercato 

nell’introduzione di un’intuizione della vita nell’opera d’arte, 

bensì nella forma interna delle formazioni artistiche. È stato 

compiuto uno sforzo considerevole per comprovare la presenza 

di tale elemento nella pittura e per mostrare l’influenza delle 

tipiche costituzioni vitali — da cui scaturiscono l’intuizione 

naturalistica del mondo, quella eroica e quella panenteistica — 

sulla forma delle opere pittoriche. Un analogo rapporto si po- 

trebbe mostrare anche nella creazione musicale. E quando arti- 

sti della potenza spirituale di un Michelangelo, di Becthoven, 

di Richard Wagner arrivano, in virtù di un impulso interiore, 

a formare un'intuizione del mondo, questa contribuirà a raffor- 



WILHELM DILTHEY 233 



zare l’espressione della loro costituzione vitale nella forma arti- 

stica. 


Tra le arti, però, la poesia ha un rapporto particolare con 

l'intuizione del mondo. Infatti il mezzo in cui essa opera, il 

linguaggio, le consente un'espressione lirica o una rappresenta- 

zione epica o drammatica di tutto ciò che può venir visto, 

udito, vissuto. Io non voglio qui tentare di definire l'essenza e 

la funzione della poesia. Svincolando un avvenimento dal nesso 

delle relazioni della volontà, e trasformando la sua rappresenta- 

zione in questo mondo dell’apparenza in un’espressione del- 

la natura della vita, la poesia libera l’anima dal peso della 

realtà e nel medesimo tempo ne rivela ad essa il significato. 

Soddisfacendo la segreta aspirazione dell’uomo, imprigionato 

dal destino e dalle proprie decisioni nei confini di una vita 

determinata, ad attuare nella fantasia quelle possibilità di vita 

che non ha potuto realizzare, essa amplia l’io dell'uomo e 

l'orizzonte delle sue esperienze di vita. Essa gli apre lo sguar- 

do verso un mondo più alto e più forte. In tutto questo si 

esprime però il rapporto fondamentale su cui poggia la poesia: 

la vita costituisce il suo punto di partenza; i rapporti vitali 

con gli uomini, le cose, la natura diventano il suo nucleo; nel 

bisogno di raccogliere le esperienze che scaturiscono dai rapporti 

di vita sorgono così le disposizioni universali della vita, e la 

connessione di ciò che si è esperito nei singoli rapporti di vita 

è la coscienza poetica del significato della vita. Queste disposi- 

zioni universali stanno alla base del libro di Giobbe e dei 

Salmi, dei cori della tragedia attica, dei sonetti di Dante e di 

Shakespeare, della grandiosa conclusione della Divina Comme- 

dia, della grande lirica di Goethe, di Schiller e dei romantici, 

nonché del Faust di Goethe, dei Nibelunghi di Wagner e del- 

l'’Empedocle di Hòlderlin. La poesia non vuole quindi conosce- 

re la realtà così come fa la scienza, ma vuol mostrare la 

significatività dell’accadimento, degli uomini e delle cose, pre- 

sente nelle relazioni vitali; così il mistero della vita si con- 

centra qui in una connessione interna di tali relazioni, intessu- 

ta di uomini, di destini, di circostanze. In ogni grande epoca 

poetica si compie di nuovo, secondo una successione regolare, il 

passaggio dalla fede e dai costumi ad essa relativi, che si forma- 

no sulla base dell’universale esperienza di vita della comunità, 



234 WILHELM DILTHEY 



al compito di rendere nuovamente intelligibile la vita in base 

ad essa stessa. Questa fu la via che ha condotto da Omero ai 

tragici attici, dalla fede cattolica alla lirica cavalleresca e all’epi- 

ca, dalla vita moderna a Schiller, Balzac, Ibsen. A questo 

passaggio corrisponde la successione delle forme poetiche nella 

quale dapprima si forma l’epica e quindi il dramma realizza la 

massima concentrazione, elaborando in una concezione della 

vita la connessione dei rapporti di azione, di carattere e di 

destino creati dalla vita, mentre il romanzo dispiega infine 

l’illimitata pienezza della vita ed esprime una coscienza del 

significato della vita. 


Concludiamo. L’emergere della poesia dalla vita la porta 

direttamente a esprimere nell’accadimento un'intuizione della 

vita stessa, concepita sulla base della sua particolare costituzio- 

ne. Essa si sviluppa poi nella storia della poesia, in cui questa 

si accosta gradualmente al suo fine di intendere la vita in base 

a essa stessa, esponendosi con piena libertà alle grandi impres- 

sioni vitali. Pertanto la vita mostra alla poesia aspetti sempre 

nuovi. La poesia indica in tal modo le possibilità illimitate di 

vedere la vita, di valutarla, di dare ad essa una nuova forma. 

L'accadimento diventa così simbolo, ma non di un pensiero, 



bensì di una connessione osservata nella vita — osservata a 

partire dall’esperienza di vita del poeta. È così che Stendhal e 

Balzac vedono nella vita un tessuto — creato senza finalità 



dalla natura stessa, in virtù di un oscuro impulso — di illusio- 

ni, di passioni, di bellezza e di corruzione, in cui la volontà 

forte si acquista la vittoria; Goethe vi scorge invece una forza 

formatrice che riunisce in una connessione dotata di valore le 

forme organiche, lo sviluppo umano e gli ordinamenti sociali; 

Corneille e Schiller vedono in essa il teatro di azioni eroiche. 

Ognuna di queste costituzioni vitali corrisponde a una forma 

interna della poesia. Di qui ai grandi tipi di intuizione del 

mondo non c’è che un passo, e il legame della letteratura con i 

movimenti filosofici conduce un Balzac, un Goethe, uno Schil- 

ler a questa perfezione suprema della comprensione della vita. 

In tal modo i tipi dell’intuizione poetica del mondo preparano 

quelli della metafisica, oppure trasmettono la loro influenza a 

tutta la società. 



WILHELM DILTHEY 235 



3. 1 tipi di intuizione del mondo nella metafisica. 



Tutti i fili del discorso si intrecciano nella dottrina della 

struttura, dei tipi e dello sviluppo delle intuizioni del mondo 

nella metafisica. Riassumo i rapporti che sono qui decisivi. 



I. Il processo complessivo del sorgere e del consolidamento 

delle intuizioni del mondo spinge all’esigenza di elevarle a un 

sapere universalmente valido. Anche nei poeti di maggiore ca- 

pacità di pensiero le grandi impressioni sembrano illuminare 

sempre la vita sotto nuovi aspetti: la tendenza al consolidamen- 

to conduce al di là di esse. Nel nucleo delle religioni univer- 

sali rimane qualcosa di bizzarro e di estremo, che scaturisce 

dai più accentuati degli Erlebnisse religiosi, dalla fissazione 

dell'anima nell’invisibile propria della tecnica sacerdotale, e che 

è inaccessibile alla religione. L’ortodossia si irrigidisce su que- 

sto; la mistica e lo spiritualismo tentano di riportarlo all’Erle- 

ben; il razionalismo vuole afferrarlo concettualmente e si vede 

costretto a dissolverlo: così la volontà di dominio presente nel- 

le religioni universali — che si era appoggiata all'esperienza 

interiore dei credenti, alla tradizione e all’autorità — viene 

sostituita dall’esigenza della ragione di trasformare in conformi- 

tà a se stessa le intuizioni del mondo e di fondare razionalmen- 

te la propria validità. Quando l’intuizione del mondo viene 

così elevata a una connessione concettuale, e quando questa 

viene fondata scientificamente, presentandosi così con la pretesa 

di validità universale, allora nasce la metafisica. La storia mostra 

che, dovunque essa compaia, lo sviluppo religioso l’ha prepara- 

ta, che la poesia la influenza e che la costituzione vitale delle 

nazioni, il loro apprezzamento della vita e i loro ideali agisco- 

no su di essa. L’aspirazione a un sapere universalmente valido 

dà a questa nuova forma di intuizione del mondo la sua struttu- 

ra propria. 


Chi è in grado di dire quali siano i punti in cui la tenden- 

za al conoscere, che opera in tutte le connessioni teleologiche 

della società, diventa scienza? Il sapere matematico e astronomi- 

co dei Babilonesi e degli Egizi si è svincolato dai compiti 

pratici e dal legame con la casta sacerdotale, ed è così diventato 

autonomo, soltanto nelle colonie ioniche. E quando la ricerca 



236 WILHELM DILTHEY 



prese a suo oggetto la totalità del mondo, la nascente filosofia 

e le scienze entrarono in una relazione strettissima. Matemati- 

ca, astronomia, geografia diventarono mezzi di conoscenza del 

mondo. L'antico problema della soluzione del mistero della 

vita impegnò i Pitagorici o Eraclito così come aveva impegnato 

i sacerdoti dell'Oriente. E se la potenza avanzante delle 

scienze naturali fece del problema della spiegazione della natu- 

ra il centro della filosofia nelle colonie, nel suo sviluppo ulterio- 

re tutte le grandi questioni inerenti al mistero del mondo ven- 

nero discusse nelle scuole filosofiche, le quali erano appunto 

orientate verso la relazione interna tra conoscenza della realtà, 

direzione della vita e volontà negli individui e nella società, 

ossia verso la formazione di un’intuizione del mondo. 


La struttura delle intuizioni del mondo nella metafisica è 

stata determinata anzitutto dalla loro connessione con la scien- 

za. L'immagine sensibile del mondo si trasformò in immagine 

astronomica; il mondo del sentimento e delle azioni della vo- 

lontà fu oggettivato in concetti di valori, di beni, di scopi e di 

regole; l'esigenza di forma concettuale e di fondazione portò 

gli indagatori del mistero del mondo a fare della logica e della 

teoria della conoscenza la loro base: lo stesso sforzo di soluzio- 

ne condusse dai dati condizionati e limitati a un essere universa- 

le, a una causa prima, a un sommo bene, a uno scopo ultimo; 

la metafisica diventò sistema e quest’ultimo procedette, attraver- 

so l'elaborazione di rappresentazioni e concetti insufficienti che 

si erano formati nella vita e nella scienza, a formare concetti 

ausiliari che oltrepassavano qualsiasi esperienza. 


Al rapporto della metafisica con la scienza si aggiunse quel- 

lo con la cultura mondana. In quanto la filosofia si trasmette 

allo spirito di ogni connessione teleologica presente nella cultu- 

ra, essa ne riceve nuove forze e al tempo stesso partecipa a 

questa l’energia della sua idea fondamentale. La filosofia conso- 

lida i procedimenti e il valore conoscitivo delle scienze; ela- 

bora le esperienze non metodiche della vita e la letteratura che 

le riguarda, traducendole in un apprezzamento generale della 

vita; eleva a una connessione unitaria i concetti fondamentali 

del diritto, scaturiti dalla prassi del negozio giuridico; pone i 

princìpi relativi alle funzioni dello stato, alle forme di costitu- 

zione e alla loro successione, sorti dalla tecnica della vita politi- 



WILHELM DILTHEY 237 



ca, in rapporto con i compiti supremi della società umana; 

intraprende a dimostrare i dogmi oppure, quando il loro nu- 

cleo oscuro risulta inaccessibile al pensiero concettuale, esercita 

su di esso la sua opera universale di distruzione; razionalizza 

le forme e le regole della pratica artistica sulla base di uno 

scopo proprio all’arte: ovunque essa vuol imporre la direzione 

della società da parte del pensiero. 


Infine, un’ultima cosa. Oguno di questi sistemi metafisici è 

condizionato dal posto che occupa nella storia della filosofia; 

esso dipende da un certo stato del problema ed è condizionato dai 

concetti che ne scaturiscono. 


Così nasce la struttura di questi sistemi metafisici — la 

connessione logica in essi presente e nel medesimo tempo la 

loro irregolarità condizionata in varie maniere, l'elemento rap- 

presentativo che esprime in determinati sistemi un determinato 

stato del pensiero scientifico, e nel medesimo tempo l'elemento 

della singolarità. Pertanto ogni grande sistema metafisico diven- 

ta un complesso che irradia in molteplici direzioni, che illumi- 

na ogni parte della vita a cui appartiene. 


Un unico sistema metafisico universalmente valido — tale è 

la tendenza di tutto questo grande movimento. Il differenziar- 

si della metafisica che scaturisce dalla profondità della vita 

appare a questi pensatori come un’aggiunta accidentale e sog- 

gettiva, che dev'essere eliminata. Il lavoro sterminato rivolto 

alla creazione di una connessione concettuale dimostrabile in 

maniera concorde — nella quale sarebbe quindi possibile risol- 

vere metodicamente il mistero della vita — acquista un signifi- 

cato autonomo; nello sviluppo verso questo fine ogni sistema 

trova il suo posto in base allo stato del lavoro concettuale. Il 

corso di questo lavoro si compie nei paesi civili dell'Europa, 

dapprima negli stati mediterranei e poi, a partire dal Rinasci- 

mento, negli stati romano-germanici — in uno strato superiore 

che soltanto di tempo in tempo viene influenzato dalla religiosi- 

tà prevalente al di sotto di esso, e che cerca sempre più di 

sottrarsi a tale influenza. 



2. In questa connessione compaiono distinzioni tra i sistemi 

che sono fondate sul carattere razionale del lavoro metafisico. 

Alcune indicano certi stadi del suo sviluppo, come quella tra 



238 WILHELM DILTHEY 



dogmatismo e criticismo. Altre percorrono l’intero processo: 

esse scaturiscono dallo sforzo che la metafisica compie di rap- 

presentare in una connessione unitaria quanto è contenuto nel- 

l'apprendimento della realtà, nell’apprezzamento della vita e 

nella posizione di scopi; e il loro oggetto è costituito dalle 

possibilità di risolvere questi problemi fondamentali. Se ponia- 

mo mente alle fondazioni della metafisica, ci si presentano le 

antitesi tra empirismo e razionalismo, tra realismo e ideali 

smo. L'elaborazione della realtà data viene compiuta sulla base 

degli opposti concetti dell’uno e dei molti, del divenire e dell’es- 

sere, della causalità e della teleologia, e a tutto ciò corrispondono 

differenze tra i sistemi. I differenti punti di vista a partire dai 

quali viene concepito il rapporto tra il fondamento del mondo 

e il mondo, tra l’anima e il corpo, si esprimono nelle prospetti- 

ve del deismo e del panteismo, del materialismo e dello spiritua- 

lismo. E in base ai problemi della filosofia pratica si producono 

altre differenze, tra cui si deve sottolineare quella tra l’eudemo- 

nismo — e la sua prosecuzione nell’utilitarismo — e la dottrina 

di una regola incondizionata del mondo morale. Tutte queste 

differenze trovano il loro posto nei campi particolari della meta- 

fisica e designano le varie possibilità di sottoporre questi cam- 

pi — sulla base di concetti opposti — al pensiero razionale. Tutte 

quante possono essere considerate, nel contesto di tale lavoro 

sistematico, come ipotesi in virtù delle quali lo spirito metafisi- 

co si avvicina a un sistema universamente valido. 


Sono così sorti infine i tentativi di classificare i sistemi 

metafisici da questo punto di vista. Alle prevalenti contrapposi- 

zioni dei concetti nella riflessione, fondata sulla natura della 

stessa elaborazione concettuale della metafisica, corrisponde per- 

ciò nel migliore dei casi una duplicazione dei sistemi, con l’anti- 

tesi tra punto di vista realistico e idealistico, o un’altra analoga. 


A chi potrebbe sfuggire il significato che il lavoro concettua- 

le della filosofia ha compiuto nei campi più diversi? Esso prepa- 

ra le scienze indipendenti; essa le abbraccia. Di questo punto 

ho già detto prima in maniera dettagliata. Ma ciò che distin- 

gue l’attività metafisica dal lavoro delle scienze positive è la 

volontà di sottomettere ai metodi scientifici — che si sono 

formati per i singoli campi del sapere — la connessione dell’u- 

niverso e della vita stessa. Questi metodi superano i limiti dei 



WILHELM DILTHEY 239 



procedimenti delle scienze particolari mirando all’incondizio- 

nato. 



3. A questo punto è possibile chiarire l’idea fondamentale 

da cui ha preso le mosse in generale il nostro tentativo di una 

dottrina dell’intuizione del mondo, e che definisce anche que- 

sto lavoro. La coscienza storica ci riporta al di qua della tenden- 

za dei metafisici a un sistema unitario universalmente valido, al 

di qua delle differenze da essa derivanti che dividono i pensato- 

ri, e infine al di qua del collegamento di queste differenze in 

forma di classificazioni. La coscienza storica assume a proprio 

oggetto l’antitesi effettivamente esistente tra i sistemi nella loro 

costituzione complessiva. Essa vede queste costituzioni comples- 

sive nella loro connessione con il corso delle religioni e della 

poesia. Essa mostra inoltre come tutto il lavoro concettuale 

della metafisica non abbia fatto un solo passo in direzione di 

un sistema unitario. In tal modo essa considera l’antitesi tra i 

sistemi metafisici come fondata sulla vita stessa, sull'esperienza 

della vita, sulle posizioni nei confronti del problema della vita. 

Su tali posizioni poggia la molteplicità dei sistemi e al tempo 

stesso la possibilità di distinguere al loro interno determinati 

tipi. Ognuno di questi tipi abbraccia la conoscenza della realtà, 

l'apprezzamento della vita e la posizione di scopi. Essi sono 

indipendenti dalla forma dell’antitesi in cui, in base a punti di 

vista contrapposti, vengono risolti i problemi fondamentali. 


L'essenza di questi tipi si manifesta chiaramente se si guar- 

da ai grandi geni metafisici che hanno espresso la loro costitu- 

zione personale in sistemi concettuali con pretesa di validità. La 

loro tipica costituzione vitale è tutt'uno con il loro carattere: 

essa si esprime nel loro ordinamento della vita; riempie ogni 

loro azione; si manifesta nel loro stile. E se i loro sistemi sono 

ovviamente condizionati dallo stato dei concetti in cui vengono 

alla luce, tuttavia i loro concetti — storicamente considerati — 

sono soltanto strumenti ausiliari per la costruzione e la dimo- 

strazione della loro intuizione del mondo. 


Spinoza comincia il suo trattato sulla via per arrivare alla 

conoscenza perfetta con l’esperienza vitale della nullità dei dolo- 

ri e delle gioie, della paura e della speranza della vita quotidia- 

na; prende la decisione di cercare il vero bene, che garantisce 



240 WILHELM DILTHEY 



una gioia eterna, e risolve quindi questo compito nella sua 

Ethica attraverso il superamento della schiavitù verso le passioni 

nella conoscenza di Dio come fondamento immanente della 

molteplicità delle cose transeunti, e attraverso l’amore intellet- 

tuale infinito di Dio che procede da questa conoscenza, e in 

virtù del quale Dio, l’infinito, ama se stesso nei limitati spiriti 

umani. L'intero sviluppo di Fichte è l’espressione di una tipica 

costituzione dell'anima — dell’autonomia morale della persona 

di fronte alla natura e a tutto il corso del mondo; e così la sua 

parola ultima, con cui si chiude la grande azione di volontà di 

questa vita tempestosa, è l'ideale dell'uomo eroico, in cui la 

funzione suprema della natura umana — che si compie nella 

storia in quanto teatro della vita morale — è legata all'ordine 

sopra-terreno delle cose. E l'enorme influenza storica di Epicu- 

ro — che pure dal punto di vista intellettuale rimase molto al 

di sotto dei massimi pensatori — sta nella pura chiarezza con 

cui egli ha espresso una tipica costituzione dell’anima. Essa 

consiste nella serena subordinazione dell’uomo alla connessione 

regolare della natura e nel godimento sensibilmente gioioso, e 

tuttavia riflessivo, dei suoi doni. 


Così intesa, ogni genuina intuizione del mondo è un’intui- 

zione che nasce dallo stare entro la vita stessa. Le giovanili 

annotazioni di Hegel, sorte dal contatto delle sue esperienze 

metafisico-religiose con l’interpretazione dei documenti del Cri- 

stianesimo primitivo, costituiscono un esempio di siffatte intui- 

zioni. Questo stare dentro la vita si compie nelle prese di 

posizione nei suoi confronti, nelle relazioni vitali. È questo, 

del resto, il significato profondo del detto ardito, secondo cui il 

poeta sarebbe il vero uomo. A queste prese di posizione si 

rivelano dunque certi aspetti del mondo. Non ci azzardiamo 

qui a continuare. Noi non conosciamo la legge di formazione 

in base a cui dalla vita scaturisce il differenziarsi dei sistemi 

metafisici. Se vogliamo accostarci alla comprensione dei tipi di 

intuizione del mondo dobbiamo rivolgerci alla storia. E ciò che 

di essenziale la storia ha qui da insegnarci è la possibilità di 

cogliere la connessione tra vita e metafisica, il collocarsi nella 

vita come centro di questi sistemi, la coscienza delle grandi 

connessioni dei sistemi che percorrono la storia e in cui esiste 

un atteggiamento tipico — per quanto si voglia poi limitarli o 



WILHELM DILTHEY 24I 



frammentarli. Si tratta cioè di vedere in profondità sulla base 

della vita, di seguire le grandi intenzioni della metafisica. 


È questo il senso nel quale proponiamo una distinzione di 

tre tipi principali. Per tale distinzione non c’è altro strumento 

che la comparazione storica. Il suo punto di partenza è che 

ogni mente metafisica si pone di fronte al mistero della vita da 

un determinato punto di vista, quasi dovesse dipanarne l’intri- 

co: questo punto è condizionato dalla posizione rispetto alla 

vita, e a partire da esso si forma la struttura specifica del suo 

sistema. Possiamo quindi ordinare i sistemi in gruppi secondo 

il loro rapporto di dipendenza, di affinità, di attrazione e di 

repulsione reciproca. Ma qui si presenta una difficoltà propria 

di ogni comparazione storica. La comparazione, infatti, deve 

presupporre un criterio di selezione delle caratteristiche presen- 

ti in ciò che si compara, e questo criterio determina poi l’ulte- 

riore procedimento. Pertanto ciò che qui propongo ha un carat- 

tere del tutto provvisorio. Il nucleo di questo può essere soltan- 

to l’intuizione che è scaturita da una lunga consuetudine con i 

sistemi metafisici. La loro stessa comprensione in una formula 

storica può avere un carattere solamente soggettivo. Rimane 

aperta la possibilità di disporre logicamente la cosa in modo 

diverso, unificando per esempio le due forme di idealismo op- 

pure legando l’idealismo al naturalismo, oppure procedendo in 

altre maniere. Questa distinzione di tipi deve servire soltanto a 

vedere più profondamente nella storia, e ciò a partire dal- 

la vita. 



III. IL NATURALISMO 



I. 



L’uomo si trova determinato dalla natura. Essa comprende 

il suo corpo non meno del mondo esterno. E proprio la situa- 

zione oggettiva del corpo, i potenti impulsi animali che lo 

scuotono, determinano il suo sentimento della vita. Quella visio- 

ne e quella considerazione della vita che ne esauriscono il 

corso nel soddisfacimento degli impulsi animali e nella subordi- 

nazione al mondo esterno, da cui traggono il loro nutrimento, 

sono vecchie come l’umanità stessa. Nella fame, nell’impulso 



16. STORICISMO TEDESCO. 



242 WILHELM DILTHEY 



sessuale, nella vecchiaia e nella morte l’uomo si vede sottopo- 

sto alle potenze demoniache della vita della natura. Egli stesso 

è natura. Eraclito e l’apostolo Paolo la descrivono entrambi, 

con analoghe parole piene di disprezzo, come la concezione 

della vita propria della massa legata ai sensi. Essa è permanen- 

te; non c’è periodo in cui non abbia dominato una parte degli 

uomini. Anche al tempo del più rigido dominio della casta 

sacerdotale orientale esisteva questa filosofia della vita dell’uo- 

mo sensibile; e anche quando il Cattolicesimo reprimeva ogni 

espressione teorica di questo punto di vista si parlava molto di 

« Epicurei »; ciò che non era consentito di esprimere in princì- 

pi filosofici risuonava tuttavia nelle canzoni dei Provenzali, in 

alcune poesie di corte tedesche, nelle epopee francesi e tedesche 

di Tristano. E proprio ciò che Platone dipingeva come la vita 

di piacere e la dottrina edonistica dei proprietari e dei commer- 

cianti, si ripresenta ai nostri occhi come la filosofia della vita 

della gente di mondo del secolo xvii. Al soddisfacimento 

dell’animalità si aggiunge un elemento nel quale l’uomo è mmag- 

giormente dipendente dal suo ambiente: la gioia del proprio 

rango e del proprio onore. Alla base di questa concezione del 

mondo sta sempre lo stesso atteggiamento: la subordinazione 

della volontà alla vita animale dell’impulso che domina il cor- 

po e alle sue relazioni con il mondo esterno. Il pensiero e 

l’attività teleologica da esso diretta sono qui al servizio di 

quest’animalità, si realizzano nel suo soddisfacimento. 


Questa costituzione della vita trova la sua espressione anzi- 

tutto in una parte considerevole della letteratura di tutti i 

popoli — a volte come forza intatta dell’animalità, più spesso 

in lotta con l'intuizione religiosa del mondo. Il suo grido di 

battaglia è l'emancipazione della carne. In quest’antitesi contro 

il necessario ma tremendo disciplinamento dell'umanità da par- 

te della religione consiste il diritto storico, relativo, della reazio- 

ne di un'affermazione sempre risorgente e operante nella vita 

naturale. Quando questa costituzione della vita diventa filoso- 

fia, allora sorge il naturalismo. Questo afferma teoricamente 

ciò che in essa è vita: il processo della natura è la realtà unica 

e intera; fuori di esso non esiste nulla; la vita spirituale è 

distinta soltanto formalmente, in quanto coscienza, dalla natu- 

ra fisica, secondo le qualità contenute in questa, e tale determi- 



WILHELM DILTHEY 243 



natezza della coscienza, vuota di contenuto, deriva dalla realtà 

fisica secondo la causalità naturale. 


La struttura del naturalismo — da Democrito a Hobbes e 

da questo al Sistème de la natureS — è uniforme: il sensismo 

come teoria della conoscenza, il materialismo come metafisica e 

un duplice atteggiamento pratico — da un lato la volontà di 

godimento, dall’altro la conciliazione con il corso prepotente 

ed estraneo del mondo, attuata sottomettendosi ad esso nell’os- 

servazione. 


La legittimità filosofica del naturalismo poggia su due pro- 

prietà fondamentali del mondo fisico. Come sono preponderan- 

ti all’interno della realtà data nella nostra esperienza l’estensio- 

ne e la forza delle masse fisiche! Esse circondano come qualco- 

sa di smisurato e continuamente più esteso le rare manifestazio- 

ni spirituali; così considerate, queste appaiono come interpola- 

zioni nel grande testo dell’ordine fisico. Perciò l’uomo natura- 

le, nella considerazione teorica di tali rapporti, deve trovarsi 

totalmente soggetto a quest'ordine. Al tempo stesso la natura è 

la sede originaria di ogni conoscenza delle uniformità. Già le 

esperienze della vita quotidiana insegnano a constatare queste 

uniformità e a contare su di esse; le scienze positive del mondo 

fisico si accostano, attraverso lo studio di queste uniformità, 

alla conoscenza della loro connessione regolare. Così esse realiz- 

zano un ideale di conoscenza irraggiungibile per le scienze 

dello spirito, fondate sull’Er/edez e sull’intendere. 


A questo punto, però, le difficoltà inerenti a questo punto 

di vista spingono il naturalismo, in una dialettica incessante, 

verso formulazioni sempre nuove della sua posizione nei con- 

fronti del mondo e della vita. La materia da cui il naturalismo 

procede è un fenomeno della coscienza; in tal modo esso cade 

nel circolo vizioso di voler derivare da ciò che è dato sola- 

mente come fenomeno per la coscienza la coscienza stessa. È 

impossibile derivare dal movimento, che ci è dato come fenome- 

no della coscienza, la sensibilità e il pensiero. L’incompara- 

bilità di questi due fatti conduce — dopo che il problema si è 

rivelato insolubile nei più disparati tentativi compiuti dal mate- 



5. È il titolo dell'opera principale di Paul Heinrich Dietrich barone d’Holbach 

(1723-1789), pubblicata nel 1770, in cui sono sistematicamente esposti i princìpi del ma- 

terialismo illuministico. 



244 WILHELM DILTHEY 



rialismo antico fino al Sistème de la nature — alla tesi positivi- 

stica della corrispondenza tra fisico e spirituale. Anche questa è 

esposta a forti obiezioni. Infine, la morale del naturalismo origi- 

nario si mostra incapace di spiegare lo sviluppo della società. 



2. 



Cominciamo con l'aspetto gnoseologico del naturalismo. Il 

naturalismo ha il suo fondamento gnoseologico nel sensismo. 

Col termine « sensismo » intendo il riconducimento del proces- 

so della coscienza o delle funzioni all'esperienza sensibile ester- 

na, delle determinazioni di valore e di scopo al criterio del 

piacere e del dispiacere sensibile. Il sensismo costituisce l’espres- 

sione filosofica diretta della costituzione naturalistica dell’ani- 

ma. È qui dato, fin dal suo porsi, il problema psico-genetico 

del naturalismo, quello di derivare dalle singole impressioni 

l’unità della vita psichica come una unitas composttionis. Il 

sensista non rifiuta né il fatto dell’esperienza interna né l’elabo- 

razione concettuale del dato, ma trova nell’ordine fisico la base 

di ogni conoscenza della connessione regolare del reale, e le 

proprietà del pensiero diventano per lui, in maniera immediata 

o per il tramite di una teoria, una parte dell’esperienza sensibile. 


La prima teoria sensistica è stata formulata da Protagora*. 

Nella metafisica precedente la forza universale della ragione 

operante nel pensiero umano non era stata ancora separata 

dalle proprietà fisiche dell’uomo, dal processo di respirazione e 

dalle immagini dei sensi concepite come corporee. Protagora 

insegnò che la percezione nasce dalla cooperazione di due movi- 

menti, l'uno esterno e l’altro organico, che ha luogo nell’uo- 

mo; dato che per lui la percezione e il pensiero erano insepara- 

bili, egli derivò dalle percezioni sorte in tal modo l’intera vita 

dell'anima. Egli spiegò anche il piacere, il dispiacere e l’impul- 

so sulla base della cooperazione dei due movimenti. Era dun- 

que senza dubbio un sensista. Egli scoprì inoltre fin da allora, 

muovendo da questo punto di vista, le conseguenze fenomenisti- 

che e relativistiche in esso implicite. La dottrina relativistica di 



6. Protagora di Abdera, il maggiore rappresentante della Sofistica, vissuto nella se- 

conda metà del secolo v a. C., elaborò una teoria sensistica della conoscenza e formu- 

lò il principio secondo cui «l’uomo è misura di tutte le cose », tradizionalmente in- 

terpretato — come anche qui da Dilthey — in senso relativistico. 



WILHELM DILTHEY 245 



Protagora considera ogni conoscenza, ogni posizione di valore 

e ogni determinazione di scopo determinato dall'elemento pura- 

mente empirico dell’organizzazione umana; essa esclude quindi 

che sia possibile comparare queste funzioni con i processi ester- 

ni a cui esse si riferiscono. In tale maniera la conoscenza, la 

determinazione di valore e la posizione di scopo posseggono 

una validità soltanto relativa, cioè nella correlazione con 

questa organizzazione. È qui eliminato il legame tra il sogget- 

to e il suo oggetto, presente nell’assunzione di un’identica ragio- 

ne universale che agisce nell’universo, e che in quanto simile 

riconosce il simile. L'organizzazione sensibile mostra nel regno 

dell’animalità — che giunge fino all'uomo — le forme più 

diverse, e da ognuna di esse deve sorgere un mondo totalmen- 

te differente. La fattualità meramente empirica dell’organizza- 

zione sensibile, il fatto che ogni pensiero è vincolato ad essa e 

l'inserimento di tale organizzazione nella connessione fisica co- 

stituiscono il fondamento di tutte le dottrine relativistiche del- 

l'antichità. 


Com'è possibile, sulla base di questi presupposti, un’esperien- 

za e una scienza empirica? Questo era il problema successivo. 

Matematica, astronomia, geografia, biologia si sviluppavano 

continuamente, e la scepsi sensistica doveva rendere comprensi- 

bile la loro possibilità. Già il probabilismo di Carneade” conte- 

neva in sé la tendenza a istituire un equilibrio positivo tra i 

presupposti sensistici e le scienze empiriche. Nella sua scepsi la 

validità della coscienza viene riposta, anziché nei rapporti (così 

conformi allo spirito greco) di riproduzione di una realtà ester- 

na oggettiva da parte delle rappresentazioni, nell’accordo inter- 

no delle percezioni tra di loro e con i concetti, in una connessio- 

ne priva di contraddizioni. Nell’ideale della massima probabili- 

tà raggiungibile, nella distinzione dei suoi livelli, si otteneva 

un punto di vista in base al quale si poteva contemporaneamen- 

te combattere la metafisica e assicurare al sapere empirico una 

misura, anche se modesta, di validità. 


Ma soltanto quando la grande epoca della fondazione della 

scienza matematica della natura riconobbe, nel secolo xvi, 

l’esistenza di un ordine della natura secondo leggi, il sensismo 



7. Carneade (219-129 a. C.), filosofo della Media Accademia. 



246 WILHELM DILTHEY 



entrò nel suo ultimo e decisivo periodo. La scienza naturale si 

era costituita come sapere empirico inattaccabile; il sensismo 

era costretto a riconoscere questo fatto, a collegarsi ad esso e a 

superare le conseguenze scettiche dell'epoca antecedente. Fu 

questa la grande impresa di David Hume. Egli stesso ha consi- 

derato la sua filosofia come una prosecuzione della scepsi acca- 

demica. E infatti in lui ricorrono i caratteri principali di 

questa scepsi: la fattualità meramente empirica della nostra 

organizzazione sensibile e del pensiero ad essa connesso; di 

qui l’eliminazione di qualsiasi rapporto di riproduzione tra lo 

spirito che apprende e il mondo oggettivo, e quindi lo sposta- 

mento della conoscenza nel mero accordo interno delle perce- 

zioni tra di loro e con i concetti. Ma questi princìpi acqui- 

stano nella sua analisi il loro sviluppo più fecondo: dalle rego- 

larità dell’accadere nascono le abitudini di determinate associa- 

zioni; nella capacità di associazione ad esse inerenti risiede il 

fondamento esclusivo dei concetti di sostanza e di causalità. Ne 

derivano conseguenze che avrebbero costituito i fondamenti del 

positivismo. La connessione del mondo diventa, in virtù dei 

legami di sostanza e di causalità, un effetto secondario dei fatti 

animali dell’abitudine e dell’associazione; la scienza empirica 

viene limitata alle uniformità di coesistenza e di successione 

dei fenomeni, escludendo ogni sapere concernente le relazioni 

interne, l’essenza, la sostanza o la causalità; queste uniformità co- 

stituiscono l'oggetto del nostro sapere riguardo ai fatti spirituali 

e fisici: tutte le‘parti del mondo sono legate in un’unica legalità. 


Il sensismo è l’intimo spirito del sistema di David Hume; 

ma i suoi grandi risultati si sono svincolati dai presupposti 

metafisici nella teoria positivistica della conoscenza di D’Alem- 

bert. Il positivismo diventò un metodo, e nei confronti di 

questo punto di vista fenomenistico il naturalismo stesso fece 

valere — con Feuerbach, Moleschott*, Biichner? — la « solare 

evidenza del sensibile », e con Comte la reciproca connessione 



8. Jakob Moleschott (1822-1893), biologo e fisiologo, autore della Physiologie des 

Stoffwechsels in Pflanzen und Tieren (1857) e di Der Kreislaut des Lebens (1852), è 

uno dei più noti esponenti del positivismo materialistico tedesco. 


9. Ludwig Biichner (1824-1899), medico e filosofo, autore di Kraft nad Stoff (1855), 

di Natur und Geist (1857), di Die Stellung des Menschen in der Natur (1869), è un al- 

tro importante esponente del positivismo materialistico tedesco. 



WILHELM DILTHEY 247 



dei fatti fisici e la dipendenza da essi di quelli psichici, così 

come insegnava la nuova fisiologia del cervello. 



La metafisica del naturalismo trovò il suo fondamento mec- 

canicistico nell’età successiva a Protagora. La spiegazione mec- 

canicistica è, in sé e per sé, un procedimento proprio delle 

scienze positive, e quindi è compatibile con diverse visioni del 

mondo: la metafisica meccanicistica sorge soltanto quando nel- 

la realtà non si vede altro che il meccanismo, quando certi 

concetti che, per la conoscenza della natura, sono strumenti del 

suo procedimento vengono considerati come entità. Le cause 

dei movimenti vengono riposte nei singoli elementi materiali 

dell'universo, e a questi elementi vengono ricondotti, secondo 

un metodo qualsiasi, i fatti spirituali. Dalla natura viene espul- 

sa quell’interiorità che la religione, il mito e la poesia vi aveva- 

no collocata: ora la natura è diventata senza anima, e da 

nessuna parte una connessione unitaria pone limite alla sua 

interpretazione tecnica. Soltanto questo punto di vista permette 

di dare al naturalismo una forma rigorosamente scientifica. Il 

suo problema diventa ora quello di derivare il mondo spirituale 

dalla disposizione meccanica delle parti corporee ordinate se- 

condo leggi. 


Una letteratura sterminata si è proposta di risolvere questo 

compito. I suoi culmini sono il sistema epicureo e la splendida 

esposizione datane da Lucrezio; il tenebroso e possente sistema 

di Hobbes, che concepì in modo coerente l’intero mondo spiri- 

tuale dal punto di vista dell’impulso da cui scaturisce la lotta 

per il potere degli individui, dei ceti e degli stati; nella Fran- 

cia del secolo xvrri il sistema della natura, che espresse nelle 

sue fredde formule il mistero degli uomini più miscredenti e 

dei libertini di tutti i tempi; infine la fanatica dottrina materia- 

listica di Feuerbach, Biichner, Moleschott e compagni. 


La potenza di queste dottrine poggiava sul fatto che esse 

erano state costruite sul terreno della realtà esterna spaziale 

che cade sotto i sensi, accessibile al pensiero esatto delle 

scienze della natura. In nessun luogo esse contenevano un oscu- 

ro residuo di forze impenetrabili. Non c’era angolo in cui 



248 WILHELM DILTHEY 



potesse celarsi un elemento spirituale autonomo o un elemento 

trascendente. Tutto era razionale e naturale. Infatti l’anima di 

questa metafisica materialistica è la lotta contro la potenza 

della religiosità e della metafisica spiritualistica con le loro oscu- 

rità. E la sua legittimità storica risiedeva nello sforzo di supera- 

re l’alleanza della chiesa con il dispostismo all’interno della 

società. 


In un tale ordinamento delle cose non c'è spazio alcuno per 

la considerazione del mondo dal punto di vista del valore e 

dello scopo. Valori e scopi sono qui ciechi prodotti del corso 

della natura, i quali hanno un interesse particolare soltanto per 

l’uomo, poiché l’uomo è per se stesso, in virtù della sua vita 

interiore, centro del mondo e tutto misura in conformità ai 

suoi sentimenti, alle sue aspirazioni, ai suoi fini. 



di 


L’ideale di vita del naturalismo doveva essere duplice, in 

base al suo doppio rapporto con il corso della natura. A causa 

della sua passione l’uomo è schiavo del corso della natura — 

ma uno schiavo accorto e calcolatore che si pone al di sopra di 

esso in virtù della potenza del pensiero. 


Già l’antichità sviluppò entrambi gli aspetti dell’ideale natu- 

ralistico. Il sensismo di Protagora aveva già in sé le condizioni 

dell’edonismo di Aristippo! Per quest’ultimo, infatti, tanto 

le percezioni sensibili quanto i sentimenti e i desideri sorgono 

nei contatti dell'organizzazione sensibile con il mondo esterno; 

essi non possono quindi esprimere i valori oggettivi contenuti 

nella realtà ma soltanto il rapporto in cui il soggetto, con il 

suo sentimento, si pone nei loro confronti. Da ciò Aristippo 

concludeva che nel piacere — inteso come il movimento 

migliore che abbia luogo nella nostra organizzazione sensibile 

— risiede il criterio e il fine del giusto agire. Nella connes- 

sione fisica della nostra animalità con la natura esterna, quale 

si palesa nei movimenti sensibili, dev'essere ricercato il criterio 

e il fine dell’arte di vivere. La riflessione socratica diventa qui 

gioco sovrano del pensiero formale che calcola i valori del 



10. Aristippo di Cirene (435-366 a. C.), filosofo socratico, fu il maggiore rappre- 

sentante dell’edonismo nel pensiero greco. 



WILHELM DILTHEY 249 



piacere e che si eleva al di sopra delle convenzioni, cioè sopra 

gli ordinamenti oggettivi della vita. Ma nell’apprendimento ot- 

tico e nel godimento estetico — che tanta importanza rivestiva 

per lo spirito greco — c'era un altro ideale, e anche questo si 

collocava nell’ambito di quella metafisica naturalistica che ha i 

suoi rappresentanti in Democrito, in Epicuro, in Lucrezio. Ad 

esso condussero le esperienze dell'impulso vitale. Si tratta della 

tranquillità d'animo che nasce in colui che accoglie in sé la 

connessione sempre salda e duratura dell’universo. Tale costitu- 

zione dell'anima trovò la sua espressione nel poema didattico 

di Lucrezio. Egli riviveva in sé la potenza liberatrice della 

grande visione cosmica, astronomica e geografica del mondo 

creata dalla scienza greca. 


L'universo smisurato e le sue leggi eterne, la nascita dei 

sistemi del mondo, la storia della terra che si copre di piante 

e di animali e che infine produce l’uomo — questa concezione 

gli consentì di osservare molto al di sotto di sé gli intrighi 

politici e le povere marionette divine adorate dal suo popolo. 

Anzi la stessa vita dell'individuo, con la sua sete di godimento 

e di potere, la lotta delle esistenze particolari sul teatro dell’Im- 

pero romano si rimpiccioliva da questo punto di vista cosmico: 

« pio è chi guarda all’universo con spirito sereno ». 


Già nell’antichità l’esperienza che, nel corso del mondo, 

compie l’uomo che desidera la felicità dei sensi aveva dissolto 

la rigidità della dottrina del piacere sensibile come fine della 

vita. Accanto a quello sensibile si era affermato il durevole 

piacere spirituale. Già allora la scuola epicurea si era proposta 

di risolvere — mediante l’assunzione di uno sviluppo progressi 

vo — il compito decisivo di derivare la cultura, in tutta la sua 

ricchezza e grandezza, dai sentimenti del piacere e del dispiace- 

re sensibile. Ma solamente l’epoca moderna approntò strumenti 

scientificamente validi per la spiegazione naturalistica dello svi- 

luppo spirituale: la comprensione della vita spirituale in base 

all'ambiente, la derivazione della vita economica dagli interessi 

dell'individuo, la derivazione della cultura intellettuale dal pro- 

gresso economico e infine la teoria dell'evoluzione, che consentì 

di porre a fondamento delle caratteristiche intellettuali e morali 

degli uomini l’accumularsi di trasformazioni minime avvenute 

nel corso di smisurati spazi di tempo. L'ideale naturalistico 



250 WILHELM DILTHEY 



quale fu enunciato, al termine di un lungo sviluppo culturale, 

da Ludwig Feuerbach — l’idea dell’uomo libero che in Dio, 

nell’immortalità e nell’ordine invisibile delle cose riconosce i 

fantasmi delle sue aspirazioni — ha esercitato un'influenza po- 

tente sulle idee politiche, sulla letteratura e sulla poesia. 



IV. L’IDEALISMO DELLA LIBERTÀ 



Prendiamo nuovamente le mosse dal fatto dell’affinità tra 

un gran numero di sistemi che, essendo fondata su una costitu- 

zione vitale e su una posizione nei confronti del mondo, rac- 

chiude in sé la soluzione dei problemi inerenti al mistero della 

vita secondo una determinata tendenza, e in tal modo riunisce 

questi sistemi in un secondo tipo di intuizione del mondo. 



I. 



L’idealismo della libertà è una creazione dello spirito atenie- 

se. L'energia formatrice, plasmatrice, sovrana in esso presente 

diventa con Anassagora !, Socrate, Platone e Aristotele princi- 

pio di comprensione del mondo. Cicerone ha espresso con vigo- 

re il suo accordo, il suo sentimento di affinità con Socrate e 

tutta la scuola socratica della storia greca successiva. I grandi 

apologisti e padri della Chiesa cristiana si trovano in un consa- 

pevole accordo sia con lo spirito socratico sia con la filosofia 

romana. La scuola scozzese poggia completamente sull’orienta- 

mento di pensiero di Cicerone ed è al tempo stesso consapevo- 

le della propria comunanza con gli antichi scrittori cristiani. E 

proprio la coscienza di tale affinità collega a questi scrittori 

precedenti Kant e Jacobi !, Maine de Biran" e i filosofi france- 

si a lui imparentati fino a Bergson. 



rt. Anassagora di Clazomene (500 circa-428 a. C.), filosofo ionico, elaborò la teo- 

ria del nous, ossia dell'intelletto divino che regola la mescolanza degli clementi i qua- 

li costituiscono la realtà fisica, inserendo in essa un principio ordinatore: a questa 

dottrina si riferisce esplicitamente Socrate, nel Fedone platonico. 


12. Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819), autore di una seric di lettere polemiche 

contro Moses Mendelssohn Uber die Lehre des Spinoza (1785), traduttore di Bruno, 

claborò una « filosofia dell'identità » criticando sia Kant sia l’idcalismo post-kantiano. 

È una figura centrale nel dibattito sullo spinozismo che caratterizza il pensiero tede- 

sco verso la fine del secolo xvi. 


13. Frangois-Pierre Maine de Biran (1766-1824), autore dell’Essui sur les fonde- 



WILHELM DILTHEY 251 



La coscienza di tale affinità è accompagnata da un'aspra 

polemica dei rappresentanti di questo indirizzo contro il siste- 

ma naturalistico. La coscienza della completa diversità dal natu- 

ralismo nella concezione della vita, nell’intuizione del mondo e 

nell’ideale ispira ognuno di questi pensatori, e si afferma con 

la massima intensità nei più profondi. Ma anche l’opposizione 

al panteismo fu resa sempre più consapevole da questo ideali- 

smo della personalità. Se il panteismo greco più antico si era 

distaccato dalla personificazione religiosa della divinità e dal 

rapporto personale con essa, Socrate si oppose a questo pantei- 

smo, e la filosofia romana dominante insistette sull’affinità con 

Socrate. Anche la più antica filosofia cristiana si sente unita ai 

rappresentanti dell’idealismo della libertà e della personalità in 

antitesi sia al naturalismo sia al panteismo. La stessa posizione 

emerge nella polemica della più tarda filosofia cristiana contro 

l’idealismo oggettivo di Averroè. Essa si manifesta poi durante 

il Rinascimento nella lotta di Giordano Bruno contro ogni 

forma di filosofia cristiana e di quest’ultima contro il nuovo 

panteismo bruniano. A partire da questo periodo essa prosegue 

poi nel conflitto tra Spinoza e tutte le dottrine della persona- 

lità o della libertà, o tra Leibniz e numerosi esponenti della 

dottrina della libertà, infine nelle lotte tra Kant, Fichte, Jaco- 

bi, Fries e Herbart da un lato, Schelling, Hegel e Schleierma- 

cher dall'altro. Tutte le grandi polemiche filosofiche degli ulti- 

mi secoli acquistavano un carattere appassionato in virtù del 

legame in cui le varie soluzioni autentiche di un problema 

stanno con le diverse intuizioni del mondo. Il conflitto di 

Bayle! con Spinoza ha alla radice un’esigenza di libertà nei 

confronti del determinismo. Il conflitto di Voltaire con Leibniz 



ments de la psychologie (1812), del saggio Des rapports des sciences naturelles avec la 

psycologie (1813) e di numerosi altri scritti — tra cui il Journal intime, pubblicato po- 

stumo — è il capostipite dello spiritualismo francese dell'Ottocento: la sua posizione 

esercitò una larga influenza sul pensicro spiritualistico, fin verso gli inizi del nuovo 

secolo. 


14. Jakob Friedrich Fries (1773-1843), autore di una Neue Kntik der Vernunfe 

(1807) e di numerose altre opere, in cui è formulata un'interpretazione in chiave psi- 

cologica della filosofia kantiana. 


15. Pierre Bayle (1647-1706), autore delle Pensées diverses sur la comète (1682) e 

soprattutto del celebre Dictionnaire historique et critique (1695-97, 2° ed. 1702), fu una 

delle grandi fonti di ispirazione della cultura illuministica francese, che da lui derivò 

il suo atteggiamento critico nei confronti della tradizione e il ricorso all'analisi erudita 



252 WILHELM DILTHEY 



si richiama a una presa di posizione pratica della coscienza che 

muove dall'uomo e che tende quindi in un primo luogo a 

garantire la libertà contro la metafisica contemplativa fondata 

sull’intuizione dell'universo. Rousseau contrappone con enorme 

successo alle forme più diverse di naturalismo o di monismo 

una filosofia della personalità e della libertà. La discussione tra 

Jacobi e Schelling tocca i principali problemi che separano idea- 

lismo oggetttivo e filosofia della personalità; e nessuna disputa 

è stata mai condotta con tanta passionalità. Anche la polemica 

di Herbart contro la filosofia monistica deriva la propria vee- 

menza dalla convinzione che il monismo poneva in questione 

le grandi verità del sistema teistico, mentre egli si ergeva a 

difensore della visione cristiana del mondo, che nelle sue radici 

più profonde è teistica. L’asprezza con cui Fries e Apelt'‘ 

conducono la loro battaglia contro la speculazione monistica è 

condizionata in egual misura dall’odio verso la deformazione 

delle scienze sperimentali della natura compiuta da Schelling 

e da Hegel e dall’odio verso la dissoluzione del teismo cri- 

stiano sotto il manto di una difesa del Cristianesimo. 



De 



A questa coscienza di comunanza reciproca e di antitesi, 

che rispettivamente unisce tra loro i rappresentanti dell’idealismo 

della libertà e li separa sia dall’idealismo oggettivo sia dal 

naturalismo, corrisponde l’effettiva affinità tra i diversi sistemi 

di questo tipo. Il legame che in questi sistemi tiene insieme 

l'intuizione del mondo, il metodo e la metafisica consiste nel 

fatto che l’atteggiamento, che con sovrana autosufficienza si 

contrappone a ogni datità, contiene in sé l'indipendenza dello 

spirituale da tale datità: lo spirito è consapevole della sua essen- 

za come distinta da ogni causalità fisica. Con profonda penetra- 

zione etica Fichte ha colto la connessione tra il carattere di un 

certo gruppo di pensatori e l’idealismo della libertà, in antitesi 

a ogni sistema della natura. Questa libera potenza dell'io si 



come strumento critico. Dilthey si riferisce qui alla polemica con Spinoza, condotta 

nella voce « Spinoza » del Dictionnaire. 


16. Ernst Friedrich Apelt (1812-1859), allievo c continuatore di Frics, del cui pen- 

siero diede un'esposizione nella Mezaphysik (1857). 



WILHELM DILTHEY 253 



trova quindi legata nel rapporto con altre persone non già 

fisicamente, bensì nella forma e nell’obbligazione morale; nasce 

così il concetto di un regno di persone in cui gli individui 

sono vincolati da norme e tuttavia interiormente liberi. A que- 

ste premesse è poi sempre connessa la relazione degli individui 

liberi, responsabili e interiormente legati in virtù della legge, 

nonché del regno delle persone, con una causa originaria perso- 

nale e libera. In base alla costituzione vitale ciò è fondato sul 

fatto che la spontanea e libera vitalità si scopre come una forza 

che determina altre persone secondo la loro libertà, ma nel 

medesimo tempo avverte che in essa stessa altre persone sono 

divenute una forza da cui essa viene determinata in modo 

corrispondente alla propria spontaneità. Così questa vivente for- 

ma di determinazione attiva e passiva diventa lo schema della 

connessione universale in generale: essa viene per così dire 

proiettata nella stessa connessione universale, la si ritrova in 

ogni rapporto in cui sta il soggetto del pensiero sistematico, 

fino al più comprensivo. In tal modo la divinità viene sottratta 

alla connessione della causalità fisica e concepita come qualcosa 

che la governa — come una proiezione della ragione che pone 

scopi, fornita di potenza autonoma nei confronti della datità. 

Anassagora e Aristotele hanno determinato filosoficamente ed 

espresso con precisione questo concetto di divinità mediante il 

rapporto della divinità con la materia. Quest'idea di un dio 

personale acquista la sua formulazione metafisica più radicale 

nel concetto cristiano della creazione del mondo dal nulla, dal 

non-esistente; essa esprime infatti la trascendenza della divini- 

tà rispetto alla legge causale, che regna nel mondo naturale 

secondo la regola ex ni/tilo nihil. La trascendenza di Dio rispet- 

to alla coscienza del mondo, la quale connette le sue verità in 

base al principio di ragion sufficiente, viene poi giustificata 

criticamente da Kant: Dio è presente soltanto alla volontà, che 

lo richiede in virtù della sua libertà. 



Sorge così la struttura comune a tutti i sistemi che rientrano 

in questo tipo di intuizione del mondo. Dal punto di vista gno- 

seologico questo tipo si fonderà, non appena diventa filosofica- 



254 WILHELM DILTHEY 



mente consapevole del suo presupposto, sui fatti della coscien- 

za. Nella metafisica questa intuizione del mondo passa attraver- 

so diverse forme. Essa compare dapprima nella filosofia attica 

come concezione della ragione formatrice, che plasma il mondo 

della materia. La grande scoperta di un pensiero concettuale e 

di una volontà morale indipendenti dalla connessione naturale, 

e della loro connessione con un ordine spirituale, costituisce in 

Platone il punto di partenza di tale concezione, e anche in 

Aristotele ne rimane il fondamento. Preparata dalla nozione 

romana di volontà e dall’intuizione, anch'essa romana, di un 

rapporto di governo di Dio nei confronti del mondo, si forma 

nel Cristianesimo la seconda concezione, cioè la dottrina della 

creazione. Essa costruisce un mondo trascendente sulla base 

delle relazioni esperite nell’atteggiamento del valore. I concetti 

di Dio propri della coscienza cristiana sono il rapporto del 

padre con i suoi figli, il contatto con Dio, la provvidenza come 

simbolo del governo del mondo, la giustizia, la misericordia. 

Un lungo cammino è stato poi percorso da qui fino al supremo 

raffinamento a cui tale coscienza di Dio perviene nella filosofia 

trascendentale tedesca. In un’asciutta ed eroica grandezza l’idea- 

lismo della libertà costruisce qui — come appare nel mondo 

più compiuto in Schiller — il mondo soprasensibile che esiste 

soltanto per la volontà, poiché è posto dal suo ideale di un’aspi- 

razione infinita. 



4. 



Questa intuizione del mondo possiede un fondamento uni- 

versalmente valido nei fatti della coscienza. In quanto coscien- 

za metafisica dell’uomo eroico, essa è indistruttibile: si rinnove- 

rà sempre in ogni grande natura attiva. 


Essa non può tuttavia definire e fondare il suo principio in 

maniera scientificamente valida. Anche qui si mette però in 

moto una dialettica incessante che procede di possibilità in pos- 

sibilità, ma che è incapace di pervenire a una soluzione del suo 

problema. La volontà operante consapevolmente nella famiglia, 

nel diritto e nello stato fu sviluppata dal pensiero romano in 

concetti di vita, e questi vennero alla fine ricondotti a un’inna- 

ta predisposizione verso la condotta della vita. In tal modo la 



WILHELM DILTHEY 255 



sicurezza della condotta della vita poggiava su un elemento 

irraggiungibile e indimostrabile. La regolarità dell’ordinamen- 

to della vita fu fondata su presupposti innatistici, che tuttavia 

potevano essere provati soltanto sulla base degli ordinamenti 

della vita, sulla base del reciproco accordo dei popoli. In que- 

sto modo la filosofia romana della vita fondò il suo idealismo 

della personalità. Su di esso la coscienza cristiana determinò 

come principio di tale punto di vista la trascendenza dello 

spirito, la sua indipendenza da qualsiasi ordine naturale. Ma la 

trascendenza è soltanto un'espressione simbolica della volontà 

nel sacrificio, nel procedere oltre il nesso naturale della motiva- 

zione attraverso l’abbandono della vita, ossia della forza di 

vivere in vista della realizzazione di un ordine di vita soprasen- 

sibile. L'ideale del sacro vale come prova di se stesso, ma 

nessuna formula consente di elevarlo a coscienza logica. Kant e 

la filosofia trascendentale si proposero quindi di determinare e 

di fondare in maniera universalmente valida questa volontà 

ideale. Si fece valere, rispetto al corso del mondo, un elemento 

indeterminato come norma suprema e supremo valore. Il tenta- 

tivo falli. Ma esso si rinnovò nell’idealismo personalistico fran- 

cese, da Maine de Biran a Bergson, e nella forma idealistica del 

pragmatismo quale si presentò in James e nei pensatori a lui 

affini, nonché nella grande corrente della filosofia trascendenta- 

le tedesca. La sua potenza è indistruttibile; cambiano solamen- 

te le sue forme e i modi di dimostrazione. Questa potenza 

poggia su una costituzione vitale che prende le mosse dall’uo- 

mo che agisce ed esige una regola salda per la posizione 

di scopi. 


Schiller è il poeta di questo idealismo della libertà, così 

come Carlyle è il suo storico: 



Umiliato a servire un vile, Alcide 

viveva un tempo un'aspra dura vita 


in un’eterna guerra: contro l'Idra 


ebbe a lottare ed abbatté il leone, 


per liberar gli amici si gettò 


vivo dentro la barca del nocchiero 


dei morti. Ogni gravame, ogni tormento 

getta l'inganno della Dea implacata 



256 WILHELM DILTHEY 



sulle docili spalle dell’odiato, 

finché finisce il suo cammino 



finché, spogliato il suo terreno involucro, 

il Dio fiammante sciogliesi dall'uomo 


e beve le sottili aure dell'etere. 


Lieto del nuovo, insolito aleggiare 


si leva in alto, e la visione cupa 


della vita terrena, cade e cade!?, 



V. L’IDEALISMO OGGETTIVO 



Legati da una connessione reciproca si presentano poi altri 

sistemi che divergono dai due tipi finora descritti. Essi forma- 

no la massa principale di ogni metafisica, si estendono per 

l’intera storia della filosofia, e il loro stretto legame con i 

grandi fenomeni affini della fede e dell’arte rimanda a un'intui- 

zione del mondo che attraversa la religione, la concezione arti- 

stica, e il pensiero metafisico. 



I. 



Intendiamo determinare l'ambito in cui questo tipo si pre- 

senta all’interno della metafisica. La massa centrale dei sistemi 

filosofici non può venir assegnata né al naturalismo né all’idea- 

lismo della libertà. Senofane!, Eraclito, Parmenide e i loro 

continuatori, il sistema stoico, Giordano Bruno, Spinoza, Shaf- 

tesbury ', Herder, Goethe, Schelling, Hegel, Schopenhauer e 

Schleiermacher — tutti questi sistemi rivelano un tipo chiara- 



17. Scuuter, Gedichte, Das Ideal und das Leben, vv. 131-46 (tr. it. di G. A. 

Alfero). e 


18. Scnofane di Colofone, filosofo ionico vissuto tra la scconda metà del secolo 

vi e l’inizio del secolo v a. C., critico della concezione antropomorfica della divinità: 

alcune testimonianze, molto discusse, ne fanno il maestro di Parmenide e il fondatore 

della scuola eleatica. 


19. Anthony Ashley Cooper conte di Shaftesbury (1671-1713), filosofo inglese, au- 

tore dell'Inquiry Concerning Virtue or Merit (1699), della Letter Concerning Enthu- 

siasm (1708), della Characteristics of Men, Manners, Opinions, and Times (1711) e di 

numerosi altri scritti, fu uno dei principali rappresentanti del deismo; elaborò la teoria 

del senso morale come base e criterio di valutazione del comportamento umano. 



WILHELM DILTHEY 257 



mente comune, che diverge completamente dagli altri che ab- 

biamo già esposti. 


Essi sono reciprocamente legati da un rapporto di dipenden- 

za e dalla più definita coscienza della loro affinità. Lo stoici- 

smo era consapevole della propria dipendenza da Eraclito. Gior- 

dano Bruno ha utilizzato in un ambito più vasto i concetti 

fondamentali degli Stoici; Spinoza è condizionato dallo Stoici- 

smo e dal complesso di idee filosofiche che aveva come centro 

Giordano Bruno. In Leibniz la grande prospettiva spirituale 

del Rinascimento trova la sua espressione più compiuta, in anti- 

tesi al rigido monismo spinoziano. Dopo la dissoluzione delle 

forme sostanziali, nel Rinascimento non viene più riconosciuta 

alcuna realtà in mezzo tra la connessione divina e le cose 

particolari: il mondo è l’esplicazione di Dio, che si è scompo- 

sto in esso nella forma di una molteplicità illimitata; ogni cosa 

particolare rispecchia in sé l’universo. Questa è anche la pro- 

spettiva di Leibniz. Se la sua dipendenza dalla situazione intel- 

lettuale del tempo gli consente di concepire la divinità come 

individuo, la dipendenza dalla sua cultura teologica lo ha indot- 

to a mettere in primo piano le relazioni con la teologia: il 

panenteismo rimane la sua intuizione fondamentale, e la nuova 

grande idea del suo sistema è la concezione dell'universo come 

una totalità singolare in cui ogni parte è determinata dalla 

connessione ideale di significato del tutto. Tale sistema è intera- 

mente determinato dalla questione del senso e del significato 

del mondo. Il suo parente più prossimo è Shaftesbury, influen- 

zato sia dallo Stoicismo sia da Giordano Bruno. I grandi ideali- 

sti oggettivi tedeschi vivono nella sfera di influenza di Leib- 

niz, sono condizionati da Shaftesbury attraverso il movimento 

poetico tedesco, in modo particolare per il tramite di Goethe e 

di Herder; e la loro dipendenza da Spinoza, in parte diretta, 

in parte mediata dal precedente movimento letterario, è prova- 

ta e può esser dimostrata in un ambito ancor più ampio. Questi 

sistemi costituiscono così una connessione storica non meno sal- 

damente conclusa di quella del naturalismo e dell’idealismo 

della libertà. 


Essi hanno sempre espresso nel modo più deciso anche la 

loro antitesi verso gli altri due tipi di intuizione del mondo. 

Con quanta durezza Eraclito giudica il materialismo della ple- 



17. STORICISMO TEDESCO. 



258 WILHELM DILTHEY 



bel In quale netta opposizione lo Stoicismo si pone nei confron- 

ti del sensismo epicureol Esso è però al tempo stesso consapevo- 

le, in quanto rinnova l’ilozoismo, del proprio distacco da Plato- 

ne e Aristotele. Giordano Bruno ha condotto, con una passione 

senza pari, la lotta contro ogni forma di visione cristiana del 

mondo e di ideale di vita cristiano. La stessa passionalità irrom- 

pe in Spinoza, tra le catene delle dimostrazioni, in quelle ap- 

pendici stilisticamente libere che erano state originariamente 

composte in forma autonoma, come manifestazioni della sua 

disposizione di vita. Schelling e Hegel indirizzano manifesti e 

pamphlets contro l’idealismo della libertà e in particolare con- 

tro Kant, Fichte e Jacobi, in quanto filosofi della riflessio- 

ne. Prescindendo dall’invettiva di Schopenhauer, la critica di 

Schleiermacher alla dottrina etica è fondamentalmente un unico 

grande scritto polemico contro l’etica sensistica e contro la limi- 

tativa etica dualistica di Kant e di Fichte, in favore dell’ideali- 

smo oggettivo. 


Se il procedimento comparativo segue questi indizi, esso è 

in grado di riconoscere l'affinità dei membri di questo gruppo, 

reciprocamente così legati, e la struttura ad essi comune in 

virtù della quale sono riuniti a formare un medesimo tipo di 

intuizione del mondo. La connessione di princìpi che costitui- 

sce la struttura di questo tipo comprende una posizione gnoseo- 

logico-metodologica della coscienza, una formula metafisica che 

contiene varie possibilità di formazione di sistemi metafisici, e 

infine un principio di formazione della vita. 



La posizione gnoseologica-metodologica della coscienza nei 

confronti del mistero del mondo consisteva, nella prima delle 

tre intuizioni, nel passaggio dalla conoscenza delle uniformità 

presenti nel mondo fisico a generalizzazioni che permettevano 

di subordinare anche i fatti spirituali a questa legalità meccani- 

ca esterna. Per contro l’idealismo della libertà ha trovato nei 

fatti della coscienza il punto saldo per una risoluzione univer- 

salmente valida del mistero del mondo; esso richiedeva l’esisten- 

za e la possibilità di constatare determinazioni universali della 

coscienza, non ulteriormente risolvibili, che con forza sponta- 



WILHELM DILTHEY 259 



nea producono la formazione della vita e dell’intuizione del 

mondo nella materia della realtà esterna. Il terzo tipo di atteg- 

giamento gnoseologico-metodologico è completamente distinto 

dagli altri due. Esso può venir rintracciato in egual misura in 

Fraclito come nello Stoicismo, in Giordano Bruno come in 

Spinoza e Shaftesbury, in Schelling, Hegel, Schopenhauer e 

Schleiermacher. Esso è fondato infatti sulla costituzione vitale 

di questi pensatori. Diciamo che un atteggiamento è di tipo 

contemplativo, estetico o artistico quando in esso il soggetto si 

riposa, per così dire, dal lavoro conoscitivo delle scienze natura- 

li e dall’agire in riferimento ai nostri bisogni, agli scopi che ne 

derivano e alla loro realizzazione nel mondo esterno. In questo 

atteggiamento contemplativo la vita del sentire, in cui la ric- 

chezza della vita, il valore e la felicità dell’esistenza vengono 

avvertiti anzitutto in modo personale, si allarga in una specie 

di simpatia universale. In virtù di tale ampliamento del nostro 

io nella simpatia universale noi riempiamo e animiamo la real- 

tà intera con i valori che sentiamo, con l’operare in cui realiz- 

ziamo la nostra vita, con le idee supreme del bello, del bene e 

del vero. Le disposizioni che la realtà suscita in noi, le ritrovia- 

mo nuovamente in essa. E nella misura in cui allarghiamo il 

nostro sentimento particolare della vita nella partecipazione al- 

la totalità del mondo e avvertiamo la nostra affinità con tutte 

le manifestazioni del reale, la gioia della vita si rinsalda e 

cresce la coscienza della propria forza. È questa la costituzione 

dell’anima in cui l’individuo si sente tutt'uno con la connessio- 

ne divina delle cose e in tal modo affine a qualsiasi altro 

membro di questa connessione. Nessuno ha espresso questa co- 

stituzione dell'anima in modo più bello di Goethe. Egli loda 

la fortuna di poter « sentire e godere » la natura. 



.. Né tu 


m’accordi appena il freddo stupore d'un ospite 

ma, come nel cuore a un amico, mi dai 


di fissare nel fondo del suo essere. 


Guidi davanti a me la schiera dei viventi 


e a riconoscere m'insegni i miei fratelli 


fra piante mute, in aria c in acqua 2. 



20. GoetHE, Fasst, vv. 3221-27 (tr. it. di F. Fortini). 



260 WILHELM DILTHEY 



Questa costituzione dell'animo trova la soluzione di tutte le 

dissonanze della vita nell’armonia universale delle cose. Il senti- 

mento tragico delle contraddizioni dell’esistenza, la disposizio- 

ne pessimistica, l'umorismo che coglie realisticamente la limita- 

tezza e l’angustia opprimente dei fenomeni, ma nella loro pro- 

fondità scopre l’idealità vittoriosa del reale, sono soltanto gradi- 

ni che conducono alla percezione di una connessione universale 

di esistenza e di valore. 


La forma di apprendimento è nell’idealismo oggettivo sem- 

pre la medesima: non già l’ordinamento dei casi secondo rap- 

porti di affinità o di uniformità, ma l’intuizione complessiva 

delle parti in un tutto, l'elevazione della connessione della vita 

a connessione del mondo. 


Il primo tra questi pensatori a riflettere sul suo procedimen- 

to filosofico fu — a quanto ne sappiamo — Eraclito. Egli ha 

avuto una profonda coscienza dell’atteggiamento contemplati- 

vo e ha espresso la sua antitesi nei confronti del pensiero perso- 

nificante della fede, nei confronti della percezione sensibile — 

che, presa da sola, egli tiene in scarso conto — e nei confronti 

della cosmologia scientifica. Il filosofo fa oggetto della sua ri- 

flessione ciò che lo circonda da vicino, costantemente, giorno 

per giorno, dove egli ritrova dunque sempre le medesime cose. 

Essere presente a ciò che ci accade: con questa espressione 

viene genialmente raffigurata la profonda saggezza in virtù del- 

la quale i fenomeni del corso del mondo, evidenti agli occhi 

della massa, diventano invece per il filosofo autentico oggetto 

di stupore e di meditazione. In base a questo atteggiamento 

contemplativo Eraclito concepiva il corso del mondo come sem- 

pre identico — come il continuo fluire e la corruttibilità di 

ogni cosa, ma anche come un ordine concettuale presente in 

ogni suo punto. In tal modo il sentimento tragico del trascorre- 

re incessante del tempo, in cui il presente è sempre e non è 

più, si risolve ai suoi occhi nella coscienza di una regolarità 

nell'universo che permane in mezzo a tale fuga. 


Nello Stoicismo domina la stessa intuizione dell’universo co- 

me un tutto di cui le cose particolari sono parti, c in cui esse 

vengono tenute insieme da una forza unitaria. Esso ha elimina- 

to il rapporto di subordinazione dei fatti a unità concettuali 

astratte, che prevaleva in Platone e Aristotele; in luogo della 



WILHELM DILTHEY 261 



relazione logica del particolare con l’universale subentra, nel 

suo sistema, il rapporto organico di un tutto con i suoi elemen- 

ti — cioè quella forma di apprendimento che Kant ha posto in 

stretta relazione, come intuizione del finalismo immanente del- 

la realtà organica, con la forma dell’intuizione estetica. 


E dopo che erano scomparse la sillogistica e la sisternatica 

scolastica — che avevano impiegato le forme sostanziali al 

servizio della teologia cristiana, per fondare un mondo trascen- 

dentale — le medesime categorie di intuizione del mondo si 

presentano nel periodo di transizione dal Medioevo all’età mo- 

derna: l’intero e le sue parti, l’individualità di queste par- 

ti fino alle più piccole. Già in Nicola Cusano compare quella 

finissima concezione estetica dell’universo secondo cui la cosa 

particolare, in quanto contrazione del tutto, rispecchia in sé 

l'universo. Spinoza è il rappresentante di questa dottrina dell’u- 

niverso come uzità, e anche l’intuizione leibniziana del mondo 

è scaturita — nonostante il suo concetto di Dio, fondato sulla 

monadologia e connesso con la sua tendenza teologica — da 

questa costituzione dell’anima. La piena consapevolezza gnoseo- 

logica di tale atteggiamento contemplativo si ha in Schelling, 

Schopenhauer e Schleiermacher. L’intuizione intellettuale di 

Schelling, l'atteggiamento estetico contemplativo, libero dal vo- 

lere, di Schopenhauer — in cui il soggetto non segue più le 

relazioni reciproche delle cose in base al principio di ragion 

sufficiente, ma coglie nei fenomeni ciò che ne costituisce l'essen- 

za — e infine la religione come intuizione e sentimento dell’u- 

niverso nei Discorsi di Schleiermacher: queste sono le diverse 

forme nelle quali si esprimono i vari aspetti del medesimo atteg- 

giamento, che è proprio di questo tipo di intuizione del 

mondo. 



Da tale atteggiamento deriva la formula metafisica comune 

a tutta questa classe di sistemi. Tutti i fenomeni dell’universo 

sono duplici: da un lato, cioè nella percezione esterna, essi 

sono dati come oggetti sensibili e stanno, in quanto tali, in una 

connessione fisica; d’altro lato recano in sé, considerati per 

così dire dall'interno, una connessione vitale che può essere 



262 WILHELM DILTHEY 



rivissuta nella nostra interiorità. Questo principio può essere 

quindi espresso anche come affinità di tutte le parti dell’univer- 

so con il fondamento divino e tra di loro. Esso corrisponde alla 

concezione di una simpatia universale che nel reale, in ciò che 

si manifesta nello spazio, avverte ovunque la presenza della 

divinità. La coscienza di quest’affinità è il carattere metafisico 

fondamentale comune alla religiosità degli Indiani, dei Greci e 

dei Germani; e da essa deriva, nella metafisica, l’immanenza di 

tutte le cose — come parti di un tutto — in un fondamento 

universale e di tutti i valori in una connessione di significato 

che costituisce il senso del mondo. La contemplazione, l’intui- 

zione, che nella propria vita rivive quella del tutto — in qual- 

siasi modo possa interpretarla — coglie nei fenomeni dati ester- 

namente un’interna connessione divina. Da questo medesimo 

atteggiamento sorge infine di regola la concezione deterministi- 

ca; qui il singolo si scopre determinato dal tutto, e la connessio- 

ne dei fenomeni viene concepita come caratteristica interna, 

quali che siano le determinazioni che vengono ad essa at- 

tribute. 



4. 



Ciò che è contenuto in questa formula dell’idealismo oggetti- 

vo come costituzione della connessione del mondo, la religiosi- 

tà, la poesia e la metafisica lo esprimono tutte soltanto in modo 

simbolico. Esso è assolutamente inconoscibile. La metafisica se- 

para soltanto aspetti particolari dalla vitalità del soggetto, 

dalla connessione vitale della persona, proiettandoli nell’immen- 

sità come connessione del mondo. Ne scaturisce una nuova 

incessante dialettica che conduce di sistema in sistema finché, 

esaurite tutte le possibilità, viene riconosciuta l’insolubilità del 

problema. 


È questo fondamento del mondo volontà oppure ragione? 

Se lo determiniamo come pensiero, occorre però una volontà 

perché qualcosa nasca. Se lo si concepisce invece come volontà, 

essa presuppone un pensiero che ne determini lo scopo. Volon- 

tà e pensiero non si lasciano però ridurre l’uno all’altro. A 

questo punto la possibilità di pensare logicamente il fondamen- 

to del mondo si arresta, e ciò che rimane è soltanto il rispec- 



WILHELM DILTHEY 263 



chiamento in esso della vita mediante la mistica. Se si concepi- 

sce il fondamento del mondo in maniera personale, questa me- 

tafora esige tuttavia di essere delimitata da determinazioni con- 

crete. Se invece si applica ad essa l’idea dell’infinito, scompaio- 

no di nuovo tutte le sue determinazioni, e anche qui rimane 

soltanto l’impenetrabile, l’inconcepibile, l’oscurità e la mistica. 

Se è fornito di coscienza, esso ricade sotto l’antitesi di soggetto 

e oggetto; d° altra parte non possiamo comprendere come qual- 

cosa di inconscio possa produrre la coscienza che gli è superio- 

re; siamo nuovamente di fronte a qualcosa di inafferrabile. 

Non ci è possibile pensare come dall’unità del mondo possa 

nascere una molteplicità, dall’eterno qualcosa di mutevole: ciò 

è logicamente inconcepibile. Il rapporto di essere e pensare, di 

estensione e pensiero non viene reso comprensibile dalla parola 

magica dell’« identità ». Così, anche di questi sistemi metafisi- 

ci ciò che rimane è soltanto una costituzione dell’anima e un’in- 

tuizione del mondo. Goethe ha dato l’espressione più alta di 

questa intuizione del mondo. 



« Che sarebbe un Dio che agisse soltanto dall'esterno, 

facesse rotare intorno al dito l'universo! 

A Lui s’addice di muovere il mondo dall’interno, 

di albergare la Natura in Sé, Sé nella Natura, 

così che il mondo, che in Lui vive, vibra ed è, 

mai senta mancanza della Sua forza, del suo spirito » %!. 



21. GoetHE, Gort und IVelt, procmio, vv. 1-6 (tr. it. di F. Amoroso). 



WILHELM WINDELBAND 



NOTA BIOGRAFICA 



Wilhelm Windelband nacque a Potsdam l’rt maggio 1848. Frequen- 

tò dapprima l’Università di Jena, poi quelle di Berlino e di Gòttingen, 

dedicandosi inizialmente a studi storici e sviluppando in seguito i suoi 

interessi — sotto la duplice influenza di Kuno Fischer e di Hermann 

Lotze — in direzione della filosofia. Dopo aver conseguito il dottorato a 

Gòttingen con la dissertazione Die Lehren vom Zufall (Berlin, 1870), 

Windelband ottiene l’abilitazione a Lipsia nel 1873, con il volume Uber 

die Gewissheit der Erkenntnis (Berlin, 1873), nel quale emerge chiara- 

mente la sua adesione al movimento neocriticistico e, in particolare, 

all'interpretazione della filosofia in chiave di teoria della conoscenza. Nel 

1876 diventa professore all’Università di Zurigo, da dove si trasferisce 

l'anno seguente a Friburgo e nel 1882 a Strasburgo; nel 1903, infine, 

viene chiamato all’Università di Heidelberg quale successore di Kuno 

Fischer, e qui insegnerà fino al momento della morte, sopraggiunta il 22 

ottobre 1915. 


La parte più cospicua della produzione di Windelband è costituita 

da numerose opere di storia della filosofia, che hanno avuto larga 

diffusione e risonanza anche al di fuori dei paesi di lingua tedesca. La 

prima di queste opere, Die Geschichte der neueren Philosophie in ihrem 

Zusammenhange mit der allgemeinen Kultur und den besonderen Wis- 

senschaften (Leipzig, 1878-80; tr. it. Firenze, 1925), rappresenta un mo- 

dello di interpretazione neocriticistica della storia della filosofia moder- 

na, considerata come avente il proprio centro nello sviluppo della teoria 

della conoscenza. Il carattere specifico del pensiero moderno rispetto a 

quello antico e medievale viene individuato nel distacco dalla metafisica 

e nello sforzo di pervenire a un'indagine critica; cosicché l'opera di 

Kant viene presentata come il punto di confluenza dei suoi principali 

indirizzi, ossia come la sintesi tra razionalismo ed empirismo. Nella 

successiva Geschichte der Philosophie (1889-92), poi ripubblicata con il 

titolo di LeArbuch der Geschichte der Philosophie (Freiburg i.B., 1903; tr. 

it, Firenze, 1910-12), si riflette invece il passaggio dall’originaria prospetti- 

va neocriticistica alla teoria dei valori: il presupposto della centralità del 

problema gnoseologico viene messo in disparte, e la filosofia si allarga ad 

abbracciare una molteplicità di problemi teoretici e pratici, studiati nel 



263 WILHELM WINDELBAND 



loro rapporto con la vita culturale e con la vita politico-sociale. Lo 

stesso vale per la Geschichte der alten Philosophie (Miinchen, 1883) e 

per la monografia P/aton (Stuttgart, 1900; tr. it. Palermo, 1914). 


Negli anni successivi al 1880 Windelband è pervenuto a elaborare, 

sulla base del richiamo a Kant, i presupposti di quell’impostazione 

filosofica che sarà indicata come «teoria dei valori». Attribuendo alla 

filosofia il compito di determinare i princìpi 4 priori che garantiscono la 

validità del conoscere, egli li interpreta come valori forniti del duplice 

carattere dell'universalità e della necessità, ossia come valori incondizio 

nati: in riferimento alla conoscenza, la filosofia si configura come teoria 

critica in quanto si pone il problema della validità del conoscere e 

individua i valori su cui essa si fonda. Ma tale tipo di considerazione 

non è limitato al campo della conoscenza, bensì si estende anche alla 

moralità e all'arte. In una serie di saggi raccolti col titolo di Préludien 

(Freiburg i.B.-Tiibingen, 1883) e via via arricchita nelle successive edizio- 

ni (Tiibingen, 19027, 1907°, 1911*, 1914%; tr. it. Milano, 1947) Windel- 

band delinea una concezione della filosofia come ricerca e individuazio- 

ne dei valori che costituiscono la norma intrinseca dell'attività umana 

nei suoi diversi campi, distinguendo così la validità normativa dei valori 

dalla validità empirica delle leggi naturali. Ciò che è proprio dei valori 

non è l’esistenza di fatto, bensì il « dover essere »; anche se non trovano 

una realizzazione empirica, non per questo i valori cessano di valere 

incondizionatamente. Essi fanno parte di una « coscienza normale » che si 

colloca su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, e sul 

quale questa non può incidere. Il compito della filosofia diventa perciò 

quello di stabilire i valori che stanno a base rispettivamente del conosce- 

re, dell'agire e del sentire — secondo la tripartizione kantiana delle 

facoltà umane. In questa prospettiva Windelband ha affrontato, nel 

discorso rettorale di Strasburgo Geschichte und Naturwissenschaft 

(1894), il problema della conoscenza storica; e l’ha affrontato in aperta 

polemica con Dilthey. Egli respinge infatti la distinzione tra scienze 

della natura e scienze dello spirito a causa del suo fondamento oggetti 

vo, e vi sostituisce una distinzione puramente metodologica tra due 

gruppi di discipline differenziate in base al loro orientamento conosciti- 

vo: le scienze nomotetiche, dirette alla determinazione di leggi generali, 

e le scienze idiografiche, rivolte alla comprensione dell’individuale. In 

quanto insieme delle scienze idiografiche, la conoscenza storica appare 

quindi caratterizzata dallo sforzo di determinare la fisionomia individua- 

le di ogni avvenimento, poco importa che esso appartenga alla natura o 

all'ambito dei fenomeni spirituali. 


Nell'ultimo periodo della sua vita Windelband ha sviluppato le 

implicazioni metafisiche della teoria dei valori, affiancando all'esigenza 

del ritorno a Kant il richiamo alla visione storica del mondo elaborata 



WILHELM WINDELBAND 269 



dall'idealismo post-kantiano. Nel volume Die Philosophie im deutschen 

Geistesleben des 19. Jahrhunderts (Tiibingen, 1909) e in alcuni saggi 

del 1908-10, poi raccolti nei Pràludien, egli addita nell’orientamento 

storico dell'idealismo post-kantiano l’eredità principale della filosofia del- 

l'Ottocento, riprendendo su tale base la polemica contro il naturalismo e 

contro il tentativo di ridurre la storia a natura. Nell’Ein/eitung in die 

Philosophie (Tiibingen, 1914) egli formula la distinzione tra scienza 

naturale e conoscenza storica da un altro punto di vista, cioè in riferi- 

mento al rapporto tra realtà empirica e valori: la scienza naturale si 

presenta come una conoscenza priva di rapporto con i valori, mentre la 

conoscenza storica diventa una conoscenza in relazione ai valori, dal mo- 

mento che la realtà storica è il terreno della realizzazione empirica dei 

valori. Nella postuma e incompiuta « lezione di guerra » sulla Geschickts- 

philosophie (Berlin, 1916), infine, il senso della storia viene definito in 

base all'idea di umanità, kantianamente intesa come principio regolativo 

e quindi come postulato che deve consentire la valutazione dei singoli 

avvenimenti. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Non esiste alcuna raccolta delle opere filosofiche di Windelband, né 

esse sono state ristampate in epoca recente. Si dispone invece di ristampe 

aggiornate dei manuali di storia della filosofia: il Lehrbuch der Geschichte 

der Philosophie (completato da H. Heimsoeth fin dalla 13? ed., del 1935), 

è stato ancora pubblicato dalla casa editrice Mohr, Tiibingen, 1957!, e 

così pure la Geschichte der abendlindischen Philosophie im Altertum 

(a cura A. Goedeckenmeyer), Miinchen, 1963. 


Limitata è anche la letteratura critica sulla filosofia di Windelband, 

spesso considerata insieme con quella di Rickert. Tra gli studi in propo- 

sito segnaliamo i più importanti: 



H. Ricxert, Wilhelm Windelband, Tiibingen, 1915. 



A. Ruce, Wilhelm Windelband, « Zeitschrift fir Philosophie und philo- 

sophische Kritik », CLXII, 1916-17, pp. 54-71 e 188-221. 



K. WieperHoLt, Wertbegriff und Wertphilosophie, « Erginzungshefte » 

alle « Kantstudien », Berlin, 1920. 



B. W. ScHescHicHs, Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen 

Schule, Berlin, 1938. 



B. JarowenKgo, Wilhelm Windelband: ein Nachruf, Prag, 1941. 



C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia dei valori, Torino, 1949, e Na- 

poli, 1973 ?, cap. V. 



CHE COS’È LA FILOSOFIA? 

(CONCETTO E STORIA DELLA FILOSOFIA)* 



I nomi hanno un loro destino — di rado, però, strano 

come quello del termine « filosofia ». Se ci rivolgiamo alla sto- 

ria chiedendo che cosa propriamente sia la filosofia, e ci guar- 

diamo intorno tra quelli che sono stati definiti, e ancora vengo- 

no definiti, « filosofi », per sapere come concepiscono ciò che 

hanno fatto e fanno, ne otteniamo risposte così diverse e diver- 

genti tra loro che sarebbe un'impresa disperata voler ricondurre 

questa variopinta e cangiante molteplicità a un’espressione sem- 

plice, e costringere la pienezza di tali mutevoli fenomeni sotto 

un concetto unitario ". 


Certamente un tentativo di questo genere è stato compiuto 

abbastanza spesso dagli storici della filosofia. Si è voluto pre- 

scindere dalle particolari determinazioni di contenuto con cui 

ogni filosofo è solito porre — già nell’esposizione del compito 

che si prefigge — la quintessenza dei punti di vista che ha 

acquisito. Si pensava di poter così pervenire a una definizione 

puramente formale, indipendente sia dal mutare delle intuizio- 

ni temporali e nazionali, sia dall’unilateralità delle convinzioni 

personali, e quindi adatta a comprendere tutto quanto è stato 

chiamato « filosofia ». Ma sia che s’intenda designare la filoso- 



a. Sulle definizioni della filosofia si veda più particolarmente W. Win- 

DELBAND, Lehrbuch der Geschichte der Philosophie, Tibingen und Leipzig, 

4° ed. 1907, $$ 1€2. 



* Was ist Philosophie? Uber Begriff und Geschichte der Philosophie (1882), in 

Pràludien, Freiburg i.B. und Tibingen, Akademische Verlag von ]. C. B. Mohr, 1884, 

Pp. 1-53 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



272 WILHELM WINDELBAND 



fia come saggezza, o come scienza dei princìpi, o come dottri- 

na dell’assoluto, o come auto-conoscenza dello spirito umano, 

o in qualsiasi altra maniera, la definizione rimarrà pur sempre 

troppo ampia o troppo ristretta: sempre ci saranno formazioni 

storiche che, indicate col nome di filosofia, non si lasceranno 

subordinare all’una o all’altra di quelle determinazioni for- 

mali. 


Sarebbe inutile ripetere cose spesso dette ed esibire le istan- 

ze negative (che è facile far emergere dalla storia) contro simi- 

li tentativi. Vale invece la pena indagare con un po’ più di 

precisione i motivi di questo fenomeno. È noto che, per ottene- 

re una definizione valida, la logica pretende l’indicazione del 

concetto di genere prossimo superiore e dell’attributo specifico: 

entrambe le esigenze non possono però venir soddisfatte in 

questo caso. 


Anzitutto si affermerà subito che il concetto superiore nel 

quale rientra la filosofia è quello di scienza. Sarebbe un’obiezio- 

ne ben debole dire che nel nostro caso la specie coincide talora 

completamente col genere: così per esempio alle origini del 

pensiero greco, dove appunto ancora non c’è che una scienza 

indivisa, o più tardi, in certi periodi, quando la tendenza uni- 

versalistica di un Descartes o di uno Hegel riconosce le altre 

«scienze » soltanto nella misura in cui si lasciano ridurre a 

parti della filosofia. Ciò dimostra soltanto che il rapporto tra 

questa specie e il genere non è costante; ma lascia inalterato il 

carattere della filosofia come scienza. Tantomeno sarebbe possi- 

bile confutare la subordinazione della filosofia al concetto di 

scienza con la dimostrazione che nella maggior parte delle 

dottrine filosofiche sono sempre presenti elementi e procedimen- 

ti non scientifici. Anche quest’obiezione dimostrerebbe solo 

quanto poco la filosofia reale abbia finora assolto il suo compi- 

to. Del .resto la storia delle altre «scienze» offre fenomeni 

paralleli a questo, come l’epoca fabulatoria della storia, la fan- 

ciullezza alchimistica della chimica o il fanatico periodo astrolo- 

gico dell'astronomia. Nonostante ogni imperfezione, quindi, la 

filosofia meriterebbe la qualifica di scienza a patto di poter 

stabilire che tutto quanto si definisce come filosofia vuole essere 

scienza, e può anche — con una corretta esecuzione — esserlo. 

Ma non accade così. Una simile subordinazione sarebbe già pro- 



WILHELM WINDELBAND 273 



blematica se si mostrasse — ed è possibile, anzi è stato mo- 

strato — che i compiti che i filosofi si sono imposti non soltan- 

to occasionalmente, ma che hanno indicato come loro autentico 

fine, mai e poi mai possono essere risolti per via di conoscenza 

scientifica. Se la dimostrazione — introdotta per la prima volta 

da Kant, e da allora ripetuta in mille varianti — dell’impossibi- 

lità di una fondazione scientifica della metafisica è giusta, tut- 

te le «filosofie » di tendenza essenzialmente metafisica escono 

dall’ambito della « scienza »; e ciò colpisce seriamente non feno- 

meni subordinati, ma proprio quelle vette della storia della filo- 

sofia i cui nomi sono sulla bocca di tutti. I loro « poemi concet- 

tuali » non possono quindi venir sussunti sotto il concetto di 

scienza in senso oggettivo, ma soltanto in senso soggettivo: 

essi si proponevano di compiere, e credevano di aver compiuto 

scientificamente ciò che non si può affatto compiere scientifica- 

mente. Ma neppure è possibile trovare tra i rappresentanti 

della filosofia l'universalità di questa pretesa soggettiva, che 

cioè la filosofia debba essere scienza. Per non pochi tra di essi, 

intanto, l'elemento scientifico vale al massimo come mezzo, più 


o meno inevitabile, per lo scopo vero e proprio della filosofia. 

Chi vede in quest’ultima un’arte della vita — come i filosofi 

dell’epoca ellenistica e romana — non cerca più il sapere per il 

sapere, come invece conviene a una scienza. Se poi al sapere 

scientifico si chiede soltanto un prestito, è del tutto indifferen- 

te dal punto di vista della scientificità che lo si faccia per scopi 

politici, tecnici, morali, religiosi o di qualsiasi altro tipo. An- 

che tra quelli che intendono la filosofia come conoscenza, molti 

sono chiaramente consapevoli che non possono acquisire tale co- 

noscenza mediante la ricerca scientifica: senza pensare ai mistici 

(per i quali tutta la filosofia è illuminazione), quanto spesso si 

ripete nella storia la confessione che le radici ultime di una 

convinzione filosofica non devono essere ricercate in un procedi- 

mento dimostrativo di tipo scientifico! Come ancoraggio a cui 

la filosofia deve tenersi stretta, sopra le onde del movimento 

scientifico, viene indicata a volte la coscienza con i suoi postula- 

ti, a volte la ragione come percezione di un’insondabile profon- 

dità vitale, talora l’arte come organo della filosofia, talora una 

comprensione di tipo geniale, un’« intuizione » originaria, talo- 

ra una rivelazione divina: Schopenhauer, l’uomo in cui molti 



18. STORICISMO TEDESCO. 



274 WILHELM WINDELBAND 



contemporanei onorano il filosofo par excellence, confessa più 

volte che la sua dottrina non è stata acquisita, né può essere 

dimostrata, mediante un lavoro metodico, ma prende forma 

soltanto davanti allo «sguardo» d'insieme che solo riesce a 

dare un’interpretazione complessiva ai risultati conoscitivi del- 

la scienza. 


La filosofia è quindi ben lungi dal poter essere semplicemen- 

te subordinata al concetto di scienza, come spesso ci si immagi- 

na, sviati da tendenze posteriori e definizioni consuete. Certa- 

mente il singolo può ben costruirsi un concetto di filosofia che 

consenta tale subordinazione: ciò è accaduto, accadrà sempre, e 

noi stessi vogliamo tentarlo. Ma quando si considera la filosofia 

come una formazione storica reale, quando si confronta tutto 

quanto è stato indicato come filosofia nei movimenti spirituali 

dei popoli europei, una sussunzione del genere non è consenti- 

ta. La consapevolezza di questo fatto si manifesta in varie 

forme. Nella storia della filosofia essa assume la forma per cui, 

di tempo in tempo, riappaiono aspirazioni a «elevare a scien- 

za», finalmente, la filosofia. A ciò si connette il fatto che, 

anche laddove vi sia sempre conflitto tra indirizzi filosofici, 

ognuno di essi mostra la tendenza a pretendere per sé solo il 

carattere della scientificità, negandolo alla prospettiva avversa. 

La distinzione tra filosofia scientifica e filosofia non scientifica 

è un'espressione di battaglia di cui da sempre ci si compiace. 

Platone e Aristotele hanno contrapposto la loro filosofia, in 

quanto scienza (èriotiUn), alla Sofistica come opinione (865x) 

ascientifica e piena di pregiudizi; e con un capovolgimento che 

si potrebbe quasi dire uno scherzo della storia, oggi i rinnovatori 

positivistici e relativistici della Sofistica tentano di contrapporre 

la loro dottrina, in quanto filosofia « scientifica », a quelli che 

ancora accreditano la grande conquista della scienza greca. Tra 

chi sta al di fuori della mischia, non considerano scienza la 

filosofia coloro che nella sua storia non vedono altro che la 

«storia degli errori umani ». Infine colui al quale la superficia- 

le presunzione del moderno enciclopedismo non ha ancora fatto 

perdere il rispetto per la storia, chi sta ancora pieno di stupore 

di fronte alle grandi formazioni concettuali della filosofia, do- 

vrà diventare consapevole che non è sempre il significato scien- 

tifico della filosofia ciò a cui rende il suo tributo, bensì qui 



WILHELM WINDELBAND 275 



l'energia di una più nobile intuizione della vita, là l’artistica 

armonizzazione di idee contrastanti — qui l'ampiezza di rap- 

presentazioni di portata universale, là Ia forza ordinatrice del 

lavoro combinatorio del pensiero. 


In realtà i fatti storici esigono di prendere le distanze da 

una subordinazione così incondizionata della filosofia al concet- 

to di scienza, quale viene quasi ovunque ammessa. L’aperto 

sguardo dello storico sarà piuttosto costretto a vedere in es- 

sa un fenomeno culturale ramificato e proteiforme che non si 

lascia schematizzare o rubricare con semplicità. Egli compren- 

derà che con quella usuale sussunzione si fa torto alla scienza 

non meno che alla filosofia: alla filosofia in quanto si costringe 

in un ambito troppo stretto la sua aspirazione verso un ambito 

sempre più vasto, e alla scienza in quanto la si rende così 

responsabile di tutto quanto confluisce da molte altre fonti 

nella filosofia. 


Anche ammesso che si possa sussumere il fenomeno storico 

della filosofia sotto il concetto di scienza e attribuire tutto quan- 

to vi si oppone all’imperfezione delle singole filosofie, sorge la 

questione non meno ardua di come si debba distinguere, all’in- 

terno di questo genere, la filosofia, in quanto specie particola- 

re, dalle altre scienze. Anche a questa seconda questione la 

storia — e soltanto di questa stiamo in definitiva parlando — 

non dà nessuna risposta universalmente valida. Le scienze pos- 

sono distinguersi in parte secondo i loro oggetti, in parte secon- 

do i loro metodi; ma in nessuna di queste due prospettive è 

possibile rintracciare un segno distintivo permanente per tutte 

le manifestazioni storiche della filosofia. 


Per quanto riguarda gli oggetti, accanto a sistemi filosofici 

che fanno oggetto della loro indagine tutto quanto esiste o 

perfino tutto quanto «è possibile», ve ne sono altri, altret- 

tanto significativi, che delimitano strettamente il loro campo 

d'indagine, per esempio ai « fondamenti ultimi» dell’essere e 

del pensiero, o alla dottrina dello spirito, o alla teoria della 

scienza, e così via. Interi campi del sapere che per l’uno sono, 

se non l’unico, almeno il terreno principale dell’elaborazione 

filosofica, vengono invece dall’altro espressamente esclusi dal 

dominio della filosofia. Vi sono sistemi che non vogliono esser 

altro che etica; ve ne sono altri che, delimitando la filosofia 



276 WILITELM WINDELBAND 



alla teoria della conoscenza, si propongono di lasciare l’indagi- 

ne dei problemi morali ed estetici alla storia dell’evoluzione 

psicologica e biologica. Vi sono sistemi in cui la filosofia viene 

totalmente risolta in psicologia; ve ne sono altri che tracciano 

uno scrupoloso confine rispetto alla psicologia, considerata co- 

me una scienza empirica. Di molti « filosofi » presocratici non 

conosciamo che alcune osservazioni e teorie, che al giorno d’og- 

gi releghiamo nella fisica, nell’astronomia, nella metereologia 

ecc., ma che nessuno designerebbe mai come filosofiche: nei 

sistemi successivi compare talora come elemento integrante 

una propria visione della natura: talora, invece, vien fatta una 

rinuncia di principio ad essa. In ogni filosofia del Medioevo il 

centro di gravità dell'interesse sta in problemi che sono oggi 

oggetto della teologia; lo sviluppo della filosofia moderna allon- 

tana sempre più da sé, di secolo in secolo, tali questioni. I 

problemi del diritto o dell’arte rappresentano qui gli oggetti 

più importanti della filosofia; là si negava invece la possibilità 

di una loro trattazione filosofica. Tutta l’antichità, e anche la 

maggior parte dei sistemi metafisici anteriori a Kant, non ha 

avuto sentore di una filosofia della storia: oggi essa è diventa- 

ta una delle discipline più importanti. 


Da questa diversità degli oggetti della filosofia risulta ora 

per lo storico una difficoltà non irrilevante, e finora quasi mai 

trattata in linea di principio®: con quale estensione e in quali 

limiti, cioè, egli debba assumere nella storia della filosofia le 

dottrine e i punti di vista formulati da un filosofo, prescinden- 

do dal significato biografico che possono avere per la caratteriz- 

zazione della sua personalità. Qui sembrano aprirsi soltanto 

due vie pienamente coerenti: o si segue la storia in tutte le 

stranezze delle sue denominazioni e si lascia che l'esposizione 

storica vaghi, allo stesso modo dell’interesse « filosofico», da 

un oggetto all’altro, oppure si pone a fondamento una determi- 

nata definizione della filosofia e in base ad essa si compie la 

scelta e la distinzione delle singole dottrine. Nel primo caso si 

paga l’« oggettività storica » con una molteplicità sconcertante e 



a. Cfr. il mio saggio Geschichte der Philosophie, in Die Philosophie im 

Beginn des zwanzigsten Jahrhunderts (Festschrift fiv Kuno Fischer), Hei- 

delberg, 1904-5, vol. II, p. 190 sgg. 



WILHELM WINDELBAND 277 



con la mancanza di connessione tra gli oggetti; nel secondo 

caso l’unitarietà e la capacità di penetrazione così acquisite 

poggiano sull’unilateralità con cui si impone come schema un 

presupposto, determinato personalmente, nel movimento stori- 

co. La maggior parte degli storici della filosofia hanno im- 

boccato, senza rendersene conto (o anche senza poterlo fare), 

una via di mezzo, sviluppando le teorie di quei filosofi che si 

addentrano nel dettaglio delle scienze particolari soltanto nella 

loro connessione di principio con il complesso della dottrina e 

rinunciando in misura maggiore o minore (secondo l'estensione 

del loro lavoro) a riprodurre la realizzazione specifica. Siccome 

non esiste per questo un criterio determinato, e nemmeno può 

esistere in una maniera che possegga una validità universale di 

per sé evidente, al posto di esso sono subentrati per lo più 

l’arbitrio dell’interesse personale o l’accidentalità di una certa 

sensibilità. 


Di fatto, per il modo con cui si configurano i rapporti 

storici, questa difficoltà non può essere superata in linea di 

principio; essa viene rammentata qui soltanto come conseguen- 

za necessaria del fatto che non è possibile stabilire in modo 

universalmente valido l’oggetto della filosofia in base alla com- 

parazione storica. La storia dimostra piuttosto che nell’ambito 

in cui si può indirizzare la conoscenza non vi è nulla che non 

sia già stato incluso una volta nella filosofia, e così pure nulla 

che non ne sia stato una volta escluso. 


Tanto più comprensibile appare allora la tendenza a cercare 

il carattere specifico della filosofia non già nell'oggetto ma nel 

metodo, e a ritenere che la filosofia tratti bensì gli stessi og- 

getti delle altre scienze, ma con un metodo suo proprio: di qui 

il fatto che essa respinge da sé determinati oggetti inaccessibili 

al suo metodo, mentre deve esercitare una pretesa permanente 

di possesso su altri, particolarmente appropriati al suo modo 

di procedere. Un tentativo di tal genere — compiuto su larga 

scala da Wolff, che per ogni gruppo di oggetti della conoscen- 

za scientifica accostava una disciplina filosofica a una disci- 

plina « storica » (come si diceva allora: oggi si direbbe « empiri- 

ca») — può essere teoricamente formulato molto bene come 

progetto. Ma anch'esso non basta a una determinazione storica 

del concetto di filosofia — per il semplice motivo che anche tra 



278 WILHELM WINDELBAND 



i filosofi che assumono per la loro scienza un metodo particola- 

re (e sono una piccola parte) non c'è il minimo accordo riguar- 

do a questo « metodo filosofico ». Non è quindi possibile parla 

re con validità storica universale di un particolare modo di 

trattazione scientifica il cui impiego costituisca l'essenza della 

filosofia, né si può sostenere che tale essenza possa trovarsi 

nell’aspirazione, anche incompiuta, a questo metodo. Giacché 

da un lato tutti quelli secondo cui la filosofia oltrepassa il 

lavoro scientifico non vogliono, conseguentemente, saperne di 

un metodo filosofico; d’altra parte proprio coloro che vogliono 

«elevare a scienza » la filosofia cedono molto spesso al deside- 

rio di comprimerla entro metodi di altre scienze sperimentati 

in campi particolari, per esempio entro i metodi della matema- 

tica o dello studio induttivo della natura. Infine, laddove si è 

imposto un metodo specifico della filosofia, quanto esso è lonta- 

no dall’essere universalmente riconosciuto! Il metodo dialettico 

della filosofia tedesca appare ai più un capriccio stravagante e 

stupido; e se Kant credeva di aver stabilito per la filosofia il 

metodo «critico », gli storici non si sono messi ancor oggi 

d’accordo su ciò che voleva dire. 


Queste osservazioni potrebbero essere tirate in lungo con 

un'infinità di esempi. Ma per quanto riguarda il significato 

logico inerente a un'istanza negativa, anche quando essa abbia 

un'estensione minima, i casi qui menzionati bastano a dimostra- 

re che è impossibile — qualunque sia la via imboccata — trova- 

re mediante l’induzione storica un concetto universale di filoso- 

fia che comprenda se non altro tutti i fenomeni storici che 

vengono chiamati «filosofia». Se non è possibile sussumere 

senza residui la filosofia sotto il concetto generico di scienza, 

tanto meno è possibile farlo rispetto ad altri concetti generici 

di attività culturali come l’arte o la poesia: bisogna perciò 

rinunciare alla possibilità di trovare per via storica il concetto 

superiore prossimo comprensivo della filosofia. Nessuno mette- 

rà in dubbio che ogni filosofia è un prodotto spirituale, una 

formazione della rappresentazione; ma nessuno vorrà conside- 

rarlo come un punto di vista in qualche modo utilizzabile. 

Sembra che ai filosofi accada come a tutti gli individui umani 

che si chiamano Paolo, e nei quali non è assolutamente possibi- 

le indicare un segno comune ir virtà del quale essi recano 



WILHELM WINDELBAND 279 



tutti questo nome. Ogni denominazione si fonda sull’arbitrio 

storico e può quindi rimanere più o meno indipendente e di- 

stante dall’essenza di ciò che deve denominare: così sembra 

valere, se si considera l’intero corso temporale, anche per il 

termine « filosofia », poiché la comunanza della parola non cor- 

risponde a un’unitarietà dell'essenza da determinare concettual- 

mente. Se ci si limita a brevi periodi e a singoli ambiti cultura- 

li, si potrà forse trovare al loro interno un significato costante 

connesso col nome di filosofia: ma esso cessa di valere non 

appena si segue il termine nella sua applicazione attraverso 

tutta la storia. 


Certamente, questo risultato della considerazione storica ap- 

pare quanto mai preoccupante: se esso rimanesse privo di inte- 

grazione, una storia universale della filosofia risulterebbe priva 

di senso. Avrebbe, appunto, lo stesso valore — per tornare al 

paragone di prima — del tentativo di scrivere la storia di tutti 

gli uomini che si chiamano Paolo. È chiaro allora che proprio 

a quei « pensatori autonomi » che hanno costruito un loro con- 

cetto di filosofia rigidamente determinato, come Kant e Her- 

bart, la consueta storia della filosofia — che doveva offrire loro 

elementi così poco affini — è rimasta estranea e antipatica, 

mentre le epoche di eclettismo (che non sanno mai che cosa si 

debba propriamente denominare filosofia) sono state anche quel- 

le in cui più si è occupati storicamente di filosofia. Se però la 

riflessione storica deve mantenere un senso razionale, essa presup- 

pone (anche se non è in grado di mostrare un concetto universa- 

le di filosofia) che il mutamento sperimentato nel corso dei 

secoli dal termine « filosofia» non significhi mero arbitrio e 

accidentalità, ma anzi abbia un senso razionale e un valore 

specifico. Se nonostante le stranezze delle digressioni individua- 

li la storia del termine « filosofia » è l’espressione di uno svilup- 

po profondamente significativo nella connessione della vita cul- 

turale dell'umanità europea, allora la storia di questo e dei 

fenomeni particolari in esso compresi acquisisce un senso auto- 

nomo e fornito di valore non già malgrado, ma proprio in 

virtù di questo mutamento di significato. 


Del resto le cose non stanno, di fatto, diversamente; e solo 

quando si è chiarita la storia del termine « filosofia » si è an- 

che in grado di determinare ciò che nel futuro, aspirando a 



280 WILHELM WINDELBAND 



una validità più che individuale, possa essere legittimato a por- 

tare questo nome. 


Dobbiamo ai Greci sia il termine sia il primo significato di 

qriocepla. Divenuto denominazione tecnica — pare — ai tem- 

pi di Platone, il termine significa esattamente ciò che oggi 

noi Tedeschi designamo col termine « scienza »* che, per fortu- 

na, è molto più comprensiva di quanto non lo sia la science 

dei Francesi e degli Inglesi. È il nome che assume un bambino 

appena nato. Saggezza, che si tramanda di generazione in gene- 

razione nella forma di antichissime narrazioni mitiche; dottri- 

na morale, espressione riflessa dell'anima popolare; intelligen- 

za pratica che, accostando esperienza a esperienza, agevola alla 

nuova generazione il cammino della vita; conoscenze pratiche 

acquisite nella lotta per l’esistenza in singoli compiti e nella 

loro soluzione, e accumulate col trascorrere dei tempi in un 

potere e in un sapere imponente — tutto ciò è esistito da 

sempre in tutti i tempi. Ma la «curiosità» dello spirito di 

cultura liberato dalla necessità della vita, che nella nobiltà del- 

l’ozio comincia a indagare per possedere il sapere soltanto di 

per se stesso, senza alcun scopo pratico, senza guardare all’edifi- 

cazione religiosa o alla nobilitazione morale, per trovare godi- 

mento in esso come valore assoluto e completamente indipen- 

dente — questo puro impulso al sapere è stato sviluppato per 

la prima volta dai Greci, che sono così diventati i creatori 

della scienza. Analogamente all’«impulso al gioco », essi han- 



no tratto fuori dagli intrecci delle rappresentazioni mitiche, 



a. Non bisognerebbe mai dimenticare che nelle traduzioni sorgono pa- 

recchi fraintendimenti quando si rende piXogopfa con « filosofia », incor- 

rendo così nel pericolo che il lettore moderno intenda il termine nel sen- 

so attuale, assai più ristretto. Basterà un esempio tra i molti. Un noto pas- 

so di Platone viene facilmente tradotto nel modo seguente: « La sventura 

dell'umanità non avrà termine finché i governanti non filosoferanno o i 

filosofi non governeranno, ossia finché potere politico e filosofia non coin- 

cideranno ». È comodo sorridere sc per « filosofia » si pensa alle fantasti- 

cherie metafisiche e per « filosofi » ai professori sprovvisti di senso pratico 

e ai dotti solitari! Ma si traduca correttamente; e quando allora si trova 

che Platone non ha preteso altro se non che il governo stia nelle mani della 

cultura scientifica, si vedrà forse come egli abbia profeticamente precorso, 

con quella massima, lo sviluppo della vita europea. 



WILHELM WINDELBAND 281 



dalla dipendenza a bisogni etici e quotidiani l'impulso al sape- 

re, trasformando così la scienza, al pari dell’arte, in organi 

autonomi della vita culturale. Nella nebulosità fantastica della 

natura orientale gli esordi dell’impulso artistico e scientifico si 


rdono nel tessuto di una vita complessiva indistinta: i Greci, 

come guide dell’occidentalismo, cominciano a distinguere l’indi- 

stinto, a differenziare quanto è ancora embrionalmente non di- 

spiegato e a introdurre, per le supreme attività dell’uomo civi- 

le, la divisione del lavoro. La storia della filosofia greca è così 

la storia della nascita della scienza: tale è il suo senso più 

profondo e il suo significato intramontabile. Lentamente l’im- 

pulso scientifico si svincola dai fondamenti generali in cui è 

originariamente incapsulato; allora esso si comprende, si espri- 

me con fierezza e petulanza e infine giunge a compimento 

producendo, in completa chiarezza e in tutta la sua estensione, 

il concetto di scienza. Dalla ricerca di Talete! sul fondamento 

primo delle cose fino alla logica di Aristotele, è tutto un gran- 

de sviluppo tipico il cui tema è la scienza. 


Questa scienza si indirizza perciò a tutto quanto può diven- 

tare oggetto del sapere, o sembra poterlo diventare: abbraccia 

il Tutto, l’intero mondo della rappresentazione. Ciò che l’im- 

pulso al sapere divenuto autonomo trova davanti a sé come mate- 

riale per la propria attività nei racconti mitici del passa- 

to, nelle regole di vita dei saggi e dei poeti, nelle conoscenze 

pratiche di un popolo di commercianti impegnato in svariate 

attività — tutto ciò è ancora così poca cosa che può essere 

agevolmente riunito in una sola testa ed elaborato con pochi 

concetti fondamentali. Così, in Grecia la filosofia è scienza 

unica e indivisa. 


Ma il processo di differenziazione già avviato deve necessa- 

riamente procedere. Il materiale cresce, e di fronte allo spirito 

conoscente e ordinatore si articola in diversi gruppi di oggetti, 

che appunto perciò esigono una trattazione differenziata. La 

filosofia comincia a dividersi: le singole « filosofie » si separa- 

no e ognuna di esse pretende ora per sé sola il lavoro di una 

vita di un ricercatore. Lo spirito greco entra nell'età delle scien- 



1. Talete di Mileto, filosofo ionico vissuto tra il secolo vil e il secolo vi a. C., è 

tradizionalmente considerato il punto di partenza della speculazione filosofica greca. 



282 WILHELM WINDELBAND 



ze specialistiche. Se ora ogni disciplina assume il nome del 

proprio oggetto, dove rimane il nome di filosofia? 


In un primo tempo esso si lega all’universale. Il possente 

spirito sistematizzatore di Aristotele, in cui quel processo di 

differenziazione ha trovato il suo compimento, creò tra le altre 

anche una filosofia «prima », cioè una scienza fondamentale 

che — detta anche, più tardi, metafisica — trattava della connes- 

sione suprema e ultima di tutte le conoscenze. Qui tutti i con- 

cetti prodotti nei singoli compiti della scienza si unificavano in 

un quadro complessivo dell’universo, e per questa suprema fun- 

zione onnicomprensiva fu quindi mantenuto il nome originario 

della scienza complessiva. 


Soltanto che, nello stesso tempo, comparve un altro elemen- 

to che aveva la sua base non in un movimento puramente 

scientifico, ma in un movimento culturale generale. Quella divi- 

sione del lavoro scientifico avvenne nell'epoca di decadenza 

della Grecità. Alle culture nazionali subentrò una cultura uni- 

versale in cui la scienza greca costituiva sì un vincolo essenzia- 

le, ma retrocedeva rispetto ad altre esigenze, oppure si poneva 

al loro servizio. Dalla Grecità si passò all’Ellenismo, dall’Elleni- 

smo all’Impero romano. Si andava istituendo un enorme mecca- 

nismo sociale, che divorava la vita nazionale con i suoi in- 

teressi particolari, che contrapponeva l’individuo, come atomo 

effimero, a una totalità impenetrabile ed estranea, che con l’acu- 

rizzarsi della lotta sociale costringeva infine il singolo a render- 

si il più possibile indipendente, e a preservare per sé il massimo 

di felicità e di serenità, sottraendolo al grande strepito, nella 

quiete dell’esistenza individuale. Dove i destini del mondo ester- 

no passavano annientando interi popoli e potenti imperi, la 

felicità e il godimento sembravano rifugiarsi nell’interiorità del- 

la persona, e così per tutti i migliori la questione della giusta 

direzione da dare alla vita personale divenne la più importante 

e scottante. Di fronte alla vivacità di questo interesse si indebo- 

liva il puro impulso al sapere: la scienza veniva ancora apprez- 

zata soltanto nella misura in cui poteva servire a questo interes- 

se, e quella « filosofia prima » sembrava offrire la sua immagi- 

ne scientifica del mondo solo allo scopo di comprendere quale 

posizione spetta all’uomo nella connessione universale, e come 

egli possa di conseguenza indirizzare la propria vita. L’esem- 



WILHELM WINDELBAND 283 



pio tipico di questo movimento lo vediamo nello Stoicismo. La 

subordinazione del sapere alla vita è il carattere universale del- 

l’epoca: per essa la filosofia è quindi arte di vivere ed esercizio 

di virtù. La scienza non è più uno scopo in sé; essa è il più 

nobile strumento di felicità. Il nuovo organo dello spirito uma- 

no sviluppato dai Greci entra in uno stato di dipendenza desti- 

nato a durare a lungo. 


Col trascorrere dei secoli esso cambia padrone. Mentre le 

scienze particolari entrano al servizio dei singoli bisogni sociali 

— tecnica, insegnamento, medicina, legislazione ecc. — la filo- 

sofia è anzitutto quella scienza complessiva che deve insegnare 

come l’uomo possa diventare al tempo stesso virtuoso e felice. 

Ma quanto più il mondo perdura in questa situazione, quanto 

più una sfrenata ricerca del godimento e la mancanza di con- 

vinzione invadono la società, tanto più si frantuma l’orgoglio 

della virtù, tanto più il desiderio di felicità dell'individuo appa- 

re privo di prospettive. Con tutto il suo splendore e con tutto il 

suo desiderio di piacere il mondo esterno si spopola, e sempre 

più l’ideale si sposta dalla regione mondana in una regione 

trascendente, più alta, più pura. L'idea etica si trasforma in 

idea religiosa, e ora «filosofia» significa conoscenza di Dio. 

L’intero apparato della scienza greca, il suo schema logico, il 

suo sistema di concetti metafisici sembra ora destinato soltanto 

a fornire un’espressione conoscitiva adeguata all’aspirazione reli- 

giosa e a una convinzione piena di fede. Nella teosofia e nella 

teurgia che si trasmettono dagli agonizzanti secoli di transizio- 

ne alla mistica del Medioevo questo nuovo carattere della « filo- 

sofia» emerge non meno di quanto emerga nel duro lavoro 

concettuale con cui tre grandi religioni tentarono di assimilare 

a sé la scienza greca. In questa forma, come ancella della fede, 

la filosofia si manifesta nei lunghi e difficili secoli di apprendi- 

stato dei popoli germanici: l'impulso al sapere sì è fuso nell’im- 

pulso religioso e non ha, accanto ad esso, un suo autonomo 

diritto. La filosofia è il tentativo di sviluppo scientifico e di 

fondazione delle convinzioni religiose. 


Nell’emancipazione dal dominio esclusivo della coscienza re- 

ligiosa risiedono le radici del pensiero moderno, che affondano 

profondamente nel cosiddetto Medioevo. Anche l'impulso al 

sapere si rifà libero, riconosce e afferma il proprio valore specifi- 



284 WILHELM WINDELBAND 



co. Mentre le scienze specialistiche seguono, con compiti e me- 

todi in parte nuovi, la loro strada, la filosofia ritrova negli 

ideali della Grecia il puro sapere fine a se stesso. Essa si scrolla 

di dosso la finalità etica e religiosa diventando di nuovo la 

scienza complessiva della totalità del mondo, di cui vuole acqui- 

sire la conoscenza per proprio conto e per se stessa, senza 

appoggio estraneo. La « filosofia » diventa metafisica in senso 

stretto, sia che riproduca i sistemi dei grandi filosofi Greci, sia 

che intenda poetizzare in una combinazione fantastica le nuove 

intuizioni offerte dalle scoperte dell’epoca, sia che vada alla 

rigorosa scuola di una matematica fornita di antica dignità 

eppure ancor giovane, sia che voglia cautamente costituirsi con le 

conoscenze della nuova indagine della natura. In tutti i casi 

essa vuole fornire, indipendentemente dal conflitto delle opinio- 

ni religiose, una conoscenza autonoma del mondo fondata sulla 

«ragione naturale », e si contrappone così alla fede in qualità 

di «sapienza mondana ». 


Ma accanto a questo interesse metafisico ne compare fin 

dall'inizio un altro, che prende gradualmente il sopravvento. 

Sorta in opposizione alla scienza tutelata dalla Chiesa, questa 

nuova filosofia deve anzitutto mostrare come intenda produrre 

il suo nuovo sapere. Essa procede da indagini sull’essenza 

della scienza, sul processo del conoscere, sull’adattamento del 

pensiero ai suoi oggetti. Se questa tendenza è inizialmente me- 

todologica, assume però sempre di più il carattere di teoria 

della conoscenza. Non indaga più soltanto sulle vie, ma sui 

limiti della conoscenza. E proprio l’antitesi, che ora si ripete e 

si approfondisce, tra i sistemi metafisici suscita la questione se 

sia in generale possibile la metafisica, cioè se la filosofia abbia 

un proprio oggetto, se abbia diritto a esistere accanto alle scien- 

ze particolari. 


E alla questione si dà risposta negativa! Il secolo che nella 

sua suprema fiducia nel sapere pensava di padroneggiare la 

storia con la sua filosofia — il secolo xvi — è quello che 

riconosce e confessa che la forza conoscitiva dell’uomo non 

basta per abbracciare la totalità del mondo e per penetrare i 

fondamenti ultimi delle cose. Non esiste metafisica: la filosofia 

ha distrutto se stessa. Che cosa può ancora significare il suo 

vuoto nome? Tutti i singoli oggetti sono divisi tra le scienze 



WILHELM WINDELBAND 285 



particolari; la filosofia è come il poeta, giunto troppo tardi alla 

spartizione del mondo. Infatti l’attività di ricucitura dei risulta- 

ti ultimi delle scienze specialistiche è ben lungi dal costituire la 

scienza dell’universo: essa è compito di una diligente compila- 

zione o di una combinazione artistica, non della scienza. La 

filosofia è come il re Lear, che ha suddiviso tutto il suo tra i 

figli e ora è costretto a subire di farsi gettare sulla strada come 

un mendicante. 


Però dove massimo è il pericolo, l’aiuto è vicinissimo. Se è 

stato possibile dimostrare che la filosofia che voleva essere meta- 

fisica è impossibile, con queste indagini è sorto un nuovo ramo 

del sapere, il quale ha bisogno di un nome. Anche se tutti gli 

altri oggetti sono stati divisi senza residuo tra le scienze speciali- 

stiche e si è dovuto definitivamente rinunciare a una scienza 

dell’intuizione del mondo, quelle stesse scienze sono però un 

“- forse uno dei più significativi, e pretendono di essere 


oggetto di una scienza specifica che stia con esse nello stesso 

rapporto in cui queste stanno con le cose. Accanto alle altre 

scienze compare come disciplina particolare e chiaramente de- 

terminata una zeoria della scienza. Se non è una conoscenza 

del mondo che riunisce tutti gli altri punti di vista, ora è però 

l’auto-conoscenza della scienza, l'indagine centrale in cui tutte 

le altre scienze trovano la loro fondazione. A questa « dottrina 

della scienza » si trasmette il nome, divenuto privo di oggetto, 

di filosofia: essa non è più la dottrina della totalità del mondo 

o della condotta della vita, ma è la dottrina del sapere — non è 

più una metafisica delle cose, ma è una « metafisica del sapere ». 


Se si fa attenzione al mutamento che si è così compiuto 

attraverso due millenni nel significato del termine, appare chia- 

ro che la filosofia — anche se non è mai stata completamente 

scienza e, quando pur voleva essere scienza, non si è costante- 

mente rivolta al medesimo oggetto — si è tuttavia mantenuta 

in una determinata relazione con la conoscenza scientifica; e 

che — questa è la cosa più importante — il mutare di tale 

relazione dipende dal cambiamento di valutazione, avvenuto 

nello sviluppo della cultura europea, nei riguardi della cono- 

scenza scientifica. La storia del termine filosofia è la storia del 

significato culturale della scienza. Non appena il pensiero scien- 

tifico si rende autonomo come impulso del conoscere in vista 



286 WILHELM WINDELBAND 



soltanto del sapere, esso assume il nome di filosofia; quando 

poi la scienza unitaria si divide nei suoi rami, la filosofia diven- 

ta conoscenza del mondo connettiva, conclusiva, universale. 

Non appena poi il pensiero scientifico viene di nuovo ridotto a 

strumento della riflessione etica e della contemplazione religio- 

sa, la filosofia si trasforma in arte di vita o in formulazione di 

convinzioni religiose. Quando la vita scientifica ridiventa libe- 

ra, anche la filosofia ritrova il carattere di conoscenza autono- 

ma del mondo, e quando comincia a rinunciare alla soluzione 

di questo compito si trasforma in una teoria della scienza. 


All’inizio scienza complessiva e indifferenziata, nella diffe- 

renziazione delle scienze particolari la filosofia diventa in par- 

te quell’organo che connette le operazioni di tutte le altre 

scienze in conoscenza complessiva, in parte uno strumento al 

servizio di una condotta di vita etica o religiosa, in parte in- 

fine l'organo nervoso centrale in cui deve pervenire alla coscien- 

za il processo vitale degli altri organi. Dapprima identica con 

la scienza, la filosofia è in seguito il risultato di tutte le 

scienze particolari o la dottrina di ciò in vista di cui la scienza 

esiste, o infine la teoria della scienza medesima. Sempre la 

concezione di ciò che vien chiamato filosofia è caratterizzante 

rispetto alla posizione che la conoscenza scientifica assume 

nella valutazione dei beni culturali di ogni epoca. Sia che la si 

consideri come un bene assoluto oppure soltanto come un mez- 

zo in vista di scopi superiori, sia che la si ritenga o no in 

grado di comprendere il fondamento vitale ultimo delle cose, 

ciò si manifesta nel senso che di volta in volta si collega col 

termine « filosofia ». La filosofia di un'epoca è il termometro 

del valore che questa attribuisce alla scienza: proprio per- 

ciò la filosofia appare ora essa stessa come scienza, ora come 

qualcosa che procede al di là di questa, e quando viene conside- 

rata come scienza, essa abbraccia la totalità del mondo, oppure 

è l'indagine sull’essenza della conoscenza scientifica. Quanto 

diversa è la posizione che la scienza assume nella connessione 

della vita culturale, altrettanto equivoca e multiforme è la filo- 

sofia; e da ciò si comprende che dalla storia non si può ottene- 

re nessun concetto unitario di essa. 


S'intende che questo sguardo d'insieme alla storia del termi- 

ne « filosofia » è una considerazione di massima che si concen- 



WILHELM WINDELBAND 287 



tra sull’interesse principale delle diverse epoche e che non vuol 

negare né dimenticare il fatto che le quattro tendenze particola- 

ri qui distinte scorrono parallele in tutti i periodi per ognuno 

dei quali è stato abbozzato uno specifico significato complessivo 

di «filosofia ». Già nella filosofia greca si fanno valere certe 

tendenze a trasformare la filosofia in arte di vita o in critica 

della conoscenza; e d’altra parte l'ideale di una conoscenza fine 

a se stessa non è mai scomparso completamente dall’orizzonte 

dell'umanità europea. Ma le inclinazioni dei singoli cedono il 

passo al predominio della coscienza complessiva: perciò è sol- 

tanto possibile proporre una tale considerazione di massima. 

Quanto però gli individui procedano tuttavia per la loro strada, 

risulta particolarmente chiaro se si tiene presente che nella 

nostra epoca si sono ancor sempre rinnovate quelle quattro 

concezioni della filosofia, dopo che erano state messe in ombra 

da quella più importante. 


Infatti non si è ancora presa in esame la trasformazione più 

importante che la filosofia ha subìto, ossia quella che si ricolle- 

ga al nome di Kant. Essa si colloca immediatamente dopo 

quella quarta fase, in cui la filosofia si è configurata come 

teoria della scienza. Che cosa vuol dire teoria della scienza? 

Rispetto ad altri oggetti teoria vuol dire la spiegazione di dati 

fenomeni in base alle loro cause e la determinazione delle leggi 

secondo cui si compiono i processi causali del gruppo di feno- 

meni in questione. Nel medesimo senso si concepiva prima di 

Kant anche il compito della filosofia: essa doveva comprendere 

la scienza. Essa doveva cioè spiegare l'origine delle rappresenta- 

zioni e mostrare le leggi secondo cui esse si trasformano in 

prospettive scientifiche, in concetti generali e in relazioni tra 

concetti fondate su giudizi. È del tutto evidente che, se la 

filosofia viene così intesa come una scienza che deve spiegare 

geneticamente il pensiero scientifico, si risolve completamente 

in indagini sulle leggi di sviluppo dello spirito: essa è allora 

per metà psicologia individuale, per metà storia della cultura 

— vale a dire quello che i Francesi chiamano ideologia”. Essa 



2. Il termine, coniato da Destutt de Tracy negli El4ments d’idbologie (1801-4), 

designa quella corrente filosofica che, richiamandosi a Condillac, ne sviluppa l’imposta- 

zione gnoscologica nel senso di un'analisi del processo di formazione delle idee, dei 

loro rapporti e della loro combinazione. 



288 WILHELM WINDELBAND 



mostra in base a quali leggi generali viene a formarsi, secondo 

una necessità naturale, la certezza dell’individuo e il modo di 

rappresentazione dei popoli civili. Da ciò si comprende la ten- 

denza psicologica che caratterizza tutte le manifestazioni signi- 

ficative della filosofia nel secolo precedente Kant. Questa filoso- 

fia è quindi essenzialmente un'applicazione di conoscenze psico- 

logiche e storiche al concetto della scienza: essa si propone di 

spiegarla nello stesso modo degli altri fatti spirituali. 


È però facile trovare che tale trattazione, fondata sul proce- 

dimento delle altre scienze, non soddisfa affatto lo scopo per 

cui si andava alla ricerca di quella « teoria della scienza ». Infat- 

ti il compito di una teoria del genere dovrebbe appunto essere 

non soltanto quello di distinguere e di descrivere, tra l’intera 

massa delle rappresentazioni e dei nessi delle rappresentazioni, 

quelle che sono di solito designate come scientifiche, ma di 

mostrare perché proprio a queste competa un valore di verità, 

in modo che non solo vengano generalmente riconosciute di 

fatto come scientifiche, ma meritino di essere riconosciute 

come tali. Si voleva appunto sapere da che cosa dipende il 

fatto che le conoscenze acquisite dalla scienza posseggono un 

valore necessario che oltrepassa la loro origine accidentale, e in 

quale modo la scienza debba procedere per assicurare ai suoi 

risultati tale valore. Questo problema non può essere risolto 

indicando il processo conforme alle leggi naturali attraverso cui 

viene prodotto, negli individui o nella specie, ciò che pretende 

al titolo di scienza. Tale necessità naturale di origine psicologi- 

ca si ritrova infatti senza eccezione in tutte le rappresentazioni 

e i rapporti tra rappresentazioni; in essa non c'è mai un crite- 

rio per decidere sulla questione del valore. Se la filosofia pre- 

kantiana trattava quindi sempre il problema gnoseologico nel 

senso di cercare l’origine delle rappresentazioni, e portava avan- 

ti il dibattito sulla questione se le nostre conoscenze siano fon- 

date, per quanto riguarda la loro origine, sull’esperienza o su 

concetti innati, o su entrambi (e secondo quali rapporti tra i 

due termini), sul terreno di questa impostazione psicologica il 

problema non poteva mai essere deciso. Per la psicologia può 

essere interessante stabilire se una rappresentazione è sorta per 

l'una o per l’altra via: ma per la teoria della conoscenza la 



WILHELM WINDELBAND 289 



questione è soltanto se le rappresentazioni siano valide, cioè se 

possano essere riconosciute come vere. 


La grandezza di Kant risiede proprio nel fatto che, con un 

lavoro intellettuale indicibilmente arduo e complicato, si è ele- 

vato al di sopra dei pregiudizi della filosofia della sua epoca 

fino al punto di vista secondo cui per il valore di verità di una 

rappresentazione è del tutto indifferente il processo naturale del 

suo pervenire alla coscienza. Il modo e la maniera in cui, sulla 

base di leggi psicologiche, perveniamo come individui, come 

popoli, come genere umano alla produzione di determinate 

rappresentazioni e alla fede nella loro correttezza, non deci- 

dono per nulla del loro valore assoluto di verità. Il processo 

naturale del corso della rappresentazione può, nell’individuo 

come in tutti, condurre egualmente all’errore come alla verità; 

esso domina dovunque, e perciò la sua indicazione non costitui- 

sce una prova della validità di certe rappresentazioni in anti- 

tesi ad altre. 


Se in definitiva anche Kant si è visto quindi costretto, nella 

sua rinuncia alla precedente metafisica, a definire la filosofia 

come metafisica non delle cose ma del sapere, per lui questa 

teoria della conoscenza non era una storia dello sviluppo indivi- 

duale o storico-culturale, e neppure una teoria genetico-psicolo- 

gica, bensì un’indagine critica. Poco importa come, per quali 

motivi e secondo quali leggi sono pervenuti alla coscienza, 

nell’individuo o nel genere umano, quei giudizi per i quali si 

pretende una validità universale e necessaria — la filosofia non 

indaga la loro causalità, bensì la loro fondazione: essa non è 

spiegazione, ma critica. 


Non è qui il luogo* di approfondire con quali mezzi e in 



a. A. questo proposito l’autore rimanda all’esposizione della filosofia 

kantiana, condotta dal punto di vista sopra sviluppato, che è contenuta 

nella sua Geschichte der neueren Philosophie, Leipzig, 4° ed. 1907, vol. II. 

Per coloro che si occupano più da vicino di questa difficile questione, ag- 

giungo esplicitamente che la soluzione del problema, i suoi presupposti e 

il suo metodo devono essere tratti unicamente dalla Critica della ragion pu- 

ra, mentre i Prolegomeni espongono soltanto la storia della scoperta kantia- 

na, cioè il processo psicologico attraverso cui egli è stato condotto alla com- 

prensione di questa « verità ». Cfr. anche la mia Geschichte der Philosophie 

cit., $$ 38-40. 



19. STORICISMO TEDESCO. 



290 WILHELM WINDELBAND 



quale modo Kant abbia compiuto questa critica, o mostrare 

come abbia faticosamente elaborato il nuovo principio per sot- 

trarlo agli intrecci di una considerazione psicologistica. Qui è 

sufficiente far risalire in piena chiarezza il concetto assolu- 

tamente nuovo di filosofia che la critica kantiana ha inaugu- 

rato. In quanto filosofia teoretica, essa vuol essere soltanto 

un’indagine sulla legittimità con cui si attribuisce a certe rap- 

presentazioni e rapporti tra rappresentazioni il carattere di una 

superiore necessità e validità universale, che oltrepassano la ne- 

cessità dell’origine empirica. Le rappresentazioni vanno e ven- 

gono; come ciò avvenga, può spiegarlo la psicologia: la filoso- 

fia indaga quale sia il valore che ad esse spetta dal punto di 

vista critico della verità. 


Questo principio, sviluppato dapprima per la teoria della 

conoscenza e nell’elaborazione del suo compito specifico, viene 

da Kant esteso con grande consequenzialità. La conoscenza 

scientifica non è l’unico campo della vita psichica in cui noi 

distinguiamo — tra i fenomeni condizionati per quanto ri- 

guarda il loro processo causale in modo conforme a leggi na- 

turali — quelli a cui si attribuisce un valore necessario e univer- 

salmente valido e quelli in cui ciò non avviene. Nel campo 

morale assumiamo lo stesso valore, completamente indipenden- 

te dal modo di origine psicologica, per valutare la bontà o la 

cattiveria delle azioni, dei sentimenti e dei caratteri; nel cam- 

po estetico lo assumiamo per valutare quei sentimenti particola- 

ri che, senza alcun riferimento a scopi consapevoli o a interessi 

di qualsiasi specie, caratterizzano il loro oggetto come gradevo- 

le o sgradevole. In entrambi questi campi spetta quindi alla 

filosofia il compito, del tutto parallelo al compito della teoria 

della conoscenza, di indagare la legittimità di tali pretese. An- 

che qui non si tratta di una quaestio facti, ma di quaestio iuris. 


In questa generalizzazione la filosofia « critica » si manifesta 

come la scienza delle determinazioni di valore necessario e 

universalmente validi. Essa indaga se esista una scienza, cioè 

un pensiero che possegga con validità universale e necessaria il 

valore della verità; indaga se esista una morale, cioè un volere 

e un agire che posseggano con validità universale e necessaria il 

valore del bene; indaga se esista un'arte, cioè un intuire e un 

sentire che posseggano con validità universale e necessaria il 



WILHELM WINDELBAND 29I 



valore della bellezza. In tutte queste tre parti la filosofia sta 

dinanzi al suo oggetto — e quindi nella prima parte, quella 

teoretica, anche dinanzi alla scienza — non come le altre scien- 

ze stanno di fronte ai loro oggetti particolari, bensì criticamen- 

te, cioè in modo da sottoporre a esame il materiale effettivo del 

pensare, del volere, del sentire in base allo scopo della validità 

universale e necessaria, e in modo da escludere e da respingere 

tutto quanto non regge a questo esame. In tal modo — per 

citare soltanto l’esempio più eminente e più noto — Kant 

dimostra che la metafisica nel vecchio senso di scienza dell’in- 

tuizione del mondo non può essere stabilita con validità univer- 

sale, per quanto necessariamente l'impulso psicologico del sape- 

re possa condurre a ciò. 


È facile capire in quale rapporto specifico, di comprensività 

e tuttavia di completa trasformazione, questa nuova determina- 

zione concettuale della filosofia stia con quelle precedenti. Que- 

sta filosofia lascia cadere completamente la pretesa di costituire 

tutta la scienza; ma in quanto indaga nella sua parte teoretica i 

fondamenti su cui poggia la validità universale di ogni pensie- 

ro scientifico, assume l’intero ambito delle scienze come pro- 

prio oggetto. Essa lascia però a una scienza particolare — alla 

psicologia — il compito di comprendere la storia evolutiva e la 

conformità alle leggi di questo suo oggetto, per indagare da 

parte sua su che cosa si fonda il valore di verità delle rappresen- 

tazioni, quale che ne sia l’origine. In quanto però estende 

questa sua critica a tutte le determinazioni di valore universal- 

mente valide dello spirito razionale, essa appare come indagine 

generale sui valori supremi; e se la trasformazione successiva 

del senso del termine « filosofia » era caratterizzante del signift- 

cato attribuito nelle varie epoche alla conoscenza scientifica, 

nella risposta complessiva alle questioni critiche fornita con le 

sue tre grandi opere Kant diede anche una formulazione total- 

mente nuova di questo interesse, cioè una formulazione adegua- 

ta alle condizioni della cultura contemporanea *?. 


Come si è già ricordato, molto tempo doveva trascorrere 

prima che il principio kantiano fosse inteso e pervenisse a un 



a. Si veda, in questo stesso volume, il discorso su Kant [Immanuel 

Kant: zur Sikularfeser seiner Philosophie, in Praludien, 1° ed., pp. 112-45]. 



292 WILHELM WINDELBAND 



predominio esclusivo. Tra i suoi successori Herbart è stato quel- 

lo che vi si è maggiormente attenuto dal punto di vista forma- 

le. Altri hanno immediatamente tradotto i suoi risultati in una 

metafisica o in una scienza filosofica universale, le cui determi- 

nazioni ultime essi dovevano poi, per esplicita ammissione, 

cercare in postulati etici o in intuizioni estetiche. Molti hanno 

pensato di limitare nuovamente la filosofia a una teoria della 

conoscenza, e la maggior parte di questi sono ricaduti, o con 

indagini autonome o riproducendo teorie del secolo xvni, 

nella tendenza psicologica. Non sono mancate neppure le ri- 

chieste di ricondurre la filosofia a un’indagine esclusiva di ciò 

che ha significato per gli scopi pratici della vita umana. 


Tutti questi tentativi sottostanno all’uno o all’altro perico- 

lo: essi negano il carattere specifico della filosofia facendone o 

una scienza in generale o una scienza delimitata in modo preci- 

so rispetto alle altre. Nel primo caso fanno della filosofia un 

«romanzo » di concetti, nell’altro un ragù composto di rifiuti 

provenienti dalla psicologia e dalla storia della cultura. La filo- 

sofia può rimanere o diventare scienza autonoma soltanto se 

porta alle estreme conseguenze, con pienezza e rigore, il princi- 

pio kantiano. Senza quindi disconoscere la mutevolezza storica 

del significato del termine «filosofia », senza rifiutare a nessu- 

no il diritto di chiamare «filosofia » ciò che gli aggrada, fac- 

cio per l'appunto uso di questo diritto derivante dalla mancan- 

za di un saldo significato storico — sulla base dell’analisi stori- 

ca sviluppata — intendendo per filosofia in senso sistematico, e 

non storico, la scienza critica dei valori universalmente validi. 

La scienza dei valori universalmente validi designa gli oggetti; 

la scienza critica designa il metodo della filosofia. 


Sono convinto che tale concezione non è che Ja realizzazio- 

ne compiuta dell'idea fondamentale di Kant. Ma non mi sarei 

mai permesso di pretendere per questa definizione il nome di 

« filosofia » se non potessi dimostrare in modo convincente — 

indipendentemente dallo sviluppo storico, e senza fare uso 

delle formule della dottrina kantiana — la necessità di una 

scienza particolare del genere, in cui il nome svolazzante di 

« filosofia » possa trovare un solido appiglio. Da quando Kant 

ha fatto stare in piedi l’uovo di Colombo, non è difficile 

ripetere il trucco. 



WILHELM WINDELBAND 293 



Tutte le proposizioni in cui esprimiamo i nostri punti di 

vista si distinguono, nonostante l'apparente identità grammati- 

cale, in due classi che devono essere esattamente separate l’una 

dall’altra: i giudizi e le valutazioni. Nei primi viene espressa 

la connessione tra due contenuti rappresentativi, nelle seconde 

è espresso un rapporto della coscienza giudicante con l'oggetto 

rappresentato. Vi è una fondamentale differenza tra le due 

proposizioni « questa cosa è bianca» e «questa cosa è buo- 

na », nonostante che la loro forma grammaticale sia del tutto 

identica. In entrambi i casi al soggetto (secondo la forma gram- 

maticale) viene attribuito un predicato; ma questo predicato è 

in un caso — in quanto predicato del giudizio — una determi- 

nazione compiuta in sé, ricavata dal contenuto di ciò che è 

oggettivamente rappresentato, nell'altro è — in quanto predica- 

to della valutazione — una relazione che rimanda a una co- 

scienza la quale pone uno scopo. In un giudizio si esprime 

ogni volta il fatto che una determinata rappresentazione (il 

soggetto del giudizio) viene pensata in una relazione, diversa 

secondo le diverse forme di giudizio, con un’altra determinata 

rappresentazione (predicato del giudizio). In una valutazione, 

invece, a un oggetto rappresentato nella sua completezza, e 

quindi presupposto come conosciuto (il soggetto della proposi- 

zione valutativa), viene aggiunto il predicato della valutazione, 

mediante il quale non si accresce affatto la conoscenza del 

soggetto in questione, ma si esprime il sentimento di approva- 

zione o di disapprovazione con cui la coscienza valutante sta 

in rapporto con l’oggetto rappresentato. Tutti i predicati del 

giudizio sono quindi rappresentazioni positive, le quali si riferi- 

scono al mondo rappresentato come concetti di genere, come 

qualità, attività, stati, rapporti ecc. Una cosa è il corpo, che è 

grande, duro, dolce ecc., che si muove, urta, si arresta, ne 

trascina altri ecc. Tutti i predicati della valutazione sono inve- 

ce espressioni dell'accordo o disaccordo da parte della coscienza 

rappresentante: una cosa è gradevole o sgradevole, un concetto 

è vero o falso, un'azione è buona o cattiva, un paesaggio è 

bello o brutto ecc. È chiaro che una valutazione non contribui- 

sce affatto alla comprensione dell'essenza dell’oggetto valutato. 

La cosa deve anzi essere presupposta come nota, cioè come 

compiutamente rappresentata, prima che abbia un senso dire di 



294 WILHELM WINDELBAND 



essa che è gradevole, buona, bella ecc. E tutti questi modi di 

predicare della valutazione hanno senso soltanto nella misura 

in cui si prende in esame se l'oggetto rappresentato corrispon- 

da o no a uno scopo in base al quale la coscienza valutante lo 

concepisce. Ogni valutazione presuppone, come sua misura, 

uno scopo determinato, e ha senso e significato soltanto per 

chi riconosce tale scopo. Ogni valutazione compare quindi nel- 

la forma alternativa dell’approvazione o della disapprovazione. 

Il soggetto rappresentato della proposizione corrisponde o non 

corrisponde allo scopo, e per quanto diversi siano i gradi di 

corrispondenza o di non corrispondenza (cioè di contraddizio- 

ne), e altrettanto diversi siano quindi i gradi di approvazio- 

ne e di disapprovazione, dev’esserci o accordo o disaccordo se 

si vuol parlare in generale di una valutazione conseguente. 


Questa distinzione tra giudizi e valutazioni sarebbe meglio 

compresa nel suo significato fondamentale e di ampia portata 

se non effettuassimo sempre una particolare combinazione tra i 

due elementi. I giudizi, cioè le connessioni puramente teoreti- 

che tra rappresentazioni, che si compiono in forme diverse, 

vengono formulati — nel processo della rappresentazione comu- 

ne come nella vita scientifica — solamente in quanto viene ad 

essi accordato o negato un valore che supera la necessità dell’as- 

sociazione, conforme alle leggi naturali, cioè in quanto vengo- 

no dichiarati veri o falsi, affermati o negati. Nella misura in 

cui il nostro pensiero è orientato verso la conoscenza, cioè 

verso la verità, tutti i nostri giudizi sottostanno subito a una 

valutazione che esprime la validità o non validità della connes- 

sione tra rappresentazioni compiuta nel giudizio. Il giudizio 

puramente teoretico è dato propriamente soltanto nella doman- 

da o nel cosiddetto giudizio problematico, nei quali si compie 

solamente un certo collegamento tra rappresentazioni, ma non 

ci si esprime sul loro valore di verità. Non appena un giudizio 

viene affermato o negato, insieme con la funzione teoretica si è 

compiuta anche quella di una valutazione dal punto di vista 

della verità. A questa valutazione che si aggiunge al giudizio 

non diamo nessuna espressione linguistica quando la valutazio- 

ne è affermativa, poiché la tendenza al valore di verità dei 

giudizi viene presupposta come ovvia nella comunicazione, men- 

tre la disapprovazione si esprime mediante la negazione. Ogni 



WILHELM WINDELBAND 295 



asserzione cosiddetta affermativa (A è B) implica quindi l’opi- 

nione che il giudizio, il quale connette le rappresentazioni A e 

B nel modo espresso, deve valere come vero; e ogni asserzione 

negativa (4 non è B) implica l’opinione che quel giudizio già 

espresso, o di cui si teme la formulazione, dev'essere ritenuto 

falso. Tutte le proposizioni conoscitive contengono quindi im- 

mediatamente una combinazione di giudizio e di valutazione: 

sono connessioni tra rappresentazioni del cui valore di verità si 

decide affermando o negando?*. 


La distinzione tra giudizio e valutazione è quindi della mas- 

sima importanza, poiché su di essa si fonda l’unica possibilità 

che ci è rimasta di determinare la filosofia come scienza partico- 

lare, profondamente distinta dalle altre già in virtù dell’ogget- 

to. Tutte le altre scienze devono infatti stabilire un giudizio 

teoretico: l'oggetto della filosofia è costituito invece dalle valuta- 

zioni. 


Le scienze particolari devono, in quanto scienze storiche o 

descrittive, formare giudizi che attribuiscano a determinati og- 

getti, dati all’interno dell'esperienza, determinati predicati — 

in parte singolari e in parte costanti — di qualità, di stati, di 

attività, di rapporti con altri oggetti; oppure, in quanto scienze 

esplicative, devono ricercare quei giudizi generali da cui è possi- 

bile derivare, come casi specifici, tutte le qualità, gli stati, le 

attività e le relazioni delle cose particolari. Una scienza natura- 

le descrittiva constata che a una determinata cosa — per esem- 



a. Questa distinzione — estremamente importante, anzi fondamentale 

per la logica — tra i due elementi del « giudizio », appena sfiorata da 

Descartes nella quarta Meditazione e trattata di sfuggita da J. F. Fries 

(Neue Kritik, Heidelberg, 1807, vol. I, p. 208 sgg.), è stata recata a una 

precisa comprensione soltanto nella logica moderna in virtù delle indagini 

sul giudizio negativo di C. Stowart (Logik, Tiibingen, 1873-78, vol. I, $ 

20), di R. H. Lotze (Logik, Leipzig, 1874, p. 61) e specialmente di J. Berc- 

Mann (Reine Logik, Berlin, 1879, vol. I, p. 177 sgg.). Dal punto di vista 

psicologico ha richiamato l’attenzione su di essa, anche se in forma baroc- 

ca, F. Brentano (Psychologie, Wien, 1874, vol. I, p. 266 sgg.). Sull'argo- 

mento si vedano i mici Beitràge zur Lehre vom negativen Urteil, nelle 

Strassburger Abhandlungen zur Philosophie: Eduard Zeller zu seinem 

stebenzigsten Geburstage, Freiburg i.B. - Tiibingen, 1884, pp. 165-95, e il 

saggio Vom System der Kategorien, nelle Philosophische Abhandlungen, 

C. Sigwart zu seinem siebzigsten Geburtstage, Tibingen, 1900, pp. 41-58. 



296 WILHELM WINDELBAND 



pio a una pianta o a un organismo psichico — spettano questi 

o quei predicati, o in modo costante o subordinatamente a 

certe condizioni; una scienza storica deve accertare che singoli 

uomini o popoli si sono trovati in questi o quei rapporti, hanno 

compiuto queste 0 quelle azioni, hanno vissuto questi o quei 

destini. Una scienza esplicativa stabilisce col nome di leggi 

quei giudizi generali dai quali, nella loro qualità di premesse 

maggiori, deriva come conseguenza necessaria il corso dei muta- 

menti in cui le cose reali e le loro situazioni stanno in rap- 

porto reciproco di causa o effetto. Le scienze matematiche, 

infine, formulano — indipendentemente da qualsiasi evento 

temporale — giudizi generali sulla necessità intuitiva con 

cui le forme spaziali e numeriche stanno tra loro in relazioni 

determinate. 


Tutti questi giudizi, per quanto siano particolari in un caso 

e generali nell’altro, per quanto variamente e diversamente si 

configuri il loro significato gnoseologico, contengono connessio- 

ni tra rappresentazioni, cioè connessioni tra un soggetto rappre- 

sentato e un predicato rappresentato, il cui valore di verità 

deve venir determinato dalla scienza. In base al presupposto 

che ad alcuni dei giudizi possibili si attribuisce la verità e ad 

altri no, le scienze cercano di stabilire l'ambito complessivo di 

quanto dev'essere oggetto di affermazione, e a tale scopo di 

negare con una motivazione esplicita ciò che rischia di essere 

affermato erroneamente. Esse compiono quindi nel campo del 

conoscere affermazioni e negazioni, approvazioni e disapprova- 

zioni, e nella loro articolazione estendono tale attività a tutti 

gli oggetti accessibili in generale alla comprensione umana. 


Da questo punto di vista alla filosofia non rimane più nien- 

te da fare. Essa non può voler essere né una scienza descrit- 

tiva, né una scienza esplicativa, né una scienza matematica: 

trova tutti i gruppi di oggetti già occupati dalle scienze partico- 

lari, che si riferiscono ad essi in una di queste tre maniere, e 

consisterebbe soltanto di prestiti se volesse, con scelta arbitra- 

ria, abbracciarne qualcuno. Il compito della filosofia non può 

consistere nell’affermare o nel negare, come fanno le altre scien- 

ze, giudizi in cui devono venir riconosciuti, descritti o spiegati 

determinati oggetti. 


L'oggetto che ad essa rimane è costituito dalle valutazioni. 



WILHELM WINDELBAND 297 



Ma anche nei loro confronti deve, se vuol essere autonoma, 

porsi in un rapporto totalmente diverso da quello che le altre 

scienze hanno con i loro oggetti. La filosofia non deve né 

descrivere né spiegare le valutazioni: questo è compito della 

psicologia e della storia della cultura. Ogni valutazione è la 

reazione di un individuo che vuole e sente di fronte a un 

determinato contenuto rappresentativo. È un processo della vi- 

ta psichica che risulta necessariamente per un verso dallo stato 

di bisogno, per l’altro dal contenuto della rappresentazione. Ma 

sia il contenuto della rappresentazione sia lo stato di bisogno 

sono a loro volta prodotti necessari del movimento complessivo 

della vita, Come tali essi devono venir compresi; e dal momen- 

to che non basta a spiegarli la psicologia individuale — poiché 

gli scopi e i bisogni in base a cui l'individuo sottopone a 

esame il proprio contenuto rappresentativo per approvarlo o 

disapprovarlo sono per molti versi comprensibili soltanto in ba- 

se al movimento della società — bisogna far intervenire la 

storia dello sviluppo della cultura umana per comprendere in 

tutta la sua estensione l’origine conforme a leggi delle valutazioni 

e per riconoscere le leggi secondo cui procedono tali valutazioni. 


La trattazione psicologica e storico-evolutiva delle valutazio- 

ni e della loro conformità a leggi costituisce quindi di per sé 

un problema del tutto legittimo della scienza esplicativa dello 

spirito. La scienza esplicativa assolverebbe il suo compito soltan- 

to in modo incompleto se si arrestasse di fronte a questi fatti. 

In base alle leggi psicologiche e ai movimenti dello spirito 

sociale è necessario spiegare in quale modo le forme di valuta- 

zione riconosciute nella nostra coscienza comune siano sorte 

attraverso il suo sviluppo naturale, come noi abbiamo imparato 

a distinguere il vero, il bene, il bello dai loro contrari, e come 

il modo e la maniera particolare in cui effettuiamo tali valuta- 

zioni, cioè la configurazione specifica che abbiamo assegnato a 

questi scopi supremi che determinano la misura e il valore, 

siano condizionati dalla necessità della nostra storia. Queste 

indagini corrispondono perciò a un compito incontestabile della 

scienza: non costituiscono una disciplina autonoma, ma devono 

essere messe insieme da vari capitoli della psicologia e della 

storia della cultura. Chi voglia chiamare «filosofia » queste 

combinazioni quanto mai interessanti — come fanno fin dall’e- 



298 WILHELM WINDELBAND 



tà illuministica i « filosofi » inglesi e francesi e come, imitando- 

li, è accaduto qua e là anche da noi — /adeat sibi: non 

intendiamo discutere sui nomi. Però dobbiamo protestare in 

nome della filosofia tedesca inaugurata da Kant se con tale 

denominazione si vuol importare anche da noi l’opinione super- 

ficiale che non esista, al di là di questa storia dello sviluppo 

psicologico e storico-culturale, nessun compito scientifico supe- 

riore. 


La filosofia, quale noi la intendiamo, ha un punto di parten- 

za del tutto diverso. Tutte le valutazioni che si compiono 

negli individui e nella società sono prodotti necessari della vita 

psichica. Da questo punto di vista esse sono tutte egualmente 

legittime: comunque siano apparse, hanno tutte — una volta 

apparse — una causa sufficiente. Senza di queste, infatti, non 

sarebbero apparse. Come fatti empirici, quali vengono spiegati 

dalla psicologia e dalla storia evolutiva, esse semplicemente esi- 

stono alla stessa stregua. Appartengono alla realtà empirica e, co- 

me oggi ogni altra cosa, hanno cause sufficienti di esistenza e le 

loro leggi di origine e di movimento; sottostanno a tali leggi 

come gli oggetti a cui le valutazioni si riferiscono e che, in 

quanto fatti empirici, sono sottoposti alla stessa necessità natura- 

le conforme a leggi. Le sensazioni e le rappresentazioni con i 

sentimenti di piacere e dispiacere che esse suscitano; le connes- 

sioni tra rappresentazioni insieme alla certezza con cui vengo- 

no dichiarate vere o false; le determinazioni della volontà e le 

azioni, come le valutazioni in virtù delle quali vengono caratte- 

rizzate come buone o cattive; le intuizioni e i sentimenti che le 

valutano come belle o brutte — tutto questo è, come fatto 

empirico dello spirito umano individuale o generale, prodotto 

necessario di condizioni e leggi date. Tuttavia — e questo è il 

fatto fondamentale della filosofia — siamo incrollabilmente 

convinti che, accanto a questa necessità naturale che coinvolge 

tutte le valutazioni e i loro oggetti senza eccezione, vi sono 

certe valutazioni le quali valgono in modo assoluto anche se di 

fatto non pervengono a un riconoscimento 0 per lo meno non 

pervengono a un riconoscimento generale. Certamente ognuno 

pensa necessariamente così come pensa, e ritiene vere le rappre- 

sentazioni sue o di altri perché tali deve necessariamente rite- 

nerle: tuttavia siamo convinti che di fronte a questa necessità 



WILHELM WINDELBAND 299 



del ritenere vero, che si compie secondo una legalità naturale, 

vi è wna determinazione di valore assoluta in base a cui si deve 

decidere del vero o del falso, non importa che ciò accada o no 

di fatto. 


Noi tutti abbiamo questa convinzione: infatti nella misura 

in cui dichiariamo vera una qualsiasi rappresentazione in base 

al corso necessario del nostro rappresentare, questa dichiarazio- 

ne non significa altro se non la pretesa che ciò debba valere 

non soltanto per noi, ma per tutti gli altri. Non importa se 

tale pretesa venga soddisfatta nel caso singolo, se sia giustifi- 

cata nel caso singolo: ma è chiaro che la valutazione delle 

rappresentazioni dal punto di vista della verità presuppone un 

criterio assoluto di questo genere, che deve valere per tutti. La 

stessa cosa vale per i campi dell'etica e dell’estetica. Certamen- 

te ciò che uno giudica buono o cattivo da un lato, bello o brutto 

dall’altro, è condizionato secondo leggi dalla situazione cultura- 

le e dal corso della vita personale di ciascuno; ma in entrambi i 

casi le predicazioni in tal modo espresse implicano la pretesa di 

valere per tutti e di essere necessariamente riconosciute da ognu- 

no nello stesso modo. Per quanto queste valutazioni si configu- 

rino in modo relativo nella loro realtà empirica, si elevano pur 

sempre alla pretesa di una validità assoluta, e trovano il loro 

senso nel presupporre la possibilità di una valutazione assoluta. 


Sono questa pretesa e questo presupposto a distinguere le tre 

forme caratteristiche di valutazione — che possiamo chiamare 

di valutazione logica, etica ed estetica — da tutte le mille forme 

di valutazione in cui si esprime soltanto il sentimento individua- 

le di piacere o dispiacere per un oggetto rappresentato. A chi 

prova piacere per un colore, a chi gusta una cosa *, a chi prova 

gioia in un oggetto perché ne trae un qualche vantaggio non 

capiterà mai, purché sia provvisto di buon senso, di pretendere 

che tutti gli altri facciano propria la sua valutazione. La confor- 

mità alle leggi delle funzioni psicologiche comporta certamente 

il fatto che in esseri organizzati in modo eguale o analogo 

tendano a comparire le stesse sensazioni, e con la stessa intensi- 



a. Il modo di esprimersi abituale parla, con la fluidità delle sue desi- 

gnazioni, anche di un gustare e di un odorare « buono » o « bello ». È au- 

spicabile che nell’espresssione scientifica si eviti sempre questa negligenza. 



300 WILHELM WINDELBAND 



tà di sentimento. Ma se, in virtù di qualche disturbo abituale 

o di una disposizione momentanea, questo o quell’individuo 

diverge da questa maniera generale di sentire, in ciò non vedia- 

mo una cosa degna di particolare attenzione e non ce ne stupia- 

mo affatto. Quanto più però risaliamo da queste tonalità ele- 

mentari del sentire ai sentimenti molto più vari e complessi di 

piacere e dispiacere, che sono connessi a rappresentazioni com- 

poste di cose e di rapporti tra cose, tanto più si restringe — 

senza che ciò ci meravigli o ci colpisca — l’accordo tra gli 

individui. La molteplicità delle combinazioni non consente, no- 

nostante l’identità conforme a leggi dei processi fondamentali, 

un'identità di risultati. Nessuno presuppone una validità univer- 

sale per i propri sentimenti di piacere o di dispiacere; nessuno 

pensa neppure che vi sia un criterio assoluto con cui determina- 

re per chiunque la valutazione del carattere gradevole delle 

cose. Una pretesa siffatta non ha senso, e un’edonistica, cioè 

una dottrina del piacere, può essere soltanto un capitolo della 

psicologia e della storia evolutiva, mai una disciplina filosofica. 


Chi addossa quindi alla filosofia Ia responsabilità di decide- 

re nella polemica tra ottimismo e pessimismo, chi esige da essa 

che pronunci un verdetto assoluto sulla questione se il mondo 

sia più adatto alla produzione di piacere che di dispiacere o 

viceversa, costui lavora — supposto che proceda a un livello 

superiore al dilettantismo — in base all’illusione di trovare 

una determinazione assoluta per un campo in cui nessun uomo 

ragionevole l’ha mai cercata. Di una valutazione dell’universo 

dal punto di vista edonistico si potrebbe infatti parlare soltanto 

se esistesse un metro di legittimazione per i sentimenti soggetti- 

vi di piacere e dispiacere. Ma siccome questo manca, agli otti- 

misti e ai pessimisti non rimane che mettersi a fare un calcolo 

approssimativo dei singoli sentimenti empirici di piacere e di 

dispiacere e una valutazione dei loro rapporti di quantità e di 

intensità, che è priva di qualsiasi base solida. Se qualcuno vuol 

chiamare tutto ciò filosofia, fabeat sibi; io lo considero una 

scarica dell'impulso al piacere, che appartiene alla storia della 

patologia del pensiero umano?. 



a. Cfr. il mio Der Pessimnismus und die Wissenschaft, « Der Salon », 



1877, nn. 7-8. 



WILHELM WINDELBAND 301 



Una volta esclusa l’edonistica rimangono soltanto tre forme 

di valutazione in cui la pretesa di universalità si impone come 

elemento essenziale — cioè le forme caratterizzate dalle tre 

coppie di concetti del vero e del falso, del bene e del male, del 

bello e del brutto. Vi sono dunque soltanto tre scienze fonda- 

mentali propriamente filosofiche: la logica, l’etica e l'estetica. 

La psicologia * è una scienza empirica in parte descrittiva e in 

parte esplicativa; la metafisica nel vecchio senso di un sapere 

dogmatico concernente i fondamenti ultimi di tutta la realtà è 

un’assurdità: invece la teoria della conoscenza, la filosofia del- 

la natura, la filosofia della società e della storia, la filosofia 

dell’arte e la filosofia della religione sono legittimate solamente 

in quanto vengano trattate non in senso metafisico ma in senso 

critico, dal punto di vista di quelle tre scienze filosofiche fonda- 

mentali, come loro ramificazioni, applicazioni o integrazioni. 


In tutte e tre occorre quindi prendere in esame la pretesa 

della valutazione logica, etica ed estetica a una validità univer- 

sale. Bisogna osservare subito che a un’identica impostazione 

problematica corrisponde un’indagine metodologicamente iden- 

tica e sistematicamente parallela per le tre discipline; ma non 

per questo viene minimamente condizionata o pregiudicata 

un'identità del risultato e della risposta. Si potrebbe per esem- 

pio pensare che la filosofia critica confermi il diritto della 

valutazione logica a una validità universale, e che invece si 

veda costretta o a respingere del tutto o a riconoscere soltanto 

con limitazioni assai rilevanti la pretesa corrispondente in uno 

degli altri due campi. In questo caso il campo in questione sa- 

rebbe totalmente abbandonato, proprio a causa della mancanza 

di un criterio assoluto, alla trattazione psicologica e storico-evolu- 

tiva. Ma poiché è presente la pretesa a una validità universale, e 

poiché tale pretesa non può venir presa in esame né dalla 

scienza descrittiva né dalla scienza esplicativa, dev’esserci assolu- 

tamente un'indagine filosofica, anche se questa dovesse portare 

a risultati semplicemente negativi. Anche chi dovesse dunque 

pervenire con indagini critiche o anche mediante una prevenzio- 



a. Ho già difeso la causa della completa separazione della psicologia 

dalla filosofia nella mia prolusione zurighese Uber den gegenivàrtigen Stand 

der psychologischen Forschung, Leipzig, 1876. 



302 WILHELM WINDELBAND 



ne più o meno chiara alla convinzione che nell’uno o nell’altro 

di questi campi — o anche in tutti e tre — sono possibili 

sempre e soltanto valutazioni relative (come avviene nel campo 

dell’edonistica) e mai valutazioni assolute, sarebbe tuttavia co- 

stretto ad ammettere il fatto della pretesa a quest'ultime, e 

pertanto a concedere la legittimità dell’impostazione filosofica. 

E solo di questo qui si tratta: non si debbono anticipare i 

risultati della filosofia. 


Se l’oggetto della filosofia è così determinato, ci si domanda 

in che cosa consista la critica a cui esso deve venir sottoposto, e 

quale sia il procedimento scientifico che la rende possibile. 


Se qui si è sempre parlato anzitutto della pretesa alla validi- 

tà universale e alla necessità delle valutazioni logiche, etiche 

ed estetiche, occorre indicare con maggiore esattezza che questa 

validità universale non è una validità di fatto e che la necessità 

non è necessità causale. Chi è convinto della verità di un giudi- 

zio è di solito ben lontano dal credere che questo giudizio sia 

riconosciuto, o anche soltanto possa venir riconosciuto, da tutti. 

Nella nostra lotta per la verità, l’universalità effettiva del rico- 

noscimento è una prospettiva del tutto esclusa. D'altra parte, 

per situazioni culturali inferiori c'è senza dubbio una validità 

universale effettiva di rappresentazioni e di modi di valutazio- 

ne che sono manifestamente erronee e sbagliate. L'importante 

non è quindi che tutti gli esemplari della specie Homo sapiens 

siano unanimi nel riconoscimento di un giudizio; e neppure è 

possibile trovare, attraverso un’induzione comparativa delle va- 

lutazioni reali, una validità universale in senso filosofico. Poi- 

ché cause identiche hanno effetti identici è possibile — e accade 

di fatto in mille modi — che gli stessi motivi provochino 

ovunque lo stesso errore. Per la verità o la falsità di una rappre- 

sentazione è del tutto indifferente il numero degli uomini che 

la riconoscono o la respingono. La validità universale di cui 

qui si tratta non è una validità di fatto, bensì ideale; non è 

una validità reale, ma una validità che dovrebbe essere. 


Lo stesso discorso vale per la necessità di queste valutazio- 

ni. Causalmente necessarie sono sia la pazzia sia la saggezza, 

sia il peccato sia la virtù, sia il sentimento della bellezza sia il 

suo contrario. Il sole della necessità naturale splende sui giusti 

come sugli ingiusti. La necessità con cui sentiamo la validità 



WILHELM WINDELBAND 303 



delle determinazioni logiche, etiche ed estetiche è anch'essa una 

necessità ideale: non è una necessità dell’essere costretti e del 

non poter altrimenti, ma del dover essere e del non dover fare 

altrimenti. È quella necessità superiore che non si esaurisce 

completamente nella necessità naturale a cui sono sottoposti il 

nostro rappresentare, il nostro volere e il nostro sentire; è la 

necessità del dover essere. Nessuna legge naturale costringe l’uo- 

mo a pensare, a volere e a sentire nel modo in cui dovrebbe 

sempre pensare, volere e sentire secondo la necessità logica, 

etica ed estetical 


Se quindi la filosofia deve stabilire i princìpi della valutazio- 

ne logica, etica ed estetica, non può limitarsi a chiedersi quali 

determinazioni abbiano in questi campi una validità universale, 

oppure a indagare quali si facciano valere o si siano fatte valere 

con una necessità psicologica e storico-evolutiva. In nessuna di 

queste due direzioni si può trovare un criterio di ciò che deve 

avere validità. La massa, o anche soltanto la maggioranza, non 

è il tribunale di fronte a cui si decide il valore assoluto, e 

la dimostrazione delle cause del suo comportamento non è una 

fondazione della sua legittimità. 


D'altra parte nell’energia con cui il singolo si attiene, con- 

tro un mondo che lo contraddice, a ciò che ha riconosciuto per 

vero, buono o bello, non si manifesta l’ostinazione dell’arbitrio 

individuale ma un impulso della convinzione che in lui si è 

fatto strada qualcosa che dovrebbe valere per tutti e di cui non 

può fare a meno. Entro la necessità naturale del movimento 

della storia umana, certamente, la difesa di questa convinzione 

può sembrare disperatamente analoga all’illusione personale: lo 

scopritore di una nuova verità, il riformatore della vita etica, 

il creatore di una nuova arte appare ai suoi contemporanei — e 

forse anche a molte generazioni di posteri — come un infatua- 

to. Ma per quanto sia difficile, anzi impossibile decidere nel 

singolo caso quale dei due fenomeni sia presente in un dato 

momento, tuttavia noi tutti crediamo nella possibilità di distin- 

guere, noi tutti siamo convinti che — anche se non sempre lo 

comprendiamo, e soprattutto se non lo comprendiamo subito 

— esiste un diritto del necessario in senso superiore che dovreb- 

be valere per tutti. Noi crediamo in una legge superiore a 



304 WILHELM WINDELBAND 



quella dell'origine naturale di tutte le nostre valutazioni: cre- 

diamo a un diritto che ne determina il valore. 


Ho detto che tutti ci crediamo. Non dimentico così quei 

teorici del relativismo che in tutte queste determinazioni e con- 

vinzioni non vedono altro che prodotti necessari della società 

umana? Ma essi non intendono presentare la loro teoria soltan- 

to come si trattasse di una semplice opinione; vogliono anzi 

provarla e dimostrarla. E che cosa significa dimostrare? Signifi- 

ca presupporre che al di sopra della necessità del movimento 

delle rappresentazioni c'è una necessità superiore che tutti do- 

vrebbero riconoscere. Chi dimostra il relativismo, lo annienta. 

Il relativismo è una teoria in cui nessuno ha ancora veramente 

creduto, in cui nessuno potrebbe credere: è una fable conve- 

nue?. 


Perciò ovunque la coscienza empirica scopre in sé questa 

necessità ideale di ciò che deve valere universalmente, si imbat- 

te in una coscienza normale, la cui essenza consiste per no: nel 

fatto che noi siamo convinti che essa debba essere reale, del 

tutto indipendentemente dalla realtà che riveste nel dispie- 

garsi della coscienza empirica, sottoposto alla necessità natura- 

le. Per quanto ristretto sia il grado e l’ambito in cui questa 

coscienza normale penetra quella empirica e si fa valere all’in- 

terno di essa, ciononostante tutte le valutazioni logiche, etiche 

ed estetiche sono costruite in base alla convinzione che esista 

una coscienza normale a cui dobbiamo elevarci se le nostre 

valutazioni debbono pretendere una validità universale necessa- 

ria: una coscienza normale che non vale nel senso del riconosci- 

mento fattuale, ma che dovrebbe valere — e che perciò costitui- 

sce non già una realtà empirica, ma un ideale in base a cui 

dev'essere commisurato il valore di ogni realtà empirica. Le 

leggi di questa «coscienza in generale » — secondo l’espressio- 

ne kantiana — non sono più leggi naturali, che valgono in 

ogni circostanza e secondo cui devono configurarsi i singoli 

fatti, ma sono invece norme, che devono appunto valere e la 

cui realizzazione determina il valore di ciò che è empirico. 



a. Su questo, come su ciò che segue, si veda più particolarmente il sag- 

gio Kritische oder genetische Methode?, raccolto in questo stesso volume 

[Préludien, 1° cd., pp. 247-79]- 



WILHELM WINDELBAND 305 



La filosofia non è quindi altro che la riflessione su questa 

coscienza normale, l'indagine scientifica intorno a quelle, tra 

le determinazioni di contenuto e le forme della coscienza empi- 

rica, che rivestono valore di coscienza normale. Nella coscien- 

za empirica di un individuo, dei popoli, dell’umanità esse sor- 

gono necessariamente così come sorgono stupidità, abiezioni, 

mancanza di gusto: compito della filosofia è di rintracciare, 

entro il caos dei valori individuali o effettivamente universali, 

quelli a cui inerisce la necessità della coscienza normale. In 

nessun caso è possibile derivare tale necessità da qualcosa: la si 

può soltanto indicare; essa non viene prodotta, ma solo recata 

alla coscienza. L'unica cosa che la filosofia può fare è di la- 

sciar scaturire questa coscienza normale dai movimenti della 

coscienza empirica e di confidare nell’evidenza immediata con 

cui la sua normalità, non appena giunta a chiara coscienza, si 

mostra operante e valida in ogni individuo, così come essa deve 

valere. Un principio come il principio logico di non contraddi- 

zione, o un principio come il principio morale della coscienza del 

dovere, non sono dimostrabili. Nella vita reale delle rappresenta- 

zioni e della volontà si può soltanto recarli alla coscienza, a una 

chiara formulazione, e occorre confidare che in ognuno, purché 

si rifletta seriamente, la coscienza normale si faccia valere e 

riconoscere con evidenza immediata. Non potremmo più avere 

alcun rapporto logico e scientifico con chi rifiutasse la validità 

delle leggi del pensiero; non potremmo intenderci moralmente 

con chi rifiutasse qualsiasi dovere. Il riconoscimento della co- 

scienza normale è il presupposto della filosofia: è, in astratto, 

il medesimo presupposto che sta in concreto a fondamento di 

tutta la vita scientifica, etica ed estetica. Ogni intesa su qualco- 

sa che gli individui debbono riconoscere al di sopra di sé come 

norma valida, presuppone questa coscienza normale. 


La filosofia è quindi la scienza della coscienza normale. 

Essa penetra la coscienza empirica per stabilire in quali punti 

emerga in questa tale validità universale normativa. È essa 

stessa un prodotto della coscienza empirica, e non si contrappo- 

ne a questa come qualcosa di proveniente dall’esterno; ma pog- 

gia sulla convinzione — costitutiva di ogni valore della vita 

umana — che in mezzo ai movimenti naturali della coscienza 



20. STORICISMO TEDESCO. 



306 WILHELM WINDELBAND 



empirica abbia una necessità superiore, e indaga i punti in cui 

questa viene alla luce. 


Questa «coscienza in generale» è quindi un sistema di 

norme che, come valgono oggettivamente, così devono pure 

valere soggettivamente, e tuttavia soltanto in parte valgono nel- 

la realtà empirica della vita spirituale dell’uomo. Solamente in 

base ad essa si determina il valore del reale. Queste norme 

rendono pertanto possibile formulare valutazioni universalmen- 

te valide per la totalità degli oggetti che vengono conosciuti, 

descritti e spiegati nei giudizi delle altre scienze. La filosofia è 

la scienza dei princìpi della valutazione assoluta. 


Non si incorrerebbe in contraddizione se si sostenesse che 

questa coscienza normale è ciò che il linguaggio popolare inten- 

de propriamente col termine «ragione », cioè l'elemento sovra- 

individuale che deve valere universalmente, e perciò si potrebbe 

chiamare la filosofia scienza della ragione. Ma preferisco rinun- 

ciare a questa denominazione perché il termine «ragione» è 

stato usato dai filosofi tedeschi con significati così diversi che 

il suo impiego in una definizione sarebbe equivoco e darebbe 

luogo a vari malintesi. 


La filosofia come scienza della coscienza normale è essa 

stessa un concetto ideale che non è realizzato e la cui realizza- 

zione — come risulterà anche in seguito — è possibile solo 

entro certi limiti: le fondamenta per la sua costruzione sono 

state poste dalla filosofia kantiana. Ma dal punto di vista di 

questo concetto anche ciò che si chiama storia della filosofia, e 

che dev'essere trattato come tale, acquista subito un altro aspet- 

to ben definito. 


La validità della coscienza normale come misura assoluta di 

valutazione logica, etica ed estetica sta sì, come presupposto 

imprescindibile, a base di tutte le funzioni superiori dell’uomo 

e soprattutto di quelle che, in quanto prodotti della cultura 

sociale, hanno come contenuto la creazione e la conservazione 

di ciò che sta al di sopra dell’arbitrio degli individui; ma si 

manifesta in primo luogo come impregiudicata e ovvia subordi- 

nazione a una coscienza complessiva prodotta dal processo ne- 

cessario dell'anima del popolo. Soltanto in seguito alla scossa 

che questo subisce subentra la riflessione su una misura ideale a 

cui tutti dovrebbero piegarsi, e da tale riflessione si sviluppa la 



WILHELM WINDELBAND 307 



tendenza a elevarsi a questa coscienza normale, a farla valere 

nella coscienza empirica. Ma lo spirito umano non si identifica 

con questa coscienza ideale: esso sottostà alle leggi del suo 

movimento naturale, e soltanto a tratti conduce a un risultato 

in cui si afferma l’evidenza immediata della validità normativa. 


Il processo storico dello spirito umano può quindi essere 

considerato dal punto di vista secondo cui si è gradualmente 

manifestata in esso — in mezzo al lavoro sui singoli problemi, 

al mutare dei suoi interessi, all’intreccio dei suoi fili particolari 

— la coscienza delle norme, e secondo cui esso rappresenta, nel 

suo movimento progressivo, una penetrazione sempre più pro- 

fonda e comprensiva della coscienza normale. Nulla impedisce 

di concepire, in base a questa determinazione del concetto di 

filosofia, la progressiva consapevolezza delle norme come il 

senso autentico della storia della filosofia. Questa è appunto 

una delle linee che, muovendo da un saldo concetto della filoso- 

fia, si può ricostruire all’interno della storia, senza però preten- 

dere di abbracciare in tal modo tutto il suo contenuto così 

ramificato. Questa linea corre lungo le vette che, sull’ampio 

sfondo delle altre rappresentazioni, hanno raggiunto l’etere del- 

la coscienza normale, e designa anche le più alte frastagliature 

dello sviluppo storico-culturale. Infatti la riflessione sulle nor- 

me assolute è semplicemente il prodotto di ogni attività cultura- 

le, e alla filosofia rivendichiamo soltanto il compito di recarle 

alla coscienza nella loro connessione e nella loro articolazione 

necessaria, attraverso una indagine scientifica. 


Una storia della filosofia di questo genere sarebbe quindi 

una scelta che dovrebbe mostrare il progresso graduale in cui 

lo spirito scientifico ha lavorato alla soluzione del compito che 

abbiamo qui formulato. 


Perciò essa non cessa affatto di essere una scienza empirica, 

come dev'essere appunto ogni disciplina storica. Se si conside- 

ra la storia dal punto di vista di un compito da risolvere, 

allora si ha soprattutto il dovere di indicare il processo causale 

attraverso cui essa ha proceduto per fasi successive alla sua 

soluzione. I compiti non si realizzano da soli; essi vengono 

realizzati. Anche le determinazioni della coscienza normale a 

cui il pensiero filosofico si innalza sono venute alla luce nel 

processo naturale del movimento storico del pensiero, come 



308 WILHELM WINDELBAND 



determinazioni di contenuto della coscienza empirica. La sto- 

ria della filosofia deve cogliere questa loro origine empirica, 

senza pregiudizio del valore che ad esse spetta quando sono 

penetrate nella coscienza empirica in virtù della loro evidenza 

normativa ?. 


Perciò questa concezione non dev'essere interpretata nel sen- 

so che essa statuisca — per esempio secondo la ricetta hegelia- 

na — una misteriosa auto-realizzazione delle «idee », in virtù 

della quale le mediazioni empiriche appaiano come un accesso- 

rio non necessario. Nella conoscenza empirica non abbiamo 

altro luogo in cui trasportare le idee all’infuori delle te- 

ste degli uomini pensanti, e soltanto in queste esse sono, se 

pervenute alla coscienza, forze determinanti e operanti. La sto- 

ria della filosofia non deve considerarle come fattori, ma deve 

spiegarle come prodotti. Il « principio » che il filosofo trova 

diventa una forza operante nel movimento empirico dello spiri- 

to solamente per il fatto che egli lo reca alla coscienza come 

risultato del suo lavoro. 


Oppure il filosofo è forse qualcosa di diverso che un uomo 

tra uomini? In realtà non gli è concessa una forza di pensiero 

di tipo differente da tutti gli altri; ed egli stesso lo dimostra 

nel modo migliore quando, con la pubblicazione delle sue ope- 

re, esprime il desiderio di far pensare gli altri come lui e 

procede pertanto — nonostante l’intuizione intellettuale e simi- 

li doti mistiche — dall’assunzione che gli altri debbano compie 

re, sotto la sua guida, lo stesso suo movimento di pensiero. Ma 

le sue idee non sono sorte in modo diverso da quelle degli 

altri. Come tutti quanti, egli passa da una fanciullezza senza 

idee a una lenta maturazione; dall'ambiente in cui è nato ed è 

stato educato assorbe conoscenze e punti di vista che si fissano 

in lui come un tesoro di « verità » originario, ed egli le arricchi- 

sce con la propria ricerca e il proprio giudizio. Ma l’orizzonte 

di pensiero e la direzione d'interesse che gli pongono le questio- 



a. L'autore ha cercato di trattare la storia della filosofia da questo pun- 

to di vista, abbozzato nel 1884, nel suo LeArbuch der Geschichte der Phi- 

losophie. Si vedano, nella quarta edizione (Tibingen und Leipzig, 1907), 

l'introduzione e i paragrafi conclusivi, e inoltre il saggio Geschichte der 

Philosophie, sopra citato. 



WILHELM WINDELBAND 309 



ni rimangono pur sempre tracciati in modo inevitabile dalla 

somma complessiva di ciò che ha fino a quel momento pensato 

e vissuto. Così dai lati più diversi, dalle premesse più remo- 

te si forma — come avviene in ogni uomo — una massa di 

rappresentazioni spesso eterogenea ma fusa in tutte le direzio- 

ni, un sistema psichico che tende, come sempre, all’unificazio- 

ne. Ma invece di accontentarsi, come avviene nella maggior 

parte degli uomini, del compromesso superficiale tra le rappre- 

sentazioni più visibilmente contrastanti, e invece di lasciarsi 

imporre da una delle opinioni dominanti le linee più generali 

della concezione del mondo, il quadro delle singole prospetti- 

ve, l'individuo la cui attività designamo come filosofia è in 

grado di cercare mediante il proprio sforzo di riflessione — in 

virtù della situazione personale, delle doti spirituali e dell’ener- 

gia del carattere — una connessione unitaria delle sue rappre- 

sentazioni. Non si deve però mai dimenticare che quest'attività 

di ricerca è completamente condizionata in tutta la sua direzio- 

ne e in tutta l’estensione del contenuto rappresentativo, e quin- 

di naturalmente anche nel suo risultato, dall'intera massa del 

materiale di pensiero già esistente. Nessun principio filosofico 

cade dal cielo o piove in grembo al filosofo, ma è il risultato 

conclusivo della sua molteplice attività di pensiero. Che nella 

realizzazione definitiva di uno stato di equilibrio certe rappre- 

sentazioni si dimostrino più potenti e significative di altre, è 

cosa ovvia; ma questa forza e questa significatività competono 

ad esse 12 primo luogo anche soltanto nelle condizioni statiche 

di questo sistema individuale di rappresentazioni. Se al filosofo 

è capitato di trovare, con uno sforzo maggiore o minore, un 

principio unitario per disporre tutto il suo materiale ideale, le 

varie parti di questo materiale staranno però chiaramente in un 

rapporto assai diverso con esso. Alcune — e soprattutto quelle 

che sono determinanti per cogliere tale principio — si connetto- 

no facilmente e quasi per proprio conto all'immagine del mon- 

do così costituita; altre si dimostrano invece più o meno refrat- 

tarie. Infatti altre opinioni, che provengono da regioni comple- 

tamente diverse e hanno un aspetto del tutto indifferente, devo- 

no a volte accettare di essere spostate e trasformate a profit- 

to di quel principio fondamentale; questo apre ora anche nuovi 

ambiti di rappresentazione e nuove conoscenze; di fronte ad 



310 WILHELM WINDELBAND 



esse le vecchie idee vengono relegate sullo sfondo e, se non 

soppiantate del tutto, almeno parzialmente trasformate, conti- 

nuando però a costituire il materiale su cui soltanto può farsi 

0 l’attività assimilatrice e trasformatrice della nuova for- 


a. Ma di rado vedremo un filosofo nella felice situazione di 

mr disporre tutto il suo materiale rappresentativo in un’inti- 

ma relazione uniforme con il principio da lui scoperto; e tra le 

idee contrastanti ve ne saranno sempre alcune che non cedono 

al nuovo principio, ma sono talmente radicate nell’anima con 

la loro forza originaria che — ad onta della loro mancanza di 

relazione, o addirittura della loro contraddizione rispetto a 

quel principio — si conservano accanto ad esso e pretendono, 

con non minore forza, un posto spesso assai significativo nell’in- 

tuizione umana del mondo. Ne derivano smagliature e spacca- 

ture nel sistema, ma esse sono superate e nascoste nella 

certezza soggettiva del filosofo. E quanto più energicamente 

egli cerca di mantenere insieme le sue diverse convinzioni, 

tanto più lo vedremo incline a cedere all’illusione di considerar- 

le in accordo laddove in realtà non lo sono affatto né possono 

diventarlo, oppure a ipotizzare tra di esse una connessione che 

mai, per la loro stessa natura, possono acquisire. Si spiega così 

l’eterogeneità degli elementi che, in numero più o meno gran- 

de, si trovano — in ogni sistema filosofico — in un’antitesi 

altrimenti incomprensibile rispetto al cosiddetto principio fon- 

damentale. Anche la caratteristica circostanza che proprio in 

questi punti i filosofi siano soliti insistere nel modo più rigido 

sulla necessaria omogeneità di concezioni disparate, risulterà 

comprensibile se riflettiamo che soltanto le convinzioni intima- 

mente legate con la personalità del filosofo possono mantenersi 

indipendenti dal principio appena scoperto, e che un sentimen- 

to di certezza altrettanto salda fonde ora insieme rappresenta- 

zioni altrimenti diverse, di modo che ne viene straordinaria- 

mente rafforzata la capacità di scoprire, sotto la spinta di que- 

sto interesse, passaggi e connessioni apparenti. Ma tutte queste 

mancanze di connessione e queste contraddizioni con i loro 

artificiosi intrecci non potrebbero esistere se un sistema filosofi- 

co crescesse in modo organico fin dall’inizio completamente 

indipendente, in base all'impulso del suo principio fondamenta- 

le. Esse sono invece del tutto comprensibili se abbiamo chiaro 



WILHELM WINDELBAND Z1I 



il fatto che il molteplice materiale ideale, prodotto e trasmesso 

dai lati più diversi, deve raccogliersi e fissarsi nella testa del 

filosofo molto tempo prima che questi abbia anche soltanto 

pensato alla ricerca del suo principio; e che quindi tale princi- 

pio deve compiere più tardi, nell’assoggettare a sé il materiale 

preesistente, un lavoro di difficoltà assai diversa e talora comple- 

tamente insolubile. 


La concezione teleologica della storia della filosofia dal pun- 

to di vista della soluzione successiva di un compito espresso in 

un saldo concetto di filosofia è quindi una considerazione che è 

giustificata in quanto tale, ed è forse necessaria e auspicabile 

nell’interesse della filosofia così determinata. Ma essa non costi- 

tuisce di per sé sola tutta la storia della filosofia. La storia è 

constatazione empirica e spiegazione empirica. Se anche nei 

confronti di tale oggetto questo compito deve mantenere la sua 

purezza, esso richiede una trattazione psicologica e storico-cul- 

turale. 


D'altra parte, però — occorre metterlo ancor più in risalto 

di fronte alle inclinazioni e alle tendenze attuali — la filosofia 

ha l’interesse più vivo a saper conosciuto e riconosciuto il fatto 

che questo processo naturale ha condotto, in virtù della riflessio- 

ne sulla coscienza normale, a convinzioni che non esistono sem- 

plicemente come ne esistono anche altre e che non sono perve- 

nute a validità soltanto perché tale è stato il risultato del corso 

delle rappresentazioni, ma che posseggono l’assoluto valore di 

dover avere validità. Non bisogna dimenticare che questo pro- 

dotto della necessità naturale si identifica con una necessità 

superiore, quella normativa. 


Il movimento empirico del pensiero umano conquista alla 

coscienza normale, l’una dopo l’altra, le sue determinazioni. 

Noi non sappiamo se esso arriverà a un termine; ancor meno 

sappiamo se la successione storica, in cui ci appropriamo di 

alcune di queste determinazioni, abbia un significato che indi- 

chi una loro connessione interna. Per la nostra conoscenza, la 

coscienza normale rimane un ideale di cui riusciamo a cogliere 

soltanto il margine. Il pensiero umano può soltanto o, come 

scienza empirica, comprendere il singolo dato nella sua connes- 

sione causale e nella sua determinatezza fornita di valore, oppu- 

re, come filosofia, riflettere, con l’aiuto dell’esperienza, sui prin- 



312 WILHELM WINDELBAND 



cìpi evidenti di una valutazione assoluta. Una comprensione 

completa della totalità della coscienza normale da un punto di 

vista scientifico ci è negata. Nell’ambito della nostra esperien- 

za traluce a tratti l’ideale; e se dobbiamo essere convinti della 

realtà di una coscienza normale assoluta, ciò riguarda la fede 

personale, non più la conoscenza scientifica. 



STORIA E SCIENZA DELLA NATURA * 



È un prezioso privilegio del rettore quello di poter intratte- 

nere gli ospiti e i colleghi nell’anniversario della fondazione 

dell’università, su un oggetto tratto dall’ambito della disciplina 

di cui egli si occupa: ma il dovere che corrisponde a tale 

privilegio crea particolari preoccupazioni al filosofo. Certamen- 

te, gli è relativamente facile trovare un tema che possa contare 

con sicurezza su un interesse generale. Ma su questo vantaggio 

prevalgono di gran lunga le difficoltà che comporta il modo 

specifico di indagine della filosofia. Ogni lavoro scientifico è 

rivolto a collocare il suo oggetto particolare in un ambito più 

vasto e a decidere le singole questioni sulla base di prospettive 

più generali. E fin qui la filosofia si comporta come le altre 

scienze; ma, mentre queste possono considerare, con una sicu- 

rezza sufficiente per l'indagine specialistica, tali principi come 

saldi e dati, alla filosofia è essenziale il fatto che il suo speci- 

fico oggetto di ricerca è costituito appunto dai princìpi stessi 

e che quindi non può derivare le sue decisioni da qualcosa di 

più generale, ma deve di volta in volta determinarsi nel modo 

più generale. Per la filosofia in senso stretto non esiste alcuna 

indagine specialistica: ogni suo problema particolare estende 

spontaneamente le sue direttrici fino alle questioni ultime e 

supreme. Chi vuol parlare filosoficamente di cose filosofiche 

deve avere sempre il coraggio di prendere posizione in modo 

complessivo, e deve anche avere il coraggio, difficile da conser- 



* Geschichte und Naturwissenschaft (discorso rettorale tenuto all'Università di 

Strasburgo, 1894), in Pràludien, Tiibingen, Verlag von J. C. B. Mohr, 3° cd. 1907, 

PP. 355-379 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



314 WILHELM WINDELBAND 



vare, di condurre i suoi uditori nell’alto mare delle riflessioni 

più generali, dove la terraferma minaccia di scomparire al- 

la vista. 


Da tali riserve il rappresentante della filosofia potrebbe sen- 

tirsi tentato o a tracciare soltanto un quadro storico della sua 

disciplina o a trovare rifugio nella particolare scienza empirica 

che gli indirizzi e le consuetudini accademiche ancora gli asse- 

gnano — la psicologia. Anch’essa offre una quantità di oggetti 

che toccano chiunque e la cui trattazione promette un bottino 

tanto più sicuro quanto più vari sono i punti di vista metodolo- 

gici e oggettivi che il vivace movimento di questa disciplina 

ha recato in luce negli ultimi decenni. Ma rinuncio a entrambe 

le vie d’uscita: non voglio né sostenere l’idea che non esiste 

più filosofia ma soltanto storia della filosofia, né quell’altra 

secondo cui la filosofia — come Kant l’ha nuovamente fondata 

— potrebbe restringersi nell’angusta cornice della scienza spe- 

cialistica il cui valore conoscitivo è quello che Kant stesso stima- 

va di meno tra le discipline teoretiche. In un'occasione come 

l'odierna mi sembra invece doveroso testimoniare che, anche 

nella sua forma attuale di rifiuto di ogni pretesa metafisica, la 

filosofia si sente all’altezza di quelle grandi questioni a cui 

deve non soltanto il contenuto significativo della sua storia, ma 

anche il suo valore nella letteratura e la sua posizione nell’inse- 

gnamento accademico. Così il rischio insito nel compito mi 

stimola a illustrare con un esempio quell’impulso dell'indagine 

filosofica per cui ogni problema specifico si allarga fino agli 

enigmi ultimi della visione umana del mondo e della vita, e a 

mostrare qui la necessità con cui ogni tentativo di recare a intelli- 

genza piena quanto è apparentemente noto con chiarezza € 

semplicità ci spinge, rapidamente e inarrestabilmente, fino ai 

confini estremi della nostra facoltà conoscitiva, circondati di 

oscuri misteri. 


Se a questo scopo scelgo un tema tratto dalla logica, e in 

particolare dalla metodologia, dalla teoria della scienza, è per- 

ché penso che in questo modo possa venire in luce in modo 

particolarmente chiaro e comprensibile l’intima connessione 

tra il lavoro filosofico e il lavoro delle altre scienze. La 

filosofia non è mai stata né vive estranea alla scienza in un 

mondo inventato col pensiero, ma è esistita e sussiste in un 



WILHELM WINDELBAND 315 



ricco scambio reciproco con ogni conoscenza vitale della realtà 

e con tutti i contenuti di valore della vita reale dello spiri- 

to. Se la sua storia è stata la storia degli errori umani, il 

motivo risiede nel fatto che essa assumeva in buona fede come 

compiute e certe, dalle teorie delle scienze particolari, ciò che 

anche all’interno della scienza poteva valere al massimo come 

verità in divenire. Questa connessione vitale tra la filosofia e le 

altre discipline appare nel modo più chiaro proprio nello svilup- 

po della logica, che non è mai stata altro se non la riflessione 

critica sulle forme di conoscenza reale ad essa preesistenti. Mai 

un metodo fecondo si è sviluppato sulla base di una costruzione 

astratta o di riflessioni meramente formali dei logici: ad essi 

spetta soltanto il compito di recare alla sua forma universale 

ciò che è stato eseguito con successo nelle singole scienze e di 

determinare in tal modo il suo significato, il suo valore conosci- 

tivo e i limiti della sua applicazione. Da dove la logica moder- 

na ha preso — per menzionare l'esempio più eminente — in 

antitesi con la sua progenitrice greca, la rappresentazione 

matura dell’essenza dell’induzione? Non dall’enfasi program- 

matica con cui l’ha raccomandata e scolasticamente descritta 

Bacone, bensì dalla riflessione sull’efficace applicazione che que- 

sta forma di pensiero ha ottenuto dai tempi di Keplero e di 

Galilei nel lavoro specifico della ricerca naturale, raffinandosi 

e rafforzandosi da un problema particolare all’altro. 


Sulle medesime connessioni riposano però ovviamente anche 

i tentativi della logica moderna di tracciare, nel dominio del 

sapere umano sviluppatosi in modo così vario, linee concettual- 

mente determinate al fine di delimitarne le singole province. 

Il mutevole predominio esercitato negli interessi scientifici del- 

l'età moderna dalla filologia, dalla matematica, dalla scienza 

naturale, dalla psicologia, dalla storia, si rispecchia nei diversi 

abbozzi di un «sistema delle scienze», come si diceva una 

volta, o di una « classificazione delle scienze », come viene chia- 

mata oggi. Gran parte di responsabilità spetta alla tendenza 

universalistica che, disconoscendo l’autonomia dei singoli cam- 

pi del sapere, voleva sottoporre tutti gli oggetti alla costrizione 

di un unico metodo, di modo che per l’articolazione delle 

scienze restavano soltanto punti di vista oggettivi, cioè metafisi- 

ci. L’uno dopo l’altro il metodo meccanicistico, il metodo geo- 



316 WILHELM WINDELBAND 



metrico, il metodo psicologico, il metodo dialettico, e da ulti- 

mo il metodo storico-evolutivo hanno preteso di ampliare il 

loro dominio, dallo stretto campo della loro feconda applicazio- 

ne originaria, possibilmente a tutto l’ambito della conoscenza 

umana. Quanto più grande appare il contrasto di queste diver- 

se tendenze, tanto più cresce per la riflessione della teoria logi- 

ca il vasto compito di realizzare una giusta ponderazione di 

quelle pretese e una separazione equilibrata dei loro ambiti di 

validità attraverso le determinazioni universali della dottrina 

della conoscenza. Grazie a Kant si è compiuta la differenziazio- 

ne metodologica della filosofia dalla matematica e, nelle linee 

generali, anche dalla psicologia. Da allora il secolo xix ha 

sperimentato accanto a una certa paralisi dell’impulso filosofi- 

co, all’inizio sovraeccitato, una più varia molteplicità di tenden- 

ze e di movimenti nelle scienze particolari: nell’appropriarsi di 

numerosi problemi di specie nuova l’apparato metodologico si è 

modificato da tutte le parti, estendendosi e raffinandosi in misu- 

ra prima sconosciuta. Intanto i diversi procedimenti si sono 

variamente intrecciati tra di loro, e nel momento in cui ognuno 

di essi pretendeva una posizione dominante nella visione del 

mondo e della vita dei nostri giorni, per la filosofia teoretica 

sorgevano nuove questioni. Su tali questioni, senza pretendere 

affatto di esaurirle, intendo attirare la vostra attenzione. 


Non occorre quasi menzionare il fatto che le divisioni alle 

quali qui miro non possono riflettere l’articolazione che Ie scien- 

ze trovano nella separazione delle facoltà universitarie. Questa 

è infatti sorta dai compiti pratici delle università e dal loro 

sviluppo storico. Lo scopo pratico ha spesso unificato ciò che da 

un punto di vista puramente teoretico doveva essere separato, e 

ha staccato ciò che doveva essere strettamente unificato: lo 

stesso motivo ha mescolato per vari versi le discipline propria- 

mente scientifiche con quelle pratiche e tecniche. Non si deve 

però pensare che ciò sia andato a tutto detrimento dell’attività 

scientifica. Piuttosto, le relazioni pratiche hanno anche qui avu- 

to la conseguenza di provocare uno scambio tra i diversi campi 

del sapere più ricco e vitale di quello prodotto nel caso delle 

più astratte combinazioni di un materiale omogeneo, quali av- 

vengono nelle accademie. Tuttavia i mutamenti che gli ordina- 

menti delle facoltà delle università tedesche hanno subito negli 



WILHELM WINDELBAND 317 



ultimi decenni, in modo particolare per quanto riguarda quella 

che una volta era la facultas artium, indicano una certa tenden- 

za ad attribuire un'importanza maggiore ai motivi metodologi- 

ci di articolazione. 


Se si seguono questi motivi con un interesse soltanto teoreti- 

co, si può anzitutto assumere come valido il fatto di contrappor- 

re la filosofia — e quindi, come sempre, anche la matematica — 

alle scienze empiriche. Le prime due possono essere raccolte 

sotto il vecchio nome di scienze «razionali », anche se in un 

significato del termine assai differente e che non si può qui 

discutere più da vicino. Basti per ora esprimere il loro caratte- 

re comune in forma negativa, dicendo che non sono indirizzate 

immediatamente alla conoscenza di qualcosa che è dato nell’e- 

sperienza, anche se le prospettive da esse acquisite possono e 

debbono essere impiegate a tale scopo nelle altre scienze. A 

questo momento oggettivo corrisponde, dal lato formale, un 

comune carattere logico, in quanto entrambe — la filosofia 

come la matematica — non poggiano mai le loro affermazioni 

su singole percezioni o su masse di percezioni, anche se l’occa- 

sione di fatto, psico-genetica, delle loro indagini e delle loro 

scoperte può risiedere in motivi empirici. Per scienze empiriche 

intendiamo invece quelle che hanno il compito di conoscere 

una realtà comunque data e accessibile alla percezione: la loro 

caratteristica formale consiste quindi nel fatto che per la fonda- 

zione dei loro risultati hanno in ogni caso bisogno, accanto ai 

presupposti assiomatici universali e alla correttezza del normale 

procedimento di pensiero parimenti richiesta per ogni tipo di 

conoscenze, di una constatazione dei fatti attraverso la per- 

cezione. 


Per la divisione di queste discipline dirette alla conoscenza 

del reale è attualmente corrente la distinzione tra scienze della 

natura e scienze dello spirito: io la considero però, in questa 

forma, poco felice. Quella tra natura e spirito è un’antitesi 

oggettiva che è pervenuta a una posizione predominante al 

tramonto del pensiero antico e agli inizi di quello medievale, e 

che nella metafisica moderna si è fatta valere, con la massima 

decisione, da Descartes e da Spinoza fino a Schelling e a He- 

gel. Se giudico correttamente la disposizione della filosofia più 

recente e le conseguenze della critica gnoseologica, questa sepa- 



318 WILHELM WINDELBAND 



razione rimasta aderente al modo generale di rappresentazione 

e di espressione non può più ora venir ritenuta così sicura e 

ovvia da diventare senza riesame il fondamento di una classifi- 

cazione. A ciò si aggiunga il fatto che a quest’antitesi tra 

oggetti non corrisponde un’antitesi tra modi di conoscenza. Se 

Locke tradusse il dualismo cartesiano in una formula soggetti- 

va, contrapponendo percezione esterna a percezione interna 

(sensation e reffection) come organi distinti di conoscenza da 

un lato del mondo corporeo esterno, della natura, dall'altro del 

mondo spirituale interno, la critica della conoscenza dell’epoca 

più recente ha fatto sempre più vacillare questa concezione e 

ha per lo meno posto fortemente in dubbio la legittimità dell’as- 

sunzione di una « percezione interna» come modo particolare 

di conoscenza. Non è neppure ormai possibile ammettere che i 

fatti delle cosiddette scienze dello spirito siano fondati semplice- 

mente sulla percezione interna. Ma l’incongruenza tra un prin- 

cipio oggettivo e un principio formale di divisione si manifesta 

soprattutto nel fatto che tra la scienza della natura e la scienza 

dello spirito non è possibile inserire una disciplina empirica di 

tanta importanza come la psicologia, la quale dev'essere caratte- 

rizzata in base all'oggetto solo come scienza dello spirito e, in 

certo senso, come il fondamento di tutte le altre scienze, men- 

tre il suo intero procedimento, il suo comportamento metodolo- 

gico, è dall’inizio alla fine quello delle scienze della natura. 

Perciò essa ha dovuto accettare talvolta la designazione di 

« scienza naturale del senso interno » o anche quella di « scien- 

za della natura spirituale ». 


Una divisione che mostri difficoltà di tal genere non ha alcu- 

na consistenza dal punto di vista sistematico: ma per ottenerla ha 

forse bisogno soltanto di piccole trasformazioni nella sua formu- 

lazione concettuale. In che cosa consiste l'affinità metodologica 

della psicologia con le scienze naturali? Evidentemente nel 

fatto che anch'essa, al pari di queste, constata, raccoglie ed 

elabora i fatti soltanto dal punto di vista e allo scopo di intende- 

re la conformità a leggi generali a cui questi fatti sono sot- 

toposti. Certamente la diversità degli oggetti comporta che i 

metodi particolari di accertamento dei fatti, nonché il modo 

della loro utilizzazione induttiva e la formulazione alla quale 

possono venir ricondotte le leggi scoperte, siano molto differen- 



WILHELM WINDELBAND 319 



ti; e sotto questo aspetto la distanza della psicologia, per esem- 

pio, dalla chimica è di poco maggiore a quella che intercorre 

tra la meccanica e la biologia. Ma — ed è questo che qui 

importa — tutte queste differenze di carattere oggettivo stanno 

in secondo piano rispetto all'identità logica che tali discipline 

posseggono per quanto riguarda il carattere formale dei loro 

fini conoscitivi: esse cercano sempre leggi dell’accadere — sia 

che si tratti di un movimento di corpi, di una trasformazione 

di materia, di uno sviluppo della vita organica o di un proces- 

so del rappresentare, del sentire e del volere. 


Viceversa, la maggior parte delle discipline empiriche, che 

sono state da parte di altri designate come scienze dello spiri- 

to, è decisamente diretta a rappresentare nel modo più compiu- 

to ed esauriente un evento singolo, più o meno esteso, con una 

sua realtà singolare e limitata nel tempo. Anche da questo lato 

gli oggetti e gli strumenti tecnici particolari con cui è assicura- 

ta la loro comprensione sono quanto mai diversi. Si può infatti 

trattare di un singolo avvenimento o di una serie complessiva 

di azioni e di vicende, dell'essenza e della vita di un singolo 

uomo o di un intero popolo, del carattere specifico e dello 

sviluppo di una lingua, di una religione, di un ordinamento 

giuridico, oppure di un prodotto letterario, artistico, scientifico 

— e ognuno di questi oggetti richiede una trattazione adeguata 

alla sua particolare fisionomia. Ma sempre lo scopo conoscitivo 

rimane quello di riprodurre e di intendere nella sua realtà di 

fatto una formazione della vita umana, che si è presentata nella 

sua configurazione singolare. È chiaro che con ciò si designa 

l’intero ambito delle discipline storiche. 


Noi ci troviamo quindi di fronte a una divisione puramente 

metodologica delle scienze empiriche, che deve essere fondata 

su concetti logici sicuri. Il principio di divisione è costitui- 

to dal carattere formale dei loro fini conoscitivi. Le une cerca- 

no leggi generali, le altre fatti storici particolari: per esprimer- 

ci nel linguaggio della logica formale, il fine delle une è il 

giudizio generale, apodittico, mentre quello delle altre è la 

proposizione singolare, assertoria. Questa distinzione si ricolle- 

ga così a quell’importantissimo e decisivo rapporto presente 

nell’intelletto umano, che fu riconosciuto da Socrate come la 

relazione fondamentale di ogni pensiero scientifico: il rapporto 



320 WILHELM WINDELBAND 



dell’universale con il particolare. A partire da questo punto si 

è divisa la metafisica antica, in quanto Platone cercava la real- 

tà negli immutabili concetti di genere, mentre Aristotele la 

cercava nell’essere singolo che si sviluppa secondo uno scopo. 

La moderna scienza della natura ci ha insegnato a definire ciò 

che è in base alle necessità durevoli dell’accadere che in esso sì 

compie; ha messo la legge naturale al posto dell’idea platonica. 


Perciò possiamo dire che nella conoscenza del reale le scien- 

ze empiriche cercano o il generale nella forma di legge di 

natura o il singolare nella forma storicamente determinata; 

esse considerano da un parte la forma sempre permanente, 

dall’altra il contenuto singolare, in sé determinato, dell’accade- 

re reale. Le prime sono scienze di leggi e le seconde sono 

scienze di avvenimenti; quelle insegnano ciò che è sempre, e 

queste ciò che è stato una volta. Il pensiero scientifico — se è 

consentito elaborare nuove espressioni — è nel primo caso n0- 

motetico, nel secondo idiografico. Se vogliamo attenerci alle 

vecchie espressioni, possiamo pure parlare in questo senso di 

un’antitesi tra discipline naturali e discipline storiche, fermo 

restando che in questo senso metodologico lo psicologia dev’es- 

sere senz’altro compresa tra le scienze naturali. 


In generale, rimane da considerare che quest’antitesi meto- 

dologica classifica solo il modo di trattazione e non il contenu- 

to del sapere. Resta possibile — ed è di fatto vero — che gli 

stessi oggetti possono essere sottoposti a un'indagine nomotetica 

e al tempo stesso a un'indagine idiografica. Ciò dipende dal 

fatto che l’antitesi tra il sempre eguale e il singolare è, per un 

certo verso, relativa. Ciò che all’interno di periodi di tempo 

assai grandi non subisce nessun mutamento immediatamente 

percepibile e può quindi venir considerato nomoteticamente in 

base alle sue forme immutabili, può tuttavia risultare da una 

prospettiva ulteriore valido per un periodo di tempo pur sem- 

pre limitato, cioè qualcosa di singolare. Così una lingua è 

dominata, in tutte le applicazioni particolari, dalle sue leggi 

formali, che rimangono le medesime in ogni mutamento dell’e- 

spressione; ma d’altra parte questa stessa lingua particolare, 

con le sue specifiche leggi formali, è soltanto una manifestazio- 

ne singolare e transitoria nella vita linguistica dell’uomo. Lo 

stesso vale per la fisiologia del corpo, per la geologia e in un 



WILHELM WINDELBAND 32I 



certo senso perfino per l'astronomia: con ciò il principio stori- 

co viene trasferito nel campo delle scienze naturali. 


L’esempio classico a questo proposito è costituito dalla scien- 

za della natura organica. Come sistematica, essa riveste caratte- 

re nomotetico in quanto, nel paio di millenni per cui è stata 

finora condotta l’osservazione umana, può considerare i tipi 

identici dell'essere vivente come la loro forma conforme a leg- 

gi. In quanto storia dello sviluppo, che rappresenta l’intera 

successione degli organismi terrestri come un processo di discen- 

denza o di trasformazione che si compie gradualmente nel 

corso del tempo e la cui ripetizione su qualche altro pianeta 

non soltanto non possiede nessuna garanzia di certezza, ma 

neppure qualche probabilità, essa è invece una disciplina idio- 

grafica, cioè storica. Già Kant, anticipando il concetto della 

moderna teoria della discendenza, chiamava colui che avesse 

osato affrontare quest’« avventura della ragione » col nome di 

futuro « archeologo della natura ». 


Se ci chiediamo come la teoria logica si sia finora atteggiata 

nei confronti di quest’antitesi decisiva tra le scienze partico- 

lari, ci imbattiamo esattamente nel punto in cui questa è rima- 

sta più che altrove bisognosa di riforma. Il suo intero sviluppo 

mostra la più decisa predilezione per le forme di pensiero no- 

motetico. Certamente si tratta di un fatto ben spiegabile. Dal 

momento che ogni ricerca e dimostrazione scientifica si svolge 

nella forma del concetto, l’indagine sull’essenza, sulla fondazio- 

ne e sull’applicazione di ciò che è generale rimane l'interesse 

più prossimo e più importante della logica. A ciò si aggiunga 

l'influenza del corso storico. La filosofia si è sviluppata muoven- 

do da ricerche di scienza naturale, dalla questione della pbsic, 

cioè dalla permanenza dell'essere nel mutare dei fenomeni; e 

seguendo un corso parallelo — che non mancava neppure della 

mediazione causale rappresentata dalla tradizione storica del 

Rinascimento — la filosofia moderna è pervenuta alla propria 

autonomia con l’aiuto della scienza della natura. Perciò non 

poteva accadere se non che la riflessione logica si rivolgesse in 

primo luogo alle forme di pensiero nomotetico, facendo dipen- 

dere durevolmente da queste le sue teorie generali. Ciò vale 

ancor sempre: tutta la nostra dottrina tradizionale del concet- 

to, del giudizio e del sillogismo è ancor sempre ritagliata sul 



21, STORICISMO TEDESCO. 



322 WILHELM WINDELBAND 



presupposto aristotelico che il principio generale sta al centro 

dell'indagine logica. Basta aprire un qualsiasi manuale di logi- 

ca per convincersi che non soltanto la grande maggioranza 

degli esempi viene scelta dalle discipline matematiche e dalle 

scienze naturali, ma che anche i logici che si mostrano piena- 

mente sensibili al carattere specifico della ricerca storica cerca- 

no pur sempre i punti di riferimento ultimi delle loro teorie 

sul versante del pensiero nomotetico. Sarebbe auspicabile — ma 

le premesse in questo senso sono ancora troppo scarse — che la 

riflessione logica rendesse giustizia alla grande realtà presente 

nel pensiero storico, nella stessa misura in cui ha inteso coglie- 

re le forme dell'indagine naturale fin nei suoi particolari. 

Concedetemi per ora di considerare un po’ da vicino il 

rapporto tra sapere nomotetico e sapere idiografico. Come si è 

detto, all’indagine naturale e alla conoscenza storica è comune 

il carattere di scienza empirica: entrambe hanno cioè come 

punto di partenza — o, in termini logici, come premesse delle 

loro dimostrazioni — delle esperienze, dei fatti della percezio- 

ne. Esse coincidono inoltre nel fatto che né l’una né l’altra 

possono appagarsi di ciò che l’uomo ingenuo pensa solitamente 

di esperire. Entrambe hanno bisogno, come loro fondamento, 

di un'esperienza scientificamente purificata, criticamente vaglia- 

ta e sottoposta a esame nel lavoro concettuale. Nella stessa 

misura in cui bisogna disciplinare accuratamente i propri sensi 

per stabilire le sottili distinzioni presenti nella conformazione 

di esseri strettamente imparentati, per vedere con successo attra- 

verso un microscopio, per cogliere con sicurezza Îa sincronia 

dell’oscillazione di un pendolo e della posizione di una lancet- 

ta, nello stesso modo occorre fatica per determinare il carattere 

specifico di una scrittura, per osservare lo stile di uno scrittore 

o per cogliere l'orizzonte spirituale e l'ambito di interessi di 

una fonte storica. Per natura l’una e l’altra cosa possono essere 

fatte soltanto in maniera imperfetta. Se quindi la tradizione 

del lavoro scientifico ha fatto sorgere, in entrambe le direzio- 

ni, una quantità di strumenti tecnici sempre più raffinati — di 

cui il discepolo della scienza si appropria nella pratica — ogni 

metodo specifico poggia da un lato su punti di vista oggettivi 

già acquisiti o per lo meno accolti in via ipotetica, dall’altro su 

connessioni logiche spesso assai complicate. Qui occorre osserva- 



WILHELM WINDELBAND 323 



re di nuovo che finora l’interesse della logica si è rivolto molto 

di più alla tendenza nomotetica che alla tendenza idiografica. 

Sul significato metodologico degli strumenti di precisione, sul- 

la teoria dell’esperimento, sulla determinazione della probabili- 

tà in base a molteplici osservazioni di un medesimo oggetto, e 

su questioni analoghe, si hanno indagini logiche approfondite; 

ma i problemi paralleli della metodologia storica non hanno 

trovato eguale attenzione da parte della filosofia. Ciò è connes- 

so con il fatto che — com'è nella natura stessa della cosa, e 

come conferma la storia — l’ingegno e l’opera della filosofia e 

della scienza naturale si sono incontrati molto più spesso di 

quanto non sia avvenuto tra la filosofia e la storia. Eppure 

sarebbe di estremo interesse per la dottrina generale della cono- 

scenza portare alla luce le forme logiche in base alle quali si 

compie, nella ricerca storica, la critica reciproca delle percezio- 

ni, formulare le «massime di interpolazione » delle ipotesi e 

determinare così anche qui quale parte assumono nell’edificio 

della conoscenza del mondo, che si sorregge reciprocamente 

con tutti i suoi elementi, da una parte i fatti e dall’altra i 

presupposti generali con cui li interpretiamo. 


Tutte le scienze empiriche coincidono in definitiva però nel 

principio ultimo, che consiste nell’accordo senza contraddizio- 

ne di tutti gli elementi della rappresentazione relativi al medesi- 

mo oggetto: la distinzione tra indagine naturale e storia ha 

inizio soltanto dove si tratta di utilizzare i fatti a scopo conosci- 

tivo. Qui vediamo che l’una cerca leggi, l’altra forme. Nella 

prima il pensiero conduce dall’accertamento del particolare al- 

l'apprendimento di relazioni generali, mentre nella seconda es- 

so si arresta alla caratterizzazione accurata del particolare. Per 

lo scienziato naturale il singolo oggetto dato alla sua osservazio- 

ne non possiede mai, in quanto tale, valore scientifico; esso gli 

serve solo in quanto si ritiene giustificato a considerarlo come 

un tipo, come un caso specifico di un concetto di genere, e a 

trarne fuori questo concetto: in ciò egli riflette soltanto su 

quei caratteri che sono appropriati alla comprensione di una 

generalità conforme a leggi. Allo storico si pone invece il 

compito di far rivivere una formazione del passato nella sua 

intera configurazione individuale, rendendola idealmente pre- 

sente. Egli deve compiere nei confronti di ciò che è realmente 



324 WILHELM WINDELBAND 



esistito un’opera analoga a quella dell’artista nei confronti di 

ciò che è nella sua fantasia. Qui ha le sue radici l’affinità della 

creazione storica con quella estetica, delle discipline storiche 

con le Belles lettres. 


Da ciò consegue che nel pensiero naturalistico predomina la 

tendenza all’astrazione, nel pensiero storico quella all’intuitivi- 

tà. Quest’affermazione risulterà inattesa soltanto a chi si è abi- 

tuato a limitare materialisticamente il concetto di intuizione 

alla recezione psichica di ciò che è presente in modo sensibile, 

e ha dimenticato che c’è intuitività — cioè vitalità individuale 

di ciò che è presente idealmente — tanto per l’occhio dello 

spirito quanto per l'occhio del corpo. Certamente quella conce- 

zione materialistica è al giorno d’oggi molto diffusa, ma susci- 

ta serie riserve. Quanto più ci si abitua, ovunque si presentano 

delle rappresentazioni, a mettere in evidenza il più possibile quel 

che vi è da toccare e da vedere, tanto più si espone la sponta- 

nea facoltà dell’intuizione — a causa del prevalere dell’intuizio- 

ne ricettiva — al pericolo di rattrappirla per mancanza di 

esercizio, e poi ci si meraviglia quando la fantasia sensibile 

diventa pigra e incapace di funzionare non appena non può 

più toccare e vedere in modo corporeo. Per la pedagogia vale 

infatti lo stesso che per l’arte, e in particolare per l’arte dram- 

matica, dove oggi ci si dà ogni pena per tenere impegnati gli 

occhi, sicché non rimane più nulla per l’intuizione interiore 

delle forme poetiche. 


Che però la forza dell’indagine naturale consista nell’astra- 

zione e invece quella della storia nell’intuitività, risalta ancor 

più chiaramente se si comparano i risultati della loro ricerca. 

Per quanto intricato possa essere il lavoro concettuale di cui la 

critica storica ha bisogno per elaborare i dati della tradizione, 

il suo fine ultimo è tuttavia quello di trarre fuori dalla massa 

del materiale la vera forma del passato per tradurlo in chiarez- 

Za piena di vita; ciò che essa fornisce sono immagini di uomini 

e di vita umana, con tutta la ricchezza delle loro configurazio- 

ni singolari, conservate nella loro piena vitalità individuale. 

Così per bocca della storia ci parlano lingue e popoli passati, 

sollevati dalla dimenticanza a nuova vita, e così pure la loro 

fede e le loro figure, la loro lotta per il potere e per la libertà, 

la loro poesia e il loro pensiero. Quanto diverso è il mondo che 



WILHELM WINDELBAND 325 



l'indagine naturale costruisce davanti ai nostri occhi! Per 

quanto intuitivi possano essere i suoi punti di partenza, i suoi 

scopi conoscitivi sono le teorie, sono le formulazioni — in ulti- 

ma istanza matematiche — delle leggi del movimento: essa 

lascia dietro di sé — in modo autenticamente platonico — la 

singola cosa sensibile che nasce e perisce, in un’apparenza 

priva di realtà, e aspira alla conoscenza della necessità legale 

che domina, in un'immutabilità atemporale, ogni accadere. Dal 

variopinto mondo dei sensi essa estrae un sistema di concetti 

costruttivi entro cui vuol cogliere la vera essenza delle cose che 

sta dietro i fenomeni, un mondo di atomi, incolore e muto, 

senza la terrestre fragranza delle qualità sensibili — il trionfo 

del pensiero sulla percezione. Indifferente a ciò che è transito- 

rio, essa getta la sua àncora in ciò che rimane eternamente 

eguale a se stesso. Non cerca il mutevole in quanto tale, ma la 

forma immutabile del mutamento. 


Ma se l’antitesi tra i due tipi di scienze empiriche è così 

profonda, si comprende perché tra di esse deve scoppiare, ed è 

di fatto scoppiata, la battaglia per esercitare un'influenza decisi- 

va sulla visione generale del mondo e della vita. Ci si domanda 

che cosa sia più prezioso per lo scopo complessivo della nostra 

conoscenza, se il sapere concernente le leggi o quello riguardan- 

te gli eventi, se la comprensione dell’universale essenza atempo- 

rale o quella dei singoli fenomeni temporali. È chiaro fin dall’i- 

nizio che questa questione può venir decisa soltanto in base a 

una riflessione sui fini ultimi del lavoro scientifico. 


Mi limito ad accennare di sfuggita alla valutazione che si 

fonda sull’utilità. Di fronte ad essa entrambe le direzioni di 

pensiero sono in egual misura legittime. Il sapere riguardante 

leggi generali ha sempre il valore pratico di rendere possibile 

la previsione di situazioni future e l’intervento in vista di scopi 

dell’uomo nel corso delle cose. Ciò vale sia per i movimenti del 

mondo interno sia per quelli del mondo materiale esterno: 

nell’ultimo, in particolare, la conoscenza acquisita in virtù del 

pensiero nomotetico consente la produzione degli strumenti 

con cui si amplia in misura sempre crescente il dominio dell’'uo- 

mo sulla natura. Ma l’attività diretta a scopi nella vita comune 

dell’uomo dipende in grado non minore dalle esperienze del 

sapere storico. L'uomo è — per variare un antico detto — l’ani- 



326 WILHELM WINDELBAND 



male che ha una storia. La sua vita culturale è una connessio- 

ne storica che diventa più spessa di generazione in generazio- 

ne: chi vuole entrare in questa per cooperarvi in modo attivo 

deve possedere la comprensione del suo sviluppo. Una volta 

spezzatosi questo filo bisogna poi — lo ha mostrato la storia 

stessa — rintracciarlo e riannodarlo di nuovo con fatica. Se la 

cultura contemporanea dovesse essere sepolta a causa di un 

evento elementare — o nella configurazione esterna del nostro 

pianeta o nella configurazione interna del mondo umano — 

possiamo star certi che le generazioni successive ne scaveranno 

con diligenza le vestigia così come noi facciamo con quelle 

dell’antichità. Già per questi motivi l'umanità deve portare il 

suo grande fardello storico, e se col trascorrere del tempo esso 

minaccia di diventare sempre più pesante, al futuro non man- 

cheranno i mezzi per alleggerirlo con cautela e senza danno. 


Ma non è questo l’utile in questione: qui si tratta infatti 

del valore intimo del sapere, non certamente della soddisfazio- 

ne personale che il ricercatore ha nel suo conoscere, e soltanto 

in virtù di esso. Questo godimento soggettivo che proviene 

dalla scoperta e dall’accertamento è in definitiva presente in 

egual modo in ogni tipo di sapere. La sua misura viene deter- 

minata molto meno dall’importanza dell’oggetto che dalla dif- 

ficoltà dell'indagine. 


Senza dubbio vi sono accanto a ciò distinzioni oggettive, c 

quindi puramente teoretiche, nel valore conoscitivo degli ogget- 

ti: ma la loro misura non è altro che il grado in cui essi 

contribuiscono alla conoscenza complessiva. L’elemento singolo 

rimane oggetto di curiosità oziosa se non diventa pietra di 

costruzione in una struttura più generale. In senso scientifico il 

« fatto » è così già un concetto teleologico. Non una qualsiasi 

realtà costituisce un fatto per la scienza, ma soltanto ciò da cui 

— per dirla in breve — essa può apprendere qualcosa. Questo 

vale soprattutto per la storia. Accadono molte cose che non 

sono fatti storici. Che nel 1780 Goethe si sia fatto costruire una 

campana di casa e una chiave, e il 22 febbraio una cassetta per 

le lettere, è documentato dal conto di un fabbro tramandato in 

modo assolutamente autentico: ciò è quindi accaduto del tutto 

realmente e con certezza, ma non per questo è un fatto storico 

— né storico-letterario, né biografico. Si deve d’altra parte obiet- 



WILHELM WINDELBAND 327 



tare che è impossibile, entro certi limiti, decidere in anticipo 

se al singolo elemento, a ciò che si offre all’osservazione o alla 

tradizione, spetti o no questo valore di «fatto». Perciò la 

scienza deve fare come Goethe in tarda età: fare provvista, 

raccogliere ciò di cui può impadronirsi, paga dell’idea di non 

trascurare nulla di ciò che potrebbe utilizzare in seguito, e 

della fiducia che il lavoro delle generazioni future — nella 

misura in cui non ne sarà impedito dalle vicende esteriori 

della tradizione — conserverà, come un grande setaccio, quan- 

to è utilizzabile e lascierà cadere ciò che è inutile. 


Ma questo scopo essenziale di ogni sapere particolare, cioè 

lo scopo di inserirsi in un grande complesso unitario, non è 

affatto limitato alla subordinazione induttiva del particolare al 

concetto di genere o al giudizio universale: esso si realizza in 

egual misura dove la caratteristica singola diventa elemento 

significativo di un’intuizione complessiva. Quell’attenersi a ciò 

che è conforme al genere è una unilateralità del pensiero greco, 

diffusasi dagli Eleati fino a Platone, che trovava il vero essere, 

come la vera conoscenza, soltanto nell’universale. Da lui si è 

poi trasmessa fino ai giorni nostri, in cui Schopenhauer si è 

fatto portavoce di questo pregiudizio rifiutando alla storia il 

valore di scienza autentica perché essa coglierebbe sempre il 

particolare, e mai l’universale. È certamente esatto che l'intellet- 

to umano può rappresentarsi il molteplice soltanto perché co- 

glie il contenuto comune dei singoli elementi dispersi; ma 

quanto più aspira al concetto e alla legge, tanto più deve 

lasciare dietro di sé il singolare in quanto tale, dimenticarlo e 

abbandonarlo. È ciò che vediamo laddove si tenta, in modo 

specificamente moderno, di « fare della storia una scienza natu- 

rale », come si è proposta la cosiddetta filosofia della storia del 

positivismo. Che cosa rimane in definitiva, in una simile indu- 

zione di leggi, della vita dei popoli? Un paio di banali generali- 

tà, che si fanno scusare soltanto se accompagnate da un’accura- 

ta analisi delle loro numerose eccezioni. 


Di fronte a ciò occorre tener fermo il fatto che ogni interes- 

se e ogni valutazione, ogni determinazione di valore dell’uomo 

si riferiscono al singolo e a ciò che è singolare. Pensiamo soltan- 

to come si indebolisce presto il nostro sentimento non appena il 

suo oggetto si moltiplica o si mostra come un caso eguale tra 



328 WILHELM WINDELBAND 



mille. «Non è la prima» — così suona uno dei passi più 

crudeli del Faust!. Nella singolarità e nell’incomparabilità del- 

l'oggetto si radicano tutti i nostri sentimenti di valore. Su ciò 

poggia la dottrina spinoziana del superamento dei moti dell’ani- 

mo attraverso la conoscenza: per essa la conoscenza è infatti 

un tuffarsi del particolare nell’universale, del singolare nel- 

l'eterno. 


Ma che ogni valutazione vitale dell’uomo dipenda dall’unici- 

tà dell’oggetto, risulta anzitutto dalla nostra relazione con le 

personalità. Non è forse un'idea insopportabile che un essere 

caro e amato possa esistere tal quale anche soltanto una seconda 

volta? Non è pauroso e impensabile che debba esistere nella 

realtà un secondo esemplare di noi stessi, con questa nostra 

peculiarità individuale? Di qui l’orrore, la spettralità inerente 

alla rappresentazione del sosia — anche se a una distanza tem- 

porale molto grande. È sempre stato per me penoso il fatto che 

un popolo pieno di gusto e di sentimenti raffinati come quello 

greco si sia abbandonato alla dottrina, che attraversa tutta la 

sua filosofia, secondo cui nel ricordo periodico di tutte le cose 

deve ritornare anche la personalità, con tutto il suo agire e il 

suo patire. Come è svalutata la vita se si conosce con esattezza 

quante volte è già esistita e quante volte si ripeterà! com'è 

spaventosa l’idea che già una volta io sono vissuto e ho sofferto, 

ho desiderato e lottato, amato e odiato, pensato e voluto, e che 

quando il grande anno cosmico è trascorso e il tempo ritorna, 

devo recitare sempre di nuovo lo stesso ruolo sulla stessa sce- 

nal E ciò che vale per la vita individuale dell’uomo vale ancor 

più per l’insieme del processo storico: esso ha valore soltanto 

se è singolare. Questo è il principio che la filosofia cristiana ha 

vittoriosamente affermato nella Patristica contro l’Ellenismo. 

Al centro della visione del mondo erano in primo piano la 

caduta e la redenzione del genere umano come fatti singolari. 

Si trattava della prima grande e forte percezione dell’inalienabi- 

le diritto metafisico della conoscenza storica, ossia del diritto 

di mantenere il passato, in questa sua realtà singolare, per il 

ricordo dell’umanità. 



1. GoerHE, parte I, scena « Giornata cupa - campagna » (è la scena in prosa, im- 

mediatamente successiva al « Sogno della notte di Valpurga »). 



WILHELM WINDELBAND 329 



D'altra parte le scienze idiografiche hanno però bisogno a 

ogni passo di princìpi generali, che possono prendere a pre- 

stito in una fondazione completamente corretta soltanto dalle 

discipline nomotetiche. Ogni spiegazione causale di un processo 

storico presuppone rappresentazioni generali del corso delle co- 

se; e se si vuol ricondurre le dimostrazioni storiche alla loro 

pura forma logica, esse conservano sempre — come premesse 

supreme — le leggi naturali dell’accadere, in particolare dell’ac- 

cadere psichico. Chi non avesse alcuna notizia del modo in cui 

gli uomini pensano, sentono e vogliono, non naufragherebbe 

soltanto nell’abbracciare insieme i singoli eventi per giungere 

alla conoscenza degli avvenimenti, ma già nell’accertamento 

critico dei fatti. È certamente assai strano con quanta indulgen- 

za siano state in fondo accolte le pretese della scienza dello 

spirito nel campo della psicologia. Il grado notoriamente molto 

imperfetto con cui sono state finora formulate le leggi della 

vita psichica non è mai stato di impedimento agli storici: in 

virtù di una conoscenza naturale dell’uomo, in virtù della sensi- 

bilità e dell’intuizione geniale essi sapevano quel che basta a 

intendere gli eroi e le loro azioni storiche. Ciò dà molto da 

pensare e mette seriamente in dubbio se la concezione dei 

processi psichici elementari, impostata dai moderni secondo 

uno schema matematico-naturale, possa fornire un contributo 

apprezzabile alla nostra comprensione della vita reale del- 

l’uomo. 


Nonostante tali insufficienze di realizzazione nel caso singo- 

lo appare chiaramente che nella conoscenza complessiva, in cui 

ogni lavoro scientifico deve in definitiva unificarsi, questi due 

momenti rimangono l’uno accanto all’altro nella loro particolare 

posizione metodologica. Quella conformità delle cose a leggi ge- 

nerali offre il saldo quadro della nostra immagine del mondo 

esprimendo, al di sopra di ogni mutamento, l'essenza eterna- 

mente eguale del reale; e all’interno di questo quadro si dispie- 

ga alla memoria della specie la connessione vivente di tutte le 

singole configurazioni fornite di valore per l'umanità. 


Questi due momenti del sapere umano non possono essere 

ricondotti a una fonte comune. Certamente la spiegazione cau- 

sale del singolo accadimento con la sua riduzione a leggi gene- 

rali induce a ritenere che dovrebbe essere possibile, in ultima 



330 WILHELM WINDELBAND 



istanza, comprendere in base alla conformità delle cose a leggi 

naturali anche la particolare configurazione storica dell’evento 

reale. Così Leibniz riteneva che tutte le vérités de fai: abbiano 

le loro cause sufficienti nelle vérizés eternelles. Ma egli poteva 

postularlo soltanto per il pensiero divino, non realizzarlo per 

quello umano. 


È possibile illustrare questo punto con un semplice schema 

logico. Nella considerazione causale qualsiasi evento partico- 

lare assume la forma di un sillogismo in cui la premessa mag- 

giore è una legge naturale, ossia un certo numero di necessità 

legali, la premessa minore è una condizione data nel tempo o 

un complesso unitario di condizioni del genere, e infine la 

conclusione è il singolo avvenimento reale. Nello stesso modo 

in cui la conclusione presuppone dal punto di vista logico le 

due premesse, l’accadere presuppone due specie di cause: da un 

lato la necessità atemporale in cui si esprime l’essenza durevo- 

le delle cose, dall’altro la condizione particolare che si pre- 

senta in un determinato momento del tempo. La causa di 

un'esplosione è nel primo significato — quello nomotetico — 

la natura del materiale esplosivo che esprimiamo in forma di 

leggi fisico-chimiche, mentre nell’altro significato — quello 

idiografico — è un movimento singolo, cioè una scintilla, una 

vibrazione o qualcosa di simile. Soltanto i due elementi presi 

insieme causano e spiegano l'avvenimento, ma nessuno è una 

conseguenza dell’altro: la loro connessione non appare fonda- 

ta in essi stessi. Quanto poco la premessa minore presente 

nella sussunzione sillogistica è una conseguenza di quella mag- 

giore, altrettanto poco nel corso dell’accadere la condizione 

che si aggiunge all’essenza universale della cosa può essere 

derivata da questa essenza legale. Occorre piuttosto ricondurre 

a sua volta questa condizione, in quanto evento temporale, a 

un’altra condizione temporale da cui essa è derivata secondo 

una necessità legale; e così via 17 infinitum. Non si può pensa- 

re concettualmente un termine iniziale di questa serie infinita; 

e anche quando si tenti di rappresentarlo, la situazione iniziale 

risulterà pur sempre qualcosa di nuovo che si aggiunge all’es- 

senza universale delle cose, senza derivare da essa. Spinoza ha 

espresso questo punto attraverso la distinzione tra due forme di 

causalità, quella infinita e quella finita, e ha così eliminato 



WILHELM WINDELBAND 33I 



con geniale semplicità molte obiezioni su cui i logici moderni 

si sono affannati 2 proposito del « problema della pluralità del- 

le cause». Nel linguaggio della scienza odierna si potrebbe 

dire che lo stato presente del mondo consegue dalle leggi gene- 

rali della natura soltanto presupponendo lo stato immediata- 

mente precedente, e questo a sua volta presupponendo il suo 

precedente, e così via; ma una particolare determinata disposi- 

zione degli atomi non deriva mai dalle leggi generali del movi- 

mento. Da nessuna « formula universale » si può pervenire im- 

mediatamente alla particolarità di un singolo punto tempora- 

le: a questo scopo occorrerebbe ancor sempre la subordinazio- 

ne alla legge dello stato precedente. 


Dal momento che non esiste alcun termine fondato su leggi 

generali al quale si possa pervenire seguendo a ritroso la 

catena causale delle condizioni, nessuna sussunzione sotto quel- 

le leggi può aiutarci ad analizzare il dato temporale fino ai 

suoi fondamenti ultimi. In ogni esperienza storica e individuale 

rimane quindi per noi un residuo di incomprensibilità — qual- 

cosa che non può essere espresso né definito. In tal modo 

l'essenza ultima e intima della personalità resiste all’analisi 

condotta con categorie generali; e questo elemento impenetrabi- 

le si manifesta alla nostra coscienza come il sentimento dell’irri- 

ducibilità causale del nostro essere, cioè come il sentimento 

della libertà individuale. 


A questo punto è già venuta fuori una quantità di concetti e 

di problemi metafisici. Per quanto quelli possano essere infelici 

e questi mal posti, ne sussiste pur sempre il motivo. L'insieme 

del dato temporale si manifesta nella sua indeducibile autono- 

mia accanto alla conformità a leggi generali in base alle quali 

esso pure si realizza. Il contenuto dell’accadere del mondo non 

può essere compreso in base alla sua forma. Su questo scoglio 

sono naufragati tutti i tentativi di derivare concettualmente il 

particolare dal generale, i «molti» dall’«uno», il «finito» 

dall’« infinito », l’«esistenza» dall’« essenza ». Si tratta di una 

frattura che i grandi sistemi di spiegazione filosofica del mon- 

do sono soltanto riusciti a nascondere, ma non a riempire. 


Ciò è quanto vide Leibniz allorché indicò l’origine delle 

vérités eternelles nell’intelletto divino e l'origine delle vérités 

de fait nella volontà divina. Ciò è quanto vide Kant allorché 



332 WILHELM WINDELBAND 



trovò nel felice ma inafferrabile fatto che tutto quanto è dato 

nella percezione può essere ricondotto sotto le forme dell’intel- 

letto, e quindi ordinato e compreso, un indizio di connessioni 

teleologiche divine che va molto al di là del nostro sapere 

teoretico. 


Di fatto nessun pensiero può fornire risposte conclusive a ta- 

li questioni. La filosofia può mostrare fin dove giunge la forza 

conoscitiva delle singole discipline; ma al di là di queste, nep- 

pure essa può conquistare un punto di vista oggettivo. La legge 

e l'avvenimento rimangono l’una accanto all’altro come le gran- 

dezze ultime e incommensurabili della nostra rappresentazione 

del mondo. Qui sta uno dei punti-limite in cui il pensiero 

scientifico può soltanto determinare il compito e porre la que- 

stione, con la chiara coscienza che non sarà mai in grado di 

risolverli. 



HEINRICH RICKERT 



NOTA BIOGRAFICA 



Heinrich Rickert nacque a Danzica il 25 maggio 1863. Frequentò 

dapprima l’Università di Berlino e poi quella di Strasburgo, dove nel 

1888 conseguì il dottorato — sotto la guida di Windelband — con la 

dissertazione Zur Lehre von der Definition (Freiburg i.B., 1888). Dopo 

aver ottenuto l’abilitazione a Heidelberg, con il volume Der Gegenstand 

der Erkenntnis (Tibingen, 1892), diventa professore all'Università di 

Friburgo, dove nel 1894 succede al filosofo positivista Alois Riehl. In 

questo periodo egli pubblica le sue opere più significative, da Die 

Grenzen der naturwissenschafilichen Begriffsbildung (Tiibingen, 

1896-1902, 19132, 1921°4, 19299) a Kulturwissenschaft und Naturwis- 

senschaft (Tibingen, 1899, 1910°, 1915*, 192145, 192647), dal saggio 

Geschichisphilosophie (Heidelberg, 1905) ad alcuni importanti articoli 

sulla teoria dei valori apparsi nella rivista « Logos ». Nel 1916, dopo la 

morte di Windelband, gli succede sulla cattedra di Heidelberg, dove 

continuerà a insegnare fino alla morte, avvenuta il 28 luglio 1936. 


Anche Rickert muove da un’impostazione neocriticistica, e in questa 

prospettiva egli affronta, in Der Gegenstand der Erkenntnis, il proble 

ma del rapporto tra soggetto e oggetto. Ma già in questo libro la 

garanzia della validità della conoscenza viene individuata in un « dover 

essere » che appare indipendente dalle condizioni psicologiche del cono- 

scere, cosicché l’analisi gnoseologica risulta ricondotta ai presupposti 

della teoria dei valori. Successivamente, in Die Grenzen der naturtwis- 

senschaftlichen Begriffsbildung e in Kulturwissenschaft und Naturivis- 

senschaft, Rickert riprende la distinzione windelbandiana tra scienze 

nomotetiche e scienze idiografiche cercando di recuperare, al tempo 

stesso, una distinzione oggettiva tra la natura e il mondo storico-sociale, 

identificato con la cultura. Egli cerca infatti di derivare dalla distinzione 

tra i due gruppi di discipline, e dalla diversità del loro orientamento 

conoscitivo, le caratteristiche differenzianti della natura e della cultura. 

La medesima realtà si presenta come natura oppure come cultura secon- 

do il punto di vista dal quale essa è considerata: perciò la natura è la 

realtà considerata in riferimento al generale, cioè determinata nella sua 

struttura di leggi, mentre la cultura è la realtà considerata in riferimen- 

to all’individuale, cioè costituita da un complesso di fatti e di rapporti 



336 HEINRICH RICKERT 



particolari. Ma l’individualità dell'oggetto storico non è altro, per Ri- 

ckert, che la sua relazione con determinati valori culturali, i quali 

presiedono all’elaborazione concettuale della conoscenza storica e valgono 

come suoi criteri di scelta. Scienza naturale e conoscenza storica si 

differenziano quindi non soltanto per il loro diverso orientamento cono- 

scitivo e per il diverso modo di configurarsi della realtà che costituisce 

il loro oggetto, ma anche per la presenza o l’assenza di un riferimento 

ai valori: mentre la conoscenza della natura prescinde da qualsiasi 

relazione di valore, cosicché la natura si presenta come un sistema di 

rapporti regolati da leggi generali, la conoscenza storica seleziona il 

dato empirico in base a criteri di valore. La cultura — oggetto della 

conoscenza storica — è perciò la realizzazione storica dei valori, di 

valori incondizionati che sussistono di per sé, indipendentemente dall’e- 

ventuale riconoscimento che' possono ricevere da parte degli uomini. 

Questo rapporto con i valori costituisce il « senso» della cultura, e dà 

perciò significato all’azione storica degli individui e alle varie forme 

storiche di cultura. 


Negli anni successivi al 1g1o Rickert appare sempre più impegnato 

nel tentativo di dare una formulazione sistematica della teoria dei 

valori, alla quale fa riscontro un’interpretazione metafisica del processo 

storico. E questo tentativo appare accompagnato, soprattutto in Die 

Philosophie des Lebens (Tibingen, 1920), dalla presa di posizione pole- 

mica contro i più svariati indirizzi della filosofia del Novecento, respon- 

sabili ai suoi occhi di negare la trascendenza e l’assolutezza dei valori e 

ricondotti all’etichetta della filosofia della vita — una designazione che 

serve per qualificare tanto Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, quanto 

James e Bergson, e che verrà in seguito estesa anche a Weber e a 

Jaspers. Nel primo volume, il solo pubblicato, del System der Philoso- 

phie (Tibingen, 1921), Rickert cerca di elaborare un sistema dei valori 

fondato sulla distinzione di sei sfere di valori: tre sfere di carattere 

contemplativo, che sono quelle della scienza, dell’arte e della religiosità, 

e tre sfere di carattere pratico, che sono quelle della comunità etica, 

della comunità erotica e della comunità religiosa con la divinità. In 

questo quadro la storia viene interpretata come l'organo di riconoscimen- 

to dei valori, in quanto questi, pur avendo una loro autonoma esistenza 

su un piano trascendente rispetto alla realtà empirica, possono essere 

individuati soltanto sulla base di determinati beni culturali storicamente 

realizzati. 


L'ultima fase del pensiero di Rickert — da Die Logik des Pridikats 

und das Problem der Ontologie (Heidelberg, 1930) a Grundprobleme der 

Philosophie (Tibingen, 1934) e ai saggi raccolti nel volume postumo 

Unmittelbarkeit und Sinndeutung (Tibingen, 1939) — è caratterizzato 

dall'accentuazione del carattere ontologico della teoria dei valori e dal 



HEINRICH RICKERT 337 



duplice richiamo a Hartmann e a Heidegger. I! problema del rapporto 

tra cultura e mondo dei valori viene a configurarsi come il problema 

del posto dell’uomo nel mondo; e l’analisi antropologica appare fondata 

sulla determinazione del legame dell’uomo con i diversi modi dell’esse- 

re. L'uomo nasce e cresce come essere naturale, e diventa «uomo 

culturale » ponendosi in relazione con i valori, cioè con una realtà 

trascendente che stabilisce il senso della sua esistenza e del suo sforzo 

di realizzazione storica dei valori. 



22. STORICISMO TEDESCO. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Ricordiamo qui le altre opere di Rickert: Psycho-physische Kausalitàt 

und psycho-physischer Parallelismus, Tibingen, 1900; Das Eine, die Ein- 

heit und die Eins: Bemerkungen zur Logik des Zahlbegriffs, Heidelberg, 

1911, 1924?; Kant als Philosoph der modernen Kultur, Tiibingen, 1924; 

Die Heidelberger Tradition und Kants Kritizismus, Berlin, 1934. Nume- 

rosi sono gli articoli apparsi in « Logos », nelle « Kantstudien » e in va- 

rie altre riviste, dei quali indichiamo qui soltanto i principali: Uber die 

Aufgabe einer Logik der Geschichte, « Archiv fir systematische Philoso- 

phie », VIII, 1902, pp. 137-63; Zwei Wege der Erkenninistheorie, « Kant- 

studien », XIV, 1909, pp. 169-228; Vom Begriff der Philosophie, « Lo- 

gos », I, I9I0, pp. 1-34; Lebenswerte und Kulturwerte, « Logos », II, 191I- 

1912, pp. 131-142; Vom System der Werte, « Logos », IV, 1913, pp. 295-327; 

Uber logische und ethische Geltung, « Kantstudien », XIX, 1914, pp. 182- 

221; Psychologie der Weltanschauungen und Philosophie der Werte, « Lo- 

gos », IX, 1920-21, pp. 1-42 (in polemica con Jaspers); Die Methode der 

Philosophie und das Unmittelbare, «Logos», XII, 1923-24, pp. 235-80; 

Vom Anfang der Philosophie, « Logos », XVI, 1925, pp. 121-62; Die Er- 

kenninis der intelligibeln Welt und das Problem der Metaphysik, « Logos », 

XVI, 1927, pp. 162-203, e XVIII, 1929, pp. 36-82; Geschichte und System 

der Philosophie, « Archiv fiir Geschichte der Philosophie », XL, 1931, 

pp. 7-46 e 403-48; Wissenschaftliche Philosophie und Weltanschauung, 

« Logos », XXII, 1933, pp. 37-57. 


Le opere di Rickert non sono state più ristampate in epoca recente, 

né di esse esistono traduzioni italiane. 



Tra gli studi dedicati alla filosofia di Rickert segnaliamo i seguenti: 



O. ScHLunke, Die Lehre vom Bewusstsein bei Heinrich Rickert, Leipzig, 

IQII. 



A. Faust, Heinrich Rickert und seine Stellung innerhalb der deutschen 

Philosophie der Gegenwart, Tibingen, 1927. 



F. FepeRIcI, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert, Firenze, 1933. 



G. GurvitcH, La théorie des valeurs de H. Rickert, « Revue philosophique 

de la France et de l’étranger », CKXIV, 1937, pp. 80-88. 



HEINRICH RICKERT 339 



B. W. ScHescHics, Die Kategorienlehre der Badischen philosophischen 

Schule, Berlin, 1938. 



E. Pact, Pensiero esistenza e valore, Milano, 1940, pp. 47-53. 


G. Rammino, Karl Jaspers und Heinrich Rickert. Existentialismus und 

Wertphilosophie, Bern, 1948. 


C. Rosso, Figure e dottrine della fiosofia dei valori, Torino, 1949, e Na- 

poli, 1973”, cap. IX. 


A. Mitter-Rostowsra, Das individuelle als Gegenstand der Erkenninis: 

eine Studie zur Geschichtsmethodologie Heinrich Rickerts, Winterthur, 

1955. 


H. Sere, Wert und Wirklichkeit in der Philosophie Heinrich Rickerts, 

Bonn, 1968. 



Una bibliografia ormai invecchiata, ma che fornisce molte indicazioni 

sugli scritti di Rickert e su Rickert nei primi decenni del secolo, si trova 

in F. FeperIci, La filosofia dei valori di Heinrich Rickert cit., pp. 99-106. 



LA FILOSOFIA DELLA STORIA* 



INTRODUZIONE 



All’inizio del secolo xx le scienze filosofiche si trovano anco- 

ra, in gran parte, sotto il segno della restaurazione. La loro 

ultima fioritura è dipesa dal ridestarsi dell’interesse per Kant, e 

anche le idee con cui la filosofia di orientamento kantiano deve 

oggi combattere non sono sorte nella nostra epoca, ma derivano 

da un periodo ancora precedente dello sviluppo filosofico. Si 

tratta per lo più di respingere di nuovo il naturalismo illumini- 

stico, su cui l’idealismo di Kant non è riuscito a riportare una 

vittoria definitiva. Nello stesso modo, se qualcuno volesse soste- 

nere che anche Kant è almeno in parte superato, non si potreb- 

be dire che ciò sia avvenuto ad opera di idee elaborate di 

recente: quasi tutti i progressi reali compiuti rispetto a Kant 

risiedono essenzialmente nella direzione imboccata dai suoi im- 

mediati successori, a cui oggi ci si comincia a rifare. Per 

questo motivo lo studio della storia della filosofia riveste oggi 

un grosso significato, e per questo motivo festeggiamo un uo- 

mo come Kuno Fischer, che non soltanto ha molto contribui- 

to a rianimare la comprensione di Kant, ma ha anche riavvici- 

nato alla nostra epoca le idee dei suoi grandi discepoli. Non 

bisogna temere di dover ripercorrere il processo di sviluppo che 



* Geschichtsphilosophie, in Die Philosophie im Beginn des zwanzigsten Jahrhun- 

derts: Festschrife fiir Kuno Fischer (a cura di W. Windelband), Heidelberg, Carl 

Winter*s Universitàtsbuchhandlung, 1904-5, vol. II, pp. 51-133 (traduzione di San- 

dro Barbera e Pietro Rossi). 


1. Kuno Fischer (1824-1907), storico della filosofia di orientamento hegeliano, au- 

tore di un'importante Geschichte der neueren Philosophie (1854-77) e della monografia 

Hegels Leben, Werke und Lehre (1901): la sua opera ha largamente ispirato l'interpre- 

tazione in senso idealistico dello sviluppo del pensiero filosofico moderno. 



342 HEINRICH RICKERT 



ha condotto da Kanta Fichte, da questi a Schelling o a Schopen- 

hauer, e poi fino a Hegel. La nuova epoca comporta nuove 

questioni, che esigono risposte nuove: nulla si è mai ripetuto 

nella vita storica. Ma non si deve chiudere gli occhi dinanzi 

alla prospettiva che l’idealismo kantiano e post-kantiano contie- 

ne un tesoro di idee che è ancora lungi dall’esser stato utilizza- 

to completamente e dal quale possiamo trarre, se dobbiamo 

misurarci con i problemi filosofici della nostra epoca, una quan- 

tità di idee preziose. 


Ciò vale per nessun'altra disciplina filosofica più che per la 

filosofia della storia. Benché negli ultimi tempi l’interesse per 

essa sia straordinariamente aumentato, la filosofia della storia 

non può, almeno per quanto riguarda i suoi concetti fondamen- 

tali, avanzare la pretesa di insegnare qualcosa di mai udito, di 

nuovo. Proprio le speculazioni che vengono considerate partico- 

larmente « moderne » vivono quasi esclusivamente di idee che 

hanno trovato la loro formulazione nell’Illuminismo; e anche 

la tendenza che combatte questi indirizzi illuministici è costret- 

ta a riconoscere con gratitudine che alcune delle sue armi 

migliori sono state forgiate in parte da Kant, e in parte ancora 

maggiore dagli idealisti post-kantiani, in particolare da Fichte 

e da Hegel. Chi volesse quindi avere un quadro della situazio- 

ne attuale della filosofia della storia e dei suoi movimenti, dei 

suoi problemi principali e delle diverse direzioni che Ja loro 

soluzione assume, potrebbe tentare — per acquisire i concetti 

fondamentali — di seguire all’indietro i fili che portano all'i- 

dealismo tedesco e più in là, procedendo verso il passato, fino 

all’Illuminismo. Ma anche nell’ambito della filosofia della sto- 

ria non si tratterà di una mera restaurazione dei precedenti. 

Per rendersene conto basta pensare allo sviluppo della scienza 

storica nel secolo xx; e in ogni caso nei sistemi del passato 

dobbiamo distinguere ciò che è valido in modo durevole da ciò 

che è « storicamente » divenuto. Per la filosofia della storia ciò 

è stato fatto soltanto in parte. Occorreranno ancora varie inda- 

gini, del tipo di quelle condotte da Lask? sull’idealismo di 



2. Emil Lask (1875-1915), filosofo tedesco allievo di Windelband, autore di Die 

Logik der Philosophie und die Kategorienlehre (1911) e di Die Lehre vom Urteil (1912). 

Rickert si riferisce qui al volume Fichtes Idealismus und die Geschichte, Tibingen, 

1902. 



HEINRICH RICRKERT 343 



Fichte e la storia, perché emerga il significato durevole di 

queste idee. Già per questo motivo l’orientamento storico non 

si presta a un rapido sguardo sul presente. E anche a prescinde- 

re da ciò, qui non è consigliabile procedere in modo esclusiva- 

mente storico. Nonostante tutta la gratitudine che proviamo 

per il nostro passato filosofico, nonostante il riconoscimento 

della sua superiorità di originalità creativa, occorre augurarsi 

di venir fuori della nostra situazione di epigoni, di non procede- 

re soltanto dall’epoca dell’Illuminismo all’epoca di Kant, ma di 

tentare di percorrere la nostra via; e proprio la filosofia della 

storia ha forse più occasioni per porre in rilievo che il filosofo 

non può mai essere soltanto uno storico, che la filosofia non 

può mai arrestarsi alla storia. Lasciamo quindi da parte il 

passato e tentiamo di sviluppare un orientamento sistematico. 


Ma anche su questa via ci imbattiamo in difficoltà. L’inten- 

sa familiarità con la storia ha recato con sé non soltanto una 

grande ricchezza di idee filosofiche, ma anche una confusione 

considerevole e quindi un’insicurezza che si estende ai concetti 

più elementari del nostro lavoro. Alla questione di che cosa sia 

in generale la filosofa non esiste alcuna risposta che goda di 

riconoscimento generale, e ciò che vale per la totalità varrà per 

le sue parti. Se vogliamo procedere senza arbitrio, dobbiamo 

anzitutto richiamare i diversi significati che si connettono all’e- 

spressione « filosofia della storia » e giustificare il nostro concet- 

to di tale scienza. 


Anzitutto tre concetti emergono chiaramente. Della filosofia 

in generale si dice che sarebbe la scienza dell’universale, in 

antitesi alle scienze particolari. Filosofare vorrebbe quindi dire 

cercare una conoscenza complessiva della realtà, fornire l’insie- 

me di ogni conoscenza scientifica. Se su questa base si determi- 

nano i compiti di una filosofia della storia, essa deve raccoglie- 

re — mentre le scienze storiche particolari hanno a che fare 

con i campi particolari della vita storica — ciò che quelle 

singole discipline hanno scoperto in un quadro complessivo uni- 

tario, in uno sguardo d’insieme sulla totalità, in breve, in una 

storia universale. Filosofia della storia in questo primo significa- 

to del termine equivarrebbe quindi a storia universale. Ma la 

generalità di un’esposizione può essere intesa in modi diversi. 

Se, per richiamarci nuovamente al concetto della filosofia in 



344 HEINRICH RICKERT 



generale, si pone ad essa il compito di fornire una conoscenza 

complessiva della realtà, allora non si può ritenere che essa 

possa accogliere in sé tutta la pienezza di contenuto del mate- 

riale conosciuto dalle discipline particolari. La sua generalità 

deve piuttosto essere sempre connessa con una generalizzazione 

nel senso che il contenuto del sapere specialistico va perduto in 

grado maggiore o minore, e in definitiva tale generalizzazione 

può spingersi al punto che soltanto i « principi » generali diven- 

tano oggetto di indagine. Di qui deriva anche un nuovo concet- 

to della filosofia della storia. In questo modo tale disciplina 

deve lasciar da parte il contenuto particolare della vita storica, 

per indagare sul suo «senso» universale o sulle sue «leggi» 

universali. Anche senza un’ulteriore determinazione dei concet- 

ti di senso e di legge, sorge così il concetto di una scienza dei 

princìpi storici, che si distingue nettamente dal concetto di 

storia universale. E infine, se storia non significa ciò che è ac- 

caduto, bensì rappresentazione di ciò che è accaduto o scien- 

za della storia, si perviene a un terzo concetto. In ogni caso, 

quest’ultimo concetto si accorda con un punto di vista, varia- 

mente rappresentato, in merito ai compiti della filosofia in ge- 

nerale, per cui essa — specialmente nella sua parte teoretica — 

deve avere per oggetto non tanto le cose stesse, quanto il 

sapere relativo alle cose. La filosofia della storia può quindi 

essere considerata anche come scienza del conoscere storico o 

come una parte della logica nel senso più ampio del termine. 

Forse si sentirà ancora la mancanza di una disciplina che si 

occupi del significato del pensiero storico per la trattazione dei 

problemi generali dell’intuizione del mondo e della concezione 

della vita. Ma a tali questioni sarà facile rispondere se il lavo- 

ro finora solo indicato è stato compiuto e non c'è quindi moti- 

vo di elencare un quarto tipo di filosofia della storia. Certamen- 

te la storia universale, la dottrina dei princìpi della vita storica 

e la logica della scienza storica sembrano essere, di fatto, tre 

scienze egualmente legittime, ognuna delle quali ha i suoi 

problemi particolari, e che hanno però tutte diritto al nome di 

filosofia della storia. 


Ma se si guarda con maggior precisione, si presenta subito 

un quadro diverso. Come la storia universale deve sussistere 

accanto alle singole discipline storiche? Dev’essere concepita 



HEINRICH RICKERT 345 



come una mera somma delle scoperte di quelle? Certamente 

no. Da essa si esigerà al minimo che esponga in modo unitario 

la totalità storica. Ma che cos’è questa totalità, in cui con- 

siste il principio della sua unità e della sua articolazione? Attra- 

verso questioni di questo genere il primo tipo di filosofia della 

storia conduce, nella trattazione dei suoi concetti fondamenta- 

li, al secondo tipo. Ma anche i concetti di cui la scienza dei 

princìpi ha bisogno per determinare il suo compito non posso- 

no venir presupposti come ovvi, sia che si pensi a «leggi» 

universali a cui dev'essere sottoposta ogni vita storica, sia 

che si voglia porre a fondamento della totalità dello sviluppo 

storico un «senso» unitario. In questi concetti vi sono dei 

problemi. Mentre ognuno ritiene ovvio cercare le leggi natura- 

li, si contesta però decisamente la possibilità di indicare leggi 

storiche; prescindendo da questo, perché nel campo delle scien- 

ze naturali le leggi vengono ricercate dalle stesse discipline 

particolari, mentre per la storia questo compito spetta a una 

disciplina filosofica? Con quale diritto, inoltre, ipotizziamo un 

senso del corso storico, e quali strumenti abbiamo per ricono- 

scerlo? La filosofia della storia come scienza dei princìpi non 

può cominciare il suo lavoro senza affrontare questioni di tal 

genere; né potrà rispondere ad esse se non ha chiara l’essenza 

del conoscere storico in generale, cioè se non possiede nozioni 

logiche. Vediamo così la seconda delle tre discipline condurre 

alla terza, nello stesso modo in cui la prima conduceva alla se- 

conda. Da ciò deriva pertanto tra i diversi tipi di filosofia della 

storia — che a prima vista sembravano costituire tre scienze 

indipendenti, ognuna con problemi differenti — una connessio- 

ne tale che la logica della storia deve costituire il punto di 

partenza e il fondamento di tutte le indagini di filosofia della 

storia. Fino a quale punto, poi, i problemi della scienza dei 

princìpi e della storia universale debbano trasformarsi in proble- 

mi logici, se devono poter essere risolti in generale, è cosa 

che soltanto l’indagine concreta può stabilire. Ma già da ora è 

certo che non è arbitrio, ma necessità, se prendiamo qui le 

mosse da uno sguardo d'insieme sui problemi e sui dibattiti più 

importanti della logica della storia. 



346 HEINRICH RICKERT 

I. LA LOGICA DELLA SCIENZA STORICA 



Anteponendo questa parte entriamo immediatamente nel 

campo della filosofia della storia, in cui la nostra epoca può 

maggiormente pretendere una certa originalità. Per la formula- 

zione e la trattazione logica dei problemi si trovano nella filoso- 

fia dell’idealismo tedesco osservazioni sì molto valide, ma isola- 

te e asistematiche; e nella filosofia pre-kantiana del passato e 

del presente non si è fatto nulla per rispondere a tali questio- 

ni. Nonostante l’evidente connessione tra logica della storia e 

filosofia della storia in senso lato, i primi tentativi di compren- 

dere a fondo, nel suo carattere specifico, l’essenza logica della 

scienza storica non risalgono molto all’indietro di Paul*, di Navil- 

le‘, di Simmel e soprattutto di Windelband. Anche sulle questio- 

ni più elementari, infatti, domina finora in questo campo il 

più violento contrasto di opinioni; anzi, una logica della storia 

che meriti questo nome deve ancora combattere per la giustifi- 

cazione della sua esistenza. Non soltanto si crede — come fa 

per esempio Lindner® — di poter trattare scientificamente i 

problemi della filosofia della storia senza una fondazione logi- 

ca, ma si è addirittura contestato il diritto di esporre un concet- 

to puramente logico della storia e del metodo storico. I moti- 

vi non consistono soltanto nel fatto che in tali questioni sono 

intervenuti molti ai quali fa difetto la preparazione necessa- 

ria per trattare problemi del genere. E neppure derivano sol- 

tanto dalle difficoltà che si presentano in questo campo: solo 

che si imbocchi la via giusta, l'essenza logica della storia non è 

più difficile da comprendere di quella di altre scienze. Ma 

proprio su questa strada non esiste, stranamente, alcuna concor- 

dia. Sembrerebbe ovvio che chi va alla ricerca di chiarezza in 

questo campo cerchi un orientamento, almeno preliminare, nel- 



3. Hermann Paul (1846-1921), glottologo tedesco, autore dei Prinzipien der Sprach- 

geschichte (1880), fu un rappresentante del metodo storico nello studio della lin- 

guistica. 


4. Adrien Naville (1845-1930), filosofo svizzero di origine positivistica, autore del 

volume De la classification des sciences, Paris, 1888 — al quale si riferisce qui Rickert 

— e di altri scritti di teoria della conoscenza. 


5. Theodor Lindner (1843-1919), filosofo e storico tedesco, autore della Geschichts- 

philosophie: das Wesen der geschichtlichen Entwicklung (1901), e di una Weltgeschich- 

te scit der Volkerivanderung (1901-16). 



HEINRICH RICKERT 347 



le opere dei grandi storici universalmente riconosciuti, e stabili- 

sca anzitutto ciò che distingue il pensiero storico da quello 

delle altre scienze. Sembrerebbe poi ovvio che debba essere 

anzitutto compresa la struttura logica della scienza storica qua- 

le essa esiste, prima di pronunciare un giudizio sul suo valore 

scientifico. Ma in questo caso l’ovvio non coincide con ciò che 

avviene di solito. Talvolta il riferimento alle opere dei grandi 

storici viene piuttosto respinto — per esempio da Lamprecht* e 

da Tònnies” — come non scientifico: queste esposizioni non 

conterrebbero vera scienza. In particolare, proprio coloro che 

per tutto il resto non si stancano di celebrare l’esperienza co- 

me unico fondamento di ogni sapere, nell’indagine logica delle 

scienze empiriche si mettono al lavoro utilizzando un concetto 

di scienza storica fissato in precedenza e mai realizzato; e 

poiché non trovano mai gli storici sulla via che conduce al loro 

ideale, pensano che sia anzitutto necessario elevare a scienza la 

storia. In teste di questo genere si è così fissata l’idea di 

un’antitesi tra scienza e storia, e proprio questi pensatori si 

sentono stranamente chiamati a istruire la scienza storica sui 

suoi veri fini. 


Non ci si deve meravigliare del fatto che la maggior parte 

degli storici non vuole saperne di simili speculazioni estranee 

alla storia. Così avviene che storia e filosofia spesso non si 

comprendono più, ed entrambe soffrono di questa situazione. 

L’astorica filosofia della storia che un tempo aveva avuto larga 

risonanza soprattutto nella forma delle teorie (non della pras- 

si) di un Taine® e di un Buckle e che oggi viene rinnovata, 



6. Karl Lamprecht (1856-1915), storico tedesco, autore di importanti saggi meto- 

dologici come Alte und neue Richtungen in der Geschichtswissenschaft (1896), Was 

ist Kulturgeschichte? (1896-97), Die kulturhistorische Methode (1900) e della Einf@zhrung 

in das historische Denken (1912), nonché di una monumentale Deutsche Geschichte 

in dodici volumi (1891-1904), è il maggiore rappresentante dell’orientamento positivi. 

stico nella storiografia tedesca dî fine Ottocento. 


7. Ferdinand Tònnies (1855-1936), sociologo tedesco, autore di Gemeinschaft und 

Gesellschaft (1887), di Die Sitte (1909), della Kritik der òffentlichen Meinung (1922), del- 

la Einfiihrung in die Soziologie (1931), nonché di una nota monografia su Hobbes 

(1896) e di vari scritto sul marxismo. 


8. Hippolyte-Adolphe Taine (1828-1893), storico e filosofo positivista francese, au- 

tore della Philosophie de l'art (1865), del libro De l'intelligence (1870), di numerosi 

saggi di critica e di storia letteraria, nonché di un'ampia opera, rimasta incompiuta, 

su Les origines de la France contemporaine (1876-93), fu il maggiore rappresentante 

dell'impostazione positivistica nell’ambito dell'estetica. 



348 HEINRICH RICKERT 



più con passione che con chiarezza, per esempio da Lamprecht, 

è stata abbastanza respinta, per gli scopi della scienza storica 

empirica, da Droysen’, Bernheim”, von Below", Eduard Me- 

yer e altri. Ma in questo dibattito metodologico tra storici — 

in cui sono state introdotte anche questioni come quelle della 

libertà e della necessità, della conformità alle leggi e dell’acci- 

dentalità, della teleologia e del meccanicismo — molto è rimasto 

non chiarito da un punto di vista filosofico, nonostante alcuni 

preziosi risultati: perciò anche gli storici si mostrano talvolta 

assai perplessi quando, seguendo la «caratteristica dell’epoca » 

che torna a farsi più filosofica, passano dalle loro indagini 

specialistiche a considerazioni più generali. Ma di questa situa- 

zione soffre molto di più la filosofia. A causa della incompren- 

sione del pensiero storico, che proprio nella nostra epoca è 

quanto mai importante, la filosofia è condannata a una profon- 

da mancanza di influenza; e fino a qual punto tale mancanza 

d’influenza sia connessa alla separazione dalla storia risulta in 

modo particolarmente chiaro dal fatto che, se oggi si manifesta 

talora un interesse filosofico nei rappresentanti delle cosiddette 

scienze dello spirito, esso è per lo più mediato dal legame con 

indagini di metodologia della storia. 


Ai nostri giorni l’incomprensione dell’essenza del lavoro sto- 

rico viene naturalmente in luce con la massima chiarezza nei 

rappresentanti dei dogmi naturalistici, oggi nuovamente di mo- 

da; e non fa una differenza essenziale se questo naturalismo si 

presenta come materialismo o come psicologismo. In entrambi 

i casi il riconoscimento della storia come scienza significhereb- 

be uno scuotimento dei concetti naturalistici fondamentali. In- 

fatti dove si identifica la realtà con la natura, vi è tanto meno 

spazio per la storia quanto più si pensa in modo coerente. Ma 

l’estraneità della nostra filosofia alla storia ha motivi ancor più 



9- Johann Gustav Droysen (1808-1884), storico tedesco, autore della Geschichte 

des Hellenismus (1836-43) e della Geschichte der preussischen Politik (1855-86), nonché 

di un Grundriss der Historik (1868) che espone in forma sistematica i principi del me- 

todo storico. 


ro. Ernst Bernhcim (1850-1942), metodologo della storia tedesco, autore di un 

fortunato Le/lrbuch der historischen Methode und der Geschichtsphilosophie (1889). 


rt. Georg von Below (1858-1927), storico tedesco, autore di Der deutsche Staat des 

Mittelalters (1914), di Die deutsche Geschichtsschreibung von den Befreiungskriegen an 

bis zu unseren Tagen (1916), nonché di altri studi di storia costituzionale ed economica. 



HEINRICH RICKERT 349 



profondi. Per quanto il naturalismo come intuizione del mon- 

do sia stato in linea di principio completamente superato per 

merito di Kant, nella sostanza tale superamento non procede in 

direzione del pensiero storico. Nel seguace di Newton vi sono 

al massimo le premesse per una comprensione di questo pensie- 

ro, e la metodologia di Kant è ancora dominata quasi del 

tutto — e proprio nella sua più importante opera teoretica — 

dall’interesse per la matematica e per la scienza naturale. Di 

fatto, quindi, ci si può richiamare a Kant — come fa per 

esempio Max Adler! — con una certa parvenza di legittimità 

se si ricusa al lavoro storico un vero e proprio carattere scientifi- 

co. Si aggiunga infine che tra le scienze della natura — nella 

misura in cui sono scienze sistematiche — e la filosofia — che 

anch'essa aspira a un sistema — c’è un’affinità formale maggio- 

re di quella che esiste tra la filosofia e la storia, la quale non 

può mai diventare una scienza sistematica. Si deve anzi parlare 

di un antagonismo tra pensiero storico e pensiero filosofico, che 

nessuno può anche soltanto desiderare di accantonare: la filoso- 

fia dovrà sempre combattere lo storicismo come intuizione del 

mondo. Ma tutto ciò fa apparire ancor più urgenti i compiti 

di una logica della storia. Il naturalismo viene respinto non 

meno dello storicismo, e la filosofia può sperare di aver ragione 

dello storicismo soltanto se ha compreso a fondo l’essenza e il 

significato del pensiero storico. Da tutto ciò deriva per la logi- 

ca il compito di superare completamente nella sua unilateralità 

il naturalismo metodologico, ancora rappresentato pure da Kant, 

e di pervenire così a una comprensione di ogri lavoro scien- 

tifico. 


L'affermazione che finora poco si è fatto per la soluzione di 

questo compito incontrerà forse opposizioni se si tengono pre- 

senti le molte indagini sull’essenza delle «scienze dello spiri- 

to» intraprese da Mill in poi; e certamente non si può dire che 



12. Max Adler (1873-1937), sociologo e filosofo austriaco, autore di Marx als Denker 

(1908), di Marxistische Probleme (1913), di Kant und der Marxismus (1925), di Das 

Soziologische in Kants Erkenntniskritik (1925), del Lehrbuch der materialistischen Ge- 

schichtsauffassung (1930) e di varie altre opere, fu uno dei maggiori esponenti 

del cosiddetto austro-marxismo, orientato verso un’interpretazione in chiave kantiana 

di Marx, Rickert si riferisce qui al volume Kausalitàt und Teleologie im Streite um 

die Wissenschaft, Wien, 1904. 



350 HEINRICH RICKERT 



tutti questi lavori siano privi di valore. Ma nelle indagini (per 

altro verso estremamente preziose) condotte per esempio da 

Dilthey, Wundt!, Miinsterberg! e da altri, il punto decisivo, 

che rende possibile una reale comprensione logica della storia, 

non è stato affatto toccato (come da parte di Wundt e di 

Miinsterberg) oppure (come in Dilthey) non è stato elaborato 

in modo preciso e posto al centro, in modo da diventare real- 

mente fecondo in una logica della storia. Ciò trova già espres- 

sione nella terminologia consueta, che contrappone le scienze 

dello spirito alle scienze della natura. L’antitesi tra natura e 

spirito è oggi tutt'altro che univoca. I pensatori che si sono 

occupati dell'essenza delle scienze dello spirito determinano in 

modo assai diverso anche il concetto fondamentale di spirito, e 

sono d'accordo soltanto su un punto, cioè che esistono in gene- 

rale due gruppi diversi di scienze empiriche. E nemmeno si 

può sperare che dal concetto di spirito si pervenga a un accor- 

do sull’essenza del pensiero storico. Questi tentativi contengo- 

no alla loro base troppi presupposti per lo più di carattere 

metafisico, che offrono soltanto degli appigli a un naturalismo 

estraneo alla storia. L'unico concetto di spirito con cui oggi si 

può lavorare senza bisogno di una fondazione più precisa è 

quello di realtà psichica in antitesi a quella fisica: che ciò che 

chiamiamo piacere o ricordo o volontà non sia un corpo, è 

infatti ammesso da tutti i pensatori che meritano di essere 

presi in considerazione. Ma quest’unico concetto di spirito, sen- 

z’altro utilizzabile, è del tutto inadeguato per una delimitazio- 

ne delle diverse scienze e per la comprensione dell’essenza della 



13. Wilhelm Wundt (1832-1920), psicologo e filosofo tedesco, autore dei Bei- 

trige zur Theorie der Sinneswahrnehmung (1858-62), delle Vorlesungen fiber die Men- 

schen- und Tierseele (1863-64), dei Grundziige der physiologischen Psychologie (1874), 

della Logik (1880-83), della Eekik (1886), del Systera der Philosophie (1889), della 

Einleitung in° die Philosophie (1901), della Volkerpsychologie (1904) e di varic altre 

opere, fu il maggiore esponente del positivismo in Germania: è considerato il fonda- 

tore della moderna psicologia scientifica, basata sul metodo sperimentale. Rickert si 

riferisce qui alla terza parte della Logik, che reca il titolo Logi der Geisteswissen- 

schaften (vol. Il-2, 2° cd. Stuttgart, 1895). 


14. Hugo Miinsterberg (1863-1916), psicologo c filosofo tedesco, autore dei Grund- 

zige der Psychologie (1900-1918), della Philosophie der Werte (1908), di Psychologie 

und Wirtschaftsleben (1912), dei Grundzige der Psychotechnik (1914) e di varie altre 

opere, si ispirò da una parte all'insegnamento di Wundt e dall'altra alla filosofia 

dei valori. 



HEINRICH RICRERT 35I 



storia. Il naturalismo può a buon diritto sostenere che, se l’ele- 

mento spirituale nel senso sopra indicato non è certamente 

corpo, appartiene però del tutto alla natura, e dev'essere quin- 

di indagato scientificamente allo stesso modo di tutti gli altri 

oggetti naturali. Esso può sostenere che non si tratta soltanto 

di una teoria, ma che la prassi della psicologia moderna eleva 

questa certezza al di sopra del conflitto tra le diverse prospetti- 

ve metodologiche. Di fronte a queste affermazioni i sostenitori 

dell’antitesi tra scienze della natura e scienze dello spirito saran- 

no disarmati finché non avranno determinato il loro concetto 

fondamentale in modo incontestabile, e nel caso del concetto 

di spirito ciò non sarà mai possibile con mezzi logici, o in 

ogni caso lo sarà soltanto qualora si sia già acquisito il concet- 

to logico della storia. 


La dottrina del metodo non ha alcun bisogno di impegnarsi 

dapprima in tutte queste questioni controverse, se rivolge la 

sua attenzione soltanto a ciò che vuol porre in chiaro, cioè 

al metodo. Il metodo consiste nelle forme utilizzate dalla scien- 

za nell’elaborazione del suo materiale. Con ciò non si vuol 

negare che il metodo sia variamente condizionato dal carattere 

specifico del materiale. Anche un’indagine che rifletta sulla 

diversità di contenuto delle singole scienze può condurre quin- 

di a questo o a quel risultato, prezioso dal punto di vista 

logico. Ma questi risultati si presenteranno in modo più o me- 

no accidentale, e una logica che vuol raggiungere il suo fine 

con sicurezza e per la via più breve prescinde pertanto da tutte 

le distinzioni di contenuto delle singole scienze, per poter me- 

glio comprendere le distinzioni metodologiche di carattere for- 

male. Essa deve soltanto riflettere sul fatto che nelle scienze 

empiriche agli oggetti si contrappone sempre un soggetto cono- 

scente che — siano essi oggetti spirituali o corporei, processi 

naturali o prodotti culturali — li assume come « dati », e che il 

soggetto si prefigge il fine di conoscere questa o quella parte, o 

anche la totalità del mondo dato. Si riconoscerà allora facilmen- 

te che la conoscenza non consiste in una riproduzione o in una 

copia, ma in una comprensione trasformatrice degli oggetti. A 

dimostrarlo già basta, prescindendo da tutti gli altri motivi, la 

semplice riflessione che la realtà data — da cui muove ogni 

scienza empirica — si presenta, nella totalità come in ogni sua 



352 HEINRICH RICKERT 



parte, come una molteplicità sterminata che nessuno è in grado 

di riprodurre. Il contenuto di ogni giudizio che asserisca qual- 

cosa sulla realtà è necessariamente, in confronto alla realtà stes- 

sa, una grossa semplificazione. La scienza può perciò anche 

essere considerata come una trasposizione del materiale dato 

intuitivamente in immagini di pensiero, per le quali si preferi- 

sce usare il nome di concetto per distinguerle dall’intuizione. 

In questo processo di trasformazione concettuale consiste il me- 

todo della scienza. Inoltre — ed è questa la cosa principale — 

le forme del lavoro scientifico, in quanto strumenti per il 

conseguimento del fine scientifico, devono dipendere nel loro 

carattere specifico dalla specificità formale dei fini a cui il 

soggetto tende nel conoscere. La logica deve quindi indagare i 

compiti, formalmente diversi tra loro, che le diverse scienze si 

pongono e cercare di comprendere i metodi scientifici nella 

loro diversità come gli strumenti, necessariamente differenti, 

per il conseguimento di questi diversi fini o come i modi, 

anch'essi necessariamente differenti, della trasformazione e del- 

l’elaborazione concettuale del materiale intuitivamente dato. 

Ovviamente, le distinzioni metodologiche che ne risultano so- 

no, al pari delle distinzioni dei fini, puramente formali; ma 

proprio in virtù di questo loro carattere puramente formale 

esse devono valere come elementi fondamentali e decisivi per la 

comprensione dell’essenza logica di un metodo scientifico. La 

logica ha a che fare sempre e soltanto con le forme del pen- 

siero. 


Se da queste determinazioni generali del compito di una 

logica delle scienze particolari ci volgiamo ai concetti fonda- 

mentali che la logica della scienza storica deve sviluppare in 

modo particolare, sarà necessario in primo luogo recare alla 

coscienza la massima antitesi formale presente nella nostra con- 

cezione della realtà empirica, cioè chiedersi che cosa significhi 

logicamente quest’antitesi e indicare quale termine dell’antitesi 

sia determinante per la rappresentazione storica della realtà. 

Che vi siano due tipi sostanzialmente diversi di apprendimento 

della realtà, si può forse comprenderlo nel modo migliore guar- 

dando alle conoscenze pre-scientifiche che possediamo di una 

parte più o meno grande del mondo. Sarebbe illusorio credere 

di avere qui una copia della realtà quale essa è. Prima che la 



HEINRICH RICKERT 353 



scienza si accinga al suo lavoro è sorta già sempre qualche 

specie di elaborazione concettuale, e la scienza trova come pro- 

prio materiale i prodotti di questa elaborazione concettuale pre- 

scientifica, non la realtà libera da interpretazioni. La massima 

distinzione formale in questa elaborazione concettuale pre-scien- 

tifica è però quella seguente. La maggior parte delle cose e 

degli eventi ci interessano solamente per quello che hanno in 

comune con altri; e quindi noi facciamo attenzione a questo 

elemento comune, anche se di fatto ogni parte della realtà è 

individualmente diversa da ogni altra e nulla nel mondo si 

ripete esattamente. Poiché l’individualità della maggior parte 

degli oggetti ci è del tutto indifferente, noi non la conosciamo; 

per noi questi oggetti non sono che esemplari di un concetto di 

genere, che possono essere sostituiti da altri esemplari dello 

stesso concetto: anche se non sono mai identici, noi li vediamo 

come tali e quindi li designamo soltanto con nomi di genere. 

Questa delimitazione, a tutti nota, dell’interesse a ciò che è 

generale (nel senso di ciò che è comune a un gruppo di ogget- 

ti), o apprendimento generalizzante, sulla cui base riteniamo a 

torto che nel mondo esista qualcosa come l’identità e la ripeti- 

zione, è per noi al tempo stesso di grande valore pratico. Esso 

articola in un modo determinato la molteplicità e la policro- 

mia della realtà, e ci rende possibile di orientarci in essa. 

D'altra parte l'apprendimento generalizzante non esaurisce 

affatto ciò che ci interessa nel nostro ambiente, e che quindi 

conosciamo di esso. Questo o quell’oggetto viene piuttosto pre- 

so in considerazione proprio per quello che è ad esso peculia- 

re, e che lo distingue da tutti gli altri oggetti. Il nostro in- 

teresse e la nostra conoscenza si riferiscono quindi proprio alla 

sua individualità, a ciò che lo rende insostituibile; e se anche 

sappiamo che esso si lascia cogliere, al pari degli altri oggetti, 

come esemplare di un concetto di genere, tuttavia non voglia- 

mo considerarlo identico ad altre cose, ma vogliamo estrarlo 

espressamente dal suo gruppo: ciò trova la sua espressione lin- 

guistica nella designazione con un nome proprio anziché con 

un sostantivo di genere. Anche questo tipo di articolazione, o 

apprendimento individualizzante della realtà, è così corrente 

che non richiede una ulteriore analisi. Ma una cosa è importan- 

te e dev'essere sottolineata: la conoscenza dell’individualità di 



23. STORICISMO TEDESCO. 



354 HEINRICH RICKERT 



un oggetto non costituisce neppur essa una copia nel senso che 

noi conosciamo l’intera molteplicità del suo contenuto, ma an- 

che qui si compie una determinata scelta e trasformazione, 

cioè si estrae un complesso di elementi che, in questa partico- 

lare composizione, appartiene soltanto a quell’urico oggetto de- 

terminato. Dobbiamo quindi distinguere l’individualità che spet- 

ta a qualsiasi cosa o evento — il cui contenuto coincide con la 

sua realtà, e la cui conoscenza non può essere raggiunta né 

merita di essere oggetto di aspirazione — dall’individualità 

per noi significativa, e consistente di elementi determinati; e 

dobbiamo aver chiaro che questa individualità in senso stretto 

(la sola a cui di solito si allude) non costituisce una realtà, 

al pari del concetto di genere, ma è soltanto un prodotto del 

nostro apprendimento della realtà, della nostra elaborazione 

concettuale pre-scientifica. 


La distinzione qui illustrata deve suscitare in alto grado 

l'interesse della logica. In primo luogo, non soltanto ogni lavo- 

ro scientifico si richiama a processi pre-scientifici e ai loro risul- 

tati, ma dev'essere in larga misura inteso come elaborazione 

sistematica di ciò che è stato cominciato in modo non arbitra- 

rio. Inoltre tale distinzione è particolarmente significativa sia 

perché è puramente formale — in quanto qualsiasi oggetto può 

essere appreso in modo generalizzante e in modo individualiz- 

zante — sia perché, come antitesi tra generale e particolare, 

rappresenta la massima distinzione che si possa pensare da un 

punto di vista logico. Se deve avere un significato per i metodi 

delle singole scienze, la logica deve anche fare di esse il punto 

di partenza delle proprie indagini. 


Per quanto riguarda la considerazione generalizzante degli 

oggetti, non c'è alcun dubbio non soltanto sulla sua importan- 

Za pratica, ma anche sulla sua importanza teoretica per la 

scienza. Il metodo di molte scienze consiste in una subordina- 

zione del particolare al generale, che coincide con la formazio- 

ne di concetti di genere e con la considerazione degli oggetti 

come esemplari di questi. Conoscere significa allora comprende- 

re ciò che non è conosciuto come caso particolare di ciò che è 

noto, in modo da eliminare l’individuale, il singolare, e da 

accogliere nella scienza soltanto l'elemento comune. Il fine su- 

premo di questa conoscenza è di ricondurre la realtà da cono- 



HEINRICH RICRERT 355 



scere sotto concetti universali in modo che questi ultimi si 

uniscano, mediante rapporti di sovra-ordinazione e di subordi- 

nazione, in un sistema unitario, e che si tenda — dove è 

possibile — a concetti il cui contenuto valga ir modo incondi- 

zionatamente universale per gli oggetti da indagare. Dove si 

perviene a questo tipo di conoscenza, si è colto ciò che chiamia- 

mo le leggi della realtà. Del tutto legittimo è poi anche il 

tentativo di applicare questo metodo di comprensione a tutti i 

campi della realtà e di andare quindi ovunque alla ricerca di 

leggi, sia nella realtà spirituale o in quella corporea, sia nei 

processi naturali o nella vita culturale. Ciò può essere certamen- 

te più difficile in un campo che in un altro, e anzi qualche 

volta i concetti incondizionatamente universali sono inconoscibi- 

li all'uomo; ma la considerazione generalizzante non è mai 

esclusa in linea di principio, e da ciò sembra risultare una 

conseguenza metodologica fondamentale. Si può cioè conclude- 

re che il pensiero scientifico coincide con la formazione di 

concetti generali e che quindi, da un punto di vista puramente 

formale, esiste soltanto “r metodo scientifico. L’antitesi tra ap- 

prendimento generalizzante e apprendimento individualizzante 

avrebbe allora significato per la logica soltanto nella misura in 

cui la scienza elimina ovunque l’individuale mediante concetti 

generali; e proprio perché nella nostra analisi non si è tenuto 

alcun conto della peculiarità del materiale delle diverse scien- 

ze, la divisione consueta in scienze della natura e scienze dello 

spirito sembra svanire, almeno nel suo significato metodologico 

formale. Piuttosto, la vita spirituale dev'essere trattata in modo 

generalizzante al pari del mondo corporeo: perciò anche la 

scienza storica è naturalmente costretta ad applicare il metodo 

generalizzante. 


Di fatto, sono questi i motivi migliori su cui poggiare la 

proclamazione di un metodo universale, perché si tratta di 

motivi puramente formali e, nella misura in cui l’apprendimen- 

to generalizzante celebra i suoi massimi trionfi nelle scienze 

della natura, qui abbiamo nel medesimo tempo il miglior fon- 

damento del naturalismo metodologico. Ma una logica che vo- 

glia comprendere le scienze così come realmente esistono 

non si accontenterà di questo. Dal giusto principio che ogni 

realtà può essere sottomessa a una considerazione generalizzan- 



356 HEINRICH RICKERT 



te essa non concluderà che la formazione di concetti generali è 

senz'altro identica con il procedimento scientifico. Essa si chie- 

derà piuttosto se tutte le scienze applicano effettivamente que- 

sto procedimento e dovrà rispondere negativamente osservando 

il lavoro scientifico che è presente nelle opere di tutti gli stori- 

ci. Questo fatto è così evidente che anche i sostenitori di un 

metodo universale di tipo generalizzante o del naturalismo me- 

todologico non possono negarlo. Essi cercano di aiutarsi dicen- 

do che la scienza storica è oggi ancora imperfetta e per questo 

motivo non si adegua al sistema sopra indicato, ma che quanto 

più progredirà, tanto più si servirà anch'essa dell’unico meto- 

do scientifico, cioè del metodo generalizzante. Questo punto di 

vista è però insostenibile, e non soltanto — come si deve sem- 

pre sottolineare nel modo più energico — per il fatto che la 

realtà di cui la storia tratta non può essere ricondotta sotto 

concetti generali — e infatti questa è un’affermazione indimo- 

strabile per la logica che procede in modo formale — ma 

semplicemente perché rientra nell’essenza della scienza storica 

che, non appena comprende se stessa, essa non vole compiere 

un'elaborazione della realtà in riferimento a ciò che vi è di 

comune negli oggetti, e non vuole compierla perché su questa 

via non è mai possibile conseguire i fini che essa si pone in 

quanto storia. 


Ma quali sono questi fini, nel loro carattere formale? Se 

l'oggetto storico — si tratti di una personalità, di un popo- 

lo, di un’epoca, di un movimento economico o politico, religio- 

so o artistico — dev'essere rappresentato come una totalità, 

occorre in ogni caso coglierlo nella sua singolarità e nella sua 

individualità irripetibile, e assumerlo nella rappresentazione co- 

me se non potesse essere sostituito da nessun'altra realtà. Per- 

ciò la storia non può servirsi, se si prende in considerazione il 

suo fine ultimo, ossia la rappresentazione dell’oggetto nella sua 

totalità, del procedimento generalizzante, poiché questo coinci- 

de con un’esclusione dell’individuale e conduce così al contra- 

rio logico di ciò a cui la storia aspira. È quindi ancora una 

volta del tutto indifferente che l’oggetto storico sia un oggetto 

corporeo o spirituale, un prodotto culturale o un processo natu- 

rale; importa solo che, dove è presente in generale un interesse 

storico per una qualsiasi realtà, si tende a una rappresentazione 



HEINRICH RICKERT 357 



con un contenuto individuale, perché questa soltanto si presta 

alla soluzione del compito proprio della scienza storica. Ciò 

non deve significare che la storia cerchi di fornire una copia 

dell’individualità del suo oggetto: tanto poco essa potrebbe in- 

fatti ottenerla, quanto poco nelle conoscenze pre-scientifiche 

possediamo copie degli oggetti designati con nomi propri. Né 

deve significare che la storia rappresenti il suo oggetto indivi- 

dualizzandolo in tutte le sue parti, ma vuol dire che viene 

anzitutto presa in considerazione soltanto l’individualità del 

tutto e che questa non coincide affatto, se prescindiamo dall’i- 

dea di una copia, con la somma delle individualità delle sue 

parti. Infine, non si può negare che per raggiungere il suo fine 

la storia ha bisogno di concetti generali e procede in modo 

generalizzante, così come, all’inverso, nelle scienze generaliz- 

zanti non si può fare a meno della rappresentazione dell’indivi- 

duale come punto di partenza per la formazione di concetti 

generali. Si deve provvisoriamente rendere consapevole il carat- 

tere logico del fize ultimo di ogni rappresentazione storica, 

e la struttura logica del risultato che necessariamente corrispon- 

de a questo fine. 


Se si va alla ricerca di esempi, è naturalmente del tutto 

indifferente l’«indirizzo » a cui appartiene l’opera storica che 

si prende in considerazione. Prendiamo la Weltgeschichte di 

Ranke o Les origines de la France contemporaine di Taine, la 

Deutsche Geschichte im 19. Jahrhundert di Treitschke! o la 

History of Civilisatton in England di Buckle, la Begrindung 

des Deutschen Reiches durch Wilhelm I di Sybel! o la Caltur 



15. Heinrich von Treitschke (1834-1896), storico tedesco, autore del volume Die 

Gesellschaftswissenschaft, ein kritischer Versuch (1858), della Deutsche Geschichte 

im 19. Jahrkundert (1879-95), degli Historische und politische Aufsitze (1886-97), 

delle Vorlesungen iiber Politi (pubblicate postume nel 1897-98) e di numerosi altri 

scritti, fu il maggiore rappresentante della storiografia ottocentesca tedesca di ispi- 

razione nazionalistica. Egli si richiama a Hegel per formulare una concezione dello 

stato come fine supremo della società, polemizzando contro il liberalismo e negando 

la possibilità di una scienza sociale autonoma nei confronti della scienza politica. 


16. Heinrich von Sybel (1817-1895), storico tedesco, autore della Geschichte des 

ersten Kreuzzuges (1841), di Die Entstchung des deutschen Konigtums (1844), della 

Geschichte der Revolutionszeit, 1789-1800 (1853-79), di Die Begriindung des deut- 

schen Reiches durch Wilhelm I (1889-94) e di varie altre opere, fu uno dei 

principali rappresentanti del punto di vista nazionale-liberale nella storiografia 

tedesca dell'Ottocento; nel 1856 fondò la « Historische Zeitschrift ». Sotto il profilo 



358 HEINRICH RICKERT 



der Renaissance in Italien di Burckhardt, lo Scharnhorst di 

Max Lehmann" o la Deutsche Geschichte di Karl Lamprecht: 

ovunque, in corrispondenza ai titoli delle opere, che indicano 

la totalità storica, troviamo una serie di avvenimenti trattati 

così come si sono svolti una sola volta nel mondo e — quale 

che sia il modo in cui li ha plasmati lo storico — rappresentati 

nella loro particolarità e individualità. Forse che la Deutsche 

Geschichte di Lamprecht (il quale crede di lavorare con un 

metodo nuovo) contiene come elemento costitutivo soltanto ciò 

che è dato trovare in altri esemplari del concetto generico di 

nazione, vale a dire nello sviluppo del popolo francese, inglese 

o russo, e ciò che si è ripetuto spesso e si ripeterà in tempi 

diversi e in luoghi diversi? Basta porre questa domanda per 

vedere che anche uno storico che rifiuta in teoria la concezione 

« individualistica », nella prassi tratta sempre il suo oggetto in 

modo individualizzante. Ma tale procedimento, che appartiene 

all'essenza di ogni rappresentazione storica, non è applicato in 

nessun'opera di discipline non storiche — sia che si occupino di 

corpi o della vita spirituale. La Lehre von den Tonempfindun- 

gen di Helmbholtz ! o il Keimplasma di Weismann", la Medizi- 



metodologico è importante il suo saggio Uber den Stand der neueren deutschen Ge- 

schichtsschreibung (1856). 


17. Max Lehmann (1845-1929), storico tedesco, fu allievo di Droysen e soprat- 

tutto di Ranke; insegnò a Marburg e poi a Gòttingen. Le sue opere principali sono 

Ja biografia di Scharnhorst (Leipzig, 1886-87) — alla quale si riferisce Rickert nel 

testo — e un'altra importante biografia di Stein (apparsa nel 1902-1905). 


18. Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-1894), fisico, anatomista 

e fisiologo tedesco, autore del volume Uber die Erhaltung der Kraft (1847), dello 

Handbuch der physiologischen Optik (1856-67), di Die Lehre von den Tonempfin- 

dungen als physiologische Grundlage fiir die Theorie der Musik (1863), dei Populàre 

wissenschafiliche Vortrige (1865-76), delle Wissenschafiliche Abhandiungen (1882-95), 

e di numerosi altri scritti, fu uno dei maggiori scienziati della scconda metà del- 

l’Ottocento. I suoi contributi vanno dalla fisica (scoprì la legge della conservazione 

dell'energia) all'elettrologia, dalla geometria all'ottica geometrica, dall'anatomia alla 

fisiologia del sistema nervoso. 


19. August Weismann (1834-1914), zoologo e biologo tedesco, autore di Uber die 

Berechtigung der Darwinschen Theorie (1868), di Uber den Einfluss der Isolierung auf 

die Artbildung (1872), delle Studien zur Deszendenztheorie (1875-76), di Die Konti- 

nuiràt des Keimplasmas als Grundlage einer Theorie der Vererbung (1885), di Uber den 

Riickschritt in der Natur (1886), degli Aufsitze tiber Vererbung (1892), di Das Keim- 

plasma (1892), di Die Allmacht der Naturziichtung (1893), di Uber Germinalselektion 

(1896), dci Vortrige tiber Deszendenziheorie (1902) e di varie altre opere, si richiamò 

a Darwin, di cui riprese e sviluppò la teoria della selezione naturale. È considerato 

uno dei fondatori della genetica moderna. 



HEINRICH RICKERT 359 



nische Psychologie di Lotze”® o la Entwicklungsgeschichte der 

Tiere di von Baer”, il Treatise on Electricity and Magnetism 

di Maxwell? o Gemeinschaft und Gesellschaft di Tonnies — 

nell’esposizione definitiva tutte queste opere considerano nei 

loro oggetti — come risulta già dai titoli — soltanto ciò che 

consente di ritenerli eguali ad altri esemplari dello stesso concet- 

to di genere, e di cui si può quindi dire che si ripete a piaci- 

mento. Che vi siano non soltanto scienze generalizzanti dello 

spirito, ma anche scienze individualizzanti dei corpi, non ha 

alcuna importanza in questo contesto. Noi non ci occupiamo 

della differenza tra spirito e corpo, ma soltanto della diffe- 

renza formale dei fini e dei metodi scientifici; e anche ai 

fanatici del metodo scientifico sarà difficile rifiutare la differen- 

za che abbiamo indicato. È quasi inconcepibile che si possa 

ancora discuterne. 


Stabiliamo quindi come punto di partenza di una logica 

della storia che non soltanto nelle nostre conoscenze pre-scienti- 

fiche vi sono due modi di apprendimento della realtà distinti 

in linea di principio, quello generalizzante e quello individua- 

lizzante, ma che ad essi corrispondono due modi di elaborazio- 

ne scientifica della realtà differenti nei loro fini ultimi e così 

pure nei loro risultati ultimi. Ciò non vuol dire ovviamente che 

si debbano separare tra loro due gruppi di scienze, in modo 

che ne risulti al tempo stesso il principio di una divisione del 

lavoro scientifico. Distinzione logica non significa divisione 

reale, e l’antitesi formale non deve né può servire alla divisione 

reale, poiché quest’ultima si collega a differenze oggettive del 

materiale, non già a differenze logiche. È quindi del tutto 

erroneo combattere il valore logico dell’antitesi dicendo che 

essa frantumerebbe il lavoro scientifico in modo contraddittorio 

rispetto ai fatti e che vorrebbe separare ciò che di fatto è 



20. Rickert si riferisce qui alla Medizinische Psychologie oder Physiologie der 

Scele, Leipzig, 1852. 


21. Karl Ernst von Bacr (1792-1876), zoologo c biologo tedesco, autore di Uber 

Entwicklungsgeschichte der Tiere (1828-37), delle Reden und kleine Aufsàtze (1864-76), 

del volume Zum Streit îîber den Darwinismus (1873), delle Studien auf dem Gebiete 

der Naturwissenschaften (1874). 


22. James Clerk Maxwell (1831-1879), fisico inglese, autore del Treatise on 

Electricity and Magnetism (1873), di Matter and Motion (1876) c di varie altre opere, 

diede un contributo decisivo alla formulazione della teoria elettromagnetica della luce. 



360 HEINRICH RICKERT 



ovunque in un rapporto di cooperazione. Si tratta soltanto del- 

la distinzione concettuale di due diverse tendenze di apprendi- 

mento nelle scienze, che possono molto spesso, e fors’anche 

sempre, cooperare di fatto; e questa distinzione concettuale sa- 

rebbe necessaria anche se non si potessero separare due tipi di 

scienze neppure in riferimento ai loro fini ultimi. 


Se si cerca ora di determinare in modo più preciso l'essenza 

del procedimento individualizzante, occorre anzitutto porre in 

rilievo che il metodo della scienza non coincide con quell’ap- 

prendimento individualizzante della realtà che possediamo nel- 

le nostre conoscenze pre-scientifiche. Anche nel caso dell’ap- 

prendimento generalizzante noi parliamo di metodo soltanto 

dove l'elaborazione concettuale viene compiuta sistematicamen- 

te. Che cosa corrisponde nella storia a quella connessione siste- 

matica di concetti più o meno generali? Nell’indicazione di 

questi elementi che costituiscono la scientificità del metodo indi- 

vidualizzante la logica della storia dovrà scorgere — una volta 

che abbia trovato il suo punto di partenza — il suo ulteriore 

compito. Qui si potranno naturalmente porre in luce soltanto 

alcuni punti che in tempi recenti hanno dato occasione a que- 

stioni controverse, e che sono particolarmente adatti a chiarire 

la differenza del procedimento individualizzante da quello ge- 

neralizzante. Cominciamo con un'ulteriore analisi del concetto 

che abbiamo posto in risalto fin dall’inizio: il concetto di 

totalità storica. 


L'individualizzazione pre-scientifica estrae spesso gli oggetti 

dal loro ambiente in modo da separarli l’un l’altro e quindi da 

isolarli. Ma l'elemento isolato in quanto tale non è oggetto di 

interesse scientifico, e nulla è più sbagliato che identificare il 

metodo individualizzante con il mettere insieme fatti isolati — 

così come fanno i suoi avversari. Piuttosto la storia, al pari 

delle scienze generalizzanti, deve cogliere tutto in una connes- 

sione. Ma in che cosa consiste la connessione storica? A parti- 

re da ogni oggetto storico essa si estende in certo modo lungo 

due dimensioni, che si potrebbero designare come la dimensione 

della larghezza e quella della lunghezza; occorre cioè anzitut- 

to stabilire le relazioni che uniscono l'oggetto con il suo a1- 

biente e poi seguire nel loro legame reciproco i diversi stadi 

che percorre dall'inizio alla fine, ossia, come si usa dire, impa- 



HEINRICH RICKERT 361 



rare a conoscerne lo sviluppo. Certamente, un oggetto così 

rappresentato è poi, a sua volta, parte di un ambiente più 

grande e di uno sviluppo anteriore, e lo stesso vale poi per 

questa connessione più comprensiva, di modo che scorge una 

serie a due dimensioni che conduce fino ai limiti della totalità 

storica ultima. Dove stia questo limite, non è ancora possibile 

chiarirlo con i concetti finora acquisiti. In una specifica ricerca 

storica il punto dove si cessa di perseguire la connessione stori- 

ca dipende dalla scelta del tema. Qui si tratta provvisoriamente 

soltanto di fissare il concetto di una connessione storica in gene- 

rale come connessione di una serie evolutiva di stadi diversi 

reciprocamente connessi, concepita nel legame col proprio am- 

biente. 


Ciò è tanto più necessario quanto più sono derivati di qui 

errori largamente diffusi sull'essenza del metodo storico. La 

connessione può essere definita, in antitesi ai singoli oggetti, 

come l’elemento generale della storia; e da ciò è poi sorto il 

punto di vista secondo cui anche la scienza storica procederebbe 

in modo generalizzante. L'inserimento di un oggetto nel suo 

ambiente — così come lo storico lo compie — è un processo 

estraneo al procedimento delle scienze generalizzanti. Il mi- 

lieu è sempre individuale, e viene preso in considerazione 

dallo storico nella sua individualità. Esso è generale soltanto 

nel senso che i singoli individui in esso inseriti ne costituisco- 

no le parti. Ma che il rapporto della parte con il tutto non sia 

identico al rapporto tra l'esemplare e il concetto di genere ad 

esso sovra-ordinato, è cosa che non dovrebbe richiedere discus- 

sione. Proprio perché la storia deve sempre considerare il parti- 

colare nel generale, cioè considerarlo come elemento di un tut- 

to, essa deve venir assegnata (in riferimento ai suoi fini ulti- 

mi) alle scienze individualizzanti: lo stesso risultato si ricava 

da una considerazione dello sviluppo storico. Anche lo sviluppo 

è generale soltanto nel senso che costituisce una totalità la 

quale comprende le sue parti. Nella storia lo sviluppo significa 

sempre il sorgere di qualcosa di nuovo, di qualcosa non mai 

esistito finora; e poiché nei concetti di legge entra soltanto ciò 

che può essere considerato come qualcosa che si ripete a piaci- 

mento, i concetti di sviluppo storico e di legge si escludono a 

vicenda. Soltanto l’equivocità del termine «sviluppo» rende 



362 HEINRICH RICKERT 



possibile unificare un procedimento storico-evolutivo con un 

procedimento scientifico fondato su leggi e parlare di «leggi 

dello sviluppo »; per esempio dove — come nell’embriologia sto- 

rico-evolutiva » — si guarda alle serie evolutive per quel che han- 

no di comune, e dove quindi z07 si deve prendere in considera- 

zione il divenire storico del nuovo nel suo carattere specifico. In 

breve, gli sviluppi storici non sono altro che individualità storiche 

concepite nel loro divenire e nel loro crescere, e pertanto la 

loro rappresentazione è possibile, analogamente a quella della 

connessione con l’ambiente storico, soltanto con un metodo in- 

dividualizzante. Anzi, la connessione storica « generale » non 

è che la totalità storica stessa, non già un sistema di concetti 

universali: la storia considera appunto sempre questa totalità 

nella sua particolarità, nella sua singolarità e nella sua indivi- 

dualità. 


Se poi indaghiamo anche sul ruolo che i concetti generali 

hanno nella scienza storica, ci imbattiamo anzitutto nel fatto 

che tutti gli elementi dei giudizi e dei concetti storici sono 

generali. E tali devono essere già perché li si indica con parole 

generalmente comprensibili, e perché le parole debbono la loro 

comprensibilità soltanto al fatto di possedere un significato ge- 

nerale, cioè comune a più oggetti. La storia lavorerà quindi 

sempre con concetti generali di realtà, che costituiscono gli 

elementi ultimi dei propri concetti individuali, e perverrà alla 

loro rappresentazione individualizzante solo mediante una de- 

terminata combinazione di questi elementi generali. Ma ciò 

non esaurisce ancora il significato dei concetti generali nella 

storia. Essi risultano indispensabili proprio anche per istituire 

la connessione storica. Il nesso reciproco dei diversi stadi di una 

serie storico-evolutiva o di un oggetto storico con il suo ambiente 

è sempre un legame causale, e la scienza storica deve rappresen- 

tare questi rapporti di causa ed effetto per esprimere il legame 

delle parti con la totalità. Certamente non di rado si afferma 

che gli oggetti dell'indagine storica — o una parte di essi — 

sono esseri « liberi » e che perciò lo storico non dovrebbe inda- 

garne le connessioni causali. Tuttavia, anche prescindendo dal- 

la questione se il concetto di libertà sia da identificare in gene- 

re con quello di assenza di causa, e se il problema della libertà 

non debba essere trasferito dalla filosofia teoretica all’etica, in 



HEINRICH RICKERT 363 



ogni caso il concetto di assenza di causa non ha alcun senso per 

una scienza empirica. Anche la storia deve presupporre che 

ogni suo oggetto sia l’effetto necessario di avvenimenti prece- 

denti, e deve quindi indagare anche la connessione causale. 


Ancora una volta ci imbattiamo in un punto che può suscita- 

re molte questioni controverse. Si è cioè proclamata l’esistenza 

di un « metodo causale » della storia che dovrebbe essere analo- 

go al metodo delle scienze generalizzanti. Ciò può essere ritenu- 

to esatto soltanto se si identifica il concetto di causalità con il 

concetto di conformità a leggi. Se si fa questo, certamente ogni 

scienza che indaghi connessioni causali — e quindi anche la 

storia — è una scienza di leggi; ma questa identificazione non 

ha alcuna legittimità. Per possedere realtà empirica, i legami 

causali devono piuttosto essere realtà individuali, poiché non vi 

sono altre realtà al di fuori di quelle empiriche individuali. 

Invece le leggi sono sempre generali e possono perciò valere, se 

devono essere più che concetti, soltanto come realtà metafisi- 

che. Ma la dottrina del metodo deve mantenersi libera da pre- 

supposti metafisici; essa può quindi parlare soltanto di legami 

causali individuali in quanto realtà empiriche e di leggi in 

quanto concetti generali. L'espressione « metodo causale» — 

che è particolarmente usata come antitesi al procedimento « te- 

leologico» — è perciò un'espressione polemica che non dice 

nulla, proprio perché ogni scienza empirica ha a che fare con 

connessioni causali, e le connessioni causali in quanto tali sono 

ancora indifferenti rispetto alle differenze di metodo: esse per- 

mettono, al pari di ogni altra realtà empirica e individuale, sia 

un apprendimento generalizzante sia un apprendimento indivi- 

dualizzante. 


Ma — e con ciò ritorniamo al significato dei concetti genera- 

li — anche se ogni connessione causale storica tra due stadi di 

una serie storico-evolutiva è un processo in cui la causa produ- 

ce qualcosa che non esisteva prima, la rappresentazione di que- 

sti nessi causali storici è possibile, al pari di ogni rappresenta- 

zione dell’individuale, soltanto utilizzando elementi concettuali 

che abbiano ognuno per sé un contenuto generale e che solo nella 

loro composizione particolare esprimono l’individualità del rea- 

le; nella rappresentazione di legami causali individuali si ag- 

giunge invece qualcosa che richiede di fatto l’uso di concetti 



364 HEINRICH RICKERT 



generali in un senso particolare. Lo storico non vuole cioè 

indicare soltanto la successione temporale di causa ed effetto, 

ma anche acquisire uno sguardo sulla recessità con cui da 

questa causa individuale e irripetibile scaturisce quest’effetto in- 

dividuale e irripetibile; e qui non si può evitare una deviazione 

attraverso concetti generali di rapporti causali ed eventualmen- 

te attraverso leggi causali. Per quanto il legame causale non 

possa essere generalmente designato come realtà empirica, per 

esprimere scientificamente la sua necessità noi possediamo soltan- 

to lo «schema» spaziale e temporale del « dovunque» e del 

« sempre », e perciò alla rappresentazione scientifica anche della 

necessità causale individuale si collega sempre la formazione di 

un concetto generale o (dove si può pervenire ad essa) di una 

legge causale generale — circostanza che spiega al tempo stesso 

il consueto scambio tra legge e causalità. Ciò costringe anche 

la storia, se vuol gettare un ponte tra una causa individuale e 

il suo effetto individuale in modo che la connessione causale si 

lasci cogliere come necessaria, a impiegare concetti generali di 

connessioni causali. Essa raggiunge il proprio fine scomponen- 

do il concetto dell’oggetto individuale — che dev'essere colto 

come effetto necessario — nei suoi elementi sempre generali e 

poi connettendo questi elementi, egualmente generali, del con- 

cetto della causa individuale, in modo che ognuno di questi 

legami tra elementi concettuali generali esprima la connessione 

causale necessaria delle realtà ad essi sottoposte. Fatto que- 

sto, la storia ricompone gli elementi generali del concetto di 

causa, considerati di per sé, in un concetto che rappresenta 

l'individualità di questa causa: essa ottiene in tal modo, 

mediante una deviazione attraverso concetti causali generali, 

una prospettiva scientifica sul legame necessario della causa sto- 

rica individuale con l’effetto storico individuale. Ovviamente, 

in questo modo è stato indicato soltanto un ideale logico la cui 

realizzaziorie può essere raggiunta solo parzialmente dove non 

si riesce a collegare causalmente tutti gli elementi del concetto 

di effetto a elementi del concetto di causa; e quindi soltanto di 

rado potrà scomparire dalle rappresentazioni storiche un resi- 

duo causalmente non derivabile. In casi del genere si parla 

anche di libertà, perché manca la possibilità di scorgere la 

necessità causale. Non sì può in questa sede discutere più da 



HEINRICH RICKERT 365 



vicino quali mezzi la storia possegga per cogliere nel modo più 

compiuto possibile la necessità di un nesso causale storico, e in 

quale rapporto stia quindi con le scienze generalizzanti. Ma è 

fin d’ora chiaro che anche per lo storico è importante la cono- 

scenza di leggi causali — circostanza che spiega perché si vuol 

fare della storia una scienza di leggi. Altrettanto chiaro è però 

che con questa importanza dei concetti di legge non cambiano 

per nulla i fini della storia. I prodotti del pensiero generalizzan- 

te sono per essa sempre soltanto deviazioni o strumenti e servo- 

no, al pari degli elementi generali dei concetti storici, a una 

rappresentazione che vuol cogliere la totalità storica in modo 

individualizzante. 


Neppure mediante un'esposizione di tutti i casi in cui il 

procedimento generalizzante è soltanto mezzo di una rappre- 

sentazione individualizzante si potrebbe esaurire il significato 

che i concetti generali hanno nella storia. Ciò che si prende in 

considerazione nella sua singolarità e individualità è sempre e 

soltanto la totalità storica, non già tutte le sue parti. Molte di es- 

se non vengono rappresentate dalla storia qualora non abbiano 

alcun significato per l’individualità del tutto, e anche la mag- 

gioranza delle parti rappresentate viene raccolta sotto concetti 

generali di gruppo. Anzi, si può sostenere che in una rappresen- 

tazione storica non c'è bisogno che siano presenti concetti di 

oggetti parziali, i quali contengano soltanto ciò che è singolare 

e individuale, e che in essa si formano esclusivamente concetti 

di gruppo che contengono ciò che è comune a una pluralità di 

oggetti. Tali concetti di gruppo sorgono necessariamente quan- 

do lo storico non sa abbastanza degli avvenimenti che rappre- 

senta per poter penetrare nella loro individualità, ed è perciò 

costretto ad accontentarsi di un concetto generale. Ma in moltis- 

simi casi, e forse anche in tutti, lo storico vuole formare di 

fatto un unico concetto di gruppo, e allora sembra procedere, 

anche riguardo al suo fine, in modo generalizzante. In relazio- 

ne a ciò si può meglio comprendere anche una questione assai 

dibattuta. Si è ritenuto che la « vecchia tendenza » della storio- 

grafia sia «individualistica », ma soltanto perché attribuisce 

troppo valore ad avvenimenti politici o di altro genere, e quin- 

di a singole persone. La « nuova » tendenza dovrebbe, per non 

rimanere in superficie, occuparsi di meno delle azioni politi- 



366 HEINRICH RICKERT 



che di singole personalità e di più dei movimenti di massa, 

penetrando così l'essenza autentica dello sviluppo culturale. AI 

vecchio metodo « individualistico » si contrappone pertanto un 

nuovo metodo « collettivistico », e questo viene valutato, proprio 

perché forma soltanto concetti generali, come il nuovo metodo 

della storia, l’unico veramente scientifico e da tempo in uso nel- 

le scienze naturali. 


Ammettiamo pure, per comprendere il significato logico di 

questo punto di vista, che sia vero che lo storico operi soltanto 

con concetti di gruppo — infatti questa proposizione è logica- 

mente assurda come quella secondo cui la storia dovrebbe for- 

mare un sistema di concetti generali — e immaginiamoci per 

esempio una rappresentazione della Rivoluzione francese che 

tenga conto soltanto dei movimenti di massa, perché ciò che le 

singole persone hanno compiuto appare inessenziale. Si potreb- 

be allora dire che la storia procede realmente, in base al nuovo 

metodo, in maniera non soltanto collettivistica ma anche gene- 

ralizzante, come una scienza naturale? Tanto ovvia quest'idea 

appare ai rappresentanti del nuovo metodo, altrettanto essa è 

falsa, perché — e questo motivo è sempre determinante — sol- 

tanto le parti della totalità possono essere ricondotte a concetti 

generali. Anche una storia che proceda in maniera collettivisti- 

ca considera sempre la totalità nella sua individualità, e anche 

i concetti generali di gruppo devono venir formati in modo da 

essere adatti alla rappresentazione dell’individualità del tutto. 

Di metodo generalizzante si potrebbe parlare soltanto nel caso 

che si dovesse rappresentare una rivoluzione qualsiasi e non 

già — come presupponiamo e come dobbiamo presupporre fin- 

ché la rappresentazione ha carattere di storia — questa determi- 

nata Rivoluzione francese, che ha avuto inizio nel 1789 e così 

via. La contrapposizione tra metodo « individualistico » e meto- 

do « collettivistico » è quindi fuorviante. Tutti gli storici proce- 

dono in modo più o meno collettivistico, e lo hanno sempre 

fatto. La circostanza che oggi qualcuno lavora il più possibile 

con espressioni generali come quelle di epoche e di movimenti 

di massa, parlando soltanto di fattori psico-sociologici e dichia- 

rando inutilizzabile ogni « psicologia individuale » (che del re- 

sto soltanto i dilettanti possono porre in relazione con la conce- 

zione « individualistica » della storia), per dare a intendere a 



HEINRICH RICKERT 367 



sé e agli altri di procedere al modo della scienza naturale, può 

forse dar luogo a una storia vaga e indeterminata oppure con- 

durre, trascurando le personalità essenziali, a una falsifica- 

zione diretta dei fatti, ma non può cambiare per nulla il carat- 

tere individualizzante del metodo storico. Dobbiamo anzi fare 

un passo più in là. Anche i concetti generali di gruppo impiega- 

ti dalla storia non sono — pur contenendo soltanto ciò che è 

comune a una pluralità di oggetti — concetti generali nel senso 

di quelli che forma una scienza generalizzante procedente in 

modo sistematico. Lo storico può cioè ritenersi soddisfatto di 

un concetto di gruppo soltanto se in esso è già contenuta nel 

medesimo tempo l’individualità di tutti gli elementi di tale 

gruppo, per lui significativa nella connessione storica. Perciò il 

fine in riferimento al quale sono formati i concetti storici di 

gruppo non costituisce una generalizzazione del tipo di quella 

compiuta dalle scienze generalizzanti, bensì una rappresentazio- 

ne dell’individualità di gruppo. Anche questi concetti generali 

sono sempre prodotti di un procedimento individualizzante, 

nella misura in cui il principio che determina i loro elementi 

può essere compreso soltanto in base ai fini della storia indi- 

vidualizzante. Si può anche designarli come concetti collettivi 

individualizzanti, per distinguerli sia dai concetti collettivi ai 

quali si tende nelle scienze generalizzanti, sia dai concetti gene- 

rali impiegati strumentalmente nella storia. 


Questa distinzione può forse suonare un po’ sofistica finché 

non si sarà trattato di un altro aspetto del metodo storico. 

Occorre cioè richiamare ora l’attenzione sulla circostanza, già 

rammentata, che l'apprendimento individualizzante non consi- 

dera tutta la molteplicità individuale di una realtà, ma compor- 

ta una scelta trasformatrice. Alla base di questa scelta e di questa 

trasformazione dev'esserci nella scienza storica un principio, e 

soltanto il suo chiarimento esplicito completerà la comprensio- 

ne dell’essenza logica del metodo storico. 


Per pervenire a un tale principio riflettiamo nuovamente 

sulle nostre conoscenze pre-scientifiche. Esse dipendono dall’inte- 

resse che il nostro ambiente suscita in noi. Ma che cosa vuol 

dire avere interesse per gli oggetti? Vuol dire che non ci li- 

mitiamo a rappresentarceli, ma che li riferiamo al tempo stes- 

so alla nostra volontà e li poniamo in relazione con le nostre 



368 HEINRICH RICKERT 



valutazioni. Dove apprendiamo qualcosa in modo individualiz- 

zante, la particolarità dell'oggetto deve in qualche modo essere 

collegata con valori che non sono collegati a loro volta con 

nessun altro oggetto; se ci arrestiamo a un apprendimento gene- 

ralizzante, il collegamento con il valore dipende soltanto da 

ciò che è allo stesso modo presente in altri oggetti e che può 

quindi essere sostituito da altri esemplari del medesimo concet- 

to di genere. Questo è l’aspetto non ancora illustrato della 

differenza tra apprendimento generalizzante e apprendimento 

individualizzante: anche in riferimento ad esso i due metodi 

scientifici mostrano un’antitesi di principio. 


Se dalla generalizzazione pre-scientifica si procede a subordi- 

nare scientificamente gli oggetti a un sistema di concetti genera- 

li, non soltanto si astrae dall’interesse per ciò che è singolare e 

individuale, ma si allenta sempre più, con il progredire del 

processo di formazione del sistema, il legame dell’elemento co- 

mune a più oggetti con i valori. Se cioè ogni concetto generale 

è subordinato a un concetto ancor più generale, e se alla fine 

tutti i concetti sono ricondotti al concetto generalissimo verso 

cui tende l’indagine, allora anche gli oggetti per i quali il 

sistema deve valere possono essere considerati come egualmente 

forniti di valore o egualmente privi di valore: infatti il princi- 

pio che determina ciò che è essenziale in un oggetto non può 

più essere ora l'interesse originario, ma può essere soltanto la 

posizione che l’oggetto assume nel sistema di concetti generali. 

La divisione tra essenziale e inessenziale, originariamente com- 

piuta sempre in base a punti di vista valutativi, viene così 

respinta da una scienza generalizzante, e al tempo stesso sosti- 

tuita dal fatto che l'elemento generale o comune coincide ora, 

in quanto tale, con l’essenziale. Lo svincolarsi degli oggetti da 

tutte le relazioni di valore costituisce perciò l’altro aspetto, 

non ancora considerato, del metodo generalizzante, e ci indica 

contemporaneamente l’altro aspetto, non ancora considerato, del- 

l’individualizzazione scientifica. Può quest’ultima egualmente 

distinguersi dall’individualizzazione pre-scientifica per il fatto 

di svincolare gli oggetti da tutti i valori? Non si scorge in virtù 

di quale principio diverso dalla relazione di valore debba sorgere 

l'apprendimento individualizzante. Se sciogliamo un oggetto da 

tutte le connessioni con i nostri interessi, esso potrà venir conside- 



HEINRICH RICKERT 369 



rato semplicemente come esemplare di un concetto generale. 

L’individuale può diventare essenziale soltanto in riferimento a 

un valore, e quindi eliminando ogni relazione di valore si elimi- 

nerebbe anche l’interesse storico e la storia stessa. Viene così alla 

luce non soltanto una connessione necessaria tra considerazione 

generalizzante e considerazione avalutativa, ma anche una con- 

nessione altrettanto necessaria tra apprendimento individualiz- 

zante e apprendimento legato ai valori: per cogliere la struttu- 

ra logica della storia anche sotto questo aspetto, occorre perciò 

conoscere più da vicino il tipo dei valori e del loro legame con 

gli oggetti storici. Anche qui è necessario, naturalmente, una 

volta accertato l’elemento comune presente nella relazione di 

valore pre-scientifica e scientifica, separarle nettamente tra loro. 


Che i valori abbiano nella scienza un ruolo determinante, 

anzi debbano essere princìpi dell’elaborazione concettuale, sem- 

bra contraddire l’essenza della scienza. A buon diritto proprio 

dallo storico si esige che rappresenti le cose il più « oggettiva- 

mente » possibile, e per quanto questo fine non possa essere 

raggiunto completamente da nessuno, si può però in ogni caso 

indicarlo come ideale logico. Come si accorda con tutto ciò 

l’affermazione che le relazioni di valore appartengono all’essen- 

za del metodo storico? Per comprendere questo fatto occorre 

chiarire che c’è un tipo di relazione di valore che non coincide 

con una presa di posizione e con una valutazione pratica, e che 

gli oggetti possono essere riferiti ai valori anche in maniera 

puramente teoretica. Certamente, se dalla molteplicità del rea- 

le si trae fuori questo elemento come essenziale, e si lascia 

in disparte quell’ altro come inessenziale, si può sempre de- 

signare tutto ciò come una presa di posizione nei confron- 

ti della realtà, nella misura in cui l’essenziale è ciò che è 

fornito di valore per la conoscenza scientifica. Ma questo tipo 

di valutazione non manca in nessuna elaborazione concettuale 

della scienza — sia essa generalizzante o storica — perché il 

fine della scienza deve sempre valere come valore per conferire 

un senso al lavoro scientifico. Se si vuol comprendere nella sua 

particolarità l’essenza della relazione di valore nella scienza 

storica si deve perciò prescindere totalmente da questa valuta- 

zione, per quanto importante la sua presenza possa essere per 

la trattazione di altri problemi filosofici. Qui importa soltanto 



24. STORICISMO TEDESCO. 



370 HEINRICH RICKERT 



stabilire se, per il fatto che l’individualità di un oggetto di- 

venta essenziale in virtù del riferimento a un valore, ne derivi 

necessariamente anche una valutazione positiva o negativa del- 

l'oggetto; e a tale domanda occorre rispondere in modo decisa- 

mente negativo. La rappresentazione storica implica una rela- 

zione di valore soltanto nella misura in cui l'oggetto, appreso 

in modo individualizzante, ha un qualche significato per un 

valore; ma non ha bisogno di pronunciarsi sul fatto se esso 

possegga un valore positivo o negativo e può quindi prescinde- 

re del tutto da ogni valutazione, che dev'essere sempre positiva 

o negativa. Noi dobbiamo distinguere con precisione la valuta 

zione pratica e la relazione puramente teoretica di valore. An- 

zi, se pensiamo che non conosciamo mai la realtà così com’era, 

ma che ogni conoscenza è già una trasformazione della realtà, 

diventa chiaro che non si può disputare del valore positivo o 

negativo di un’individualità se tra coloro che disputano non c’è 

già un comune apprendimento individualizzante della realtà, 

sorto da una relazione di valore puramente teoretica e indipen- 

dente dalla diversità delle loro valutazioni pratiche; altrimenti 

non si disputerebbe affatto della stesse individualità. Perciò, 

quanto il conoscere teoretico e la valutazione positiva o negati- 

va sono due processi distinti in linea di principio, tanto poco 

la relazione puramente teoretica di valore è in contraddizione 

con la conoscenza scientifica. Lo storico non valuta i suoi 

oggetti in quanto storici, ma trova di fronte a sé dei valori — 

come quelli dello stato, delle organizzazioni economiche, del- 

l’arte, della religione ecc.; e in virtù della relazione teoretica 

degli oggetti con questi valori, vale a dire in riferimento al 

fatto se e come la loro individualità significhi qualcosa per 

questi valori, la realtà si articola ai suoi occhi in elementi 

essenziali e inessenziali, senza ch’egli debba pronunciare un 

giudizio di valore diretto, positivo o negativo, sugli oggetti. 


L'essenza della relazione di valore storica diventa del tutto 

chiara se fissiamo ancora un secondo punto, in virtù del quale 

l’individualizzazione scientifica si distingue da quella pre-scien- 

tifica; e già i concetti di valore prima utilizzati come esempi 

vi alludono. La relazione teoretica di valore nella storia non è 

soltanto indipendente da una valutazione positiva o negativa, 

ma deve anche essere 207 arbitraria sotto un altro punto di 



HEINRICH RICKERT 371 



vista, cioè in riferimento ai valori con cui gli oggetti vengono 

posti in relazione. Ciò si consegue però solamente in quanto lo 

storico articola la realtà in elementi essenziali e inessenziali in 

relazione a valori universali, ossia a valori quali quelli incorpo- 

rati negli esempi sopra indicati dello stato, dell’arte, della reli- 

gione ecc. Per quanto ciò sia in fondo semplice, anche di qui 

sono sorte molte contese e molte incomprensioni. In particola- 

re, si è ancora una volta ritenuto che il metodo della storia sia 

un metodo generalizzante a causa dell’universalità dei valori. 

Certamente — così si può giustificare questo punto di vista — 

lo stato è per esempio un concetto generale, e se gli eventi 

storici vengono rappresentati come eventi politici, l’elemento 

politico in essi presente, in virtù del quale sono storicamente 

essenziali, è pur sempre l'elemento comune. Così essi vengono 

ricondotti sotto il concetto generale di politico nello stesso mo- 

do in cui nelle scienze generalizzanti gli oggetti vengono appre- 

si come esemplari di un concetto di genere. È veramente giusto 

questo? È esatto che valori universali sono nel medesimo tem- 

po concetti generali. Ma, in primo luogo, la storia non si 

prefigge mai di formare o anche soltanto di ordinare sistemati- 

camente questi concetti universali di valore, come dovrebbe 

fare se fosse una scienza generalizzante; essa si trova già di 

fronte concetti universali di valore, e solamente la filosofia del- 

la storia, non già la scienza storica empirica può — come 

vedremo avanti — porsi il compito di pervenire a un sistema di 

concetti universali di valore. Inoltre — e questa è la cosa princi- 

pale — l’universalità del valore non ha per la storia il significa- 

to di contenere ciò che è comune a più valori particolari: 

importa soltanto il fatto che la storia riferisce i suoi oggetti a 

valori i quali valgono come valori per tutti coloro a cui si 

rivolge, o per lo meno vengono da tutti intesi come valori. Del 

resto, il riferirsi degli oggetti ai valori conduce a un apprendi- 

mento individualizzante, poco importa che i valori siano pura- 

mente individuali oppure universali nel senso indicato: questa 

differenza riguarda infatti soltanto la validità dei valori, non 

già la struttura logica della relazione di valore. In breve, che 

per giungere a risultati universalmente validi la scienza storica 

abbia bisogno di valori universali non incide affatto sull’antitesi 

tra il metodo storico individualizzante riferito ai valori e il 



372 HEINRICH RICKERT 



metodo generalizzante avalutativo delle scienze di leggi. Volen- 

do, si può anzi dire che ogni scienza, per avere validità univer- 

sale, deve sempre «subordinare » il particolare all’universale. 

Ma questa frase è, per la sua indeterminatezza, molto equivoca 

e in ogni caso non dice nulla. Se si vuole adoperarla nella 

dottrina del metodo occorre distinguere rigorosamente una « su- 

bordinazione » generalizzante a concetti avalutativi di genere 

o di legge da una « subordinazione » individualizzante a concet- 

ti universali di valore; e la cosa migliore sarà di impiegare il 

termine « subordinazione » soltanto per designare il rapporto 

reciproco dei concetti generali e il rapporto dell’esemplare con 

il concetto di genere ad esso superiore, altrimenti possono sorge- 

re soltanto errori. 


Se con questa prospettiva più esatta sull’essenza del procedi- 

mento individualizzante ritorniamo ancora una volta ai concet- 

ti storici che sembravano costituire, per la generalità del loro 

contenuto, un’istanza negativa contro la caratterizzazione della 

storia come scienza individualizzante, è possibile comprendere 

meglio i concetti storici di gruppo nella loro differenza dai con- 

cetti storici di gruppo generalizzanti. Essi non hanno soltanto — 

come tutti i concetti relativi a parti storiche — lo scopo di espri- 

mere l’individualità del tutto storica a cui appartengono; ma an- 

che la scelta di ciò che è essenziale è determinata, nella loro for- 

mazione, dal valore universale dominante. In altri termini, non 

già l'elemento comune in quanto tale costituisce di per sé l’essen- 

ziale, ma la circostanza che il suo contenuto consiste dell’elemen- 

to comune a una pluralità di oggetti ha per unico fondamento il 

fatto che soltanto l’individualità del gruppo, e non l’individuali- 

tà delle singole parti, riveste significato per il valore universa- 

le, e che quindi già il concetto di gruppo contiene individualità 

sufficiente a esprimere ciò che è essenziale per la rappresentazio- 

ne individualizzante riferita ai valori. Il principio di elaborazio- 

ne concettuale dei concetti storici collettivi è quindi esattamen- 

te lo stesso che per tutti gli altri concetti storici: ancora una 

volta risulta quanto poco senso abbia definire collettivistico il 

procedimento della storia, in riferimento al suo carattere /ogi- 

co. La polemica tra il cosiddetto metodo collettivistico e il 

cosiddetto metodo individualistico è una polemica sul contenu- 

to della scienza storica, e non ha nulla a che fare con i proble- 



HEINRICH RICKERT 373 



mi logici del metodo. Anche una rappresentazione che proceda 

in modo puramente collettivistico non soltanto sarebbe — come 

si è già visto — individualizzante, ma sarebbe anche guidata, 

al pari di qualsiasi rappresentazione storica, da punti di vista 

valutativi. 


Il grosso ruolo che i punti di vista valutativi hanno nella 

storia viene del resto sempre più riconosciuto e meglio compre- 

so nei tempi recenti, anche se non sempre l’attenzione è rivol- 

ta ai due punti più importanti, cioè alla distinzione della rela- 

zione teoretica di valore dalla valutazione pratica e all’universa- 

lità dei valori. Naturalmente qui non è possibile trattare in mo- 

do esaustivo tutte le questioni connesse con i valori; ci limitere- 

mo però a porre in rilievo almeno due punti. 


Un'indagine logica non potrà mai proibire allo storico di 

oltrepassare la relazione teoretica di valore per assumere una 

posizione valutativa nei confronti dei suoi oggetti; e forse nessu- 

na rappresentazione storica è mai del tutto libera da valutazio- 

ni positive o negative. Si deve però anche stabilire che, dove 

sembra essere presente un giudizio di valore, non sempre si 

intendeva realmente formularlo. In ogni rappresentazione stori- 

ca si troveranno cioè proposizioni che accompagnano soprattut- 

to le azioni umane con un predicato di lode o di biasimo, che 

constatano qui un atto di bontà o di coraggio, là un delitto; e 

proprio questo sembra distinguere la storia dalle scienze di 

leggi, per le quali il vizio e la virtù sono prodotti quanto lo 

sono il vetriolo o lo zucchero. È anche chiaro che lo storico 

può prendere posizione con proposizioni del genere. Ma in 

moltissimi casi i predicati di valore servono soltanto all’accerta- 

mento di fatti e alla caratterizzazione puramente teoretica degli 

avvenimenti. Quando per esempio un’azione viene designata 

come criminale, ciò può anche voler dire che le fonti costringo- 

no ad assumere che siamo di fronte a un atto che generalmente 

si definisce delitto; e se un altro storico accompagna quest’azio- 

ne con un altro predicato, ciò non significa necessariamente che 

egli valuti altrimenti lo stesso stato di fatto, ma che egli può 

anche assumere un altro stato di fatto che poi deve, naturalmen- 

te, designare in modo diverso. Nella trattazione dei fattori 

valutativi presenti nella storia ci si dovrebbe porre in ogni caso 

la domanda se il predicato di valore ha realmente l’intenzione 



374 HEINRICH RICKERT 



di valutare, o se non serva piuttosto soltanto allo scopo di 

utilizzare il significato terminologico ad esso generalmente con- 

nesso per stabilire un fatto, nello stesso modo in cui ciò av- 

viene con significati che non possono essere impiegati a scopo 

di valutazione. 


Se quindi la comparsa di valutazioni può sembrare in parec- 

chi casi più frequente di quanto non sia in realtà, occorre 

d’altra parte porre in rilievo che in certo senso anche le valuta- 

zioni sono un elemento indispensabile della scienza storica. Se 

è certo che la relazione teoretica di valore non è una presa di 

posizione pratica e che perciò lo storico può sempre astenersi 

da qualsiasi valutazione dei suoi oggetti, altrettanto certo è che 

nell’ambito dei valori a cui riferisce i suoi oggetti egli dev’esse- 

re in qualche modo, anche come storico, un uomo che compie 

valutazioni. Nessuno che non ponga i valori politici in relazio- 

ne alle proprie valutazioni positive o negative, che non abbia 

cioè un qualche rapporto valutativo nei confronti di questioni 

politiche, scriverà o leggerà di storia politica: senza essere egli 

stesso un uomo che compie valutazioni in questo campo, non 

comprenderebbe infatti i valori che guidano la selezione del 

materiale storico, e non avrebbe quindi il minimo interesse 

storico per esso. Ma ciò che vale per la storia politica deve 

parimenti valere per la storia dell’arte, della religione, dell’eco- 

nomia ecc. Spesso ciò non viene neppur osservato, come certe 

cose evidenti: vi sono anzi molti storici i quali credono non 

soltanto di stare con i loro oggetti in un rapporto semplicemen- 

te conoscitivo, ma anche di essere, in quanto storici, puri spetta- 

tori. Di fatto lo storico si distingue dal ricercatore che procede 

in modo generalizzante anche perché nel suo lavoro non soltan- 

to deve riconoscere come valore il fine scientifico ch'egli perse- 

gue, ma prende anche posizione se non verso gli oggetti storici, 

almeno nei confronti dei valori universali a cui riferisce in 

modo individualizzante i suoi oggetti. Quale significato abbia 

per l’« oggettività » delle scienze storiche il fatto che c’è storia 

soltanto per esseri capaci di valutazione, in quale rapporto que- 

sta oggettività stia con l’oggettività delle scienze generalizzan- 

ti o scienze di leggi, le quali non hanno bisogno di riconoscere 

altro valore se non quello stesso della scienza generalizzante, 

non può venir discusso in questa sede. Qui si deve soltanto 



HEINRICH RICKERT 375 



comprendere la struttura logica della scienza storica quale esi- 

ste di fatto, e in particolare descrivere l’essenza del suo meto- 

do riferito ai valori e individualizzante, così come viene real- 

mente esercitato, e penetrare questo metodo nella sua necessità 

logica che risulta dai fini della storia. 


In base ai fondamenti indicati non si è finora parlato del 

carattere specifico del materiale storico, e non si è quindi nep- 

pure potuto rispondere alla questione del modo in cui pervenia- 

mo a rappresentare non soltanto in modo generalizzante, ma 

anche in modo individualizzante, il materiale di cui tratta- 

no le scienze storiche. Il motivo di ciò dev'essere finalmente 

indicato per rendere comprensibile l’essenza della scienza stori- 

ca, e ciò in quanto lo specifico carattere materiale degli oggetti 

storici può essere inteso in base all’essenza logica del metodo 

storico. Decisiva è qui, ancora una volta, la connessione dell’ap- 

prendimento individualizzante con l'apprendimento riferito ai 

valori. La rappresentazione individualizzante costituisce cioè 

un bisogno soprattutto dove più stretto è il nesso degli oggetti 

con i valori. Se ripensiamo all’elaborazione concettuale pre- 

scientifica, vediamo che essa è sempre caratterizzata dal fatto 

che sono in prevalenza uomini quelli che vengono considerati 

come individui, e che in questi uomini è particolarmente signifi- 

cativo in virtù della sua individualità ciò che è espressione 

della loro vita psichica. Anzi, il nostro apprendimento indivi- 

dualizzante è talmente dominato dall’interesse per la vita psi- 

chica degli uomini che equipara addirittura il concetto di indi- 

viduo con quello di personalità, e si è costretti a riflettere 

esplicitamente sul fatto che un qualsiasi oggetto mostra pari- 

menti un’impronta assolutamente individuale. Se e fino a qual 

punto la storia in quanto scienza che riferisce i suoi oggetti 

non a valori individuali puramente personali, ma a valori uni- 

versali, debba rappresentare le personalità, dipende soltanto da 

ciò che le personalità significano nella loro singolarità per i 

valori universali; perciò l’individualizzazione scientifica può al- 

lontanarsi di molto da quella pre-scientifica. Dal momento pe- 

rò che ogni storia viene fatta da uomini, anche la rappresenta- 

zione scientifica del singolare e del particolare dev'essere preva- 

lentemente rivolta alla vita psichica degli uomini; e questo è il 

motivo per cui le scienze storiche sono sempre state inserite tra 



376 HEINRICH RICKERT 



le «scienze dello spirito». Comprendiamo ora con tutta chia- 

rezza perché questa designazione esprime una caratteristica se- 

condaria dal punto di vista logico e non è neppure adatta, 

anche prescindendo da ciò, a caratterizzare in modo compiuto 

il materiale della scienza storica. Infatti non è soltanto la vita 

spirituale, ma è in misura prevalente Ja vita spirituale che 

interessa lo storico nella connessione con i processi corporei; 

inoltre non tutta la vita spirituale, e neppure tutta la vita 

psichica dell’uomo, ma soltanto una determinata e relativamen- 

te piccola parte della vita psichica degli uomini viene presa in 

considerazione come materiale da parte della scienza storica. 


Anche volendo limitare questa parte per conseguire una ca- 

ratterizzazione ancor più esatta del materiale storico, ciò può 

avvenire ancora una volta soltanto in base alla comprensione 

che abbiamo realizzato dell’essenza del metodo storico, e cioè 

appunto in riferimento alla particolarità dei punti di vista valu- 

tativi che nell’elaborazione concettuale individualizzante sono 

determinanti per la selezione di ciò che è essenziale. Il fatto 

che si tratti sempre di valori umani universali può venir espres- 

so anche dicendo che diventano storicamente essenziali soltanto 

gli oggetti che posseggono un significato in relazione a interes- 

si sociali. Perciò, in virtù della connessione storica delle parti 

con la totalità storica o con la società, l’oggetto principale della 

ricerca storica non è l’uomo in genere, concepito come svincola- 

to da essa, ma è l’uomo come essere sociale — e ciò soprattutto 

perché partecipa alla realizzazione dei valori sociali. Certamen- 

te, il concetto di societas dev'essere qui preso in senso tanto 

ampio da comprendere anche comunità come quelle degli scien- 

ziati o degli artisti. Se chiamiamo con il nome di cultura il 

processo con cui i valori sociali universali si realizzano nel 

corso dello sviluppo storico, l’oggetto principale della storia 

dev'essere la rappresentazione delle parti o della totalità della 

vita culturale umana, e ogni materiale storicamente importante 

deve avere un qualche legame con la vita culturale umana, 

poiché soltanto allora vi è un motivo per riferirla ai valori 

universali e indagarla nella sua particolarità e individualità. I 

valori che guidano la selezione di ciò che è essenziale nella 

storia devono perciò essere designati anche come valori cultura- 

li universali — così come li abbiamo incontrati, per esempio, 



HEINRICH RICKERT 377 



nei concetti di valore dello stato, del diritto, dell’arte, della 

religione, dell’organizzazione economica. S'intende che lo stori- 

co non può dire che cosa sia progresso culturale o regresso 

culturale, poiché in tal caso passerebbe dalla relazione teoreti- 

ca di valore alla valutazione pratica. Non c'è bisogno che i 

suoi ideali culturali assumano un'importanza determinante per 

l'elaborazione del suo materiale; ma egli dev'essere in grado di 

comprendere i valori culturali universali degli uomini e dei 

popoli che rappresenta, per poter separare l’essenziale dall’ines- 

senziale in virtù di una relazione puramente teoretica di valore. 

Inoltre l'indagine storica non è limitata ai processi culturali. 

Particolarmente quando occorre conoscere le cause degli avveni- 

menti storici, possono risultare significativi anche oggetti che ap- 

partengono semplicemente alla « natura », e che diventano im- 

portanti proprio con riguardo alla loro individualità: per esempio 

la particolarità del clima di una determinata regione, la posizio- 

ne geografica di un paese, e così via. Ma per trovare posto in 

una rappresentazione storica questi oggetti devono sempre sia 

connettersi causalmente con processi culturali sia essere conside- 

rati nel loro significato per i valori culturali; e al centro di 

una scienza individualizzante resterà sempre una qualche parte 

dello sviluppo singolare della vita culturale. Che con ciò non sì 

intenda affatto vantare un particolare « metodo storico-cultura- 

le», come oggi sovente vien fatto in antitesi al metodo della 

storia politica, non richiede un’esplicita assicurazione. La logi- 

ca non può decidere la questione del « campo di lavoro specifi- 

co» della storia, e neppure perviene alla questione dell'essenza 

del metodo storico. Se si vuol parlare di un’antitesi tra storia 

politica e storia culturale in genere, l’una e l’altra devono però 

applicare il medesimo procedimento individualizzante; può sol- 

tanto darsi che la storia culturale, nel senso più ristretto in cui 

oggi talvolta la si intende, applichi concetti di gruppo in misu- 

ra più ampia di quanto non faccia la storia dei processi politi- 

ci. Noi sappiamo però che un numero maggiore o minore di 

concetti di gruppo non cambia per nulla l’essenza del metodo 

storico. A prescindere da ciò, non è affatto stabilito che la 

storia culturale sia configurata in modo più « collettivistico » 

della storia politica. 


Tali questioni hanno a che fare con la dottrina del metodo 



378 HEINRICH RICKERT 



soltanto nella misura in cui devono essere tenute scrupolosamen- 

te lontane dalle indagini logiche. Il dilettantismo logico dei 

giorni nostri ha anche qui prodotto disorientamento, ma non 

possiede ancora un'importanza tale da giustificare un esame 

più ravvicinato in questa sede. Il termine « cultura » viene qui 

usato nel senso che la vita politica è una parte della vita cultu- 

rale in genere. Esso non designa altro che l’insieme degli oggetti 

che hanno un significato diretto per la realizzazione dei valori 

universali e che, a causa di questa relazione di valore, non 

possono mai essere rappresentati in modo esaustivo da una 

scienza generalizzante, ma richiedono invece di essere appresi 

da una scienza individualizzante. Con ciò è subito chiaro in 

qual senso la scienza storica sia una necessità per gli uomini 

civili. L'uomo civile riferirà sempre la realtà ai valori culturali 

universali, cosicché deve sorgere la domanda relativa al modo 

in cui si è compiuta la realizzazione della cultura nel suo 

sviluppo singolare: a tale questione può dare risposta soltanto 

la storia individualizzante, mai una scienza generalizzante. 



II. I PRINCÌPI DELLA VITA STORICA 



Se guardiamo ancora una volta indietro, utilizzando i con- 

cetti che abbiamo fornito si può delineare un sistema delle 

scienze empiriche in cui alla storia è assegnato — in riferimen- 

to sia al suo metodo che al suo materiale — un posto stabile; 

sulla base di questa prospettiva si possono comprendere e af- 

frontare gli altri gruppi di problemi di filosofia della storia. 

Dal punto di vista del metodo le scienze particolari procedono 

o in modo generalizzante e sistematico o in modo individualiz- 

zante e quindi non sistematico. Il loro materiale consiste o di 

oggetti naturali, svincolati dai valori, o di processi culturali, 

che sono invece riferiti a valori. Questo è soltanto uno schema 

generalissimo: non si deve quindi dire — si dovrà sempre 

sottolinearlo — che le diverse discipline lavorano in modo esclu- 

sivamente generalizzante o esclusivamente individualizzante, 

che trattano soltanto di oggetti naturali o soltanto di processi 

culturali, e che gli oggetti naturali devono essere rappresentati 

soltanto in forma generalizzante e i processi culturali soltanto 



HEINRICH RICKERT 379 



in forma individualizzante. Al contrario, i diversi metodi sono 

strettamente congiunti nella trattazione dei diversi materiali, e 

i princìpi di divisione qui forniti possono collegarsi in maniera 

differente. Il procedimento generalizzante parte da fatti indivi- 

duali, mentre quello individualizzante ha bisogno di concetti 

generali come strumenti di rappresentazione e di connessione. 

Accanto alle scienze naturali generalizzanti vi sono discipline 

che trattano dei processi naturali in modo individualizzante e 

quindi, anche se mediatamente e indirettamente, in riferimento 

ai valori, come per esempio la storia dell'evoluzione degli orga- 

nismi; e viceversa la vita culturale può, nonostante la relazio- 

ne di valore, essere sottoposta a una rappresentazione generaliz- 

zante. Anzi, anche prescindendo del tutto dalla psicologia, mol- 

te delle cosiddette scienze dello spirito — come per esempio 

almeno in parte la linguistica, la giurisprudenza, l'economia — 

sono scienze culturali non certo storiche, ma sistematiche; il 

loro metodo non coincide necessariamente con quello delle 

scienze naturali generalizzanti, e la loro struttura logica costi- 

tuisce quindi uno dei problemi più difficili e interessanti della 

dottrina del metodo. Ma per quanto grande possa essere la 

varietà delle aspirazioni scientifiche che la logica non deve 

criticare, ma semplicemente riconoscere come fatti, e per quan- 

to i princìpi logici di divisione debbano quindi limitarsi a 

distinguere concettualmente ciò che è strettamente connesso nel- 

la realtà, la storia — la quale tratta degli uomini, delle loro 

istituzioni e delle loro imprese — può essere solamente designa- 

ta, con riguardo ai suoi fini ultimi, come scienza individualiz- 

zante della cultura. Il suo scopo è sempre la rappresentazione 

di una serie di sviluppo singolare, più o meno comprensiva; e i 

suoi oggetti sono essi stessi” processi culturali oppure stanno in 

relazione con valori culturali. In tal modo questa scienza risul- 

ta in linea di principio distinta per il suo contenuto da tutte 

le scienze naturali, procedano esse in modo generalizzante o indi- 

vidualizzante, e metodologicamente distinta anche da tutte le 

scienze culturali che trattano i loro oggetti in modo sistematico. 

La logica della storia deve muoversi entro questo quadro. Soltan- 

to allora essa può penetrare che cosa è realmente la storia, e sol- 

tanto così può essere utile a una filosofia che voglia comprendere 

il significato della storia reale per la soluzione dei suoi problemi. 



380 HEINRICH RICKERT 



La costruzione di scienze del futuro, oggi particolarmente cara 

alla logica della storia, non ha invece alcun valore né per la 

ricerca particolare né per la filosofia, se non quello di un esem- 

pio scoraggiante. 


Anche la questione dei princìpi dell’accadere storico, che 

prendiamo ora in esame, può trovare risposta soltanto se ci si 

appoggia sul concetto di ciò che viene di fatto rappresentato 

come storia dalle scienze storiche. Già sappiamo che questi 

princìpi vengono cercati o in leggi generali o nel senso genera- 

le della vita storica. Se si vuole pervenire a chiarezza sui compi- 

ti della filosofia della storia come dottrina dei princìpi, occorre 

determinare che cosa si può intendere quando si parla di legge 

oppure di storia, e chiedersi che cosa meriti il nome di princi- 

pio della storia. Ne risulterà che l’alternativa tra legge e senso 

della storia, al pari della lotta tra metodo generalizzante e 

metodo individualizzante, investe le due tendenze principali 

contrapposte della filosofia della storia contemporanea, e che la 

decisione in questo scontro dipende essenzialmente, ancora una 

volta, dalla comprensione dell'essenza logica della scienza stori- 

ca empirica. 


Il termine «legge» appartiene a quelle espressioni la cui 

equivocità ha dato occasione a molteplici oscurità e fraintendi- 

menti. Mentre nell’identificazione tra legge e causalità la causa- 

lità viene unilateralmente considerata come forma dell’appren- 

dimento generalizzante, esiste d’altra parte un uso linguistico 

secondo cui « conforme a legge » equivale senz'altro a « necessa- 

rio ». Il termine può allora designare la necessità di ciò che è 

singolare e particolare, e anche la necessità di un imperativo o 

di un valore. Pretendere di vietare in ogni caso quest’uso sareb- 

be pedantesco, e non avrebbe successo. Nella filosofia, però, 

bisognerebbe evitarlo almeno nei punti decisivi; e in ogni caso, 

se alla filosofia della storia viene posto il compito di cercare le 

leggi della storia, ciò ha un senso chiaro soltanto se per legge 

si intende la legge naturale. La necessità della legge non signifi- 

ca allora la necessità di una realtà individuale, ma universalità 

incondizionata di un concetto, e più precisamente il nesso ne- 

cessario di almeno due concetti generali e il nesso necessario 

delle realtà corrispondenti soltanto nella misura in cui la legge 

dice che, quando un oggetto individuale mostra tra le altre 



HEINRICH RICKERT 381 



caratteristiche anche quelle che costituiscono gli elementi di un 

concetto generale, con esso è dovunque e sempre connesso real- 

mente un altro oggetto che, tra le altre caratteristiche, pos- 

siede anche quelle che costituiscono gli elementi dell’altro con- 

cetto generale. In breve, la conoscenza della legge è la forma di 

apprendimento della realtà a cui tende, come ideale supremo, 

ogni scienza generalizzante della natura. 


Che la scienza storica empirica non si ponga mai il fine 

ultimo di trovare leggi in quest’accezione, già lo sappiamo. Lo 

storico che fa questo cessa di essere storico e di volere una 

rappresentazione storica del suo oggetto. Perciò, dal momento 

che scienza storica empirica e scienza di leggi si escludono 

concettualmente tra loro, si può dire che il concetto di « legge 

storica » contiene una contradictio in adiecto — dove ovviamen- 

te il termine «storico» ha soltanto il senso formale o logico 

già indicato, e questo principio riveste carattere logico anche 

nella misura in cui è indipendente non soltanto da ogni idea 

sul materiale della storia, ma anche da ogni visione sull’essen- 

za della realtà in genere. Esso vale tanto presupponendo il 

materialismo o il parallelismo psico-fisico quanto presupponen- 

do una metafisica spiritualistica o una dottrina metafisica della 

libertà. Anche la storia di un oggetto le cui leggi ci fossero 

note senza alcun residuo non consisterebbe mai di queste leg- 

gi, ma le utilizzerebbe soltanto come mezzi. 


Ma ciò che vale per la scienza storica empirica non vale 

necessariamente per la filosofia della storia. Poiché è logicamen- 

te legittimo rivestire ogni realtà con un sistema di concetti 

generali, e poiché non occorre essere seguaci del materialismo o 

del parallelismo psico-fisico per ritenere possibile che ogni esse- 

re accessibile alle scienze empiriche possa venir ricondotto a 

leggi generali, sembra che si possa senz'altro ritenere che il 

filosofo della storia — il quale, in quanto filosofo, non è uno 

storico, ma ha sempre a che fare con l’universale — scopra 

leggi valide per lo stesso materiale che le scienze storiche empi- 

riche tendono ad apprendere in modo individualizzante. Dal 

momento che tale materiale è costituito principalmente dalla 

vita sociale degli uomini, da ciò sorge l’idea di una sociologia 

come filosofia della storia che ricerca leggi — un'idea che è più 

vecchia della terminologia di Comte, ma che trova molti segua- 



382 HEINRICH RICKERT 



ci anche ai giorni nostri. Per tale via, questi sociologi cercano 

una conoscenza che conduca al di là delle singole rappresenta- 

zioni storiche, con la loro aderenza al particolare, e penetri 

l'essenza universale di tutto lo sviluppo storico. Evidentemente 

— così ritengono almeno i più cauti rappresentanti di questo 

punto di vista — la conoscenza storica di ciò che è singolare e 

individuale non è priva di valore, ma costituisce, al contrario, 

l'indispensabile fondamento di una considerazione ulteriore — 

ossia costituisce, dal punto di vista della filosofia della storia, 

soltanto il fondamento, il lavoro preparatorio. Su questa base si 

deve poi innalzare l’edificio di una filosofia della storia com- 

prensiva, che abbracci nelle sue leggi il ritmo e quindi i princì- 

pi di tutta la vita storica. 


Se passiamo a valutare questo punto di vista, vediamo infat- 

ti che, se il termine «storico» designa non già il metodo, 

ma il materiale della storia, il concetto di legge storica non 

contiene per lo meno nessuna contraddizione logica; e in ogni 

caso è un'impresa del tutto legittima ricercare le leggi della 

vita sociale degli uomini. Del tutto diverso è però chiedersi se 

abbia un senso designare come princìpi dell’accadere storico le 

leggi eventualmente trovate attraverso la considerazione genera- 

lizzante del materiale che la storia rappresenta in modo indivi- 

dualizzante, e se sia quindi corretto chiamare la sociologia col 

nome di filosofia della storia. Questa è qualcosa di più che una 

questione terminologica; e se ad essa si risponde affermativa- 

mente in base al principio che si possono trovare leggi per 

ogni realtà, quindi anche per gli oggetti delle scienze storiche, 

si trascurano due punti d'importanza decisiva. I princìpi storici 

devono cioè essere in primo luogo princìpi della cultura e in 

secondo luogo princìpi dell'universo storico. Sono appropriate 

a tale scopo le leggi nel senso di leggi naturali? 


Ciò che soprattutto importa può venir chiarito nel modo 

migliore se si ripensa al fatto che né la conoscenza pre-scientifi- 

ca, né una qualsiasi conoscenza scientifica della realtà empirica 

riproduce questa realtà quale esiste indipendentemente dalla 

nostra elaborazione concettuale, ma che ogni conoscenza si co- 

stituisce soltanto in virtù di un apprendimento che trasforma 

la realtà. Nel suo processo di formazione la scienza può essere 

guidata soltanto dai fini che si è posta come scienza generaliz- 



HEINRICH RICKERT 383 



zante o individualizzante, e una scienza generalizzante potrà 

quindi sperare di pervenire a leggi soltanto se si libera da tutti 

gli interessi per la realtà che non siano quelli indirizzati a 

determinare concetti incondizionatamente generali per il pro- 

prio campo. Essa deve poter separare ciò che ad altri modi di 

apprendimento appare connesso, e deve comprendere sotto un 

concetto ciò che in rapporto ad altri interessi non sembra 

avere assolutamente nulla in comune. Quanto essa si allontani 

così dall’apprendimento pre-scientifico risulta particolarmente 

chiaro allorché si determinano le leggi più comprensive. Basta 

considerare che le scienze di leggi conducono a una separazio- 

ne di principio dell’elemento fisico spaziale dall’elemento psi- 

chico inesteso, e quindi alla rappresentazione di due mondi tra 

i quali non è più possibile istituire alcuna connessione reale, 

mentre per il nostro apprendimento pre-scientifico — e anche 

per il nostro apprendimento storico — i due campi sono inscin- 

dibilmente legati tra loro. Oppure si pensi come il trattamento 

imposto dalle scienze di leggi faccia sempre più scomparire il 

carattere di cosalità della nostra immagine del mondo e intro- 

duca al suo posto, in misura crescente, concetti di relazione. 

Una scienza della vita sociale degli uomini richiederà evidente- 

mente, in linea di principio, la medesima libertà di trasforma- 

re la realtà mediante l’elaborazione concettuale generalizzan- 

te; se ciò viene applicato al suo rapporto con la vita storica, ne 

risulta che la sociologia — nel caso che voglia essere al tempo 

stesso filosofia della storia — non possiede questa libertà di 

distruggere ogni forma di apprendimento della realtà diversa 

da quella determinata dal suo fine di una conoscenza di leggi. 


Se della sociologia si deve realmente poter dire che tratta il 

medesimo materiale della storia, essa dovrà per lo meno cercare 

le leggi della vita culturale, in quanto ogni scienza storica ha a 

che fare o con processi culturali o con realtà che sono in relazio- 

ne con questi. Ma la cultura non è affatto una realtà libera da 

interpretazioni, che possa venir sottomessa a una qualsiasi elabo- 

razione e trasformazione concettuale; da una parte la cultura è 

una sezione determinata della realtà, di cui non si sa se per 

essa, e soltanto per essa, valgano concetti di legge, dall’altra 

tale sezione è una realtà già articolata e trasformata in modo 

ben determinato da valori culturali. Chi può dire se questa 



384 HEINRICH RICKERT 



articolazione, dalla cui consistenza dipende se designamo una 

realtà come cultura, si conserva allorché cerca di farsi valere 

l'apprendimento generalizzante? Se però questo non avviene, 

allora la sociologia in quanto scienza di leggi rappresenta insie- 

me con l’altra vita sociale — non storica — anche la medesima 

realtà trattata dalla storia, ma non l’apprende come la medesi- 

ma realtà, ossia non la rappresenta come cultura; e quanto 

poco importi da questo punto di vista la comunanza del mate- 

riale, appare chiaro non appena si pensi che l'oggetto comune 

non è che una parte di quella sterminata molteplicità che, in 

quanto tale, non soltanto non può confluire in nessuna scienza, 

ma di cui possiamo parlare solo in generale, mai in particola- 

re, perché non la conosciamo libera da interpretazioni. C'è 

perciò non soltanto un’inconciliabilità tra metodo generalizzan- 

te e metodo individualizzante nelle scienze particolari, ma man- 

ca pure ogni garanzia di conciliabilità tra la considerazione 

delle scienze di leggi e la considerazione delle scienze della 

cultura; anzi a causa della stretta relazione tra pensiero indivi- 

dualizzante e pensiero riferito ai valori è, se non logicamente 

impossibile, almeno molto improbabile che i concetti di legge 

possano sempre coincidere nel loro contenuto con i concetti 

culturali generali. Con ciò è tolto il terreno, già in linea di 

principio, al programma di una sociologia intesa come filosofia 

della storia, la quale poggi sul principio che dev'essere possibile 

trovare leggi per una qualsiasi realtà. Il tentativo di determina- 

re leggi della vita sociale mantiene ovviamente il suo buon 

diritto, ma nulla ci autorizza a considerare queste leggi come 

princìpi della vita culturale, semplicemente perché sono leggi 

della medesima realtà libera da interpretazioni di cui tratta la 

storia. A ciò si può credere soltanto se, indulgendo a un inge- 

nuo realismo concettuale, si scambia il nostro apprendimento 

pre-scientifico e scientifico della realtà con la realtà stessa. 


Poiché in un certo senso qui non andiamo al di là delle 

possibilità logiche e — almeno secondo quanto si è detto finora 

— soltanto un caso miracoloso potrebbe far sì che i concetti di 

legge e i concetti culturali coincidano sempre, per giungere a 

chiarezza occorre ancora mostrare esplicitamente in quale caso 

ogni ricerca di leggi della vita culturale è priva di senso. Il 

punto decisivo sta nuovamente nel concetto del rapporto che la 



HEINRICH RICKERT 385 



totalità ha con le sue parti. Anzitutto, in quali casi l’apprendi- 

mento della realtà come cultura può accompagnarsi con l’ap- 

prendimento generalizzante? Dal momento che i valori cultura- 

li sono sempre, in quanto valori universali, anche concetti di 

contenuto generale, gli avvenimenti storici — i quali diventano 

essenziali in virtù della loro individualità in riferimento a un 

valore culturale universale — possono essere considerati come 

esemplari di questo concetto generale. Infatti, anche se il proce- 

dimento individualizzante è sempre riferito a valori, questo 

principio non può essere rovesciato in modo da affermare che 

ogni valore universale rende individualizzante la rappresenta- 

zione. Anche quei processi che vengono in luce, per esempio, 

in una storia dell’arte o del diritto possono essere visti come 

esemplari del concetto generale di «arte » o di « diritto»; e se 

in tal modo si deve sciogliere anche la relazione di valore che 

le cose hanno, in virtù della loro individualità, con il valore 

culturale di arte o di diritto, una rappresentazione generalizzan- 

te di questo tipo rimane tuttavia rappresentazione di processi 

culturali anche nel senso che essa considera gli oggetti co- 

me cultura; infatti il concetto culturale di arte o di diritto 

è ciò che delimita il campo e determina quali oggetti di- 

ventano esemplari di tale sistema di concetti generali. Ciò 

che vale per questi valori culturali può naturalmente valere 

anche per tutti gli altri: si può quindi pensare che quelle 

grandi unità della vita storica che chiamiamo popoli civili ven- 

gano tutte concepite come esemplari di un sistema di concetti 

generali in cui poi si esprimono le leggi che valgono per lo 

sviluppo sempre ricorrente d’un qualsiasi popolo civile. Certa- 

mente, per i motivi prima addotti, non si può mai chiamare 

tutto questo col nome di storia; inoltre, se tale compito viene 

indicato come possibile, si deve pensare soltanto alla possibilità 

logica, lasciando da parte le difficoltà di fatto che si oppongono 

a una siffatta impresa. Infatti qui importa solamente conce- 

dere al programma di una scienza della vita culturale fondata 

su leggi tutto quanto è pensabile per poi, fatto questo, poter 

decidere con maggiore sicurezza se la scienza di leggi a cui si 

aspira, concepita nella sua perfezione, sia in grado di soddisfa- 

re le pretese di una filosofia della storia come dottrina dei 

princìpi della vita storica. 



25. STORICISMO TEDESCO. 



386 HEINRICH IUCKERT 



Se si vuol rispondere a questa domanda occorre tener presen- 

te che la filosofia della storia, comunque si possa altrimenti 

determinare il suo compito, non dev'essere filosofia dell’oggetto 

di un'indagine storica particolare, bensì filosofia dell’oggetto 

di una storia universale, e deve al tempo stesso stabilire i 

princìpi dell’universo storico. Per universo storico si deve però 

in ogni caso intendere — per quanto indeterminato possa essere 

questo concetto — la totalità storica più comprensiva possibile, 

e quindi qualcosa di singolare e di individuale nel suo concetto, 

a cui ogni oggetto considerato da una scienza storica particola- 

re appartiene come elemento individuale; inoltre, dai princìpi 

della storia pretendiamo che siano i princìpi dell’unità di que- 

sto universo. Già da questo risulta che una scienza di leggi, in 

quanto dottrina dei princìpi storici, non soltanto incontra dif- 

ficoltà più o meno grandi, ma è anche logicamente impossibile. 

Non si obietti che anche la totalità dell’universo è, in base al 

suo concetto, qualcosa di singolare e che quindi, se quest’argo- 

mentazione fosse giusta, non dovrebbero esserci leggi che valgo- 

no — come assumiamo per esempio nel caso della legge di 

gravità — per la totalità dell’universo. Le scienze generalizzan- 

ti non hanno mai a che fare con la totalità dell’universo nel- 

lo stesso modo in cui la filosofia della storia ha a che fare 

con l'universo storico. Esse vanno alla ricerca di leggi soltan- 

to nel senso che vogliono stabilire ciò che vale per tutte le 

sue parti. Mai però pensiamo di considerare queste parti come 

elementi della totalità, e le leggi generali non possono affatto 

essere princìpi dell’unità di questo tutto. Quanto più esse sono 

generali, tanto più ogni parte è soltanto esemplare di un gene- 

re, ed è quindi sciolta da tutte le determinazioni che la rendo- 

no un elemento della totalità. Se assumiamo quindi che la 

sociologia abbia raggiunto il suo fine supremo e abbia trovato 

leggi per tutte le parti dell’universo storico, ad esempio per lo 

sviluppo di tutti i popoli civili, allora questi sarebbero diventa- 

ti per essa esemplari di un genere, e — in quanto esemplari — 

concettualmente isolati l’uno dall’altro. Essi non potrebbero ve- 

nir ricondotti all'unità dell’universo storico individuale, poiché 

come elementi di una connessione storica dovrebbero sempre 

essere individui, e le leggi trovate dalla sociologia non potrebbe- 

ro venir utilizzate come princìpi dell’unità degli elementi indi- 



HEINRICH RICKERT 387 



viduali dell’universo individuale. Il concetto di legge come prin- 

cipio dell'universo storico è quindi per la filosofia della storia 

logicamente assurdo, tanto quanto lo è il concetto di legge 

storica inteso come fine di una scienza storica empirica. Certa- 

mente la filosofia della storia guarda al « generale », ma soltan- 

to nella misura in cui essa ha a che fare con l'universo storico, 

e proprio perciò il suo oggetto rimane sempre uno sviluppo 

singolare e individuale, che ha come suoi elementi degli indivi- 

dui. La sociologia come scienza di leggi può quindi, per quan- 

to possa essere fornita di valore sotto altri aspetti, offrire alla 

storia concetti ausiliari per l’analisi di connessioni causali, ma 

non può mai prendere il posto della filosofia della storia. 


Da questo punto di vista devono essere valutati anche tutti i 

tentativi di riconoscere « fattori » o « forze » generali della vita 

storica. Dal momento che ogni storia tratta di uomini, e in 

ogni uomo si possono distinguere un aspetto corporeo e un 

aspetto spirituale, è evidentemente possibile effettuare una divi- 

sione di tali forze in fisiche e psichiche, e si potrà fors’anche 

dare con successo uno sguardo d’insieme ancor più specializza- 

to a quei fattori che agiscono nell’accadere storico. Ma, quale 

che sia il giudizio che si può dare nel singolo caso sul valore 

di tali sforzi, non soltanto è necessaria, a causa della separazio- 

ne tra apprendimento naturale e apprendimento culturale della 

realtà, la massima precauzione nell'impiego di tali teorie gene- 

ralizzanti, ma soprattutto non ci si deve mai illudere che que- 

ste forze e questi fattori generali siano — e neppure determini- 

no — ciò che è storicamente essenziale. Si tratta piuttosto sol- 

tanto di condizioni senza le quali non possono esserci avveni- 

menti storici; ma proprio perché sono condizioni assolutamente 

generali, non hanno interesse né per lo storico empirico né per 

il filosofo della storia. Così, per esempio, il calore del sole è 

un fattore che non possiamo eliminare da nessun avvenimento 

storico; e tutta la storia avrebbe avuto un corso diverso — anzi 

non ci sarebbe stata nessuna cultura — se gli uomini non si 

fossero potuti capire con il linguaggio. Ma il calore del sole 

e il linguaggio non sono certamente « princìpi storici ». È pro- 

prio il carattere di incondizionata generalità che toglie ad essi 

interesse storico. Anzi, prescindendo del tutto dal fatto che una 

scienza delle forze e dei fattori generali della vita sociale possa 



388 HEINRICH RICKERT 



essere chiamata filosofia della storia, si può ben dubitare che 

le molteplici conoscenze naturali, psicologiche e culturali che 

vengono qui prese in considerazione possano congiungersi in 

una scienza unitaria. Almeno finora questa scienza non esiste 

affatto, né ci sarà in futuro; e se lo storico sente il bisogno di 

una visione delle « forze » generali che agiscono nel campo di 

cui egli tratta, si rivolge alle scienze particolari generalizzanti, 

cioè all’antropologia, alla psicologia, alla sociologia e così via, 

che lo informeranno nel modo più preciso. 


Non recheremmo un contributo essenziale al chiarimento 

del principio generale a cui dobbiamo qui limitarci se preten- 

dessimo di approfondire nei particolari i diversi gruppi di pro- 

blemi considerati; si deve soltanto sottolineare ancora che lo 

storico può cercare insegnamento presso le scienze particolari 

generalizzanti solamente per quanto riguarda i fattori più o 

meno costanti della vita storica, mentre non deve attendersi 

dalle scienze generalizzanti alcuna risposta per parecchie que- 

stioni che si riferiscono all'essenza generale della vita storica 

— e in particolare per le questioni che vengono qualificate 

come problemi di filosofia della storia. Qui ci limitiamo a un 

esempio sul quale le più diverse tendenze della scienza storica 

empirica e della filosofia della storia cadono in errore. Si tratta 

della questione concernente il ruolo che hanno nella storia gli 

individui abitualmente designati in modo eminente come indivi- 

duo, cioè le singole personalità. Qui proprio la concezione che 

rifiuta sia la trattazione empirica sia la trattazione filosofica 

della storia in favore di una scienza di leggi ha interesse a 

sottolineare che questo problema non è suscettibile di una solu- 

zione generale in senso cosiddetto « individualistico »; e ciò ri- 

sulta ancora una volta da una prospettiva logica. Certamente è 

del tutto sbagliato dire che nella storia non interessano affatto 

le singole personalità, e che determinante è solamente la vita 

« generale » delle masse; ma altrettanto falso è cercare sempre i 

fattori decisivi nelle imprese di singole personalità e spiegare 

la storia — seguendo Carlyle — come una somma di biografie. 

Purtroppo, l’alternativa che qui viene in luce è molto spesso 

posta in connessione con la questione dell’essenza logica della 

storia, cosicché i rappresentanti del punto di vista secondo cui 

la storia procede in modo individualizzante (nel senso da noi 



HEINRICH RICKERT 389 



indicato) vengono al tempo stesso ritenuti seguaci di una storia 

di personalità; e invece il metodo individualizzante non ha il 

minimo rapporto con il culto degli eroi. Al contrario, proprio 

perché la storia è la scienza dell’individuale, la filosofia della 

storia non può decidere in favore dei grandi uomini la questio- 

ne del significato che posseggono le singole personalità. Il moti- 

vo è lo stesso che vieta di cadere nell’estremo opposto e di fare 

dell’elaborazione di concetti collettivi un principio di metodo. 

L'affermazione che importano sempre le personalità sarebbe 

anzi prodotto di un’elaborazione concettuale generalizzante, os- 

sia una legge storica. Per ogni aspetto particolare dell’accadere 

storico si deve indagare quali movimenti di massa e quali im- 

prese meramente personali abbiano avuto un’importanza deci- 

siva per i valori culturali dominanti: soltanto allora è possibile 

rispondere alla questione del significato dei singoli uomini per 

tutti gli aspetti particolari della storia. Di fatto, né le afferma- 

zioni generali sull’importanza decisiva delle masse, né quelle 

sul ruolo delle singole personalità devono la loro popolarità a 

un'elaborazione concettuale generalizzante; esse devono venir 

ricondotte a un’arbitraria unilateralità nel privilegiamento di 

questi o quei valori culturali, e quindi a una scelta arbitraria 

del materiale storicamente essenziale — come risulterà ancor 

più chiaramente rispondendo alla domanda sui princìpi della 

vita storica. 


Per quanto riguarda la questione del significato delle leggi 

storiche, concludiamo accennando ancora a un punto che ha 

dato parimenti occasione a dispute. Si tratta cioè ancora di 

mostrare che non soltanto certi problemi largamente trattati di 

filosofia della storia non ammettono nessuna decisione genera- 

le, ma che anche dove uno storico afferma un principio valido 

per ogni vita storica, non è affatto detto che si tratti sempre di 

un prodotto dell’apprendimento generalizzante. Prendiamo co- 

me esempio una tesi di Ranke che ha avuto una parte rilevan- 

te nella polemica sulle leggi storiche. Essa contiene — come 

dice von Below — una «verità universale: la nozione che la 

vita interna degli stati dipende in larga misura dai rapporti 

reciproci tra gli stati, dai rapporti mondiali », e viene al tem- 

po stesso designata come una scoperta scientifica di prim’ordi- 

ne. Ci si può chiedere se questa verità universale non sia una 



390 HEINRICH RICKERT 



legge storica, anche se soltanto nel senso, logicamente privo di 

contraddizione, di una legge valida per il materiale rappresenta- 

to in modo individualizzante dalla storia. Chi conosce la conce- 

zione storica di Ranke, risponderà negativamente a tale doman- 

da. Per questo grande storico i « rapporti mondiali » costituisco- 

no un complesso determinato di stati civili in connessione reci- 

proca, e Ranke considera come facenti parte del suo « mondo » 

storico soltanto gli stati che sono in connessione con questi 

stati civili, e che quindi ne sono anche influenzati. Nel princi- 

pio sopra menzionato — se esso deve valere in modo assoluta- 

mente generale ed essere quindi libero da ogni contenuto pro- 

priamente storico — abbiamo di fronte non già un prodotto 

della scienza generalizzante e una «scoperta» scientifica, ma 

soltanto la formulazione di un presupposto metodologico con 

cui Ranke si accosta, e deve accostarsi — se vuole trattare 

tutto in termini di storia universale, nel senso da lui inteso — 

alla rappresentazione individualizzante dei singoli stati. Lo stes- 

so vale per altre affermazioni generali, come per esempio quel- 

la che ogni individuo, per quanto grande, è rinchiuso entro 

confini dati dalla situazione culturale del suo popolo. Ciò è 

assolutamente evidente, poiché anche qui non si afferma altro 

che la connessione reale di ogni parte storica con la totalità 

storica. Un sistema di princìpi generali siffatti non potrebbe 

mai servire come scienza ausiliaria generalizzante della storia 

nella ricerca di connessioni causali, ma può soltanto contenere i 

presupposti che dobbiamo assumere se dev'essere in generale 

possibile la storia in quanto rappresentazione scientifica di con- 

nessioni storiche. Così si mostra nuovamente che non ha alcun 

senso cercare nelle leggi i princìpi dell’accadere storico. 


Ma proprio perché il rifiuto di una filosofia della storia 

come scienza di leggi è risultato come conseguenza necessaria 

della comprensione dell’essenza logica della storia, sembra con 

ciò di essere andati troppo in là nella dimostrazione. Infatti, 

per quanto false siano nel loro contenuto tutte le teorie sociolo- 

giche che pretendono di essere filosofia della storia, esistono di 

fatto dei tentativi di determinare leggi valide per la totalità 

singolare dello sviluppo storico, e questi sarebbero senz’altro 

impossibili se il concetto di una scienza di leggi come filosofia 

della storia contenesse una contraddizione logica. Ciò è certa- 



HEINRICH RICKERT 39I 



mente esatto, e pertanto occorre ancora mostrare che, laddove i 

princìpi dell’accadere storico sembrano determinati in forma di 

leggi, essi non sono mai enunciati, da un punto di vista 

formale, come leggi nel senso delle leggi naturali. E dal fatto 

che intendiamo ciò che qui è realmente presente deriva al tempo 

stesso una risposta alla questione di ciò che può essere designa- 

to come principio della vita storica. 


È caratteristico di quasi tutti i tentativi di trovare la legge 

naturale dell’universo storico il fatto che tale legge debba conte- 

nere contemporaneamente la formula del progresso della sto- 

ria: con ciò è subito posto in chiaro l’elemento essenziale. Si 

capisce quanto debba essere allettante abbracciare d’un solo col- 

po legge naturale, legge di sviluppo e legge di progresso, come 

credeva di aver fatto Comte con la sua legge dei tre stati — 

teologico, metafisico e positivo — e quanta popolarità goda quin- 

di ancor oggi questo tipo di sociologia, che promette di rende- 

re tanto. Ma si capisce anche, non appena si sia ottenuta chia- 

rezza sull’essenza logica della storia, che tali promesse non 

potranno mai essere mantenute. In primo luogo, progresso o 

regresso sono concetti di valore, più esattamente concetti che 

esprimono un incremento o una diminuzione di valore; e di 

progresso si può parlare soltanto se si possiede un criterio di 

valore. In secondo luogo, il progresso indica il sorgere di qual- 

cosa di nuovo, che non è mai esistito nella sua individualità. 

Ma il concetto di un criterio di valore, come concetto di ciò 

che dev'essere, non può mai coincidere con un concetto di 

legge, che contiene sempre ciò che è o deve necessariamente 

essere, e che non ha quindi alcun senso esigere. Dover essere 

ed essere necessariamente si escludono l’un l’altro sotto il proft- 

lo concettuale, e solamente a causa della già menzionata equivo- 

cità del termine «legge » si può parlare di una legge di progres- 


Inoltre il sorgere di qualcosa di nuovo, di non ancora 

esistito, non rientra in alcuna legge, poiché una legge contiene 

soltanto ciò che ricorre ripetutamente. Se per progresso si inten- 

de quindi in primo luogo il sorgere di qualcosa di nuovo e in 

secondo luogo un incremento di valore, e per legge una legge 

naturale, allora il concetto di legge di progresso è due volte 

logicamente assurdo. Quando l’universo storico è unificato in 

virtù di una «legge», articolato in riferimento al sorgere di 



392 HEINRICH RICKERT 



qualcosa di nuovo e designato come progresso, la legge non 

può mai essere una legge naturale. Perciò la «legge» di Com- 

te è anche di fatto una formula valutativa. Per lui il positivo 

vale come dover essere, come ideale assoluto. In base a questo 

egli considera lo sviluppo dell’umanità e stabilisce ciò che i 

suoi diversi stadi rappresentano di nuovo e di valido per la 

realizzazione del suo ideale. Una scienza di leggi, che deve 

sciogliere i propri oggetti da ogni vincolo valutativo e conside- 

rarli come esemplari indifferenti di un genere, non può fare 

nulla di simile. 


Qui non è possibile — e neppure necessario per il chiarimen- 

to del principio — illustrare criticamente i vari tentativi com- 

piuti per porre in luce presunte leggi come princìpi dell’accade- 

re storico e per dimostrare che queste leggi contengono, più o 

meno celati, concetti di valore, e quindi non sono leggi. Basti 

ricordare esplicitamente quello che è legato al nome di Darwin 

e che può essere definito come il tentativo di dare al concetto 

di sviluppo storico un carattere puramente naturalistico in vir- 

tù della dimostrazione che proprio la legge naturale dello svi- 

luppo garantisce il suo necessario incremento di valore. Ogni 

progresso da un livello inferiore a uno superiore è condizionato 

— così si sostiene — dalla legge universalmente valida della 

selezione, che sempre più elimina ciò che è cattivo e aiuta ciò 

che è buono a riportare la vittoria. Perciò tale legge deve nel 

medesimo tempo essere il principio dello sviluppo storico e del 

progresso. A parecchi ciò suona assai plausibile, ma non occor- 

re pervenire a un'illustrazione più ravvicinata delle idee sulla 

cui base si sono ottenuti i più diversi concetti di progresso per 

mostrare che siamo qui dinanzi a un fraintendimento totale 

della biologia di Darwin. Se questa teoria deve fornire una 

spiegazione puramente naturalistica, essa deve rinunciare a qual- 

siasi teleologia dei valori, e quindi anche evitare completamente 

l'impiego di concetti valutativi come «superiore » e « inferio- 

re». La selezione naturale non elimina affatto ciò che è cattivo 

conservando il buono, ma aiuta semplicemente a far vincere il 

più adatto alla vita in determinate condizioni; e questo proces- 

so può essere chiamato progresso soltanto se si fa della vita in 

quanto tale, in qualsiasi forma si manifesti, un valore assoluto. 

Ma ciò sarebbe del tutto privo di senso, perché ogni vita ha 



HEINRICH RICKERT 393 



dimostrato capacità vitale per il fatto stesso di esistere, e 

quindi da questo punto di vista cade ogni differenza di valore. 

Sulla base dei concetti darwiniani non si può valutare la vita 

umana superiore a quella animale, e quindi designare come un 

progresso lo sviluppo che conduce all'uomo. Perciò è del tutto 

impossibile formulare una qualsiasi distinzione di valore all’in- 

terno della vita umana in base a punti di vista propri della 

scienza naturale. Soltanto quando si è già presupposta come 

fornita di valore — sulla base di un criterio di valore — una 

determinata formazione, si può definire come progresso lo svi- 

luppo che conduce ad essa. Ma non sarà mai possibile derivare 

dalle leggi naturali del processo di sviluppo — che devono 

essere le medesime per ogni stadio, se devono essere leggi 

generali — il principio del progresso. La circostanza che certe 

formazioni naturali, come per esempio gli uomini, vengono 

valutate come «evidentemente » superiori rispetto ad altre for- 

me ci spiega sì la possibilità di una storia evolutiva individualiz- 

zante degli organismi e conduce i rappresentanti di una filoso- 

fia naturalistica della storia a ingannarsi sull’uso che continua- 

mente fanno di princìpi di valore, ma non cambia nulla al fatto 

che dai concetti propri della scienza naturale non si può deriva- 

re alcun valore. Da quest’illusione sono infine dominati anche 

coloro che vogliono costruire una filosofia della storia sul con- 

cetto di razza — per lo più ispirati dalla nozione darwiniana di 

«razze favorite nella lotta per l’esistenza ». Essi trascurano il 

fatto che, per edificare una qualsiasi filosofia della storia, sono 

costretti a utilizzare questo concetto in modo del tutto acritico 

e infondato, come concetto di valore; e tale procedimento è 

tanto più sospetto in quanto con ciò discreditiamo il concetto — 

estremamente importante per la filosofia della storia — di na- 

zione, che è un concetto culturale e designa l’individualità di 

un popolo. Il concetto di nazione civile non ha nulla in comu- 

ne con il concetto naturalistico di razza — tutt'altro che esente 

da obiezioni, del resto, anche dal punto di vista della scienza 

naturale — di cui si fa oggi un abuso così dilettantesco. La 

germanità non risiede nel sangue ma nell'animo — ha detto 

Lagarde”, un uomo non sospettabile di apprezzare poco l’ele- 



23. Paul Anton de Lagarde (1827-1891), orientalista c filosofo tedesco, autore 



394 HEINRICH RICKERT 



mento nazionale; e alla base di questa espressione sta la stessa 

idea che proibisce di elevare concetti naturali, come quello di 

razza, a princìpi di filosofia della storia. 


La dimostrazione che le presunte leggi storiche sono formu- 

le di valore ci ha al tempo stesso indicato la strada attraverso 

cui devono essere effettivamente cercati i princìpi dell’accadere 

storico: ancora una volta è qui decisiva la comprensione dell’es- 

senza logica della scienza storica. L'universo storico non è nien- 

t'altro che la totalità storica più ampia possibile, concepita in 

modo individualizzante, e poiché la relazione di valore è la 

conditio sine qua non dell’apprendimento individualizzante in 

genere, possono essere solo concetti di valore quelli che costitui- 

scono il concetto dell’universo storico. Ma soltanto ciò che ese- 

gue questo lavoro e rende possibile connettere in unità — come 

elementi individuali — le diverse parti dell’universo storico, 

merita il nome di principio storico; perciò la filosofia della 

storia in quanto scienza dei princìpi è, se deve avere un compi- 

to, la dottrina dei valori da cui dipende l’unità e l’articola- 

zione dell’universo storico. In riferimento a questi valori si 

può anche interpretare il senso unitario dell’intero sviluppo. 

L'’interpretazione di tale senso ha sempre rappresentato di fatto 

l'aspirazione della filosofia della storia, anche quando si crede- 

va di dover cercare leggi perché non si distingueva tra legge e 

valore, tra essere necessariamente e dover essere, tra essere e 

senso, e non si era consapevoli che ciò che non si può riferire 

a valori è assolutamente privo di senso. Neppure il naturalismo 

ha voluto rinunciare a interpretare il senso della storia, né del 

resto sarebbe facile rinunciarvi. Tutta la vita culturale è vita 

storica e gli uomini civili — a cui appartengono anche i natura- 

listi — non possono in quanto tali tralasciare di rendersi conto 

del senso della cultura, e quindi del senso della storia. Sorge 

qui un compito che non può essere assolto né dal naturalismo, 

che scioglie la realtà da ogni relazione di valore, né dalla 

scienza storica empirica, che rappresenta il corso storico in base 



di Uber das Verhdltnis des deutschen Staates zu Theologie, Kirche und Religion 

{1873), dei Politische Aufsitze (1874), di Uber die gegenwirtige Lage des deutschen 

Reiches (1876) e di vari altri scritti, cditore di Giordano Bruno, formulò una filoso- 

fia della storia di ispirazione teologica. 



HEINRICH RICKERT 395 



a una relazione di valore puramente teoretica; perciò ci si 

attende dalla filosofia della storia, come dottrina dei princìpi 

dell’accadere storico, la soluzione di questo compito necessario 

e inevitabile. 


Meno semplice della questione dell'oggetto di questa filoso- 

fia della storia è affrontare il problema del modo di trattazio- 

ne. Qui è possibile prospettare soltanto #2 compito, contro la 

cui possibilità di soluzione non vengono avanzate obiezioni di 

rilievo. Esso si riallaccia alle operazioni effettive degli storici e 

dei filosofi della storia, cercando di mostrarvi la funzione dei 

valori culturali come princìpi della rappresentazione. Per qual- 

che lavoro questo compito è, almeno in parte, di così facile 

soluzione da non aver affatto bisogno di un’indagine particola- 

re. In una storia dell’arte o della religione devono in ogni caso 

esserci dei valori artistici e religiosi, ai quali vengono riferiti 

gli oggetti da rappresentare. Ma non sempre le cose vanno nel 

senso che un determinato punto di vista valutativo emerge subi- 

to come elemento dominante. Soprattutto nelle opere più com- 

prensive, le quali hanno per oggetto lo sviluppo di interi popo- 

li o intere epoche, si incontrano i punti di vista più diversi, ed 

è un’occupazione assai attraente quella di chiarire perché lo stori- 

co tratti estesamente certi avvenimenti e soltanto brevemente 

altri, e non tratti per nulla di processi altrettanto reali. Gli 

storici stessi non sempre sono consapevoli dei motivi di questo 

fatto. Non possono esserlo perché spesso non sanno nulla della 

struttura logica della loro attività e credono di non stabilire 

relazioni di valore in genere. Tanto più importante è allora 

chiarire esplicitamente i loro presupposti e mostrare da che 

cosa essi dipendano nell’elaborazione del loro materiale. Occor- 

re perciò mostrare che ogni storico, specialmente quando non si 

limita a indagini particolari, possiede una specie di filosofia 

della storia che è decisiva per ciò che egli ritiene importante e 

non importante; ed è certamente un compito che vale la pena 

affrontare quello di porre in luce la filosofia della storia presen- 

te soprattutto nei grandi storici. Anche in uno storico così 

«oggettivo », com'è per esempio Ranke, agiscono presupposti 

filosofici ben determinati intorno al senso della storia, e così 

dev'essere per il fatto stesso che egli voleva trattare tutto dal 



396 HEINRICH RICKERT 



punto di vista della storia universale. Giustamente Dove ha 

osservato che Ranke si è opposto alla partecipazione unilatera- 

le non già mediante la neutralità, ma mediante l'universalità 

del sentimento simpatetico, riconoscendo in tal modo implicita- 

mente la relazione ai valori. Ma se le cose stanno così, non 

ci si può limitare a questo. In che cosa consiste l'universo dei 

sentimenti simpatetici in questo grande storico? Un’indagine 

orientata in vista di tale scopo recherebbe forse maggiore luce 

sulla questione riguardante le tanto discusse «idee » di Ranke. 

Si potrebbe mostrare che la filosofia della storia di Ranke è 

stata soggetta a trasformazioni, ma che tra i fattori di cui si 

compongono queste idee tutt'altro che semplici hanno sempre 

avuto un ruolo essenziale i punti di vista valutativi dominanti 

della concezione della storia di Ranke. In tali indagini, e in 

altre analoghe, storia e filosofia devono avere uno stretto con- 

tatto. 


Ancor più importante tra i punti di vista filosofici è però 

l’analisi dei tentativi che procedono oltre la scienza storica em- 

pirica in quanto stabiliscono esplicitamente princìpi della vita 

storica, e cioè princìpi che servono alla comprensione dell’inte- 

ro sviluppo umano e all’interpretazione del suo senso. Qui 

occorre quindi non soltanto l’analisi, ma anche la critica; occor- 

re cioè — dopo aver determinato fino a qual punto i principi 

della vita storica siano valori, e in che cosa essi consistano — 

indagare con quale diritto questi punti di vista valutativi venga- 

no considerati decisivi per il senso generale dello sviluppo uni- 

versale. Naturalmente anche qui possiamo di nuovo indicare 

soltanto qualche esempio. Si prenda, come esempio particolar- 

mente caratteristico, la cosiddetta concezione materialistica del- 

la storia, proprio nella forma originaria del Manifesto comuni- 

sta e nella misura in cui si limita — del tutto indipendentemen- 

te dal materialismo teoretico o metafisico — a un’interpretazio- 

ne della vita storica empirica. Già il fatto che essa sia sorta 

come elemento di un programma politico indica dove devono 



24. Alfred Dove (1844-1879), storico tedesco, autore della Deutsche Geschichte 

im Zeitalter Friedrichs des Grossen und Joseph l (1883), della Kaiser Wilhelms 

geschichtliche Gestalt (1888), di Grossherzog Friedrich von Baden als Landesherr 

und deutscher Fiirst (1902) e di varie altre opere, editore delle opere complete di 

Ranke. 



HEINRICH RICKERT 397 



essere cercati i punti di vista valutativi che la ispirano. Essa 

può venir compresa soltanto se si considera che gli interessi dei 

suoi fondatori si rivolgevano alla lotta del proletariato contro la 

borghesia e che la vittoria del proletariato ne costituiva il valo- 

re centrale, assoluto. Poiché la cosa essenziale in riferimento a 

questo valore è oggi la lotta tra le due classi, si cerca di 

comprendere l’intera storia come storia di lotte di classe e di 

ricondurla in tal modo a unità. I nomi dei partiti in lotta 

cambiano: liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della 

gleba, artigiani e garzoni si contrappongono tra loro. Ma ogni 

volta è essenziale, in riferimento al punto di vista valutativo 

dominante, il fatto che si tratta di oppressori e oppressi, di 

sfruttatori e sfruttati i quali lottano tra loro ai diversi gradi 

dello sviluppo storico. Così si ottengono i princìpi generali 

dell’accadere storico, e anche la formazione futura viene pari- 

menti determinata dal valore assoluto, dall’auspicata vittoria 

del proletariato sulla borghesia. Nella fase attuale di lotta la 

cosa principale, l'elemento decisivo, è la lotta per i beni econo- 

mici. Perciò nella storia la vita economica dev'essere sempre la 

cosa principale, e le epoche della storia devono articolarsi in 

base alle diverse formazioni economiche: da ciò deriva la conce- 

zione « materialistica », cioè economica. Quanto tutta questa 

concezione dipenda da punti di vista valutativi, è cosa che non 

richiede un’ulteriore dimostrazione. Che poi non si accontenti 

di considerare come elemento essenziale ciò che è riferito al 

suo valore assoluto, ma faccia coincidere l'essenziale — secon- 

do un realismo concettuale ingenuo a cui si aggiunge qui 

ancora il realismo concettuale nient’affatto ingenuo degli hege- 

liani — con ciò che è « propriamente reale », e conceda a tutta 

la restante vita culturale soltanto un'esistenza di grado inferio- 

re, non cambia in nulla il quadro che abbiamo delineato. Que- 

sto errore è tipico delle costruzioni di filosofia della storia che 

non sono consapevoli di utilizzare come punti di vista dominan- 

ti dei valori, e al tempo stesso serve a mantenere l'oscurità sul 

principio direttivo perché, una volta compiuta la separazione 

tra due diversi tipi di reale e trovata nella vita economica — 

in conseguenza di un platonismo con segno rovesciato — la 

«causa vera e propria» di tutti gli altri avvenimenti storici, 

deve poi necessariamente sorgere la parvenza che la concezio- 



398 HEINRICH RICKERT 



ne materialistica della storia constati semplicemente dei fatti, 

partendo sempre dalla vita economica intesa come fondamento. 

Queste ipostatizzazioni metafisiche dell’elemento economico so- 

no però soltanto esagerazioni, e possono essere eliminate senza 

intaccare il nucleo filosofico del materialismo storico. In ogni ca- 

so, uno sguardo ai princìpi di valore di questa filosofia della sto- 

ria fornisce anche il punto di vista da cui deve prendere le 

mosse la critica. La questione decisiva consiste nel sapere se sia 

legittimo scorgere il valore assoluto nella vittoria del proletaria- 

to in campo economico, e quindi in un bene economico. Natu- 

ralmente la questione non dev'essere decisa in questa sede. Si 

potrà al massimo ritenere fin d’ora poco probabile il fatto che 

princìpi di valore ottenuti in base a punti di vista politici di 

partito siano adatti anche all’interpretazione del senso della 

storia universale. Infatti una quantità sterminata di aspirazioni 

e di imprese umane di tutti i secoli appare, da questo punto di 

vista, del tutto priva di senso. 


Non ci si può tuttavia limitare a queste supposizioni. Pro- 

prio l’idea che la filosofia della storia non soltanto deve chiarifi- 

care analiticamente i principi delle opere di storia empirica e 

delle costruzioni di filosofia della storia, ma deve anche assume- 

re criticamente posizione nei loro confronti non appena questi 

princìpi avanzano una pretesa di validità universale, indica 

che il compito principale di una scienza dei princìpi storici si 

colloca in una direzione del tutto diversa. La critica è possibile 

sempre soltanto sulla base di un criterio di valore; inoltre, per 

poter definire unilaterale una concezione della storia, si deve 

in qualche modo disporre di una concezione onnilaterale. La 

dottrina dei princìpi dell’accadere storico si svilupperà quindi 

in una scienza autonoma soltanto se nella determinazione dei 

princìpi storici aspira tanto alla completezza sistematica 

quanto a. una fondazione critica. Essa deve cioè porsi come fine 

la determinazione di un sistema di valori; inoltre essa prende 

in considerazione non soltanto la valutazione di fatto, ma an- 

che la questione della validità dei valori culturali, e per questo 

ha bisogno di un valore assoluto a cui poter commisurare le 

valutazioni effettive. Questo valore fornirà al tempo stesso an- 

che il punto di vista decisivo per la determinazione di un 

sistema di valori, cosicché il problema della sistematizzazione 



HEINRICH RICKERT 399 



e quello della validità dei valori culturali si connettono stretta- 

mente tra loro. Ma come la filosofia della storia deve pervenire 

a un sistema di valori che renda ad essa possibile interpretare il 

senso dell'intero corso storico? Con questa domanda pervenia- 

mo all'ultima e più importante questione della dottrina dei 

princìpi storici. 


Si affaccia qui l’idea di attribuire questo compito a un tipo 

particolare di indagine psicologica: certamente non alla psicolo- 

gia «esplicativa» — sia che si tratti di « psicologia individua- 

le » della vita psichica in generale oppure di psicologia della vita 

sociale, condotta secondo un metodo naturalistico — ma soltanto 

a una psicologia dei valori culturali. Tutta la storia non solo 

tratta essenzialmente di uomini civili, ma è scritta esclusivamen- 

te da uomini civili. I valori generalmente riconosciuti dall’uo- 

mo civile devono — a quanto sembra — essere nel medesimo 

tempo i princìpi di una storia universale dell'umanità civile. È 

così possibile concepire una psicologia della cultura che indaghi 

il complesso dei valori culturali universali e li rappresenti siste- 

maticamente, fornendo contemporaneamente un sistema dei 

princìpi dell’accadere storico in cui trovino il loro posto tutti i 

sistemi di valore ottenuti analizzando le opere storiche e di 

filosofia della storia, e a cui essi debbano essere commisurati. È 

questo in ogni caso il senso più profondo, anzi l’unico, che si 

può attribuire all’affermazione che la psicologia dev'essere la 

base della filosofia della storia: esso sta anche alla radice dello 

sforzo di Dilthey, totalmente incompreso dagli psicologi, per 

delineare il programma di una « psicologia descrittiva e analiti- 

ca» da affiancare alla psicologia esplicativa. Per quanto sugge- 

stiva possa apparire l’idea di procurare in questo modo alla 

filosofia della storia un fondamento puramente empirico, e 

quindi sicuro, la sua realizzazione incontra una difficoltà insu- 

perabile. Questa psicologia della cultura non può limitarsi al- 

l’indagine « dell’uomo civile » nel senso di accertare e sistema- 

tizzare le valutazioni comuni a tutti gli uomini civili, poiché 

da questo procedimento generalizzante deriverebbe un sistema 

di valori estremamente povero, in cui potrebbero essere contenu- 

ti soltanto pochi dei princìpi di una storia dell’universo sto- 

rico. La psicologia della cultura dovrebbe piuttosto rivolgersi 

alla vita storica stessa in tutta la sua pienezza e molteplicità, 



400 HEINRICH RICKERT 



per conoscere tutti i valori culturali; e come potrebbe pervenire 

in questo modo a punti di vista che rendano possibile un’artico- 

lazione e un dominio di questo materiale? Per separare entro 

la molteplicità della valutazione l’essenziale dall’inessenziale, 

essa dovrebbe già possedere ciò che deve invece cercare: la 

conoscenza dei valori che sono princìpi di una storia universale 

e princìpi dello stesso universo storico. Così la psicologia della 

cultura come filosofia della storia entra in un circolo da cui 

non può sfuggire. 


Non è possibile avvicinarsi al fine di una rappresentazione e 

fondazione sistematica dei princìpi storici per via puramente 

empirica, attraverso la mera analisi delle valutazioni effettive. 

Occorre piuttosto in primo luogo riflettere, prescindendo del 

tutto dalla molteplicità del materiale storico, su ciò che vale 

assolutamente ed è presupposto di ogni giudizio di valore, ossia 

che pretende a una validità più che individuale. Soltanto quan- 

do si siano trovati valori validi atemporalmente si può riferire 

ad essi tutti quanti i valori culturali empiricamente constatabi- 

li, che si sono sviluppati nel corso della storia, e tentare così 

una disposizione sistematica e al tempo stesso una presa di 

posizione critica. Solamente se è possibile ottenere valori sopra- 

storici, si può allora realizzare una filosofia della storia come 

scienza particolare dei princìpi dell’universo storico e interpreta- 

re il senso della storia dell’universo. Ma la riflessione sui valori 

sopra-storici non appartiene più al campo della filosofia della 

storia come disciplina filosofica particolare; essa può venir intra- 

presa soltanto in connessione con la determinazione di un siste- 

ma filosofico in generale. La filosofia della storia come dottrina 

dei principi viene così a dipendere dal complesso delle indagi- 

ni filosofiche, in particolare dalla dottrina del senso del mondo 

o — nel caso che tale questione non sia una questione scientifi- 

ca — dalla dottrina del senso della vita umana. I fondamenti 

della filosofia della storia coincidono pertanto con i fondamen- 

ti di una filosofia come scienza dei valori in generale. 


L'indagine volta a determinare il concetto della filosofia 

della storia come dottrina dei princìpi storici in generale può 

essere condotta soltanto fino a questo punto. Non si può qui 

rispondere alla questione se la determinazione di valori assolu- 

ti possa ancora rientrare nei compiti della scienza, poiché es- 



HEINRICH RICKERT 401 



sa è identica alla questione riguardante il concetto di filosofia 

scientifica in generale. Qui importava solamente mostrare che 

le leggi non possono essere princìpi della storia, e quindi mo- 

strare che, se possono ancora esserci problemi di filosofia della 

storia al di fuori della logica della storia, questi devono riassu- 

mersi nella questione del senso della storia, e inoltre che l’inter- 

pretazione di questo senso richiede ancora un criterio di valore 

fornito di validità sopra-storica. Si deve ancora aggiungere che 

la filosofia come scienza critica e sistematica dei valori non ha 

bisogno di presupporre come criterio nessun valore assoluto de- 

terminato dal punto di vista del contenuto. Anche se si riesce 

soltanto a ottenere un valore incondizionato puramente forma- 

le, si può tuttavia trarre l’intero contenuto del sistema dei 

valori dalla vita storica, per quanto questa sia asistematica per 

definizione. Anzi, la filosofia della storia che ricerca il senso 

della storia dovrà servirsi di princìpi di valore puramente for- 

mali, proprio perché questi devono essere tali da valere per 

tutta la vita storica. Certamente, in base a questo presupposto 

si può concepire un sistema di valori che possegga completezza 

sistematica soltanto sotto il profilo formale, mentre riguardo al 

contenuto non può mai essere concluso perché la vita storica 

continua a svilupparsi e quindi sorgono valori culturali sempre 

nuovi, determinati nel contenuto, i quali devono trovare la loro 

collocazione nel sistema. Perciò il sistema di valori può essere 

definito sistematico in riferimento al suo contenuto soltanto 

nella misura in cui la conclusione sistematica ci si presenta 

come un compito altrettanto necessario quanto insolubile, e 

l'oggetto della filosofia come scienza dei princìpi risulta pertan- 

to un’« idea » nel senso kantiano — come sempre avviene quan- 

do l'oggetto è l’incondizionato nella pienezza del suo contenu- 

to. Alla realizzazione dell'idea di un siffatto sistema di valori 

dovrebbero quindi contribuire tutte le epoche, con la coscienza 

che esse non potranno mai condurlo a termine. Ciò non cancel- 

la però il significato di questo lavoro. Al contrario, chi si 

decide a compierlo trarrà coraggio tanto da uno sguardo sul 

passato quanto da uno sguardo verso il futuro. Se prescindiamo 

dai problemi che nel corso dei secoli si sono svincolati dalla 

filosofia e sono stati attribuiti alle scienze particolari, ne risulta 

che tutti i filosofi importanti hanno cercato di lavorare in vista 



26. STORICISMO TEDESCO. 



402 HEINRICH RICKERT 



di un sistema di valori nel senso sopra indicato, poiché tutti 

hanno indagato sul senso della vita, e già questa domanda 

presuppone un criterio assoluto di valore. Essi devono quindi 

venir considerati tutti come precursori. Ma il fatto che a tale 

questione fondamentale per ogni filosofia non soltanto non si è 

ancora risposto, ma non si potrà neppure mai rispondere con 

una completezza di contenuto, finché sorgerà nuova vita stori- 

ca, costituisce appunto soltanto un motivo che accresce l’impor- 

tanza del lavoro diretto a risolverlo: infatti la coscienza tanto 

della grande necessità quanto dell’insolubilità di un compito ci 

dà la sicurezza della sua «eternità », e quindi il conforto fich- 

tiano che coloro i quali collaborano alla soluzione della questio- 

ne diventano, in virtù del loro lavoro, «eterni» come lo è il 

compito stesso. 



III. LA FILOSOFIA DELLA STORIA COME STORIA UNIVERSALE 



Ora possiamo finalmente rivolgerci ai problemi della terza 

disciplina che pretende il nome di filosofia della storia. Essa 

vuol fornire, in antitesi alle scienze storiche particolari, una 

storia universale, cioè rappresentare il « mondo » storico o l’uni- 

verso storico. Come può conseguire il suo fine? Il suo compito 

consiste forse nell’abbracciare in una totalità le rappresentazio- 

ni delle scienze particolari e — se per questa via non è possibile 

ottenere una totalità realmente conclusa — nel riempire con 

costruzioni più o meno ipotetiche le lacune che la ricerca delle 

scienze particolari lascia ancora nella storia universale? Un sem- 

plice riassunto non può avere valore come lavoro scientifico 

autonomo, e il tentativo di formulare supposizioni laddove lo 

sguardo dello specialista non perviene a ipotesi realmente fonda- 

te susciterebbe lo scherno di tutti gli storici. Una filosofia della 

storia del genere è superflua se non altro per il fatto che la 

storia universale viene scritta dagli storici stessi. Come la filoso- 

fia in generale non ha più, in quanto scienza dell'essere, compi- 

ti autonomi che si riferiscano alla realtà empirica da quando 

su ogni campo specifico della realtà ha avanzato le sue pretese 

una scienza particolare, così una conoscenza complessiva della 

totalità storica, la quale si distingua dalle indagini scientifiche 



HEINRICH RICKERT 493 



particolari soltanto per il fatto di non limitarsi a una parte, 

non può certamente essere più compito della filosofia della 

storia. Non soltanto la rappresentazione di ambiti storici parti- 

colari, ma anche la storia universale dev'essere — come scienza 

storica — lasciata esclusivamente agli storici, che ne sono i 

soli competenti, nello stesso modo in cui soltanto gli addetti 

alla ricerca empirica possono accertare scientificamente qualco- 

sa in merito all’essere della natura, in generale come in partico- 

lare. La filosofia si renderebbe ridicola se credesse di poter fare 

in questo campo più delle scienze. 


Ma con ciò il problema di una trattazione filosofica del 

materiale rappresentato dal complesso delle scienze storiche em- 

piriche è tutt'altro che deciso. Anche se considera non soltanto 

le forme ma altresì il contenuto della totalità storica, la filoso- 

fia ha nei confronti di essa un compito che non può essere 

affrontato da nessuna scienza storica empirica; e proprio la 

circostanza che la storia universale viene scritta in modo pura- 

mente storico da storici può servire alla determinazione di 

questo compito filosofico. Cerchiamo quindi, in base alla com- 

prensione dell'essenza logica della scienza storica, di chiarire 

anzitutto il concetto di una rappresentazione empirica della 

storia universale, e poi di vedere quali questioni, a cui gli 

storici non possono in quanto tali dare una risposta, rimangano 

ancora alla filosofia. 


La «storia universale » — così come l’ha scritta per esempio 

Ranke — non si distingue affatto nel modo dalla rappresenta- 

zione di oggetti particolari; e così ha voluto, del resto, il suo 

autore. Egli era anzi convinto — come riferisce Dove? — 

che «in ultima analisi non si può scrivere nient'altro che 

storia universale »; e in ogni caso la «storia universale» è 

scaturita in Ranke dal lavoro scientifico particolare, senza l’ag- 

giunta di un principio nuovo. Per noi è qui soprattutto impor- 

tante considerare che cosa Ranke, come storico, intenda per 

«mondo » storico, cioè per la totalità di cui egli tratta. In un 

passo egli dice che l'impulso alla conoscenza viene trascinato 



25. La frase citata da Rickert si trova negli Aufsétze und Veròffentlichungen zur 

Kenntnis Ranke, in Ausgewihlte Schriften vornelimlich historischen Inhalts, Leipzig, 

1898, p. 170. 



404 HEINRICH RICKERT 



ad abbracciare l’intero ambito dei secoli e degli imperi dalla 

convinzione che nulla di umano gli è distante ed estraneo. Ma, 

di fatto, Ranke è ben lungi dal trattare nella sua storia universa- 

le di tutti i secoli e di tutti gli imperi, e non l’avrebbe fatto 

neppure se gli fosse stato concesso di portare a termine la sua 

opera. Egli stesso lo osserva quando dice che, se la vocazione 

di Alessandro non fosse stata quella di attraversare l’India e di 

scoprire la parte orientale dell'Asia, questa regione « per secoli 

ancora non sarebbe entrata a far parte dell'ambito della storia 

universale ». L’« universo» di Ranke può essere determinato 

soltanto come una parte della storia dell'umanità a noi nota, e 

non come l’ultima più comprensiva totalità storica in senso 

logico; anzi, la sua esigenza di una trattazione storico-universa- 

le del materiale storico consiste essenzialmente solo nel fatto 

che egli non vuole limitarsi a un popolo singolo, ma seguire le 

connessioni che i diversi popoli appartenenti a un determinato 

ambito culturale stringono tra di loro. Non soltanto Ranke non 

ha mai tentato di fatto di stabilire concettualmente l’universo 

storico, ma neppure poteva tentarlo, se voleva restare uno stori- 

co. In primo luogo, un compito di questo genere può essere 

risolto soltanto con l’ausilio di un sistema di valori culturali nel 

senso già indicato, dalla cui determinazione lo storico è quanto 

mai lontano; in secondo luogo il «senso storico» deve fare 

resistenza non soltanto alle leggi storiche, ma a ogni altra 

specie di sistematica, poiché questa lo priverebbe della libertà e 

dell’ampiezza di considerazione di cui ha bisogno per un ap- 

prendimento impregiudicato di ogni avvenimento storico nel 

suo carattere specifico. Perciò tutti gli storici, anche quando 

scrivono di storia universale rimanendo tuttavia storici, non 

procederanno in linea di principio in maniera diversa da Ran- 

ke. Tale supposto difetto è stato di recente sottolineato decisa- 

mente in una «storia universale» su base «etno-geografica ». 

Ma questo tentativo di trattare storicamente suite le parti della 

terra ha realmente cambiato qualcosa da un punto di vista di 

principio? Esso non può valere, in ogni caso, come delimitazio- 

ne sistematica dell’universo storico. Anzi, ciò che la storia gua- 

dagna in generalità esteriore e quantitativa, va necessariamente 

perduto come unità interna, perché il principio direttivo non è 

un concetto culturale. 



HEINRICH RICKERT 405 



L’inevitabile « difetto » di ogni rappresentazione puramente 

storica della storia universale ci indica al tempo stesso i com- 

piti di una trattazione filosofica dell’universo storico. In anti- 

tesi alla storia, la filosofia non rinuncerà mai alla tendenza 

alla sistematizzazione. Ovviamente, finché si tratta di fatti stori- 

ci essa deve sempre appoggiarsi alla scienza storica empirica e 

sottomettersi senza condizioni alla sua autorità. Ma per il resto 

può vedere in tutte le rappresentazioni puramente storiche, 

incluse le più ampie, soltanto del materiale che essa elabora 

sistematicamente a modo suo. Certamente, essa può farlo solo 

se ha risolto in misura maggiore o minore il suo compito di 

scienza dei princìpi. Ma se è pervenuta anche soltanto all’ini- 

zio di un sistema criticamente fondato dei valori culturali, nel 

senso prima indicato, la filosofia può apprendere anche il conte- 

nuto della storia in modo tale che non ne derivi un sistema di 

concetti generali come in una scienza generalizzante, ma una 

delimitazione e articolazione sistematica dell’universo storico. 

Per quanto riguarda la delimitazione, nel concetto di totalità 

storica ultima rientra così tutto ciò che è essenziale, per la 

sua individualità, in riferimento ai valori culturali universali 

suscettibili di venir fondati criticamente, e quindi più che empi- 

rici. Certamente, l’universo storico che sorge in questo modo 

può essere soltanto un’« idea » in senso kantiano, cioè non può 

mai essere definitivamente concluso — al pari del sistema dei 

valori culturali — dal punto di vista del contenuto; esso appar- 

tiene quindi — per dirla con Medicus* — alla « dialettica 

trascendentale » di una critica della ragione storica. Ma questa 

circostanza non esclude l’autonomia della sua trattazione siste- 

matica, in quanto filosofia della storia. Anzi, la relazione al 

sistema di valori permette al tempo stesso un'articolazione del- 

la totalità storica: è cioè possibile delimitare reciprocamente 

determinate parti come suoi elementi più importanti, come le 



26. Fritz Medicus (1876-1956), filosofo tedesco, autore di uno studio sulla 

Kants Philosophie der Geschichte (1902) e di importanti lavori sulla vita e sul pen- 

siero di Fichte, nonché di varie opere teoriche come le Grundfragen der Aestetik 

(1917), Die Freiheit des Willens und ihre Grenzen (1826), Macht und Gerechtig- 

Keit (1934), Vom Wahren, Guten und Schònen (1943), nonché editore delle opere 

di Fichte. Rickert sì riferisce al saggio Kant und Ranke, «Kantstudien », VIII, 

1903, pp. 129-92. 



406 HEINRICH RICKERT 



sue «epoche » o i suoi « periodi », ordinandole in modo che il 

senso della storia non si esprima soltanto in un’astratta formula 

di valore, ma anche nella rappresentazione dello sviluppo stes- 

so. In una filosofia della storia siffatta anche la selezione di ciò 

che è essenziale deve distinguersi da quella che compiono le 

scienze empiriche: infatti non appena si considerano non già 

tutti i valori culturali forniti di universalità empirica, ma sol- 

tanto quelli che hanno trovato la loro fondazione nel sistema 

dei valori, la ricchezza dei particolari storici retrocederà e si 

parlerà soltanto delle « grandi» epoche o periodi. 


Dove si vogliano scorgere i rappresentanti di queste epoche 

— se in singole personalità o in movimenti di massa — può 

naturalmente essere deciso, ancora una volta, soltanto caso per 

caso. Così pure non si può rispondere pregiudizialmente rispet- 

to all’ ‘indagine storica alla questione se gli elementi più com- 

prensivi del processo di sviluppo singolare siano le diverse epo- 

che che si susseguono, oppure le diverse individualità dei popo- 

li che in parte cooperano nel medesimo tempo. Qui importa 

soltanto chiarire il carattere sistematico di una trattazione filoso- 

fica dello stesso oggetto che le scienze storiche trattano storica- 

mente, e distinguere in tal modo nettamente la filosofia della 

storia dalle scienze storiche empiriche. Anche con la storia la 

filosofia, nel senso sopra indicato, deve procedere astoricamen- 

te. Perciò Ranke aveva ragione quando si sentiva in opposizio- 

ne alle costruzioni di storia universale intraprese dai filosofi, e 

temeva un’irruzione della filosofia nel campo dello storico. T'ut- 

tavia egli non ha reso giustizia, nel suo giudizio, alla filosofia 

della storia, perché sentiva questa differenza più che formularla 

concettualmente in modo netto. Egli stesso ha cercato — se non 

nella Weltgeschichte, almeno nelle conferenze Uber die Epo- 

chen der neueren Geschichte — qualcosa che si accosta per un 

certo verso a una filosofia della storia. Ma questa rappresenta- 

zione è impostata in modo troppo storico per essere una filoso- 

fia e si presenta quindi come una forma di trapasso o una 

forma mista, che evidentemente non perde affatto il valore 

come manifestazione di una personalità geniale, ma che tutta- 

via, riguardo alla sua struttura logica, dev'essere definita appun- 

to come una forma di trapasso. Essa vuole cioè essere per un 

certo verso sistematica, e nel medesimo tempo non riconosce 



HEINRICH RICKERT 407 



in parte i presupposti di cui nessuna sistematica di filosofia 

della storia può fare a meno. In tal modo essa dimostra quanto 

sia necessario distinguere concettualmente in modo netto tra 

scienza storica empirica, non sistematica, e filosofia della sto- 

ria. Se ciò è avvenuto, e se il filosofo della storia rinuncia a 

fare irruzione nelle scienze storiche, la sua considerazione siste- 

matica dello sviluppo storico complessivo possiede un diritto 

incontestabile 4ccazzo alla rappresentazione storica e non siste- 

matica della vista storica. 


Ma affinché tale distinzione, e al tempo stesso anche la 

necessità di questo tipo di filosofia della storia risulti perfetta- 

mente chiara, bisogna ancora prendere in considerazione un 

secondo punto, che è connesso nel modo più stretto con l’aspira- 

zione alla sistematizzazione. All'essenza del senso storico non 

appartiene soltanto la mancanza di sistematicità; l’apprendi- 

mento impregiudicato del corso storico presuppone anche una 

fede nel « diritto » di ogni realtà storica. Perciò lo storico deve 

cercare, in quanto storico, di astenersi da un giudizio di valore 

diretto sui suoi oggetti, e la logica della storia deve pertanto 

separare nettamente la relazione teoretica di valore dalla valuta- 

zione pratica. Invece la filosofia, che deve assumere criticamen- 

te posizione nei confronti dei valori culturali, non sa nulla di 

un «diritto» proprio dell'elemento storico in quanto tale; in 

modo altrettanto deciso di quello in cui riconosce il procedi- 

mento puramente storico dell'indagine specifica, lo storicismo 

come intuizione del mondo appare ad essa un’assurdità. Que- 

sto storicismo, che si crede così positivo, si manifesta come 

una forma di relativismo e di scetticismo e, se pensato fino in 

fondo in modo coerente, può condurre al nichilismo completo. 

Si sottrae a quest'apparenza soltanto perché rimane aderente a 

una qualche struttura della molteplicità storica, collegando ad 

essa il « diritto di ciò che è storico» e traendone quindi una 

ricchezza di vita positiva. Ciò lo distingue sì dal relativismo e 

dal nichilismo formulati in modo astratto, ma in linea di prin- 

cipio non lo innalza affatto al di sopra di questi. Se fosse 

coerente, esso dovrebbe concedere a qualsiasi essere storico il 

diritto di ciò che è storico; ma non è in grado di aderire a 

nulla, proprio perché dovrebbe aderire a tutto. In quanto intui- 

zione del mondo, esso assume come principio la completa assen- 



408 HEINRICH RICKERT 



za di princìpi, e quindi dev'essere combattuto nel modo più 

deciso dalla filosofia della storia. 


Nella concezione dell’universo storico l'opposizione allo sto- 

ricismo si manifesta nel fatto che la filosofia della storia abban- 

dona la considerazione storica, riferita ai valori in modo pura- 

mente teoretico, in favore della valutazione critica. Che cosa 

ciò significhi, risulta chiaro nel modo migliore per il fatto che 

così riacquista il suo diritto il concetto di progresso. Tale cate- 

goria non appartiene certamente ai princìpi della scienza stori- 

ca empirica. Al pari della relazione a un sistema di valori, 

questa categoria eliminerebbe la valutazione impregiudicata dei 

processi storici nel loro carattere specifico e toglierebbe sovrani- 

tà — come Ranke ha giustamente detto — al passato. La 

filosofia della storia, invece, non può fare a meno di questa 

categoria se vuol superare il nichilismo storicistico. Essa deve 

giudicare, in connessione con l’articolazione dell’universo stori- 

co, i diversi stadi del processo di sviluppo singolare con riguar- 

do alla funzione che essi hanno assolto per la realizzazione dei 

valori criticamente fondati. A tale scopo la filosofia della storia 

deve non soltanto togliere sovranità al passato — in consapevo- 

le antitesi rispetto alla considerazione puramente storica — in 

vista del presente e del futuro, ma deve pure giudicarlo, cioè 

commisurare il suo valore a ciò che dev'essere. Ovviamente, 

alla questione se il corso della storia rappresenti ovunque, o 

anche soltanto in alcune parti, una serie progressiva continua o 

un incremento di valore, può rispondere solo l’indagine stessa. 

All’inizio sussiste la possibilità sia di un regresso continuo sia 

di un’oscillazione in su e in giù, cioè di un'alternativa di 

progresso e di irrigidimento. Si può anzi pensare che nella 

vita storica non sia possibile mostrare, in riferimento ai valori, 

né un avanzamento né una decadenza. Ma, quale che possa 

essere la decisione in proposito, in ogni caso tutti i filosofi che 

si sono realmente occupati in modo individualizzante di storia, 

cioè dello sviluppo culturale umano, e non hanno soltanto cer- 

cato come sociologi le leggi della vita sociale, si sono accinti 

alla considerazione del corso storico impiegando un criterio di 

valore; e soltanto così hanno potuto articolare e giudicare le 

epoche dell’universo storico. Anche un filosofo come Schopen- 

hauer, che non voleva saperne di filosofia della storia perché 



HEINRICH RICKERT 409 



lo sviluppo storico non mostrava ai suoi occhi alcun progresso 

e gli pareva quindi completamente privo di senso, ha contribui- 

to a una filosofia della storia nel senso sopra indicato; e soltan- 

to per il suo risultato puramente negativo — ma non riguardo 

alla posizione del problema della filosofia della storia — è 

differente, in linea di principio, dagli altri filosofi della storia. 

Il carattere sistematico e al tempo stesso valutativo della tratta- 

zione filosofica dell’universo storico può rimanere poco chiaro 

soltanto dove, come spesso avviene, non si è in grado di distin- 

guere tra essere e dover essere, tra realtà e valore, oppure 

dove, a causa della diffidenza dominante contro la fondazione 

scientifica dei valori, ci si azzarda solo in modo celato a esprime- 

re giudizi di valore, per suscitare la parvenza di una trattazio- 

ne puramente contemplativa. La ricerca dei giudizi di valore e 

la dimostrazione della loro sostanziale inevitabilità diventa- 

no, a causa dell’oscurità e dell’indeterminatezza oggi molto 

diffuse in questo campo, un compito tanto più urgente della 

filosofia. 


Queste considerazioni hanno però soltanto lo scopo di mo- 

strare quale compito si pone alla filosofia accanto alle scienze 

storiche empiriche, non appena essa può presupporre come idea 

un sistema di valori culturali. Un’indicazione in proposito sa- 

rebbe possibile soltanto in connessione da un lato con un siste- 

ma filosofico e dall'altro con i risultati delle scienze storiche 

— cosa che non si può dare in questa sede. Perché l’esposizione 

non rimanga troppo schematica, gettiamo ora uno sguardo in- 

dietro sul passato della filosofia della storia. Una compara- 

zione dei concetti prima enunciati di universo storico e di una 

storia universale di carattere filosofico, che ne deriva, con la 

configurazione attuale — ancor oggi sostenibile — di questa 

disciplina può forse servire nel modo migliore a illuminare la 

situazione odierna. Inoltre, collegarsi al passato è qui vantaggio- 

so anche perché ora abbiamo a che fare con /a forma dei 

problemi in cui la filosofia della storia ha occupato inizialmen- 

te e prevalentemente gli uomini, e perché occorre nello stesso 

tempo mostrare, mediante uno sguardo retrospettivo, quanto 

poco arbitrario sia il mostro modo di considerare la filosofia 

della storia, orientato in base alla logica. Ne risulterà infatti 

che anche per questa via arriviamo alla fine ai problemi che 



4I0 HEINRICH RICKERT 



sono stati una volta i problemi principali della filosofia della 

storia. 


È stato sovente sottolineato — e l’ha mostrato soprattutto 

Dilthey — che, se non il concetto di storia in generale, almeno 

quello di universo storico era estraneo ai Greci, e che soltanto 

il Cristianesimo ha reso possibile l’idea di una « storia universa- 

le » nel senso rigoroso del termine. Decisiva è qui la rappresen- 

tazione dell’unità del genere umano. Nel suo aspetto principa- 

le, essa appare prodotta dalla relazione delle sue diverse parti 

con Dio: infatti tutti i popoli devono cercare Dio, e in tal 

modo il genere umano nel suo sviluppo singolare assurge all’i- 

dea di una totalità conclusa. Dio ha creato il mondo e gli 

uomini, e tutti gli uomini discendono da una sola coppia. Così 

la storia universale ha inizio in un determinato momento del 

tempo, e terminerà col giudizio universale. Quest'ultimo decide 

in quale misura lo sviluppo abbia assolto il suo compito di 

esprimere il suo significato. Peccato originale e redenzione sono 

i due termini che articolano le epoche di questo processo in 

modo tale che ne scaturisce una serie di gradi di sviluppo. È 

chiaro come su tale base sia possibile delineare una storia univer- 

sale in cui ogni avvenimento, che è significativo in riferimento 

al senso della storia, diventa elemento della totalità, grado di 

sviluppo di una connessione unitaria. 


Manca però, per completare il quadro nei particolari, un 

elemento essenziale. Per quanto all’inizio nella filosofia cristia- 

na ci si dia poca pena dei problemi del mondo esterno, le 

rappresentazioni religiose si legano gradualmente nel modo più 

intimo con una determinata immagine del cosmo, tratta essen- 

zialmente dall’antichità. Il corso del tutto è delimitato non 

solo temporalmente dalla creazione e dal giudizio universale, 

ma anche trasferito su una scena che si può abbracciare spazial- 

mente. Si pensi per esempio al mondo di Dante — un mondo 

che può essere disegnato nella sua totalità. Esso forma un 

globo in sé concluso, in mezzo al quale sta il teatro del- 

la storia universale, la terra. Sopra questo globo, spazialmente 

separato da esso, vi è la sede di Dio, a cui sulla terra fa 

riscontro Gerusalemme, e così via. Con questi presupposti si 

può realmente parlare di una «storia universale » nel senso 

rigoroso del termine, e nell’ambito esattamente delimitato di 



HEINRICH RICKERT qII 



tale rappresentazione si può anche abbozzare un quadro effica- 

ce di tale storia universale. Mentre lo sguardo dei pensatori 

greci si posava sul ritmo eterno dell’accadere, oppure doveva 

rivolgersi all'immagine di un regno di forme soprannaturali, 

ma in ogni caso del tutto astoriche e atemporali, ora l’essenza 

vera e propria del mondo è vista nello sviluppo singolare del 

mondo, riferito a Dio. La molteplicità dei tentativi di filosofia 

della storia intrapresi su questo terreno comune non ci riguar- 

da in questa sede. È lampante che il loro concetto e la loro 

articolazione dell’universo storico mostrano logicamente la me- 

desima struttura del concetto prima esaminato e dell’articolazio- 

ne della totalità storica ultima; e che, in particolare, i loro 

princìpi fondamentali siano concetti di valore risulta chiaro già 

considerando il loro carattere filosofico-religioso — Dio è il 

valore assoluto. La storia universale vuol essere una specie di 

« giudizio universale », e proprio in un senso che questo termi- 

ne non ha in Schiller. Essa vuol fornire in maniera provvisoria 

un conto del valore del corso storico, che deve poi essere salda- 

to in modo definitivo da Dio nel giudizio universale. 


Qui ci interessa inoltre stabilire che cosa ha tolto il terreno 

a tutti questi tentativi di filosofia della storia. Si tratta in larga 

misura della trasformazione, avvenuta all’inizio del mondo mo- 

derno, delle rappresentazioni del cosmo — di quella trasforma- 

zione ancora oggi importante perché ha creato in linea di 

principio l’immagine del mondo che dobbiamo ritenere definiti- 

va, e in ogni caso l’unica finora scientificamente sostenibile. 

Come ha mostrato soprattutto Riehl ”’, qui non è decisiva tanto la 

sostituzione del punto di vista geocentrico con quello eliocentri- 

co, poiché mutando la posizione della terra entro l'universo si 

sarebbe ben potuto concludere un compromesso. Decisiva è piut- 

tosto la distruzione dell’idea di un cosmo chiuso, che si può 

abbracciare con un solo sguardo. La dottrina dell’infinità del 

mondo di Giordano Bruno fu lo scoglio su cui doveva naufraga- 

re ogni filosofia della storia che voleva essere « storia universa- 



27. Alois Richl (1844-1924), filosofo austriaco, autore di Redlistische Grundziige 

(1870), di Moral und Dogma (1871), di Uber Begriff und Form der Philosophte (1872), 

di un'ampia opera su Der philosophische Kritizismus und scine Bedeutung fiir die 

positive Wissenschaft (1876-87), di Zur Einfàhrung in die Philosophie der Gegenwart 

(1903), nonché di vari volumi storici su Kane, Nietzsche, ecc. 



412 HEINRICH RICKERT 



le » nel senso rigoroso del termine. Di ciò che è temporalmente 

e spazialmente illimitato vi è soltanto scienza di leggi; e la 

storia universale perde così per sempre il suo significato vero e 

proprio. Nel medesimo tempo diventa problematico anche il 

concetto di una totalità storica in generale, e non sembrano 

esserci vie di soluzione. Anche la storia del « mondo» umano 

non è più quell’unità necessariamente riferita, nella sua indivi- 

dualità, al valore assoluto. Il suo teatro, la terra, ha perduto il 

suo significato nel cosmo infinito. Essa è diventata l’esemplare 

indifferente di un genere, e altrettanto indifferente diventa, 

nella prospettiva di una scienza di leggi, tutto quanto di singo- 

lare e di particolare avviene su di essa. È importante sottolinea- 

re che tutte queste trasformazioni sono avvenute, in linea di 

principio, per opera delle dottrine di Copernico e di Giordano 

Bruno e non già — come molti ritengono — per opera della 

biologia moderna. La teoria dell’evoluzione ha certamente un 

valore straordinario per la scienza. Abbiamo prima mostrato 

che essa non è in grado di fornire princìpi filosofici positivi 

per una considerazione storica; dobbiamo ora aggiungere che 

essa non trova più da distruggere gli elementi essenziali della 

vecchia filosofia della storia, almeno per chi abbia anche soltan- 

to pensato fino in fondo l’idea dell’illimitatezza temporale del 

mondo. Tra le scienze naturali è stata quindi realmente impor- 

tante per le questioni relative all’intuizione del mondo non già 

la biologia ma l'astronomia, e anche quest’ultima ha semplice- 

mente avuto un significato negativo, almeno per i problemi di 

filosofia della storia. 


Possiamo anzi dire che il passo decisivo per la nuova svolta 

positiva nella trattazione dei problemi di filosofia della storia 

era già stato compiuto prima che la biologia evoluzionistica fosse 

giunta anche soltanto ai suoi inizi: infatti questa trasformazione 

prendeva le mosse — come sempre accade quando si tratta dei 

fondamenti ultimi del nostro pensiero filosofico — da Kant, 

che oggi si crede in modo alquanto sorprendente di poter con- 

futare con il darwinismo, cioè partendo dalla funzione del 

tutto particolare presente nella connessione tra problemi gnoseo- 

logici e problemi etici. Kant stesso ha paragonato la sua teoria 

della conoscenza all'impresa di Copernico, e noi possiamo segui- 

re questo paragone anche in un’altra direzione. L'idealismo 



HEINRICH RICRERT 413 



trascendentale ha significato, proprio in virtù del « punto di 

vista copernicano », una conversione nella via che la filosofia 

credeva di dover imboccare sulla base della nuova immagine 

del mondo fornita dall’astronomia: una conversione, però — e 

questo è l'elemento decisivo — la quale lascia del tutto intatta 

la nuova immagine del mondo e ciononostante rende possibile 

riprendere i vecchi problemi. Grazie a Kant l’uomo viene po- 

sto di nuovo — con il pieno riconoscimento della moderna 

scienza della natura — al «centro» del mondo: certamente 

non in senso spaziale, ma in modo ancor più significativo per 

i problemi della filosofia della storia. Ora tutto «gira» nuo- 

vamente intorno al soggetto. La «natura» non è la realtà 

assoluta, ma è determinata nella sua essenza universale da 

forme di apprendimento soggettive, e proprio la totalità « in- 

finita» del mondo non è che un’«idea » del soggetto, l’idea 

di un compito a lui necessariamente posto, ma nello stesso 

tempo insolubile. In virtù di questo « soggettivismo » i fonda- 

menti della scienza empirica della natura risultano non soltan- 

to intatti, ma addirittura più saldi; completamente sepolti so- 

no invece i fondamenti del naturalismo come intuizione del 

mondo che rifiuta ogni senso a ciò che è storico. Questo lavoro 

di distruzione, che sgombra anzitutto la via dagli impedimenti 

che si frappongono a concepire un essere come storia, è tanto 

più importante in quanto, dato lo stretto legame della teoria 

della conoscenza con l’etica, comporta immediatamente la fon- 

dazione di una costruzione positiva di filosofia della storia. 

L'uomo non sta al centro della « natura » solamente con la sua 

ragione teoretica, ma si comprende al tempo stesso, con la sua 

ragione pratica, come ciò che dà un senso oggettivo alla vita 

culturale, cioè come personalità consapevole del dovere, autono- 

ma, «libera»; e questa ragione pratica possiede il primato. 

Che cosa può ancora significare di fronte a questo il fatto che 

il teatro della storia rappresenta spazialmente e temporalmente 

una piccola particella destinata a scomparire, posta in un punto 

qualsiasi dell'universo? Per il soggetto autonomo, teoricamente 

e praticamente « legislatore », questi rapporti spaziali e tempo- 

rali sono ora diventati del tutto indifferenti nella trattazione 

delle questioni di valore. Nell'indagine della « natura », inclusa 

la vita psichica, l’uomo autonomo lascia piena libertà alla scien- 



414 HEINRICH RICKERT 



za che ha distrutto la vecchia immagine del mondo. Ma egli 

non concederà mai che questa scienza concernente l'essere 

delle cose abbia qualcosa da dire sul valore o sul disvalore, sul 

senso o sulla mancanza di senso del corso del mondo, poiché è 

assolutamente certo — in quanto ragione pratica — della sua 

« libertà », che costituisce il senso autentico del mondo e della 

sua storia. 


Kant non ha creato egli stesso un sistema di filosofia della 

storia, ma sulla base del suo pensiero ne sono sorti uno dopo 

l’altro, e in ciò dobbiamo riconoscere certo un'influenza non 

inessenziale. Il corso singolare dello sviluppo dell'umanità ha 

nuovamente potuto essere concepito — con l’aiuto dei concetti 

assoluti di ragione e di libertà — come unità, e venir artico- 

lato nei suoi diversi stadi in modo tale da misurare ogni stadio 

in base al suo contributo specifico alla realizzazione del senso 

del mondo. Questa possibilità di acquisire di nuovo un rappor- 

to positivo con la vita storica è ciò che conferisce alla fi- 

losofia dell’idealismo tedesco il suo significato predominante 

e intramontabile per il futuro che possiamo prevedere. Una 

filosofia che ne sia in linea di principio incapace potrà sì 

compiere qualcosa di significativo per problemi specifici, ma 

non produrrà mai un'intuizione del mondo veramente com- 

prensiva, soddisfacente per gli uomini civili, e tanto meno po- 

trà avanzare la pretesa di essere progredita al di là della filoso- 

fia dell’idealismo tedesco. Dominato dall’idea che lo scopo del- 

la vita terrena dell’umanità sia quello di orientare con la liber- 

tà tutti i suoi rapporti secondo ragione, Fichte ha costruito 

filosoficamente, per la prima volta dopo Kant, la «storia uni- 

versale » come totalità unitaria; e anche Hegel ha abbozzato 

in base al concetto di libertà il suo sistema di filosofia della 

storia, che abbraccia molto più delle postume Vorlesungen, 

raggiungendo in tal modo il culmine — ancor oggi per molti 

versi incompreso — di questo tipo di considerazione filosofica 

della storia. Non possiamo addentrarci qui nel contenuto del 

suo sistema; e neppure importa sottolineare le differenze che 

separano tra loro i concetti di libertà di Kant, di Fichte e di 

Hegel. Qui importa soltanto che la filosofia dell’idealismo tede- 

sco ha trovato un concetto di valore incondizionato che le ha 

permesso di trattare filosoficamente, nel modo che si è detto, la 



HEINRICH RICKERT 415 



totalità del corso storico, che questo concetto di valore era al 

tempo stesso abbastanza formale da servire come punto di riferi- 

mento per la storia universale — come viene grandiosamente 

espresso soprattutto da Hegel — e infine che non c’era più 

bisogno, almeno in linea di principio, di presupposti del tipo 

di quelli adoperati dalla filosofia della storia distrutta dalla 

moderna scienza della natura. Per la filosofia della storia del 

nostro tempo sorge così la questione se sia possibile, sul ter- 

reno dell’idealismo fondato da Kant e nel pieno riconoscimento 

di tutti i risultati della moderna scienza della natura, trovare 

anzitutto un punto di vista valutativo che consenta di trattare 

filosoficamente la storia universale, e quindi pervenire a una 

filosofia della storia che in linea di principio mostri — con 

riferimento al sapere storico del nostro tempo, e mantenendo 

intatta ogni diversità di contenuto — la stessa struttura for- 

male dei sistemi di filosofia della storia di Fichte e di Hegel. 


Ma con questo, e proprio richiamandoci a quei pensatori, il 

problema di una trattazione filosofica dell’universo storico non 

sembra ancora sufficientemente chiarito. La filosofia della sto- 

ria dell’idealismo tedesco è sì indipendente dalle dottrine della 

scienza naturale, ma proprio per questo è tanto più dipendente 

da presupposti sull'essenza merafisica che sta alla base del 

«mondo fenomenico » della storia. Già la dottrina della libertà 

di Kant è connessa con il suo concetto metafisico di un caratte- 

re intelligibile, e in Hegel appare del tutto chiaro quanto la 

sua filosofia della storia sia fondata metafisicamente. È possibi- 

le svincolare la filosofia della storia dalla metafisica, oppure 

essa presuppone sempre due specie di essere, cioè un mondo dei 

fenomeni in cui si svolgono gli avvenimenti storici e un mondo 

della realtà vera, posta al di là dei fenomeni, a cui gli avveni- 

menti storici devono essere riferiti se devono raccogliersi in uno 

sviluppo unitario e articolato? Soltanto ora siamo pervenuti al 

punto decisivo, e in virtù della connessione che lega tra loro i di- 

versi problemi di filosofia della storia l’importanza di tale que- 

stione risale ancora più indietro. Abbiamo scoperto che l’inter- 

pretazione del senso generale della storia presuppone l’idea di un 

sistema di valori incondizionati, a cui sia possibile commisurare i 

valori culturali forniti di generalità empirica. Questo sistema 

non sarà forse realmente fondato soltanto se lo si è ancorato — 



416 HEINRICH RICKERT 



per così dire — metafisicamente e si può quindi essere certi che 

l’essere storico, nel suo fondamento metafisico, è anche dispo- 

sto alla realizzazione di ciò che dev'essere? Anche per la scien- 

Za storica empirica i presupposti metafisici sembrano indispensa- 

bili. Vi sono pensatori a cui la storia appare come qualcosa di 

« spettrale » finché i suoi oggetti, e in particolare le personalità 

storiche, vengono considerati semplicemente come realtà imma- 

nenti. Quelle che agiscono sul teatro della storia devono essere 

anime dotate di essenza, metafisiche, e noi dobbiamo poterle 

pensare in certa misura inserite in una grande connessione 

« spirituale », che si innalza al di sopra delle anime singole e 

di cui nulla sa Ia semplice esperienza, ma che costituisce il 

sostegno dei valori incondizionati e senza la quale tutta la 

storia sarebbe un disordine senza senso, che non avrebbe nessun 

significato indagare. 


È necessario almeno accennare a una presa di posizione 

anche nei confronti di questi problemi; e noi cominciamo con 

la questione dei presupposti metafisici di cui neppure la scien- 

za storica empirica può fare a meno, perché soltanto così si 

può rispondere alla domanda sulla necessità di assunzioni meta- 

fisiche per la ricerca del senso della storia e per la trattazione 

filosofica della storia universale. 


Bisogna in primo luogo ammettere incondizionatamente che 

molti storici hanno una fede che, a volerla formulare concet- 

tualmente, assumerebbe un carattere metafisico; altrettanto cer- 

to è che questa fede contribuisce a far apparire loro veramente 

significativa l'indagine della vita storica. Anche qui si può rin- 

viare di nuovo a Ranke, il quale designa le grandi tendenze 

della storia come idee di Dio, attraverso cui si realizza il piano 

provvidenziale divino; e nel medesimo modo si potrebbe mo- 

strare che altri storici assumono presupposti sovra-empirici. 

Non ne sono certamente liberi soprattutto coloro che ritengono 

di aver trovato le «leggi di sviluppo» di ogni vita storica: 

infatti presso di loro tale fede assume sì, sotto l'influenza della 

moda, un abito naturalistico, diventando la fede in concetti di 

leggi intesi come forze operanti, ma non per questo cessa di 

essere metafisica. Né si può respingere il problema presente in 

una fede come quella manifestata da Ranke spiegando che 

tutto ciò sta al di fuori della scienza e non esercita la minima 



HEINRICH RICKERT 417 



influenza su di essa, poiché quest'idea è giusta soltanto nel 

senso che la fede — come dice Ranke della sua dottrina delle 

idee — non fa mai violenza sulle particolarità della vita sto- 

rica. Per il resto, anch'essa appartiene ai presupposti della ricer- 

ca storica, nella misura in cui vi è presente la convinzione che, 

quando conferiamo alla vita storica in genere un significato 

«oggettivo », si tratta di qualcosa di più che di un'assunzione 

arbitraria. 


Ma con questo non si è ancora detto, d'altra parte, che 

proprio l'elemento metafisico presente nella fede sia impor- 

tante a tal fine. Lo storico in quanto storico farà bene in ogni 

caso a considerare la sua fede come semplice fede e a guardarsi 

dal pericolo di immettere nelle sue indagini una qualsiasi meta- 

fisica formulata scientificamente. Egli si porterebbe altrimenti 

sul terreno della teoria delle due specie di essere, a cui abbia- 

mo già accennato, e si imbatterebbe subito in grandi difficoltà 

se dovesse fare dichiarazioni sul rapporto degli avvenimenti 

storici, che si svolgono soltanto nel mondo dell'esperienza, con 

la realtà trascendente. Anzi, già l’idea che gli avvenimenti 

storici siano semplici « fenomeni» di un essere metafisico ad 

essi sottostante non è adatta a far apparire allo storico più 

significativa la sua ricerca, ma al contrario gli guasta necessaria- 

mente ogni gioia nel suo lavoro. Allo studioso di scienze 

naturali può forse essere indifferente che i suoi oggetti sia- 

no fenomeni o realtà assolute. Egli li considera soltanto co- 

me esemplari di un genere, e i concetti generali di cui va in 

cerca mantengono in ogni caso la loro validità. Invece gli 

avvenimenti che sono essenziali nella loro individualità perdo- 

no il loro significato se non possono venir considerati come 

realtà, e se nell’essere immediatamente accessibile alla scienza 

non si realizzano anche i valori a cui lo storico riferisce gli 

oggetti. L'esigenza di una realtà autentica presente dietro di 

essi non deve quindi mai la propria origine a un interesse della 

scienza storica. Essa deve piuttosto venir ricondotta agli effetti 

di quella strana « teoria della conoscenza » che riduce il mondo 

dell’esperienza a mera parvenza, a velo di Maia, affermando 

che il suo riconoscimento come realtà condurrebbe al sonnam- 

bulismo o — come si dice oggi — all’illusionismo. Per il 

pensiero non sfigurato in questa o in analoga maniera la vita 



27. $TORICISMO TEDESCO. 



418 HEINRICH RICKERT 



data immediatamente non può mai essere un sogno o un fanta- 

sma; e lo storico empirico deve in ogni caso attenersi al 

mondo accessibile alla sua esperienza. In esso egli deve vedere 

l’unica realtà che gli importa come storico, accantonando la 

questione del suo « substrato » metafisico. 


Ma possiamo arrestarci a un sistema di valori inteso come 

definitivo anche se cerchiamo i princìpi della storia e ne inter- 

pretiamo il senso? Oppure l’assunzione di una validità incondi- 

zionata di questi valori include l'assunzione di una realtà tra- 

scendente, e da ciò non deriva per la filosofia — che non può 

lasciare in sospeso tali questioni — il compito di determina- 

re il rapporto dei valori con questo mondo metafisico? 


Anche qui si deve ammettere che il presupposto di una 

validità incondizionata dei valori ci conduce fuori del mondo 

immanente, e quindi nel trascendente, e che affinché nulla 

rimanga oscuro si deve affermare — nei confronti di una filoso- 

fia puramente immanente — la validità di valori trascendenti. 

Ma assai poco si è fatto se si crede di dover andare oltre, 

spiegando che questi valori indicano anche un qualche essere 

trascendente. In primo luogo non ci si può spingere, con buona 

coscienza scientifica, oltre questa indicazione del tutto indeter- 

minata; inoltre ogni tentativo di determinare più da vicino la 

realtà trascendente deve trarre il proprio materiale dalla realtà 

immanente o arrestarsi a pure negazioni. Non c’è bisogno di 

dimostrare che non si può asserire nulla di scientificamente 

attendibile in merito al rapporto di una realtà del tutto indeter- 

minata, o determinata in modo puramente negativo, con il 

mondo immanente. La realtà trascendente rimane quindi un 

concetto completamente vuoto e infecondo anche per la filoso- 

fia della storia come dottrina dei princìpi. Questa disciplina ha 

perciò fatto abbastanza chiarendo a se stessa questo punto e 

accontentandosi dell’aspirazione a determinare un sistema di 

valori incondizionati. Non si obietti che il concetto di un do- 

ver essere trascendente, che è qui presupposto, potrebbe essere 

dimostrato vuoto e infecondo con i medesimi argomenti impie- 

gati per il concetto di essere trascendente. Certamente non è 

possibile determinare che cosa significa un essere trascendente 

se non dicendo che qui si tratta di valori forniti di validità 

sopra-storica, atemporale, incondizionata; anche qui il concetto 



HEINRICH RICKERT 419 



viene perciò acquisito per mezzo della negazione, in quanto 

partiamo dal valore condizionato e togliamo ad esso la condi- 

zionatezza. Il concetto che ne deriva ha però un significato del 

tutto differente da quello che sorge quando, per ottenere il 

concetto di essere trascendente, partiamo dal concetto dell’esse- 

re immanente e neghiamo la sua immanenza. Con questa nega- 

zione togliamo all’essere ogni contenuto, mentre al dover 

essere lasciamo il contenuto e gli togliamo soltanto una limita- 

zione, che gli impedisce il pieno dispiegarsi di una tendenza in 

esso presente — la tendenza a valere. Questa differenza tra 

essere trascendente e dover essere trascendente può forse venir 

chiarita nel modo migliore richiamandoci al concetto kantiano 

di idea. Kant trasforma appunto il concetto di realtà trascen- 

dente nel concetto di dover essere trascendente, stabilendo in 

tal modo sia il diritto sia l'illegittimità di una scienza che 

aspiri all’incondizionato. La stessa cosa avviene se ci arrestiamo 

al dover essere trascendente e rifiutiamo un essere trascenden- 

te: proprio la filosofia della storia come scienza dei princìpi 

non ha alcun motivo di seguire l’indicazione dei valori trascen- 

denti verso un essere trascendente. Sono, appunto, soltanto valo- 

ri quelli che essa trova come princìpi della vita storica, e ad 

essa interessa solamente la validità dei valori in quanto valori. 

Inoltre, questa validità incondizionata deve già essere salda pri- 

ma che si possa anche soltanto parlare di un’indicazione verso 

una realtà trascendente; occorre cioè che l’unico problema signi- 

ficativo per la dottrina dei princìpi storici sia già risolto prima 

che si presenti il problema di una realtà trascendente in genera- 

le. Perciò anche la filosofia della storia, nella misura in cui ha 

a che fare con i princìpi della vita storica, può lasciare in 

sospeso i problemi metafisici così come fa la scienza storica 

empirica, perché in ogni caso tali problemi non appartengono 

a questa parte della filosofia. 


Ma che cosa accade allora con la storia universale filosofica 

se siamo costretti ad arrestarci, dinanzi alla questione della 

realtà trascendente e del suo rapporto con l’essere immanente, 

a un won liquet, o addirittura a respingere l’idea di una realtà 

metafisica in generale? Forse che la rappresentazione filosofica 

sistematica dell’universo storico, la quale non si limita ai 

valori ma li pone esplicitamente in collegamento con il contenu- 



420 HEINRICH RICKERT 

to dell’essere storico, non perde ogni senso se in certa misura 

avvicina soltanto dall’esterno i suoi valori alla vita storica e 

non può affatto presupporre se e come l’essere storico immanen- 

te è connesso non soltanto mediante la relazione di valore, ma 

anche realmente, con il proprio fine della realizzazione dei 

valori? Non c’è dubbio che qui siamo di fronte a un problema 

straordinariamente difficile, e che le aspirazioni metafisiche del- 

la nostra epoca — così come si esprimono soprattutto nelle 

opere di Eucken® — acquistano, da questo punto di vista, un 

significato da non sottovalutare anche per la filosofia della sto- 

ria. Neppure in questo contesto si può certamente ammettere 

che il mondo dell’esperienza abbia bisogno di una struttura 

metafisica, perché altrimenti il mondo non sarebbe, per così 

dire, abbastanza reale e acquisterebbe qualcosa di spettrale. 

Infatti, se non possiamo abbracciare abbastanza realtà nell’espe- 

rienza immediata, nessun pensiero che si muova in concetti 

astratti potrà riempire questa lacuna. Ma — ci si può effettiva- 

mente chiedere — la relazione necessaria della realtà storica 

con valori incondizionati non presuppone un legame superiore 

tra essere e dover essere, e nel medesimo tempo una specie di 

realtà che non possiamo più concepire come immanente? Qui 

l’idea di una realtà metafisica sembra inevitabile, e quindi la 

filosofia della storia appare connessa alla metafisica nel modo 

in cui avviene, per esempio, in Hegel. 


Ma non dobbiamo forse anche qui dire che con la semplice 

idea di un'indicazione verso un legame metafisico dei valori 

con la realtà empirica si esaurisce pure tutto ciò che la scienza 

è in grado di pensare, e che è del tutto sufficiente assumere una 

qualsiasi relazione necessaria — non ulteriormente determinabi- 

le — della realtà con i valori? Se consideriamo ancora, per 



28. Rudolf Christoph Eucken (1846-1926), filosofo tedesco, autore dei Prolego- 

mena zu Forschungen tiber die Einhcit des Geisteslebens in Bewusstsein und Tat 

der Menschhest (1885), del fortunato volume Die Lebensanschauungen der grossen 

Denker (1890), di Der Kampf um einen geistigen Lebensinhalt (1896), di Der Wakr- 

heitsgchalt der Religion (1901), delle Grundlinien einer neuen Lebensanschauung 

(1907), di Der Sinn und der Wert des Lebens (1908), della Einfiihrung in cine Phi- 

losophie des Geisteslebens (1908), di Mensch und Welt (1918) c di numerose altre opere, 

anche di argomento storico, cbbe larghissima notorietà per le sue doti di scrittore 

€ per il carattere al tempo stesso popolareggiante e retorico del suo idcalismo, Nel 

1908 cbbe il premio Nobel per la letteratura. 



HEINRICH RICKERT 421 



esempio, la filosofia della storia di Hegel, troveremo che la 

metafisica ha un peso molto limitato nella descrizione di tutte 

le particolarità. Per delimitare e articolare l’universo storico è 

importante solamente il concetto di libertà come concetto di 

valore e la convinzione generalissima che lo sviluppo verso la 

libertà è in qualche modo inerente all’essenza stessa del mondo. 

Qui sono però presenti solo i due presupposti già accennati di 

un valore assoluto e della sua necessaria relazione con la realtà 

storica in generale. Per il resto la filosofia della storia di Hegel 

si muove entro concetti che derivano dalla vita storica imma- 

nente e che si riferiscono soltanto a questa vita immanente. 

Non si procede così in tutti i tentativi di filosofia della storia 

che hanno la forma di una storia universale? non dobbiamo 

anzi dire che anche per il filosofo della storia una maggiore 

quantità di metafisica non soltanto non è richiesta, ma può 

addirittura diventare dannosa? A lui, come allo storico empiri- 

co, ciò che interessa è lo sviluppo della cultura nel mondo 

immanente, nel mondo spazio-temporale. Se questo mondo im- 

manente viene perciò ridotto da qualche metafisica a una 

realtà di secondo grado, se la vera realtà — in cui i valori 

supremi coincidono con l’essere supremo — viene concepita 

come atemporale e aspaziale, lo sviluppo spazio-temporale, sin- 

golare e individuale, perde allora subito ogni senso anche dal 

punto di vista della filosofia della storia, così come dal punto 

di vista della storia empirica. A quale scopo tutto quel proces- 

so di lotta dell'umanità, che nel corso dei millenni riesce a 

realizzare solo approssimativamente e imperfettamente ciò che 

è per sempre reale nella più profonda essenza del mondo? Se 

nel tempo possiamo scorgere soltanto un filo del tessuto del 

velo di Maia, allora non esiste più una filosofia positiva della 

storia. In tal caso il suo compito consiste solo nel comprendere 

la vanità di tutto ciò che è storico, in quanto scorre necessaria- 

mente nel tempo, e nel negare con Schopenhauer ogni senso 

alla storia. Se dev’esserci non soltanto una scienza storica empi- 

rica, ma anche una filosofia della storia, proprio l’elemento 

temporale presente nel mondo dev'essere in ogni caso assoluta- 

mente reale. 


Ma — ci si potrebbe infine ancora domandare — non si può 

forse attribuire anche a ciò che è temporale una realtà metafisi- 



422 HEINRICH RICKERT 



ca, € l’essere trascendente deve proprio venir concepito come 

necessariamente atemporale, se si vuole pensarlo? Qui sembra 

aprirsi ancora un’ultima strada per la quale unificare tra loro 

filosofia della storia e metafisica. Ma si tratta di una semplice 

apparenza, perché nella filosofia della storia il nervo del pensie- 

ro metafisico viene reciso dall'assunzione di una realtà metafisi- 

ca di ciò che è temporale. Quel che ci dava soltanto un’indica- 

zione sull’essenza trascendente del mondo era appunto la con- 

vinzione della validità trascendente dei valori e l'esigenza del 

loro nesso reale con la realtà storica. Ma la trascendenza del 

valore significa proprio la sua validità atemporale, e soltanto 

una realtà atemporale potrebbe essere il sostegno metafisico di 

valori atemporali; ma per instaurare un legame necessario dello 

sviluppo storico con valori atemporali non si può fondare la 

validità dei valori su un essere metafisico che si esaurisce nel 

tempo. Una metafisica che voglia essere la base della filosofia 

della storia si imbatte quindi nelle maggiori difficoltà non appe- 

na aspira a una formulazione concettuale dei suoi presupposti 

trascendenti che sia in qualche modo diversa da quella con- 

tenuta nel concetto di dover essere trascendente. Per trova- 

re nel corso storico temporale un senso oggettivo, abbiamo biso- 

gno dell’atemporale. Ma non appena poniamo questo elemento 

atemporale come realtà metafisica e priviamo quindi della vera 

realtà il corso storico, annulliamo ogni senso della storia e 

ogni possibilità di una sua trattazione filosofica. C'è una via 

per sfuggire a questo circolo, oppure ogni metafisica della sto- 

ria deve naufragare in esso? Non siamo costretti, anche in una 

trattazione filosofica della storia universale, a scorgere nei valo- 

ri atemporali e nella loro relazione necessaria, ma scientifica- 

mente indeterminabile, con la realtà temporale i presupposti 

ultimi a cui dobbiamo arrestarci ? 


Se si dovesse rispondere positivamente a questa domanda — 

e almeno finora non vediamo alcuna via che ci permetta una 

risposta negativa — i compiti della filosofia della storia, che 

all’inizio sembrava scindersi in tre diverse discipline, si configu- 

rerebbero in modo del tutto unitario. Dovendo lasciare all’inda- 

gine delle scienze particolari l’intero campo dell’essere empi- 

rico e rinunciare a cogliere l’essenza metafisica del mondo, alla 

filosofia rimane come campo specifico il regno dei valori. Essa 



HEINRICH RICKERT 423 



deve trattare questi valori come valori, indagare sulla loro vali- 

dità e penetrare le connessioni teleologiche di valore. Uno di 

questi campi di valori è quello della scienza, in quanto essa 

aspira alla realizzazione dei valori di verità, e la filosofia della 

storia ha quindi a che fare anzitutto con l’essenza della scienza 

storica. Essa la concepisce come la rappresentazione individua- 

lizzante dello sviluppo singolare della cultura, vale a dire del- 

l’essere e dell’accadere fornito di significato, nella sua individua- 

lità, in riferimento ai valori culturali. Da ciò deriva allora che 

i princìpi della vita storica sono essi stessi valori, e la trattazio- 

ne di questi valori con riguardo alla loro validità diventa perciò 

il secondo compito della filosofia della storia, che però coincide 

in ultima analisi con il compito della filosofia come scienza dei 

valori in generale. In tal modo le due indagini che risultano 

necessarie stanno in una connessione sistematica, e in questa 

connessione si inserisce infine anche il terzo gruppo di questio- 

ni di filosofia della storia. Esso costituirà la conclusione dell’in- 

tero sistema filosofico, poiché in esso si cerca di mostrare quan- 

to dei valori criticamente fondati si è realizzato nel corso prece- 

dente della storia, e quali sono state le grandi epoche di questa 

realizzazione dei valori, per comprendere dove oggi stiamo in 

questo processo di sviluppo e dove dobbiamo cercare il nostro 

compito per il futuro. La filosofia della storia, partendo dalla 

logica della storia, tratta perciò sempre di valori: in primo 

luogo dei valori da cui si possono derivare le forme concettuali 

e le norme della ricerca storico-empirica, quindi dei valori che 

costituiscono — in quanto principi del materiale storicamente 

essenziale — la storia stessa, infine dei valori la cui graduale 

realizzazione si compie nel corso della storia. 



GEORG SIMMEL 



NOTA BIOGRAFICA 



Georg Simmel nacque a Berlino il 1° marzo 1858, figlio di genitori 

ebrei convertiti al Protestantesimo. Compì gli studi universitari all’Uni- 

versità di Berlino, dove seguì i corsi di storici come Theodor Mommsen 

e Heinrich von Treitschke, di psicologi come Moritz Lazarus e Her- 

mann Steinthal, di etnologi come Adolf Bastian, nonché dello storico 

della filosofia greca Eduard Zeller. Fin da questi anni la personalità di 

Simmel rivela interessi culturali molteplici, che caratterizzeranno anche 

in seguito la sua produzione filosofica. A Berlino egli consegue nel 1881 

il dottorato, con la dissertazione Das Wesen der Materie nach Kants 

Physischer Monadologie (Berlin, 1881), e tre anni dopo ottiene l’abilita- 

zione. I pregiudizi razziali ancora largamente diffusi negli ambienti 

universitari tedeschi, uniti all’impressione di dilettantismo che il suo 

stile filosofico poteva a prima vista suscitare, resero lenta e difficile 

(nonostante l’appoggio di amici influenti, come lo stesso Max Weber) la 

carriera accademica di Simmel, relegandolo per molti anni nella posizio- 

ne di libero docente; e soltanto nel 1901 egli ottenne la nomina a 

professore straordinario. Ma le sue lezioni berlinesi furono largamente 

frequentate, e da esse trassero spunto allievi destinati a diventare famo- 

si, come per esempio il giovane Gyorgy Luk£4cs. Soltanto nel 1914 Simmel 

fu chiamato a coprire una cattedra di filosofia, all’Università di Strasbur- 

g0; e qui morì quattro anni dopo, il 28 settembre 1918. 


Le prime opere di Simmel sono caratterizzate da un prevalente 

interesse per le scienze sociali, che si traduce — sul piano filosofico — 

nello sforzo di affrontare il problema critico delle scienze sociali e, in 

connessione con queste, della conoscenza storica. Dal saggio Uber soziale 

Differenzierung (Leipzig, 1890) alla Einleitung in die Moralwissenschaft 

(Stuttgart-Berlin, 1892-93) e alla Philosophie des Geldes (Leipzig, 1900), 

la ricerca positiva sui fenomeni sociali si intreccia con il tentativo di 

determinare l'ambito e l'orientamento di indagine delle scienze sociali, 

ponendo in luce la loro struttura logica e la loro relazione con altre 

forme di conoscenza scientifica. Su questo terreno Simmel prende posi- 

zione nei confronti della concezione positivistica delle scienze sociali, 

affermandone il compito descrittivo e respingendo il postulato dell’esisten- 

za di una struttura legale della realtà storico-sociale. Nello stesso tempo 



428 GEORG SIMMEL 



egli si propone, richiamandosi a una prospettiva kantiana, di determina- 

re le categorie che stanno a base dell’elaborazione concettuale delle 

scienze sociali. Ma queste categorie vengono da lui interpretate non già 

come princìpi 2 priori, bensì come punti di vista relativi sulla base dei 

quali le singole discipline si organizzano metodologicamente. Infatti 

Simmel intende non tanto stabilire in linea generale il campo di ricerca 

delle scienze sociali, quanto analizzarle nei loro procedimenti specifici e 

nei loro rapporti reciproci. Nell'Einleitung in die Moralwissenschaft 

egli affronta il problema dell’impostazione della scienza morale — consi- 

derata come una scienza che si pone al confine tra psicologia, scienze 

sociali e ricerca storica — nell’intento di svincolare l’etica dal domi- 

nio di concetti generali per portarla sul terreno dell’osservazione empiri- 

ca e quindi della descrizione dei comportamenti umani. Nella Philoso- 

phie des Geldes egli analizza il significato del concetto di denaro in 

relazione al concetto di valore, ponendo in luce la sua trasformazione da 

valore sostanziale in valore funzionale, cioè in designazione simbolica 

del diverso valore delle cose. Nell'ambito di questa prospettiva di origi- 

ne kantiana, anche se profondamente modificata, Simmel si è pure 

proposto, in Die Probleme der Geschichtsphilosophie (Leipzig, 1892, 

19057, 1907°), di determinare le condizioni di validità della conoscenza 

storica, considerata nelle sue basi psicologiche e nei suoi rapporti con le 

scienze sociali. Egli ha individuato il fondamento della conoscenza stori- 

ca nell'identità tra soggetto e oggetto — identità che rende appunto 

possibile la comprensione; cosicché le categorie storiografiche diventano 

presupposti psicologici, i quali assolvono la funzione di organizzare 

concettualmente il dato empirico. Perciò la loro validità risulta relativa, 

e parimenti relativi sono i risultati a cui pervengono sia le scienze 

sociali sia la conoscenza storica. 


Il culmine di questa prima fase della produzione simmeliana è 

rappresentato dalla Soziologie: Untersuchungen iiber die Formen der 

Vergesellschaftung (Leipzig, 1908), in cui Ja distinzione della sociologia 

dalle altre scienze sociali viene formulata su una base puramente forma- 

le, attribuendo a queste il compito di studiare i fenomeni sociali nel 

loro diverso contenuto (morale, economico, politico, e così via) e a 

quella l’analisi delle forme di associazione che costituiscono la struttura 

propria della società in quanto tale. La sociologia così intesa prescinde 

quindi dallo studio del contenuto della società, per limitare la sua 

indagine ai modi di relazione tra gli individui; essa ha per oggetto la 

maniera in cui i rapporti tra gli individui si costituiscono come fenome- 

ni sociali. L'autonomia della sociologia dalle altre discipline storico-socia- 

li viene perciò ottenuta attraverso la rigorosa determinazione del suo 

carattere « formale ». 


Già prima della Soziologie, attraverso la critica della nozione kantia- 



GEORG SIMMEL 429 



na di a priori e lo studio di Goethe, di Schopenhauer e di Nietzsche — 

filosofi a lui particolarmente congeniali — Simmel veniva enunciando i 

princìpi di quel relativismo destinato ben presto a tradursi in una 

« filosofa della vita». Dal volume su Kant (Leipzig, 1904; tr. it. 

Padova, 1953) a Schopenhauer und Nietzsche (Leipzig, 1907; tr. it. 

Torino, 1923), fino a Hauptprobleme der Philosophie (Leipzig, 1910; tr. 

it. Firenze, 1920) e ai saggi raccolti col titolo di Philosophische Kultur 

(Potsdam, 1911), egli ha respinto il tentativo di cercare un fondamento 

assoluto del conoscere, così come delle altre manifestazioni della vita 

umana, affermando la necessità di riconoscere il carattere relativo dell’at- 

tività dell’uomo in ogni campo — e quindi anche il carattere relativo 

della verità filosofica. Nel periodo successivo, e soprattutto negli anni di 

Strasburgo, questa prospettiva relativistica mette capo all'affermazione 

dell’intrascendibilità della vita. In Der Konflikt der modernen Kultur 

(Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Torino, 1925) e in Lebensanschauung 

(Miinchen-Leipzig, 1918; tr. it. Milano, 1938) la vita si configura come il 

principio ultimo e incondizionato dal quale traggono origine tutte le forme 

della realtà, le quali sono poste in essere dalla vita e tuttavia si contrappon- 

gono al suo fluire. La vita è infatti un processo infinito, creatore di forme 

finite che si organizzano su un piano trascendente rispetto alla vita, costi- 

tuendo così i diversi mondi ideali dello spirito: la vita cerca di travolgere 

queste forme, mentre esse cercano di sfuggire a una distruzione inevitabi- 

le. La vita può essere quindi definita al tempo stesso come « più-vita » e 

« più-che-vita »: « più-vita » in quanto processo temporale continuo che 

cresce su se stessa, superando i limiti che essa si pone, e « più-che-vita » 

in quanto produzione di forme finite che emergono da tale processo. 


Simmel ha applicato questa impostazione all'analisi dei più svariati 

fenomeni culturali, in particolare dei fenomeni artistici. Egli ha anche 

ripreso in esame — in alcuni saggi che vanno da Das Problem der 

historischen Zeit (1916) a Die historische Formung (1917-18) e a Vom 

Wesen des historischen Verstehens (Berlin, 1918) — il problema della 

storicità, considerata dal punto di vista della dialettica tra la vita e le 

sue forme. Il rapporto tra la vita e la storia si presenta, in questi scritti, 

come il rapporto tra il processo temporale della vita (che, in quanto tale, 

non è ancora storico) e un mondo ideale che emerge da esso, contrappo- 

nendosi alla vita e cercando di resistere alla sua opera distruttrice. 

L'elaborazione concettuale della conoscenza storica coincide quindi con 

lo sforzo di costituzione di questo mondo ideale, e il procedimento della 

comprensione sul quale la storiografia si fonda appare qualificato non 

già come un rapporto immediato, bensì come una relazione che presup- 

pone il riferimento all’alterità di un diverso individuo. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Ricordiamo qui le altre opere di Simmel: Philosophie der Mode, Ber- 

lin, 1905; Kan und Goethe, Berlin, 1906, e Leipzig, 1907 ?, 1916?, 19184; 

Die Religion, Frankfurt a.M., 1906, 19122, 19225; Goethe, Leipzig, 1913; 

Rembrandt: cin Runstphilosophischer Versuch, Leipzig, 1916; Grundfra- 

gen der Soziologie: Individuum und Gesellschaft, Berlin-Leipzig, 1917; 

Der Krieg und die geistigen Entscheidungen, Miinchen-Leipzig, 1917. Al- 

tre raccolte di saggi sono le seguenti: Zur Philosophie der Kunst: Philo- 

sophische und kunstphilosophische Aufsétze (a cura di Gertrud Simmel), 

Potsdam, 1922; Schulpidagogik (lezioni a cura di K. Hauter), Osterwieck / 

Harz, 1922; Fragmente und Aufsitze aus dem Nachlass und Veròffentli- 

chungen der letzen Jahre (a cura di G. Kantorowicz), Miinchen, 1923; 

Rembrandtstudien, Basel, 1953; Bricke und Tiìr: Essays des Philosophen 

zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann, 

in collaborazione con M. Susman), Stuttgart, 1957. Dei numerosi articoli 

di Simmel ci limitiamo a segnalare quelli non compresi nelle raccolte che 

abbiamo menzionato: Zur Metaphysik des Todes, « Logos », I, I9I0, pp. 

57-70; Das individuelle Gesetz, « Logos », IV, 1913, pp. 117-60, poi anche 

in forma di volume (a cura di M. Landmann), Frankfurt a.M., 1968; Der 

Fragmentcharackter des Lebens, « Logos », VI, 1916-17, pp. 29-40; Frag- 

ment iiber die Liebe, « Logos », X, 1921-22, pp. 1-54; tr. it. Milano, 1927. 


Le opere di Simmel sono state largamente ripubblicate nel dopoguerra. 

Tra le ristampe della Scientia Verlag citiamo quella della Einle:tung in 

die Moralwissenschaft, Aalen, 1964‘, quella della Philosophie des Geldes, 

Aalen, 1958, e quella della Soziologie, Aalen, 19584; sono stati inoltre 

riediti Uber soziale Differenzierung, Amsterdam, 1966 2, e Haupitprobleme 

der Philosophie, Berlin, 19507, 1966. Un'importante raccolta di documen- 

ti è il Buch des Dankes an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Biblio- 

graphie (a cura di K. Gassen e M. Landmann), Berlin, 1958, apparso in 

occasione del centenario della nascita. 


Oltre alle traduzioni italiane già pubblicate sono in preparazione quel- 

la della Philosophie des Geldes (per i « Classici della sociologia » U.T.E.T.) 

e della Soziologie (per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di Co- 

munità). 



GEORG SIMMEL 431 



Dell’ampia letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Sim- 


mel segnaliamo gli studi seguenti: 


A. MAMELET, Le relativisme philosophique chez Georg Simmel, Paris, 1914. 


M. Apter, Georg Simmels Bedeutung fiir die Geistesgeschichte, Wien- 

Leipzig, 1919. 


M. FriscHersen-KonLER, Georg Simmel, « Kantstudien », XXIV, 1919, 

pp. 1-51. 


W. Kwevets, Simmels Religionstheorie: ein Beitrag zum religibsen Pro- 

blem der Gegenwart, Leipzig, 1920. 


S. Kragaver, Georg Simmel, « Logos », IX, 1920-21, pp. 307-38. 


W. Frost, Die Soziologie Simmels, « Acta Universitatis Latviensis » (Ri- 

ga), XII, 1925, pp. 219-313, e XIII, 1926, pp. 149-225. 


V. JANKÉLÉvITcH, Georg Simmel, philosophe de la vie, « Revue de méta- 

physique et de morale », XXXII, 1925, pp. 213-57 e 373-86. 


N. J. Sevrman, The Social Theory of Georg Simmel, Chicago, 1925, e 

New York, 19662. 


M. Srernuorr, Die Form als soziologische Grundkategorie bei Georg Sim- 

mel, « Kélner Vierteljahrshefte fiir Soziologie », IV, 1925, pp. 214-59. 


W. Fagran, Kritik der Lebensphilosophie Georg Simmels, Breslau, 1926. 


G. Loose, Die Religionssoziologie Georg Simmels, Dresden, 1933. 


H. MiLLEr, Georg Simmel als Deuter und Fortbildner Kants, Dresden, 

1935. 


R. Heserte, The Sociology of Georg Simmel: The Forms of Social In- 



teraction, nel volume An Introduction to the History of Sociology (a 

cura di H. E. Barnes), Chicago, 1948, pp. 249-73. 



« American Journal of Sociology », LXIII, 1958, n. 2 (fascicolo commemo- 

rativo del centenario della nascita di Durkheim e di Simmel), con ar- 

ticoli di K, D, Narcete, K. H. Wotrr, L. A. Coser, T. M. Mis. 


Georg Simmel, 1858-1918 (a cura di K. H. Wolff), Columbus (Ohio), 

1959. 


M. Susman, Die geistige Gestalt Georg Simmels, Tibingen, 1959. 


H. Miier, Lebdensphilosophie und Religion bei Georg Simmel, Berlin- 

Miinchen, 1960. 



A Banri, Filosofi contemporanei (a cura di R. Cantoni), Milano-Firenze, 

1961, cap. V. 



432 GEORG SIMMEL 



I. Bauer, Die Tragik in der Existenz des modernen Menschen bei G. 

Simmel, Berlin, 1962. 



R. H. WeincartNER, Experience and Nature: the Philosophy of Georg 

Simmel, Middletown (Conn.), 1962. 



P. Gorsen, Zur Phinomenologie des Bewusstseinsstroms: Bergson, Dilthey, 

Husserl, Simmel und die lebensphilosophischen Antinomien, Bonn, 

1966. 



H. LiepescHùtz, Von Georg Simmel zu Franz Rosenzweig: Studien zum 

jiidischen Denken im deutschen Kulturbereich, Tiibingen, 1970. 



Un elenco completo degli scritti di Simmel è dato da E. RosenTHAL 

e K. OsertaenDER, Books, Papers and Essays by Georg Simmel, « Ame- 

rican Journal of Sociology », LI, 1945, pp. 238-47. Ma la bibliografia più 

completa degli scritti di e su Simmel è quella di K. Gassen, in Buch des 

Dankes an Georg Simmel cit., pp. 309-65, la cui ultima parte — concer- 

nente la letteratura critica — è riprodotta in Georg Simmel, 1858-1958, 



cit., pp. 357-75- 



Georg Simmel nel 1901. 



I PRESUPPOSTI PSICOLOGICI DELLA 

RICERCA STORICA * 



Se la teoria della conoscenza in generale muove dal fatto 

che il conoscere — considerato da un punto di vista formale — 

è un mero rappresentare e il suo soggetto è un’anima, la teoria 

del conoscere storico è ulteriormente determinata dal fatto che 

la sua materia è il rappresentare, il volere e il sentire di perso- 

nalità, e che i suoi oggetti sono anime. Tutti i processi esterni — 

politici e sociali, economici e religiosi, giuridici e tecnici — 

non sarebbero per noi né interessanti né comprensibili se non 

scaturissero da movimenti psichici, e non suscitassero altri movi- 

menti psichici. Se non vuol essere un gioco di marionette, la 

storia dev'essere storia di processi psichici, e tutti gli avvenimen- 

ti esterni che essa descrive non sono che ponti gettati tra gli 

impulsi e gli atti di volontà, da un lato, e i riflessi del sentimen- 

to suscitato da quegli avvenimenti esterni, dall’altro. Questo 

fatto non è cambiato neppure dalla concezione materialistica 

della storia, la quale vuol derivare i movimenti storici dai 

bisogni fisiologici degli uomini e dal loro ambiente geografico. 

Infatti non c'è fame che metta mai in movimento la storia 

universale se non fa male; e ogni lotta per i beni economici è 

una lotta per le sensazioni di comodità e di godimento, dal cui 

carattere di scopo trae il suo significato ogni possesso esteriore. 

Anche le condizioni del terreno e del clima sarebbero indiffe- 

renti per il corso della storia, tanto quanto il terreno e il clima 

di Sirio, se non influenzassero direttamente e indirettamente 

la costituzione psicologica dei popoli. Se vi fosse una psico- 



* Die Probleme der Geschichtsphilosophie, cap. I: Von den Psychologischen Vor- 



aussetzungen in der Geschichesforschung, Lcipizig, Verlag von Duncker und Hum- 

blot, 1892, pp. 1-33 (traduzione di Sandro Barbera c Pietro Rossi). 



28. STORICISMO TEDESCO. 



434 GEORG SIMMEL 



logia come scienza di leggi, la scienza storica sarebbe psico- 

logia applicata nello stesso senso in cui l'astronomia è matemati- 

ca applicata. Se il compito della filologia è quello di conoscere 

ciò che è conosciuto, la ricerca storica ne costituisce soltanto 

un ampliamento, in quanto accanto a ciò che è conosciuto — 

ossia a ciò che è teoreticamente rappresentato — deve cono- 

scere anche ciò che è sentito. Questo carattere di interiorità dei 

processi storici, che fornisce il punto di partenza e il termine di 

ogni descrizione della loro esteriorità, richiede una serie di 

presupposti specifici che è compito della teoria della conoscenza 

storica porre in luce. 


Dietro l’4 priori assoluto dell’intelletto, da cui prendiamo le 

mosse, c'è un secondo « priori valido all’interno dell'intelletto 

e quindi relativo. Quando varie rappresentazioni particolari 

vengono raccolte in un concetto generale, quando un soggetto e 

un predicato vengono riuniti in un giudizio, più giudizi in una 

massima, il materiale è separabile dalla forma che lo contiene, 

e ciascuno dei due elementi può essere rappresentato da solo. 

Per quanto in questo materiale possa già essere presente molto 

o poco di aprioristico e di spontaneo, nella relazione che qui 

consideriamo vi è un contenuto dato su cui l’intelletto compie 

un'ulteriore funzione, la quale è da parte sua 4 priori nei 

confronti di quel materiale; essa non è presente nel contenuto, 

ma si aggiunge ad esso. Se però, secondo la schematizzazione 

kantiana, esistono soltanto tre specie di 4 priori — quello della 

sensibilità, che ha per materiale le sensazioni, quello dell’intel- 

letto, che ha per materiale le intuizioni, e quello della ragione, 

che ha per materiale i giudizi — o propriamente una sola 

specie, poiché le altre devono essere ricondotte all’ priori 

dell’intelletto, la considerazione empirica mostra facilmente l’in- 

giustificata angustia di questa divisione. Vi sono chiaramente 

moltissimi gradi di 4 priori, così come vi sono mescolanze 

molto diverse tra la forma aggiunta e il contenuto preesistente. 

In particolare, poi, non c'è alcun metodo che ci conduca a un 

sistema saldamente concluso — e garantito da ogni spostamen- 

to di confine — delle funzioni con cui elaboriamo il materiale 

conoscitivo dato di volta in volta. Tra le forme più generali, 

accessibili a ogni materiale e superiori all’esperienza individua- 

le, e le forme specifiche, acquisite empiricamente e applicabili 



GEORG SIMMEL 435 



come a priori soltanto a certi contenuti, non vi sono distinzio- 

ni nette e sistematiche, ma trapassi graduali: così per esempio 

tra la legge causale o la connessione in un concetto di ciò che 

è identico in oggetti diversi, da un lato, e i presupposti metodi- 

ci (o di altro tipo) di un particolare settore della vita, di una 

particolare scienza, dall’altro. Ogni formazione giuridica pre- 

suppone l’aspirazione a un determinato stato. Che i rapporti 

umani consentano il conseguimento di uno stato del genere 

solamente mediante norme stabilite e determinazioni di pene 

per la loro trasgressione è un 4 priori molto generale che ha 

per conseguenza una certa formazione, cioè un legame di rap- 

presentazioni preesistenti. Ma per la formazione di leggi que- 

sta forma di connessione non è tanto generale quanto può 

esserlo la connessione causale tra motivazione psichica e azione 

esteriore, che — parimenti necessaria per l’elaborazione giuridi- 

ca — può essere istituita tra i fenomeni, ma non tratta imme- 

diatamente da essi. D'altra parte l’a priori che costituisce la 

forma del diritto è, a sua volta, un elemento generale rispetto 

ai presupposti da cui scaturisce nel caso particolare la formula- 

zione giuridica. Così il principio che la prova spetta all’accusa- 

tore, o la diversa validità del diritto consuetudinario, produce 

un'elaborazione dei fatti in vista dello scopo di conoscere che 

cosa sia giusto — un’elaborazione che non è presente nel mate- 

riale stesso, ma che solo in esso compie la sua funzione interpre- 

tativa, 


Con pieno diritto Kant ha rivolto il proprio senso critico 

contro gli empiristi che volevano limitare le loro ricerche alla 

semplice recezione di impressioni sensibili, alla registrazione di 

elementi di fatto comprovabili immediatamente. Egli ha mo- 

strato che, senza neppure avvedersene, essi fanno continuamen- 

te uso di proposizioni metafisiche non dimostrate e che sol- 

tanto in base a queste istituiscono quella connessione tra i dati 

sensibili che fa di quest'ultimi un'esperienza intelligibile. Ma 

l'influenza e la necessità dei presupposti inconsci e indimostrati 

si estende molto al di là di ciò che mostrano le indagini di 

Kant. In ogni momento sia la teoria che la prassi fanno uso di 

forme di connessione del materiale empirico, cioè di quella 

facoltà plastica dello spirito in grado di fondere ogni contenu- 



b ce) 

to dato — attraverso il modo di ordinarlo, di accordarlo e di 



436 GEORG SIMMEL 



sottolinearlo — nelle più diverse forme definitive. Queste con- 

nessioni che — espresse in forma di principi — appaiono come 

presupposti 4 priori, rimangono inconscie nella misura in 

cui la coscienza in generale si dirige più al dato, a ciò che è 

relativamente esterno, che non alla propria funzione interna. 

Infiniti contenuti di pensiero attraversano lo spirito, prima che 

abbia coscienza del fatto che pensa; esso osserva gli oggetti del 

mondo esterno molto prima dei processi che avvengono al suo 

interno, e quanto più il processo è interno, ossia quanto più è 

— si potrebbe dire — psichico, tanto più tardi esso ne consegue 

la coscienza, che inerisce piuttosto ai suoi stimoli esterni. E 

tanto più la coscienza inerisce a questi ultimi quanto più essi, 

con la varietà del loro mutare e la nettezza delle loro antitesi, 

stimolano continuamente la sensibilità psichica alla distinzione, 

mentre le funzioni formali dell'anima sono di numero più limi- 

tato e si offrono ai contenuti più diversi in modo sempre egua- 

le, producendo in virtù della loro esistenza permanente e della 

loro universalità endemica quella consuetudine ad esse che fa 

scivolare la coscienza al di sopra di loro come su qualcosa di 

assolutamente ovvio. Anche qui vale la profonda osservazione di 

Aristotele che ciò che viene per primo nell’ordine razionale 

delle cose — la funzione conoscitiva dello spirito — viene per 

ultimo nella nostra considerazione e osservazione. Ma in quale 

misura questo dominio inconscio delle forme di connessione si 

estenda sul materiale dei fatti, non è stato riconosciuto da 

Kant in tutta la sua ampiezza a causa della netta separazione 

da lui operata tra l’a priori e ogni elemento empirico. Poiché 

oggi estendiamo l’esperienza molto più in alto di quanto non 

facesse Kant, per noi l’4 priori si estende anche molto più in 

profondità. Nel rapporto reciproco tra gli uomini ognuno deve 

in ogni momento presupporre negli altri la presenza di processi 

spirituali che non può constatare immediatamente, ma senza i 

quali le azioni di questi altri apparirebbero una mescolanza di 

impulsi improvvisi, priva di senso e di connessione: noi li 

completiamo così come completiamo la macchia cieca che inter- 

rompe la nostra immagine, senza avvertire l'interruzione, dato 

che tale integrazione ci appare cosa ovvia. Come comprendia- 

mo l’interno soltanto per analogia con l’esterno — cosa che il 

linguaggio già indica quando designa tutti i processi psichici 



GEORG SIMMEL 437 



con termini tratti dal mondo dell’intuizione esterna — così 

d’altra parte intendiamo l’esteriorità degli uomini soltanto in 

base all’interiorità sottostante. Ma proprio per questo motivo 

integriamo anche l’esterno così come lo richiede la connessione 

interna già postulata, cioè in quanto esiste in generale una 

connessione interna. Si può ben affermare che nessun cronista 

ci racconta in modo preciso ciò che ha visto dello sviluppo di 

un avvenimento al quale ha assistito: lo conferma ogni interro- 

gatorio giudiziario di testimoni, ogni narrazione di un tumul- 

to. Pur con la migliore intenzione di attenersi alla verità, il 

narratore aggiunge a ciò che ha immediatamente visto elementi 

che completano l’avvenimento nel senso che egli ha tratto fuori 

dal dato: e anche l’ascoltatore deve sempre vedere nel suo 

spirito, in base alle sue esperienze e alla fantasia da esse deter- 

minate, più di quanto gli viene effettivamente detto. La fisiolo- 

gia dei sensi ci ha mostrato innumerevoli casi in cui integria- 

mo inconsciamente, in oggetti e movimenti particolari, le im- 

pressioni frammentarie dei sensi così come lo richiedono le 

esperienze già fatte. Nel caso di avvenimenti complessi avviene 

esattamente lo stesso; nel caso degli avvenimenti storici l’inte- 

grazione esterna è essenzialmente determinata da ipotesi psichi- 

che, dalle esperienze relative alla continuità e allo sviluppo 

della vita psichica, alla correlazione esistente tra le sue ener- 

gie, al corso dei processi teleologici. Non soltanto tutto questo 

è presupposto per impulso da parte dei rapporti esterni, ma, 

una volta che ciò sia presupposto, gli avvenimenti esterni vengo- 

no integrati nella misura in cui anch'essi — commisurati alle 

leggi dell’esperienza relative alla connessione tra interno ed 

esterno — forniscono ora ai processi interni una serie parallela 

ininterrotta. Proprio questa integrazione spontanea di ciò che è 

esterno costituisce una delle prove più forti del fatto che anche 

l'interno non è semplicemente derivato dai fatti, ma viene ag- 

giunto ad essi sulla base di presupposti generali. Partendo dal- 

l'aspetto puramente esterno che uno offre all'altro si inferisco- 

no, in base a innumerevoli presupposti, le idee e i sentimenti 

dell’altro — che al massimo rappresenta un’inferenza dall’ effetto 

alla causa. Nelle faccende quotidiane troviamo sufficienti occa- 

sioni di comprovare la correttezza di tale inferenza, poiché il 

comportamento esterno dell’altro, previsto in anticipo, risponde 



438 GEORG SIMMEL 



realmente senza eccezione al nostro agire che giunge fino a lui. 

Soltanto per processi psichici superiori e più complicati queste 

inferenze diventano incerte, inducono a innumerevoli errori 

e forniscono così la prova che anche nei casi più sicuri si 

tratta solo di presupposti, i quali vengono collocati dinanzi al 

dato e debbono la loro sicurezza all’utilità pratica, ma non a 

un’interna necessità che li fa scaturire in maniera razionale da 

quel dato. 


Questi presupposti della vita quotidiana si ripetono ora nel- 

la ricerca storica in modo più compiuto e più ricco di influenza 

che in qualsiasi altra scienza, compresa perfino la psicologia. 

Quest'ultima assume infatti i presupposti in questione come 

oggetti d'indagine ®. La ricerca storica assume invece i presup- 

posti psicologici senza che siano comprovati e in modo non 

metodico. Anche se questi presupposti fossero così ovvi che 

ogni fatto esterno potesse disporsi senza difficoltà e in modo 

del tutto univoco sotto il presupposto ad esso adatto, la loro 

determinazione costituirebbe già un compito considerevole. Que- 

sto diventa però estremamente più sottile e più difficile in quan- 

to talvolta vediamo connesse allo stesso avvenimento interno 

conseguenze esterne totalmente differenti. Ciò è per noi com- 

prensibile soltanto in virtù di una diversità degli elementi con- 

comitanti o delle conseguenze psichiche di quel primo avveni- 

mento, che dev'essere quindi ricondotto ora sotto una norma 

psicologica, ora sotto un’altra del tutto opposta. Per esempio 

Sybel® racconta, a proposito del rapporto tra il Comitato di 

salute pubblica e gli hebertisti nel 1793: «Essi {gli hebertisti] 

erano stati fin allora in rapporti eccellenti con Robespierre, 

perché quest’ultimo si era appoggiato sulle loro forze e aveva 

perciò assecondato i loro desideri. Ciò che però li separava fin 

da allora in modo irrevocabile era la semplice circostanza che 

Robespierre era diventato la guida del supremo potere statale, 

mentre gli hebertisti erano rimasti in una posizione subordina- 



a. Certamente essa assume, anche da parte sua, parecchi presupposti 

che rimangono impliciti in tutte le conoscenze di altro genere da essa 

dipendenti. 


b. Cfr. H. von SyBet, Geschichte der Revolutionszeit von 1789 bis 

1798, Diisseldorf, 1853-79, vol. II, p. 364. 



GEORG SIMMEL 439 



ta». I fatti esterni — Robespierre asseconda i desideri degli 

hebertisti; essi si legano a lui; egli ottiene una posizione domi- 

nante; essi si distaccano da lui — costituiscono, in base ai 

presupposti psicologici sottostanti, una serie ben comprensibile. 

E tuttavia tali presupposti non sono affatto così cogenti e univo- 

ci come appaiono a prima vista. Abbastanza spesso accade che, 

assecondando i desideri di qualcuno, dimostrandogli favore con 

le proprie azioni, se ne ottenga la simpatia e la dedizione 

pratica; ma accade anche il contrario. Così si racconta, nelle san- 

guinose faide familiari del Trecento, di un nobile ravennate 

che aveva riunito tutti i suoi nemici in una casa e che avrebbe 

potuto senz'altro sopprimerli; invece di farlo, li lasciò liberi e 

per di più fece loro ricchi doni: quelli avrebbero allora agito 

contro di lui con raddoppiata violenza e malizia e non avrebbe- 

ro avuto pace fino al suo annientamento — e ciò, aggiunge il 

racconto, perché la vergogna per il beneficio ricevuto non li 

avrebbe lasciati in pace. Anche qui la serie degli avvenimenti 

esterni ci è pienamente comprensibile perché integriamo come 

presupposto psicologico e come elemento di mediazione appun- 

to quella depressione del sentimento di personalità che spesso 

trasforma il beneficio ricevuto in un tarlo roditore nel benefica- 

to, rendendolo nemico del benefattore. Per il nostro scopo è 

indifferente il fatto che nell'esempio precedente siano tramanda- 

te testimonianze dirette di partecipanti, che ne esprimano la 

costituzione psicologica, di modo che lo storico aveva biso- 

gno di addurle come presupposto: infatti non soltanto egli 

deve accettare la tradizione immediata in. innumerevoli casi 

analoghi, in cui viene riferito qualcosa di puramente esterno, 

ma l’accetterebbe anche soltanto se riconosce come possibile sia 

l’una sia l’altra costituzione psicologica e può ricostruirla in 

virtù della propria esperienza connessa. Inoltre noi comprendia- 

mo che l’assunzione di Robespierre a capo del governo compor- 

tava azioni ostili degli hebertisti contro di lui, per il solo fatto 

che ne suscitava l’odio e la gelosia. Accetteremmo però senz'al- 

tro come probabile anche la narrazione del risultato opposto: 

che cioè il pieno dispiegarsi della potente personalità di Robe- 

spierre, la posizione dominante a cui era pervenuto, avesse 

spezzato anche interiormente ogni opposizione di quel partito 



te) 

in quanto esso, sapendo di non poter far nulla contro, avrebbe 



440 GEORG SIMMEL 



voluto almeno mantenere con la docilità e la subordinazione 

una qualche partecipazione al potere — un comportamento che 

comprendiamo benissimo, in base alle norme psicologiche pre- 

supposte se, per esempio, ci viene raccontato a proposito del 

senato romano nell’epoca della dittatura militare. 


Nell’un caso ci soddisfa il fatto che il beneficio o il consegui- 

mento del potere abbia un effetto psichico di adesione, nell’al- 

tro che abbia un effetto di distacco, senza però trovare in esso, 

come atto esterno, il fondamento di questa diversità. Piuttosto, 

sulla costituzione psicologica che ha deciso tra le due alternati- 

ve ci informa soltanto l'avvenimento successivo, che però è 

comprensibile solo in virtù dell’ipotesi di quella precedente affe- 

zione psichica. 


Facciamo ancora un secondo esempio. Knapp* dice, a pro- 

posito della situazione agraria russa dopo l’abolizione della ser- 

virtù della gleba: «I contadini si impegnarono a fornire al 

signore fondiario determinate prestazioni in cambio di un sala- 

rio. I contadini lo fecero molto mal volentieri, poiché il muta- 

mento di base giuridica non consolava il contadino della conti- 

nuità del fatto di lavorare per il signore; e neppure al signore 

la cosa era di grande aiuto perché la prestazione dei contadini, 

ora pattuita anziché obbligata, veniva effettuata malamente no- 

nostante che fosse pagata ». La prima motivazione presuppone 

come ovvio, o almeno tale da non richiedere un’ulteriore discus- 

sione, che la conseguenza di una determinata situazione sul 

modo di sentire non muta finché questa rimane esteriormente 

la medesima, anche se è mutato del tutto l'elemento interno 

che produceva in origine quella conseguenza. La seconda moti- 

vazione presenta come cosa chiarissima il fatto che il conta- 

dino su cui non si ha più un potere assoluto, ma con cui 

bisogna scendere a patti, lavori peggio di prima. Se i fatti 

mostrassero che in Russia i redditi economici sono costantemen- 

te aumentati dopo il 1864, motivi psicologici esattamente opposti 

avrebbero connesso causa ed effetto in modo non meno plausibi- 

le; si sarebbe senz’altro considerato che non già l’agire e- 

sterno, ma il fondamento etico e il motivo per cui ciò accade 



a. G. F. Knapp, Die Bauern-Befreiung und der Ursprung der Landar- 

beiter in den dlteren Theilen Preussens, Leipzig, 1887, p. 82. 



GEORG SIMMEL 44I 



sono decisivi riguardo al fatto di lavorare con piacere e amore 

oppure con sentimenti opposti. E riguardo alla coercizione al 

lavoro contadino, dalla Prussia ci giunge invece, prima dell’abo- 

lizione della servitù della gleba, la lamentela costante che la 

corvée è il lavoro peggiore, il più negligente e privo di coscien- 

ziosità. Senza voler trarre da esempi di questo genere — che si 

trovano in ogni parte di qualsiasi opera storica — uno scetticismo 

a basso prezzo e ingiustificato nei confronti dell’interpretazione 

psicologica in generale, tali differenze di interpretazione possibi- 

le devono renderci attenti al fatto che non si può considerarle 

come un fattore sempre eguale, e quindi trascurabile. Piuttosto, 

la constatazione dell’una o dell’altra conseguenza, sulla base di 

un ulteriore avvenimento esterno, è decisiva per stabilire la 

costituzione psichica che dominava la situazione iniziale e per- 

tanto — come la direzione di una retta è determinata da due 

punti stabiliti — il carattere complessivo dello sviluppo. Ma 

questi presupposti, e il significato della scelta tra di essi, rivesto- 

no una particolare importanza negli innumerevoli casi in cui le 

imprese esterne non sono tramandate in modo scevro di dubbio 

e univoco, e in cui l'accertamento e l'ordinamento dipendono 

dalla loro probabilità psicologica. Anche nei casi più sicuri, 

però, non è il «semplice fatto» che decide dell’intelligibilità 

della conseguenza, ma sono i principi psicologici a cui il « sem- 

plice fatto » si subordina come premessa minore, per far appari- 

re l'avvenimento successivo come possibile e intelligibile. Die- 

tro le azioni visibili degli uomini si sottintendono scopi e senti- 

menti invisibili, che sono necessari per connettere in modo 

intelligibile quelle azioni. Se non potessimo procedere al di là 

del materiale storico realmente constatabile, sarebbe in forse la 

costruzione di un qualsiasi sviluppo, la possibilità di compren- 

dere un qualsiasi elemento singolo in base a un altro. Helm- 

holtz ha detto una volta che la dimostrazione della legge causa- 

le sarebbe assai debole se dovesse venir derivata dall’esperien- 

za; i casi della sua piena dimostrabilità sono rari in rapporto 

al numero sterminato di quelli che si sottraggono a una più 

completa penetrazione causale. Se ciò vale già per i processi 

della natura sottostante la vita psichica, ancora più rara deve 

diventare la dimostrazione della causalità in base alla stretta 

esperienza laddove il complicato e oscuro elemento dei processi 



442 GEORG SIMMEL 



cerebrali si inserisce tra i processi visibili dei quali si indaga il 

legame causale. È chiaro che avremmo una prospettiva comple- 

ta se penetrassimo fino in fondo le influenze e le trasposizoni 

esterne e corporee che hanno luogo tra i singoli atti di una 

personalità storica, e conoscessimo inoltre il valore psichico di 

ogni processo cerebrale presente in questa serie. Questo è però 

un ideale irraggiungibile; cosicché noi ci aiutiamo almeno inse- 

rendo dei processi psichici dietro e tra i processi esterni. Qui 

l'elemento ipotetico, che esige una particolare considerazione 

metodologica, non è tanto l’ipotesi di un elemento psichico in 

generale, che risieda inafferrabile dietro i fenomeni, quanto il 

contenuto specifico dei processi di coscienza supposti. Certamen- 

te anche tale elemento — per quanto possa sembrare straordina- 

rio considerarlo ancora come ipotesi — non è affatto un fonda- 

mento così semplice e indiscutibile della narrazione storica; e 

non lo è perché il rapporto tra processi coscienti e processi 

inconsci in noi è assai incerto. In particolare, quando si tratta 

di movimenti di interi gruppi che possiamo spiegare anche 

soltanto in base a posizioni di scopo e a impulsi sentiti, sono 

spesso determinanti processi organici che non hanno alcun 

aspetto di coscienza. Tanto qui quanto negli individui singoli 

moltissimo di ciò che, per la sua conformità formale a uno 

scopo, viene ricondotto a cause interne alla coscienza accade 

per suggestione, o per un meccanismo motorio ormai fissato da 

cui sono da lungo tempo esclusi gli elementi coscienti, o per 

uno stimolo inconsapevole. Come la formazione conforme a 

scopi dell'essere vivente induce gli spiriti che riflettono ad am- 

metterne una causa intelligente, perché si è abituati a considera- 

re la conformità a scopi soltanto come conseguenza di una 

volontà cosciente e pensante, così noi ci rappresentiamo — com- 

piendo lo stesso errore — le più svariate azioni umane come 

effetti di una posizione cosciente di scopi, anche se procedono 

da tendenze del tutto meccaniche e da necessità inconscie. Se i 

movimenti dei nostri organi interni, il lavoro del cuore, i pro- 

cessi di digestione, avvengono nel modo più utile per il conse- 

guimento degli scopi vitali, e senza che ne abbiamo affatto 

coscienza, lo stesso sviluppo che ha regolato questi processi 

poteva ben ordinare anche i nostri processi cerebrali in modo 

tale da promuovere la vita senza bisogno di una coscienza. 



GEORG SIMMEL 443 



Anche se si affermasse che la scienza storica deve descrivere 

soltanto la storia dei processi coscienti, tuttavia i processi incon- 

sci si inseriscono in modo così vario tra quelli coscienti e ne 

costituiscono così diffusamente il substrato che senza il ricorso 

ad essi non si può conseguire una spiegazione sufficiente dell’e- 

lemento cosciente; e questa spiegazione fallisce necessariamen- 

te se alla base di ogni azione visibile si vogliono porre idee 

chiare e una cosciente conformità a scopi. Stabilire se dietro 

l’azione stia un processo psichico cosciente esprimibile con paro- 

le — e una risposta positiva costituisce il presupposto di ogni 

narrazione storica — è una questione particolarmente difficile 

nel caso di quei processi che devono realmente a una coscienza 

la conformità della loro forma a uno scopo e l’impulso alla 

loro realizzazione in determinate situazioni, ma che in seguito 

l'hanno perduta poiché l’azione si è gradualmente trasformata 

in un’azione meramente riflessa e istintiva. Se per esempio la 

conformità a scopi e la necessità hanno indotto un gruppo a 

guerre ripetute, da ciò può svilupparsi una tendenza bellica, e 

dinanzi alle sue successive manifestazioni sarebbe vano cercarne 

la ragion sufficiente nella coscienza di chi agisce. Oppure, la 

sottomissione e la servilità di un ceto rispetto a un altro posso- 

no essere sorte da cause del tutto coscienti; se però queste sono 

durate un lungo periodo, non si può più interrogare la coscien- 

za degli individui per averne informazioni sullo scopo del parti- 

colare comportamento in questione: per quanto uno scopo pos- 

sa essere ancora sempre presente, la coscienza di esso è in ogni 

caso tramontata e l’azione se ne presenta priva. È però evidente 

che l’azione comparirà facilmente anche quando lo scopo non 

sussiste più, e un qualsiasi impulso esterno o abitudine interna 

produce uno stimolo formalmente affine a cui l’azione risponde 

in modo riflesso. È perciò ben chiaro a base di quali errori stia 

il presupposto ingenuo che cerca senz'altro in processi psichici 

coscienti la connessione significativa tra le azioni dei singoli o 

dei gruppi, facendole scaturire dal carattere teleologico di quei 

processi. 


Del resto la scienza storica lavora di fatto anche in base al 

presupposto di un inconscio parziale o totale. Sentiamo parlare 

dalla tendenza di parecchie stirpi a impadronirsi irresistibilmen- 

te di ciò che sta intorno e a spostare in avanti senza sosta, 



444 GEORG SIMMEL 



come spinte da un impulso di crescita fisica, i loro confini; si 

parla dell’oscura spinta dei popoli tedeschi verso l’Italia come 

dell’istinto dell’uccello migratore, che impulsi del tutto incon- 

sci spingono a seguire determinate direttrici del cielo; d'altro 

lato si parla dell'immobilità e dell’indolenza di alcune stir- 

pi, le quali certamente spesso non pervengono alla coscienza 

del singolo ma determinano il suo comportamento come una 

forza naturale, mentre egli crede di essere attivo e capace di 

reazione. Occorre infine ricordare quelle formazioni oggettive 

che fondano propriamente — come un possesso collettivo spiri- 

tuale — la società: il diritto e il costume, il linguaggio e il 

modo di pensare, il culto e la forma di commercio. Certamen- 

te, tutto ciò non sarebbe mai sorto senza l’attività cosciente 

degli individui; ma questa non si è quasi mai orientata verso la 

formazione che alla fine ne risulta come se costituisse il suo 

scopo. Ciascuno lavora piuttosto alla propria parte, mentre la 

totalità di cui è parte si sottrae al suo sguardo; il confluire dei 

contributi, il costituirsi della forma sociale che questo materiale 

individuale assume non rientra più nella coscienza del singolo 

lavoratore. Nella coesistenza con gli altri egli cerca l’espressio- 

ne più adeguata per la sua inclinazione e per il suo ritegno, per 

la sua indifferenza e per il suo interesse, scoprendo in tal modo 

certe parti delle forme di rapporto speciale; il suo bisogno 

religioso lo spinge a parole e ad azioni in cui crede di trovare i 

ponti più sicuri verso il principio divino, e in questo modo 

costruisce l’edificio del culto; mediante certe regole di pruden- 

za cerca di proteggersi dalle soperchierie nella conduzione de- 

gli affari, e così fonda le usanze commerciali comuni. Di ogni 

azione mossa dall’interesse particolare che non abbia carattere 

distruttivo, di qualsiasi relazione tra uomini rimane — quasi 

come caput mortuum — un contributo alla formazione dello 

spirito pubblico, dopo che i suoi effetti sono stati distillati 

attraverso mille sottili canali sottratti alla coscienza dell’indivi- 

duo, Ciò vale particolarmente per il tessuto della vita sociale: 

nessun tessitore sa che cosa sta tessendo. Tuttavia le formazio- 

no sociali superiori possono sorgere soltanto tra esseri che pos- 

seggano una coscienza degli scopi; ma essc sorgono, per così 

dire, accanto alla coscienza degli scopi propria degli individui, 

in virtù di un processo formativo che non ha luogo in essa — e 



GEORG SIMMEL 445 



ciò già per il fatto che per ottenere quell’effetto sociale è richie- 

sta la conformità e la contemporaneità di innumerevoli azioni 

di altri, che l'individuo può prevedere soltanto in casi raris- 

simi. In breve, dietro le manifestazioni storiche visibili non si 

può ipotizzare come loro funzione costante una piena coscien- 

za, al fine di interpretarle e di collegarle; ma sebbene una tale 

coscienza debba costituire nel complesso il presupposto dello 

storico, egli lo sospende abbastanza spesso. Una filosofia della 

storia dovrebbe stabilire in quali casi Io storico — guidato dall’i- 

stinto o dalla riflessione — astrae dalla conformità cosciente a 

scopi nelle azioni umane. Essa dovrebbe cioè indagare quando 

dobbiamo porre a base della spiegazione dell’accadere una vo- 

lontà e un pensiero cosciente, e quando siamo soliti rinunciare 

a tale ipotesi. Il compito specifico non consisterà qui nel deter- 

minare per la storiografia leggi pratiche in merito alla giustifi- 

cazione di questa o quell’ipotesi. Ciò sarebbe possibile soltanto 

alla psicologia. La teoria della conoscenza dovrebbe piuttosto 

soltanto stabilire in quali casi al nostro bisogno di spiegazione 

basta l’una e in quali l’altra ipotesi. Le rappresentazioni stori- 

che — non come devono essere, ma come esse sono realmente 

— dovrebbero venir analizzate in base ai princìpi secondo cui, 

anche inconsciamente, decidono sull’ipotesi di una coscienza o 

di un’inconsapevolezza sottostante alle azioni fisiche. 

Presupponendo questa coscienza, passiamo ora a ipotizzare i 

suoi contenuti. Anzitutto, anche a questo proposito si tratta di 

un presupposto molto generale. Che tali elementi psicologici di 

connessione che lo storico aggiunge agli avvenimenti siano veri 

oggettivamente, cioè valgano a indicare realmente gli atti di 

coscienza delle persone che agiscono, non avrebbe alcun interes- 

se per noi se non comprendessimo questi processi in base ai 

loro contenuti e al loro corso. Se ciò non avvenisse, quella 

interpretazione corretta potrebbe essere ottenuta con qualsiasi 

mezzo — come per esempio quando essa non ha bisogno della 

ricostruzione psicologica da parte dello storico, ma è in appa- 

renza immediatamente data dalle manifestazioni e dalle confes- 

sioni delle singole personalità; tuttavia non potremmo conce- 

dere ad essa il carattere di verità. Che cosa significa allora 

questo comprendere, e quali sono le sue condizioni? La prima 

condizione consiste chiaramente nel fatto che quegli atti di 



446 GEORG SIMMEL 



coscienza vengono riprodotti in noi, cioè che possiamo (come si 

dice) « trasferirci nell'anima delle persone ». Comprendere una 

proposizione significa che i processi psichici di colui che parla, 

consegnati nelle parole, vengono da queste appunto stimolati 

nell’ascoltatore; non appena si ha una differenza essenziale tra 

le rappresentazioni di due persone, la parola che va dall’una 

all'altra viene fraintesa o non è compresa. Una riproduzione 

diretta di questo genere ha luogo ed è sufficiente soltanto dove 

si tratti di contenuti teoretici di pensiero, per i quali non è 

essenziale che essi abbiano il loro punto di partenza nelle rap- 

presentazioni proprio di questo individuo. Nelle conoscenze og- 

gettive o logiche io mi rapporto all’oggetto del conoscere nell’i- 

dentico modo di colui di cui « comprendo » le rappresentazio- 

ni; egli me ne comunica soltanto il contenuto e dopo di ciò 

viene di nuovo, per così dire, escluso. Da allora il contenuto è 

presente parallelamente nel mio pensiero e nel suo, senza dover 

subire trasposizioni o modificazioni per il fatto di avere in 

questo la propria origine. 


Questo rapporto già si modifica in qualche maniera laddove 

si tratta non di un semplice processo teoretico di idee, che ci si 

può rappresentare come rispecchiamento del comportamento og- 

gettivo dello cose (che si offre a tutti nella stessa misura) nelle 

forme logiche, ma è in questione la comprensione di processi 

soggettivi. Noi pretendiamo tuttavia di comprendere ogni spe- 

cie e ogni grado di amore e di odio, di coraggio e di disperazio- 

ne, di volontà e di sentire, senza che le manifestazioni in base 

a cui comprendiamo tali affetti ci pongano nella stessa parziali- 

tà ad essi propria. Tuttavia quel processo psichico che chiamia- 

mo comprensione può consistere solamente in una trasformazio- 

ne psicologica, in una condensazione o anche in un rispecchia- 

mento sbiadito di quegli affetti: in tale processo deve in qual- 

che modo-esserci il loro contenuto. Se sopra abbiamo indicato 

come compito della storia quello di conoscere non soltanto ciò 

che è conosciuto, ma anche ciò che è voluto e sentito, questo 

compito può essere risolto solamente in quanto esiste qualche 

specie di trasposizione psichica per partecipare al voluto e al 

sentito. Infatti quell’essere sentito reale, che ha avuto luogo in 

qualche momento del passato, non costituirebbe altrimenti la 

condizione sotto la quale avviene ciò che chiamiamo compren- 



GEORG SIMMEL 447 



sione. Chi non ha mai amato non comprenderà mai colui che 

ama, il debole non comprenderà mai l’eroe, né il collerico 

comprenderà il flemmatico; e viceversa la nostra comprensione 

dei movimenti, dei tratti del volto e delle azioni altrui si 

esprime tanto più facilmente quanto più sovente abbiamo noi 

stessi sentito gli affetti di cui costituiscono il simbolo; si espri- 

me anzi più o meno facilmente nella misura in cui la nostra 

situazione interiore del momento ci dispone a sensazioni analo- 

ghe o a sensazioni distanti, agevolando o rendendo difficile la 

riproduzione psicologica. La ripetizione degli atti di coscienza 

che si compiono nell’altro individuo è quindi presente in qual- 

che forma — della cui origine non possiamo ancora farci un 

quadro positivo — nella comprensione dei propri, ed è indi- 

spensabile a questo scopo. 


La trasformazione che diventa così necessaria mostra ora un 

approfondimento significativo se, più che al contenuto della 

comprensione, si guarda al fatto che si tratta del processo 

di rappresentazione di un altro, di un non-io, che è appunto 

un non-io. Certamente, nel caso di oggetti umani si pongono 

in dubbio le conseguenze gnoseologiche della convinzione che 

gli oggetti conoscitivi non ci sono dati nel loro in sé, ma 

soltanto come rappresentazione. La storia — si potrebbe dire — 

ci è accessibile in un modo completamente diverso dalla natura. 

La distinzione tra io e non-io avrebbe un senso completamente 

diverso se entrambi i termini fossero anime; infatti essi sarebbe- 

ro differenti soltanto dal punto di vista numerico, e non in linea 

generale, e se nessuno spirito può penetrare all’interno della 

natura, potrebbe però penetrare all’interno di un altro spirito 

che esso rispecchierebbe in sé in modo del tutto adeguato. Con 

un pilastro così esile non è quindi ancora possibile gettare un 

ponte sull’abisso tra io e non-io. Anzitutto, la loro identità 

generale non elimina la necessità di esteriorizzazioni, di traspo- 

sizioni e di simbolizzazioni di ogni sorta che servano a mediar- 

li. Un rispecchiamento immediato, una comprensione immedia- 

ta derivante dall’identità di natura sarebbe una lettura del pen- 

siero e telepatia, oppure presupporrebbe un'armonia prestabilita 

non meno mirabile di quella leibniziana. Piuttosto, la stessa cono- 

scenza di un processo spirituale costituisce, da parte sua, un 

processo che può venire soltanto stimolato e dev'essere compiu- 



448 GEORG SIMMEL 



to dal soggetto. Ma ciò trasformerebbe alla fine il parallelismo 

di fatto da un rapporto diretto in un rapporto indiretto; in 

definitiva, nonostante tutte le inevitabili complicazioni, un pro- 

cesso psichico potrebbe rispecchiarsi in un’altra anima con la 

medesima precisione con cui le parole affidate a un apparecchio 

telegrafico si riproducono in quello della stazione ricevente, 

anche se ciò che sta nel mezzo e che fa da tramite sono 

processi completamenti eterogenei. Ma la difficoltà più profon- 

da consiste nel fatto che i processi così prodotti in me, nel 

medesimo tempo non sono i miei: io li penso come storici, 

anche se li rappresento ed essi sono quindi mie rappresentazio- 

ni come processi (e rappresentazioni) di un altro. 


E neppure basta, se vogliamo conoscere un altro, che ripro- 

duciamo in noi stessi i suoi processi psichici e aggiungiamo: 

non sono io, è lui a sentire così! In primo luogo, infatti, 

secondo questo presupposto io sento effettivamente così, e quel- 

l'aggiunta non può essere i forma di supplemento al contenu- 

to, di modo che entrambi rimangano reciprocamente isolati, 

ma deve penetrare quel contenuto, accompagnarlo immediata- 

mente come suo esponente. Questo sentire ciò che propriamen- 

te non sento, questo riprodurre una soggettività che è però 

possibile, ancora una volta, soltanto in una soggettività che si 

contrappone oggettivamente a quella — ecco l'enigma del cono- 

scere storico, per la cui comprensione le nostre categorie logi- 

che e psicologiche sono chiaramente strumenti ancora troppo 

grossolani. In questo conoscere sono certamente presenti en- 

trambi gli elementi — vale a dire il compimento da parte 

propria dell’atto in questione e la coscienza che è accaduto in 

altri; ma questa è soltanto una scomposizione successiva in 

elementi di cui il processo della conoscenza storica non mostra 

coscienza alcuna. Qui non si tratta tanto di una scomposizione 

successiva di elementi che preesistevano separati, così come nel- 

l'intuizione del mondo esterno la sensazione e l'intuizione spa- 

ziale non esistono separatamente per poi riunificarsi in quella. 

La proiezione di un rappresentare e di un sentire sulla persona- 

lità storica è un atto unitario, la cui condizione preliminare è 

che io abbia provato nella mia vita soggettiva i processi psichici 

in questione. Ma poiché vengono ora riprodotti come rappresen- 

tazioni di un altro, essi subiscono una trasformazione psichica 



GEORG SIMMEL 449 



che li distacca dall’esperienza soggettiva della personalità cono- 

scente così come vengono distaccati da quella della personalità 

conosciuta. Anche se queste ultime due coincidono in linea 

generale, anche se amore e odio, pensiero e volontà, piacere e 

dolore sono — come avvenimenti personali nell'anima del sog- 

getto conoscente — esattamente i medesimi che hanno avuto 

luogo nell’anima dell’oggetto conosciuto, non già la cono- 

scenza storica, bensì quel processo di rappresentazione trasfor- 

mato dalla proiezione su un altro, costituisce questa identità 

immediata. Una cosa del tutto analoga avviene nel rapporto tra 

pensiero e materia: se il substrato trascendente dell'anima e 

quello del mondo esterno fossero realmente identici, ciò non 

comporterebbe ancora che le rappresentazioni che l’anima si fa 

del mondo esterno siano effettivamente identiche a quelle che 

formerebbe l’in sé del mondo o un suo immediato rispecchia- 

mento. La conoscenza del mondo rimarrebbe sempre nelle for- 

me di esperienza ad essa proprie, indipendentemente dall’iden- 

tità dei substrati che la delimitano da entrambe le parti, anche 

se quest’identità istituisce forse la possibilità del rappresentare 

in generale. In esatta analogia, l’identità psicologica tra cono- 

scente e conosciuto è sì il fondamento, nell’ambito storico, della 

possibilità di conoscenza in generale, ma di per sé non significa 

ancora che la rappresentazione proiettata fuori del soggetto pos- 

segga un'identità di contenuto con i processi soggettivi presen- 

ti nella personalità storica. 


Non seguirò qui oltre questa metamorfosi, la quale procede 

col contenuto psichico primario in quanto questo è reso oggettivo 

e con esso sì conosce un’altra personalità: piuttosto, assumendola 

come presupposto, metterò l’accento sull'identità psicologica di 

contenuto tra il soggetto e l'oggetto del conoscere storico che 

questo esige. Se si potessero comprendere i processi storici sem- 

plicemente subordinando gli atti psichici i quali si distanziano 

troppo da quelli che si compiono nell'anima dell’osservatore, di 

fatto non li si comprenderebbe e la loro descrizione susciterebbe 

nella nostra anima tanto poca reazione quanto un discorso fatto 

in una lingua a noi sconosciuta. In primo luogo, quindi, lo 

storico presuppone che la sua anima possa istituire in sé gli 

stati psichici dei suoi personaggi, cioè che una qualche analo- 

gia, per quanto remota, delle loro azioni accertate con le proprie 



29. STORICISMO TEDESCO. 



450 GEORG SIMMEL 



azioni permetta di concludere che lo sfondo di coscienza, che le 

stesse azioni hanno o avrebbero in lui, sia presente anche in 

quelli. Quando Ranke esprime il desiderio di dissolvere il pro- 

prio io per vedere le cose così come sono state in sé, il compi- 

mento di tale desiderio eliminerebbe proprio il risultato che ci 

si aspetta. Una volta dissoltosi l’io, non rimarrebbe nulla con 

cui cogliere il non-io. L’intromissione dell’io non è un’imperfe- 

zione della quale un tipo ideale di conoscenza possa fare a 

meno; questa può eliminare soltanto certi aspetti dell'io, ma 

voler dissolvere l'io in generale è una contraddizione logica 

non soltanto perché esso costituisce, alla fine, il sostegno di 

ogni rappresentare in generale — infatti anche Ranke aveva 

limitato a questo la sua manifestazione — ma anche perché i 

suoi contenuti specifici sono punti di passaggio indispensabili 

di qualsiasi comprensione di altri individui. Questa partecipa- 

zione simpatetica alle motivazioni delle persone, al complesso e 

ai singoli aspetti del loro essere, del quale vengono tramandate 

soltanto espressioni frammentarie, questo processo di trasposi- 

zione in tutta la molteplicità di un enorme sistema di forze, 

ognuna delle quali viene compresa soltanto perché la si rispec- 

chia in sé — questo è il senso vero e proprio della pretesa che 

lo storico sia e debba essere artista. La concezione comune 

secondo la quale questa pretesa sarebbe giustificata solamente 

una volta che si sia conclusa la ricerca dei fatti, e limitata- 

mente all’esposizione per il lettore, è del tutto errata; infatti 

anche il fisico, il filologo, il giurista, in breve ogni studioso che 

scriva per gli altri, in particolare per cerchie più vaste, dev’esse- 

re artista nell'esposizione. Ma già per il fatto che lo storico 

interpreta, elabora, ordina i fatti in modo che producano l’im- 

magine coerente di un processo psicologico, la sua attività si 

avvicina a quella poetica, e ne risulta distinta soltanto di gra- 

do, per la libertà che quest’ultima possiede nell’organizzione 

del suo materiale. Una volta che il poeta si è deciso per un 

determinato carattere, una volta che ha spinto i rapporti tra i 

suoi personaggi in una determinata direzione, anch'egli non è 

più libero, e tutto ciò che fa accadere si discosta soltanto in 

misura limitata dall’esperienza psicologica media su uomini e 

casi analoghi. Se il processo poetico che, muovendo dalla libe- 

ra invenzione, deve legarne la successiva organizzazione nell’o- 



GEORG SIMMEL 451 



pera d’arte definitiva alle leggi conosciute dell’accadere ha per 

motto «siamo liberi al primo momento, nel secondo siamo 

schiavi», la ricerca storica si limita a rovesciarlo. Nel primo 

momento, cioè rispetto al materiale di fatti con cui ha inizio il 

suo lavoro, essa è vincolata; invece è libera nell’elaborazione di 

tale materiale in una totalità del corso storico, cioè è lasciata 

al funzionamento di categorie soggettive e al processo formati- 

vo nell’anima dello storico. Ciò che Schopenhauer spiega a 

proposito dell’essenza dell’attività estetica — che cioè l’intellet- 

to si spoglia della preoccupazione del proprio io per trasferirsi 

completamente nell’oggetto da cui non lo separa più nessuna 

duplicità di essenza, ma che anzi si rispecchia senza residuo in 

esso, cosicché in questo attimo non è affatto altro da quest’og- 

getto — rappresenta di fatto, prescindendo dal rivestimento 

metafisico, l'elemento decisivo anche per lo storico, anzi per 

chiunque acquista una qualsiasi conoscenza storica. Ogni ripro- 

duzione e ogni comprensione di un oggetto psicologico signifi- 

ca che il soggetto comprendente percorre in sé il processo psi- 

chico nella cui conoscenza si immerge e che esso è realmente 

— nella misura in cui l’io consiste nel suo processo di rappre- 

sentazione — in questo attimo *. 



a. Per lo storico la difficoltà particolare consiste nel fatto che egli può 

ricavare l'immagine complessiva di una personalità soltanto dalle sue ma- 

nifestazioni specifiche, ma d'altro lato può interpretare e raggruppare cor- 

rettamente questi elementi soltanto in base all'immagine complessiva della 

personalità che sta a loro fondamento. Questo circolo logico viene, al pari 

di molti altri simili, risolto nella prassi in quanto gli elementi che si pre- 

suppongono a vicenda si sviluppano in un’azione reciproca e gradualmen- 

te. La conoscenza assolutamente corretta del carattere e della tendenza com- 

plessiva di una persona potrebbe naturalmente essere ottenuta soltanto sul- 

la base di un’interpretazione assolutamente corretta delle sue espressioni, e 

viceversa; se quindi occorresse l’incondizionata correttezza e completezza 

di entrambe le conoscenze, non si potrebbe pervenire a nessuna delle due. 

Soltanto perché sia l’una sia l’altra sono ottenute pezzo per pezzo, in quan- 

to in entrambe si ha un incremento graduale che dalla congettura e dall'as- 

sunzione ipotetica conduce fino alla certezza, ognuna delle due parti serve 

all’altra come punto saldamente accertato per la determinazione di un ana- 

logo punto dall’altra parte, la cui connessione con punti successivi con- 

ferma ulteriormente il primo. Da qualche parte si deve cominciare in mo- 

do dogmatico o ipotetico, e soltanto l'attendibilità delle indagini successive 

che da esso procedono può decidere sulla verità del fondamento; nell’ele- 



452 GEORG SIMMEL 



Per quanto riguarda la questione generale attinente alla teo- 

ria della conoscenza, non è che lo storico colga le personalità 

storiche perché è identico ad esse — infatti questo è appunto 

da stabilire — ma presuppone la propria identità con esse per- 

ché vuole coglierle e non può farlo altrimenti. Si ha qui lo 

stesso rapporto che Kant aveva affermato a proposito della co- 

noscenza della natura: noi non conosciamo la realtà perché il 

pensiero e l’essere coincidono, ma essi coincidono perché noi 

conosciamo la realtà, ossia perché il nostro intelletto introduce 

la sue forme conoscitive nell’essere, perché lo elabora come sua 

rappresentazione secondo le leggi di cui ha bisogno in vista 

dell'esperienza. Lo storico respinge come improbabili o non 

vere le azioni tramandate quando esse fanno riferimento a una 

base psichica che gli sembra insostenibile nel suo processo .di 

penetrazione dello stato psicologico della persona altrimenti 

presupposto, e che quindi urta contro la logica dei fatti psicolo- 

gici. Nel caso di un’improbabilità esteriore, fisica, la differenza 

rispetto al rifiuto della tradizione è chiaramente soltanto gra- 

duale, ed esiste soltanto nella misura in cui le leggi fisiche 

della natura sono da noi conosciute in modo più certo delle 

leggi psichiche. 


A proposito di questa riproduzione degli avvenimenti psichi- 

ci da parte dello storico occorre considerare due aspetti: in 

primo luogo le forze naturali e le categorie presenti nella sua 



mento spirituale non solo il fondamento sorregge l'edificio, ma anche l’e- 

dificio sorregge il fondamento. Il rapporto della totalità con il particolare, 

che ovunque presenta alla metodica del conoscere gli enigmi più ardui, 

mostra le proprie difficoltà anche dove si tratta della totalità e della sin- 

golarità di un individuo. La medesima difficoltà conoscitiva si presenta in 

riferimento all'essenza e alla tendenza di interi popoli e gruppi, di interi 

periodi di tempo, oltre che di avvenimenti particolari. Uno dei compiti più 

sottili della-teoria della conoscenza sarebbe quello di elevare alla coscien- 

za, e di indicare nel caso singolo, il modo effettivo di questa reciprocità — 

come la nostra interpretazione storica consideri gli elementi particolari che 

sono ambigui, se non privi di senso senza un’immagine del tutto; quali 

siano i mutamenti tipici a cui la tendenza generale, assunta a titolo di pro- 

va, porta nell’apprendimento degli elementi particolari; se le conoscenze 

orientate verso il particolare e verso la totalità siano collocate in modo 

stratificato l'una sull’altra; in quale rapporto questi strati si estendano quan- 

to più s'innalza l’edificio complessivo, e così via. 



GEORG SIMMEL 453 



anima, il cui campo di validità delimita l'ambito di ciò che può 

in generale essere intelligibile e penetrato simpateticamente 

mediante la sua coscienza; in secondo luogo le esperienze di 

fatto che dànno contenuto a queste facoltà e a queste forme, 

indicando alla coscienza quali, tra le sensazioni e le idee che 

sono in generale possibili alla sua anima, vengono realizzate 

nel mondo animato che lo circonda. La critica della conoscenza 

deve distinguere per bene i due momenti. Lo storico può infatti 

respingere alcuni avvenimenti come impossibili e ordinarne al- 

tri soltanto in un determinato modo, perché i processi psichici 

che dovrebbe altrimenti stabilire non gli sono intelligibili, 

cioè non possono essere compiuti da lui stesso. Qui come altro- 

ve non si tratterà ovviamente di idee o di impulsi particolari 

dei personaggi storici, bensì della connessione tra di loro, del 

comparire di un’idea o di un impulso a condizione che ne 

siano già stati accolti altri. D'altro lato egli potrà sì seguire 

interiormente tali avvenimenti psichici e determinate combina- 

zioni tra di essi, che la tradizione sembra offrire, ma dovrà 

modificarli perché la sua esperienza della vita gli mostra che è 

possibile riprodurli nella fantasia, ma che non si presentano 

nella realtà. Qui Ia filosofia della ricerca storica trova i suoi 

oggetti di ricerca nelle influenze a cui sono sottoposte da en- 

trambi i lati le immagini storiche, e che vengono di solito 

osservate almeno nei casi in cui superano troppo la misura 

media della soggettività. Le differenze che devono essere istitui- 

te non soltanto nella rappresentazione storica, ma anche nella 

determinazione, per esempio, del corso della vita di Cesare o di 

Gregorio VII o di Mirabeau, a seconda che la natura dello 

storico sia grande o limitata, risultano evidenti; lo stesso vale 

per quelle che derivano dall'ambito di esperienza dello storico 

— se cioè egli ha formato la sua intuizione della vita in base a 

ristretti rapporti piccolo- borghesi o nel grande commercio mon- 

diale, se in una comunità politicamente sottomessa o in una 

comunità libera. In sostanza già lo sappiamo, perché possiamo 

immaginarcelo anche senza una particolare considerazione, e 

perché vi sono alcuni esempi flagranti che impediscono di tra- 

scurare questo fatto. Ma la conoscenza scientifica richiede inda- 

gini sul numero più grande possibile di casi, anche proprio su 

quelli in cui la soggettività sembra ritrarsi del tutto — inda- 



454 GEORG SIMMEL 



gini che avrebbero bisogno di quella fine capacità investigativa 

che ha prodotto risultati così splendidi soprattutto nella filolo- 

gia classica. 


Certamente, pregiudizi e toni soggettivi sono sempre correg- 

gibili nel caso particolare. Nel momento stesso in cui si pongo- 

no in luce e se ne mostra l’origine psicologica, si può anche 

prescindere da essi. Ma con ciò si dimentica di solito che, 

anche dopo aver rifiutato questa scorza, non rimane soltanto 

oro puro, che la nuova conoscenza è sì libera da questo determi- 

nato presupposto soggettivo, ma non da ogni presupposto in 

generale. Si corregge una data concezione, ma la si corregge 

solo introducendone un’altra. Non soltanto i presupposti del 

conoscere in generale, dell’intellectus ipse nelle sue forme più 

generali, devono essere accettati da ogni contenuto empirico 

particolare, poiché a volerne prescindere nell'interesse di una 

verità puramente oggettiva non si potrebbe più rappresentare 

nulla; ma queste forme universalmente date esistono di nuovo 

solo negli spiriti particolari, e quindi nella loro tonalità e modi- 

ficazione individuale, di modo che questo spirito individuale 

costituisce in certa misura, nella sua tendenza complessiva e 

nella sua disposizione caratteriologica, l’a priori per l’a priori 

generale nella sua momentanea realizzazione. Comunque ci 

rappresentiamo sistematicamente quelle forme universali, esse 

hanno soltanto il significato di concetti generali che non si 

ritrovano tal quali nella realtà — e qui nella realtà del conosce- 

re — ma che compaiono sempre e solo con una differenza 

specifica, che si può certo mettere da parte, ma soltanto se se ne 

pone al suo posto un’altra. Ciò che concepiamo come unità e 

sviluppo del carattere, come coerenza tra scopo e mezzi, come 

causazione psicologica, si presenta a ogni uomo che opera con 

il loro aiuto non in una forma astratta ma in forma personale, 

esercitando i suoi effetti sul materiale storico non come catego- 

ria logica — questo sarebbe l’ideale irraggiungibile del conosce- 

re — ma come forza psicologica, sostenuta dalla personalità 

con il complesso delle sue esperienze, dei suoi istinti, dei suoi 

sentimenti. Come nessun uomo è uomo in generale, né consiste 

soltanto delle proprietà comuni a tutti gli uomini, così il cono- 

scere non è mai un conoscere in generale, né consiste soltanto 

dell’esercizio delle forme @ priori universali del pensiero. Si 



GEORG SIMMEL 455 



può certo costruire l'uomo in generale in modo astratto e sot- 

traendo tutte le differenze specifiche, ma non appena si vuol 

avere un uomo reale occorre nuovamente aggiungere qualcosa 

di specifico e di individuale — anzi, soltanto nell’ambito 

di questo lo si può rappresentare intuitivamente; ed esattamente 

lo stesso avviene con le forme 4 priori del pensiero e con la 

loro conferma pratica *. 


Nell’organizzazione del materiale storico in base alle espe- 

rienze interne ed esterne dello storico agisce certamente una 

grandezza incommensurabile che ne rende assai difficile l’anali- 

si gnoseologica. Noi possiamo, nonostante tutto, ricostruire ne- 

gli altri — e con la sicura sensazione della loro piena esattezza 

— processi psichici che non abbiamo provato né in noi né in 

altri. È molto facile spiegare tutto questo come una semplice 

trasformazione di esperienze reali. In primo luogo, infatti, il 



a. Qui si tratta di un 2 priori singolare, e il cui carattere specifico non 

è di facile comprensione. Se ammettiamo l’a priori nella teoria della cono- 

scenza, pensiamo a rappresentazioni determinate nel contenuto e da stabi- 

lire concettualmente, che si possano poi indicare in modo sempre eguale 

nell'esperienza conclusa; cosicché l'universalità e necessità dell’4 priori ne 

costituisce la caratteristica essenziale. Qui si tratta però di un « priori il 

cui contenuto non è universale ma individuale, e in cui non c’è nulla di 

universale e necessario se non il fatto che questa posizione della conoscen- 

za viene riempita e determinata da qualche 4 priori, mentre rimane com- 

pletamente indeterminato e accidentale quale degli infiniti compimenti pos- 

sibili debba avere nel caso presente. La questione così importante per la 

critica kantiana, se cioè l’4 priori del conoscere possa esso stesso venir co- 

nosciuto 4 priori, trova in questo caso una soluzione in quanto resta ferma 

la sua generale necessità 4 priori — cioè la conoscenza che le categorie lo- 

giche agiscono soltanto nella tonalità di un’intera individualità — ma il 

contenuto specifico di questo 4 priori dell'a priori è del tutto variabile e può 

essere costruito solo caso per caso. Che la conoscenza storico-psicologica 

accordi all’4 priori dell’individualità un'influenza molto maggiore della co- 

noscenza della natura esterna, dipende dal fatto che sulle categorie dell’or- 

dine e della valutazione (su cui esso manifesta la sua influenza) non si 

può raggiungere, per motivi facilmente spiegabili, un accordo così largo 

come quello che si ha in riferimento alle categorie relative al mondo ester- 

no. Nel caso di quest'ultime l'individualità non si rileva nella tonalità del- 

le categorie logiche perché in tale direzione si hanno soltanto differenze 

individuali evanescenti, anche se ben nette per i grandi periodi culturali. 

L'elemento logico e l'elemento psicologico possono qui concrescere in una 

unità che non vi sarebbe ragione di scindere. 



456 GEORG SIMMEL 



confine tra forma e materia potrebbe, in questa prospettiva, 

essere assai arbitrario e significare più una denominazione ag- 

giunta dall’esterno che non una distinzione oggettiva — pre- 

scindendo del tutto dal fatto che la formazione spontanea del- 

la forma, oppure della materia, non sostituirebbe per noi un 

enigma minore; inoltre rimarrebbe ancora da spiegare perché 

una forma in cui rechiamo dall’interno il contenuto empirico 

dato per altra via possegga appunto quella sicurezza soggetti- 

va della sua possibilità e della sua realtà, mentre altre, che 

sono altrettanto possibili per la nostra fantasia e che non manca- 

no, al pari di quella, di una conferma empirica, non comporta- 

no una tale sensazione. Il talento più appariscente e imprevedi- 

bile sotto questo aspetto viene di solito designato come geniali- 

tà: il genio sembra creare da sé le conoscenze che l’uomo non 

geniale può ricavare soltanto dall'esperienza. In base agli stimo- 

li più tenui si presenta nel genio un’immagine intimamente 

coerente e convincente di processi spirituali, di connessioni di 

idee e di passioni di personaggi storici, della cui mentalità non 

esistono più esempi da gran tempo; accostando gli elementi più 

disparati e interpretando quelli più straordinari, la sua fan- 

tasia domina un materiale che non può avergli messo a disposi- 

zione la sua esperienza. Accontentarsi di una completa inespli- 

cabilità di questa genialità storico-psicologica è quindi partico- 

larmente pericoloso, perché la questione non riguarda soltanto 

pochi grandi geni, ma tra questi e l’uomo comune vi sono 

innumerevoli manifestazioni intermedie, anzi proprio quest’ul- 

timi mostrano abbastanza spesso le premesse occasionali della 

riproduzione geniale, apparentemente sovra-empirica, di proces- 

si psichici ad essi altrimenti estranei. Questo fatto ci tocca 

tanto più da vicino, in quanto il genio storico può, a sua volta, 

soltanto affidare le sue deduzioni a parole le quali possono 

stimolare e agevolare negli altri i processi che rivestono interes- 

se per lui, ma le quali devono in definitiva lasciarne a loro il 

compimento. Per non dover considerare del tutto come un mi- 

racolo questo grande campo della comprensione di processi 

psichici che non sono oggetto della propria esperienza, possia- 

mo interpretarla come un processo in cui diventano coscienti 

certe disposizioni ereditarie latenti. Le generazioni precedenti 

hanno lasciato in eredità alle successive, in una forma qualsiasi, 



GEORG SIMMEL 457 



le modificazioni organiche connesse in modo non ancora spiega- 

to ai loro processi psichici; la smisurata ricchezza, la pic- 

colezza e la reciprocità delle singole parti di questa eredi- 

tà non pervengono però in generale a una chiara coscienza. 

Ora, noi chiamiamo genio un uomo in cui questo insieme dato 

è ordinato in modo così favorevole che la sua riproduzione ha 

luogo facilmente, in base a stimoli minimi, e perviene in misura 

sufficiente a una chiara coscienza. In lui si compiono processi 

psichici quanto mai lontani dalla sua esperienza individuale, 

perché essi sono immagazzinati nel suo organismo come ricordi 

della specie ed eccezionalmente in modo che le innumerevoli 

contro-tendenze e gli innumerevoli offuscamenti che scaturisco- 

no dalla stessa fonte non li escludono dalla coscienza. In ba- 

se a ciò comprendiamo anche gli occasionali lampi di genio 

di persone per altri versi non geniali, e la generale possibi- 

lità di seguire la comprensione aperta dal genio, se alle di- 

sposizioni ereditarie presenti anche in loro vengono assicu- 

rati, attraverso la chiara espressione e stimolazione di grup- 

pi affini, gli aiuti psicologici necessari per arrivare alla co- 

scienza. La dottrina mistica di Platone, secondo cui ogni ap- 

prendere non è che un ricordare!, assumerebbe così un senso 

reale. Se riproduciamo in noi uomini da tempo scomparsi con 

tutta la ricchezza dei loro più intimi impulsi, se il loro caratte- 

re — formatosi in condizioni completamente estranee, mai vi- 

ste da noi — viene incontro al nostro sguardo emergendo da 

una tradizione frammentaria, è chiaramente vano voler spiega- 

re questa capacità in base alle esperienze della vita individuale 

nello stesso modo in cui non si può derivare da questa fonte la 

conformità allo scopo di movimenti istintivi o la direzione e la 

correttezza degli impulsi etici. Come il nostro corpo racchiude 

in sé le acquisizioni di uno sviluppo millenario e conserva 

ancora immediatamente in organi rudimentali le tracce di epo- 

che precedenti, così il nostro spirito contiene — come mostra 

la più semplice riflessione — i risultati e le tracce di processi 

psichici trascorsi dei più diversi gradi di sviluppo della specie. 

L'intera misura della nostra comprensione, anche per quegli 

esseri viventi che si discostano molto dal nostro modo di senti- 



I. Simmel si riferisce qui alla teoria della reminiscenza, esposta nel Fedone. 



458 GEORG SIMMEL 



re, può quindi venire dal fatto che l'eredità della specie contie- 

ne però, oltre al nostro carattere essenziale, tracce del carattere 

degli antenati e ci rende così possibile il comprendere — vale a 

dire il compimento dei loro medesimi processi psichici. Il cono- 

scitore geniale di uomini è soltanto l’erede prediletto (per que- 

sto aspetto) della specie, e lo storico geniale rappresenta solo 

un suo rafforzamento. Infatti la comprensione storica è distinta 

solo per grado dalla comprensione dei personaggi e dei rappor- 

ti contemporanei. Anche questi ultimi ci offrono fenomeni este- 

riori, non mai completi, e dal punto di vista dell’empiria sensi- 

bile ogni altro uomo è per noi un automa, ogni sua parola è 

mero suono, in cui possiamo introdurre un’anima soltanto in 

base al nostro proprio io. Il processo del conoscere storico è 

solo quantitativamente differente dal processo del comprendere 

che noi compiamo sull’esteriorità di tali immagini: esso trova 

soltanto un materiale molto più incompleto e incoerente, indica- 

zioni ancora più insicure, uno spazio ancora maggiore per le 

congetture e una necessità più comprensiva. Ma se per tutto 

ciò dobbiamo rimandare alle oscure disposizioni ereditarie che 

ci rendono comprensibile anche ciò che non abbiamo vissuto di 

persona, la scissione tra i presupposti universalmente validi, 

che applichiamo agli avvenimenti per poterli comprendere, e le 

interpretazioni soltanto personali, si aggrava straordinariamen- 

te. Se la comprensione geniale — ma anche ogni altra forma di 

comprensione — dell’accadere storico scaturisce da questa fon- 

te, ai nostri strumenti conoscitivi è del tutto precluso scompor- 

re analiticamente quei presupposti fino ai loro elementi ultimi 

e ricondurli alle loro fonti; per questi casi dovrà bastare una 

constatazione e una registrazione di fatto. 


Se la ricostruzione psicologica del consueto contenuto stori- 

co procede con relativa sicurezza e in accordo generale, ciò 

deriva dal fatto che qui si tratta essenzialmente di interessi c 

di movimenti di interi gruppi, e che essi costituiscono il fonda- 

mento e il punto di arrivo anche delle azioni dei singoli perso- 

naggi storici. Questi sono straordinariamente più semplici e 

univoci delle condizioni individuali. Nel caso di grandi mas- 

se si tratta sempre delle basi primarie dell’esistenza, degli inte- 

ressi generali, grandi e grossi, in cui molti uomini possono 

incontrarsi e al di sopra dei quali si sollevano solamente le 



GEORG SIMMEL 459 



individualizzazioni più sottili e difficili dei moti psichici. 

Nello stesso modo in cui una collettività non può dissimulare 

di proposito la sua volontà e il suo pensiero — cosa che è 

invece possibile all'individuo — essa non lo fa neppure involon- 

tariamente, ma documenta invece le sue tendenze, le sue azioni 

e reazioni psichiche con la stessa chiarezza delle manifestazio- 

ni degli impulsi semplici propri di una massa in quanto tale, 

contrapposti agli impulsi differenziati di una persona. Proprio 

per questo motivo le basi psichiche dei movimenti storici diven- 

tano ora più comprensibili a chiunque: quanto più è sicuro che 

in ogni individuo si trovano gli interessi più bassi e primiti- 

vi, e quindi ereditati da più lungo tempo, tanto più probabile 

gliene riuscirà la riproduzione. Dove sono in gioco questioni 

puramente individuali, la diversità delle individualità impedi- 

rà spesso la riproduzione, cioè la comprensione; ma ciò che 

vogliono gruppi interi — e che l’individuo vuole in relazione 

ad essi — è presente con alto grado di sicurezza in ogni 

individuo, e può quindi essere stimolato. Perciò anche nel cono- 

scere storico si cela la soggettività e la personalità della penetra- 

zione simpatetica, che attribuiamo più facilmente ai processi 

della personalità singola. Assumendo come oggetto i processi 

psichico-sociali e penetrandoli simpateticamente, noi non abbia- 

mo l’idea di essere relegati nella nostra soggettività e nell’acci- 

dentalità delle sue esperienze interne, ma dobbiamo rappresen- 

tarci qualcosa di oggettivo. E tuttavia questo elemento oggetti- 

vo è, qui come altrove, soltanto un elemento soggettivo molto 

generale, e contiene solo sensazioni che sembrano rimosse dal- 

la sfera personale perché nessuna personalità può sottrarsi ad 

esse. Ma, alla base, anche le sensazioni che portano in luce 

movimenti sociali (la necessaria sovra- e subordinazione nei 

gruppi, l'unificazione per scopi generali o la divisione in vista 

dell’utilità individuale, l'elevazione e la trasformazione da par- 

te di idee religiose e politiche) possono essere valutate, anzi 

constatate, soltanto in virtù di una penetrazione simpatetica di 

carattere personale. Anche quello che, in movimenti del gene- 

re, pensiamo di poter cogliere con le mani, possiamo in realtà 

coglierlo soltanto con l’anima. 


La diversità dell’ priori con cui interpretiamo e ordiniamo 

i fatti storici trova quindi propriamente la sua manifestazione 



460 GEORG SIMMEL 



più appariscente in un punto del tutto differente, cioè quando 

la rappresentazione è diretta da un pregiudizio determinato nel 

contenuto. Il caso più decisivo è quello in cui una tendenza 

preesistente assegna alla ricerca il fine a cui deve pervenire, 

considerandola e presentandola come corretta e compiuta soltan- 

to nel momento in cui vi perviene — proprio come si dichiara 

corretta una qualsiasi ricerca soltanto se soddisfa la legge causa- 

le. Se qui prescindiamo dalle falsificazioni coscienti o semi-con- 

sapevoli che avvengono per scopi pratici, personali o di partito, 

soprattutto la difficoltà trattata nella nota di pp. 451-52 aprirà un 

vasto campo all’a priori tendenzioso. Alcuni elementi particola- 

ri di una personalità o di un periodo sono dati; in base ad essi 

si forma un'immagine della loro totalità e del loro carattere 

interno; a questo punto nuovi elementi particolari verranno 

molto facilmente considerati apocrifi se non si adattano a que- 

sta immagine già fissata, oppure saranno modificati fin quando 

non si accordano con essa. La convinzione oggettiva orientata 

in questo senso riceverà facilmente appoggio dagli interessi 

dell'animo: quando, per esempio, in certi momenti sorge l’im- 

pressione di un carattere grandioso o di elevata eticità, allora 

subentra un interesse personale per esso che stabilirà in una 

direzione determinata i presupposti per l’apprendimento di 

ogni fatto futuro. Anche qui si fa valere il significato psicologi- 

co della prima impressione. Come le prime convinzioni della 

vita trovano ancora sgombro il campo dello spirito e possono 

stabilirsi in vario modo con una forza che non incontra ostaco- 

li, in modo da decidere dell’accettazione o del rifiuto delle 

convinzioni future, così lo stesso processo si ripete per il partico- 

lare campo e problema del conoscere. Il giudizio ricavato in 

modo impregiudicato dal primo fenomeno diventa pregiudizio 

rispetto al secondo, e ogni fenomeno che si presenti successiva- 

mente trova davanti a sé una direzione prestabilita dell’intuire 

e del giudicare, da cui viene abbastanza sovente trascinato sen- 

Za opporre resistenza o almeno costretto a un compromesso. È 

facile scorgere che qui siamo davanti a un problema a due 

facce: l’una rivolta verso l’aspetto soggettivo, alla forza di 

gravità del pensiero che tende a mantenerlo nella direzione già 

presa, cioè nel pregiudizio soggettivo che assume 4 priori il 

vecchio a criterio del nuovo; l’altra rivolta verso l’aspetto ogget- 



GEORG SIMMEL 461 



tivo, in quanto nelle persone e negli avvenimenti viene presup- 

posta l’unità e la continuità che quella tendenza psicologico-sog- 

gettiva sembra rendere possibile e giustificare. La questione 

della parte rispettiva dell’oggetto e del soggetto nella conoscen- 

za, da Kant limitata in modo inopportuno ai rapporti più 

generali che sono immodificabilmente comuni a tutti i processi 

del pensiero, sorge anche di fronte a questi processi specifici del 

conoscere, diretti da princìpi già molto complessi. Quell’unità 

caratteriologica sia degli individui che dei gruppi appartiene 

chiaramente ai presupposti 4 priori di ogni ricerca storica*. 

Ora, però, questa unità non è qualcosa di formale, non è uno 

schema generale in base a cui sia possibile determinare in antici- 

po il rapporto dei suoi contenuti empirici. Un errore profondo 

è insito nella fede che in base all'unità della personalità uma- 

na si possa inferire il suo comportamento necessario secondo 



a. Attraverso una singolare svolta dell’unità così presupposta viene al- 

la luce il quadro delle manifestazioni di interi gruppi. Soltanto singole vo- 

ci o singoli accidenti diventano di solito consapevoli in modo esatto; sol- 

tanto quando si collocano in un ambito tenuto insieme da interessi o da 

legami noti per altra via, essi sono manifestazioni dell’insieme di tale am- 

bito. Come dell’individuo sono sempre note soltanto singole manifestazio- 

ni, che tuttavia circoscrivono per noi l'insieme della sua personalità, così 

i sintomi particolari si estendono a partire da un gruppo fino a un movi- 

mento psichico — caratterizzato in modo determinato — del gruppo nella 

sua totalità. Cito a caso dalla Romische Geschichte di THEoDoR MoMmMSsEN 

(Berlin, 1854-55): « un grido di sdegno attraverso l’Italia intera » (vol. II, 

p. 145); Mario si dimostrò «un condottiero che manteneva ? soldati di- 

sciplinati e tuttavia di buon animo, guadagnandone al tempo stesso l’amo- 

re con un rapporto cameratesco » (vol. II, p. 192); l'aristocrazia « non si 

dette la minima pena di nascondere la sua rabbia e la sua apprensione » 

(vol. III, p. 190); « i partiti respirarono » (vol. III, p. 193). E da Die Cultur 

der Renaissance in Italien di Jacos BurcKHarDT (Basel, 1860): « con un’in- 

genuità terrificante Firenze confessa la sua simpatia guelfa per i Francesi » 

(vol. I, p. 89); « nei momenti cattivi sorge qua e là la vampa della peni- 

tenza medievale, e il popolo impaurito vuole impietosire il cielo con flagel- 

lazioni e alte invocazioni di misericordia » (vol. II, p. 232). Mentre l’unità 

dello sviluppo caratteriologico costruisce una successione completa in ba- 

se a singoli elementi dati, qui si ha la stessa cosa per la loro coesistenza 

l'uno accanto all'altro. Come là viene presupposta l’anima individuale, qui 

viene presupposta per così dire l’anima sociale come talmente unitaria che 

il dato immediato, rna solo frammentario, permette anche di inferire un'e- 

guale costituzione di ciò che non è dato. 



462 GEORG SIMMEL 



certe norme e certe conseguenze. Al contrario, osserviamo piut- 

tosto un certo ordine e una certa serie di sviluppo dei fenome- 

ni psichici che li percorre tutti, e l’unità della personalità è 

solamente un nome che designa la loro connessione di fatto — 

non già una connessione da costruire in modo puramente logi- 


Parlando di questa unità in generale s'intende che le 

azioni e le rappresentazioni di un uomo sono costituite in mo- 

do che noi le comprendiamo come produzioni di un'anima 

numericamente semplice e immutabile. Ma dal momento che 

si tratta di una semplice x di cui non possiamo dire nulla di 

più, l’unità di tale essere significa che possiamo ricondurre 

l’una all’altra le rappresentazioni dell’uomo e spiegarle recipro- 

camente. C’è però bisogno di certi princìpi il cui dominio 

ci rappresenta l’unità della personalità, la quale non può essere 

percepita immediatamente. Se individuiamo quindi l’unità del- 

la personalità nel fatto che quest'uomo, la cui vita è amareggia- 

ta da una pesante sventura, vede anche nel mondo che lo 

circonda soltanto dolore e dissonanze, e se diciamo che si 

tratta dello stesso elemento per il quale egli teme sempre 

nuova sventura per sé e rende difficile la vita ai suoi simili, 

noi conosciamo appunto delle regole psicologiche in base a cui 

possiamo ricondurre geneticamente tali processi l’uno all’altro. 

Queste sintesi non sono intelligibili perché siano unitarie, ma 

le chiamiamo unitarie perché sono intelligibili; e ci appaiono 

intelligibili perché siamo abituati a osservarle. Perciò non si 

reca alcun disturbo all'unità della personalità se accanto al 

proprio dolore si scorge l'aspirazione a rendere felici gli altri, 

o se accanto ad esso emerge, in certo senso come surrogato, un 

ottimismo teoretico — come spesso accade in uomini fisicamen- 

te disgraziati. In un avaro, l’unità della sua personalità ci 

sembra garantita sia ch’egli non ceda ciò che ha ottenuto in 

vista di alcuna probabilità futura, sia che lo getti a piene mani 

non appena speri in un guadagno da usura. I fenomeni conside- 

rati in sé e per sé, e in base al loro contenuto, non sono ancora 

decisivi rispetto al fatto di costituire un’unità, ma sono decisivi 

soltanto rispetto alla possibilità di scoprire, in base a qualche 

regola nota, un legame causale tra di essi. Così noi ipotizziamo 

da un lato un’affinità di contenuto tra le azioni di un indivi- 

duo, dall’altro una certa dissomiglianza — quando cioè circostan- 



GEORG SIMMEL 463 



ze esterne mutate influenzano il suo agire. E mentre ciò pre- 

suppone l’immutabilità del nucleo interno, proprio una trasfor- 

mazione di questo nucleo rientra nell'immagine di una persona- 

lità unitaria quando si prendano in considerazione le diverse 

età della vita. La conclusione che si trae, in base a certi modi 

di azione di una persona, in merito alla possibilità o all'impossi- 

bilità di altri modi di azione non è una conclusione logica 

immediata, ma dipende da un'esperienza psicologica reale as- 

sunta come premessa maggiore. C’è appena bisogno di accenna- 

re all'influenza che tutto questo — e la sua estensione a pe- 

riodi e a gruppi — esercita sulla costruzione del processo stori- 

co, sull’interpretazione dei fatti particolari, sull’integrazione 

della tradizione e sulla sua critica. Il compito più importante 

per la filosofia della ricerca storica sarebbe ora quello di deter- 

minare le norme particolari che assumiamo — sulla base del- 

l’« unità » dei caratteri — come criteri delle tradizioni e come 

veicoli di rappresentazione; la latitudine entro la quale spie- 

ghiamo tuttavia come possibili azioni divergenti; gli sviluppi e 

le modificazioni che riteniamo ovvie seguendo il principio inter- 

no della personalità, e quelle per cui dobbiamo invece cercare 

una spiegazione nelle circostanze esterne. Vi sono indubbiamen- 

te procedure ben precise di questo genere, in base alle quali si 

agisce, che vengono tacitamente presupposte tra lo storico e il 

lettore, ma alla cui consapevole constatazione non si è ancora 

pervenuti. Un problema ancora più profondo si apre poi quan- 

do indaghiamo sulla duplicità di motivazione, sopra menziona- 

ta, della presupposta unità dei soggetti storici: in quale mi- 

sura l’esperienza psicologica oggettiva e in quale misura la 

tendenza soggettiva al rafforzamento della capacità di pensiero 

e alla semplificazione della conoscenza cooperano nella forma- 

zione delle immagini storiche — vale a dire alla formazione 

che in base ai fatti originariamente dati abbozza uno schema 

del processo successivo, limitando così la portata della divergen- 

za caratteriologica da ciò che si era stabilito all’inizio. Nel 

caso dei presupposti più generali con cui elaboriamo il materia- 

le della conoscenza — gli assiomi matematici, le rappresentazio- 

ni primarie di sostanza e di forza, la legge causale, i princìpi 

logici e così via — tale questione può trovare risposte più 

semplici. L’idealismo deriverà senz'altro questi presupposti dal 



464 GEORG SIMMEL 



soggetto, negando qualsiasi partecipazione dell’oggetto e dell’e- 

sperienza al loro sorgere. Il realista empirico, al contrario, 

affermerà proprio per queste rappresentazioni fondamentalissi- 

me l’accordo incondizionato con l’oggetto, e la loro fonda- 

zione nell’esperienza continua di esso. Una così chiara separazio- 

ne di principio non è possibile nella nostra questione. Già 

l’identità generale tra l’anima che indaga e l’anima che è indaga- 

ta rende probabile che le tendenze più generali della prima 

trovino un riflesso nella seconda, giustificando quindi la loro 

assunzione, e che il risultato della ricerca sia determinato nello 

stesso senso da entrambi i lati. Il realista deve concedere che 

abbastanza spesso, e in modo abbastanza osservabile anche sen- 

za una critica particolare, presupposti e massime soggettive 

che servono all’unità e alla semplicità del pensiero sono deci- 

sivi per l'elaborazione storica. D'altra parte, anche ammetten- 

do le influenze psicologiche di più vasta portata su tale elabora- 

zione, non si potrà negare che, pur con la rinuncia a ogni 

convinzione monistica che ci si porta dietro, la realtà offre 

prove sufficienti in favore dell’interpretazione realistica; e in 

generale, quanto più alti e complicati sono gli ambiti a cui ci 

solleviamo, tanto più è impossibile separare di un tratto e con 

un'alternativa netta i loro elementi costitutivi 4 priori e quelli 

a posteriori. Uno dei compiti più alti della filosofia della storia 

potrebbe essere però la determinazione dei loro limiti e in 

particolare della loro azione reciproca, il vicendevole rafforza- 

mento tra il fattore soggettivo e il fattore empirico di quella rap- 

presentazione di un'unità presente negli uomini, negli avveni- 

menti, nei gruppi e nelle epoche. 


Queste considerazioni possono essere riassunte nella proposi- 

zione: la psicologia è l’4 priori della scienza storica. Il 

compito della teoria della conoscenza nei suoi confronti è quel- 

lo di determinare le regole mediante le quali si perviene, in 

base ai documenti e alle tradizioni esteriori, ai processi psichi- 

ci, e le regole sufficienti a istituire una connessione « intelligibi- 

le» tra questi ultimi. 



IL PROBLEMA DELLA SOCIOLOGIA * 



Se è vero che il conoscere umano si è sviluppato partendo 

da necessità pratiche, perché la conoscenza del vero è un’arma 

nella lotta per l’esistenza tanto nei confronti dell’essere extra- 

umano quanto nella concorrenza degli uomini tra di loro, da 

lungo tempo esso non è però più legato a questa origine, e da 

semplice mezzo per gli scopi dell'agire è diventato esso stesso 

uno scopo definitivo. Ciononostante il conoscere, perfino nella 

forma sovrana della scienza, non ha rotto dappertutto le rela- 

zioni con gli interessi della prassi, anche se esse non si presenta- 

no ora come meri effetti di quest'ultima, bensì come azioni 

reciproche dei due domini esistenti ciascuno per diritto autono- 

mo. Infatti non soltanto il conoscere scientifico si presta, nella 

tecnica, alla realizzazione di fini esteriori della volontà, ma, 

d’altro lato, dalle situazioni pratiche, interne ed esterne, sorge 

il bisogno di comprensione teorica; talvolta si manifestano nuo- 

ve direzioni di pensiero, e con il loro carattere puramente astrat- 

to gli interessi di un nuovo modo di sentire e di volere penetra- 

no nella problematica e nelle forme della vita intellettuale. 

Così le pretese che la scienza sociologica ama far valere costitui 

scono la prosecuzione e il rispecchiamento teorico della potenza 

pratica raggiunta nel secolo xtx dalle masse rispetto agli inte- 

ressi dell'individuo. Il fatto che il senso di importanza e l’atten- 

zione che i ceti inferiori pretendono da quelli superiori sia 

sostenuto proprio dal concetto di « società » dipende però dalla 



* Soziologie: Untersuchungen îiber die Formen der Vergesellschaftung, cap. 1: 

Das Problem der Soziologie, Leipzig, Verlag von Duncker und Humblot, 1908, 

Pp. 1-46 (traduzione di Giorgio Giordano, per i «Classici della sociologia » delle 

Edizioni di Comunità). 



30. STORICISMO TEDESCO. 



466 GEORG SIMMEL 



circostanza che, in virtù della distanza sociale, i primi si presen- 

tano agli altri non nei loro individui, ma soltanto come massa 

unitaria, c che appunto questa distanza non permette agli uni e 

agli altri di essere uniti sotto alcun altro aspetto di principio se 

non quello che essi costituiscono insieme «una società ». Dal 

momento che le classi, la cui efficacia risiede non già nell’im- 

portanza percepibile dei singoli, bensì nel loro essere « socie- 

tà », attiravano su di sé la coscienza teorica — in conseguenza 

dei rapporti di forza pratici — il pensiero si accorse a un 

tratto che ogni fenomeno individuale è determinato in genere 

da un'infinità di influenze provenienti dalla sua cerchia ambien- 

tale umana. E quest’idea acquistò per così dire forza retrospetti- 

va: accanto a quella presente, anche la società passata apparve 

come la sostanza che costituiva l’esistenza individuale, così co- 

me il mare costituisce le onde. Qui parve conquistato il terreno 

in base alle cui forze diventavano suscettibili di spiegazione le 

forme particolari nelle quali esso formava gli individui. Questo 

orientamento di pensiero fu favorito dal relativismo moderno, 

cioè dalla tendenza a risolvere il singolare e il sostanziale in 

azioni reciproche; l'individuo era solamente il luogo în cui si 

collegano dei fili sociali, la personalità era soltanto il modo 

particolare in cui ciò accade. Una volta raggiunta la coscienza 

del fatto che ogni agire umano si svolge nell’ambito della socie- 

tà e che nessun agire può sottrarsi alla sua influenza, tutto ciò 

che non era scienza della natura esterna doveva essere scienza 

della società. Questa appariva come il territorio onnicomprensi- 

vo in cui si trovavano insieme l’etica e la storia della cultura, 

l'economia politica e la scienza della religione, l’estetica e la 

demografia, la politica e l’etnologia, poiché gli ‘oggetti di que- 

ste scienze si realizzavano nel quadro della società: la scienza 

dell’uomo si configurava come scienza della società. A_ questa 

concezione della sociologia come scienza di tutto ciò che è 

umano in generale contribuì il fatto che essa era una scienza 

nuova e che di conseguenza verso di essa si affollavano tutti i 

possibili problemi che non trovavano altrove una sede precisa 

— così come un territorio scoperto da poco diventa sempre, in 

principio, l’eldorado di esistenze senza patria e sradicate: l’ine- 

vitabile indeterminatezza c mancanza di protezione dei confini 

dànno a ognuno il diritto di insediarvisi. Considerato però più 



GEORG SIMMEL 467 



da vicino, questo ammassamento di tutti i precedenti campi del 

sapere non ne produce affatto uno nuovo. Esso significa soltan- 

to che tutte le scienze storiche, psicologiche, normative ven- 

gono versate in un grande calderone al quale viene attaccata 

l'etichetta di sociologia. In tal modo si sarebbe dunque trovato 

soltanto un nuovo 707, mentre tutto ciò che esso designa è 

ià stabilito nel suo contenuto e nei suoi rapporti o viene pro- 

dotto nell’ambito dei settori di ricerca precedenti. Il fatto che 

il pensiero e l’agire umano si svolgano nella società e siano 

determinati da essa non fa della sociologia la scienza onnicom- 

prensiva di quello, così come non si possono trasformare la 

chimica, la botanica e l’astronomia in contenuti della psicolo- 

gia per il fatto che i loro oggetti diventano in definitiva reali 

soltanto nella coscienza umana e sottostanno ai presupposti di 

questa. 


Alla base di questo errore sta un fatto certamente frainteso, 

ma di per sé molto significativo. L’intuizione che l’uomo è, in 

tutta la sua essenza e in tutte le sue manifestazioni, determina- 

to dal fatto di vivere in azione reciproca con altri uomini deve 

certo condurre a una nuova forma di considerazione in tutte 

le cosiddette scienze dello spirito.” Non è ora più possibile spie- 

gare i fatti storici, nel senso più ampio della parola, cioè i 

contenuti della cultura, i tipi di economia, le norme della mora- 

lità partendo dall’uomo singolo, dal suo intelletto e dai suoi 

interessi e, dove ciò non riesce, ricorrere subito a cause metafisi- 

che o magiche. Per esempio, a proposito del linguaggio non si è 

più posti di fronte all’alternativa se esso sia stato inventato da 

individui geniali oppure dato da Dio agli uomini; nelle forme 

della religione non c’è più bisogno di distinguere l’invenzione 

di astuti sacerdoti e la rivelazione immediata, e così via. Piutto- 

sto noi crediamo ora di comprendere i fenomeni storici in base 

all’agire reciproco e all’agire in comune degli individui, in 

base alla somma e alla sublimazione di innumerevoli contributi 

individuali, in base al concretarsi delle energie sociali in forma- 

zioni che stanno e si sviluppano di là dell'individuo. La sociolo- 

gia, nella sua relazione con le scienze esistenti, è quindi un 

nuovo metodo, uno strumento ausiliario della ricerca, per avvi- 

cinarsi ai fenomeni di tutti quei campi in modo nuovo. Con 

ciò essa non si comporta in maniera essenzialmente diversa da 



468 GEORG SIMMEL 



quella in cui si comportava a suo tempo l'induzione, la quale 

penetrava come nuovo principio di ricerca in tutte le scienze 

possibili, si acclimatava per così dire in ognuna di esse e l’aiuta- 

va a trovare nuove soluzioni nell’ambito dei compiti stabiliti. 

Ma come l’induzione non costituisce per questo una scienza 

particolare o addirittura una scienza onnicomprensiva, così 

non lo diventa, per gli stessi motivi, la sociologia. Nella 

misura in cui si appoggia alla considerazione che l’uomo dev’es- 

sere compreso come essere sociale e che la società è la porta- 

trice di ogni accadere storico, essa non contiene alcun oggetto 

che non venisse già trattato in una delle scienze esistenti, ma è 

soltanto una nuova via per tutte queste, un metodo scientifico 

che non costituisce — proprio per la sua applicabilità alla totali- 

tà dei problemi — una scienza a sé. 


Ma quale può essere l’ oggetto proprio e nuovo, la cui indagi- 

ne fa della sociologia una scienza autonoma e dai confini deter- 

minati? È ovvio che per questa sua legittimazione quale scien- 

za nuova non occorre la scoperta di un oggetto la cui esistenza 

fosse prima ignota. Tutto ciò che indichiamo in generale come 

oggetto è un complesso di determinazioni e di relazioni di cui 

ciascuna, proiettata su una pluralità di oggetti, può diventare 

oggetto di una scienza particolare. Ogni scienza poggia su 

un’astrazione, in quanto considera la totalità di una qualche 

cosa, che non possiamo afferrare in modo unitario per mezzo 

di nessuna scienza, secondo uno dei suoi aspetti, cioè dal 

punto di vista di un determinato concetto. Di fronte alla totali- 

tà della cosa e delle cose ogni scienza si sviluppa attraverso la 

loro scomposizione — in base alla divisione del lavoro — in 

qualità e funzioni particolari, dopo che si è trovato un con- 

cetto che permette di individuare quest'ultime e di coglierle 

nel loro ricorrere nelle cose reali secondo connessioni metodi- 

che. Così, per esempio, i fatti linguistici che vengono ora rag- 

gruppati a costituire il materiale della linguistica comparativa 

esistevano già da lungo tempo in fenomeni trattati scientifica 

mente; ma quella scienza particolare sorse con la scoperta del 

concetto sotto il quale quei medesimi fenomeni, prima separati 

nei diversi complessi linguistici, si coordinano in maniera unita- 

ria e vengono regolati da leggi specifiche. Così anche la sociolo- 

gia come scienza particolare potrebbe trovare il suo oggetto 



GEORG SIMMEL 469 



particolare soltanto tracciando una nuova linea attraverso certi 

fatti che, in quanto tali, sono perfettamente noti; solo che fino 

ad ora non era diventato operante appunto il concetto il quale 

consente di riconoscere l’aspetto di questi fatti che cade su 


uella linea, come l’aspetto comune ad essi tutti e costituente 

un'unità metodico-scientifica. Di fronte ai fatti quanto mai 

complicati della società storica, assolutamente non coordinabili 

sotto un rico punto di vista scientifico, i concetti della politi- 

ca, dell'economia, della cultura ecc. producono tali serie cono- 

scitive sia collegando certe parti di quei fatti — ad esclusione 

o con il concorso soltanto accidentale degli altri — in processi 

storici singolari, sia individuando i raggruppamenti di elementi 

che, indipendentemente dal singolo «qui » e «ora», comporta- 

no una connessione atemporalmente necessaria. Se deve dunque 

esserci una sociologia come scienza particolare, occorre per- 

tanto che il concetto di società in quanto tale sottoponga i dati 

storico-sociali — al di là della raccolta estrinseca di quei feno- 

meni — a un nuovo processo di astrazione e di coordinamento, 

in modo che certe determinazioni degli stessi, prima considera- 

te in altre e molteplici relazioni, vengano riconosciute come 

reciprocamente connesse e quindi come oggetti di un’urica 

scienza. 


Questo punto di vista risulta da un’analisi del concetto di 

società, che si può designare come distinzione tra forma e 

contenuto della società — sottolineando che qui si tratta pro- 

priamente soltanto di un paragone per dare approssimativamen- 

te un nome all’antitesi degli elementi da distinguere: quest’an- 

titesi dovrà essere colta direttamente nel suo senso singolare, 

senza essere pregiudicata da altri significati di questi nomi 

provvisori. In ciò prendo le mosse dalla rappresentazione più 

ampia della società, da quella che evita il più possibile la pole- 

mica sulla sua definizione: che essa esiste là dove più individui 

entrano in azione reciproca. Quest’azione reciproca sorge sem- 

pre da determinati impulsi o in vista di determinati scopi. 

Impulsi erotici, religiosi o semplicemente socievoli, scopi di 

difesa e di attacco, di gioco e di acquisizione, di aiuto e di 

insegnamento, nonché innumerevoli altri, fanno sì che l’uomo 

entri con altri in una coesistenza, in un agire l'uno per l’altro, 

con l’altro e contro l’altro, in una correlazione di situazioni, 



470 GEORG SIMMEL 



ossia che eserciti effetti sugli altri e ne subisca dagli altri. 

Queste azioni reciproche significano che dai portatori individua- 

li di quegli impulsi e scopi occasionali sorge un'unità, cioè 

appunto una « società ». Infatti l’unità in senso empirico non è 

altro che azione reciproca di elementi: un corpo organico è 

un'unità perché i suoi organi stanno tra loro in uno scambio 

reciproco di energie più stretto che con qualsiasi essere ester- 

no; uno stato è 470 perché tra i suoi cittadini sussiste il corri- 

spondente rapporto di influenze reciproche; e non potremmo 

considerare come unitario neppure il mondo se ognuna delle 

sue parti non influenzasse in qualche modo ogni altra parte, 

se la reciprocità, comunque mediata, delle influenze fosse elimi- 

nata. Quella unità o associazione può presentare gradi molto 

diversi, secondo il modo e la prossimità dell’azione reciproca — 

dall’effimera riunione per una passeggiata alla famiglia, da tut- 

ti i rapporti validi « fino alla disdetta » all’appartenenza a uno 

stato, dal fuggevole insieme di una compagnia di albergo all’in- 

tima unione di una gilda medievale. Tutto ciò che negli indivi- 

dui, nei luoghi immediatamente concreti di ogni realtà storica 

è presente come impulso, interesse, scopo, inclinazione, situazio- 

ne psichica e movimento, in modo che da ciò o in ciò sorga 

l’azione su altri o la recezione delle loro azioni — tutto ciò lo 

designa come il contenuto, quasi come la materia dell’associa- 

zione. In sé e per sé questi materiali di cui è piena la vita, 

queste motivazioni che la sospingono, non sono ancora di carat- 

tere sociale. Né la fame o l’amore, né il lavoro o la religiosità, 

né la tecnica o le funzioni e i risultati dell’intelligenza costitui- 

scono ancora — così come sono dati immediatemente, e secon- 

do il loro senso puro — un'associazione: la costituiscono soltan- 

to quando strutturano la coesistenza isolata degli individui uno 

accanto all’altro in determinate forme di coesistenza con e per 

l’altro, le quali rientrano sotto il concetto generale dell’azione 

reciproca. L'associazione è dunque la forma, realizzantesi in 

innumerevoli modi diversi, in cui gli individui raggiungono 

insieme un'unità sulla base di quegli interessi — sensibili o 

ideali, momentanei o durevoli, coscienti o inconsci, che spingo- 

no in modo causale o che attirano teleologicamente — e nell’am- 

bito della quale questi interessi si realizzano. 


In ogni fenomeno sociale esistente il contenuto e la forma 



GEORG SIMMEL 471 



sociale costituiscono una realtà unitaria; una forma sociale non 

può acquistare un’esistenza scissa da ogni contenuto, così come 

una forma spaziale non può sussistere senza una materia di cui 

essa costituisca la forma. Questi sono piuttosto gli elementi, 

inseparabili nella realtà, di ogni essere e accadere sociale: un 

interesse, uno scopo, un motivo e una forma o maniera di 

azione reciproca tra gli individui, mediante la quale o nella 

cui forma quel contenuto acquista realtà sociale. 


Ciò che rende appunto tale la «società », in ogni senso 

della parola finora valido, sono evidentemente i modi sopra 

indicati di azione reciproca. Un dato numero di uomini non 

diviene società per il fatto che in ognuno di essi sussiste un 

contenuto vitale determinato oggettivamente o che lo muove 

individualmente; soltanto quando la vitalità di questi conte- 

nuti acquista la forma dell’influenza reciproca, quando ha luo- 

go un’azione di un elemento sull’altro — immediatamente o 

mediata da un terzo elemento — la pura e semplice prossimità 

spaziale o anche la successione temporale degli uomini si tradu- 

ce in una società. Se deve quindi esserci una scienza il cui 

oggetto è la società e nient'altro, essa può voler indagare sola- 

mente queste azioni reciproche, questi modi e forme di associa- 

zione. Infatti tutto ciò che si trova ancora nell’ambito della 

« società », tutto ciò che viene realizzato per mezzo e nel qua- 

dro di essa, non è società, ma soltanto un contenuto che assume 

o viene assunto da questa forma di coesistenza e che soltanto 

insieme ad essa dà luogo alla formazione reale, che si chiama 

«società » nel senso più vasto e usuale. Che questi due elemen- 

ti inseparabilmente uniti vengano separati nell’astrazione scien- 

tifica, che le forme di azione reciproca o di associazione venga- 

no collegate tra loro, concettualmente isolate dai contenuti che 

soltanto mediante esse diventano sociali, e metodicamente sotto- 

poste a un punto di vista scientifico unitario — questo mi 

sembra fondare l’unica e intera possibilità di una scienza specifi- 

ca della società in quanto tale. Soltanto con essa i fatti che 

designamo come realtà storico-sociale sarebbero realmente proiet- 

tati sul piano del puro e semplice sociale. 


Ma per quanto siffatte astrazioni, che dalla complessità o 

anche dall’unità della realtà producono la scienza, possano esse- 

re stimolate dagli intimi bisogni del conoscere, una qualsiasi 



472 GEORG SIMMEL 



loro legittimazione deve tuttavia risiedere nella struttura del- 

l’oggettività stessa: infatti soltanto qualche relazione funziona- 

le con la realtà di fatto può mettere al riparo da impostazioni 

sterili, da un carattere occasionale dell’elaborazione concettua- 

le della scienza. Se un naturalismo ingenuo sbaglia pensando 

che il dato contenga già le disposizioni analitiche o sintetiche 

mediante le quali esso diventa contenuto di una scienza, tutta- 

via le determinazioni che esso effettivamente possiede sono più 

o meno adatte a quelle disposizioni — all’incirca come un 

ritratto deforma fondamentalmente la figura naturale, eppure 

l'una si presta meglio dell’altra a questa forma ad essa radical- 

mente estranea. A ciò si può poi commisurare il migliore o 

peggiore diritto di quei problemi e metodi scientifici. Così 

il diritto di sottoporre i fenomeni storico-sociali all’analisi se- 

condo forme e contenuti e di ricondurre i primi a una sin- 

tesi si fonderà su due condizioni, le quali possono essere ve- 

rificate soltanto in base ai fatti. Si deve da un lato trovare 

che la medesima forma di associazione ricorre con un contenu- 

to del tutto diverso, per scopi completamente differenti, e che, 

al contrario, il medesimo interesse assume come sue portatrici 0 

modi di realizzazione forme completamente diverse di associa- 

zione — così come le medesime forme geometriche si ritrovano 

nelle materie più diverse e la medesima materia si configura 

nelle forme spaziali più diverse, o come avviene tra le forme 

logiche e i contenuti materiali della conoscenza. 


Entrambe le cose sono però innegabili in quanto fatti. In 

gruppi sociali i più diversi che si possano immaginare per i 

loro scopi e per il loro intero significato, noi troviamo tuttavia 

i medesimi modi formali di atteggiamento reciproco tra gli 

individui. Sovra-ordinazione e subordinazione, concorrenza, 

imitazione, divisione del lavoro, formazione di partiti, rappre- 

sentanza, contemporaneità del raggruppamento all’interno e 

della chiusura verso l’esterno, nonché innumerevoli aspetti simi- 

li, si ritrovano in una società statale e in una comunità religio- 

sa, in una banda di congiurati e in una consociazione economi- 

ca, in una scuola artistica e in una famiglia. Per quanto molte- 

plici possano essere gli interessi dai quali si perviene a queste 

associazioni, le forme in cui esse si attuano possono tuttavia 

essere le medesime. E d'altra parte lo stesso interesse può confi- 



GEORG SIMMEL 473 



gurarsi in associazioni di forma molto differente: per esempio, 

l’interesse economico si realizza tanto mediante la concorrenza 

quanto mediante l’organizzazione pianificata dei produttori, 

ora attraverso l'esclusione di altri gruppi economici ora attraver- 

so l'aggregazione ad essi; i contenuti della vita religiosa stimo- 

lano, rimanendo identici nella sostanza, una forma di comunità 

ora liberistica ora centralistica; gli interessi che stanno a base 

delle relazioni tra i sessi si soddisfano nella molteplicità quasi 

sterminata delle forme di famiglia; l'interesse pedagogico con- 

duce a una forma di rapporto ora liberale ora dispotica tra 

maestro e allievo, ora ad azioni reciproche individualistiche tra 

il maestro e il singolo allievo, ora a forme più collettivistiche 

tra quello e il complesso degli allievi. Come può restare identi- 

ca la forma nella quale si attuano i contenuti più divergenti, 

così può rimanere costante la materia mentre la coesistenza 

degli individui, che ne è portatrice, si muove in una molteplici- 

tà di forme. In tal modo i fatti, benché materia e forma costi- 

tuiscano nella loro concretezza un’unità inscindibile della vita 

sociale, offrono quella legittimazione del problema sociologico 

che esige la constatazione, l’ordinamento sistematico, la motiva- 

zione psicologica e lo sviluppo storico delle forme pure di 

associazione. 


Questo problema è direttamente contrapposto al procedimen- 

to secondo il quale sono state finora create le scienze sociali 

particolari. Infatti la divisione del lavoro tra queste scienze è 

stata completamente determinata dalla diversità dei contenuti. 

Economia politica e sistematica delle organizzazioni ecclesiasti- 

che, storia dell’organizzazione scolastica e storia dei costumi, 

politica e teorie della vita sessuale ecc. si sono divise il campo 

dei fenomeni sociali in modo tale che una sociologia, la quale 

voleva comprendere la totalità di questi fenomeni con la loro 

connessione di forma e contenuto, non poteva risultare nient’al- 

tro che un riassunto di quelle scienze. Finché le linee che 

.tracciamo attraverso la realtà storica per suddividerla in campi 

di ricerca separati congiungono soltanto quei punti che rivela- 

no i medesimi contenuti di interessi, questa realtà non concede 

nessun posto a una sociologia particolare. Occorre piuttosto una 

linea che, attraversando tutte quelle finora tracciate, sciolga il 

puro fatto dell’associazione, considerato nelle sue molteplici 



474 GEORG SIMMEL 



configurazioni, dal suo collegamento con i contenuti più diver- 

genti e lo costituisca come campo particolare. Essa diventa in 

tal modo una scienza specifica nello stesso senso in cui lo è 

diventata — con tutte le ovvie differenze di metodo e di risulta- 

ti — la teoria della conoscenza, astraendo le categorie o funzio- 

ni del conoscere in quanto tali dalla molteplicità delle conoscen- 

ze delle cose singole. Essa appartiene al tipo di scienza il cui 

carattere specialistico non consiste nel fatto che il loro oggetto 

venga compreso insieme ad altri sotto un concetto complessivo 

superiore (come la filologia classica e la germanistica, oppure 

l’ottica e l’acustica), bensì nel fatto di accostare un intero cam- 

po di oggetti da un punto di vista particolare. Non il suo 

oggetto, ma la sua forma di considerazione, la particolare astra- 

zione da essa compiuta, la differenzia dalle altre scienze stori- 

co-sociali. 


Il concetto di società copre due significati che devono essere 

tenuti rigorosamente distinti nella trattazione scientifica. Essa 

è da un lato il complesso degli individui associati, il materiale 

umano formato socialmente, che costituisce l’intera realtà stori- 

ca. Ma d’altro lato la «società» è anche la somma di quelle 

forme di relazione, in virtù delle quali dagli individui sorge 

appunto la società nel primo senso. Così si definisce « sfera » 

sia una materia formata in un determinato modo, sia anche, in 

senso matematico, la pura e semplice figura o forma in virtù 

della quale dalla semplice materia sorge la sfera nel primo 

senso. Quando si parla di scienze della società in quel primo 

significato, il loro oggetto è tutto ciò che accade nella e con la 

società; mentre la scienza della società nel secondo senso ha per 

oggetto le forze, le relazioni e le forme mediante le quali gli 

uomini si associano, e che costituiscono quindi, nella loro confi- 

gurazione autonoma, la «società » sensu strictissimo — il che 

evidentemente non viene alterato dal fatto che il contenuto 

dell’associazione, le modificazioni specifiche del suo scopo e 

interesse materiale decidono spesso o sempre della sua formazio- 

ne specifica. Del tutto errata sarebbe qui l’obiezione che tutte 

queste forme — gerarchie e corporazioni, forme di concorrenza 

e forme di matrimonio, amicizie e costumi socievoli, forme di 

potere da parte di una persona o di più persone — sono soltan- 

to costellazioni di avvenimenti in società già esistenti: se non 



GEORG SIMMEL 475 



esistesse già una società, mancherebbe il presupposto e l’occasio- 

ne per il sorgere di tali forme. Questa concezione nasce dal 

fatto che in ogni società a noi nota agisce un gran numero di 

forme di connessione, cioè di forme di associazione del genere. 

Se anche una di esse venisse meno, rimarrebbe ancor sempre la 

«società », cosicché di ciascuna può certo sembrare che si ag- 

giunga a una società già compiuta o sorga nell’ambito di essa. 

Ma se si immagina di eliminare tutte queste forme, non rima- 

ne più nessuna società. La società sorge soltanto quanto siffatte 

relazioni reciproche, suscitate da certi motivi e interessi, diven- 

tano operanti. Se la storia e le leggi della formazione complessi- 

va che così si sviluppa sono quindi certamente materia della 

scienza della società nel senso più ampio, è pur vero che — 

essendosi questa già suddivisa nelle scienze sociali particolari 

— a una sociologia nel senso più stretto, cioè in quello che 

pone un compito particolare, rimane soltanto più la considera- 

zione delle forme astratte, le quali non tanto producono l’asso- 

ciazione quanto piuttosto soro l’associazione. La società, nel 

senso che può impiegare la sociologia, è allora o l’astratto con- 

cetto generale che designa queste forme, il genere di cui esse 

sono specie, oppure la loro somma di volta in volta operante. 

Da questo concetto consegue inoltre che un dato numero di 

individui può essere società in grado maggiore o minore: a 

ogni nuovo fiorire di formazioni sintetiche, a ogni costituzione 

di gruppi di partito, a ogni unificazione in vista di un’opera 

comune o in comunione di sentimento e di pensiero, a ogni 

divisione più netta tra servi e padroni, a ogni pasto in comu- 

ne, a ogni adornarsi per gli altri, lo stesso gruppo diventa 

appunto più «società» di quanto lo fosse prima. Non esiste 

mai società in generale, nel senso che quei particolari fenomeni 

di connessione si siano formati soltanto presupponendo la sua 

esistenza; infatti non esiste alcuna azione reciproca in quanto 

tale, ma particolari modi di essa, con il cui manifestarsi la 

società esiste e che non sono né la causa né la conseguenza di 

questa, ma sono immediatamente già essa stessa. Soltanto la 

sterminata quantità e diversità con cui esse sono in ogni atti- 

mo operanti ha conferito al concetto generale di società una 

realtà storica apparentemente autonoma. Forse in questa iposta- 

si di una mera astrazione risiede la causa della peculiare nebulo- 



476 GEORG SIMMEL 



sità e insicurezza che hanno circondato tale concetto e le prece- 

denti trattazioni della sociologia generale — così come non si è 

fatta molta strada con il concetto di vita, finché la scienza non 

lo ha considerato come un fenomeno unitario di realtà imme- 

diata. La scienza della vita ha raggiunto un terreno solido 

soltanto quando sono stati indagati i singoli processi all’inter- 

no degli organismi la cui somma o il cui tessuto costituisce la 

vita, soltanto quando si è riconosciuto che la vita consiste solo in 

questi processi particolari dentro e tra gli organi e le cellule. 


Soltanto in questa maniera si può cogliere ciò che nella 

società è veramente « società », così come soltanto la geometria 

determina che cosa negli oggetti spaziali costituisce realmente 

la loro spazialità. La sociologia come dottrina dell’essere-socie- 

tà dell’umanità — la quale può ancora essere oggetto di scienza 

sotto innumerevoli altri aspetti — sta dunque con le altre scien- 

ze speciali nello stesso rapporto in cui la geometria sta con le 

scienze fisico-chimiche della materia: essa considera la forma 

mediante la quale la materia si traduce in corpi empirici — la 

forma che certamente di per sé sola esiste soltanto nell’astrazio- 

ne, proprio come le forme di associazione. Tanto la geometria 

quanto la sociologia lasciano ad altre scienze l'indagine dei 

contenuti che si presentano nelle loro forme, o dei fenomeni 

totali di cui esse considerano la pura e semplice forma. C'è 

appena bisogno di avvertire che quest’analogia con la geometria 

non va più in là della chiarificazione che abbiamo qui tentato 

del problema di principio della sociologia. Soprattutto la geo- 

metria ha il vantaggio di trovare già pronte nel suo campo 

forme estremamente semplici, nelle quali possono essere risolte 

le figure più complicate; perciò è possibile, partendo da relati- 

vamente poche determinazioni fondamentali, costruire l’intero 

ambito delle figure possibili. Per quanto riguarda le forme di 

associazione non c'è da aspettarsi, almeno per lungo tempo 

ancora, una risoluzione anche soltanto approssimativa in ele- 

menti semplici. La conseguenza di questo fatto è che le forme 

sociologiche, se devono avere qualche determinatezza, valgono 

soltanto per una cerchia relativamente ristretta di fenomeni. 

Quando si dice per esempio che la sovra-ordinazione e la subor- 

dinazione sono una forma presente in quasi ogni associazione 

umana, con questa conoscenza generale si è fatta poca strada. 



GEORG SIMMEL 477 



Occorre piuttosto scendere alle specie particolari di sovra-ordi- 

nazione e di subordinazione, alle forme specifiche della loro 

realizzazione, che perdono allora naturalmente ambito di validi- 

tà in rapporto alla loro determinatezza. 


Se l’alternativa che si usa proporre ora a ogni scienza — se 

cioè essa proceda alla scoperta di leggi atemporalmente valide 

o alla rappresentazione e alla comprensione di processi storico- 

reali singolari — non esclude comunque innumerevoli forme 

intermedie nell’esercizio effettivo della scienza, il concetto 

problematico qui stabilito non viene toccato fin dall'inizio dalla 

necessità di questa scelta. Questo oggetto astratto dalla realtà 

può essere da un lato considerato sotto il profilo delle relazioni 

legali che, poste semplicemente nella struttura oggettiva degli 

elementi, rimangono indifferenti alla loro realizzazione spazio- 

temporale: esse sono appunto valide, poco importa che le real- 

tà storiche le mettano in azione una o mille volte. D'altra 

parte quelle forme di associazione possono anche essere conside- 

rate nel loro verificarsi in un luogo e in un tempo, nel loro 

sviluppo storico entro determinati gruppi. La loro determinazio- 

ne sarebbe, in quest’ultimo caso, uno scopo autonomo per così 

dire storico, mentre nel primo sarebbe materiale induttivo per 

la scoperta di rapporti legali atemporali. Sulla concorrenza, 

per esempio, siamo edotti dai campi più diversi: la politica e 

l'economia politica, la storia delle religioni e quella dell’arte ce 

ne presentano innumerevoli esempi. In base a questi fatti si 

tratta allora di stabilire che cosa significhi la concorrenza come 

forma pura di atteggiamento umano, in quali circostanze essa 

sorga, come si sviluppi, quali modificazioni subisca per effetto 

della specie particolare del suo oggetto, da quali contempora- 

nee determinazioni formali e materiali di una società essa ven- 

ga potenziata o frenata, come la concorrenza tra gli individui 

si differenzia da quella tra i gruppi — in breve, che cosa essa 

sia come forma di relazione degli uomini tra loro, la quale può 

accogliere in sé tutti i contenuti possibili ma, attraverso l’identi- 

tà del suo manifestarsi nella grande varietà di questi ultimi, 

dimostra di appartenere a un campo regolato da leggi proprie e 

legittimato all’astrazione. Nei fenomeni complessi ciò che è 

uniforme viene messo in evidenza con una specie di sezione 



478 GEORG SIMMEL 



trasversale, mentre ciò che in essi è difforme — cioè in questo 

caso gli interessi sostanziali — viene d’altra parte paralizzato. 

In modo corrispondente si deve dunque procedere con tutti i 

grandi rapporti e le azioni reciproche che formano la società: 

con la formazione dei partiti, con l'imitazione, con la formazio- 

ne di classi, di cerchie e di suddivisioni secondarie, con l’incor- 

porarsi delle azioni sociali reciproche in formazioni particolari 

di carattere oggettivo, personale, ideale, con lo sviluppo e il 

ruolo delle gerarchie, con la «rappresentanza » di collettività 

da parte di singoli, con il significato di un antagonismo comu- 

ne per la coesione interna del gruppo. A tali problemi principa- 

li si aggiungono poi, sostenendo in modo uniforme la determi- 

natezza formale dei gruppi, dei fatti da una parte più specifici 

e dall’altra più complicati, come per esempio il significato del- 

l’«apartitico », quello del « povero » come elemento organico 

delle società, quello della determinatezza numerica degli ele- 

menti dei gruppi, del primus inter pares e del tertius gaudens. 

Come procedimenti più complicati si dovrebbero ricordare l’in- 

crociarsi di cerchie molteplici nelle singole personalità, la parti- 

colare importanza del «segreto» nella formazione di cerchie, 

la modificazione dei caratteri di gruppo a seconda che essi 

comprendano individui che si trovano insieme localmente oppu- 

re individui separati da elementi estranei, nonché innumere- 

voli altri fenomeni. 


Con ciò lascio impregiudicata — come già si è accennato — 

la questione se nella diversità dei contenuti si presenti un’egua- 

glianza assoluta delle forme. L'eguaglianza approssimativa che 

esse mostrano in circostanze materialmente molteplici — così 

come il fenomeno contrario — è sufficiente per ritenerlo possibi- 

le in linea di principio; nel fatto che ciò non si realizzi comple- 

tamente si manifesta appunto la differenza tra l’accadere psichi- 

co-storico, con le sue fluttuazioni e complicazioni mai intera- 

mente razionalizzabili, e la capacità della geometria di separa- 

re con assoluta purezza le forme sottoposte al’ suo concetto 

dalla loro realizzazione nella materia. Si tenga pure presente 

che questa eguaglianza del modo di azione reciproca in qualsia- 

si diversità del materiale umano e oggettivo, e viceversa, è 

anzitutto soltanto uno strumento per compiere e legittimare nei 

singoli fenomeni complessivi la separazione scientifica di forma 



GEORG SIMMEL 479 



e contenuto. Metodologicamente questa sarebbe stata richiesta 

anche nel caso che le costellazioni di fatto non lasciassero perve- 

nire a quel procedimento induttivo che fa cristallizzare l’eguale 

rispetto al differente, proprio come l’astrazione geometrica del- 

la forma spaziale di un corpo sarebbe legittimata anche qualora 

questo corpo così formato si presentasse di fatto una sola volta 

nel mondo. Che ciò implichi una difficoltà di procedimento è 

innegabile. Si prenda per esempio il fatto che, verso la fine del 

Medioevo, certi maestri di corporazione erano spinti, a causa 

dell'estensione delle relazioni commerciali, a un approvvigio- 

namento di materiali, a un impiego di apprendisti, a nuovi 

mezzi per attrarre i clienti che non si conciliavano più con i 

vecchi princìpi corporativi secondo i quali ogni maestro doveva 

avere lo stesso «nutrimento » dell’altro, e che cercavano per 

questo di porsi al di fuori della stretta unione prima esistente. 

Considerato sotto il profilo della forma puramente sociologica, 

che astrae dal contenuto specifico, ciò vuol dire che l’amplia- 

mento della cerchia con la quale l’individuo è legato in virtù 

delle sue azioni procede di pari passo con una maggiore confi- 

gurazione della specificità individuale, con una maggiore liber- 

tà e differenziazione reciproca dei singoli. Ma non esiste, a 

quanto vedo, nessun metodo sicuramente efficace per ricavare 

questo significato sociologico da quel fatto complesso, realizza- 

to in virtù del suo contenuto. Quale configurazione meramente 

sociologica, quale particolare rapporto reciproco di individui, 

facendo astrazione dagli interessi e dagli impulsi che rimango- 

no nell’individuo e dalle condizioni di carattere puramente og- 

gettivo, siano contenuti nel processo storico — ciò può essere 

spiegato rispetto a quest’ultimo in molteplici direzioni; non 

soltanto, ma i fatti storici che ricoprono la realtà di determina- 

te forme sociologiche possono essere indicati soltanto nella loro 

totalità materiale, e manca un mezzo per rendere dimostrabile, 

e attuabile in tutte le circostanze, la loro separazione in un 

momento materiale e in un momento sociologico-formale. Ci si 

comporta qui allo stesso modo che con la dimostrazione di una 

proposizione geometrica sulla base dell’inevitabile accidentalità 

e rozzezza di una figura disegnata. Ma il matematico può ora 

contare sul fatto che il concetto della figura geometrica 

ideale è noto e operante, e viene intimamente considerato co- 



480 GEORG SIMMEL 



me l’unico senso ora essenziale del tratto di gesso o d’inchio- 

stro. Ma qui non si può partire dal presupposto corrispondente, 

in quanto non si può ricavare logicamente dal fenomeno totale 

complessivo ciò che è realmente la pura associazione. 


Occorre qui affrontare il rischio di parlare di procedimento 

intuitivo — per quanto distante esso sia dall’intuizione metafisi- 

co-speculativa — di una particolare messa a fuoco con la quale 

si attua quella separazione e che può essere insegnata soltanto 

adducendo degli esempi, finché essa non sarà colta con metodi 

esprimibili concettualmente e di sicuro affidamento. Questa 

difficoltà è accresciuta dal fatto che non soltanto l’impiego del 

concetto sociologico fondamentale manca di un appiglio indubi- 

tabile, ma che anche quando si opera efficacemente con esso, 

per molti aspetti degli avvenimenti l'inserimento sotto di es- 

so o sotto il concetto della determinatezza di contenuto rimane 

sovente arbitrario. Si potrà per esempio avere opinioni opposte 

sulla questione se e fino a qual punto il fenomeno del « pove- 

ro» sia di natura sociologica, ossia un risultato dei rapporti 

formali all’interno di un gruppo, condizionato dalle correnti e 

dagli spostamenti generali che si producono necessariamente 

nel confluire degli uomini, oppure se la povertà sia da conside- 

rare come una determinazione soltanto materiale di certe esi- 

stenze individuali, esclusivamente dall’angolo visuale del conte- 

nuto di interesse economico. I fenomeni storici potranno essere 

considerati, nel loro complesso, da tre punti di vista distinti in 

linea di principio: da quello delle esistenze individuali che 

costituiscono i portatori reali delle situazioni; da quello delle 

forme di azione reciproca formale, che certamente si attuano 

anche soltanto in esistenze individuali, ma che vengono ora 

considerate non già sotto il profilo di queste, bensì sotto quello 

del loro insieme, del loro esistere l’una con e per l’altra; da 

quello dei contenuti concettualmente formulabili di situazioni e 

avvenimenti, in presenza dei quali non si indaga in questo caso 

sui loro portatori o sui loro rapporti, bensì sul loro significato 

puramente oggettivo — l'economia e la tecnica, l’arte e la 

scienza, le norme giuridiche e i prodotti della vita affettiva. 

Questi tre punti di vista si intrecciano continuamente, e la 

necessità metodologica di tenerli distinti si scontra a ogni pas- 

so con la difficoltà di ordinare ogni elemento in una serie 



GEORG SIMMEL 481 



indipendente dall'altra, e con l'aspirazione a un'immagine com- 

plessiva della realtà, comprendente tutte le posizioni. Né si 

trà mai stabilire per tutti i casi quanto profondamente un 

elemento, fondante e fondato, penetri nell'altro, con la conse- 

enza che — nonostante tutta la chiarezza e precisione meto- 

dologica dell’impostazione di principio — a stento si potrà 

evitare l’equivocità: la trattazione del singolo problema sembra 

rientrare ora nell’una ora nell’altra categoria, e anche nell’am- 

bito di una categoria non sempre può essere delimitata con si- 

curezza rispetto alla forma di trattazione dell’altra. Del resto 

spero che la metodologia della sociologia qui proposta risulterà 

più sicura e forse addirittura più chiara attraverso le analisi 

dei suoi problemi singoli che non da questa fondazione astrat- 

ta. Nelle cose dello spirito non è fenomeno tanto raro — ma è 

anzi presente in tutti i campi di problemi più generali e più 

profondi — che ciò che dobbiamo chiamare, con inevitabile 

paragone, il fondamento non sia così solido come la costruzio- 

ne eretta al di sopra. Anche la pratica scientifica non potrà 

fare a meno, particolarmente in campi finora inesplorati, di una 

certa misura di procedimento istintivo, i cui motivi e le cui 

norme acquistano soltanto in seguito una coscienza del tutto 

chiara e un'elaborazione concettuale. E se il lavoro scientifico 

non può mai adagiarsi completamente su quei modi di procede- 

re ancora indistinti, istintivi, adottati soltanto nella ricerca par- 

ticolare, esso sarebbe d'altra parte condannato alla sterilità se di 

fronte a compiti nuovi si volesse porre come condizione già del 

primo passo una metodologia compiutamente formulata *. 

Nell'ambito del campo di problemi che viene costituito sepa- 

rando le forme di azione reciproca associativa dal fenomeno 

totale della società alcune parti delle indagini qui proposte si 

collocano ormai, per così dire, quantitativamente al di là dei 



a. Considerando l’infinita complicazione della vita sociale, nonché i 

concetti e metodi — delineantisi appunto dalla prima sgrossatura — con i 

quali essa dev'essere padroneggiata spiritualmente, sarebbe una pretesa im- 

modesta voler già ora sperare in una chiarezza di domande e in un’csattez- 

za di risposte che arrivi fino in fondo. Mi sembra più dignitoso fare fin 

dall’inizio quest'ammissione, poiché in questo modo almeno il primo passo 

è più netto, piuttosto che mettere in questione, con l'affermazione della 

conclusione, addirittura gweszo significato di tentativi del genere. 



31. STORICISMO TEDESCO, 



482 GEORG SIMMEL 



compiti altrove riconosciuti come sociologici. Appena si pone 

la questione delle influenze reciproche tra gli individui, la cui 

somma produce quella coesione nella società, si rivela immedia- 

tamente una serie — anzi, per così dire, un mondo — di forme 

di relazione che finora non venivano comprese affatto nella 

scienza della società, o lo erano senza cogliere la loro importan- 

za fondamentale e vitale. In complesso la sociologia si è pro- 

priamente limitata a quei fenomeni sociali nei quali le forze in 

azione reciproca sono già cristallizzate in base ai loro portatori 

immediati, per lo meno a costituire unità ideali. Stati e unioni 

sindacali, gruppi sacerdotali e forme di famiglia, costituzioni 

economiche ed eserciti, corporazioni e comuni, formazione di 

classi e divisione del lavoro industriale — questi e i grandi 

organi e sistemi del genere sembrano costituire la società ed 

esaurire l’ambito della scienza che la riguarda. È ovvio che, 

quanto più una regione di interessi e una direzione di azione 

sociale è grande, significativa e dominante, tanto più presto il 

vivere e l’agire immediato, inter-individuale, si realizzerà in 

formazioni oggettive, in un'esistenza astratta al di là dei proces- 

si particolari e primari. Ma questa osservazione richiede un'inte- 

grazione importante in due direzioni. Oltre a quei fenomeni 

macroscopici, che si impongono da tutte le parti per la loro 

estensione e per la loro importanza esterna, esiste un numero 

sterminato di forme di relazione e di modi di azione reciproca 

tra gli uomini che sono di dimensioni minori e meno appari- 

scenti nei casi particolari, ma che vengono offerti da questi casi 

particolari in una quantità inestimabile e che, sia pure infiltran- 

dosi tra le formazioni sociali più comprensive, per così dire 

ufficiali, sono quelli che soli dànno origine alla società quale 

noi la conosciamo. La limitazione ai primi fenomeni ricorda la 

scienza primitiva del corpo umano interno, che si limitava ai 

grandi organi, nettamente delimitati, come il cuore, il fegato, 

i polmoni, lo stomaco ecc., e trascurava invece gli innumerevoli 

tessuti, privi di una denominazione popolare o non conosciuti, 

senza i quali quegli organi più distinti non darebbero mai 

luogo a un corpo vivente. Con le formazioni della specie sopra 

indicata, che costituiscono gli oggetti tradizionali della scienza 

della società, non sarebbe assolutamente possibile comporre la 

vita reale della società così come si presenta nell’esperienza: 



GEORG SIMMEL 483 



senza l’intervento di innumerevoli sintesi, singolarmente meno 

comprensive — alle quali devono essere in gran parte dedicate 

queste indagini — la vita sociale si sfalderebbe in una moltepli- 

cità di sistemi discontinui. Ciò che rende più difficile fissare 

scientificamente tali forme sociali poco appariscenti, le rende al 

tempo stesso infinitamente importanti per la più profonda com- 

prensione della società: il fatto cioè che in generale esse non 

sono ancora consolidate in formazioni stabili, sovra-individuali, 

ma mostrano la società per così dire allo status nascens — natu- 

ralmente non nel suo primo inizio assoluto, storicamente imper- 

scrutabile, bensì in quello che si ha ogni giorno e ogni ora. 

L'associazione tra gli uomini si allaccia, si scioglie e si riallac- 

cia continuamente, come un eterno fluire e pulsare che incate- 

na gli individui, anche quando non perviene a organizzazioni 

vere e proprie. Qui si tratta quasi di processi microscopico-mole- 

colari all’interno del materiale umano, i quali però costituisco- 

no l’accadere reale che si concatena o si ipostatizza in quelle 

unità e sistemi macroscopici e stabili. Il fatto che gli uomini si 

guardano l’un l’altro e che sono reciprocamente gelosi; il fatto 

che si scrivono lettere o pranzano insieme; il fatto che riescono 

simpatici o antipatici prescindendo completamente da tutti gli 

interessi tangibili; il fatto che la gratitudine per la prestazione 

altruistica produce nel tempo un vincolo indissolubile; il fatto 

che uno chiede la strada all’altro o si veste e si adorna per 

l’altro — tutte le mille relazioni che si riflettono da persona a 

persona, momentanee o durevoli, coscienti o inconscie, superfi- 

ciali o ricche di effetti, da cui questi esempi sono scelti del 

tutto a caso, ci legano in modo indissolubile. In ogni attimo 

questi fili vengono filati, vengono lasciati cadere, ripresi di 

nuovo, sostituiti da altri, intessuti con altri. Qui risiedono le 

azioni reciproche — accessibili soltanto alla microscopia psicolo- 

gica — tra gli atomi della società, che sorreggono tutta la 

tenacia ed elasticità, tutta la varietà e unitarietà di questa vita 

così chiara e così enigmatica della società. Si tratta di applicare 

il principio delle azioni infinitamente numerose e infinitamente 

piccole anche alla prossimità caratteristica della società, così 

come si è dimostrato efficace nelle scienze che studiano la suc- 

cessione — la geologia, la teoria dello sviluppo biologico, la sto- 

ria. I passi incommensurabilmente piccoli producono la connes- 



484 GEORG SIMMEL 



sione dell’unità storica, e le azioni reciproche, altrettanto imper- 

cettibili, tra persona e persona producono la connessione dell’u- 

nità sociale. Soltanto ciò che accade nel dominio dei contatti 

fisici e spirituali, della causazione reciproca di piacere e di 

sofferenza, dei discorsi e dei silenzi, degli interessi comuni e 

antagonistici, soltanto questo costituisce la meravigliosa indisso- 

lubilità della società, il fluttuare della sua vita con cui i suoi 

elementi acquistano, perdono, spostano incessantemente il loro 

equilibrio. Forse con questo riconoscimento la scienza della 

società può raggiungere il punto che per la scienza della vita 

organica ha rappresentato l’inizio della microscopia. Se fino ad 

allora l'indagine era limitata ai grandi organi corporei, netta- 

mente divisi, le cui differenze di forma e di funzione si presen- 

tavano evidenti, soltanto a questo punto il processo vitale si è 

mostrato nel suo legame con i suoi più piccoli portatori — le 

cellule — e nella sua identità con le innumerevoli e incessanti 

azioni reciproche tra di esse. Soltanto osservando come le cellu- 

le si uniscano o si distruggano tra loro, si assimilino o si 

influenzino chimicamente, è possibile comprendere a poco a 

poco come il corpo crei la sua forma, la mantenga o la cambi. 

I grandi organi, nei quali questi fondamentali portatori della 

vita e le loro azioni reciproche si sono riuniti in formazioni 

particolari e in funzioni percepibili a livello macroscopico, non 

avrebbero mai permesso di comprendere la connessione della 

vita se quegli innumerevoli processi, che si svolgono tra i più 

piccoli elementi e sono per così dire soltanto riassunti da quel- 

li macroscopici, non si fossero svelati come la vita vera e pro- 

pria, la vita fondamentale. AI di là di ogni analogia sociologica 

o metafisica tra le realtà della società e dell'organismo si tratta 

qui soltanto dell’analogia del metodo di trattazione e del suo 

sviluppo; della scoperta dei tenui fili, delle relazioni minime 

tra gli uomini, dalla cui ripetizione continuativa vengono fon- 

date e sorrette tutte quelle grandi formazioni che, diventate 

oggettive, presentano una storia vera e propria. Questi processi 

primari, che creano la società dall’immediato materiale indivi- 

duale, sono quindi da sottoporre a una considerazione formale 

accanto ai processi e alle formazioni superiori e più complica- 

te; e le particolari azioni reciproche che si offrono in queste 

misure non del tutto consuete all’analisi teorica devono essere 



GEORG SIMMEL 485 



esaminate come forme costitutive della società, come parti del- 

l'associazione in generale. Anzi, a questi tipi di relazione appa- 

rentemente privi di importanza sarà opportuno dedicare una 

considerazione tanto più approfondita quanto più la sociologia 

è solita trascurarli. 


Ma proprio con questa svolta le indagini qui progettate 

sembrano destinate a diventare nient'altro che capitoli della 

psicologia, in ogni caso della psicologia sociale. Certamente 

non c’è nessun dubbio che tutti i processi e gli istinti sociali 

hanno la loro sede nelle anime, che l’associazione è un fenome- 

no psichico e che nel mondo della realtà corporea non c'è 

nessuna analogia col suo fatto fondamentale, che cioè una plura- 

lità di elementi si traduce in unità, poiché in esso tutto rimane 

confinato all’insuperabile esteriorità dello spazio. Qualsiasi acca- 

dimento esterno che possiamo indicare come sociale sarebbe un 

gioco di marionette, non più comprensibile e non più significa 

tivo dell’ammassarsi delle nuvole o dell’incrociarsi dei rami di 

un albero, se non fossimo in grado di riconoscere in modo del 

tutto evidente motivazioni psichiche, sentimenti, pensieri, biso- 

gni non soltanto come portatori di quegli elementi esteriori, 

ma anche come loro elemento essenziale e come l’unico che 

propriamente ci interessi. La comprensione causale di ogni acca- 

dere sociale sarebbe quindi raggiunta di fatto quando le con- 

statazioni psicologiche e il loro sviluppo permettessero di dedur- 

re completamente questi avvenimenti in conformità a «leggi 

psicologiche » — per quanto problematico ci appaia questo con- 

cetto. E non c'è neppure nessun dubbio che gli aspetti dell’esi- 

stenza storico-sociale che noi possiamo cogliere non sono altro 

che concatenazioni psichiche, che ricostruiamo con una psicolo- 

gia istintiva o con una psicologia metodica e riduciamo a un’in- 

terna plausibilità, al senso di una necessità psichica degli svilup- 

pi in questione. In questo senso ogni storia, ogni analisi di una 

situazione sociale è un esercizio di sapere psicologico. Tuttavia 

è della massima importanza metodologica, e addirittura decisi- 

vo per i princìpi delle scienze dello spirito in generale, ricono- 

scere che la trattazione scientifica di fatti psichici non ha affat- 

to bisogno di essere psicologia; anche dove facciamo ininterrot- 

tamente uso di regole e di conoscenze psicologiche, dove la 

spiegazione di ogni fatto singolo è possibile soltanto per via 



486 GEORG SIMMEL 



psicologica — come nell’ambito della sociologia — il senso e 

l'intenzione di questo procedimento non devono necessariamen- 

te sfociare nella psicologia, cioè nella legge del processo psichi- 

co, che può portare soltanto un determinato contenuto, ma 

deve pervenire proprio a questo contenuto e alle sue configura- 

zioni. Abbiamo qui una differenza soltanto di grado rispetto 

alle scienze della natura esterna che, in quanto fatti della vita 

spirituale, si svolgono anch'esse — in ultima analisi — soltanto 

nell’ambito dello spirito: la scoperta di ogni verità astronomica 

o chimica, così come la riflessione su di essa, è un avvenimento 

della coscienza che una psicologia compiuta potrebbe dedurre 

integralmente soltanto da condizioni e sviluppi psichici. Ma 

quelle scienze sorgono in quanto assumono come proprio ogget- 

to, in luogo dei processi psichici, i loro contenuti e le loro 

connessioni, all'incirca come noi consideriamo un dipinto nel 

suo significato estetico e storico-artistico e non lo deduciamo 

dalle oscillazioni fisiche che costituiscono i suoi colori, e che 

naturalmente creano e sorreggono l’intera esistenza reale del 

dipinto. È sempre na realtà che non possiamo abbracciare 

scientificamente nella sua immediatezza e totalità, ma che dob- 

biamo cogliere da una serie di punti di vista separati e configu- 

rare quindi in una pluralità di oggetti di scienze tra loro indi- 

pendenti. Ciò è necessario anche nei confronti di quegli avveni- 

menti psichici i cui contenuti non si raccolgono in un mondo 

spaziale indipendente e non si contrappongono visivamente 

alla loro realtà psichica. Per esempio le forme e le leggi di una 

lingua, che pure è certamente formata soltanto da forze dell’ani- 

ma e per scopi dell'anima, vengono tuttavia trattate da una scien- 

za linguistica che prescinde del tutto da quella realizzazione data 

del suo oggetto e che lo rappresenta, lo analizza e lo costruisce 

soltanto nel suo contenuto oggettivo, insieme alle formazioni 

esistenti soltanto in questo contenuto stesso. Analogamente av- 

viene con'i fatti dell’associazione. Che gli uomini si influenzi- 

no l’un l’altro, che uno faccia o subisca qualcosa, che presenti 

un essere o un divenire, perché altri esistono o si manifestano, 

agiscono o sentono — tutto questo è naturalmente un fenome- 

no psichico, e la realizzazione storica di ogni singolo caso può 

essere compresa solamente attraverso una rielaborazione psicolo- 

gica, attraverso la plausibilità di serie psicologiche, attraverso 



GEORG SIMMEL 487 



l’interpretazione di ciò che è constatabile dall’esterno per mez- 

zo di categorie psicologiche. Ma una particolare intenzione 

scientifica può trascurare del tutto questo accadere psichico in 

quanto tale e seguirne, scomporne, metterne in relazione i 

contenuti così come si coordinano sotto il concetto di associazio- 

ne. Si osservi per esempio come il rapporto di un individuo più 

potente con altri più deboli, che ha la forma del primus inter pa- 

res, graviti in modo tipico nel senso di tradursi in una posizione 

di potere assoluto del primo e di escludere a poco a poco gli 

aspetti di eguaglianza. Benché nella realtà storica questo sia 

un processo psichico, a noi interessa ora soltanto dal punto di 

vista sociologico — come si dispongano qui i diversi stadi di 

sovra-ordinazione e di subordinazione, fino a qual punto in 

una determinata relazione un rapporto di sovra-ordinazione 

sia compatibile con un rapporto di equiparazione in altre rela- 

zioni, e a partire da quale punto di preponderanza esso distrug- 

ga completamente quest’ultimo; se la connessione, la possibilità 

di cooperazione sia maggiore nel primo o nel successivo stadio 

di tale sviluppo, e così via. Oppure si constata che gli antagoni- 

smi raggiungono il massimo accanimento quando sorgono sulla 

base di una precedente comunanza o appartenenza reciproca 

che sia ancora in qualche modo sentita, per cui si indica come 

uno degli odi più feroci quello tra consanguinei. Ciò potrà 

essere reso comprensibile, anzi descritto, come avvenimento sol- 

tanto in termini psicologici. Ma, considerata come formazione 

sociologica, non interessa la serie psichica che si svolge in cia- 

scuno dei due individui, bensì la sinossi di entrambe sotto la 

categoria dell’unione e della discordia. Anche se la descrizione 

singolare o tipica del processo può sempre essere soltanto psico- 

logica, ciò che ora importa è stabilire fino a qual punto il 

rapporto tra due individui o partiti possa implicare antagoni- 

smo e appartenenza reciproca, per lasciare ancora al tutto la 

colorazione di quest’ultima o dargli quella del primo; quali 

specie di appartenenza reciproca, sotto forma di ricordo o di 

istinto insopprimibile, forniscano i mezzi per danneggiare in 

modo più crudele e più profondamente lesivo di quello possibi- 

le nel caso di una precedente estraneità; in breve, come quell’os- 

servazione debba essere presentata quale realizzazione di forme 

di relazione tra gli uomini, quale particolare combinazione di 



488 GEORG SIMMEL 



categorie sociologiche essa rappresenti. Riprendendo un accen- 

no precedente, si può paragonare questo procedimento — pur 

con tutte le differenze — alla deduzione geometrica che si 

compie su una figura disegnata sulla lavagna. Tutto ciò che 

qui può essere dato e visto sono tratti di gesso riportati fisica- 

mente; ma ciò che noi intendiamo nella trattazione geometrica 

non sono questi tratti, bensì il loro significato dal punto di 

vista del concetto geometrico, che è completamente eterogeneo 

rispetto a quella figura fisica come disposizione di particelle di 

gesso — mentre d'altra parte possono essere inquadrati in cate- 

gorie scientifiche anche sotto la specie di questa formazione 

fisica, facendo oggetto di indagini particolari per esempio la 

loro origine fisiologica o la loro composizione chimica o la loro 

impressione ottica. I dati della sociologia sono dunque processi 

psichici, la cui realtà immediata si offre in primo luogo alle 

categorie psicologiche. Ma queste, pur essendo indispensabili 

per la descrizione dei fatti, rimangono al di fuori dello scopo 

dell’osservazione sociologica, il quale consiste piuttosto soltan- 

to nella realtà oggettiva dell’associazione sorretta dai processi 

psichici e spesso descrivibile solamente per mezzo di questi — 

così come, per esempio, una composizione teatrale contiene dal- 

l’inizio alla fine processi psicologici, può essere compresa soltan- 

to psicologicamente, e tuttavia la sua intenzione non risiede in 

conoscenze psicologiche, bensì nelle sintesi che i contenuti dei 

processi psichici costituiscono dal punto di vista del tragico, 

della forma artistica, dei simboli vitali ?. 


Se la dottrina dell’associazione in quanto tale, distinta da 

tutte le scienze sociali che sono determinate da un particolare 

contenuto della vita sociale, è apparsa come l’unica scienza 

legittimata ad assumere senz'altro il nome di scienza della so- 

cietà, l'importante non sta naturalmente in questa denominazio- 



a. L'introduzione di una nuova forma di considerazione dei fatti deve 

sostenere i diversi aspetti del suo metodo mediante analogie con campi 

riconosciuti; ma soltanto il processo — forse senza fine — in cui il prin- 

cipio determina le sue attuazioni nell’ambito della ricerca concreta, e in 

cui queste attuazioni legittimano il principio come fecondo, può ripulire 

tali analogie dagli aspetti in cui la diversità di materia copre l’eguaglian- 

za formale che è ora decisiva. Ma questo processo le libera della loro 

equivocità soltanto nella misura in cui le rende superflue. 



GEORG SIMMEL 489 



ne, bensì nella scoperta di quel nuovo complesso di problemi 

particolari. La polemica su ciò che significhi propriamente so- 

ciologia mi sembra assolutamente priva di rilievo finché verte 

soltanto sul riconoscimento di questo titolo ad ambiti di proble- 

mi già esistenti e trattati. Se invece per indicare questo insie- 

me di compiti si sceglie il titolo di sociologia con la pretesa di 

coprire completamente ed esclusivamente il concetto di sociolo- 

gia, ciò dev'essere ancora giustificato nei riguardi di un altro 

gruppo di problemi che, non meno degli altri, cercano innega- 

bilmente — al di là delle scienze della società determinate in 

base al contenuto — di pervenire ad asserzioni sulla società in 

quanto tale e considerata nel suo complesso. 


AI pari di ogni altra scienza esatta, rivolta alla comprensione 

immediata del dato, anche la scienza sociale è delimitata da 

due campi filosofici. Il primo comprende le condizioni, i concet- 

ti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare, che 

non possono trovare sistemazione in questa perché stanno piut- 

tosto già a base di essa; nel secondo questa ricerca particolare 

viene recata a completamenti e a connessioni e messa in relazio- 

ne con domande e concetti, che non trovano posto nell’ambito 

dell'esperienza e del sapere immediatamente oggettivo. Quello 

è la teoria della conoscenza, questo la metafisica dei campi 

particolari in questione. La seconda implica propriamente due 

problemi, che però nell’effettiva trattazione concettuale restano 

di solito giustamente indivisi: l’insoddisfazione per il carattere 

frammentario delle conoscenze particolari, per la rapida fine 

delle constatazioni oggettive e delle serie dimostrative conduce 

all'integrazione di queste lacune con i mezzi della specula- 

zione; e appunto questi mezzi servono all'esigenza paralle- 

la di integrare la mancanza di connessione e la reciproca estra- 

neità di quei frammenti nell'unità di un quadro complessivo. 

Accanto a questa funzione metafisica, orientata verso il grado 

del conoscere, un’altra procede verso una diversa dimensione 

dell’esistenza, nella quale risiede il significato metafisico dei 

suoi contenuti: noi la esprimiamo come il senso o lo scopo, 

come la sostanza assoluta tra i fenomeni relativi, o anche come 

il valore o il significato religioso. Di fronte alla società questa 

attitudine spirituale suscita domande come questa: la società è 

lo scopo dell’esistenza umana o un mezzo per l'individuo? non 



490 GEORG SIMMEL 



è essa per l’individuo un mezzo, ma al contrario un ostacolo? 

il suo valore consiste nella sua vita funzionale o nella produzio- 

ne di uno spirito oggettivo o nelle qualità etiche che essa desta 

nei singoli? nei tipici stadi di sviluppo delle società si manife- 

sta un “analogia cosmica, in modo tale che le relazioni sociali 

degli uomini debbano essere inserite in una forma o in un ritmo 

generale, che di per sé non compare nel fenomeno ma che 

fonda tutti i fenomeni, e che guida anche le forze dei fatti 

materiali? può esserci in generale un significato metafisico-reli- 

gioso di collettività, oppure questo significato è riservato alle 

anime individuali? 


Ma queste e innumerevoli domande analoghe non mi sem- 

brano possedere quell’autonomia categoriale, quel caratteristico 

rapporto tra oggetto e metodo che le legittimerebbe a fondare 

la sociologia come una scienza nuova, coordinata con quelle 

esistenti. Tutte queste sono infatti senz'altro domande filosofi 

che, e il fatto che esse abbiano assunto come loro oggetto la 

società significa soltanto l’estensione a un campo più vasto di 

un modo di conoscenza già dato nella sua struttura. Che si 

riconosca oppure no la filosofia come scienza, la filosofia della 

società non ha alcun diritto di sottrarsi ai vantaggi o agli 

svantaggi della sua appartenenza alla filosofia in generale attra- 

verso la costituzione in una particolare scienza sociologica. 


Non diversamente stanno le cose con i problemi filosofici 

che non hanno la società come loro presupposto (come nel 

caso dei precedenti), ma che ricercano invece essi stessi i presup- 

posti della società — non già in senso storico, come se si 

dovesse descrivere il sorgere di una qualche società particolare 

o le condizioni fisiche e antropologiche sulla cui base può sorge- 

re una società. Né si tratta qui degli stimoli particolari che 

muovono il loro soggetto quando incontra altri soggetti e i cui 

modi sono descritti dalla sociologia. Si tratta invece di questo: 

quando un soggetto siffatto sussiste, quali sono i presupposti 

della sua coscienza di costituire un essere sociale? In quelle 

parti considerate di per sé non si ha ancora una società; ma 

essa è già reale nelle forme di azione reciproca: quali sono 

dunque le condizioni interne e di principio in base alle quali 

gli individui forniti di tali stimoli dànno origine alla società in 

generale, l’a priori che rende possibile e forma la struttura 



GEORG SIMMEL 491 



empirica dell'individuo in quanto essere sociale? Come sono 

possibili non soltanto le formazioni particolari che sorgono em- 

piricamente, e che rientrano nel concetto generale di società, 

ma la società in generale come forma oggettiva di anime sog- 

gettive ? 



ExCURSUS SUL PROBLEMA: COME È POSSIBILE LA SOCIETÀ? 



Kant poteva porre e dare una risposta alla questione fonda- 

mentale della sua filosofia — come è possibile la natura? — 

soltanto perché per lui la natura non era altro che la rappresen- 

tazione della natura. Ciò non significa soltanto che «il mondo 

è la mia rappresentazione », e che noi possiamo quindi parlare 

anche della natura solamente in quanto essa è un contenuto 

della nostra coscienza; ma significa che ciò che chiamiamo 

natura è un modo particolare in cui il nostro intelletto racco- 

glie, ordina, dà forma alle sensazioni. Queste sensazioni « da- 

te » — del colorato e del gustabile, dei suoni e delle temperatu- 

re, delle resistenze e degli odori — che attraversano la nostra 

coscienza nella successione accidentale di un'esperienza vissuta 

soggettiva, non sono di per sé ancora « natura », ma lo diventa- 

no attraverso l’attività dello spirito che le compone in ogget- 

ti e in serie di oggetti, in sostanze e in proprietà, in collegamen- 

ti causali. Così come ci sono dati immediatamente, gli elementi 

del mondo non posseggono per Kant quella conmessione che 

sola costituisce l'unità comprensibile, e conforme a leggi della 

natura, o meglio che significa appunto l’essere-natura di quei 

frammenti di mondo in sé incoerenti e manifestantisi senza 

regola. Così l’immagine kantiana del mondo si delinea in un 

contrappunto quanto mai caratteristico: le nostre impressioni 

sensibili sono per lui puramente soggettive, poiché dipendono 

dall’organizzazione fisico-psichica — che in altri esseri potreb- 

be essere diversa — e dall’accidentalità dei suoi stimoli, e esse 

diventano «oggetti» quando vengono accolte dalle forme del 

nostro intelletto, configurate da queste in regolarità stabili e in 

un'immagine coerente della « natura »j ma d'altra parte quelle 

sensazioni sono pur sempre il dato reale, il contenuto del mon- 

do da assumere nella sua invariabilità e la garanzia di un 



492 GEORG SIMMEL 



essere indipendente da noi, cosicché ora proprio quelle elabora- 

zioni intellettuali delle sensazioni in forma di oggetti, di con- 

nessioni, di regolarità causali appaiono come soggettive, come 

qualcosa di aggiunto da noi in antitesi a ciò che riceviamo 

dall’esistenza, come le funzioni dell’intelletto stesso che — esse 

pure immutabili — avrebbero con un altro materiale sensibile 

formato una natura diversa per contenuto. La natura è per 

Kant un determinato modo di conoscere, un’immagine che si 

sviluppa attraverso le nostre categorie conoscitive e in esse. La 

questione: come è possibile la natura? — ossia quali sono le 

condizioni che devono sussistere perché vi sia una natura — si 

risolve quindi per lui mediante la ricerca delle forme che costi- 

tuiscono l’essenza del nostro intelletto e che in tal modo produ- 

cono la natura in quanto tale. 


Si sarebbe tentati di trattare in modo analogo la questione 

delle condizioni 4 priori in base alle quali è possibile la 

società. Infatti anche qui sono dati elementi individuali che in 

certo senso sussistono anch'essi nella loro esteriorità reciproca, 

al pari delle sensazioni, e raggiungono la loro sintesi nell’unità 

di una società soltanto attraverso un processo di coscienza che 

pone l'essere individuale del singolo elemento in relazione con 

quello dell’altro in determinate forme e secondo determinate 

regole. Ma la differenza decisiva tra l’unità di una società e 

l’unità della natura consiste in questo: che la seconda — dal 

punto di vista kantiano qui presupposto — sussiste esclusiva- 

mente nel soggetto conoscente e viene prodotta esclusivamente 

da lui sulla base degli elementi sensibili di per sé privi di 

legame, mentre l’unità sociale viene realizzata senz'altro dai 

suoi elementi, poiché essi sono coscienti e sinteticamente attivi, 

e non ha bisogno di alcun osservatore. Il principio kantiano 

secondo il quale la connessione non può mai risiedere nelle 

cose, poiché viene posta in essere soltanto dal soggetto, non 

vale per ia connessione sociale, che di fatto si compie piuttosto 

immediatamente nelle « cose » — che qui sono le anime indivi- 

duali. Anch’essa rimane naturalmente, come sintesi, qualcosa 

di puramente psichico e senza parallelo con le formazioni spa- 

ziali e con le loro azioni reciproche. Ma l’unificazione non ha 

qui bisogno di nessun fattore al di fuori dei suoi elementi, 

perché ciascuno di questi esercita la funzione che nei confronti 



GEORG SIMMEL 493 



del mondo esterno compie l’energia psichica dell'osservatore: 

la coscienza di costituire con gli altri un’unità è qui effettiva- 

mente tutta l’unità in questione. Naturalmente ciò non designa 

la coscienza astratta del concetto di unità, bensì le innumerevo- 

li relazioni singolari, il sentimento e il sapere di questo determi- 

nare e venir determinato nei confronti degli altri, e d’altra 

parte non esclude affatto che un terzo osservatore compia anco- 

ra tra le persone una sintesi fondata soltanto su di lui, al pari 

che tra gli elementi spaziali. Quale settore dell’essere dato al- 

l'intuizione esterna debba essere raccolto in un’unità non risul- 

ta dal suo contenuto immediato e semplicemente oggettivo, ma 

viene determinato dalle categorie del soggetto e in base ai suoi 

bisogni conoscitivi. La società è invece l’unità oggettiva che 

non ha bisogno dell'osservatore non compreso in essa. 


Le cose della natura sono da una parte assai più distanti tra 

loro che non le anime: l’unità di un uomo con l’altro — che è 

implicita nel comprendere, nell'amore, nell'opera comune — 

non trova alcuna analogia nel mondo spaziale, in cui ogni 

essere occupa il suo posto che non può dividere con nessun 

altro. Ma d’altra parte i frammenti dell’essere spaziale si com- 

pongono, nella coscienza dell’osservatore, in un’unità che di nuo- 

vo non viene raggiunta dall’insieme degli individui. Infatti, 

dal momento che gli oggetti della sintesi sono qui esseri indi- 

pendenti, centri psichici, unità personali, essi si ribellano con- 

tro quell’assoluto comporsi nell'anima di un altro soggetto, al 

quale deve adattarsi il « disinteresse » delle cose inanimate. Co- 

sì un gruppo di uomini è un’unità in misura molto superiore 

realiter, ma idealiter in misura molto inferiore di quanto un 

tavolo, sedie, un divano, un tappeto e uno specchio non costitui- 

scano l’«ammobiliamento di una stanza » o di quanto un fiu- 

me, un prato, alberi, una casa non costituiscano «un paesag- 

gio », o, su un dipinto, « un quadro ». — La società è « la mia 

rappresentazione », ossia poggia sull’attività della coscienza, in 

un senso del tutto diverso dal mondo esterno. Infatti l’altra 

anima ha per me appunto la stessa realtà che possiedo io, cioè 

una realtà che si differenzia molto da quella di una cosa mate- 

riale. Per quanto Kant garantisca che gli oggetti spaziali han- 

no esattamente la medesima sicurezza della mia propria esisten- 

za, con quest’ultima possono essere intesi soltanto i singoli 



494 GEORG SIMMEL 



contenuti della mia vita soggettiva: infatti il fondamento del 

rappresentare in generale, il sentimento dell'io, possiede una 

incondizionatezza e una incrollabilità che non viene conseguita 

da nessuna particolare rappresentazione di un oggetto esterno 

materiale. Ma anche il fatto del tu possiede per noi — si possa 

o no giustificarla — questa stessa sicurezza; € come causa o 

come effetto di questa sicurezza noi sentiamo il tu come qualco- 

sa di indipendente dalla nostra rappresentazione di esso, qualco- 

sa che esiste di per sé esattamente come la nostra propria 

esistenza. Che questo per-sé dell’altro non ci impedisca tuttavia 

di farne una nostra rappresentazione, che qualcosa che non si 

può risolvere affatto nel nostro rappresentare divenga cionono- 

stante contenuto, e quindi anche prodotto di questo rappresen- 

tare — questo è lo schema e il problema psicologico-gnoseologi- 

co più profondo dell’associazione. Entro la nostra coscienza 

noi distinguiamo molto esattamente tra la fondamentalità del- 

l'io, presupposto di ogni rappresentare, la quale non partecipa 

alla problematica dei suoi contenuti che non si può mai mette- 

re completamente da parte, e questi contenuti che, col loro 

andare e venire, con la loro dubitabilità e correggibilità, si 

presentano come semplici prodotti di quella forza ed esistenza 

assoluta e ultima del nostro essere psichico. Ma noi dobbiamo 

trasporre nell’altra anima, anche se in ultima analisi la rappre- 

sentiamo pure, appunto queste condizioni, (e) piuttosto questi 

aspetti incondizionati del nostro io; essa possiede per noi quel- 

la misura estrema di realtà che il nostro io possiede di fronte 

ai suoi contenuti e che siamo sicuri debba spettare anche a 

quell’altra anima nei confronti dei suoi contenuti. In queste 

circostanze la questione come sia possibile la società riveste un 

senso metodologico completamente diverso dalla questione co- 

me sia possibile la natura. Infatti alla seconda rispondono le 

forme conoscitive mediante le quali il soggetto compie la sinte- 

si di elementi dati nella « natura », mentre alla prima rispondo- 

no invece le condizioni poste 4 priori negli elementi stessi, in 

virtù delle quali essi si associano realmente nella sintesi « socie- 

tà ». In certo senso l’intero contenuto di quest'opera, così come 

si sviluppa in base al principio che abbiamo stabilito, è un 

inizio di risposta a tale questione. Infatti essa indaga i processi 

che si compiono in ultima analisi negli individui e che condi- 



GEORG SIMMEL 495 



zionano il loro essere-società — non già come cause antecedenti 

rispetto a questo risultato, bensì come processi parziali della 

sintesi che noi chiamiamo riassuntivamente società. Ma la que- 

stione dev'essere intesa anche in un senso più fondamentale. 

Ho detto che la funzione di attuare l’unità sintetica, che nei 

confronti della natura riposa sul soggetto osservatore, nei con- 

fronti della società sarebbe passata appunto agli elementi di 

questa. La coscienza di costituire una società non è presente 

all'individuo in maniera astratta, ma ognuno sa pur sempre 

che l’altro è legato a lui, per quanto questo sapere dell’altro 

come associato, questo conoscere tutto il complesso come socie- 

tà si attui di solito soltanto in particolari contenuti concreti. 

Ma forse le cose qui non stanno diversamente che nel caso 

dell’« unità del conoscere », secondo la quale noi procediamo 

nei processi della coscienza coordinando un contenuto concreto 

con l’altro, senza tuttavia averne una coscienza distinta se non 

in rare e tardive astrazioni. La questione è dunque la seguente: 

qual è in linea del tutto generale e 4 priori il fondamento, 

quali presupposti devono agire affinché i particolari processi 

concreti della coscienza individuale siano realmente processi di 

socializzazione, quali elementi in essi contenuti permettono che 

la loro funzione sia, in termini astratti, quella di costruire 

un’unità sociale in base agli individui? Le apriorità sociologi- 

che avranno lo stesso doppio significato di quelle che « rendono 

possibile» la matura: da una parte esse determineranno, in 

maniera più compiuta o più difettosa, i processi reali di associa- 

zione; d’altra parte esse costituiscono i presupposti ideali e 

logici della società perfetta, anche se forse mai realizzata in 

questa perfezione — così come la legge causale da un lato vive 

e opera negli effettivi processi della conoscenza e dall'altro costi- 

tuisce la forma della verità in quanto sistema ideale di cono- 

scenze compiute, indipendentemente dal fatto che questa venga 

realizzata attraverso tale dinamica psichica temporale e relativa- 

mente accidentale oppure no, e indipendentemente dalla mag- 

giore o minore approssimazione della verità realmente presen- 

te nella coscienza alla verità idealmente valida. 


È una pura questione di titolo se l'indagine di queste con- 

dizioni del processo di socializzazione debba essere definita 

gnoseologica oppure no, poiché la formazione che ne deriva, e 



496 GEORG SIMMEL 



che è regolata dalle sue forme, non consiste in conoscenze, 

bensì in processi e stati esistenziali pratici. Ma ciò che qui 

intendo, e che dev'essere esaminato dal punto di vista delle sue 

condizioni come il concetto generale di associazione, è qualcosa 

di conoscitivo: la coscienza di associarsi o di essere associati. 

Forse lo si definirebbe meglio un sapere che non un conoscere. 

Infatti il soggetto non sta qui di fronte a un oggetto di cui 

esso acquisti gradualmente un'immagine teorica, ma la coscien- 

za dell’associazione è immediatamente il suo sostegno o il suo 

intimo significato. Si tratta dei processi dell’azione reciproca, i 

quali per l'individuo significano il fatto — non astratto, ma 

tuttavia suscettibile di espressione astratta — di essere asso- 

ciato. Quali forme debbano stare a base di essi, ossia quali 

categorie specifiche l’uomo debba per così dire recare con sé 

affinché sorga questa coscienza, quali siano perciò le forme che 

la coscienza così sorta — la società come un fatto di sapere — 

deve sorreggere, tutto ciò può ben essere chiamato la teoria 

della conoscenza della società. Cercherò qui di delineare come 

esempio di una tale indagine alcune di queste condizioni o 

forme 2 priori dell’associazione, le quali non possono certamen- 

te essere designate con ur4 sola parola come le categorie kan- 

tiane. 



I. L'immagine che un uomo si fa di un altro in base al 

contatto personale è condizionata da certi spostamenti che non 

sono semplici illusioni dovute a un'esperienza incompiuta, a 

deficiente acutezza della vista, a pregiudizi simpatici o antipati- 

ci, ma sono modificazioni di principio della costituzione dell’og- 

getto reale. E queste si muovono anzitutto in due dimensioni. 

Noi vediamo l’altro in qualche misura generalizzato, forse per- 

ché non ci è dato di rappresentare pienamente in noi un’indivi- 

dualità divergente dalla nostra. Ogni riproduzione di un'anima 

è condizionata dalla somiglianza con essa, e sebbene questa 

non sia assolutamente l’unica condizione del conoscere psichi- 

co — poiché appare necessaria da un lato una contemporanea 

diseguaglianza, per poter acquistare distanza e oggettività, dal- 

l’altro una capacità intellettuale che rimane al di là dell’egua- 

glianza o diseguaglianza dell'essere — tuttavia il conoscere per- 

fetto presupporrebbe un’eguaglianza perfetta. Sembra che ogni 



GEORG SIMMEL 497 



uomo abbia in sé un punto di individualità più profondo che 

non può essere internamente riprodotto da nessun altro uomo 

nel quale questo punto sia qualitativamente divergente. E il 

fatto che questa esigenza non sia conciliabile, già sotto il profi- 

lo logico, con quella distanza e valutazione oggettiva sulle qua- 

li poggia inoltre la rappresentazione dell’altro, dimostra soltan- 

to che ci è negato il sapere perfetto intorno all’individualità 

dell’altro; e tutti i rapporti degli uomini tra loro sono condizio- 

nati dal diverso grado di questo difetto. Quale che sia la sua 

causa, la conseguenza è però in ogni caso una generalizzazione 

dell'immagine psichica dell’altro, uno sfumare dei contorni che 

aggiunge all’unicità di questa immagine una relazione con al- 

tre. Noi rappresentiamo ogni uomo — con particolari conse- 

guenze per il nostro rapporto pratico con lui — come il tipo 

di uomo al quale la sua individualità lo fa appartenere; lo 

pensiamo, insieme a tutta la sua singolarità, sotto una catego- 

ria generale che certamente non lo ricopre del tutto e che egli 

non ricopre del tutto, e in virtù di tale determinazione questo 

rapporto si differenzia dal rapporto tra il concetto generale e il 

particolare che in esso rientra. Per conoscere l’uomo noi non lo 

vediamo nella sua pura individualità, ma lo vediamo sorretto, 

elevato o anche abbassato dal tipo generale al quale lo assegnia- 

mo. Anche quando questa trasformazione è così impercettibile 

che non possiamo più riconoscerla immediatamente, anche quan- 

do vengono meno tutti i consueti concetti caratterologici — mo- 

rale o immorale, libero o vincolato, signorile o servile ecc. — 

noi denominiamo internamente l’uomo secondo un tipo tacito 

col quale il suo puro essere per sé non coincide. 


E ciò conduce ancora un gradino più in giù. Proprio in 

base alla piena unicità di una personalità noi ci formiamo 

un'immagine di essa che non è identica alla sua realtà, ma che 

tuttavia non è un tipo generale, ma è piuttosto l’immagine che 

egli mostrerebbe se fosse per così dire interamente se stesso, se 

realizzasse, in senso buono o cattivo, la possibilità ideale insita 

in ogni uomo. Noi siamo tutti frammenti non soltanto dell’uo- 

mo in generale, ma anche di noi stessi. Noi siamo tutti ab- 

bozzi non soltanto del tipo uomo in generale, non soltanto del 

tipo del buono e del cattivo e simili, ma siamo abbozzi anche 

di quella individualità e unicità di noi stessi — non più denomi- 



32. STORICISMO TEDESCO. 



498 GEORG SIMMEL 



nabile in linea di principio — la quale circonda, quasi disegna- 

ta con linee ideali, la nostra realtà percepibile. Lo sguardo 

dell’altro integra però questo materiale frammentario in quel 

che noi non siamo mai puramente e interamente. Egli non può 

vedere soltanto uno accanto all’altro i frammenti che sono real- 

mente dati, ma come noi completiamo la macchia cieca nel 

nostro campo visivo in modo tale che non si è coscienti di 

essa, così da questo materiale frammentario perveniamo alla 

compiutezza della sua individualità. La prassi della vita ci 

spinge a formare l’immagine dell’uomo soltanto in base ai 

frammenti reali che conosciamo empiricamente di lui; ma essa 

poggia appunto su quelle modificazioni e integrazioni, sulla 

trasformazione di quei frammenti dati nella generalità di un 

tipo e nella compiutezza della personalità ideale. 


Questo procedimento di principio, anche se in realtà rara- 

mente attuato fino alla perfezione, opera nell’ambito della socie- 

tà già esistente come l’a priori delle ulteriori azioni reciproche 

che si sviluppano tra gli individui. Entro una cerhia legata da 

una qualche comunanza di professione o di interessi ogni mem- 

bro vede l’altro non già in modo puramente empirico, ma in 

base a un 4 priori che questa cerchia impone a ogni coscienza 

che ne faccia parte. Nelle cerchie degli ufficiali, dei fedeli di 

una chiesa, dei funzionari, dei dotti, dei familiari ognuno ve- 

de l’altro partendo dall’ovvio presupposto che egli è un mem- 

bro della sua cerchia. Dalla base di vita comune scaturiscono 

certe supposizioni attraverso le quali ci si guarda reciprocamen- 

te come attraverso un velo. Certamente questo non soltanto 

nasconde il carattere specifico della personalità, ma le conferi- 

sce una nuova forma, fondendosi con la sua consistenza indivi- 

duale-reale in una formazione unitaria. Noi vediamo l’altro 

non già semplicemente come individuo, bensì come collega o 

camerata o compagno di partito, in breve come coabitatore del 

medesimo mondo particolare; e questo presupposto inevitabile, 

che opera in modo del tutto automatico, è uno dei mezzi per 

portare la sua personalità e la sua realtà nella rappresentazione 

dell’altro alla qualità e alla forma richiesta dalla sua sociabilità. 


Ciò vale evidentemente per il rapporto tra appartenenti a 

cerchie diverse. Il borghese che fa la conoscenza di un ufficiale 

non può affatto liberarsi dal pensiero che questo individuo è un 



GEORG SIMMEL 499 



ufficiale; e per quanto l’essere ufficiale possa far parte di questa 

individualità, non ne fa però parte nell’identica forma schemati- 

ca in cui, nella rappresentazione dell’altro, ne pregiudica l’im- 

magine. E così accade al Protestante di fronte al Cattolico, al 

commerciante di fronte al funzionario, al laico di fronte al 

sacerdote, e così via. Ovunque abbiamo qui offuscamenti del 

profilo della realtà ad opera della generalizzazione sociale, i 

quali ne precludono in linea di principio la scoperta nell’ambi- 

to di una società socialmente assai differenziata. Così l’uomo 

incontra nella rappresentazione dell’uomo spostamenti, sottra- 

zioni e integrazioni — poiché la generalizzazione è sempre, nel 

medesimo tempo, più o meno dell’individualità — rispetto a 

tutte queste categorie operanti 4 priori: rispetto al suo tipo 

come uomo, all’idea del suo proprio compimento, alla collettivi- 

tà sociale a cui egli appartiene. Su tutto ciò aleggia — come 

principio euristico del conoscere — l’idea della sua determina- 

tezza reale, assolutamente individuale. Ma mentre sembra che 

l'acquisizione di questa determinatezza conduca a una relazio- 

ne correttamente fondata con lui, di fatto quelle modificazioni 

e formazioni nuove che ostacolano la sua conoscenza ideale 

sono proprio le condizioni in virtù delle quali diventano possibi- 

li le relazioni, che sole conosciamo come sociali, all’incirca co- 

me in Kant le categorie dell'intelletto, che formano i dati 

immediati in oggetti del tutto nuovi, rendono esse soltanto 

conoscibile il mondo dato. 



II. Un’altra categoria sotto la quale i soggetti guardano se 

stessi e si guardano reciprocamente, in modo da poter produrre 

— così formati — la società empirica, può venir formulata con 

la proposizione apparentemente banale che ogni elemento di 

un gruppo non è soltanto parte di una società, ma è inoltre 

ancora qualcosa. Ciò opera come 4 priori sociale nella misura 

in cui la parte dell’individuo che non è rivolta alla società o 

non si risolve in essa mon se ne sta semplicemente priva di 

relazione accanto alla sua parte socialmente significativa, cioè 

non è soltanto un corpo estraneo alla società a cui questa, 

volente o nolente, fa posto. Il fatto che l’individuo non sia per 

certi aspetti elemento della società costituisce la condizione posi- 

tiva della possibilità di esserlo con altri aspetti del suo essere: 



500 GEORG SIMMEL 



il modo del suo essere-associato è determinato o condeterminato 

dal modo del suo non-essere-associato. Dalle indagini seguenti 

risulteranno alcuni tipi il cui significato sociologico è fissato, 

addirittura nel suo nucleo e nella sua essenza, dal fatto che essi 

sono in qualche modo esclusi dalla società per la quale la loro 

esistenza è significativa: così avviene nel caso dello straniero, 

del nemico, del criminale, perfino del povero. Ma ciò non vale 

soltanto per questi caratteri generali, ma anche, in innumerevo- 

li modificazioni, per qualsiasi fenomeno individuale. Il fatto 

che ogni momento ci trovi circondati da relazioni con uomini e 

che il suo contenuto ne sia determinato direttamente o indiretta- 

mente non parla affatto in senso contrario; l’inserimento socia- 

le in quanto tale riguarda appunto esseri che non sono comple- 

tamente abbracciati da esso. Del funzionario sappiamo che non 

è soltanto funzionario, del commerciante che non è soltanto 

commerciante, dell’ufficiale che non è soltanto ufficiale; e que- 

sto essere extra-sociale, il suo temperamento e il precipitato dei 

suoi destini, i suoi interessi e il valore della sua personalità, per 

quanto poco possano modificare la sostanza delle attività com- 

piute quale funzionario, commerciante, militare, gli conferisco- 

no tuttavia ogni volta — per chiunque gli stia di fronte — una 

determinata zuance e intrecciano nella sua immagine sociale 

imponderabili elementi extra-sociali. L'intero sistema di rappor- 

ti degli uomini nell’ambito delle categorie sociali sarebbe diver- 

so se ognuno si presentasse all’altro soltanto come quel che è 

nella sua categoria, come portatore del ruolo sociale che pro- 

prio ora gli spetta. Certamente gli individui, al pari delle pro- 

fessioni e delle situazioni sociali, si differenziano secondo la 

misura di quell’«inoltre» che essi possiedono o ammettono 

insieme con il loro contenuto sociale. Un polo di questa serie è 

costituito per esempio dall'uomo nei rapporti di amore o di 

amicizia. Qui ciò che l’individuo riserva per sé, al di là degli 

sviluppi e delle attività rivolte all’altro, può avvicinarsi quanti- 

tativamente al valore-limite zero; siamo in presenza di un’uni- 

ca vita, che può essere considerata o viene vissuta per così dire 

da due lati — per un verso dal lato interno, dal terminus a quo 

del soggetto, e poi anche, come vita del tutto immutata, nella 

direzione dell’individuo amato, sotto la categoria del suo termi 

nus ad quem, che essa accoglie senza residuo. Sotto una tenden- 



GEORG SIMMEL 501 



za del tutto diversa il sacerdote cattolico presenta un fenome- 

no formalmente identico, nel senso che la sua funzione ecclesia- 

stica ricopre e ingloba completamente il suo essere-per-sé indivi- 

duale. Nel primo di questi casi estremi l’« inoltre » dell’attivi- 

tà sociologica scompare, perché il suo contenuto si è risolto 

completamente nel rivolgersi all'individuo che gli sta di fron- 

te, nel secondo perché il tipo corrispondente di contenuti è 

scomparso in linea di principio. Il polo opposto è offerto per 

esempio dai fenomeni della cultura moderna determinata dall’e- 

conomia monetaria, nella quale l'uomo come produttore, com- 

pratore o venditore, e in generale come soggetto di una presta- 

zione, si avvicina all’ideale dell’oggettività assoluta. Prescinden- 

do dalle posizioni elevate, di carattere direttivo, la vita indivi- 

duale e cioè il tono della personalità complessiva è scomparso 

dalla prestazione; gli uomini sono soltanto i portatori di un 

equilibrio di prestazione e contro-prestazione regolato secondo 

norme oggettive, e tutto ciò che non fa parte di questa pura 

oggettività è anche di fatto sparito da essa. L’«inoltre» ha 

assorbito completamente in sé la personalità con la sua colora- 

zione particolare, la sua irrazionalità, la sua vita interiore, 

lasciando a quelle attività sociali — nettamente separate — sol- 

tanto le energie ad esse specifiche. 


Gli individui sociali si muovono sempre tra questi estremi, 

in modo tale che le energie e le determinatezze rivolte al 

centro interno mostrano un qualche significato per le attività e 

il modo di sentire validi per l’altro. Infatti — nel caso-limite 

— perfino la coscienza che quest'attività o questo stato d’animo 

sociale sia qualcosa di separato dal resto dell’uomo e 707 entri, 

con ciò che egli è e significa altrimenti, nella relazione sociolo- 

gica, ha un'influenza del tutto positiva sull’atteggiamento che 

il soggetto assume di fronte agli altri e che gli altri assumono 

di fronte ad esso. L’a priori della vita sociale empirica è il 

fatto che la vita non è del tutto sociale; noi formiamo le nostre 

relazioni reciproche non soltanto con la riserva negativa di una 

parte della nostra personalità che non entra in esse, e questa 

parte influisce sui processi sociali nell'anima non soltanto me- 

diante connessioni psicologiche generali, ma proprio il fatto 

formale che essa sta al di fuori di tali processi determina il 

modo di questa influenza. — Il fatto che le società siano forma- 



502 GEORG SIMMEL 



zioni derivanti da esseri che stanno allo stesso tempo dentro e 

fuori di esse è anche alla base di una delle più importanti 

formazioni sociologiche: quella, cioè, per cui tra una società e 

i suoi individui può sussistere — anzi forse, in modo più aperto 

o più latente, sussiste sempre — un rapporto simile a quello tra 

due partiti. In tal modo la società produce forse la più coscien- 

te, almeno la più generale configurazione di una forma fonda- 

mentale della vita in genere: il fatto che l’anima individuale 

non può mai stare in una connessione senza stare contempora- 

neamente al di fuori di essa, che non è mai inserita in un 

ordinamento senza trovarsi nel medesimo tempo contrapposta 

ad esso. Ciò va dalle connessioni trascendenti e generalissime 

fino alle più singolari e accidentali. L'uomo religioso si sente 

completamente circondato dall’essere divino, come se fosse sol- 

tanto un battito della vita divina, e la sua propria sostanza è 

data senza riserve, anzi in una mistica indistinzione con quella 

dell’assoluto. Eppure, per dare anche soltanto un senso a questa 

fusione, egli deve conservare un qualche essere autonomo, un 

termine personale a lui contrapposto, un io separato per il 

quale la risoluzione in questo essere divino onnicomprensivo 

rappresenta un compito infinito, un processo che non sarebbe 

né metafisicamente possibile né religiosamente percepibile se 

non partisse da un essere per sé del soggetto: l’essere-uno con 

Dio è condizionato nel suo significato dall’essere-altro rispetto 

a Dio. AI di là di questo innalzamento nel trascendente la 

relazione che lo spirito umano rivendica, attraverso tutta la 

sua storia, con la natura come un tutto rivela la medesima 

forma. Noi ci sappiamo da un lato inseriti nella natura, come 

uno dei suoi prodotti che sta da eguale tra eguali accanto a 

qualsiasi altro, come un punto che le sue materie ed energie 

raggiungono e abbandonano, nello stesso modo in cui circolano 

attraverso l’acqua corrente e la pianta in fiore. E tuttavia l’ani- 

ma ha il sentimento di un essere-per-sé indipendente da tutti 

questi intrecci e da queste relazioni, che si designa col con- 

cetto — così malsicuro sotto il profilo logico — di libertà, il 

quale offre a tutto questo meccanismo, di cui noi siamo pur 

tuttavia un elemento, un termine contrapposto e un ripagamen- 

to che culmina nel radicalismo per il quale la natura viene 

considerata soltanto una rappresentazione presente nelle anime 



GEORG SIMMEL 503 



umane. Come però qui la natura, con tutta la sua propria 

innegabile legalità e con la sua dura realtà, è pur sempre inclu- 

sa nell’io, così d’altra parte questo io, con tutta la sua libertà 

e il suo essere per sé, con la sua antitesi nei confronti della 

mera natura, è pur sempre un elemento di essa. La connessione 

usurpatrice della natura è appunto tale che essa comprende 

questo essere autonomo, anzi spesso ostile ad essa, e che ciò 

che nel suo più profondo sentimento vitale sta al di fuori 

dev'essere invece un suo elemento. Questa formula vale egual- 

mente per il rapporto tra gli individui e le singole cerchie dei 

loro legami sociali, oppure — se questi vengono riassunti nel 

concetto o nel sentimento di essere associati in generale — per 

il rapporto tra gli individui in quanto tale. Noi ci sappiamo da 

una parte prodotti della società: la serie fisiologica degli antena- 

ti, i loro adattamenti e le loro fissazioni, le tradizioni del loro 

lavoro, del loro sapere e delle loro credenze, l’intero spirito del 

passato cristallizzato in forme oggettive determinano le disposi- 

zioni e i contenuti della nostra vita, cosicché può sorgere la 

questione se l'individuo sia qualcosa di diverso da un recipiente 

nel quale si mescolano in misura variabile elementi preesistenti. 

Infatti, anche se questi elementi fossero in ultima analisi pro- 

dotti dagli individui, il contributo di ognuno sarebbe una gran- 

dezza infinitesimale, e soltanto mediante il loro riunirsi in spe- 

cie e in società si produrrebbero i fattori nella cui sintesi consi- 

sterebbe poi di nuovo l’individualità che si può specificare. 

D'altra parte noi ci sappiamo membri della società, intessuti 

con il nostro processo vitale, con il suo senso e il suo scopo in 

modo tanto poco indipendente nella sua prossimità come nella 

sua successione. Come non possediamo un essere per noi in 

quanto esseri naturali, perché la circolazione degli elementi 

naturali pervade tanto noi quanto formazioni completamente 

prive di un io, e l'eguaglianza di fronte alle leggi naturali 

risolve senza residui la nostra esistenza in un mero esempio del- 

la loro necessità, così in quanto esseri sociali non viviamo intor- 

no a un centro autonomo, ma siamo in ogni attimo composti 

dalle relazioni reciproche con gli altri; e in tal modo siamo 

comparabili con la sostanza corporea, che per noi sussiste soltan- 

to più come somma di molteplici impressioni sensibili, ma non 

come esistenza di per sé. Noi sentiamo però che questa diffusio- 



504 GEORG SIMMEL 



ne sociale non risolve completamente la nostra personalità. 

Non si tratta soltanto delle riserve già avanzate, di particolari 

contenuti il cui senso e il cui sviluppo risiedono 4 priori solamen- 

te nell'anima individuale e non trovano assolutamente posto 

nella connessione sociale; non si tratta soltanto della formazione 

dei contenuti sociali, la cui unità come anima individuale non ha 

essa stessa carattere sociale, così come la forma artistica nella 

quale confluiscono le macchie di colore sulla tela non è deriva- 

bile dall’essenza chimica dei colori. Si tratta, in primo luogo, 

del fatto che l’intero contenuto della vita, per quanto possa 

essere completamente spiegato in base agli antecedenti sociali e 

alle relazioni reciproche, dev'essere contemporaneamente consi- 

derato sotto la categoria della vita individuale, come espe- 

rienza vissuta dell’individuo e interamente orientata verso di 

esso. L'uno e l’altro elemento non sono che categorie diverse 

sotto le quali ricade lo stesso contenuto, proprio come la mede- 

sima pianta può essere vista ora nelle condizioni biologiche del 

suo sviluppo, ora nella sua utilizzabilità pratica, o ancora sotto 

il profilo del suo significato estetico. Il punto di vista dal quale 

l’esistenza dell’individuo viene ordinata e compresa può esse- 

re scelto tanto all’interno quanto all’esterno di esso; la tota- 

lità della vita, con tutti i suoi contenuti socialmente derivabili, 

può essere tanto concepita come il destino centripeto del suo 

portatore, quanto valere — con tutte le sue parti riservate all’in- 

dividuo — come prodotto ed elemento della vita sociale. 


Il fatto dell’associazione colloca dunque l’individuo nella du- 

plice posizione dalla quale sono partito: egli è compreso in 

essa e contemporaneamente si contrappone ad essa, è un ele- 

mento del suo organismo e al tempo stesso è un tutto organico 

concluso, è un essere per essa e un essere per sé. Ma l’aspetto 

essenziale e il senso del particolare 4 priori sociologico che si 

fonda su tale fatto è che tra individuo e società l’interno e 

l'esterno non costituiscono due determinazioni sussistenti l’una 

accanto all’altra — benché si possano occasionalmente sviluppa- 

re anche in questo modo, fino all’ostilità reciproca — ma defini- 

scono la posizione del tutto unitaria dell’uomo che vive social- 

mente. La sua esistenza non è soltanto parzialmente sociale e 

parzialmente individuale in una divisione di contenuti; ma si 

colloca sotto la categoria fondamentale, formativa, non ulterior- 



GEORG SIMMEL 505 



mente riducibile di una unità che non possiamo esprimere altri- 

menti che mediante la sintesi o la contemporaneità delle due 

determinazioni logicamente contrapposte dell'essere membro 

della società e dell’essere per sé, dell’essere prodotto e 

compreso dalla società e del vivere in base al proprio centro e 

per il proprio centro. La società non consiste soltanto — come 

è risultato sopra — di esseri che in parte non sono associati, 

ma anche di esseri che si sentono da una parte esistenze comple- 

tamente sociali, e dall’altra, conservando lo stesso contenuto, 

completamente personali. E questi non sono due punti di vista 

che coesistano privi di relazione, come quando si considera per 

esempio lo stesso corpo sotto il profilo ora del suo peso, ora 

del suo colore, ma costituiscono insieme l’unità che chiamiamo 

essere sociale, la categoria sintetica — nello stesso modo in cui 

il concetto di causazione è un'unità 4 priori, anche se include 

entrambi gli elementi, del tutto differenti per il loro contenuto, 

del causante e del causato. Il fatto che abbiamo a disposizione 

questa formazione, questa capacità di produrre — sulla base 

di esseri ognuno dei quali può sentirsi come ferminus a quo e 

terminus ad quem dei suoi sviluppi, dei suoi destini e delle sue 

qualità — un concetto di società che fa leva proprio su tali ele- 

menti, e di concepire quest’ultimo come terminus a quo e 

terminus ad quem di quelle vitalità e determinatezze esistenzia- 

li, costituisce un 4 priori della società empirica, e rende possibi- 

le la sua forma quale la conosciamo. 



III. La società è una formazione composta da elementi dise- 

guali. Infatti anche dove tendenze democratiche o socialistiche 

programmano o parzialmente raggiungono un’« eguaglianza », 

si tratta sempre soltanto di un’eguaglianza di valore delle perso- 

ne, delle prestazioni, delle posizioni, mentre un’eguaglianza di 

qualità, di contenuti vitali e di destini tra gli uomini non può 

neppure venir presa in considerazione. E dove d'altra parte una 

popolazione ridotta in schiavitù costituisce soltanto una massa 

— come nei grandi regimi dispotici orientali — quest’egua- 

glianza riguarda sempre solamente certi aspetti dell’esistenza, 

per esempio quelli politici o economici, ma mai la sua totalità, 

in quanto le sue qualità congenite, le sue relazioni personali, i 

suoi destini vissuti avranno inevitabilmente una specie di uni- 



506 GEORG SIMMEL 



cità e di insostituibilità non soltanto per il lato interno della vita, 

ma anche per le sue relazioni reciproche con altre esistenze. Se ci 

si rappresenta la società come uno schema puramente oggettivo, 

essa sì rivela quale ordinamento di contenuti e di prestazioni 

che stanno in una relazione reciproca per spazio, tempo, concet- 

ti, valori, permettendo così di prescindere dalla personalità, 

dalla forma dell'io che sostiene la loro dinamica. Se quella 

diseguaglianza di elementi fa apparire ogni prestazione o quali- 

tà nell’ambito di questo ordine come caratterizzata individual- 

mente, come inequivocabilmente fissata al suo posto, la società 

si configura come un cosmo la cui molteplicità è sì sterminata 

nel suo essere e nel suo movimento, ma in cui ogni punto può 

essere costituito e svilupparsi soltanto in quel determinato mo- 

do, se la struttura del tutto non dev'essere mutata. Ciò che è 

stato detto della costruzione del mondo in generale — che 

nessun granello di sabbia potrebbe essere formato e collocato 

diversamente da com'è, senza che questo abbia come presuppo- 

sto e come conseguenza una modificazione dell'intera esistenza 

— vale anche per la costruzione della società, considerata co- 

me un intreccio di fenomeni qualitativamente determinati. Que- 

st'immagine della società in generale trova un’analogia (come 

in una miniatura, infinitamente semplificata e per così dire 

stilizzata) in una struttura di funzionari che consiste, in quan- 

to tale, in un determinato ordine di « posizioni », in una prede- 

terminatezza di funzioni che, staccate dai loro portatori, dànno 

luogo a una connessione ideale; nell’ambito di questa ogni 

nuovo individuo che entra a farne parte trova un posto inequi- 

vocabilmente determinato, che lo ha per così dire aspettato e 

al quale le sue energie devono adattarsi armonicamente. Natu- 

ralmente ciò che qui è fissazione consapevole e sistematica di 

contenuti di prestazioni è, nella totalità della società, un inestri- 

cabile intreccio di funzioni; le posizioni al suo interno non 

sono date da una volontà costruttiva, ma si possono cogliere 

soltanto attraverso l’attività creativa e l’esperienza vissuta degli 

individui. E nonostante questa enorme differenza, nonostante 

tutto ciò che di irrazionale, di imperfetto, di riprovevole dal 

punto di vista del valore la società storica presenta, la sua 

struttura fenomenologica — vale a dire la somma e il rapporto 

del modo di esistenza e delle prestazioni offerte da ogni elemen- 



GEORG SIMMEL 507 



to sotto il profilo oggettivo-sociale — rimane un ordine fatto 

di elementi ciascuno dei quali occupa un posto individualmente 

determinato, una coordinazione di funzioni e di centri di fun- 

zioni dotate di senso, anche se non sempre di valore, oggettiva- 

mente e nel loro significato sociale; mentre l’elemento pura- 

mente personale, l'elemento internamente produttivo, gli impul- 

si e i riflessi dell’io vero e proprio restano completamente 

fuori considerazione. Ossia, in altri termini, la vita della 

società scorre — non già psicologicamente, bensì fenomenologi- 

camente, considerata puramente sotto il profilo dei suoi conte- 

nuti «sociali in quanto tali — come se ogni elemento fosse 

predestinato alla sua posizione in questa totalità; con tutta la 

disarmonia rispetto alle istanze ideali essa scorre come se tutti 

i suoi elementi stessero in un rapporto unitario che fa dipende- 

re ciascuno, proprio perché esso è questo particolare elemento, 

da tutti gli altri e tutti gli altri da questo. 


Ciò permette di scorgere l’a priori del quale dobbiamo ora 

parlare, e che per l’individuo significa un fondamento e la 

« possibilità » di appartenere a una società. Che ogni individuo 

sia di per sé orientato dalla sua qualità verso una determinata 

posizione nell’ambito del suo miliew sociale; che questa posizio- 

ne che idealmente gli appartiene sia anche realmente presente 

nel complesso sociale — questo è il presupposto in base al 

quale l'individuo vive la sua vita sociale e che si può definire 

come il valore di universalità inerente all’individualità. Esso è 

indipendente dalla sua elaborazione in una chiara coscienza 

concettuale, ma anche dalla sua realizzazione nel corso della 

vita reale — così come l’apriorità della legge causale quale 

presupposto formativo del conoscere è indipendente dal fatto 

che la coscienza la formuli in concetti distinti e che la realtà 

psicologica proceda sempre in conformità ad essa oppure no. 

La nostra vita conoscitiva poggia sul presupposto di un’armo- 

nia prestabilita tra le nostre energie spirituali, anche se ancora 

individuali, e l’esistenza esteriore, oggettiva: infatti questa ri- 

mane sempre l’espressione di un fenomeno immediato, non im- 

porta se si possa poi ricondurla metafisicamente o psicologica- 

mente alla produzione dell’esistenza ad opera dell'intelletto stes- 

so. Parimenti la vita sociale in quanto tale poggia sul presuppo- 

sto di una fondamentale armonia tra l’individuo e il complesso 



508 GEORG SIMMEL 



sociale, anche se ciò non impedisce le crasse dissonanze tra la 

vita etica e la vita eudemonistica. Se la realtà sociale fosse 

conformata senza ostacoli e senza difetti in base a questo pre- 

supposto di principio, noi avremmo la società perfetta — di 

nuovo non nel senso di una perfezione etica o eudemonistica, 

ma nel senso di una perfezione concettuale: per così dire non 

la società perfetta, ma la perfetta società. Finché l’individuo 

non realizza o non trova realizzato questo 4 priori della sua 

esistenza sociale — vale a dire la penetrante correlazione del 

suo essere individuale con le cerchie circostanti, la necessità 

integrante per la vita del tutto della sua particolarità determina- 

ta dalla vita personale interiore — fino ad allora egli non è 

associato, e la società non è quell’attività reciproca priva di 

lacune che il suo concetto enuncia. 


Questo comportamento acquista una consapevole accentua- 

zione con la categoria della professione. L’antichità non ha 

conosciuto questo concetto nel senso di una differenziazione 

personale e di una società articolata in base alla divisione del 

lavoro. Ma anche nell’antichità sussisteva il fenomeno che ne 

costituisce il fondamento: che l’agire socialmente efficace è l’e- 

spressione unitaria della qualificazione interiore, che l’aspetto 

totale e permanente della soggettività si oggettiva praticamente 

in virtù delle sue funzioni nella società. Soltanto che questa 

relazione si attuava in un contenuto generalmente più unifor- 

me; il suo principio emerge nell’osservazione aristotelica che 

alcuni sono destinati per la loro natura al SovAzbew, altri al 

Seorétew. A un grado più elevato di elaborazione il concetto pre- 

senta la struttura caratteristica per cui da una parte la società pro- 

duce e offre in sé una « posizione » che è si differenziata da altre 

per contenuto e contorni, ma che può in linea di principio essere 

occupata da molti ed è quindi per così dire qualcosa di anoni- 

mo; e dall’altra parte questa posizione, nonostante il suo carat- 

tere di generalità, viene assunta dall’individuo in base a una 

«chiamata » interiore, a una qualificazione sentita come del 

tutto personale. Affinché esista in generale una « professione » 

deve sussistere quell’armonia — comunque essa sia sorta — tra 

la costruzione e il processo vitale della società, da un lato, e le 

qualità e gli impulsi individuali, dall'altro. Su questo presuppo- 

sto generale si fonda in ultima analisi l’idea che per ogni 



GEORG SIMMEL 509 



personalità vi sia, nell’ambito della società, una posizione e 

funzione alla quale essa è « chiamata », e l'imperativo di cerca- 

re finché la si trova. 


La società empirica diventa « possibile » soltanto mediante 

questo 4 priori che culmina nel concetto di professione, e che 

certamente — al pari di quelli finora trattati — non può essere 

designato con una semplice parola d’ordine, come consentono 

di fare le categorie kantiane. I processi di coscienza con i 

quali l’associazione si compie — l’unità a partire dai molti, la 

determinazione reciproca degli individui, il significato recipro- 

co degli individui per la totalità degli altri e di questa totalità 

per l’individuo — hanno luogo in base a questo presupposto di 

principio, non già astrattamente consapevole ma che si esprime 

nella realtà della prassi: il presupposto secondo cui l’individua- 

lità del singolo trova un posto nella struttura dell’universalità, 

anzi che questa struttura, nonostante l’aspetto imprevedibile 

dell’individualità, è rivolta in certa misura a questa e alla sua 

funzione. La connessione causale che intesse ciascun elemento 

sociale nell’essere e nell’agire di ogni altro, dando così luogo 

alla rete esteriore della società, si trasforma in una connessione 

teleologica non appena la si considera dal punto di vista dei 

portatori individuali, di coloro che la producono, i quali si 

sentono come io e il cui atteggiamento cresce sul terreno della 

personalità che è per sé e si determina da sé. Il fatto che 

quella totalità fenomenica si adatta allo scopo di queste indivi- 

dualità che quasi le si fanno incontro dall’esterno, che offre al 

processo vitale di queste, determinato dall’interno, il luogo in 

cui la sua particolarità diventa un elemento necessario nella 

vita del tutto — tutto ciò, assunto come categoria fondamenta- 

le, conferisce alla coscienza dell’individuo la forma che lo desi- 

gna come elemento sociale. 



È una questione abbastanza oziosa se le indagini sulla teoria 

della conoscenza della società, che dovevano essere esemplifica 

te da questi abbozzi, rientrino nella filosofia sociale o non già 

addirittura nella sociologia. Ammettendo pure che esse costitui- 

scano una zona di confine tra i due metodi, la sicurezza del 



DI 



problema sociologico — quale è stato tratteggiato avanti — e 



IO GEORG SIMMEL 



la delimitazione nei confronti della problematica filosofica non 

ne soffrono più di quanto la determinatezza dei concetti di 

giorno e di notte non soffra del fatto che esiste un crepusco- 

lo, o quella dei concetti di uomo e di animale non soffra del 

fatto che forse si possono trovare gradi intermedi che riunisco- 

no le caratteristiche di entrambi in maniera per noi concettual- 

mente non separabile. Quando il problema sociologico si rivol- 

ge all’astrazione di ciò che nel complesso fenomeno che chia- 

miamo vita sociale è realmente soltanto società, vale a dire 

associazione; quando esso elimina dalla purezza di questo con- 

cetto tutto ciò che viene sì realizzato storicamente soltanto en- 

tro la società, ma non costituisce la società come tale, come 

forma singolare e autonoma di esistenza — allora viene indivi- 

duato un nucleo di compiti assolutamente inequivocabile; e pur 

potendo accadere che la periferia di questa cerchia di problemi 

entri, temporaneamente o durevolmente, in contatto con altre 

cerchie, che la delimitazione dei confini diventi dubbia, non 

per questo il centro rimane meno saldo al suo posto. 


Passo ora a mostrare la fecondità di questo concetto e proble- 

ma centrale in indagini particolari. Lungi dalla pretesa di esauri- 

re il numero delle forme di azione reciproca che costituiscono 

la società, esse mostrano soltanto la via che potrebbe condurre 

all’isolamento scientifico dell’intero ambito della « società » dal- 

la totalità della vita; cioè si propongono di mostrarla compien- 

do i primi passi su tale cammino. 



L’ESSENZA DEL COMPRENDERE STORICO * 



La relazione di uno spirito con un altro, che noi definiamo 

comprendere, costituisce un avvenimento fondamentale della 

vita umana, la cui recettività e attività propria è unificante in 

un modo non più scomponibile, ma che è soltanto oggetto di 

esperienza vissuta. Nell’esame del comprendere in generale è 

incluso l'esame del comprendere propriamente storico. Infatti, 

nello stesso modo in cui tutte le nostre produzioni ideali, pura- 

mente spirituali, trovano i loro abbozzi frammentari in quelle 

forme e in quei modi di procedere che lo spirito ha sviluppato 

per esigenze pratiche e per i progressi della vita, così anche la 

storia scientifica si è preformata in maniera indicativa nelle 

formazioni e nei metodi con cui la prassi si costruisce le imma- 

gini del passato come condizioni della vita che avanza. Ma dal 

momento che senza di ciò è del tutto impensabile ogni passo 

della vita, sorretto dalla coscienza del passato, qui non si tratta 

del caos sterminato e senza forma dell’intera materia ricordata 

o tramandata della vita; al contrario, già la sua valutazione 

pratica è condizionata dalla sua scomposizione e dalla sua sinte- 

si, dall'ordinamento in concetti e in serie, dall’attribuzione e 

dallo spostamento di accento, da interpretazioni e da integrazio- 

ni. Così diverse categorie teoretiche funzionano qui in vista di 

un interesse non teoretico, continuamente incorporate nelle con- 



* Vom WWesen des historischen Verstehens, « Geschichtliche Abende in Zentral- 

institut fur Erziehung und Unterricht », 5, Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1918, 

poi raccolto in Briicke und Tiir: Essays der Philosophen zur Geschichte, Religion, 

Kunst und Gesellschaft (a cura di M. Landmann, in collaborazione con M. Susman), 

Stuttgart, Kochler Verlag, 1957, pp. 59-85 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro 

Rossi). 



S12 GEORG SIMMEL 



nessioni della vita al pari di qualsiasi coordinamento di movi- 

menti, di qualsiasi impulso o riflesso. La storia come scienza 

sorge non appena quelle categorie che elaborano il materiale 

della vita in un'immagine spiritualmente intuibile, logicamente 

fornita di senso e quindi in primo luogo suscettibile di applica 

zione pratica, si svincolano da questa subordinazione a uno 

scopo € costituiscono autonomamente, in base a un interesse 

teoretico libero da legami, in una nuova completezza e con un 

nuovo valore specifico, le immagini della vita passata. Come 

noi siamo sempre, per così dire, storici embrionali di noi 

stessi, così d'altra parte noi completiamo e assolutizziamo — 

in quanto storici scientifici — gli orientamenti e le elabora- 

zioni della vita pre-scientifica. Sulla base di questo rapporto 

reciproco del tutto generale l’analisi della comprensione storica 

appare condizionata dall’esame del modo in cui può accadere 

che un uomo ne comprenda un altro. Infatti, per quanto diffe- 

renti possano essere i punti di partenza e le vie, l’interesse e il 

materiale, la comprensione di Paolo e di Luigi XIV è alla fine 

essenzialmente identica a quella di un uomo che conosciamo 

personalmente. 


La struttura di ogni comprendere è una sintesi intima di 

due elementi inizialmente separati. Ciò che è dato è un fenome- 

no fattuale, che in quanto tale non è ancora compreso. Da 

parte del soggetto a cui questo fenomeno è dato si aggiunge 

un secondo elemento, emergente in modo immediato da questo 

soggetto, oppure da esso assunto ed elaborato — il pensiero 

comprendente, che penetra per così dire il fenomeno dato e ne 

fa qualcosa di compreso. Questo secondo elemento psichico è 

talvolta cosciente di per sé, talvolta rintracciabile soltanto nel 

suo effetto, vale a dire, appunto, in ciò che ora viene compreso. 

Tale rapporto fondamentale trova tre configurazioni tipiche, 

che trapassano tutte dalla loro più o meno grande realizzazio- 

ne in forma pre-scientifica alla metodica della storia scientifica. 


In primo luogo si tratta di comprendere i fenomeni e le 

azioni di un individuo che sono dati ai sensi esterni in modo 

tale che essi siano motivati psichicamente, cioè in questo caso 

di comprendere gli avvenimenti psichici attraverso queste mani- 

festazioni sensibili che li accompagnano. A prima vista l’altro 

uomo è per noi una somma di impressioni esterne. Noi lo 



GEORG SIMMEL 513 



vediamo, lo tocchiamo, lo udiamo; ma che « dietro » tutto ciò 

viva un’anima, che tutti questi elementi esterni abbiano un 

significato psichico, un aspetto interno che non si esaurisce 

nella loro immagine sensibile — in breve, che l’altro non sia 

una marionetta, ma qualcosa di comprensibile interiormente — 

ciò non è dato in eguale misura, ma rimane sempre una conget- 

tura non suscettibile di essere provata in modo assoluto. E co- 

me l’individuo deve comunicare l’essere animato all’altro, anzi- 

ché sentirlo come una concretezza cogente, ossia come un’im- 

pressione sensibile, la stessa cosa avviene naturalmente an- 

che in relazione ai contenuti psichici particolari. Ciò che 

quello vuole e pensa e sente, noi non possiamo vederlo: tutto 

quanto si vede è solamente un ponte e un simbolo per stimola- 

re e guidare il soggetto alla creazione costruttiva di ciò 

che può accadere nell’anima dell’altro. Ulteriore conseguenza 

di ciò è il fatto che ogni sapere relativo a questi processi 

dell’altro, ogni loro comprensione, rappresenta una trasposizio- 

ne di avvenimenti interni vissuti dal soggetto stesso: ogni senti- 

mento, il sorgere di rappresentazioni sulla base di rappresenta- 

zioni passate, il dominio degli impulsi da parte dell’intero am- 

bito di idee — tutto ciò deve prima avvenire in me per poter 

essere imputato all’altro. Da dove, se non dalla mia anima, 

dovrei infatti prendere il materiale per la conoscenza e la com- 

prensione degli altri, che non si presentano davanti a me in mo- 

do leggibile? E in ciò sta manifestamente anche il problema fon- 

damentale del comprendere propriamente storico. Se già posso 

comprendere l’uomo che si offre ai miei occhi e alle mie 

orecchie solamente in quanto lo fornisco, al di là di tutto ciò 

che ho visto e udito, dei contenuti della mia anima, un uomo 

da lungo tempo passato — del quale ci sono tramandate soltan- 

to azioni oggettive, manifestazioni frammentarie, tracce oggetti- 

ve della sua esistenza — sarebbe per me un semplice complesso 

di elementi esterni non compresi qualora non collocassi dietro 

tutto ciò situazioni e movimenti psichici, il cui senso e la cui 

connessione non possono venirmi se non dalle esperienze della 

mia propria interiorità. La comprensione della persona storica 

presupporrebbe quindi, per quanto essa sia per altri versi diver- 

sa da me, un'identità essenziale tra noi due rispetto ai punti 

da comprendere. 



33. STORICISMO TEDESCO, 



514 GEORG SIMMEL 



Mi richiamo a quest’apparente inevitabilità, per la quale si 

offrono come prove alcune osservazioni. L'esperienza sembra 

indicare che chi non ha mai amato o odiato non comprende 

chi ama o chi odia, che la sobrietà dell’uomo pratico non 

comprende il comportamento dell’idealista sognatore e vicever- 

sa, che il flemmatico non comprende le connessioni di idee del 

sanguigno e viceversa. Così lo storico pedantesco, adatto ai 

rapporti piccolo-borghesi, non comprenderà mai le manifesta- 

zioni della vita di Mirabeau o di Napoleone, di Goethe o di 

Nietzsche, per quanto visibili e chiare esse siano. L’assenza di 

speranza con cui la comprensione dell'Europa si pone dinanzi 

all'anima orientale viene comprovata dai conoscitori di cose 

orientali in modo tanto più netto quanto più profonde e ampie 

sono le loro esperienze. Meno imperativo ma — ritengo — non 

meno fondato è il dubbio se l’uomo moderno comprenda nella 

loro reale interiorità l’Ateniese delle guerre persiane, il 

monaco medievale o anche solamente la società di corte di- 

pinta da Watteau. Non parlo qui della mancanza o dell’equivo- 

cità delle fonti, ma di un’impossibilità di comprensione a cui 

non può essere di aiuto la quantità e il contenuto dei documen- 

ti, poiché la costituzione del soggetto non fornisce quella reazio- 

ne all’oggetto che costituisce il comprendere. 


Sarebbe tuttavia avventata la conclusione che alla base della 

comprensione sta l’identità tra soggetto e oggetto. Se si osserva- 

no un po’ più da vicino quei fatti, risulterà che essi sono 

esclusivamente di carattere negativo, ossia che una certa misura 

di diseguaglianza sostanziale impedisce certo la comprensione; 

ma da ciò non discende affatto che l’identità la produca positi- 

vamente. Sarebbe un errore eguale al voler concludere, sulla 

base di un disturbo psichico provocato da determinate lesioni 

cerebrali, che questo punto della corteccia cerebrale abbia pro- 

dotto il processo di coscienza in questione nella sua normalità. 

Il mutamento o l’assenza di una tra le varie complicate condi- 

zioni, più o meno prossime, dei processi organici e in particola- 

re di quelli psichici basta spesso a determinare una completa 

deviazione, senza che per questo essa possa valere come loro 

causa positiva. Si potrà soltanto dire che una certa misura di 

diversità psichica è di ostacolo alla comprensione di date mani- 

festazioni. Che però questa sia prodotta dall’identità di essenza 



GEORG SIMMEL 515 



è tanto meno dimostrato quanto più vediamo infinite volte che 

i fraintendimenti peggiori sorgono proprio tra uomini maggior- 

mente simili per disposizione naturale. 


Il presupposto logico del presunto condizionamento del com- 

prendere da parte dell’identità di essenza è che le qualità psichi- 

che presenti nell'altro debbano essere inferite soltanto in base a 

certi simboli e indizi esterni. Anche questo è a prima vista 

plausibile. Quando il bambino ha un dolore, sente se stesso gri- 

dare; in base a questo, e soltanto in base a questo, può inferire che 

un altro, che egli sente gridare, prova dolore come lui, e così 

via. Contro la generalizzazione di questa ipotesi voglio addurre 

però una sola obiezione, puramente empirica. Una delle perce- 

zioni che ci rivelano nel modo più univoco e impressionante la 

costituzione psichica di un altro è Io sguardo del suo occhio; 

ma proprio per questo ci manca ogni analogia tratta dalla 

percezione di noi stessi. Chi non è attore e non ha studiato 

davanti allo specchio l’espressione degli occhi — di collera e di 

tenerezza, di languore e di estasi, di spavento e di desiderio 

— non ha quasi mai occasione di osservarla in se stesso. Qui 

non può quindi sussistere nessuna associazione tra la propria 

esperienza interna e la propria percezione esterna, tale che 

l'inferenza dalla percezione esterna di un altro all’interpretazio- 

ne dell’interiorità altrui possa configurarsi come un richiamo a 

tale associazione. Quest’unico fatto mi sembra costituire una 

prova sufficiente che la propria esperienza interna-esterna non 

può fornire la chiave per penetrare l’esperienza esterna-interna 

di altri. Di un'esperienza del genere c’è però bisogno se non 

altro per l’infelice separazione dell’uomo in corpo e anima, la 

quale riserva al corpo di per sé preso una percezione concreta 

che si presuppone soltanto fisico-esteriore, mentre per la consta- 

tazione dell'elemento psichico ha bisogno di quella trasposizio- 

ne — mediata da rapporti di associazione — dell’esperienza 

soggettiva interna negli altri, cioè di un atto che è tanto compli- 

cato (anzi mistico) quanto insufficiente per la funzione che 

da esso si pretende. Piuttosto, io sono convinto che noi percepia- 

mo l'uomo intero e che soltanto in virtù di un’astrazione succes- 

siva ne percepiamo la corporeità isolata — proprio come anche 

nel soggetto percipiente non è l’occhio anatomicamente isolato 

che vede, ma è l’uomo intero, la cui vita complessiva è come 



516 GEORG SIMMEL 



canalizzata dal singolo organo di senso. Questa percezione del- 

l'esistenza totale può essere oscura e frammentaria, suscettibile 

di perfezionamento mediante la riflessione e l’esperienza perso- 

nale e stimolata dai particolari, sfumata secondo il grado di 

capacità e finora non localizzabile in un organo determinato — 

essa è il modo fondamentalmente unitario in cui l’uomo agisce 

sull’uomo, è l'impressione complessiva non ben analizzabile in- 

tellettualmente, la conoscenza prima e per lo più decisiva de- 

gli altri, anche se ancora aperta a molti completamenti. E come 

la comprensione storica in generale è soltanto un modo del 

comprendere identico nel tempo, e del tutto attuale, così la 

creazione o il discorso, l’azione o l'influenza a noi tramandati 

dall'uomo del passato lo contengono realmente, in linea di 

principio, e lo presentano alla nostra — altrettanto indivisa — 

facoltà recettiva; ogni elemento particolare che l’uomo offre è 

una pars pro toto. Certamente nella realtà storica gli stimoli 

sono più scarsi, la via per ottenere l’immagine compiuta è più 

lunga e tortuosa, il risultato è più incompleto e problematico. 

In definitiva, però, nella misura in cui viene raggiunta, l’imma- 

gine della personalità storica e del suo comportamento sta di- 

nanzi a noi come quella di un uomo conosciuto di persona, 

accessibile e còlto nelle sue determinazioni particolari e nel loro 

legame causale, senza essere in alcun modo un calco delle 

nostre proprie qualità o delle nostre esperienze vissute. E se, 

anche soltanto per giungere alla sua constatazione, vi fosse 

bisogno di una trasposizione dei fatti psichici dalla loro sede 

propria, non per questo sarebbe in alcun modo data la com- 

prensione di questi fatti. Quanto sovente ci troviamo infat- 

ti del tutto incapaci di comprendere di fronte al nostro pro- 

prio passato, quanto sovente l’uomo maturo non capisce più 

azioni e sentimenti della sua gioventù, quanto di appena senti- 

to e voluto dobbiamo accettare come fatto muto della nostra 

esistenza senza comprendere come abbia potuto sorgere dalle 

sue condizioni e dal nostro carattere, anzi senza comprendere 

che cosa significa nel suo senso autentico! Qui l'oggetto della 

volontà di comprensione è certamente dato nella propria espe- 

rienza, e niente può dimostrare in modo più decisivo che la 

presunta trasposizione della propria esperienza interna non rap- 

presenta la via alla comprensione della personalità storica. Può 



GEORG SIMMEL 517 



darsi che si colga soltanto lo spirito al quale in qualche modo 

si somiglia: può darsi che le azioni di un essere vivente su 

Sirio ci risultino magari intelligibili — ma per il fatto di 

assomigliare in modo essenziale a uno spirito, non lo si coglie 

ancora. 


Al modo di pensare greco con il suo solido sostanzialismo, 

con la sua aderenza alla sicurezza plastica della forma e la sua 

immediata forza di convinzione, corrispondeva il principio che 

si può conoscere soltanto «il simile con il simile ». Ciò appare 

però un dogma ingenuamente meccanicistico — come se la rap- 

presentazione del comprendere e il suo oggetto fossero due 

grandezze da far coincidere, mentre in questo modo si fa 

straordinariamente violenza ai fatti. Nessuno potrà infatti nega- 

re di saper cogliere in altri dei sentimenti che non ha provato 

egli stesso, di comprendere nodi del destino interiore che non 

ha mai vissuto, di rappresentarsi impulsi della volontà che sia- 

no completamente estranei alla sua volontà. Non si può mette- 

re in disparte questa difficoltà, a cui va incontro la concezione 

della propria esperienza come presunta condizione del compren- 

dere, concedendo che naturalmente il processo psichico vissuto 

in sé non coincide precisamente con quello vissuto da un altro, 

e che si devono apportare in esso alcune trasformazioni, diversi- 

tà di tono, certi mutamenti quantitativi e qualitativi. Infatti, 

se si concepisce la differenza tra i due processi come una diffe- 

renza poco importante o solo formale, essa non risulta più 

facile da superare; e dove starebbe poi il criterio che consente 

di giudicarla oggettivamente più grande o più piccola? Il prin- 

cipio per cui noi comprendiamo negli altri solo ciò che abbia- 

mo esperito in noi stessi può solamente valere o non valere; 

ed esso viene infranto dal più insignificante contenuto psichi- 

co, che sappiamo presente nell'anima altrui senza che si sia 

presentato nella nostra, così come dal più esteso. Ciò che trasci- 

na in queste difficoltà l’intera teoria è il realismo, che pretende 

di assumere nel conoscere le cose « come esse sono realmente ». 

La propria esperienza vissuta è — in base al suo stesso concet- 

to — realtà immediata, e solamente quando l’esperienza vissuta 

dell’altra anima può essere rappresentata in identità con essa 

questo ingenuo modo di pensare crede di essere certo — in 

virtù dell'identità dei fenomeni esterni — anche del processo 



518 GEORG SIMMEL 



veramente avvenuto nell’altro. Dal fatto che posso certo rappre- 

sentare l’esperienza vissuta altrui si inferisce, del tutto erronea- 

mente, che io devo rappresentarmela come rappresento la mia 

— nello stesso modo in cui i teorici dell'etica dell’egoismo 

inferiscono, in base al fatto che sono il soggetto della mia 

volontà, che devo esserne anche l'oggetto; e si giunge a questa 

conclusione perché soltanto la propria esperienza vissuta si pre- 

senta come realtà piena, mentre non si può essere certi di 

quella altrui, se non in virtù di una possibile trasposizione da 

quella a questa o considerandola come questa. Anche nella 

teoria della « penetrazione simpatetica » dei miei processi inte- 

riori negli altri dovrei sapere in anticipo quale parte delle mie 

esperienze vissute devo delegare a tale missione; ma così viene 

già presupposta l’intuizione del processo esterno che dovevo 

invece ottenere per questa via. 


Ritengo piuttosto che l’incorporazione della propria anima 

nell’altro, per percepirlo come animato, costituisca una trasposi- 

zione — del tutto indimostrata — da esperienze di altra specie 

a questo fenomeno non comparabile; ritengo cioè che il tu sia 

piuttosto un fenomeno originario allo stesso titolo dell’io, e 

che la teoria della proiezione valga per il tu tanto poco quan- 

to vale per le cose date nello spazio. Le cose non sono com- 

piute una volta per tutte nella nostra testa, e poi proiettate 

con un procedimento misterioso in un spazio pronto a riceverle 

— come si trasloca con i propri mobili in un appartamento 

vuoto; riconoscere questo spazio costituirebbe pur sempre un 

problema non minore del riconoscere in anticipo tale oggetto 

come oggetto spaziale. Piuttosto, se per una volta poniamo la 

questione partendo dal soggetto, la spazialità dell’oggetto è un 

modo o forma originaria dell’intuire. In questo caso, intuire 

non significa altro che intuire spazialmente e la duplicazione 

della cosa — come se essa fosse dapprima in noi e poi fuori di 

noi — è del tutto superflua. Così l’anima non è dapprima 

qualcosa che sappiamo presente in noi e che poi proiettiamo in 

un corpo appropriato a tale scopo, in modo da pervenire a un 

tu soltanto attraverso questo strano processo; in noi sorgono 

piuttosto — anche qui ci atteniamo al punto di vista dell’ideali- 

smo — certe rappresentazioni che fin dall’inizio costituiscono 

un tu e vengono percepite come suoi contenuti psichici. L’e- 



GEORG SIMMEL 519 



spressione linguistica in base a cui si colloca l’essere animato 

dell’uomo «dietro » il suo aspetto visibile e palpabile, questa 

simbolizzazione spaziale del tutto superficiale, contribuisce mol- 

to a separare gnoseologicamente tale essere animato, inteso co- 

me l’aldilà misteriosamente inattingibile, dall’« esterno » che è 

invece immediatamente accessibile. Soltanto se abbiamo prima 

scisso il fenomeno dell’altro uomo in un’anima e in un corpo, 

dobbiamo allora costruire un ponte tra di essi, per ricucire 

l’unità che era invece data fin dall’inizio: noi abbandoniamo il 

corpo esclusivamente alla sensibilità ottica, e altrettanto esclusi- 

vamente consegnamo l’anima alla nostra anima, lasciando poi 

trasmigrare quest’anima in quel corpo mediante un processo di 

introduzione, di trasposizione, di proiezione o comunque si 

voglia chiamare quest’atto mai dimostrabile. Ma tale scomposi- 

zione è l’atto di violenza di un pensiero atomizzante. 

Certamente, anche la prassi quotidiana, al pari della forma- 

zione dell’immagine storica, sembra legalizzare — partendo da 

un materiale sempre accidentale e lacunoso, spesso soltanto su- 

perficialissimo — questa scomponibilità e la distanza, che il 

pensiero deve quindi superare, tra esterno e psichico. Ma tale 

separazione, prodotta dalla precarietà e dalla discontinuità ma- 

teriale della vita, ha tuttavia come punto di partenza e come 

punto di arrivo il fondamentale fatto unitario che si può chia- 

mare il tu — l’altro immediatamente compreso come animato. 

Anche quando la considerazione del sintomo più esterno condu- 

ce per la via più lunga e tormentosa alla sua comprensione 

psichica, questa categoria sta a base di essa, e si trova di 

nuovo, pienamente realizzata, al termine della via. La catego- 

ria del tu — che è decisiva per la costruzione del mondo 

pratico e del mondo storico, quasi come quelle di sostanza o di 

causalità lo sono per il mondo della scienza naturale — non 

può essere paragonata a nessun'altra. Non posso designare il 

tu come mia rappresentazione nel medesimo senso in cui desi- 

gno ogni altro oggetto: debbo attribuirgli un essere per sé, 

così come lo percepisco, distinto da tutti gli altri oggetti, soltan- 

to nel mio proprio io. Perciò si spiega il fatto che noi percepia- 

mo l’altro uomo, il tu, al tempo stesso come l'immagine più 

distante e impenetrabile e come quella più prossima e familia- 

re. Il tu animato è da una parte l’unico nostro pari nel cosmo, 



520 GEORG SIMMEL 



l’unico essere con cui possiamo comprenderci reciprocamente e 

sentirci come «uno» come con nient'altro, cosicché collochia- 

mo nella categoria del tu ciò che per altri versi è natura, dove 

riteniamo di sentirci in unità con essa: così Francesco poteva 

parlare agli animali e agli esseri inanimati come a fratelli. D'al- 

tra parte, però, il tu possiede una propria autonomia e sovrani 

tà accanto a noi che nient'altro possiede, una resistenza contro 

la dissoluzione nel processo di rappresentazione soggettivo del- 

l’io, quell’assolutezza della realtà che l'io sente in se stesso. 


Il tu e il comprendere sono la stessa cosa, espressa una volta 

come sostanza e una volta come funzione — un fenomeno 

originario dello spirito umano come il vedere e l’udire, il pensa- 

re e il sentire, oppure come l’oggettività in generale, come lo 

spazio e il tempo, come l’io; è il fondamento trascendentale 

del fatto che l’uomo sia uno %éov roArrwxév. Certamente, si 

tratta di un grado successivo del nostro sviluppo; certamente, 

di rado esso possiede la medesima univocità del suo contenuto; 

certamente, esso compare soltanto sulla base di condizioni psico- 

logiche più complicate. Ma anche gli atti della coscienza che si 

presentano come primari sono condizionati da ciò che è trascor- 

so; anch'essi hanno bisogno di uno sviluppo. Qui c’è soltanto 

una differenza di grado: è perciò erronea l’opinione che tali 

fenomeni psichici non possano essere in sé nulla di semplice e 

di primario per il fatto che compaiono soltanto tardi, incomple- 

ti e in situazioni variamente condizionate. Che l'insufficienza 

delle condizioni in cui si leva l’immagine o la comprensione le 

mantenga incomplete, non prova affatto che esse vengano pro- 

dotte per associazione mettendo semplicemente insieme quelle 

condizioni. Le differenze all’interno di questo fenomeno origi- 

nario sono innegabili, soprattutto tra la comprensione di un 

avvenimento attuale o di una persona convivente e la compren- 

sione di oggetti divenuti storici. Che i dati siano qui di solito 

numericamente più scarsi e accidentali, che siano affidati alla 

mediazione intellettuale piuttosto che all’immediatezza sensibi- 

le, che nessuna atmosfera temporale comune unisca il soggetto 

comprendente e il suo oggetto — tutto ciò può, nel caso partico- 

lare, escludere in parte o del tutto la comprensione, ma sotto 

questo rispetto non esiste una differenza necessaria di principio 

tra il presente e il passato. Certamente, noi possiamo avere 



GEORG SIMMEL S2I 



un'esperienza vissuta soltanto di ciò che è presente; ma anche 

nei confronti di questo possiamo avere il rapporto di compren- 

sione storica, che ognuno ha verso il proprio passato. Per lo 

sguardo che scruta le distanze storiche l’avvenimento esterno e 

l'avvenimento psichico sono spesso molto più separati l’uno dal- 

l’altro di quanto non siano per l’intuizione immediata, ed esso 

ha più sovente bisogno di compiere inferenze dall’uno all’altro; 

ma tutte queste sono soltanto strade di accesso allungate, le 

quali in definitiva conducono a quel comprendere che assume 

unità attraverso l’unità; oppure costituiscono le sue frammenta- 

rie realizzazioni. Per questo comprendere, che spesso viene scis- 

so nelle sue condizioni a causa di insufficienze pratiche e acci- 

dentali, e perciò appare all’analisi intellettuale come un’inter- 

pretazione di sintomi esterni autonomi sulla base di un elemen- 

to psichico che sta dietro di essi, è adeguato il concetto di 

intuizione, che pure di per sé è poco attraente. Ma ciò che 

suscita sospetto, l'elemento mistico abusivamente presente in 

esso, scompare proprio se noi abbiamo chiaro il fatto che l’ap- 

plicazione dell’intuizione al comprendere storico è circondata 

dall’uso, del tutto inevitabile, che se ne fa in ogni momento del- 

la vita pratica. 


Una struttura più complicata mostra il secondo tipo di com- 

prendere, con cui un atto già conosciuto come psichico dev’esse- 

re compreso mediante un altro atto appartenente alla stessa 

sfera psichica. Se di un legittimista dello Hannover degli anni 

successivi al 1866 sentiamo dire che ha odiato Bismarck, noi 

comprendiamo anzitutto questo sentimento in modo immedia- 

to, così com’esso è. L’odio è un affetto a noi immediatamente 

noto. Noi conosciamo interiormente il significato soggettivo — 

che non richiede un’ulteriore analisi — di questo affetto, poco 

importa in quali circostanze e attraverso quale portatore esso 

ci viene incontro. Questa comprensione di un contenuto psichi- 

co particolare è trans-storica e, per così dire, oggettiva: infatti 

si tratta sempre del medesimo processo psicologico fondamenta- 

le, sia che lo applichi a Brunilde contro Crimilde', allo hanno- 

veriano contro Bismarck, all’inquilino contro il padrone di casa 

che lo angaria. La duplicità di elementi che ogni comprendere 



I. Noti personaggi femminili della leggenda dei Nibelunghi. 



522 GEORG SIMMEL 



presuppone consiste, in questa comprensione immediata dell’ele- 

mento psichico, nel fatto che un caso individuale viene compre- 

so in virtù di un contenuto generale preesistente nel soggetto. 

Però comprendo storicamente l’odio dello hannoveriano se co- 

nosco la guerra del ’66 e l'annessione prussiana, ossia se lo 

riconosco in generale come elemento di una connessione tempo- 

rale complessiva. Ma, a questo punto, ogni momento di tali 

connessioni dev'essere di nuovo compreso, a sua volta, in quel 

primo senso. Come comprendo l’odio, devo ora comprendere 

che cos’è l'attaccamento a una casa regnante o il valore attribui- 

to all'indipendenza politica. Mentre quel primo comprendere 

sembrava riguardare un contenuto atemporale o sovra-indivi- 

duale e l’altro la connessione reale di un divenire molto artico- 

lato, di fatto anche quest’ultimo si scinde in una successione di 

singoli punti di comprensione, ognuno dei quali dev'essere di 

nuovo compreso in modo sopra-storico e psicologico. Pertanto 

il comprendere storico in quanto tale viene alla luce in modo 

manifesto quando questi momenti discontinui, e compresi per 

così dire atemporalmente in modo discontinuo, vengono riempi- 

ti da parte dell’osservatore di una corrente vitale continua che 

li lega insieme, che apre la porta di uno agli altri, che permette 

di sentirli come pulsazioni del corso temporale della vita. Il 

comprendere isolato di prima si mostra ora fondato su una 

certa astrazione, in quanto dalla vita che sale e si abbassa 

senza posa esso trae fuori la cresta di un’onda come un ogget- 

to circoscritto del comprendere, mentre nella realtà questa è 

legata in modo continuo con la precedente e con la successiva, 

con tutte le onde della medesima vita. L'istituzione di questa 

connessione continua è ciò che imprime alla tradizione di quan- 

to è meramente accaduto la forma della storia. Stabilire che 

un determinato avvenimento ha avuto luogo in un certo anno 

non lo trasformerebbe ancora in un avvenimento storico, se 

l’anno si collocasse isolatamente in uno schema temporale per 

altri versi vuoto. Infatti sarebbe ancor sempre possibile com- 

‘prendere l'avvenimento in base al suo significato interno, alla 

sua specificità indipendente dal tempo. Certo questo deve avve- 

nire in ogni caso; con ciò è però soltanto dato il materiale in 

cui il divenire della storia si compie come una formazione 

determinata. La storia non è il passato che ci è dato immediata- 



GEORG SIMMEL 523 



mente €, più precisamente, in veste di frammenti sempre di- 

scontinui, ma è invece una determinata forma o somma di 

forme con cui lo spirito sintetico che osserva penetra e domina 

il materiale accertato in precedenza, ossia la tradizione di ciò 

che è accaduto. Per il fatto che comprendo una serie come 

storica non si aggiunge ad essa niente di nuovo per quanto 

riguarda il suo contenuto; si è soltanto conseguita o istituita 

una specie di connessione funzionale da parte dell’intuizione 

interna. Come la considerazione storica in genere sottrae il 

particolare contenuto di realtà alla rappresentazione limitata a 

quest’ultimo e lo colloca — come elemento prodotto e produtti- 

vo — in connessioni senza fine, così procede ora anche la 

funzione del comprendere quando coglie come storiche le real- 

tà psichiche date. Questi dati devono anzitutto venir compresi 

di per sé come unità psichiche in qualche modo chiuse: senza 

tale presupposto non possono essere storicizzate. Esse però lo 

diventano soltanto se si fluidificano in qualche misura, se si 

mostrano come le formazioni particolari, di volta in volta deter- 

minate, di una dinamica della vita che le collega tutte tra 

loro. È quindi’ possibile determinare con maggiore profondità e 

precisione il concetto della comprensione storica di una qualsia- 

si realtà psichica particolare dicendo che esso significa la com- 

prensione di questo elemento singolo in base alla totalità viven- 

te del suo portatore. 


È un errore assai diffuso ritenere che la successione di certi 

dati psichici, ognuno dei quali presenta soltanto il suo contenu- 

to circoscritto, concettualmente determinabile, fornisca anche la 

comprensione del dato successivo. Ciò corrisponde al principio 

atomistico e meccanicistico che fa coagulare la vita psichica, in- 

torno ai suoi contenuti esprimibili logicamente, in singole « rap- 

presentazioni », e che vorrebbe coglierla come la somma dei mo- 

vimenti delle parti così separate l’una dall'altra. In tal modo la 

comprensione dovrebbe procedere immediatamente — di conte- 

nuto in contenuto — sulla base di quella che si potrebbe chia- 

mare la logica della psicologia, ma che in realtà è soltanto una 

mescolanza indistinta di logica e di psicologia. Ma in questo 

modo viene meno la connessione dinamica, la compenetrazio- 

ne, l’unificazione del molteplice, e quindi proprio la compren- 

sione di un elemento mediante l’altro. Quest'ultima esige infat- 



524 GEORG SIMMEL 



ti la visione interiore di un movimento continuo della vita, le 

cui tappe sono soltanto quei momenti particolari indicabili in 

base al contenuto. Soltanto se in ognuno di essi si percepisce 

l’uomo intero, che non è una sostanza rigida ma uno sviluppo 

vivente, noi comprendiamo il momento successivo, poiché la 

direzione della corrente che conduce fino ad esso è indicata da 

quello precedente. Però, come si è già detto, questo sviluppo 

non è comprensibile come un saltare di contenuto in contenuto, 

ma soltanto in virtù del processo di attualizzazione della vita 

che rende ora intelligibili come proprie fulgurazioni quei conte- 

nuti particolari suscettibili di essere denominati — sia che que- 

sta vita sia attuale o trascorsa. Ciò può estendersi, senza alcun 

mutamento di principio, al di là dell’individuo, poiché nella 

medesima corrente della vita, che produce onde su onde, noi 

scorgiamo una moltitudine di individui. Il fenomeno originario 

del comprendere si realizza allora in quella successione — che 

si estende in modo del tutto sovra-individuale — della vita che 

continuamente spinge contro tale singolarità. 


Sono qui dunque presenti due modi di comprendere, sulla 

cui distinzione e sul cui intreccio si esige tanta maggior chiarez- 

za quanto più lo storicismo ha commesso, con la sua superficiale 

concezione, i peggiori fraintendimenti. Quando comprendo la 

poesia Warum gabst du uns die tiefen Blicke® nel suo contenu- 

to e nel suo significato poetico, ciò avviene in modo del tutto 

astorico. Quando però comprendo il contenuto e il tono della 

poesia in base al rapporto di Goethe con la signora von Stein, 

e comprendo che essa designa — nello sviluppo di questo rap- 

porto — un'epoca ben determinata, tale comprensione è ora 

comprensione storica. Ciò può essere illustrato in modo partico- 

larmente chiaro nella storia dell’arte. Con l’ultima pennellata 

del pittore al proprio dipinto, il suo significato si pone al di là 

della storia. Ma il dipinto può a sua volta diventare un fattore 

storico in virtù dei suoi destini esteriori, in virtù del mutamen- 

‘to di interpretazione e di valutazione, in virtù della sua influen- 

za sull'arte posteriore. Ma quell’altro significato — vale a dire 

le leggi della sua formazione e del suo complesso cromatico, il 



2. È il verso iniziale di una poesia di Gocthe della primavera del 1776, dedi- 

cata all'amico Charlotte von Stein. 



GEORG SIMMEL 525 



rapporto del suo oggetto con il suo stile particolare, la passiona- 

lità o la calma dell’esecuzione, l’accentuazione del disegno o 

dell'elemento specificamente pittorico, in breve la specificità del 

suo essere — non ne viene toccato; esso ha consumato in sé i 

movimenti del suo divenire e, inteso in quelle determinazioni 

puramente immanenti, è diventato indifferente nei loro con- 

fronti. 


La linca di demarcazione così tracciata tra comprensione 

oggettiva e comprensione storica di un elemento spirituale ha 

il suo punto di appoggio in una problematica assai profonda 

del nostro conoscere relativamente alla sua sicurezza e univoci- 

tà. Una creazione dello spirito che dev'essere compresa deve 

venir paragonata a un enigma che il suo creatore ha costruito 

su una determinata parola risolutiva. Se chi indovina trova ora 

un’altra parola altrettanto adeguata, con cui l’enigma — preso 

in senso oggettivo — perviene al medesimo risultato logico e 

poetico, questa costituisce una soluzione completamente « cor- 

retta » al pari di quella che si era proposta il poeta, e che non 

ha così il minimo vantaggio rispetto alla prima o rispetto a 

tutte le altre parole risolutive che si possono ancora escogitare 

— e, in linea di principio, in numero illimitato. Se un processo 

creativo è riuscito a trovare la forma dello spirito oggettivato, 

tutti i più diversi tipi di comprensione sono parimenti giustifi- 

cati nella misura in cui ognuno di essi è in sé conclusivo, 

esatto, oggettivamente soddisfacente. Non hanno alcun bisogno 

di riandare alla realtà psichica individuale di quel processo 

creativo, assumendolo a criterio di questa coscienza. La com- 

prensione immanente di un’opera d’arte, per esempio, è infini- 

tamente variabile così come lo sono i sentimenti che essa su- 

scita e che non sono affatto vincolati a quelli che il creatore vi 

ha investito: i complessi affettivi e valutativi dell’uomo moder- 

no dinanzi al duomo di Strasburgo o alla sonata Chiaro di 

luna, i supporti profondi della sua comprensione non possono 

essere ritenuti infondati o falsi soltanto perché non coincidono 

con quelli di Erwin von Steinbach* o di Beethoven. E ciò vale 

non solo per domini ideali secondo il loro contenuto. Il tecni- 



3. Architetto della seconda metà del secolo XII, ebbe gran parte nella costru- 

zione della facciata del duomo di Strasburgo. 



526 GEORG SIMMEL 



co empirico può inventare un dispositivo meccanico che gli 

risulta pienamente intelligibile in base al rapporto tra i conge- 

gni da lui combinati e l’effetto che si propone; un ricercatore 

più profondo, riandando alle leggi generali di natura che agi- 

scono in quei congegni, può scoprire che lo stesso apparecchio 

può venir impiegato per scopi a cui l'inventore non ha pensato. 

Soltanto se si fossero esaurite senza residui le possibilità in essa 

racchiuse, l’invenzione sarebbe realmente compresa così com'è, 

cioè sarebbero realizzate le possibilità di comprensione virtual- 

mente presenti nella sua oggettività. Non diversamente stanno 

le cose con le costituzioni politiche o con singole leggi. Ciò 

che esse propriamente significano dal punto di vista logico o 

pratico, i loro creatori lo sanno spesso in modo assai incomple- 

to, o non lo sanno affatto; altre personalità, la casistica, lo 

sviluppo reale mostrano sovente gli effetti in esse riposti, che 

non si possono però definire come errori o storture per il fatto 

che la genesi soggettiva non li conteneva. Ovunque tra creatore 

e opera c’è questo rapporto, in qualche modo inquietante: l’o- 

pera pervenuta alla sua autonomia contiene qualcos'altro (in 

più o in meno, qualcosa che è dotato di maggiore o minor 

valore) rispetto all’intenzione del creatore. In questo senso il 

processo di creazione è sempre soltanto un'espressione 4 potio- 

ri; ciò che il creatore ha voluto e, più esattamente, ha potuto 

è sempre soltanto un elemento di ciò che è stato effettivamente 

creato, e solo cogliendo le sterminate possibilità in cui esso si 

dispiega, al di là di questo elemento, il suo contenuto oggettivo 

sarebbe realmente compreso. In tutto ciò che creiamo esiste, 

oltre a quello che z0i creiamo realmente, ancora un significa- 

to, una legalità, una fecondità che oltrepassano la nostra forza 

e la nostra intenzione. Tuttavia noi abbiamo senza dubbio crea- 

to il tutto, e non si tratta affatto di elementi raccolti che 

dispiegavano la loro peculiarità e le loro potenzialità entro la 

nostra creazione; il problema consiste proprio nel senso e nella 

capacità della nostra creazione, i quali diventano incondiziona- 

tamente possibili e reali solo con il fatto di essere stati crea- 

ti da noi. Da questo sentimento nascono le rappresentazioni 

che sempre ricorrono con una certa tonalità mistica — come se 

tutto ciò che creiamo fosse già idealmente preformato e noi 

fossimo in certa misura soltanto le levatrici che aiutano un 



GEORG SIMMEL 527 



ente metafisico a nascere nella realtà. Inteso come un dato di 

fatto interno, ciò spiegherebbe in ogni caso come mai quello 

che apparentemente è creato solo da un soggetto possiede signi- 

ficati innumerevoli di ogni specie, i quali oltrepassano tutte le 

intenzioni creative e le forze di questo soggetto; come mai, 

quindi, anche la comprensione spirituale di una creazione del 

genere non costituisca, in linea di principio, un problema con 

un’unica soluzione possibile. 


Con ciò quell’antitesi tra i due significati del comprendere 

si sviluppa ulteriormente. In base a quanto si è detto finora, 

nel comprendere dal punto di vista teorico ed estetico il Faust, 

per esempio, si prescinde del tutto dalla sua origine psichica. 

Se i diversi tipi del comprendere soddisfano in eguale misura le 

esigenze di connessione logica e artistica, di esplicazione unita- 

ria delle oscurità, di sviluppo reciproco delle parti, allora sono 

tutti corretti in eguale misura. Se devo invece comprendere il 

Faust storicamente e psicologicamente, cioè comprendere tale 

formazione sulla base degli atti e degli sviluppi psichici che si 

sono determinati, momento per momento, nella coscienza di 

Goethe, è esclusa in linea di principio una corrispondente plura- 

lità di significati: questo processo di creazione si è infatti 

rispecchiato in un determinato modo che la nostra conoscenza 

può cogliere o non cogliere, ma che essa non può rappresenta- 

re in diversi modi tra loro equivalenti. Una pluralità di forme 

storiche di comprensione dell’origine del Faust, create dal pro- 

cesso psichico, che siano tutte parimenti corrette — nello stesso 

modo in cui può esserlo una pluralità di forme di comprensio- 

ne oggettiva — è un’assurdità. Anche a proposito della com- 

prensione storica può esserci, naturalmente, una pluralità di 

ipotesi; di esse, però, una è vera e l’altra è falsa — alternati 

va di fronte a cui non si trova la comprensione in base al 

contenuto oggettivo, la quale la sostituisce piuttosto con altri 

criteri di valore. Nei confronti di uno stesso contenuto oggetti- 

vo si può così soddisfare in modo compiuto l'esigenza di com- 

prenderlo storicamente; ma non si può invece mai soddisfare in 

maniera compiuta l’altra esigenza di comprenderlo oggettiva- 

mente, in base a tutti i significati che racchiude in sé. In ciò 

consiste il profondo paradosso che, dove il comprendere storico 

è comprendere psichico, esso non può mai pervenire a una 



528 GEORG SIMMEL 



completa univocità, non può mai decidere in assoluto tra una 

pluralità, anzi tra una contrapposizione di princìpi esplicativi. 

La ricchezza e la mobilità delle connessioni psichiche sono così 

grandi che nessuna «legge psicologica » è in grado di determi- 

nare in modo vincolante gli sviluppi successivi di una determi- 

nata costellazione psichica; spesso tale sviluppo, procedendo 

per una certa direzione, ci appare altrettanto plausibile di quel- 

lo che procede in direzione precisamente opposta. Che il beneft- 

cio ricevuto produca riconoscenza, lo comprendiamo tanto quan- 

to il fatto che esso lasci dietro di sé umiliazione e risen- 

timento; che l’amore dichiarato risvegli un amore corrisponden- 

te, lo riteniamo altrettanto comprensibile del fatto che provo- 

chi assenza di attrazione e indifferenza, e via dicendo. Quando 

serie genetiche vengono alla luce mediante un’interpolazione 

psicologica — cosa che accade sempre, più o meno consapevol- 

mente — non si tratta di una necessità accertata, quale la 

richiede, in modo univoco, la comprensione scientifica. In ogni 

caso, l'ipotesi di una data via psicologica è quella corretta secon- 

do la realtà; qualunque altra è erronea — poco importa se poi 

questa correttezza o questa erroneità può essere da noi stabilita 

incondizionatamente. In tal modo viene stabilita la differenza 

fondamentale della comprensione storica rispetto alla compren- 

sione del contenuto oggettivo in quanto tale. 


Lo storicismo radicale vuol esaurire l’intera problematica di 

una formazione così creata tracciando le condizioni e i gradi 

del suo sorgere nel tempo. Le qualità oggettive dell’essere, 

sottratte alla temporalità, si risolvono — come compiti conosciti- 

vi — nel loro divenire; adesso la questione riguarda le premes- 

se e i momenti preparatori, gli sviluppi e le condizioni favore- 

voli o gli impedimenti che hanno suscitato tale formazione, e 

una comprensione sufficiente del contenuto oggettivo dev'essere 

identica alla risposta a questo problema. 


S’intende che sostituire la comprensione di un oggetto nella 

sua atemporalità con la comprensione del modo in cui si è 

pervenuti all’oggetto reale nel tempo non ha più senso che 

equiparare la vista dalla vetta di un monte col percorrere la 

via che ha condotto passo passo il viandante fino a questa 

vetta: ciò vorrebbe dire infatti tagliar via arbitrariamente tutta 

una dimensione del problema del comprendere. Ma il proble- 



GEORG SIMMEL 529 



ma apparentemente eliminato ha la sua legittimità non sol- 

tanto al di fuori della realtà storica, ma anche proprio all’inter- 

no di essa. La comprensione in apparenza puramente storica fa 

infatti continuo uso della comprensione oggettiva sopra-storica, 

senza però rendersene conto metodologicamente. Non capirem- 

mo mai la natura della cosa in base al suo sviluppo storico se 

non la comprendessimo in qualche modo in se stessa; altrimen- 

ti quell’impresa sarebbe chiaramente del tutto priva di senso. 

Con ciò si apre un terzo tipo di processi di comprensione, la 

cui fondamentale duplicità di elementi non è quella tra esterno 

e interno, né quella tra fisico e psichico, bensì la duplicità tra 

contenuto psichico e contenuto atemporale. Tra questi si presen- 

tano ora nessi di reciprocità assai singolari, dal momento che 

la comprensione oggettiva trans-storica non riguarda soltanto i 

contenuti particolari, che pervenivano a un contatto reciproco e 

a un ordinamento unitario solo in quanto erano assunti nella 

corrente dello sviluppo storico. Quei contenuti mostrano però 

già nel loro stato ideale delle relazioni e delle disposizioni, e 

costituiscono per così dire simboli atemporali della loro realizza- 

zione psichica temporale — sempre in una dipendenza recipro- 

ca fondata nel profondo. Se uno storico della filosofia afferma 

che comprendere Kant significa spiegarlo storicamente, le dot- 

trine pre-kantiane gli appariranno come gradini che conducono 

in direzione della dottrina kantiana, stabilendo quindi in modo 

intelligibile il suo contenuto e il suo momento temporale. Ma ciò 

non avrebbe successo se tutte queste dottrine — e qui sta il punto 

decisivo — non costituissero nel loro contenuto logico oggetti- 

vo, e senza riferimento alla loro comparsa storica, una serie 

intelligibile. Le cose non stanno diversamente che per qualsiasi 

inferenza realizzata sul piano psichico. Noi comprendiamo del 

tutto il movimento psichico che, aggiungendo alla convinzione 

che tutti gli uomini sono mortali, l’altra che Caio è un uomo, 

porta per così dire organicamente la coscienza fino al contenu- 

to: Caio è mortale. Tuttavia lo comprendiamo soltanto perché 

tutte queste idee erano valide nel loro contenuto oggettivo, e 

quindi sono del tutto atemporali e indifferenti rispetto al fatto 

che possiamo rappresentarle soltanto in una serie temporale. 

Noi percepiamo il carattere di verità — indipendente dalla 

nostra rappresentazione — della proposizione «tutti gli uomini 



34. STORICISMO TEDESCO. 



530 GEORG SIMMEL 



sono mortali», che non esiste prima o dopo il carattere di 

verità delle proposizioni « Caio è un uomo » e « Caio è morta- 

le »; tutte e tre le idee valgono in una coordinazione assoluta- 

mente atemporale: la morte di Caio non risulta quindi come 

conseguenza temporale dopo gli altri due fatti; l'ordine che in 

base alle prime due conduce a quest’ultima non costituisce una 

successione, come lo è il fatto di rappresentarla e di esprimer- 

la, ma è un ordine oggettivo puramente interno, che ha luogo 

in una ideale contemporaneità. Se esso non esistesse, non ricono- 

sceremmo neppure la direzione e la legittimità dello sviluppo 

psichico che essa realizza in una determinata successione. La 

stessa cosa avviene nel caso della comprensione storica di Kant. 

Il razionalismo, che declassa ogni esperienza sensibile e colloca 

la verità incondizionata soltanto nella ragione @ priori; il sensi- 

smo, che rifiuta quest’ultima e scorge soltanto nell’esperienza 

la fonte di una conoscenza valida; la soluzione kantiana secon- 

do cui soltanto l’esperienza ci dà una conoscenza oggettiva — 

come vuole l’empirismo — soltanto che essa è già formata da 

quei principi della ragione, e di conseguenza questi valgono 

incondizionatamente, ma solo per gli oggetti dell’esperienza e 

mai di per sé, al di là di essa — queste impostazioni hanno un 

ordine ideale, determinato soltanto dal loro senso oggettivo 

atemporale. Se non comprendessimo il senso di tale ordine 

soltanto di per sé, indipendentemente dalle sue realizzazioni 

psichiche in forma storica, non comprenderemmo mai neppure 

l'ordinamento temporale di queste ultime, che ci apparirebbero 

piuttosto come una semplice successione discontinua. La razio- 

nalità della loro successione, mediante la quale cogliamo la 

direzione della corrente della vita nei soggetti che la sorreggo- 

no e che la realizzano in sé, è possibile soltanto come rispecchia- 

mento temporale di quell’ordine puramente oggettivo. Accanto 

al principio che la comprensione di Kant è condizionata dalla 

sua spiegazione storica, si può porre l’altro principio che la 

spiegazione storica di Kant è condizionata dalla sua compren- 

sione. Se noi penetriamo attraverso gli avvenimenti l’unità di 

una corrente vitale e la vediamo determinata dai momenti 

precedenti e orientata verso i successivi, e se quindi — in altri 

termini — comprendiamo ogni momento successivo in base al 

precedente, tale processo acquista legittimità e impulso sol- 



GEORG SIMMEL 531 



tanto in base a quella comprensione oggettiva dei suoi contenu- 

ti, cioè in base al loro reciproco rapporto logico, non già al 

loro rapporto vitale e temporale. 


Qui si fa però valere un presupposto metodologico che mo- 

stra una connessione molto più stretta, e per così dire incondi- 

zionata, tra comprensione storica e comprensione oggettiva. 

Prenderò le mosse dall’esempio (non importa se effettivamente 

vero o da correggere) dello sviluppo del punto di vista kantia- 

no dal dogmatismo, attraverso lo scetticismo sensistico, fino al 

criticismo. Su quale base possiamo dire che uno di questi punti 

di vista o di questi concetti si «sviluppa» fino all’altro in 

modo intelligibile? Ognuno di essi esprime esattamente soltan- 

to il suo proprio contenuto, è totalmente concluso in sé, e dire 

che « procede oltre se stesso» è un'espressione simbolica che 

lascia impregiudicato ciò di cui si discute qui Ja possibilità: è 

un tentativo del tutto disperato voler spremere da questi concet- 

ti disposti l’uno accanto all’altro uno sviluppo che renda l’uno 

comprensibile in base alla comprensione dell’altro. Che tuttavia 

noi scorgiamo qui di fatto uno sviluppo del genere, ciò può 

avvenire soltanto perché poniamo a base di questa serie pura- 

mente oggettiva di punti di vista, e che nessuna vita individua- 

le concreta può abbracciare, un soggetto ideale — prodotto per 

così dire di finzione — la cui vivente continuità spirituale 

percorre questi stadi e li connette in modo tale da scioglierli 

dalla chiusura di un senso di volta in volta limitato a se stes- 

so e da trasformarli quindi in momenti di uno sviluppo. Que- 

sto è lo strumento applicato continuamente e senza particolare 

coscienza, lo strumento per così dire tecnico, con cui uno sta- 

dio ci diventa intelligibile sulla base dell’altro, che è ad esso 

collegato ora in un tempo quasi atemporale, mediante una vita 

atemporale. La stessa cosa avviene quando si concepiscono le 

opere di un periodo più lungo della storia dell’arte come uno 

sviluppo. Per esempio, i dipinti si dispongono l’uno dopo l’al- 

tro in modo discontinuo, e ognuno costituisce un’unità isolata 

— ognuno entro il proprio ambito in cui nessuno sa nulla 

dell’altro. Lo storico dell’arte costruisce tra di essi uno 

sviluppo graduale dalla rigidità alla mobilità, dalla povertà alla 

pienezza, dall’insicurezza al padroneggiamento sovrano dei mez- 

zi, dall’accidentalità della composizione a un equilibrio armo- 



532 GEORG SIMMEL 



nico che abbraccia ogni elemento in modo dotato di senso, e 

così via. Non si può quindi assolutamente dire che il creatore 

dell’opera collocata al punto più alto abbia percorso, nel suo 

sviluppo personale, tutti gli stadi precedenti. E non è neppure 

in questione questo, bensì la possibilità di costruire tale serie 

« evolutiva » in base a criteri oggettivi tratti dal complesso delle 

opere, come se ognuna di esse fosse caduta dal cielo. Ma pro- 

prio questa possibilità risiede in ciò che si potrebbe chiamare il 

soggetto metodologico, cioè in una formazione ideale che per- 

corre queste creazioni in un’evoluzione che si può cogliere psi- 

chicamente, nei suoi momenti preparatori, nel suo crescere e 

nel suo decadere, unificando l’ordine oggettivo della loro coesi- 

stenza in un processo vitale concepito come temporale, la cui 

continuità non si rinserra nell’ambito della singola opera. Anche 

l’uso linguistico sembra legittimare quest’interpretazione. Noi 

diciamo che l’arte, il diritto, la chimica si sviluppano. È però 

chiaro che l’arte, il diritto, la chimica ecc., in quanto tali, non 

sono realtà, ma formulazioni riassuntive di fenomeni particola- 

ri separati tra loro, anche se collegati da molteplici relazioni, 

sotto concetti astratti. Se l’arte, nel senso storico qui in questio- 

ne, consiste della somma delle opere d’arte, il termine « arte » 

non designa un'unità concreta e neppure, quand’anche essa lo 

fosse, un’unità vivente, in grado di sviluppar« si »; in tal caso 

dovrebbe essere « l’arte » a produrre i quadri, mentre sono gli 

artisti a farlo. Se però applichiamo quest’espressione, abbiamo 

creato l’ipostatizzazione di un concetto strumentale e un sogget- 

to del tutto nuovo, che ha quella capacità di auto-sviluppo 

riservata esclusivamente al vivente e le cui espressioni o tappe 

sono le singole opere d’arte. Questo soggetto viene percepito in 

uno sviluppo temporale, e ciò ancora per il fatto che i momenti 

di tale sviluppo posseggono quel rapporto di sviluppo sopra- 

temporale, puramente oggettivo. Noi ne abbiamo bisogno già 

per casi isolati: quando comprendiamo l’amore o l’odio in ge- 

nerale, senza rapporto con la realtà di un individuo, attribuia- 

mo loro per così dire un portatore ideale, una vita in generale 

che nel suo complesso risponde con essi a qualsiasi stimolo e 

che è, per così dire, versata in queste forme momentanee. 

Come concetti rigidamente conclusi, strappati dalla connessio- 



GEORG SIMMEL 533 



ne della vita, essi sarebbero per noi poco più che parole, e in 

ogni caso attendevano soltanto di essere compresi in modo ap- 

propriato. Ciò diventa ancora più chiaro laddove un avvenimen- 

to particolare media la comprensione di un altro avvenimento 

particolare. Il fatto che noi «comprendiamo» un sentimento 

di vendetta — poco importa se rappresentato storicamente o in 

astratto — in base a un'ingiustizia subìta in precedenza, non 

avviene in virtù di uno strettissimo accostamento tra i due 

processi, ma in quanto possiamo rappresentare un fluire unita- 

rio della vita, del quale costituiscono due onde legate dalla 

corrente stessa. 


Così risulta pure che il ritmo, la continua mobilità della 

vita è il sostegno formale della comprensione, anche in quelle 

connessioni logiche di contenuti oggettivi che, da parte loro, 

rendono intelligibile il concreto accadere vivente di questi 

contenuti oggettivi. Ma la vitalità specifica e operante di quel 

soggetto ideale è una trasformazione o un’oggettivazione di 

quella che noi rintracciamo in noi stessi — ma come vitalità 

sovra-individuale, di cui noi siamo per così dire solo un esem- 

pio. All’interno dell’accadere e dell’ondeggiare incessante perce- 

piamo tuttavia in noi, più o meno sicura, una finalità almeno 

formale, una realizzazione di disposizioni, un dispiegarsi di 

germi che noi abbiamo o, piuttosto, che noi siamo. Tale sensa- 

zione trova una manifestazione parziale o una concentrazione 

quando i contenuti psichici si ordinano in una serie, di cui 

ogni momento successivo ci diventa consapevole, rispetto al 

precedente, come arricchimento, come promessa mantenuta, co- 

me incremento ed estensione della nostra situazione. In 

quanto, dopo aver posto le premesse, pervengo alla conclusio- 

ne; in quanto percorro le teorie filosofiche del secolo xviI 

finché compare il criticismo; in quanto, considerando l’arte ita- 

liana, giungo dalla rigidità bizantina e dalla scarsa articolazio- 

ne delle figure del Trecento fino al rilassarsi individualizzante 

del Quattrocento e quindi all'unità armoniosamente raccolta del- 

la composizione del primo Rinascimento, sento il mio spirito 

— nella misura in cui vive in queste sue espressioni — ampliar- 

si gradualmente, sempre più attualizzato nelle sue forze intuiti- 

ve. Mentre vive in questa successione di contenuti e passa attra- 

verso di essi, lo spirito si sente non soltanto mosso, ma anche 



534 GEORG SIMMEL 



dotato dello specifico valore dello « sviluppo ». Così considera- 

to, questo è forse qualcosa di originario e di non ulteriormente 

risolvibile, e neppure dipendente da un fine posto in preceden- 

za, ma costituisce soltanto una ritmica imposta dallo stesso 

movimento spirituale, una particolare specie di crescita inter- 

na. Che poi io designi l'ordinamento storico o ideale delle cose 

come il loro sviluppo, non sarebbe chiaramente un arbitrio; 

anzi, esse devono, nel senso più preciso, questo tono valutativo 

al processo di auto-dispiegamento dello spirito, che le rivive 

nella loro successione non appena sono diventate suoi contenu- 

ti. Se si considerano quindi i contenuti svincolati dall’anima 

che se li rappresenta, sotto la categoria di un’oggettività espri- 

mibile concettualmente, allora essi formano una serie evolutiva 

oggettiva; essi sono attraversati dalla corrente del sentimento 

vivente di aspirazione e di sviluppo del soggetto rappresentan- 

te, dal quale però si è ora astratto, che ha lasciato loro soltanto 

la connessione interna e la costruzione mediante cui l'elemento 

successivo è condizionato dal precedente, e quindi risulta intelli- 

gibile proprio nella sua posizione. Se « comprendere » un conte- 

nuto particolare non è in linea di principio (secondo l’opinione 

che abbiamo qui esposto) nulla di diverso dalla sua comprensio- 

ne come manifestazione della totalità della vita — di modo che 

il «comprendere » ne è soltanto l’espressione abbreviata — ciò 

risulta ora valido, attraverso il soggetto ideale che ha esperien- 

za vissuta o il soggetto reale che'osserva, anche per quei conte- 

nuti che si offrono come puramente oggettivi o come realizzati 

da portatori diversi. 


Così si presenta dunque l’unione dei motivi storico-psichici 

e dei motivi oggettivi all’interno del fenomeno complessivo del 

comprendere. Noi comprendiamo lo sviluppo psichico reale di 

una serie, i cui elementi si fondano in una successione tempora- 

le, soltanto sulla base della relazione oggettiva, trans-vitale, 

dei suoi contenuti. Senza un incremento o una diminuzione 

visibile in questa relazione, senza la nozione del fatto che i 

contenuti oggettivi in quanto tali si richiamano a vicenda e che 

l'uno fonda o condiziona l’altro prescindendo dalla realizzazio- 

ne temporale, essi non possono neppure venir compresi come 

successione psichica, come successione temporale-reale. E d’al- 

tra parte questo ordinamento ideale in forma di sviluppo è tra 



GEORG SIMMEL 535 



di essi possibile in quanto ne viene percorsa la continuità del 

movimento psichico. Lo sviluppo oggettivo dei contenuti richie- 

de, come 4 priori che dà loro forma, quel progredire della 

coscienza, non ulteriormente definibile, che si annuncia come 

sentimento specifico: esso soltanto può allentare la chiusura 

senza ponti di ogni contenuto, e la trasporta in quella continui- 

tà che solo si può chiamare sviluppo. Così lo sviluppo psichico 

è condizionato ed è comprensibile in base a quello oggettivo, e 

questo è condizionato e comprensibile in base a quello. Ciò 

significa che entrambi sono soltanto i due aspetti, resi metodolo- 

gicamente autonomi, di un’unità: l’unità dell’accadere compre- 

so storicamente. E poiché il comprendere è un fenomeno origi- 

nario nel quale si esprime un rapporto universale dell’uomo, 

gli elementi in cui esso si realizza o gli aspetti unilaterali tra 

cui si muove la riflessione si compenetrano, cioè — rappresenta- 

ti come autonomi — si costruiscono in correlazione tra di loro. 

Considerato dall’altra parte, questo circolo è inevitabile perché 

la vita è istanza determinante dello spirito, cosicché la sua 

forma determina infine anche le formazioni mediante cui deve 

diventare comprensibile a se stessa. La vita può essere appunto 

compresa soltanto dalla vita, e a tal fine si dispone in strati di 

cui l'uno media la comprensione dell'altro, e che nella loro 

dipendenza reciproca annunciano la sua unità. 


A questo punto appare chiaro che il motivo vitalistico per la 

soluzione del problema del comprendere era già prefigurato 

nelle considerazioni con cui ho cercato di chiarirlo respin- 

gendo le interpretazioni che di esso si offrono a prima vista. 

Infatti queste interpretazioni, considerate in modo preciso, risul- 

tano in linea generale discendenti da una fondamentale intui- 

zione meccanicistica. Ad essa risponde il fatto che l’uomo 

offre all'uomo solo il suo aspetto fisico esterno, dietro il quale 

soltanto un atto intellettuale, mediato da associazioni, colloca 

un'anima e determinati processi psichici. L'unità e la totalità 

del vivente si sottrae infatti al meccanicismo; esso può incollar- 

lo insieme soltanto in base ai singoli frammenti che, per una 

concezione organica, sono il risultato di scomposizioni successi- 

ve della sua unità. Perciò esso non può concepire il comprende- 

re come fenomeno originario che si manifesta tra un uomo 



536 GEORG SIMMEL 



nella sua totalità e un altro uomo anch'esso nella sua totalità, 

ma lo concepisce come sintesi secondaria di fattori separati. In 

base alla medesima mentalità gli sfugge l'elemento creativo — 

si può ben dire così — del processo del comprendere, che 

permette al soggetto di produrre in sé ciò che gli è estraneo e 

distante, ciò che non ha vissuto personalmente, come immagine 

di un’altra anima. La sua aspirazione finale di risolvere ogni 

relazione in equivalenze lo conduce a fondare o a ridurre anche 

il comprendere esclusivamente all’identità tra soggetto e ogget- 

to. Esso può concepire il compreso soltanto come ripetizione 

meccanica di ciò che già preesiste nel comprendente; e doveva 

quindi — dato che evidentemente ciò non è conciliabile con i 

fatti — attaccarsi al mezzo disperato di costruire gli avvenimen- 

ti psichici nella personalità storica partendo da singoli fram- 

menti, che si possono raccogliere insieme sulla base delle espe- 

rienze interne del soggetto della conoscenza storica: un tentati- 

vo che non è possibile discutere seriamente, e del tutto privo 

di valore già per il fatto che la comprensione della vita interio- 

re corre appunto lungo le continue comnessioni e unificazioni 

dei contenuti che si possono designare singolarmente. Ciò che è 

decisivo per la vita e per l’individualità, ossia l’unificazione, 

non si potrebbe quindi raggiungere con la semplice trasposizio- 

ne dei frammenti messi insieme. Rientra in tutto nell’essenza 

dell’intuizione meccanicistica voler rappresentare anche il com- 

prendere storico come una mera copia dell'accaduto «come 

esso era realmente », anziché scorgere che anche questa è un’at- 

tività del soggetto dipendente dalle categorie e dalle forme in 

cui assume il suo oggetto (alle quali, per esempio, quel sogget- 

to metodologico appartiene come una necessità 4 priori), una 

formazione spirituale specifica; e che anche qui la sua verità 

relativa a un oggetto è qualcosa di vivente, di funzionale e di 

elaborato, non già la riproduzione meccanica di una lastra foto- 

grafica. Forse con ciò il problema del comprendere storico di- 

venta qualcosa di molto più difficile e profondo che nell’intui- 

zione semplice, e tuttavia assai più strana, secondo cui la 

comprensione di un’altra anima si compie come ripetizione 

dell’esatto contenuto di quest’anima nello spirito che l’accoglie 

— e ha luogo solamente in quanto l’esperienza vissuta propria 

di questo spirito viene trasposta in quella. 



GEORG SIMMEL 537 



In queste diverse interpretazioni della comprensione psichi- 

ca si fa valere l’antitesi tra un punto di vista meccanicistico e 

un punto di vista organicistico e vitalistico. E come avviene in 

ogni conflitto spirituale, spinto fino alla sua istanza suprema, 

ogni decisione tra i due punti di vista risulta dipendente da 

quella che l’uomo ha preso in merito alla totalità e alla profon- 

dità della propria intuizione del mondo. 



MAX WEBER 



NOTA BIOGRAFICA 



Max Weber nacque a Erfurt il 21 aprile 1864, figlio di un avvocato 

impegnato nella politica attiva e di una donna di forti interessi mo- 

rali e religiosi, alla quale egli rimarrà sempre profondamente attaccato. 

Condotto in giovane età a Berlino, dove il padre — divenuto deputato 

del partito liberale-nazionale — accoglieva in casa alcuni dei maggiori 

esponenti della vita politica e della cultura tedesca dell’età bismarckia- 

na, Weber compì gli studi liceali nella capitale. In questo ambiente il 

giovane Weber rivelò ben presto Ia sua acuta intelligenza e una straordi- 

naria capacità di applicazione nello studio scientifico. Dal 1882 al 1886 

frequentò successivamente le università di Heidelberg, di Berlino, di 

Gòttingen e poi di nuovo di Berlino, seguendo corsi di diritto, di 

economia e di storia; e a Berlino conseguì il dottorato nel 1889, con 

una dissertazione sulle società commerciali nel Medioevo, Zur Geschichte 

der Handelsgesellschaften im Mittelalter (Stuttgart, 1889). In seguito 

gli interessi di Weber si sviluppano in due direzioni principali. Da una 

parte, soprattutto sotto l'ispirazione e la guida di Theodor Mommsen, 

egli si dedica allo studio della storia economico-sociale dell'antica Ro- 

ma, scrivendo un’opera ancor oggi fondamentale sul diritto agrario 

romano, Die ròmische Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staat- 

und Privatrecht (Stuttgart, 1891; tr. it. Milano, 1967) — con la quale 

ottiene l'anno seguente l’abilitazione — e soffermandosi in particolare 

sui rapporti tra la crisi sociale del tardo Impero e il tramonto della 

civiltà antica. Dall'altra parte, sotto l'influenza dei cosiddetti « socialisti 

della cattedra » (Gustav Schmoller, Adolf Wagner, Lujo Brentano ecc.) e 

attraverso la partecipazione all'attività del « Verein fir Sozialpolitik », 

Weber si accosta alla ricerca sociologica empirica e collabora a un 

progetto di studio delle condizioni del lavoro agricolo in Germania con 

un'inchiesta sulla situazione delle regioni orientali. Nel volume Die 

Verhiltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland (Leipzig, 

1892), nonché in vari saggi che ne sviluppano le implicazioni più 

propriamente politiche, egli pone in luce il trapasso dalla tradizionale 

proprietà di tipo signorile alla proprietà capitalistica, cercando di determi 

nare le conseguenze che ne risultano sul piano politico-sociale: la forma- 

zione di una classe di imprenditori fondiari e la proletarizzazione della ma- 



542 MAX WEBER 



nodopera agricola, con la necessità che da essa deriva di ricorrere alla im- 

migrazione polacca per colmare il vuoto prodottosi tra i contadini tedeschi. 

Attraverso questa inchiesta comincia a delinearsi quello che sarà il 

problema centrale dell’opera di Weber, cioè il problema del capitalismo 

moderno e della sua individualità storica. E difatti, in una serie di 

saggi di poco posteriori la sua attenzione si concentra sui vari aspetti 

dell'organizzazione capitalistica dell'economia e sulle condizioni del lavo- 

ro industriale. 


Conseguita l'abilitazione, Weber sposa nel 1893 Marianne Schnitger 

(che alla sua figura intellettuale dedicherà, dopo la morte, una celebre 

biografia). L’anno seguente egli intraprende la sua carriera accademica 

quale professore di economia politica a Friburgo e, dal 1896, a Heidel- 

berg. Ma nel 1897 una gravissima crisi nervosa lo costringe a sospendere 

l'insegnamento e a interrompere il lavoro scientifico. Questa crisi durerà 

parecchi anni: soltanto dopo un lungo periodo di riposo, di cure e di 

viaggi, con l’amorevole assistenza della moglie, Weber potrà far ritorno 

al lavoro nel 1901, abbandonando però al tempo stesso la cattedra 

universitaria. Egli rimane a Heidelberg come studioso privato, ma nel 

1903 assume — insieme a Edgard Jaffé e a Werner Sombart — la 

direzione dell’« Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik »; e que- 

sta rivista, sulla quale compariranno molti dei suoi saggi più importanti, 

diventa per opera sua un centro di attività a cui collaborano i più 

insigni studiosi tedeschi di scienze sociali. 


In questi stessi anni, a contatto con l’ambiente filosofico di Heidel- 

berg, si vengono precisando le lince della riflessione metodologica webe- 

riana. In un primo saggio, Roscher und Knies und die logischen Proble- 

me der historischen Nationalòkonomie (pubblicato nello « Schmollers 

Jahrbuch » del 1903-1906), Weber rivolge la sua critica ai presupposti 

organicistici della scuola storica di economia, respingendo la pretesa di 

assegnare alla scienza economica il compito di scoprire tendenze evoluti- 

ve fornite di valore legale. Ma la critica della scuola storica (a cui fa 

riscontro l'accettazione dei princìpi della teoria marginalistica, soprattut- 

to nella formulazione datane da Carl Menger) si allarga in una presa di 

posizione polemica nei confronti dell’eredità metodologica romantica, e 

in particolare dell'interpretazione della conoscenza storica come un proce- 

dimento di comprensione immediata, diretto a cogliere intuitivamente i 

fenomeni storici nella loro individualità. La piattaforma di questa pole- 

mica è offerta a Weber dal richiamo all'impostazione metodologica 

rickertiana. Dinanzi all’alternativa tra la definizione della conoscenza 

storica come complesso delle scienze dello spirito, formulata da Dilthey, 

e la sua qualificazione come sapere idiografico, proposta da Windelband 

e da Rickert, egli sceglie infatti la seconda soluzione. Né la specificità 

dell'oggetto né la specificità del procedimento di ricerca, di per sé 



MAX WEBER 543 



prese, sono in grado di garantire l'autonomia della conoscenza storica: 

la contrapposizione tra natura e spirito è un'antitesi di carattere metafisi- 

co, mentre la distinzione tra spiegazione e comprensione rischia di 

ridurre la conoscenza storica a una specie di penetrazione immediata, a 

una forma di intuizione. L'oggetto delle scienze storico-sociali deve 

perciò essere definito in correlazione al loro metodo, cioè in base all’o- 

rientamento verso l’individualità; mentre l’intendere dev’essere concepito 

come una comprensione capace di trovare una verifica empirica e di 

tradursi in spiegazione causale. 


Per questa via si è venuto delineando il problema centrale della 

metodologia di Weber, vale a dire il problema dell'oggettività delle 

scienze storico-sociali. Nel saggio Die « Objektivitàt » sozialwissenschaft- 

licher und sozialpolitischer Erkenntnis, che inaugura la nuova serie 

dell'« Archiv » (1904; tr. it. Torino, 1958) e in alcuni saggi successivi, 

in particolare nelle Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissen- 

schaftlichen Logik (1906; tr. it. Torino, 1958), Weber ha enunciato le due 

condizioni fondamentali di oggettività delle scienze storico-sociali, indi- 

candole da un lato nell’esclusione dei giudizi di valore e dall'altro nel 

ricorso alla spiegazione causale. La prima condizione stabilisce la diffe- 

renza di principio tra il compito delle scienze storico-sociali in quanto 

scienze e il compito dell’attività politica, e più in generale di qualsiasi 

presa di posizione valutativa; la seconda stabilisce invece la funzione 

esplicativa delle scienze storico-sociali e l’applicabilità al loro dominio 

della categoria di causalità. Su questa base Weber si richiama alla 

distinzione rickertiana tra giudizio di valore e relazione ai valori. Se il 

giudizio di valore è estraneo alle scienze storico-sociali come a ogni altra 

disciplina scientifica, ciò che distingue la loro struttura da quella delle 

scienze naturali è proprio il riferimento a certi valori in virtù dei quali 

avviene la selezione del dato empirico. Weber lascia però cadere il 

presupposto della validità incondizionata dei valori, a cui Rickert faceva 

appello: i valori sono sì criteri di scelta che permettono la selezione del 

dato empirico e la costruzione dell'oggetto storico, ma sono essi stessi 

assunti in rapporto allo specifico punto di vista da cui si pone l’indagi- 

ne. I valori non sono quindi forniti di un'esistenza metastorica; essi 

sono sempre i valori di una certa cultura, a cui appartiene il soggetto 

della ricerca, La relazione ai valori designa pertanto il condizionamento 

culturale delle scienze storico-sociali, il punto di partenza « soggettivo » 

che stabilisce la direzione dell'indagine. Entro questa direzione è possibi- 

le una determinazione oggettiva di rapporti, che può essere conseguita 

mediante il ricorso alla spiegazione causale. Ma in tale maniera la stessa 

spiegazione causale di un oggetto storico risulta inevitabilmente parzia- 

le, anzi unilaterale. Essa non mette capo alla scoperta di rapporti 

necessari, ma procede alla formulazione di giudizi di possibilità oggetti- 



544 MAX WEBER 



va che si collocano entro i due casi-limite della causazione adeguata e 

della causazione accidentale. Le scienze storico-sociali individuano quin- 

di, di volta in volta, una serie di condizioni che — accanto ad altre, 

parimenti importanti — rendono possibile il verificarsi di un determina- 

to avvenimento. In quest'opera esse si avvalgono pure di concetti genera- 

li e di regole generali che hanno il carattere di «tipi ideali» e che 

possono organizzarsi, con una relativa autonomia, in discipline teoriche 

come la scienza economica o la sociologia. Questi concetti e queste 

regole assolvono una funzione strumentale rispetto allo scopo primario 

delle scienze storico-sociali, che è la spiegazione degli avvenimenti nella 

loro individualità, ma sono nondimeno indispensabili. La via verso l’indi- 

viduale passa sempre attraverso il sapere nomologico. Perciò l’edificio 

del sapere storico comprende non soltanto la ricerca storiografica, ma 

anche le scienze sociali astratte, costituite mediante l’organizzazione 

sistematica di concetti tipico-ideali e dirette alla determinazione delle 

uniformità di comportamento dei fenomeni sociali. 


Negli stessi anni Weber ha affrontato il problema dell’individualità 

storica del capitalismo moderno, con i due saggi Die protestantische 

Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905; tr. it. Roma, 1945) e Die 

protestantischen Sekten und der Geist des Kapitalismus (1906). Weber 

definisce il capitalismo moderno come una struttura economica a orienta- 

mento razionale, che si colloca nel quadro del processo di razionalizza- 

zione della vita che è caratteristico della civiltà moderna; per cui esso si 

differenzia anche da quelle forme di economia che — come il capitali 

smo antico — possono presentare tratti simili. Alla ricerca storica 

si pone pertanto il compito di spiegare per quali motivi, cioè in rap- 

porto a quali condizioni, questa struttura sia sorta soltanto in Occi- 

dente e nell'età moderna, e di determinare le linee del processo attraver- 

so cui essa si è formata. Weber sostiene, in polemica con la concezione 

materialistica della storia, l'impossibilità di fornire una spiegazione 

della genesi del capitalismo moderno che faccia appello soltanto a condi- 

zioni economiche; e si propone di mostrare che ad esso ha contribuito in 

modo decisivo, accanto a un certo tipo di organizzazione dell'impresa e 

a una certa configurazione dei rapporti « materiali », anche una particola- 

re mentalità — lo spirito capitalistico — la quale è il risultato di una 

trasformazione dell’etica calvinistica e della sua specifica forma di ascesi 

mondana, diretta a comprovare la grazia divina mediante il lavoro e il 

successo negli affari. Questa tesi costituisce il presupposto anche dell’ana- 

lisi che Weber ha successivamente dedicato alla religione cinese, all’In- 

duismo e al Buddismo, alla religione ebraica, negli studi raccolti sotto 

il titolo complessivo Die Wirtschafesethik der Weltreligionen (1915-19). 

Attraverso lo studio comparativo delle varie etiche economiche a cui le 

religioni universali hanno dato origine, cercando di regolare con esse la 



MAX WEBER 545 



vita economica, egli si propone infatti di mostrare — per via negativa — 

che soltanto nel capitalismo moderno è presente quella particolare menta- 

lità che costituisce lo spirito capitalistico, e che soltanto l’ascesi di tipo 

calvinistico poteva offrire le condizioni adatte per la sua formazione. 

L'analisi weberiana si rivolge così a determinare la diversità dell'etica 

economica del Protestantesimo da quella delle altre religioni, cioè — in 

ultima analisi — a spiegare i caratteri peculiari del capitalismo moder- 

no. Pertanto la « sociologia della religione » di Weber appare, in fondo, 

una ricerca storica che si avvale strumentalmente di concetti tipico-idea- 

li, subordinando l’analisi tipologica a un preciso scopo di individua- 

zione. 


Soltanto nel saggio Uber einige Kategorien der verstehenden Soziolo- 

gie (1913; tr. it. Torino, 1958), e più esplicitamente nella trattazione 

sistematica di Wirtschaft und Gesellschaft (edita postuma nel 1922 a 

Tiibingen; tr. it. Milano, 1961), la sociologia cessa di costituire un 

momento astratto nell’ambito di un'indagine orientata in senso storiogra- 

fico, per configurarsi come una disciplina autonoma che si pone in 

antitesi rispetto alla ricerca storica, delimitando un proprio campo di 

ricerca. La sociologia assume a oggetto le uniformità dell’atteggiamento 

umano in quanto fornite di senso, e le forme di relazione che sorgono 

sulla base dei diversi tipi di atteggiamento — l’atteggiamento razionale 

rispetto allo scopo, l'atteggiamento razionale rispetto al valore, l’atteggia- 

mento affettivo, l'atteggiamento tradizionale. In questa prospettiva We- 

ber ha condotto, in Wirtschaft und Gesellschaft, un'analisi sistematica 

dei rapporti tra i vari settori della vita sociale e le forme di economia; 

cosicché il problema dell’individualità storica del capitalismo moderno 

risulta trasposto sul piano di una tipologia delle strutture economiche, 

considerate nel loro rapporto reciproco con gli altri campi della vita di 

una società. 


Negli anni successivi al 1903 lo sviluppo della riflessione metodologi- 

ca e della ricerca storico-sociologica si intreccia, in Weber, con il rinnova- 

to interesse per le vicende politiche tedesche e per la situazione europea. 

Comincia a delinearsi, in questo periodo, la posizione sempre più critica 

di Weber nei confronti dell’eredità bismarckiana, che lo condurrà a 

formulare un severo giudizio sulla struttura politica della Germania, 

incapace di favorire la formazione di una classe dirigente preparata e 

responsabile. Questa critica, che Weber ha sviluppato durante la prima 

guerra mondiale dalle colonne della «Frankfurter Zeitung», viene 

espressa in modo compiuto — poco prima della fine del conflitto — in 

Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland (Munchen, 

1918; tr. it. Bari, 1919), in cui egli affronta il problema dell'imminente 

ricostruzione politica della Germania. Successivamente Weber partecipa 

in maniera diretta alla vita politica, prima come consulente della Com- 



35. STORICISMO TEDESCO. 



546 MAX WEBER 



missione di armistizio a Versailles e poi collaborando alla redazione del 

progetto di costituzione della repubblica di Weimar. Nel 1918 ritorna 

all'insegnamento, accettando una chiamata all’Università di Monaco, do- 

ve tiene due celebri conferenze sul senso della scienza e sul senso della 

politica (Wissenschaft als Berut e Politik als Beruf, 1919; tr. it. Torino, 

1948) e il suo ultimo corso di lezioni, dedicato a un'analisi delle 

categorie sociologiche. Risale a questi anni anche la Wirtschaftsgeschichte, 

pubblicata postuma (Berlin, 1923). La morte lo coglie a Monaco il 14 

giugno 1920, in pieno fervore di attività. 


L'ultimo periodo della vita di Weber è caratterizzato anche dallo 

sforzo di sviluppare le implicazioni filosofiche della propria analisi. 

Non a caso il problema che viene in primo piano, durante questi anni, è 

il problema dei valori, che gli veniva riproposto con urgenza dal 

conflitto mondiale e dalle questioni etico-politiche che esso aveva solleva- 

to. Riprendendo, nel saggio Der Sinn der « Wertfreiheit» der soziolo- 

gischen und dkonomischen Wissenschaften (1917; tr. it. Torino, 1958), la 

tesi dell’avalutatività delle scienze storico-sociali, Weber ha dato una 

formulazione esplicita della propria concezione dei valori. I valori non 

posseggono una validità incondizionata, e tanto meno sono entità trascen- 

denti; la loro validità coincide con la possibilità di trovare una realizza- 

zione nell’agire umano. D’altra parte i valori non possono essere riporta- 

ti a un'unità sistematica: la loro molteplicità è irriducibile, e sia tra le 

diverse sfere di valori sia all’interno di ogni sfera si verificano sempre 

conflitti di valori. Ciò vale nei rapporti tra etica e politica, tra scienza e 

religione, e via dicendo; ma vale perfino all’interno della sfera etica, che 

è dominata dall’antitesi tra etica dell’intenzione ed etica della responsabi- 

lità. L’agire dell’uomo è la sede in cui si manifesta il contrasto reciproco 

dei valori, in quanto l'accettazione di certi valori comporta inevitabil- 

mente il rifiuto di altri, e il primato accordato a una certa sfera implica 

la subordinazione o la negazione di altre sfere. Il rapporto dell’agire 

umano con i valori si presenta quindi come una relazione problematica 

definita mediante una scelta — la scelta che l’uomo compie dei valori 

che devono servire come criterio di orientamento per la propria condot- 

ta. Su questa base Weber ha affrontato, in Wissenschaft als Beruf, il 

problema del senso della scienza, cioè il problema del significato che la 

scienza riveste in relazione al posto dell’uomo nel mondo. Egli ha 

indicato tale significato nella chiarezza, cioè nella presa di coscienza del 

rapporto tra gli scopi dell’agire e i mezzi necessari alla loro realizzazio- 

ne, a cui l’uomo perviene in virtù della conoscenza scientifica. La 

scienza mette in questione la possibilità di realizzare i valori, determi- 

nando le condizioni dalle quali essa dipende; la sua è quindi una 

funzione problematizzante e critica. In maniera analoga Weber ha impo- 

stato, in Politik als Beruf, il problema del senso della politica. Se è vero 



MAX WEBER 547 



che la politica implica sempre rapporti di forza e mira a conseguire o a 

mantenere un certo potere, è altrettanto vero che essa è dedizione a un 

compito, a una causa. In quanto tale, la politica presuppone una scelta 

in favore di certi valori, a cui si accompagna il rifiuto di altri; cosicché 

nel conflitto tra le varie forze si riflette una lotta tra valori diversi e 

inconciliabili. Il senso della politica è perciò differente dal senso della 

scienza — il che consente a Weber di ribadire la tesi dell’indipendenza 

reciproca di conoscenza scientifica e di attività politica. Ma la base sulla 

quale essi vengono determinati è la medesima: un’interpretazione del 

posto dell’uomo nel mondo che risulta fondata sul rapporto di scelta 

che intercorre tra l'uomo e i valori. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



I saggi metodologici di Weber sono raccolti nei Gesammelte Aufsitze 

zur Wissenschaftslehre, Tùbingen, 1922, 1951 ? (a cura di J. Winckelmann), 

1968?, 19734. Il volume comprende i seguenti saggi: Roscher und Knies 

und die logischen Probleme der historischen Nationalòkonomie (1903-1906), 

Die « Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkennt- 

nis (1904), Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaft- 

lichen Logik (1906), R. Stammlers « Ùberwindung » der materialistischen 

Geschichtsauffassung (1907) con il relativo Nachtrag, Die Grenznutzlehre 

und das « psychophysische Grundgesetz » (1908), Uber einige Kategorien 

der verstehenden Soziologie (1913), Die drei Typen der legitimen Herr- 

schaft (apparso postumo nel 1922), Der Sinn der « Wertfreiheit » der so- 

ziologischen und Gkonomischen Wissenschaften (1918), Wissenschaft als 

Beruf (1919) — nonché il primo capitolo di Wirtschaft und Gesellschaft. 

Di questi saggi il secondo, il terzo, il sesto e l’ottavo sono tradotti nel vo- 

lume 7 metodo delle scienze storico-sociali (a cura di P. Rossi), Torino, 

1958; Wissenschaft als Beruf è invece tradotto — insieme a Politik als 

Beruf — nel volume Il lavoro intellettuale come professione (tr. it. di A. 

Giolitti, intr. di D. Cantimori), Torino, 1948, 1966 2. 



Gli altri scritti di Weber sono raccolti per buona parte nei seguenti 


volumi: 


Gesammelte Aufsitze zur Religionssoziologie, Tiùbingen, 1920-21, con va- 

rie riedizioni fototipiche (una traduzione italiana completa è in corso 

di preparazione per i « Classici della sociologia » delle Edizioni di Co- 

munità): il primo volume comprende i due saggi Die protestantische 

Ethik und der Geist des Kapitalismus e Die protestantischen Sekten 

und der Geist des Kapitalismus, nonché l'introduzione e la prima par- 

te di Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen, dedicata a Konfuzia- 

nismus und Taoismus; il secondo comprende la seconda parte, dedi- 

cata a Hinduismus und Buddismus; il terzo comprende la terza par- 

te, dedicata a Das antike Judentum. Una nuova edizione dei saggi sul- 

l'etica protestante, corredata della relativa discussione, è stata fornita 

da J. Winckelmann, col titolo Die protestantische Ethik: cine Aufsatz- 

sammlung, Miinchen, 1968, e Hamburg, 19727. 



MAX WEBER 549 



Gesammelte politische Schriften, Miinchen, 1921, e Tiibingen, 1958? (a 

cura di J. Winckelmann), 19713; tr. it. (parziale) Catania, 1970: di 

questa traduzione non fanno parte né Parlament und Regierung im 

neugeordneten Deutschland, già tradotto fin dal 1919, né il saggio 

Politik als Beruf, tradotto invece nel volume // Zavoro intellettuale co- 

me professione cit. 



Gesammelte Aufsitze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Tiubingen, 

1924: il volume comprende Agrarverhaltnisse im Altertum (1909) e 

una serie di altri saggi di storia economico-sociale del mondo antico 

e del Medioevo, nonché Die lindliche Arbeitsverfassung (1893), Ent- 

wickelungstendenzen in der Lage der ostelbischen Landarbeiter (1894) 

e Der Streit um den Charakter der altgermanischen Sozialverfassung 

in der deutschen Literatur des letzten Jahrzehnts (1905). 



Gesammelte Aufsitze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tùbingen, 1924: 

il volume comprende diversi saggi di sociologia empirica, tra cui so- 

prattutto Zur Psychophysik der industriellen Arbeit (1908-1909), e gli 

interventi alle riunioni del « Verein fir Sozialpolitik ». 



Rimangono al di fuori di queste raccolte: i due volumi Die ròmische 

Agrargeschichte in ihrer Bedeutung fiir das Staat- und Privatrecht e Die 

Verhdltnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland, già menzio- 

nati; l’opera sociologica fondamentale Wirtschaft und Gesellschaft, Tù- 

bingen, 1922, 19257, 19473, 19564 (a cura di J. Winckelmann), 19725, 

tr. it. Milano, 1961, 1968, 1974?; le lezioni sulla Wirtschaftsgeschichte: 

Abriss der universalen Sozial- und Wirtschaftsgeschichte (a cura di S. 

Hellmann e M. Palyi), Miinchen-Leipzig, 1923 (una traduzione italiana è 

in preparazione presso Einaudi). Rimangono inoltre al di fuori delle varie 

raccolte e dei volumi qui elencati numerosi scritti, discorsi, interventi con- 

gressuali, nonché gli Jugendbriefe, Tiibingen, s.d. (ma 1936). 


Di grande importanza per la comprensione della personalità di Weber 

è la biografia scritta dalla moglie Marianne Weser, Max Weber, cin Le 

bensbild, Tiibingen, 1921, e Heidelberg, 19507. Due importanti raccolte 

di documenti sono state pubblicate rispettivamente da E. BAuMGARTEN, col 

titolo Max Weber: Werk und Person, Tiibingen, 1964, e da R. KénIG e 

J. WincKELMANN, col titolo Max Weber zum Gedichinis (fascicolo spe- 



ciale della « Kòlner Zeitschrift fir Soziologie und Sozialpsychologie », 

XVI, 1964). 



La letteratura critica sull'opera e sul pensiero di Weber ha acquistato, 

particolarmente negli ultimi due decenni, dimensioni sempre più cospicue. 

Tra di essa ci limitiamo a segnalare gli studi seguenti: 



550 MAX WEBER 



A. von ScHELTING, Die logische Theorie der historischen Kulturwissen- 

schaft von Max Weber und im besonderen sein Begriff des Idealtypus, 

«Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XLIX, 1920, 



pp. 623-752. 



H. OrrenHEMER, Die Logik der soziologischen Begriffsbildung (mit be- 

sonderer Beriicksichtigung von Max Weber), Tiibingen, 1925. 



A. Warter, Max Weber als Soziologe, « Jahrbuch fir Soziologie », II, 

1926, pp. 1-65. 



H. J. Graz, Der Begriff des Rationalen in der Soziologie Max Webers, 

Karlsruhe, 1927. 



B. Prisrer, Die Entwicklung zum Idealtypus (Eine methodologische Un- 

tersuchung iiber das Verhaltnis von Theorie und Geschichte bei Men- 

ger, Schmoller und Max Weber), Tibingen, 1928, parte III. 



S. LanpsHut, Kriti der Soziologie, Minchen-Leipzig, 1929, e Neuwied- 

Berlin, 1968 ?, parte II. 



W. Bienrair, Max Webers Lehre vom geschichilichen Erkennen, Berlin, 

1930. 



E. Wotr, Max Webers ethischer Kritizismus und das Problem der Me- 

taphysik, « Logos», XIX, 1930, pp. 359-70. 



W. StrzeLEWIcz, Die Grenzen der Wissenschaft bei Max Weber, Frank- 

furt a.M., 1931. 



K. Jasrers, Max Weber: Deutsches Wesen im politischen Denken, im 

Forschen und Philosophieren, Oldenburg, 1932; nuova edizione col ti- 

tolo Max Weber: Politiker, Forscher, Philosoph, Bremen, 1946, e Miin- 

chen, 19582; tr. it. Napoli, 1969. 



K. LéwrrH, Max Weber und Karl Marx, « Archiv fiir Sozialwissenschaft 

und Sozialpolitik », LXVII, 1932, pp. 53-99 € 175-214, poi raccolto nel- 

le Gesammelte Abhandlungen zur Kritik der geschichilichen Existenz, 

Stuttgart, 1960, pp. 1-67; tr. it. Napoli, 1967, pp. g-110. 



A. Scnurz, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt (Eine Einleitung in 

die verstehende Soziologie), Wien, 1932. 



C. Stepine, Politit und Wissensschaft bei Max Weber, Breslau, 1932. 



A. MertLer, Max Weber und die philosophische Problematik in unserer 

Zeit, Leipzig, 1934. 



MAX WEBER 55I 



A. SaLomon, Max Webers Methodology, « Social Research », I, 1934, pp. 

147-68. 



A. von ScuettIno, Max Webers Wissenschafeslehre, Tiibingen, 1934. 


R. Lennert, Die Religionstheorie Max Webers, Stuttgart, 1935. 


A. Saromon, Max Weber's Sociology, « Social Research », II, 1935, pp. 

60-73. 


A. Saromon, Max Weber's Political Ideas, « Social Research », II, 1935, 

pp. 368-84. 



T. Parsons, The Structure of Social Action, New York-London, 1937, e 

Glencoe {Ill.), 19492, parte III; tr. it. Bologna, 1962. 



M. WernreicH, Max Weber, l'homme et le savant, Paris, 1938. 

J. P. Maver, Max Weber in German Politics, London, 1944, 19562. 



J.J. ScHaar, Geschichte und Begriff (Eine kritische Studie zur Geschichts- 

methodologie von Ernst Troeltsch und Max Weber), Tiibingen, 1946. 


D. HenricH, Die Einheit der Wissenschaftslehre Max Webers, Tiibingen, 

1952. 


J. WincKeLManN, Legitimitit und Legalitàt in Max Webers Herrschafts- 

soziologie, Tubingen, 1952. 


P. Rossi, La sociologia di Max Weber, « Quaderni di sociologia », 1954, 

N. 12, pp. 70-90, € n. 13, pp. 114-490. 


M. Mertrau-Ponty, Les aventures de la dialectique, Paris, 1955, pp. 15-42. 


J. WincKeLMAnN, Gesellschaft und Staat in der verstehenden Soziologie 

Max Webers, Berlin, 1957. 


W. Momxsen, Mar Weber und die deutsche Politik (1890-1920), Ti- 

bingen, 1959, 1974”. 


F. H. TensrucK, Die Genesis der Methodologie Max Webers, « Kélner 



Zeitschrift fir Soziologie und Sozialpsychologie », XI, 1959, pp. 573- 

630. 



R. Benpix, Max Weber: an Intellectual Portrait, Garden City (N.Y.), 1960. 



A. Karsren, Das Problem der Legitimitàt im Max Webers Idealtypus der 

rationalen Herrschaft, Hamburg, 1960. 



A. Scuwerrzer, The Method of Social Economics: a Study of Max We- 

ber, Bloomington (Indiana), 1961. 



552 MAX WEBER 



W. Wecener, Die Quellen der Wissenschaftsauffassung Max Webers und 

die Problematik der Werturteilsfreiheit der NationalòkRonomie, Berlin, 

1962. 


E. FLEIscHMann, De Weber à Nietzsche, « Archives européennes de socio- 



logie », V, 1964, pp. 190-238. 



Max Weber und die Soziologie heute (a cura di O. Srammer), Tibingen, 

1965; tr. it. Milano, 1968. 



« Revue internationale des sciences sociales », XVII, 1965, n. 1 (fascicolo 

speciale dedicato a Max Weber, con contributi di R. Benpix, W. 

Momxsen, T. Parsons, P. Rossi). 



F. FerrarOTTI, Max Weber e il destino della ragione, Bari, 1965. 



J. Janoska-Benpi, Methodologische Aspekte des Idealtypus: Max Weber 

und die Soziologie der Geschichte, Berlin, 1965. 



P. LazarseeLD e A. OserscHaLL, Max Weber and Empirical Social Re- 

search, « American Sociological Review », XXX, 1965, pp. 185-99. 



K. LoewensteIn, Max Webers staatspolitische Auffassungen in der Sicht 

unserer Zeit, Frankfurt a.M.-Bonn, 1965. 



J. SancHez Azcona, Introduccibn a la sociologia segin Max Weber, Mexi- 

co, 1965. 


J. StreisanD, Max Weber: Soziologie, Politik und Geschichtsschreibung 

von der Reichseinigung von oben bis zur Befreiung Deutschlands vom 

Fascismus, Berlin, 1965. 


Max Weber: Gedichtnisschrift der Ludwie-Maximilian-Universitàt Miin- 



chen zur 100. Wiederkehr seines Geburtstages (a cura di K. EncIScH, 

B. Prister e J. WincxeLMann), Berlin, 1966. 



G. Asramowskt, Das Geschichtsbild Max Webers: Universalgeschichte am 

Leitfaden des okzidentalen Rationalisierungsprozesses, Stuttgart, 1966. 


J. FreunD, Sociologie de Max Weber, Paris, 1966; tr. it. Milano, 1968. 


W. E. MunHLmann, Max Weber und die rationale Soziologie, Tiibingen, 

1966." 


}. A. Prapes, La sociologie de la religion chez Max Weber, Louvain-Pa- 

ris, 1966, 1969?. 


H. ALsert, Theorie und Praxis: Max Weber und das Problem der Wert- 



freiheit und der Rationalitàr, nel volume Die Philosophie und die 

Wissenschaft (a cura di E. Oldenmeyer), Meisenheim am Glan, 1967, 



pp. 246-72. 



MAX WEBER 553 


R. Aron, Les étapes de la pensée sociologique, Paris, 1967, parte II, cap. 

1; tr. it. Milano, 1972. 


L. Cavarti, Max Weber: religione e società, Bologna, 1968. 



H. Herrino, Max Weber und Ernst Troeltsch als Geschichtsdenker, 

« Kantstudien », LIX, 1968, pp. 410-34. 



S. M. Mitter, Max Weber, New York, 1968. 

E. Terecen, De sociologie in het werk van Max Weber, Meppel, 1968. 



The Protestant Ethic and Modernization: a Comparative View (a cura 

di S. N. ErsenstaDT), New York-London, 1968. 



A. Cavatti, La fondazione del metodo sociologico in Max Weber e 

Werner Sombart, Pavia, 1969. 



R. E. Rogers, Max Weber's Ideal Type Theory, New York, 1969. 

L. M. LacHmann, The Legacy of Max Weber: Three Essays, London, 

1970. 



A. Mirzman, The Iron Cage: an Historical Interpretation of Max Weber, 

New York, 1970. 



Max Weber and Modern Sociology (a cura di A. SaWav), London, 1971. 



R. Benpix e G. RotH, Scholarship and Partisanship: Essays on Max We- 

ber, Berkeley-Los Angeles, 1971. 



I. Dronsercer, The Political Thought of Max Weber, New York, 1971. 



A. Gippens, Capitalism and Modern Social Theory: an Analysis of the 

Writings of Marx, Durkheim and Max Weber, London-New York, 

1971, parte III. 



G. Hurnacet, Kritik als Beruf. Der Kritische Gehalt im Werk Max We- 

bers, Frankfurt a.M., 1971. 



K. Huncar, Empirie und Praxis: Ertrag und Grenzen der Forschungen 

Max Webers im Licht neuerer Konzeptionen, Meisenheim am Glan, 



1971. 



W. Lerèvre, Zum historischen Charakter und zur historischen Funktion 

der Methode biirgerlicher Soziologie: Untersuchungen am Werk Max 

Webers, Frankfurt a.M., 1971. 



W. ScHLucHTER, Wertfreiheit und Verantwortungsethik: zum Verhdltnis 

von Wissenschaft und Politik bei Max Weber, Tiibingen, 1971. 



554 MAX WEBER 



Max Weber, sein Werk und seine Wirkung (a cura di D. Kaester), Miin- 

chen, 1972. 



H. H. Bruun, Science, Values and Politics in Max Weber's Methodology, 

Copenhagen, 1972. 



W. G. Runciman, A Critique of Max Weber's Philosophy of Social Scien- 

ce, London-New York, 1972. 



M. WeremBercH, Le volontarisme rationnel de Max Weber, Bruxelles, 

1972. 


D. BeetHaMm, Mar Weber and the Theory of Modern Politics, London, 

1974. 



W. Mommsen, The Age of Bureaucracy: Perspectives on the Political So- 

ciology of Max Weber, Oxford, 1974. 



Un elenco degli scritti di Weber (compresi gli articoli di giornale) 

è stato fornito per la prima volta da Marianne Weser, Max Weber, ein 

Lebensbild cit., pp. 755-60; esso è stato completato da J. WINcKELMANN 

nell’antologia di testi weberiani Soziologie, Weltgeschichtliche Analysen, 

Politik, Stuttgart, 1956, pp. 490-503. Per una bibliografia degli studi su 

Weber si veda l’articolo di H. H. GertH e H. I. GertH, Bibliography on 

Max Weber, « Social Research », XVI, 1949, pp. 70-89, nonché le impor- 

tanti integrazioni fornite da W. Mommsen, Max Weber und die deutsche 

Politik cit., pp. 544-64. 



L’«OGGETTIVITÀ » CONOSCITIVA DELLA SCIENZA 

SOCIALE E DELLA POLITICA SOCIALE * 



La prima questione *, che di solito si pone presso di noi a 

una rivista di scienza sociale che sia al tempo stesso una rivista 

di politica sociale, nel momento del suo apparire oppure del 



a. Ogni qual volta, nella prima parte delle seguenti considerazioni, si 

parlerà esplicitamente in nome degli editori, 0 si determineranno i com- 

piti dell’« Archivio », non si tratterà naturalmente di opinioni private del- 

l’autore, bensì di formulazioni che hanno avuto l’espressa approvazione 

dei coeditori. Per la seconda parte la responsabilità, tanto per la forma 

quanto per il contenuto, spetta soltanto all'autore. 


Che l’« Archivio » non cadrà mai nella proclamazione settaria di una 

determinata posizione scolastica, è garantito dalla circostanza che il punto 

di vista non solo dei suoi collaboratori, ma anche dei suoi editori, è 

tutt'altro che identica, perfino sotto il profilo metodologico. D'altra parte 

una convergenza su certe concezioni fondamentali ha costituito natural- 

mente il presupposto dell'assunzione collettiva della redazione. Questa 

convergenza si riferisce in particolare alla considerazione del valore della 

conoscenza seorica da punti di vista « unilaterali », nonché all'esigenza 

dell’elaborazione di concetti precisi e della rigorosa distinzione tra sapere 

empirico e giudizio di valore, nel senso in cui essa verrà qui presentata 

— naturalmente senza la pretesa di chiedere qualcosa di « nuovo ». 


L'ampiezza della discussione (nella seconda parte) e la frequente ripe- 

tizione dello stesso pensiero servono allo scopo esclusivo di pervenire al 

massimo possibile di comune intelligibilità in tali considerazioni. Per que- 



* Die « Objektivitit » sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis, 

« Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », XIX, 1904, pp. 22-87, raccolto 

nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tubingen, ]. C. B. Mohr, 

1922, 4° cd. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 146-214 (L’« oggettività » 

conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, tr. it. di Pietro Rossi, in Il me- 

todo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958, pp. 53-130). 



556 MAX WEBER 



passaggio sotto una nuova redazione, è quella concernente la 

sua « tendenza ». Anche noi non possiamo sottrarci a tale que- 

stione, e dobbiamo a questo punto — in riferimento alle osser- 

vazioni formulate nella nostra Nota introduttiva! — addentrar- 

ci in un'impostazione problematica più fondamentale. Si offre 

in questa maniera l’opportunità di illustrare lungo varie direzio- 

ni il carattere specifico del lavoro della «scienza sociale» in 

genere, quale noi lo intendiamo, di modo che ciò possa essere 

utile — per quanto, o piuttosto proprio in quanto si tratta di 

«nozioni di per sé evidenti» — se non per lo specialista, 

almeno per il lettore che è più lontano dalla prassi del lavoro 

scientifico. 


Scopo esplicito dell’« Archivio » è stato, fin dall’inizio, quel- 

lo di promuovere, accanto all'estensione della nostra conoscen- 

za intorno alle «situazioni sociali di tutti i paesi», e quindi 

intorno ai fazti della vita sociale, anche l'educazione del giudi- 

zio sui suoi problemi pratici e pertanto — in quella maniera, 

certo assai modesta, in cui un fine siffatto può venir perseguito 

da studiosi privati — la critica del lavoro pratico di politica 

sociale, fino ai fattori legislativi. E tuttavia l’« Archivio » si è 

proposto sempre di essere una rivista esclusivamente scientifica, 

e di lavorare soltanto con i mezzi della ricerca scientifica — 

cosicché si presenta subito il problema del modo in cui quello 



sto interesse molto — c'è da sperare non troppo — si è sacrificato di 

precisione dell’espressione, ed è stato pure del tutto tralasciato il tentativo 

di presentare, in luogo di un’'elencazione di alcuni punti di vista meto- 

dologici, un'indagine sistematica. Ciò avrebbe richiesto l'inserimento di 

una quantità di problemi di teoria della conoscenza, che in parte si situa- 

no a un livello ancora maggiore di profondità. Qui ci si propone non già 

di fare della logica, bensì di rendere utili per noi dei risultati noti della 

logica moderna; e quindi non di risolvere dei problemi, ma di illustrarne 

il significato ai non specialisti. Chi conosca i lavori dei logici moderni — 


io cito solo Windelband, Simmel e, per i nostri scopi, specialmente Hein- 

rich Rickert — osserverà subito come ogni cosa essenziale sia qui legata 

ad essi, 



1, Si tratta della Nota introduttiva alla nuova serie dell’« Archiv fir Sozialwissen- 

schaft und Sozialpolitik », che enunciava il programma della nuova redazione, 

costituita — oltre che da Weber — da Edgard Jaffé e da Werner Sombart. Cfr. 

« Archiv », XXI, 1904, pp. ivi 



MAX WEBER 557 



scopo possa conciliarsi, in linea di principio, con la limitazione 

a questi mezzi. Allorché l’« Archivio » procede nelle sue pagi- 

ne a valutare le misure legislative o amministrative, oppure le 

proposte per tali misure, che cosa significa questo? Quali sono 

le zorme per questi giudizi? Quale è la validità dei giudizi di 

valore che talvolta esprime da parte sua colui che giudica, o 

che un autore, nell’avanzare proposte pratiche, pone a fonda- 

mento di queste? E in quale senso egli si mantiene allora sul 

terreno della discussione scientifica, dal momento che la caratte- 

ristica della conoscenza scientifica deve essere rintracciata nella 

validità « oggettiva » dei suoi risultati — cioè nella sua verità? 

Noi intendiamo illustrare dapprima il nostro punto di vista di 

fronte a questa questione, per trattarne in seguito un’altra più 

ampia: in qual senso vi soro in generale « verità oggettivamen- 

te valide » sul terreno delle scienze che studiano la vita cultura- 

le? È una questione che, in considerazione del continuo muta- 

re e della lotta accanita che investe anche i problemi apparente- 

mente più elementari della nostra disciplina, il metodo del suo 

lavoro, il modo di formazione dei suoi concetti e la loro validi- 

tà, non può essere evitata. Noi vogliamo quindi non già offrire 

delle soluzioni, ma piuttosto porre in luce dei problemi — quei 

problemi a cui la nostra rivista, per essere giustificata nel suo 

lavoro passato e futuro, dovrà dedicare la propria attenzione. 



Noi tutti sappiamo che la nostra scienza, anzi — con l’ecce- 

zione forse della storia politica — ogni disciplina che abbia 

per oggetto le istituzioni e i processi culturali della vita 

umana, è storicamente sorta in relazione a punti di vista prati- 

ci. Il suo scopo prossimo, e all’inizio anche esclusivo, era quel- 

lo di produrre giudizi di valore su determinati provvedimenti 

politico-economici dello stato. Essa costituiva una « tecnica » al- 

l'incirca nello stesso senso in cui lo sono anche le discipline clini- 

che nell’ambito delle scienze mediche. È noto pure come questa 

posizione sia venuta gradualmente mutando, senza che tuttavia 

fosse realizzata una distinzione di principio tra la conoscenza 

di «ciò che è» e la conoscenza di «ciò che deve essere ». 



558 MAX WEBER 



Contro questa distinzione operava dapprima la convinzione che 

i processi economici siano regolati da leggi di natura immuta- 

bilmente eguali, e in seguito l’altra convinzione che essi dipen- 

dano da un principio di sviluppo univoco; e pertanto si riteneva 

che ciò che deve essere coincidesse 0 con ciò che è immutabil- 

mente, nel primo caso, oppure con ciò che diviene immancabil- 

mente, nel secondo caso. Con il risveglio del senso storico la 

nostra scienza fu dominata da una combinazione di evoluzioni- 

smo etico e di relativismo storico, la quale tentava di spogliare 

le norme etiche del loro carattere formale, di determinarle nel 

contenuto mediante l’incorporazione dell'insieme dei valori cul- 

turali nell’ambito della sfera «etica», e di elevare perciò l’eco- 

nomia politica alla dignità di una « scienza etica » su fondamen- 

to empirico. Dal momento in cui si contrassegnava l’insieme di 

tutti gli ideali culturali possibili con l'impronta della sfera «eti- 

ca», svaniva però la dignità specifica degli imperativi etici, 

senza acquisire d’altra parte nulla per l’«oggettività» di que- 

gli ideali. Per il momento noi possiamo e dobbiamo lasciar qui 

da parte una confutazione di principio di tale posizione; e ci 

soffermeremo semplicemente a osservare che anche oggi non è 

scomparsa l'opinione inesatta — comune ovviamente soprattut- 

to ai pratici — che l'economia politica produca e debba produr- 

re giudizi di valore, derivandoli da una specifica « intuizione 

economica del mondo ». 



La nostra rivista, in quanto rappresentante di una disciplina 

empirica, deve respingere in maniera fondamentale questa posi- 

zione — come vogliamo mostrare fin dall’inizio — poiché sia- 

mo convinti che non può mai essere compito di una scienza 

empirica quello di formulare norme vincolanti e ideali, per 

derivarne direttive per la prassi. 


Che cosa discende però da questa proposizione? Non ne 

discende in nessun modo che i giudizi di valore, in quanto essi 

si basano in ultima istanza su determinati ideali e sono perciò 

di origine « soggettiva », siano sottratti alla discussione scientifi- 

ca in genere. La prassi e lo scopo della nostra rivista avrebbe 

sempre smentito un principio siffatto. La critica non si arresta 

di fronte ai giudizi di valore. La questione è piuttosto la se- 

guente: che cosa significa e a che cosa tende una critica scienti- 



MAX WEBER 559 



fica di ideali e di giudizi di valore? Essa richiede una considera- 

zione alquanto approfondita. 


Ogni riflessione pensante sugli elementi ultimi di un agire 

umano fornito di senso è vincolata anzitutto alle categorie di 

« scopo » e di « mezzo ». Noi vogliamo qualcosa, in concreto, o 

« per il suo proprio valore» oppure come mezzo al servizio di 

ciò che si vuole in ultima analisi. Alla considerazione scientifi- 

ca è quindi accessibile in primo luogo, incondizionatamente, la 

questione dell’appropriatezza dei mezzi in vista di un dato 

scopo. In quanto noi (entro i limiti del nostro sapere) possia- 

mo validamente stabilire quali mezzi sono appropriati o non 

appropriati per raggiungere uno scopo prospettato, possiamo 

per questa strada misurare le possibilità di conseguire con deter- 

minati mezzi a disposizione uno scopo determinato, e quindi 

criticare indirettamente la stessa determinazione di tale scopo, 

in base alla situazione storica presente, come praticamente for- 

nita di senso oppure come priva di senso in base alla configura- 

zione dei rapporti esistenti. Noi possiamo inoltre, se sembra 

data la possibilità di raggiungere uno scopo prospettato, stabili- 

re — naturalmente sempre entro i limiti del nostro sapere — le 

conseguenze che avrebbe l’impiego dei mezzi richiesti accanto 

all'eventuale conseguimento dello scopo prefisso, sulla base del- 

la connessione complessiva di ogni accadere. Noi offriamo in 

tale maniera a colui che agisce la possibilità di misurare tra 

loro le conseguenze non volute e quelle volute del suo agire, e 

perciò la risposta alla questione: che cosa « costa » il consegui- 

mento dello scopo voluto, in forma di pregiudizio prevedibil- 

mente recato ad altri valori? Dal momento che, nella grande 

maggioranza dei casi, ogni scopo al quale si tende «costa » 

oppure può costare qualcosa, l’auto-riflessione di uomini che 

agiscano in modo responsabile non può prescindere dalla reci- 

proca misurazione dello scopo e delle conseguenze dell’agire; 

e renderla possibile è infatti una delle funzioni essenziali della 

critica tecnica, quale noi l'abbiamo finora considerata. Tradur- 

re quella misurazione in una decisione nor è certo più un 

possibile compito della scienza, ma è compito dell’uomo che 

vuole: egli misura e sceglie tra i valori in questione secondo la 

propria coscienza e secondo la sua personale concezione del 

mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che ogri agire, 



560 MAX WEBER 



e naturalmente anche (secondo le circostanze) il zon-agire, si- 

gnifica nelle suc conseguenze una presa di posizione in favore 

di determinati valori, e perciò — cosa che oggi viene così 

volentieri dimenticata — di regola contro altri. Compiere la 

scelta è però cosa sua. 


Ciò che noi possiamo ancora offrirgli per questa decisione è 

la conoscenza del significato di ciò che viene voluto. Noi possia- 

mo insegnargli a conoscere nella loro connessione e nel loro 

significato gli scopi che egli vuole, e tra cui sceglie, rendendo 

esplicite e sviluppando in maniera logicamente coerente le «i- 

dee » che stanno, o che possono stare, a base dello scopo concre- 

to. Infatti è evidentemente uno dei compiti essenziali di ogni 

scienza della vita culturale dell’uomo quello di schiudere alla 

comprensione spirituale queste «idee », per le quali si è lottato 

e si lotta, in parte realmente e in parte apparentemente. Ciò 

non va oltre i limiti di una scienza che tende a un « ordinamen- 

to concettuale della realtà empirica», sebbene i mezzi necessa- 

ri per questa interpretazione dei valori spirituali non costituisca- 

no « induzioni » nel senso comune del termine. Tuttavia questo 

compito cade, almeno parzialmente, al di fuori dell'ambito del- 

la disciplina economica nella sua specializzazione, quale è defi- 

nita in base alla consueta divisione del lavoro scientifico; si 

tratta piuttosto di un compito della filosofia sociale. Solo che la 

forza storica delle idee è stata così predominante per lo svilup- 

po della vita sociale, e lo è tuttora, che la nostra rivista non 

può sottrarsi a tale compito, e deve piuttosto considerarlo nel- 

l'ambito dei suoi doveri più importanti. 


Ma la trattazione scientifica dei giudizi di valore può non 

soltanto farci comprendere e rivivere gli scopi che ci prefiggia- 

mo e gli ideali che stanno alla loro base, ma soprattutto può 

insegnarci anche a «valutarli» criticamente. Questa critica 

può certo avere soltanto un carattere dialettico, cioè può soltan- 

to essere una valutazione logico-formale del materiale che ci è 

offerto dai giudizi di valore e dalle idee storicamente date, e 

quindi un esame degli ideali in base al postulato della n0n con- 

traddittorietà interna di ciò che viene voluto. Essa può, propo- 

nendosi questo scopo, condurre colui che agisce volontariamen- 

te a un’auto-riflessione su quegli assiomi ultimi che stanno a 

base del contenuto del suo volere, vale a dire a quei criteri di 



Max Weber intorno al 1916. 



MAX WEBER 561 



valore ultimi da cui egli inconsapevolmente muove o da cui — 

per essere coerente — dovrebbe muovere. Recare alla coscienza 

questi criteri ultimi, che si manifestano nei giudizi concreti di 

valore, è in ogni caso l’ultima cosa che essa può compiere, 

senza penetrare nel campo della speculazione. Che il soggetto 

che giudica debba conformarsi a questi criteri ultimi è un suo 

affare personale, e riguarda il suo volere e la sua coscienza, non 

già il sapere empirico. 


Una scienza empirica non può mai insegnare a nessuno ciò 

che egli deve, ma può insegnargli soltanto ciò che egli può 

e — in determinate circostanze — ciò che egli vuole. È 

vero che, entro il campo delle nostre scienze, i vari modi 

personali di concepire il mondo penetrano di continuo anche 

nell’argomentazione scientifica, intorbidandola sempre e condu- 

cendola a considerare in maniera diversa il peso di argomenti 

scientifici, pur sul terreno della determinazione di semplici 

connessioni causali tra i fatti; e che di conseguenza risultano 

diminuite o aumentate, a seconda dei casi, le possibilità degli 

ideali personali, cioè la possibilità di volere qualcosa di determi- 

nato. Anche gli editori e i collaboratori della nostra rivista 

ritengono sotto questo rispetto che in verità « nulla di umano 

sia loro alieno ». Ma molto intercorre tra questa confessione di 

debolezza umana e la fede in una scienza «etica » dell’econo- 

mia politica, che dovrebbe dalla propria materia produrre degli 

ideali, oppure dar luogo a norme concrete mediante l’applica- 

zione di imperativi etici universali a tale materia. — Ed è 

anche vero che proprio quegli elementi intimi della personalità, 

i supremi e ultimi giudizi di valore che determinano il nostro 

agire e che dànno senso e significato alla nostra vita, sono da 

noi avvertiti come qualcosa di « oggeztivamente » valido. Noi 

possiamo rappresentarceli soltanto se essi si presentano a noi 

come validi, come derivanti dai nostri supremi valori, e se 

quindi essi sono così sviluppati, nella lotta contro le resistenze 

della vita. E certamente la dignità della « personalità » consiste 

tutta nel fatto che per essa vi sono valori a cui riferisce la 

propria vita: anche se nel caso singolo questi valori sussistono 

esclusivamente entro la sfera della propria individualità, tutta- 

via l’«estrinsecarsi» in quelli dei suoi interessi, per i quali 

reclama la validità dei valori, diventa l’idea alla quale essa si 



36. STORICISMO TEDESCO. 



562 MAX WEBER 



riferisce. Soltanto in base al presupposto della fede nei valori 

ha senso, in ogni caso, il tentativo di formulare giudizi di 

valore. Giudicare la validità di tali valori è però una questione 

di fede, ed è inoltre forse un compito della considerazione 

speculativa e dell’interpretazione della vita e del mondo nel 

loro senso, ma non è sicuramente oggetto di una scienza empiri- 

ca nel significato adottato in queste pagine. Per questa distin- 

zione non ha rilievo decisivo — come spesso si ritiene — il 

fatto empiricamente determinabile che quei fini ultimi sono 

storicamente mutevoli e contestati. Infatti anche la conoscenza 

dei princìpi più sicuri del nostro sapere teorico — anche del 

sapere delle scienze naturali esatte o della matematica — è in 

primo luogo prodotto della cultura, nello stesso modo in cui lo 

sono la sensibilità e il raffinamento della coscienza. Soltanto 

quando riflettiamo in maniera specifica sui problemi pratici della 

politica economica e sociale (nel senso consueto del termine), 

risulta chiaro che vi sono numerose, anzi innumerevoli questio 

ni particolari di carattere pratico, per la cui discussione si 

muove, in generale accordo, da certi scopi assunti come di per 

sé evidenti — sì pensi per esempio ai crediti in caso di necessi- 

tà, ai compiti concreti dell’igiene sociale, all’assistenza dei pove- 

ri, a provvedimenti come le ispezioni di fabbriche, i tribunali 

del lavoro, gli uffici di collocamento, cioè a gran parte della 

legislazione protettiva dei lavoratori — e che di questi scopi si 

discute, almeno in apparenza, solo in riferimento ai mezzi 

adatti per conseguirli. Ma anche se si scambiasse qui l’apparen- 

za dell’auto-evidenza con la verità — ciò che la scienza non 

potrebbe mai fare impunemente — e se si volessero conside- 

rare i conflitti, entro i quali subito conduce il tentativo della 

realizzazione pratica, come questioni puramente pratiche di 

opportunità — il che sarebbe molto spesso erroneo — dovrem- 

mo tuttavia osservare che anche questa apparenza di auto-evi- 

denza dei criteri regolativi di valore svanisce appena procedia- 

mo dai problemi concreti dei servizi assistenziali alle questioni 

della politica economica e sociale. Il contrassegno del carattere 

politico-sociale di un problema consiste precisamente nel fatto 

che esso non può venir sbrigato sulla base di considerazioni 

meramente tecniche che facciano riferimento a scopi stabiliti, e 





che si può, anzi si è costretti a disputare intorno agli stessi 



MAX WEBER 563 



criteri regolativi di valore, dal momento che il problema rien- 

tra nella regione delle questioni culturali di portata genera- 

le. E la disputa si svolge non soltanto, come oggi così volentie- 

ri si crede, tra «interessi di classe», ma anche tra intuizioni 

del mondo — e con ciò tuttavia rimane naturalmente vero che 

l'adesione dell'individuo a una certa intuizione del mondo è 

decisa anche, oltre che da vari altri elementi, e di sicuro in 

misura molto elevata, dal grado di affinità che la unisce al suo 

« interesse di classe » (se vogliamo qui accogliere in via provvi- 

soria questo concetto solo apparentemente univoco). Di certo 

c'è, in ogni circostanza, soltanto una cosa, che quanto più « ge- 

nerale » è il problema del quale si tratta, vale a dire quanto 

più esteso è il suo significato culturale, tanto meno esso può 

trovare una risposta univocamente determinata in base al mate- 

riale del sapere empirico, e di conseguenza tanto maggiore 

rilievo hanno gli ultimi assiomi, così personali, della fede e 

delle idee di valore. È semplicemente una ingenuità — sebbene 

essa sia tuttora condivisa talvolta da specialisti — ritenere possi- 

bile di stabilire in primo luogo per la scienza sociale pratica 

«un principio » e di trovare una conferma scientifica della sua 

validità, per dedurne quindi in maniera univoca le norme per 

la soluzione dei problemi pratici particolari. Per quanto le di- 

scussioni « di principio » di problemi pratici, condotte per ripor- 

tare i giudizi di valore che si impongono in maniera irriflessa 

al loro contenuto di idee, siano indispensabili nella scienza 

sociale, e per quanto la nostra rivista intenda dedicarsi in ma- 

niera particolare anche ad esse, non può tuttavia essere suo 

compito — come non può essere il compito di nessuna scienza 

empirica in genere — la creazione di un denominatore comune 

di portata pratica per i nostri problemi, in forma di ideali 

ultimi universalmente validi; esso sarebbe non soltanto di fatto 

insolubile, ma anche in sé privo di senso. E quale che sia l’inter- 

pretazione del fondamento e del modo di obbligatorietà degli 

imperativi etici, è però certo che da essi, in quanto costituisco- 

no norme per l’agire concretamente condizionato dell’;divi- 

duo, non si possono dedurre in maniera univoca dei contenuti 

di cultura che debbano essere accolti, e che anzi ciò è tanto 

meno possibile quanto più comprensivi sono i contenuti in que- 

stione. Soltanto le religioni positive — o più precisamente le 



564 MAX WEBER 



sette legate da un vincolo dogmatico — possono attribuire al 

contenuto dei valori culturali la dignità di comandi etici incon- 

dizionatamente validi. Al di fuori di esse gli ideali culturali, 

che l’individuo rsole realizzare, e i doveri etici, che egli deve 

compiere, sono di dignità fondamentalmente differente. Il desti- 

no di un’epoca di cultura che ha mangiato dall’albero della 

conoscenza è quello di sapere che noi non possiamo cogliere il 

senso dell’accadere cosmico in base al risultato della sua investi- 

gazione, per quanto perfettamente accertato esso sia, ma che 

dobbiamo essere in grado di crearlo, e che di conseguenza le 

«intuizioni del mondo » non possono mai essere prodotto del 

sapere empirico nel suo progredire, mentre gli ideali supremi, 

che ci muovono nella maniera più potente, agiscono in tutte le 

età solo nella lotta con altri ideali, che ad altri sono sacri come 

a noi i nostri. 


Soltanto un sincretismo ottimistico, quale risulta talvolta 

prodotto dal relativismo storico-evolutivo, può illudersi teorica- 

mente sull’estrema gravità di questo stato di cose oppure sot- 

trarsi praticamente alle sue conseguenze. È ovvio che nel caso 

singolo può essere soggettivamente doveroso per il politico pra- 

tico cercare una mediazione tra le antitesi di opinioni esistenti, 

proprio come può esserlo prendere partito per una di esse. Ma 

ciò non ha proprio nulla a che fare con l’« oggettività » scienti- 

fica. La «linea di mezzo» non è verità scientifica in nessun 

modo più di quanto lo siano gli estremi ideali di parte, di 

destra oppure di sinistra. Mai l’interesse della scienza è alla 

lunga così mal garantito come le volte in cui non si vuole 

guardare in faccia i fatti scomodi e le realtà della vita nella 

loro durezza. L°« Archivio» combatterà senza sosta la grave 

auto-illusione che si possano ottenere norme pratiche di vali- 

dità scientifica attraverso la sintesi di diversi punti di vista, 

oppure in base a una diagonale tracciata tra di loro, in quanto 

essa — amando rivestire relativisticamente i propri criteri di 

valore — è molto più pericolosa per una ricerca impregiudicata 

di quanto non lo sia la vecchia ingenua fede dei diversi partiti 

nella « dimostrabilità » scientifica dei propri dogmi. La capaci- 

tà di realizzare la distinzione tra il conoscere e il valutare, cioè 

tra l'adempimento del dovere scientifico di vedere la realtà dei 

fatti e l'adempimento del dovere pratico di difendere i propri 



MAX WEBER 565 



ideali — questo è il principio al quale dobbiamo attenerci più 

saldamente. 


In ogni epoca c’è e rimarrà sempre — questo è ciò che ci 

interessa — una differenza insormontabile tra un’argomentazio- 

ne la quale si diriga al nostro sentimento e alla nostra capacità 

di entusiasmarci per fini pratici concreti o per forme e contenu- 

ti culturali, oppure anche alla nostra coscienza — nel caso in 

cui sia in questione la validità di norme etiche — e un’argo- 

mentazione la quale si rivolga invece alla nostra capacità e al 

nostro bisogno di ordinare concettualmente la realtà empirica, 

in maniera da pretendere una validità di verità empirica. E 

questa proposizione rimane corretta nonostante che quei « valo- 

ri» supremi che stanno a base dell’interesse pratico siano e 

restino sempre di decisiva importanza, come si porrà ancora in 

luce, per la direzione che l’attività ordinatrice del pensiero 

assume ogni volta nel campo delle scienze della cultura. È e 

resta vero, infatti, che una dimostrazione scientifica metodica- 

mente corretta nel campo delle scienze sociali deve essere rico- 

nosciuta come giusta, allorché essa abbia realmente conseguito 

il proprio scopo, anche da un Cinese. Il che vuol dire, più 

precisamente, che essa deve in ogni caso aspirare a questo fine, 

benché forse non pienamente attuabile per l’insufficienza del 

materiale, e che l’analisi logica di un ideale, considerato nel 

suo contenuto e nei suoi assiomi ultimi, nonché l’indicazione 

delle conseguenze che logicamente e praticamente derivano dal- 

la sua realizzazione, deve essere valida per chiunque, anche 

per un Cinese, una volta posto che sia riuscita. E ciò mentre a 

lui può mancare la « sensibilità » per i nostri imperativi etici, 

e mentre egli può respingere e certo respingerà spesso quell’idea- 

le e le valutazioni concrete che ne discendono, senza tere 

in tal modo il valore scientifico dell’analisi concettuale. 

sicuro la nostra rivista non ignorerà i tentativi, che i. e 

inevitabilmente si ripetono, di determinare in maniera univoca 

il sezso della vita culturale. Al contrario, essi appartengono ai 

prodotti più importanti di questa vita culturale, e in determina- 

te circostanze anche alle sue più potenti forze direttive. Perciò 

noi seguiremo sempre con cura il corso delle discussioni di 

« filosofia sociale» in questo senso. Anzi, noi siamo quanto 

mai alieni dal pregiudizio che le considerazioni della vita cultu- 



566 MAX WEBER 



rale, le quali tentano di pervenire a interpretare metafisicamen- 

te il mondo, procedendo oltre l’ordinamento concettuale del 

dato empirico, non possano per questo loro carattere adempie- 

re alcun compito in servizio della conoscenza. In che cosa 

consista questo compito è certo un problema in primo luogo di 

teoria della conoscenza, la cui soluzione deve, e può anche, 

essere qui messa in disparte per ciò che concerne i nostri scopi. 

Poiché una cosa dobbiamo stabilire per il nostro lavoro: che 

una rivista di scienza sociale nel senso da noi illustrato, in 

quanto essa aspira al carattere di scienza, deve essere una sede 

nella quale si cerca la verità, e una verità tale — per rimanere 

all'esempio — che esiga anche per il Cinese la validità propria 

di un ordinamento concettuale della realtà empirica. 



Certamente gli editori non possono proibire una volta per 

sempre, a se stessi e ai collaboratori, di esprimere i propri 

ideali anche in forma di giudizi di valore. Solo che da ciò 

scaturiscono due importanti doveri. In primo luogo, viene il 

dovere di rendere ben consapevole in ogni momento il lettore e 

se stesso dei criteri a cui viene commisurata la realtà e da cui è 

derivato il giudizio di valore, invece di illudersi, come troppo 

spesso accade, intorno ai conflitti tra gli ideali, mediante un’im- 

precisa congiunzione di valori di diverso tipo, e di volere « of- 

frire qualcosa a ognuno ». Se questo dovere viene rigorosamen- 

te osservato, la presa di posizione valutativa di carattere pratico 

può risultare non soltanto innocua, ma anche direttamente uti- 

le nel puro interesse scientifico; poiché nella critica scientifica 

delle proposte legislative, nonché di altre proposte pratiche, la 

chiarificazione dei motivi del legislatore e degli ideali dell’auto- 

re criticato non può venir compiuta in tutta la sua portata, in 

forma intelligibile, se non mediante il confronto dei criteri di 

valore che sono alla loro base con altri, e naturalmente anche, 

in primo luogo, con i propri. Ogni valutazione fornita di senso 

del volere di un altro può essere soltanto una critica condotta 

in base alla propria intuizione del mondo, cioè una lotta contro 

l'ideale altrui sulla base di un proprio ideale. Se nel caso parti- 

colare l’assioma valutativo ultimo, che sta a fondamento di un 

volere pratico, deve essere non soltanto determinato e analizza- 

to scientificamente, ma anche illustrato nelle sue relazioni con 



MAX WEBER 567 



altri assiomi valutativi, rimane inevitabile una critica « positi- 

va» per mezzo di un “esposizione sistematica di questi ultimi. 


Nelle pagine di questa rivista, specialmente in occasione 

della discussione di leggi, si tratterà inevitabilmente, oltre che 

di scienza sociale — e cioè dell’ordinamento concettuale dei 

fatti — anche di politica sociale — e cioè della rappresentazio- 

ne di ideali. Ma noi non pensiamo di presentare siffatte discus- 

sioni polemiche come « scienza », € ci guarderemo con tutte le 

nostre forze dal mescolare e scambiare le due cose. Non è più 

allora la scienza che parla; e infatti la seconda fondamentale 

prescrizione di un discorso scientifico impregiudicato è di illu- 

strare con chiarezza in tali casi al lettore (e, lo ripetiamo, in 

primo luogo di chiarire a se stesso) che, e dove, finisce il 

ricercatore con la sua opera di pensiero e dove comincia a 

parlare l’uomo che vuole, dove gli argomenti concernono l’in- 

telletto e dove si dirigono invece al sentimento. La continua 

mescolanza della discussione scientifica dei fatti e del ragiona- 

mento valutativo è una delle caratteristiche ancora più diffuse, 

ma anche più dannose, dei lavori della nostra disciplina. E le 

considerazioni precedenti si dirigono appunto contro questa me- 

scolanza, non già contro l'enunciazione dei propri ideali. L’in- 

differenza e l’« oggettività » scientifica non posseggono nessuna 

affinità interna. L’« Archivio » non è mai stato, e non deve 

neppur diventare — almeno secondo la sua intenzione — un 

luogo nel quale si conduca una polemica contro determinati 

partiti politici o politico-sociali, e tanto meno una sede in 

cui si faccia opera di proselitismo a favore di, oppure in opposi- 

zione a ideali politici o politico- sociali; per tale scopo sussistono 

altri organi. Il carattere proprio della rivista è stato fin dall’ini- 

zio, e dovrà essere anche in futuro, per quanto dipende dagli edi- 

tori, quello di riunire insieme nel lavoro scientifico i più aspri av- 

versari politici. Essa non è stata finora un organo « socialista » e 

non diventerà in avvenire un organo «borghese». Essa non 

esclude dalla propria cerchia di collaboratori nessuna persona 

che voglia porsi sul terreno della discussione scientifica. Essa 

non può costituire un’arena di « risposte », repliche e contro-re- 

pliche, ma d’altra parte non può evitare a chiunque, neppure ai 

suoi collaboratori e tanto meno ai suoi editori, di essere sogget- 

ti nelle proprie pagine alla più severa critica scientifica. Chiun- 



568 MAX WEBER 



que non possa sopportare ciò, o che ritenga di non poter colla- 

borare, neppure al servizio della conoscenza scientifica, con gen- 

te che lavora per ideali diversi dai suoi, può rimanere lontano 

dalla rivista. 


Certo con questa ultima proposizione — non vogliamo illu- 

derci in proposito — si è però detto praticamente molto di più 

di quanto non appaia ad un primo sguardo. In primo luogo, 

come si è già accennato, la possibilità di incontrarsi con avversa- 

ri politici su un terreno neutrale — sociale o ideale — ha 

purtroppo, in base a ciò che risulta empiricamente, i suoi limi- 

ti psicologici dovunque, e in particolare nella situazione tede- 

sca. Degno di essere combattuto senz’altro di per sé come segno 

di una ristrettezza mentale basata sul fanatismo e di una cultu- 

ra politica arretrata, questo ostacolo viene accresciuto in misu- 

ra considerevole, nel caso di una rivista come la nostra, dalla 

circostanza che nel campo delle scienze sociali l'impulso a consi- 

derare i problemi scientifici è dato di regola da « questioni » 

pratiche, di modo che il puro riconoscimento della sussistenza 

di un problema scientifico sta in unione personale con il volere 

di uomini viventi, diretto a un determinato scopo. Nelle colon- 

ne di una rivista, la quale viene in vita sotto l'influenza dell’in- 

teresse generale per un problema concreto, si troveranno perciò 

di regola insieme, come collaboratori, uomini che dedicano a 

tale problema il loro interesse personale, in quanto ad essi 

sembra che determinate situazioni concrete siano in contraddi- 

zione con valori ideali a cui credono, e che quei valori siano in 

pericolo. E quindi un’affinità elettiva di ideali siffatti unirà la cer- 

chia dei collaboratori e consentirà di reclutarne degli altri, di mo- 

do che essa acquisterà almeno nella trattazione dei problemi poli- 

tico-sociali di portata pratica un determinato carattere, quale ine- 

vitabilmente si accompagna a ogni cooperazione di uomini for- 

niti di una viva sensibilità, la cui presa di posizione valutativa di 

fronte ai problemi non è sempre del tutto repressa anche nel puro 

lavoro teoretico, e si esprime pure in maniera del tutto legittima 

— entro l’ambito dei presupposti prima discussi — attraverso la 

critica di proposte e di misure pratiche. L’« Archivio » apparve in 

un periodo nel quale stavano in primo piano, nelle discussioni 

della scienza sociale, determinati problemi pratici costituenti la 

«questione dei lavoratori» nel senso tradizionale della parola. 



MAX WEBER 569 



Quelle personalità per cui i supremi e decisivi ideali valutativi si 

congiungevano ai problemi che esso intendeva trattare, e che per- 

tanto divennero i suoi più consueti collaboratori, furono pro- 

prio per questo anche rappresentanti di una concezione cultura- 

le atteggiata in maniera identica o simile in base a quelle idee 

di valore. Ognuno sa pertanto che, sebbene la rivista abbia 

decisamente rifiutato di seguire una « tendenza » mediante l’e- 

splicita limitazione alle discussioni «scientifiche » e mediante 

l’esplicito invito agli «appartenenti a ogni settore politico », 

essa tuttavia ha posseduto sicuramente un «carattere » nel sen- 

so che si è detto. Esso fu creato in base alla cerchia dei suoi 

collaboratori regolari. Furono in generale uomini che, nono- 

stante ogni altra divergenza di opinioni, ritenevano proprio 

fine quello di proteggere la salute fisica delle masse dei lavora- 

tori e di rendere loro possibile una crescente partecipazione ai 

beni materiali e spirituali della nostra cultura; uomini che con- 

sideravano come mezzo in vista di tale fine la connessione 

dell'intervento statale nella sfera degli interessi materiali con il 

libero sviluppo ulteriore dell'ordinamento esistente dello stato e 

del diritto, e che — quale potesse essere la loro opinione sulla 

formazione dell'ordinamento della società nel remoto futuro — 

sostenevano per il presente lo sviluppo capitalistico, non già 

perché questo sembrasse loro la migliore nei confronti delle più 

vecchie forme di organizzazione sociale, ma perché esso pareva 

praticamente inevitabile, e d’altra parte il tentativo di una lotta 

a fondo contro di esso risultava non tanto un vantaggio quanto 

un ostacolo per il progredire della classe operaia verso la luce 

della cultura. Nelle condizioni oggi esistenti in Germania — 

che non hanno qui bisogno di un'ulteriore chiarificazione — 

questo non era, e non sarebbe neppure oggi, da evitare. Anzi, 

ciò giovò senz'altro alla partecipazione di tutte le parti alla 

discussione scientifica, e costituì per la rivista un elemento di 

forza, e forse anche — data la situazione — uno dei titoli che 

ne giustificavano l’esistenza. 


È fuor di dubbio che lo sviluppo di un «carattere» in 

questo senso può, e anzi dovrebbe per forza significare, in 

una rivista scientifica, un pericolo per un lavoro scientifico im- 

pregiudicato, nel caso in cui la scelta dei collaboratori sia stata 

di proposito unilaterale: in questo caso l'adozione di quel « ca- 



570 MAX WEBER 



rattere » varrebbe praticamente come la presenza di una « ten- 

denza ». Gli editori sono pienamente consapevoli della responsa- 

bilità che questa situazione impone loro. Essi non si propongo- 

no né di mutare di proposito il carattere dell’« Archivio », né 

di conservarlo artificiosamente mediante un’accurata limitazio- 

ne della cerchia dei collaboratori agli studiosi che abbiano deter- 

minate convinzioni politiche. Essi lo accettano come dato, e 

confidano nel suo ulteriore « sviluppo ». Come esso si configure- 

rà in futuro, e come forse si trasformerà per l'inevitabile amplia- 

mento della nostra cerchia di collaboratori, dipenderà in primo 

luogo dal carattere di quelle personalità che entreranno in tale 

ambito con l’intenzione di servire il lavoro scientifico, e che 

diverranno o rimarranno di casa sulle colonne della rivista. E 

ciò sarà ulteriormente condizionato dall’estensione dei proble- 

mi, al cui avanzamento la rivista si propone di tendere. 


Con questa osservazione noi perveniamo alla questione, fino- 

ra non ancora discussa, della delimitazione di contenuto del 

nostro campo di lavoro. Ma ad essa non si può fornire una 

risposta senza prendere in esame anche la questione della natu- 

ra del fine conoscitivo della scienza sociale in genere. Noi 

abbiamo presupposto, distinguendo in linea di principio « giudi- 

zi di valore» e « sapere empirico », che vi sia di fatto un tipo 

incondizionatamente valido di conoscenza, cioè di ordinamento 

concettuale della realtà empirica, nel campo delle scienze socia- 

li. Questa assunzione diventa però ora un problema, dal mo- 

mento che noi dobbiamo discutere che cosa può significare nel 

nostro campo la «validità» oggettiva della verità alla quale 

tendiamo. Che il problema sussista come tale, e che non venga 

qui creato in maniera sofisticata, non può sfuggire a nessuno 

che assista alla lotta di metodi, « concetti fondamentali » e pre- 

supposti, al continuo mutamento dei « punti di vista» e alla 

continua rielaborazione dei concetti che vengono impiegati, e 

che constati come la considerazione teorica e la considerazione 

storica siano ancor sempre divise da un abisso apparentemente 

insuperabile — quasi a costituire, come si lagnava a suo tempo 

con tono lamentoso un disperato esaminando viennese, « due 

economie politiche ». Che cosa vuol qui dire oggettività? Sem- 

plicemente questa questione vogliono affrontare le considerazio- 

ni seguenti. 



MAX WEBER 571 



II 



Fin dall’inizio questa rivista ha considerato gli oggetti dei 

quali si occupava come oggetti ecozomico-sociali. Per quanto 

abbia poco senso anticipare qui determinazioni concettuali e 

delimitazioni di discipline scientifiche, dobbiamo tuttavia por- 

re brevemente in chiaro che cosa ciò significhi. 


Che la nostra esistenza fisica, al pari del soddisfacimento 

dei nostri più alti bisogni ideali, urti sempre contro la limitazio- 

ne quantitativa e l’insufficienza qualitativa dei mezzi esterni 

che occorrono a tale scopo, e che per tale soddisfacimento vi 

sia appunto bisogno di una previdenza organizzata e del lavo- 

ro, della lotta contro la natura e dell’associazione con gli uomi- 

ni, questo è — espresso in forma molto imprecisa — il fatto 

fondamentale al quale si riferiscono tutti quei fenomeni che 

noi indichiamo nel senso più ampio come « economico-sociali ». 

La qualità di un processo, che lo rende un fenomeno « economi- 

co-sociale », non è qualcosa che inerisca ad esso in quanto tale, 

« oggettivamente ». Essa è piuttosto condizionata dalla direzio- 

ne del nostro interesse conoscitivo, quale risulta dallo specifico 

significato culturale che attribuiamo nel caso singolo al proces- 

so in questione. Ogni qual volta un processo della vita cultura- 

le, considerato in quegli aspetti della sua particolarità in cui 

risiede il suo significato specifico per noi, è ancorato in manie- 

ra diretta — o anche in maniera mediata — a tale situazio- 

ne, esso contiene, oppure può per lo meno contenere, nella 

misura in cui ciò ha luogo, un problema di scienza sociale, 

vale a dire un compito per una disciplina che si propone per 

oggetto la chiarificazione della portata di quella situazione fon- 

damentale. 


Noi possiamo, entro l'ambito dei problemi economico-socia- 

li, distinguere processi e complessi di norme, istituzioni ecc., il 

cui significato culturale consiste per noi essenzialmente nel loro 

aspetto economico, e che ci interessano in primo luogo — come 

per esempio i processi della vita delle borse e delle banche — 

soltanto da questo punto di vista. Ciò avverrà di regola (anche 

se non esclusivamente) quando si venga a trattare di istituzioni 

le quali siano state create o siano utilizzate consapevolmente 



572 MAX WEBER 



per scopi economici. Noi possiamo chiamare questi oggetti del 

nostro conoscere con il nome di processi oppure di istituzioni 

« economiche ». Ad essi se ne aggiungono altri — come per 

esempio i processi della vita religiosa — che non ci inte- 

ressano, oppure sicuramente non ci interessano in primo luo- 

go, dal punto di vista del loro significato economico e in virtù 

di questo, ma che tuttavia in certe circostanze acquistano signi- 

ficato da questo punto di vista, poiché ne derivano effetti che ci 

interessano sotto il punto di vista economico: essi sono fenome- 

ni «economicamente rilevanti». Infine, tra i fenomeni che 

non sono economici nel nostro senso, ve ne sono alcuni i cui 

effetti economici non presentano per noi nessun interesse, o 

almeno non un interesse considerevole — come per esempio 

l'orientamento del gusto artistico di un'epoca — ma che sono 

da parte loro inffuenzati in misura più o meno forte, nel caso 

specifico, in certi aspetti importanti della loro fisionomia, da 

motivi economici, per esempio dal tipo di organizzazione socia- 

le del pubblico che si interessa all’arte: essi sono fenomeni 

condizionati economicamente. Quel complesso di relazioni uma- 

ne, di norme e di rapporti determinati normativamente, che 

noi chiamiamo lo « stato », è per esempio un fenomeno « econo- 

mico » per ciò che riguarda la sua economia finanziaria; è un 

fenomeno «economicamente rilevante » in quanto agisce, per 

via legislativa o altrimenti, sulla vita economica (anche quan- 

do punti di vista assai diversi da quelli economici determi- 

nano consapevolmente il suo atteggiamento); ed è infine un 

fenomeno «condizionato economicamente » in quanto il suo 

atteggiamento e il suo carattere sono condeterminati, anche in 

relazioni che non siano « economiche », da motivi economici. È 

implicito in ciò che si è detto che da una parte l’ambito dei 

fenomeni « economici » è fluido, e non delimitabile in maniera 

precisa, e che d’altra parte naturalmente gli aspetti « economi- 

ci» di un fenomeno non sono mai soltanto «condizionati eco- 

nomicamente » oppure soltanto « economicamente operanti », € 

che in genere un fenomeno mantiene la qualità di fenome- 

no «economico» in quanto, e solamente per il periodo in 

cui il nostro interesse si dirige esclusivamente al significato che 

esso possiede per la lotta materiale per l’esistenza. 


La nostra rivista — come del resto anche la scienza economi- 



MAX WEBER 573 



co-sociale a partire da Marx e da Roscher? — si è occupata 

non soltanto di fenomeni «economici », ma anche di fenomeni 

«economicamente rilevanti » e di fenomeni « condizionati eco- 

nomicamente ». L'ambito di siffatti oggetti si estende natural- 

mente — in maniera fluida, in quanto è legato al diverso 

orientamento del nostro interesse — attraverso l’insieme di 

tutti i processi culturali. Motivi specificamente economici — 

cioè motivi che sono ancorati, nella loro fisionomia per noi 

significativa, a quel fatto fondamentale — operano sempre là 

dove il soddisfacimento di un bisogno, per quanto immateriale 

esso sia, è legato all'impiego di mezzi esterni limitati. Il loro 

peso ha pertanto condeterminato e trasformato ovunque non 

soltanto la forma del soddisfacimento, ma anche il contenuto 

dei bisogni culturali perfino di tipo interiore. L’influenza indi- 

retta di relazioni sociali, di istituzioni, di raggruppamenti 

umani che stanno sotto la pressione di interessi « materiali» si 

estende (spesso inconsapevolmente) a tutti i campi della cultura 

senza eccezione, raggiungendo perfino le più sottili sfumature 

del sentimento estetico e religioso. I processi della vita quotidia- 

na non meno degli avvenimenti «storici » dell’alta politica, i 

fenomeni collettivi e di massa al pari delle azioni « singolari » 

di uomini di stato o dei prodotti letterari e artistici di origine 

individuale subiscono questa influenza — e sono così « condizio- 

nati economicamente ». D'altra parte l’insieme di tutti i feno- 

meni e di tutte le condizioni di vita di una cultura storicamen- 

te data opera sulla formazione dei bisogni materiali, sul modo 

del loro soddisfacimento, sulla formazione dei gruppi di interes- 

si e sul tipo dei loro strumenti di potere, e perciò sul modo in 

cui si svolge lo «sviluppo economico» — esso diventa cioè 

« economicamente rilevante ». In quanto la nostra scienza impu- 

ta, nel regresso causale, i fenomeni economici a cause individua- 



2. Wilhelm Gcorg Friedrich Roscher (1817-1894), economista tedesco, autore 

del Grundriss zu Vorlesungen tiber die Staatswissenschaft nach geschichtlicher Me- 

thode (1843), del Systeni der Volkswirtschafislehre (1854-94), delle Ansichten der Volks- 

wirtschaft (1861) e di varie altre opere, fu il fondatore della scuola storica di econo- 

mia. Alla critica della sua impostazione è dedicato il primo saggio metodologico di 

Weber, Roscher und Knîes und die logischen Probleme der historischen National- 

okonomie, «Schmollers Jahrbuch fir Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirt- 

schaft », XXVII, 1903, pp. 1181-1221; XXIX, 1905, pp. 1323-84; XXX, 1906, 

Pp. 81-120 (ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, pp. 1-145). 



574 MAX WEBER 



li — di carattere economico e non economico — essa mira a 

conseguire una conoscenza « storica ». E in quanto segue ur 

elemento specifico dei fenomeni culturali, quello economico, 

determinandolo nel suo significato culturale attraverso le più 

diverse connessioni di cultura, essa mira a conseguire una inzer- 

pretazione della storia da uno specifico punto di vista, offrendo 

un’immagine parziale, un lavoro preliminare per la piena cono- 

scenza storica della cultura. 


Sebbene un problema economico-sociale non sussista ovun- 

que ha luogo una connessione di elementi economici in quanto 

conseguenza o in quanto causa — poiché esso sorge soltanto 

dove il significato di quei fattori è problematico, e può venir 

determinato con sicurezza solo mediante l’impiego dei metodi 

della scienza economico-sociale — da ciò che si è detto finora 

risulta stabilito l'ambito quasi sconfinato del campo di lavoro 

della considerazione economico-sociale. 


La nostra rivista ha finora di solito rinunciato, in base a 

una ponderata auto-limitazione, alla considerazione di un’inte- 

ra serie di campi particolari molto importanti della disciplina, 

e in modo speciale alla considerazione dell'economia descritti 

va, della storia economica in senso stretto e della statistica. 

Allo stesso modo essa ha lasciato ad altri organi la discussione 

delle questioni tecnico-finanziarie e dei problemi economico-tec- 

nici della formazione del mercato e dei prezzi della moderna 

economia di scambio. Il suo campo di lavoro è costituito dalla 

considerazione del significato odierno e del processo storico di 

certe costellazioni di interessi e di certi conflitti che sono sorti 

in virtù della funzione preminente dell’impiego di un capitale 

in cerca di investimento nell’economia dei paesi moderni. Essa 

non si è quindi limitata ai problemi pratici e storico-evolutivi 

che definiscono la «questione sociale » in senso stretto, cioè 

alle relazioni della moderna classe di lavoratori salariati con 

l'ordinamento sociale esistente. È certo che l’approfondimento 

scientifico dell'interesse che, negli anni dopo l’'80, veniva esten- 

dendosi presso di noi per questa speciale questione, ha rappre- 

sentato dapprima uno dei suoi compiti essenziali. Quanto più 

la considerazione pratica della condizione operaia è diventata 

anche presso di noi oggetto permanente dell’attività legislativa 

e della discussione pubblica, tanto più il centro di gravità del 



MAX WEBER 575 



lavoro scientifico ha dovuto spostarsi verso la determinazione 

delle connessioni di carattere più universale in cui questi proble- 

mi trovavano il proprio posto, sfociando in un'analisi di tuzti i 

problemi culturali creati dalla fisionomia particolare dei fonda- 

menti economici della nostra cultura, e in quanto tali specifica- 

mente moderni. La rivista ha perciò cominciato assai presto a 

trattare storicamente, statisticamente e teoricamente i più diver- 

si rapporti, in parte « condizionati economicamente » e in parte 

« economicamente rilevanti », che si presentano anche nelle al- 

tre grandi classi delle nazioni moderne nelle loro relazioni 

reciproche. Noi traiamo soltanto le conseguenze di questo at- 

teggiamento allorché indichiamo ora come campo di lavoro 

più particolarmente proprio della mostra rivista la ricerca 

scientifica del gezerale significato culturale della struttura eco- 

nomico-sociale della vita della comunità umana e delle sue 

forme storiche di organizzazione. — Questo e non altro abbia- 

mo inteso, chiamando la nostra rivista « Archivio per la 

scienza sociale ». La parola deve comprendere qui la trattazio- 

ne storica e teorica degli stessi problemi la cui soluzione pra- 

tica è oggetto della « politica sociale » nel senso più ampio del 

termine. Noi facciamo perciò uso del diritto di impiegare l’e- 

spressione « sociale » nel suo significato determinato in base ai 

problemi concreti del presente. Se si vuol chiamare « scienze 

della cultura » quelle discipline che considerano i processi del- 

la vita umana dal punto di vista del loro significato culturale, 

la scienza sociale nel nostro senso appartiene a questa categoria. 

Vedremo ora quali conseguenze di principio ne derivano. 

Senza dubbio isolare l’aspetto economico-sociale della vita 

culturale rappresenta una delimitazione assai sensibile del no- 

stro tema. Si dirà che il punto di vista economico o — come lo 

si è imprecisamente definito — « materialistico », in base a cui 

è qui considerata la vita della cultura, è « unilaterale ». Certa- 

mente, e questa unilateralità è intenzionale. La fede che sia 

compito del lavoro scientifico nel suo progredire quello di gua- 

rire la considerazione economica dalla sua « unilateralità », in 

maniera da ampliarla in una scienza sociale generale, è inficia- 

ta anzitutto dal fatto che il punto di vista del « sociale », cioè 

della relazione tra gli uomini, possiede una determinatezza 

sufficiente per la delimitazione dei problemi scientifici solo 



576 MAX WEBER 



quando è accompagnato da qualche predicato specifico che lo 

qualifica nel suo contenuto. Altrimenti esso, in quanto oggetto 

di una scienza, comprenderebbe naturalmente la filologia al 

pari della storia della chiesa, e in modo particolare tutte quelle 

discipline che si occupano del più importante elemento costituti- 

vo di ogni vita culturale, cioè dello stato, e della più importan- 

te forma della sua regolamentazione normativa, cioè del dirit- 

to. Che l’economia sociale prenda in esame delle relazioni « so- 

ciali » non è un buon motivo per pensare che essa precorra una 

« scienza sociale generale », allo stesso modo in cui la circostan- 

za che essa si riferisca a fenomeni della vita o che abbia a che 

fare con processi di un corpo celeste non autorizza a considerar- 

la rispettivamente parte della biologia oppure parte di un’astro- 

nomia artificialmente accresciuta e migliorata. Non già le connes- 

sioni « di fatto » delle « cose », bensì le connessioni concettuali 

dei problemi stanno a base dei campi di lavoro delle scienze: 

dove si procede ad affrontare con un nuovo metodo un nuovo 

problema, e si scoprono in tale maniera verità le quali aprano 

nuovi importanti punti di vista, là sorge una nuova « scienza ». 



Non è un caso che il concetto di « sociale », il quale sembra 

avere un senso così generale, rechi con sé, ogni qual volta lo si 

controlla nel suo impiego, un significato particolare, specifica- 

mente atteggiato, quand’anche di solito indeterminato; l’ele- 

mento «generale» sussiste in esso di fatto soltanto nella sua 

indeterminatezza. Qualora lo si assuma nel suo significato « ge- 

nerale », esso non offre nessun punto di vista specifico dal 

quale illustrare il significato di certi elementi della cultura. 


Liberi ormai dalla fiducia antiquata nella possibilità di de- 

durre la totalità dei fenomeni culturali come prodotto oppure 

come funzione di costellazioni di interessi « materiali », noi 

riteniamo però d'altra parte che l’analisi dei fenomeni sociali e 

dei processi culturali dal punto di vista specifico del loro condi- 

zionamento economico e della loro portata economica sia stata, 

€ possa ancora rimanere in ogni tempo prevedibile, con un’ap- 

plicazione oculata e con libertà da ogni restrizione dogmati- 

ca, un principio scientifico fornito di fecondità creativa. La 

cosiddetta « concezione materialistica della storia » come « intui- 

zione del mondo » 0 come denominatore comune di spiegazio- 



MAX WEBER 577 



ne causale della realtà storica deve essere rifiutata nel modo 

più deciso; invece l’accurato impiego dell’interpretazione econo- 

mica della storia è uno degli scopi essenziali della nostra rivi- 

sta. Ma ciò richiede una più precisa illustrazione. 


La cosiddetta « concezione materialistica della storia », nel 

vecchio senso, genialmente primitivo, che compare per esempio 

nel Manifesto comunista, sopravvive oggi soltanto nella testa 

di persone prive di competenza specifica e di dilettanti. Presso 

questa gente è tuttora diffusa la circostanza che il loro bisogno 

causale di spiegazione di un fenomeno storico non è soddisfatto 

finché non si mostrano (oppure non sembrano essere) in gioco, 

in qualche modo o in qualche luogo, delle cause economiche: 

ma proprio in questo caso essi si accontentano delle ipotesi a 

maglie più larghe e delle formulazioni più generali, in quanto 

il loro bisogno dogmatico è soddisfatto nel ritenere che le « for- 

ze istintive » economiche siano quelle « proprie », le sole « ve- 

re», e anzi «in ultima istanza sempre decisive ». Il fenomeno 

non è però affatto singolare. Quasi tutte le scienze, dalla filolo- 

gia alla biologia, hanno talvolta avanzato la pretesa di dare 

origine non soltanto a un sapere specializzato, ma anche a 

«intuizioni del mondo ». E sotto l'impressione del profondo 

significato culturale delle moderne trasformazioni economiche, 

in particolare della portata predominante della « questione ope- 

raia », l'ineliminabile carattere monistico di ogni forma di cono- 

scere priva di consapevolezza critica nei confronti del proprio 

lavoro condusse naturalmente per questa strada. Lo stesso carat- 

tere viene ora in luce nell’antropologia, mentre si viene svilup- 

pando con crescente asprezza la lotta politica e politico-commer- 

ciale tra le nazioni per il dominio del mondo: è diffusa la fede 

che «in ultima analisi » ogni accadere storico sia una derivazio- 

ne del gioco reciproco di «qualità razziali» innate. In luogo 

di una mera descrizione acritica dei «caratteri dei popoli» è 

subentrata la costruzione ancor più acritica delle proprie « teo- 

rie della società » su fondamento « naturalistico ». Noi seguire- 

mo con cura nella nostra rivista lo sviluppo della ricerca antro- 

pologica, in quanto essa abbia significato per i nostri punti di 

vista. C'è però da sperare che venga gradualmente superata, 

mediante un lavoro metodicamente disciplinato, la situazione 

in cui il ricondurre causalmente i processi culturali alla « raz- 



37. STORICISMO TEDESCO. 



578 MAX WEBER 



za» documenta soltanto il nostro 0n-sapere — proprio come 

avviene nel caso del riferimento ali’« ambiente » 0, prima anco- 

ra, alle « condizioni dell’epoca ». Se qualcosa ha finora danneg- 

giato questa ricerca, è certo la presunzione di alcuni fervidi 

dilettanti di poter fornire per la conoscenza della cultura un 

orientamento specificamente diverso, e superiore, rispetto all’e- 

stensione della possibilità di una sicura imputazione di singoli 

concreti processi culturali della realtà storica a concrete cause 

storicamente date, conseguita mediante un esatto materiale di 

osservazione determinato in base a specifici punti di vista. 

Esclusivamente nella misura in cui possono fornirci questo, i 

loro risultati hanno interesse per noi e qualificano la « biologia 

razziale » come qualcosa di più di un prodotto della moderna 

febbre di fondazione scientifica. 


Non diversamente stanno le cose per quanto riguarda il 

significato dell’interpretazione economica del corso storico. Se 

oggi, dopo un periodo di illimitata sopravvalutazione, incombe 

su di essa il pericolo di essere sottovalutata nella sua capacità 

orientativa per il lavoro scientifico, ciò è Ja conseguenza dell’a- 

criticità senza pari con cui l’interpretazione economica della 

realtà fu impiegata come metodo «universale », nel senso di 

una deduzione di tutti i fenomeni culturali — vale a dire di 

tutto ciò che in essi risulta per noi essenziale — come in ulti- 

ma istanza economicamente condizionati. Oggi la forma logi- 

ca, nella quale essa si presenta, non è del tutto unitaria. Là 

dove si presentano difficoltà per una spiegazione puramente 

economica, vi sono a disposizione diversi mezzi per mantenere 

in piedi la sua validità universale come elemento causale decisi- 

vo. Talvolta si considera tutto ciò che nella realtà storica 707 è 

deducibile da motivi economici come qualcosa che proprio per- 

ciò risulta scientificamente privo di significato, e quindi come 

qualcosa di « accidentale ». Oppure si estende il concetto di ciò 

che è economico fino a renderlo irriconoscibile, in maniera da 

inserire nell'ambito di quel concetto tutti gli interessi umani 

che siano in qualche maniera legati a mezzi esterni. Se è stori- 

camente stabilito che in due situazioni eguali sotto il profilo 

economico si è tuttavia reagito in maniera diversa — per le 

differenze di determinanti politiche e religiose, o climatiche, o 

di innumerevoli altre non economiche — allora si procede a 



MAX WEBER 579 



degradare tutti questi elementi, allo scopo di conservare la su- 

premazia dell'elemento economico, a «condizioni » storiche ac- 

cidentali, dietro Ie quali i motivi economici operano in qualità 

di « cause ». S’intende però che tutti quegli elementi che risulta- 

no «accidentali» per la considerazione economica seguono le 

loro proprie leggi, proprio al pari degli elementi economici, e 

che per una considerazione la quale vada dietro al loro signifi- 

cato specifico le « condizioni » economiche sono « storicamente 

accidentali » nel medesimo senso del rapporto inverso. Un ten- 

tativo prediletto di giustificare, ciò nonostante, l’importanza 

predominante dell'elemento economico, consiste infine nell’in- 

terpretare la costante correlazione e successione dei singoli ele- 

menti della vita culturale nel senso di una dipendenza causale 

o funzionale dell’uno dall’altro, o piuttosto di tutti i rimanenti 

da uno solo, e cioè da quello economico. Dove una determinata 

istituzione 202 economica ha storicamente compiuto anche una 

determinata « funzione» al servizio di interessi economici di 

classe, dove, per esempio, determinate istituzioni religiose si 

lasciano impiegare, e sono impiegate, come « polizia nera », 

l’intera istituzione viene allora presentata o come creata appun- 

to per questa funzione o — in maniera assolutamente metafisi- 

ca — come orientata in base a una «tendenza di sviluppo » 

che muove dall’elemento economico. 


Non c'è più bisogno oggi di illustrare a nessun specialista 

che questa interpretazione dello scopo dell'analisi economica è 

espressione in parte di una determinata costellazione storica, la 

quale indirizzava il proprio interesse scientifico verso determina- 

ti problemi culturali condizionati economicamente, e in parte 

di un rabbioso patriottismo scientifico, e che essa risulta ormai 

per lo meno invecchiata. La riduzione esclusiva a cause econo- 

miche non è in qualsiasi senso esauriente in nessun campo dei 

fenomeni culturali, e neppure in quello dei processi « economi- 

ci». In linea di principio una storia della banca di qualsiasi 

popolo, che volesse per la spiegazione avvalersi soltanto di 

motivi economici, sarebbe naturalmente impossibile nello stesso 

modo in cui lo sarebbe una « spiegazione » della Madonna Sisti- 

na in base ai fondamenti economico-sociali della vita culturale 

dell’epoca in cui è sorta — e non sarebbe, sempre in linea di 

principio, più esaustiva di quanto non potrebbe esserlo per 



580 MAX WEBER 



esempio la derivazione del capitalismo da certe trasformazioni 

di contenuti della coscienza religiosa che hanno cooperato alla 

genesi dello spirito capitalistico, o la derivazione di qualsiasi 

altra formazione politica da condizioni geografiche. In tutti 

questi casi è decisiva, per misurare l’importanza che dobbiamo 

assegnare alle condizioni economiche, la classe di cause alla 

quale devono essere imputati quegli elementi specifici del feno- 

meno in questione, a cui nel caso singolo attribuiamo un sigrifi- 

cato in virtù del quale esso ci interessa. Il diritto dell’analisi 

unilaterale della realtà culturale da «punti di vista» specifici 

— nel nostro caso dal punto di vista del suo condizionamento 

economico — deriva però anzitutto, in linea puramente metodi- 

ca, dalla circostanza che l’educazione della vista a osservare 

l’azione di categorie causali qualitativamente omogenee, e il 

continuo impiego del medesimo apparato metodico-concettuale, 

offrono tutti i vantaggi della divisione del lavoro. Che essa non 

sia troppo arbitraria è provato dal suo risultato, cioè dal fatto 

che fornisce la conoscenza di connessioni le quali si rivelano 

fornite di valore per l'imputazione causale di processi storici 

concreti. Ma l’« unilateralità » e la irrealtà dell’interpretazione 

puramente economica del corso storico è soltanto un caso speci- 

fico di un principo generale che vale per la conoscenza scientifi- 

ca della realtà culturale. Illustrarlo nei suoi fondamenti logi- 

ci e nelle sue conseguenze metodiche generali è lo scopo essen- 

ziale delle discussioni che seguono. 


Non c’è nessuna analisi scientifica puramente « oggettiva » 

della vita culturale o — ciò che forse è più ristretto, ma che 

non significa certo nulla di essenzialmente diverso per il nostro 

scopo — dei « fenomeni sociali », indipendentemente da punti 

di vista specifici e « unilaterali», in base a cui essi sono — 

espressamente o tacitamente, consapevolmente o inconsapevol- 

mente —.scelti come oggetto di ricerca, analizzati e organizza- 

ti nell'esposizione. Il fondamento di ciò sta nel carattere specifi- 

co del fine conoscitivo di ogni lavoro di scienza sociale, che 

voglia procedere oltre una considerazione puramente formale 

delle norme — giuridiche o convenzionali — della coesistenza 

sociale. 


La scienza sociale, quale noi vogliamo promuoverla, è una 

scienza di realtà. Noi vogliamo intendere la realtà della vita 



MAX WEBER 581 



che ci circonda, e in cui noi siamo collocati, nel suo carattere 

proprio — noi vogliamo cioè intendere da un lato la connessio- 

ne e il significato culturale dei suoi fenomeni particolari nella 

loro configurazione presente e dall’altro i motivi del suo essere 

storicamente divenuto così-e-non-altrimenti. Allorché cerchiamo 

di riflettere sul modo in cui essa si presenta immediatamente a 

noi, la vita ci offre una molteplicità, senz’altro infinita, di 

processi che sorgono e scompaiono in un rapporto reciproco di 

successione e di contemporaneità, «in» noi e «al di fuori di» 

noi. E l'assoluta infinità di questa vita molteplice non diminui- 

sce anche quando prendiamo in considerazione un singolo « og- 

getto » isolatamente — per esempio un atto concreto di scam- 

bio — e vogliamo studiarlo con serietà allo scopo di descrivere 

questo oggetto «singolo» esaurientemente in tutti i suoi ele- 

menti individuali, per non parlare poi di coglierlo nel suo 

condizionamento causale. Ogni conoscenza concettuale della 

realtà infinita da parte dello spirito umano finito poggia in- 

fatti sul tacito presupposto che soltanto una parte finita di essa 

debba formare l’oggetto della considerazione scientifica, e per- 

ciò risultare «essenziale » nel senso di essere « degna di venir 

conosciuta ». Ma in conformità a quali princìpi si procede a 

isolare questa parte? Si è ripetutamente creduto di poter trova- 

re anche nelle scienze della cultura il criterio decisivo nel ricor- 

rere « conforme a leggi» di determinate connessioni causali. Il 

contenuto delle «leggi» che noi riusciamo a conoscere nel 

corso sempre molteplice dei fenomeni deve costituire — secon- 

do questa concezione — il solo aspetto scientificamente « essen- 

Ziale » in essi presente: quando abbiamo dimostrata valida sen- 

za eccezione, con i mezzi di una induzione storica complessiva, 

la «legalità » di una connessione causale, oppure quando l’ab- 

biamo recata a un’evidenza intuitiva immediata per l’esperien- 

za interna, allora ogni formula così ritrovata subordina a sé 

qualsiasi numero, per quanto grande si possa pensarlo, di casi 

omogenei. Ciò che della realtà individuale rimane al di fuori di 

questa determinazione dell’aspetto « conforme a leggi» o vale 

come un residuo ancora privo di elaborazione scientifica, che 

dev'essere sottoposto ad analisi attraverso il completamento pro- 

gressivo del sistema «di leggi», oppure rimane da parte come 

qualcosa di « accidentale » e proprio perciò di scientificamente 



582 MAX WEBER 



inessenziale, in quanto esso non è « comprensibile legalmen- 

te», e quindi non appartiene neppure al « tipo » del processo e 

può essere soltanto oggetto di «oziosa curiosità ». Sempre ri- 

compare di conseguenza — anche presso i rappresentanti della 

scuola storica — la convinzione che l’ideale a cui ogni conoscen- 

za, e quindi pure la conoscenza della cultura, tende e può 

tendere, anche se in un lontano futuro, sia un sistema di 

proposizioni teoriche, da cui possa venir « dedotta» la realtà. 

Un rappresentante eminente della scienza naturale ha ritenuto, 

com’è noto, di poter indicare come fine ideale (di fatto non 

attuabile) di una siffatta elaborazione della realtà culturale una 

conoscenza « astronomica» dei processi della vita. Ci sia con- 

sentito qui di prendere in esame più da vicino tale tesi, per 

quanto queste cose siano già state discusse. In primo luogo 

risulta ovvio che quella conoscenza « astronomica », a cui si è 

pensato, non è una conoscenza di leggi, ma assume piuttosto le 

«leggi» di cui si serve come presupposti del suo lavoro da 

altre discipline, quale la meccanica. Essa stessa si interessa pe- 

rò di un’altra questione, e cioè di stabilire il risultato individua- 

le che è prodotto dall’azione di quelle leggi su una costellazio- 

ne individuale, poiché queste costellazioni individuali hanno 

per noi significato. Ogni costellazione individuale, che essa ci 

« spiega» o predice, può certo venir spiegata causalmente solo 

come conseguenza di un’altra costellazione del pari individuale 

che l’abbia preceduta; e per quanto si possa risalire indietro 

nella nebbia grigia del più remoto passato, la realtà per la 

quale Je leggi valgono rimane sempre individuale, e quindi 

non deducibile da leggi. Uno «stato originario » del cosmo, 

che non rechi in sé un carattere individuale, o che lo rechi in 

misura minore della realtà cosmica presente, sarebbe natural- 

mente un'idea priva di senso. E tuttavia un resto di simili 

rappresentazioni non viene fuori nel nostro campo in quelle 

assunzioni, ora intese giusnaturalisticamente ora invece verifica- 

te in base all'osservazione dei « popoli primitivi», di «stati 

originari » economico-sociali che sono privi di « accidentalità » 

storiche — come nel caso del « comunismo agrario primitivo », 

della « promiscuità » sessuale ecc., da cui lo sviluppo storico 

individuale scaturisce poi attraverso una specie di caduta nel 

concreto? 



MAX WEBER 583 



Punto di partenza dell'interesse della scienza sociale è senza 

dubbio la configurazione reale, e quindi individuale, della vita 

culturale che ci circonda, considerata nella sua connessione che 

è sì universale, ma non per questo meno individualmente atteg- 

giata, e nel suo procedere da altri stati sociali di cultura, 

a loro volta evidentemente atteggiati in forma individuale. Sen- 

za dubbio la situazione che abbiamo illustrato a proposito del- 

l’astronomia come un caso-limite (che è regolarmente considera- 

to anche dai logici allo stesso scopo), si presenta qui in una 

misura assai più ragguardevole. Mentre per l’astronomia i corpi 

cosmici hanno interesse soltanto nelle loro relazioni quantitati- 

ve, accessibili a un’esatta misurazione, nella scienza sociale ciò 

che ci interessa è invece la configurazione qualitativa dei proces- 

si. A ciò si aggiunga che nelle scienze sociali siamo di fronte a 

una cooperazione di processi spirituali, e che « intendere » que- 

sti processi rivivendoli costituisce naturalmente un compito di 

tipo specificamente diverso da quello che le formule della cono- 

scenza esatta della natura in genere possono o vogliono risolve- 

re. E tuttavia queste differenze non sono in sé così fondamenta- 

li come può sembrare a un primo sguardo. Senza la considera- 

zione delle qualità non procedono — prescindendo dalla mecca- 

nica pura — neppure le scienze esatte della natura; inoltre nel 

nostro campo specifico incontriamo l'opinione — certo distorta 

— che il fenomeno della circolazione monetaria, fondamentale 

almeno per la nostra cultura, possa venir espresso quantitativa- 

mente e proprio per ciò sia comprensibile «legalmente»; e 

infine dipende da un’accezione più stretta o più larga del con- 

cetto di «legge» se si comprendono nel suo ambito anche 

regolarità che, in quanto non esprimibili quantitativamente, 

non sono neppur accessibili a nessuna considerazione di caratte- 

re numerico. Per ciò che riguarda in particolare la cooperazio- 

ne di motivi « spirituali », essa non esclude in nessun caso la 

determinazione di regole dell'agire razionale; e soprattutto 

non è ancora scomparsa oggi la convinzione che sia compito 

della psicologia quello di adempiere, nei confronti delle singole 

« scienze dello spirito », a una funzione analoga a quella della 

matematica, analizzando i fenomeni più complicati della vita so- 

ciale nelle loro condizioni e nei loro effetti psichici, riportandoli 

a fattori psichici il più possibile semplici, classificando quindi 



584 MAX WEBER 



questi ultimi nelle loro varie specie e infine studiandoli nelle loro 

connessioni funzionali. In tale maniera si darebbe vita, se non a 

una « meccanica », almeno a una specie di « chimica » della vita 

sociale, considerata nei suoi fondamenti psichici. Se indagini di 

questo genere possono mai essere valide e — il che è cosa diversa 

— fornire risultati particolari utilizzabili per le scienze della cul- 

tura, non possiamo qui deciderlo. Ciò non avrebbe però alcuna 

importanza per la questione di cui ci occupiamo, cioè se il fine 

della conoscenza economico-sociale nel nostro senso, costituito 

dalla conoscenza della realtà nel suo significato culturale e 

nella sua connessione causale, possa venir raggiunto mediante 

l’investigazione di ciò che ricorre in conformità a leggi. Posto 

il caso che si pervenga un giorno, sia per mezzo della psicolo- 

gia sia per altre vie, ad analizzare in base ad alcuni semplici 

« fattori » ultimi tutte le connessioni causali dei processi della 

convivenza umana finora osservate, e inoltre anche quelle con- 

cepibili in qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi abbrac- 

ciarle in maniera esauriente in un'immensa casistica di concetti 

e di regole che valgono come leggi rigorose — quale rilievo 

avrebbe il risultato di tutto questo per la conoscenza del mon- 

do culturale storicamente dato, o anche soltanto di qualche 

suo particolare fenomeno, come per esempio del capitalismo 

nel suo divenire e nel suo significato culturale? Esso varrebbe 

come mezzo conoscitivo né più né meno di un lessico delle 

combinazioni chimico-organiche per la conoscenza bio-genetica 

del mondo animale e vegetale. Nell’uno come nell’altro caso si 

sarebbe compiuto un lavoro preliminare sicuramente importan- 

te e utile. Nell’uno come nell’altro caso la realtà della vita non 

si lascerebbe però dedurre da quelle «leggi» e da quei « fatto- 

ri»; e ciò non già perché nei fenomeni della vita debbano 

risiedere altre superiori e misteriose « forze » (« potenze », «en 

telechie » o come altrimenti le si è chiamate) — questa è una 

questione del tutto a sé — ma semplicemente perché per la 

conoscenza della realtà ha per noi importanza la costellazione 

in cui si trovano quei « fattori » (ipotetici!), raggruppati in un 

fenomeno culturale che sia storicamente per noi significativo, e 


perché, se vogliamo « spiegare causalmente » questo raggruppa- 

mento individuale, noi dovremmo sempre rifarci ad altri rag- 

gruppamenti, del pari individuali, in base ai quali « spiegar- 



MAX WEBER 585 



li », naturalmente attraverso l’impiego di quei concetti (ipoteti- 

cil) di «legge». Determinare quelle «leggi» e quei « fattori » 

(ipotetici) sarebbe per noi in ogni caso solo il primo dei diversi 

lavori che dovrebbero condurre alla conoscenza a cui aspiria- 

mo. L’analisi e Ja coordinazione del raggruppamento individua- 

le storicamente dato di quei « fattori » e della loro cooperazio- 

ne concreta, condizionata in tale maniera, che risulta sigrificati- 

va nel suo modo specifico, e soprattutto la chiarificazione del 

fondamento e del tipo di questa significatività — questo sareb- 

be il suo compito successivo, da risolvere certo con il ricorso a 

quel lavoro preliminare, ma tuttavia pienamente nuovo e a4t0- 

nomo nei suoi confronti. Seguire nel loro divenire le specifiche 

caratteristiche individuali, significative per il presenze, di tali 

raggruppamenti, risalendo il più possibile nel passato, e spiegar- 

le storicamente in base alle costellazioni precedenti, che sono a 

loro volta individuali, costituirebbero un terzo compito che si 

può concepire — e la predizione di possibili costellazioni nel 

futuro, infine, sarebbe il quarto. 


Per tutti questi scopi sarebbe chiaramente di grande impor- 

tanza come mezzo conoscitivo — ma anche soltanto in quanto 

tale — e anzi sarebbe senz'altro indispensabile in vista di essi, 

la presenza di concetti chiari e la conoscenza di quelle « leg- 

gi » (ipotetiche). Ma anche in questa funzione si mostra subito, 

in #2 punto decisivo, il limite della loro portata, e mediante la 

loro determinazione perveniamo a cogliere il carattere specifico 

decisivo della considerazione propria delle scienze della cultura. 

Noi abbiamo designato come «scienze della cultura» quelle 

discipline che aspirano a conoscere i fenomeni della vita nel 

loro significato culturale. Il significato della configurazione di 

un fenomeno culturale, nonché il suo fondamento, non può 

però essere derivato, motivato e reso intelligibile in base a 

nessun sistema di concetti di leggi, per quanto completo esso 

sia, poiché esso presuppone la relazione dei fenomeni culturali 

con idee di valore. Il concetto di cultura è un concetto di 

valore. La realtà empirica è per noi «cultura» in quanto la 

poniamo in relazione con idee di valore; essa abbraccia quegli 

elementi della realtà che diventano per noi significativi in base 

a quella relazione, e soltanto questi elementi. Una minima 

parte della realtà individuale di volta in volta considerata è 



586 MAX WEBER 



investita dal nostro interesse, condizionato da quelle idee di 

valore; essa soltanto ha significato per noi, e lo ha in quanto 

rivela relazioni che sono per noi importanti a causa della loro 

connessione con idee di valore. Esclusivamente in questo caso, 

infatti, essa è per noi degna di venir conosciuta nel suo caratte- 

re individuale. Ciò che per noi riveste significato non può 

naturalmente essere determinato attraverso nessuna indagine 

del dato empirico, che sia condotta «senza presupposti»; al 

contrario, la sua determinazione è il presupposto per stabilire 

che qualcosa diviene oggetto dell'indagine. Ciò che è significati- 

vo non coincide naturalmente, in quanto tale, con l'ambito di 

nessuna legge, e tanto meno vi coincide quanto più universal- 

mente valida è quella legge. Infatti il significato specifico che 

ha per noi un elemento della realtà 207 si trova naturalmente 

in quelle tra le sue relazioni che esso ha in comune con molti 

altri. La relazione della realtà con idee di valore, che dànno ad 

essa significato, nonché l’isolamento e l’ordinamento degli ele- 

menti del reale così individuati sotto il profilo del loro significa 

to culturale, rappresenta un punto di vista del tutto eterogeneo 

e disparato rispetto all’analisi della realtà in base a leggi, e al 

suo ordinamento in concetti generali. I due tipi di ordinamento 

concettuale del reale non hanno tra di loro relazioni logiche 

necessarie di nessuna specie. Essi possono eventualmente coinci- 

dere in un caso singolo, ma sarebbe molto pericoloso che que- 

sta congiunzione accidentale ingannasse sulla loro eterogeneità 

di principio. Il significato culturale di un fenomeno, per esem- 

pio quello dello scambio in un'economia monetaria, può consi- 

stere nel fatto che esso si presenta come fenomeno di massa, in 

quanto costituisce una componente fondamentale della vita cul- 

turale odierna. E tuttavia è proprio il fatto storico che esso 

assolve questa funzione ciò che dev'essere reso comprensibile 

nel suo significato culturale, e spiegato causalmente nella sua 

origine storica. L'indagine dell’essenza dello scambio în genera- 

le e della tecnica della circolazione di mercato è un lavoro 

preliminare — invero molto importante e indispensabile! Non 

soltanto non si è risposto così alla questione concernente il 

modo in cui storicamente lo scambio è pervenuto al suo fonda- 

mentale significato odierno; ma soprattutto — ciò che in ulti- 

ma analisi ci interessa — il significato culturale dell'economia 



MAX WEBER 587 



monetaria, in virtù del quale soltanto ci interessiamo di quella 

descrizione della tecnica della circolazione monetaria, e in vir- 

tù del quale soltanto c’è oggi una scienza che studia tale tecni- 

ca, risulta inderivabile da qualsiasi di quelle «leggi ». Le carat 

teristiche di conformità a un genere dello scambio, del negozio 

ecc. interessano i giuristi — mentre ciò che ci concerne è il 

compito di analizzare proprio quel significato culturale del 

fatto storico che oggi lo scambio è fenomeno di massa. Allor- 

ché esso deve venir spiegato, allorché vogliamo intendere che 

cosa distingue la nostra cultura economico-sociale da quella, 

per esempio, dell’antichità, in cui lo scambio mostrava le mede- 

sime qualità generiche di oggi, e quando si deve spiegare in 

che cosa consista il significato dell’« economia monetaria », in- 

tervengono nell’indagine princìpi logici di origine del tutto ete- 

rogenea. Noi impieghiamo infatti quei concetti, che ci offre la 

ricerca degli elementi generici dei fenomeni economici di mas- 

sa, come mezzo di rappresentazione, e ciò nella misura in cui 

vi sono contenuti elementi della nostra cultura forniti di signifi- 

cato; ma il fire del nostro lavoro non è conseguito mediante 

una rappresentazione, per quanto precisa, di quei concetti e di 

quelle leggi, poiché al contrario la questione di che cosa dev’es- 

sere fatto oggetto di un’elaborazione di concetti di genere non 

è «senza presupposti », bensì è stata decisa proprio in riferi- 

mento al significato che posseggono per la cultura determinati 

elementi di quella molteplicità infinita, che noi diciamo « circo- 

lazione ». Noi aspiriamo alla conoscenza di un fenomeno stori- 

co, cioè di un fenomeno fornito di significato nel suo carattere 

specifico. E la cosa decisiva è questa: soltanto in base al presup- 

posto che esclusivamente una parte fizita dell’infinito numero 

dei fenomeni risulta fornita di significato, acquista un senso 

logico il principio di una conoscenza dei fenomeni individuali 

in genere. Noi ci troveremmo perplessi, anche se fossimo prov- 

visti della più completa conoscenza possibile di tutte le « leg- 

gi» dell’accadere, di fronte a questa questione: come è possibi- 

le in genere la spiegazione causale di un fatto individuale — 

dal momento che già una descrizione anche della più piccola 

sezione di realtà non può mai essere concepita come esaustiva? 

Il numero e il tipo delle cause, che hanno determinato un 

qualsiasi avvenimento individuale, è infatti sempre infinito, e 



588 MAX WEBER 



non c’è una caratteristica inerente alle cose stesse la quale con- 

senta di isolarne una parte, che venga essa soltanto presa in 

considerazione. Un caos di « giudizi esistenziali » sopra infinite 

osservazioni particolari sarebbe il solo esito a cui potrebbe reca- 

re il tentativo di una conoscenza della realtà che fosse seriamen- 

te « priva di presupposti». E anche questo risultato sarebbe 

possibile solo in apparenza, poiché la realtà di ogni osservazio- 

ne singola mostra, a uno sguardo più prossimo, infiniti ele- 

menti particolari, che non possono mai venire espressi in manie- 

ra esaustiva in giudizi di osservazione. In questo caos reca 

ordine soltanto la circostanza che in ogni caso ha per noi 

interesse e significato solo una parte della realtà individuale, 

in quanto essa sta in relazione con idee di valori culturali con 

le quali ci accostiamo alla realtà. Soltanto determinati aspetti 

dei fenomeni particolari, sempre infinitamente molteplici, cioè 

quelli ai quali attribuiamo un significato culturale universale, 

sono quindi degni di essere conosciuti, ed essi solamente sono 

oggetto della spiegazione causale. Anche questa spiegazione 

causale pone però a sua volta in luce lo stesso fatto, che 

cioè un regresso causale esaustivo da qualsiasi fenomeno concre- 

to nella sua piera realtà non soltanto risulta praticamente im- 

possibile, ma è semplicemente un’assurdità. Noi mettiamo in 

luce soltanto quelle cause a cui devono essere imputati gli 

elementi di un accadere che risultano « essezzziali » nel caso par- 

ticolare: la questione causale, quando si tratta dell’individuali- 

tà di un fenomeno, non è una questione di leggi bensì una 

questione di connessioni causali concrete; non è una questione re- 

lativa alla formula alla quale si deve subordinare come esempio 

specifico tale fenomeno, ma è una questione relativa alla costel- 

lazione individuale a cui esso deve venir imputato come suo 

risultato — è cioè una questione di imputazione. Ogni qual 

volta sia in questione la spiegazione causale di un « fenomeno 

culturale » — cioè di un « individuo storico », come noi lo inten- 

diamo in base a un’espressione già usata talvolta nella metodolo- 

gia della nostra disciplina, e ora divenuta consueta nella logica in 

una più precisa formulazione — la conoscenza delle leggi della 

causalità può essere non già scopo, ma soltanto mezzo dell’inda- 

gine. Essa ci rende più agevole l'imputazione causale degli 

elementi dei fenomeni, culturalmente significativi nella loro in- 



MAX WEBER 589 



dividualità, alle loro cause concrete. In quanto, e solo in quan- 

to essa serve a questo fine, ha valore per la conoscenza di 

connessioni individuali. Quanto più le leggi sono « generali », 

cioè astratte, tanto meno esse servono per i bisogni dell’imputa- 

zione causale di fenomeni individuali, e quindi indirettamente 


r la comprensione del significato dei processi culturali. 


Che cosa deriva da tutto ciò? 


Naturalmente non ne deriva che la conoscenza del genera 

le, la formazione di concetti astratti di genere, la conoscen- 

za di regolarità e il tentativo di formulazione di connessioni 

«legali » non abbiano nel campo delle scienze della cultura 

alcuna giustificazione scientifica. Al contrario, se la conoscenza 

causale dello storico è un’imputazione di effetti concreti a cau- 

se concrete, l'imputazione valida di qualsiasi effetto individua- 

le non è possibile in genere senza l’impiego della conoscenza 

«nomologica» — cioè della conoscenza delle regolarità delle 

connessioni causali. Se si deve attribuire in concreto nella 

realtà a un singolo elemento individuale di una connessione un 

significato causale nei riguardi dell’effetto che intendiamo spie- 

gare, questo può essere stabilito, in caso di dubbio, soltanto 

attraverso la valutazione degli effetti che di solito ci aspettiamo 

in generale da esso e dagli altri elementi del medesimo comples- 

so, che consideriamo ai fini della spiegazione — vale a dire 

attraverso la determinazione di quelli che sono gli effetti « ade- 

guati» degli elementi causali in questione. In quale misura lo 

storico (nel senso più ampio del termine) possa compiere con 

sicurezza questa imputazione con la sua fantasia nutrita di 

esperienza personale della vita e metodicamente disciplinata, e 

in quale misura egli si rifaccia invece all’aiuto di discipline 

speciali che gliela rendono possibile, è cosa che dipende dal 

caso singolo. Ma ovunque, e così pure nel campo di complicati 

processi economici, la sicurezza dell’imputazione è tanto mag- 

giore quanto più assodata e comprensiva è la nostra conoscenza 

generale. Che si tratti sempre, anche per tutte le cosiddette 

«leggi economiche » senza eccezione, non già di connessioni 

«legali » nel senso ristretto valido nel caso delle scienze esatte 

della natura, ma di connessioni causali adeguate espresse in 

forma di regole, cioè di un ‘applicazione della categoria di « ( pos- 

sibilità oggettiva» che qui non può venir analizzata più da 



590 MAX WEBER 



vicino, non fa la minima differenza per tale proposizione. Solo 

che la determinazione di tali regolarità non è già fine, bensì 

mezzo di conoscenza; ed è in ogni caso una questione di 

opportunità se si debba o meno esprimere in una formula, sotto 

forma di «legge», una regolarità di connessione causale nota 

in base all’esperienza quotidiana. Per la scienza esatta della 

natura le « leggi » sono tanto più importanti e fornite di valore 

quanto più esse sono universalmente valide; per la conoscenza 

dei fenomeni storici nel loro fondamento concreto le leggi pià 

generali, in quanto sono le più vuote di contenuto, sono invece 

di regola anche le più prive di valore. Infatti quanto più estesa 

è la validità di un concetto di specie, cioè il suo ambito, tanto 

più esso ci distoglie dalla realtà concreta; per racchiudere l’ele- 

mento comune di quanti più fenomeni, esso deve essere infatti 

il più possibile astratto, e perciò povero di contenuto. La cono- 

scenza del generale non è mai per noi, nelle scienze della 

cultura, fornita di valore di per sé. 


Da quanto si è detto finora risulta dunque che è priva di 

senso una trattazione « oggettiva » dei processi culturali, per la 

quale debba valere come scopo ideale del lavoro scientifico la 

riduzione di ciò che è empirico a «leggi ». Essa non è priva di 

senso, come sovente si è ritenuto, perché i processi culturali o 

anche i processi spirituali si comportino « oggettivamente » in 

maniera meno legale, bensì per i motivi seguenti: 1) perché la 

conoscenza di leggi sociali non è conoscenza della realtà socia- 

le, ma è soltanto uno dei diversi strumenti di cui il nostro 

pensiero si avvale a tale scopo; 2) perché non si può concepire 

una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del 

significato che ha per noi la realtà della vita, sempre individual- 

mente atteggiata, in determinate relazioni particolari. In quale 

senso e in quali relazioni ciò avvenga non ci è svelato da 

nessuna legge, perché è deciso dalle idee di valore in base alle 

quali consideriamo nel caso singolo la «cultura». La «cultu 

ra» è una sezione finita dell’infinità priva di senso dell’accade- 

re del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal 

punto di vista dell’uomo. Essa è tale anche per gli uomini che 

si contrappongono a una cultura concreta come a un mortale 

nemico, e che aspirano a un «ritorno alla natura ». Infatti essi 

possono pervenire a questa presa di posizione solo in quanto 



MAX WEBER 591 



riferiscono la cultura concreta alle loro idee di valore, e la 

trovano « troppo leggera ». È questo fatto puramente logico-for- 

male che si tiene presente allorché qui si parla della connessio- 

ne logicamente necessaria di tutti gli individui storici con «i- 

dee di valore ». Presupposto trascendentale di ogni scienza del- 

la cultura non è già che noi riteniamo forzita di valore una 

determinata, o anche in genere una qualsiasi « cultura », bensì è 

il fatto che noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e 

della volontà di assumere consapevolmente posizione nei con- 

fronti del mondo e di attribuirgli un serso. Qualunque possa 

essere questo senso, esso ci condurrà a valutare nella vita deter- 

minati fenomeni della coesistenza umana in base ad esso, e ad 

assumere nei loro confronti una posizione (positiva o negativa) 

in quanto fornita di significato. Quale che sia il contenuto di 

tale presa di posizione, questi fenomeni hanno per noi un sign: 

ficato culturale, e su questo significato soltanto poggia il loro 

interesse scientifico. Quando qui si parla, in riferimento all’uso 

linguistico dei logici moderni, del condizionamento della cono- 

scenza della cultura da parte di idee di valore, si spera di non 

essere esposti a fraintendimenti di specie così rozza come l’opi- 

nione che si debba attribuire un significato culturale soltanto ai 

fenomeni forniti di valore. La prostituzione è un fenomeno 

culturale al pari della religione o del denaro; e tutti e tre lo 

sono in quanto e solamente in quanto, e nella misura in cui, la 

loro esistenza e la forma che storicamente assumono tocchino, 

direttamente o indirettamente, i nostri interessi culturali, e in 

quanto essi suscitano il nostro impulso conoscitivo sotto punti 

di vista orientati in base a idee di valore, le quali rendono per 

noi significativo il settore di realtà che è pensato in quei 

concetti. 


Ogni conoscenza della realtà culturale è sempre, come risul- 

ta da tutto questo, una conoscenza da particolari punti di 

vista. Quando noi richiediamo allo storico e allo studioso di 

scienze sociali, come presupposto elementare, che egli sappia 

distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, e che egli 

disponga dei « punti di vista » indispensabili per questa distin- 

zione, ciò vuol semplicemente dire che egli deve imparare a 

riferire i processi della realtà — consapevolmente o inconsape- 

volmente — a «valori culturali » universali, e quindi a porre 



592 MAX WEBER 



in luce le connessioni che sono per noi significative. Sebbene si 

ripresenti sempre l’opinione che sia possibile « assumere dalla 

materia stessa» quei punti di vista, ciò deriva dall’illusione 

ingenua dello specialista il quale non riflette che egli ha dappri- 

ma isolato, in virtù delle idee di valore con cui si è inconsape- 

volmente accostato alla materia, un ristretto elemento da un’as- 

soluta infinità come quello che solo lo interessa per la sua 

trattazione. In questa scelta di singole « parti» dell’accadere, 

che ha luogo sempre e ovunque in forma sia consapevole che 

inconsapevole, viene in luce anche quell’elemento del lavoro 

delle scienze della cultura che sta a base di un’affermazione 

così sovente udita — che l’aspetto « personale» di un’opera 

scientifica costituisca ciò che propriamente vale in essa, e che 

in ogni opera, affinché sia degna di esistere, debba esprimersi 

«una personalità ». Certo senza le idee di valore del ricerca- 

tore non vi sarebbe nessun principio per la scelta della mate- 

ria, € nessuna conoscenza fornita di senso del reale nella sua 

individualità; e come senza la fede del ricercatore nel significa 

to di qualche contenuto culturale risulta senz'altro privo di 

senso ogni lavoro diretto alla conoscenza della realtà individua 

le, così l'orientamento della sua fede personale, cioè la rifrazio- 

ne dei valori nello specchio della sua anima, indicherà la dire- 

zione anche al suo lavoro. E i valori a cui il genio scientifico 

riferisce gli oggetti della sua ricerca potranno determinare la 

«concezione » di un'intera epoca, potranno cioè essere decisivi 

non solo per stabilire ciò che nei fenomeni è « fornito di valo- 

re», ma anche per stabilire ciò che è significativo o privo di 

significato, ciò che è «importante » e ciò che è « senza impor- 

tanza ». 


La conoscenza delle scienze della cultura, nel senso che 

abbiamo definito, è vincolata a presupposti «soggettivi» in 

quanto essa si occupa soltanto di quegli elementi della realtà 

che hanno una relazione — per quanto indiretta — con i 

processi ai quali attribuiamo un significato culturale. Essa è 

tuttavia naturalmente una pura conoscenza causale nel medesi- 

mo senso in cui può esserlo la conoscenza di processi naturali 

individuali forniti di significato, i quali rivestano un carattere 

qualitativo. Accanto alle varie confusioni prodotte dall’invasio- 

ne del pensiero giuridico-formale nella sfera delle scienze della 



MAX WEBER 593 



cultura, è stato di recente compiuto il tentativo di « confutare » 

in linea di principio la «concezione materialistica della sto- 

ria» mediante una serie di spiritosi sofismi, sostenendo che, in 

quanto tutta la vita economica deve svolgersi in forme regolate 

giuridicamente o convenzionalmente, qualsiasi « sviluppo » eco- 

nomico deve assumere la forma di tendenze alla creazione di 

nuove forme giuridiche, e che esso è quindi comprensibile sol- 

tanto in base a massime etiche, e risulta su questa base diverso 

nella propria essenza da ogni sviluppo « naturale ». La cono- 

scenza dello sviluppo economico avrebbe pertanto un carattere 

«teleologico »Î. Senza voler qui discutere il significato che 

per la scienza sociale può avere l'equivoco concetto di « svilup- 

po »; 0 il concetto logicamente non meno equivoco di « teleologi- 

co», si deve tuttavia constatare che una conoscenza siffatta 

non potrebbe mai essere « teleologica » ze/ senso presupposto da 

questa prospettiva. Nonostante la più completa identità formale 

delle norme giuridiche in vigore, il significato culturale dei 

rapporti giuridici a cui le norme si riferiscono, e perciò anche 

delle norme medesime, può mutare in maniera radicale. Certo, 

se ci si vuole inoltrare per un momento almanaccando nelle 

fantasie di un tempo futuro, si può per esempio concepire 

teoricamente compiuta una «socializzazione dei mezzi di pro- 

duzione » senza che sia sorta alcuna « tendenza » mirante consa- 

pevolmente a questa conseguenza e senza che venga eliminato 

o aggiunto nessun paragrafo della nostra legislazione: la fre- 

quenza statistica di particolari relazioni giuridicamente regola- 

te sarebbe cambiata certo alla base, e in molti casi ridotta a 

zero, una gran parte delle norme giuridiche diventerebbe prati- 

camente priva di significato, e il loro intero significato cultura- 

le sarebbe mutato in maniera da risultare irriconoscibile. La 



3. Weber si riferisce qui al volume di Rudolf Stammler, Wirtschaft und Recht 

nach der materialistichen Geschichtsauffassung, Leipzig, 1896. Alla critica della 

seconda edizione di quest'opera (1906) sarà dedicato il saggio di Weber R. Stammlers 

« Uberwindung » der materialistischen  Geschichtsauffassung, « Archiv. fùr Sozial- 

wissenschaft und Sozialpolitik », XXIV, 1907, pp. 94-151 (ora in Gesammelte Aufsatze 

zur Wissenschaftslehre, pp. 291-359). — Rudolf Stammler (1856-1938), filosofo 

del diritto tedesco di orientamento neo-kantiano, scrisse inoltre Die Lehre voni 

richtigen Recht (1902), la Theorie der Rechtsivissenschaft (1911), Die Gerechtigheit 

in der Geschichte (1915), un Lelrbuch der Rechtsphilosophie (1922) e varie altre 

opere. 



38. STORICISMO TEDESCO. 



594 MAX WEBER 



teoria « materialistica » della storia poteva quindi con diritto 

mettere da parte le discussioni de lege ferenda, poiché il suo 

punto di vista centrale consisteva appunto nell’inevitabile muta- 

mento di significato delle istituzioni giuridiche. Colui al quale 

il semplice lavoro di comprensione causale della realtà storica 

appare subalterno, può sì evitarlo — ma è impossibile sostituir- 

lo con qualsiasi « teleologia ». « Scopo » è, per la rostra trattazio- 

ne, la rappresentazione di un effetto, che diviene causa di 

un'azione; e noi consideriamo anche questa al pari di ogni 

causa che contribuisca o possa contribuire a un effetto fornito 

di significato. Il suo significato specifico poggia soltanto sul fatto 

che noi possiamo e vogliamo anche irztendere, oltre che consta- 

tare, l'agire umano. 


Quelle idee di valore sono, fuor di ogni questione, « soggetti- 

ve». Tra l’interesse «storico» per una cronaca di famiglia e 

quello per lo sviluppo dei più grandi fenomeni di cultura, che 

furono e sono comuni a una nazione o all'umanità per lunghe 

epoche, c'è un'infinita gradazione di «significati », i cui mo- 

menti avranno per ognuno di noi un ordine differente. E così 

pure esse mutano storicamente con il carattere della cultura e 

delle idee che guidano gli uomini. Da ciò 207 consegue ovvia- 

mente che la ricerca delle scienze della cultura possa dar luogo 

soltanto a risultati i quali siano «soggettivi» nel senso che 

valgono per l’uno e non per l’altro. Ciò che cambia è piuttosto 

il grado in cui essi interessano l’uno e non l’altro. In altri 

termini, ciò che diventa oggetto dell’indagine, e in quale misu- 

ra questa si estenda nell’infinità delle connessioni causali, è 

determinato soltanto dalle idee di valore che dominano il ricer- 

catore e la sua epoca; nel «come? », vale a dire nel metodo 

della ricerca — come ancora vedremo — il « punto di vista» a 

cui si ispira è determinante per l’elaborazione degli strumenti 

concettuali che egli impiega — mentre nel modo della loro 

applicazione il ricercatore è di certo, qui come ovunque, vinco- 

lato alle norme del nostro pensiero. Poiché verità scientifica è 

soltanto ciò che esige di valere per tutti coloro che vogliono la 

verità. 


Da ciò risulta in ogni caso l’assurdità dell’idea — la quale 

talvolta prevale anche presso gli storici della nostra disciplina 

— che possa essere fine, per quanto remoto, delle scienze della 



MAX WEBER 595 



cultura quello di costruire un sistema chiuso di concetti, nel 

cui ambito la realtà possa venir compresa in un'articolazione 

in qualsiasi senso definitiva, e da cui essa venga quindi di 

nuovo dedotta. La corrente dell’accadere sconfinato procede sen- 

za fine verso l’eternità. E sempre nuovi e diversamente atteg- 

giati si presentano i problemi culturali che muovono gli uomi- 

ni, cosicché rimane fluido anche l’ambito di ciò che acquista 

per noi senso e significato da quella infinita, e sempre eguale, 

corrente dell’accadere, configurandosi come «individuo stori- 

co ». Mutano le connessioni concettuali in base a cui l’accadere 

è considerato e colto scientificamente. I punti di partenza delle 

scienze della cultura si protendono quindi mutevoli nel più 

lontano futuro, finché qualche definitivo irrigidimento della 

vita spirituale non farà desistere l’umanità dal porre nuove 

questioni alla vita sempre inesauribile. Un sistema delle scien- 

ze della cultura, anche soltanto in forma di una fissazione 

definitiva, oggettivamente valida, sistematizzante delle questio- 

ni e dei campi di cui esse dovrebbero trattare, sarebbe di per sé 

un’assurdità: da un tentativo del genere potrebbe derivare sem- 

pre solo una collezione di punti di vista, specificamente diversi 

e tra loro in vario modo eterogenei e disparati, in base ai quali 

la realtà è risultata o risulta per noi « cultura », cioè fornita di 

significato nella sua specificità. 



Dopo queste lunghe discussioni, possiamo finalmente affron- 

tare la questione che ci interessa metodicamente in vista di 

una trattazione dell’« oggettività» della conoscenza della cul- 

tura: quale è la funzione e la struttura logica dei concetti con 

cui la nostra scienza, al pari di ogni altra, lavora, e cioè — per 

formulare la domanda con particolare riguardo al problema 

decisivo — qual è il significato della teoria e dell’elaborazione 

concettuale teorica per la conoscenza della realtà culturale? 


L'economia politica è stata almeno originariamente — lo 

abbiamo già detto — una «tecnica», per ciò che concerne il 

centro di gravità delle sue discussioni: essa considerava i feno- 

meni della realtà da un punto di vista valutativo che, almeno 

in apparenza, era univoco, stabile e pratico, vale a dire dal 

punto di vista dell’accrescimento della « ricchezza » della popo- 

lazione. Ma d’altra parte, fin dall’inizio, essa non è stata soltan- 



596 MAX WEBER 



to una «tecnica », in quanto era inserita nella possente unità 

dell’intuizione giusnaturalistica e razionalistica del mondo, for- 

mulata dal secolo xvi. Il carattere specifico di quell’intuizione 

del mondo, con la sua fede ottimistica nella possibilità di una 

razionalizzazione teoretica e pratica del reale, operava essenzial- 

mente in maniera da ostacolare la scoperta del carattere proble- 

matico di tale punto di vista, assunto come di per sé evidente. 

Sorta in stretta connessione con il moderno sviluppo della scien- 

za naturale, la considerazione razionale della realtà sociale è 

rimasta ad essa affine in tutto il suo modo di analisi. Nelle 

discipline naturali il punto di vista pratico-valutativo, fondato 

sulla determinazione di ciò che è immediatamente utile in sen- 

so tecnico, era strettamente legata alla speranza — ereditata 

dall’antichità e in seguito ancora sviluppata — di pervenire 

sulla via dell’astrazione generalizzante e dell’analisi del dato 

empirico nelle sue connessioni legali a una conoscenza di tipo 

monistico dell’intera realtà che fosse puramente « oggettiva », 

cioè svincolata da tutti i valori, e al tempo stesso razionale, 

cioè liberata da ogni « accidentalità » individuale, e assumesse 

la fisionomia di un sistema concettuale di validità metafisica e 

di forma matematica. Le discipline naturali legate a punti di 

vista valutativi, come la medicina clinica e ancor più quella che 

abitualmente è detta « tecnologia », diventavano pure « dottri- 

ne» pratiche. I valori a cui esse dovevano servire, vale a dire 

la salute del paziente, il perfezionamento tecnico di un concre- 

to processo produttivo ecc., erano di volta in volta stabiliti per 

ognuna di esse. I mezzi impiegati erano, e potevano essere 

soltanto forniti dall'impiego dei concetti legali scoperti dalle 

discipline teoriche. Ogni progresso di principio nella formazione 

di tali concetti era, o poteva essere, anche un progresso della 

corrispondente disciplina pratica. Dato un certo scopo, la pro- 

gressiva riduzione delle particolari questioni pratiche (di un 

caso di malattia, di un problema tecnico) a leggi generalmente 

valide di cui esse costituiscono un caso specifico, e quindi l’e- 

stensione del sapere teorico, era immediatamente connessa, ed 

anzi coincidente, con l’allargarsi delle possibilità pratico-tecni- 

che. Allorché la biologia moderna ha sottoposto anche quegli 

elementi della realtà che ci interessano storicamente, cioè nel 

modo in cui essi sono divenuti così-e-non-altrimenti, al concetto 



MAX WEBER 597 



di un principio evolutivo universalmente valido, che almeno 

apparentemente — ma non certo in verità — ha consentito di 

subordinare tutto ciò che è essenziale in tali oggetti a uno 

schema di leggi valide in generale, sembrò che si avvicinasse in 

qualsiasi scienza il momento della fine per tutti i punti di vista 

valutativi. Poiché il cosiddetto accadere storico era una parte 

dell’intera realtà, e il principio causale, che costituisce il presup- 

posto di ogni lavoro scientifico, sembrava esigere la riduzione 

di ogni accadere a « leggi» generalmente valide, e poiché infi- 

ne era evidente l’immenso successo delle scienze della natura 

le quali avevano proceduto in base a questo principio, sembrò 

allora inconcepibile un senso della ricerca scientifica diverso da 

quello della scoperta delle leggi dell’accadere. Soltanto ciò che 

è « conforme alle leggi » poteva essere scientificamente essenzia- 

le nei fenomeni, e i processi «individuali » venivano presi in 

considerazione solamente in quanto «tipi », cioè in quanto rap- 

presentanti illustrativi delle leggi; un interesse diretto ad essi 

sembrava costituire un interesse « non scientifico ». 


È impossibile seguire qui le forti conseguenze di questa 

fiduciosa disposizione del monismo naturalistico sulle discipli- 

ne economiche. Allorché la critica socialistica e il lavoro degli 

storici cominciavano a tradurre in problemi gli originari punti 

di vista valutativi, il potente sviluppo della ricerca biologica da 

un lato e l'influenza del panlogismo hegeliano dall’altro impe- 

dirono all’economia politica di determinare in maniera distin- 

ta, nella sua piena portata, il rapporto tra concetto e real- 

tà. Da ciò è risultato, per quanto ci interessa, che nonostante il 

poderoso argine opposto alla penetrazione dei dogmi naturalisti- 

ci dalla filosofia idealistica tedesca successiva a Fichte, dalle 

indagini della scuola giuridica tedesca e dal lavoro della scuola 

storica di economia politica tedesca, e in parte proprio în conse- 

guenza di questo lavoro, i punti di vista del naturalismo riman- 

gono ancora da superare in alcuni punti decisivi. Tra questi c’è 

in particolare il rapporto, che rimane ancor sempre problemati- 

co, tra lavoro «teorico» e lavoro «storico » nell’ambito della 

nostra disciplina. 


Il metodo teorico « astratto » si contrappone ancora og 

con un’asprezza priva di mediazione e apparentemente insor- 

montabile, alla ricerca storico-empirica. Esso riconosce del tutto 



598 MAX WEBER 



correttamente l'impossibilità metodica di sostituire la conoscen- 

za storica della realtà con la formulazione di «leggi» o di 

pervenire viceversa a « leggi» in senso stretto attraverso il me- 

ro accostamento di osservazioni storiche. Per ottenere tali leggi 

— dal momento che per esso è certo che la scienza debba 

aspirare a questo fine supremo — si procede dal fatto che noi 

abbiamo un’esperienza immediata delle connessioni dell’agire 

umano proprio nella Joro realtà, e quindi — così esso suppone 

— possiamo rendere il suo corso immediatamente intelligibile 

con evidenza assiomatica, e penetrarlo nelle sue «leggi». La 

sola forma esatta di conoscenza, cioè la formulazione di leggi 

evidenti che si possano immediatamente intuire, sarebbe al tem- 

po stesso la sola che consente l’accesso ai processi non immedia- 

tamente osservati; e quindi, almeno per i fenomeni fondamen- 

tali della vita economica, la determinazione di un sistema di 

princìpi astratti e — di conseguenza — puramente formali, in 

analogia a quello delle scienze esatte della natura, sarebbe il 

solo mezzo per dominare spiritualmente la molteplicità della 

vita sociale. Nonostante la distinzione metodica di principio 

tra conoscenza legale e conoscenza storica, che il creatore della 

teoria aveva compiuto come primo e unico, alle proposizioni 

della teoria astratta è stata però da lui attribuita una validità 

empirica, nel senso di una deducibilità della realtà dalle « leg- 

gi». E ciò certo non nel senso di una validità empirica dei 

princìpi economici astratti presi di per sé, bensì in maniera 

che, quando si fossero elaborate corrispondenti teorie « esatte » 

di tutti gli altri fattori che si possono considerare, tutte queste 

teorie astratte prese insieme dovrebbero contenere in sé la vera 

realtà delle cose — vale a dire ciò che della realtà è degno di 

essere conosciuto. La teoria economica esatta determinava l’ef- 

fetto di ur motivo psichico, mentre le altre teorie avrebbero il 

compito di sviluppare in forma simile tutti i rimanenti motivi 

in princìpi di validità ipotetica. Pertanto al lavoro teorico, cioè 

alle teorie astratte della formazione del prezzo, dell’interesse, 

delle rendite ecc., è stata talvolta attribuita la pretesa fantasti- 

ca di servire, secondo la — pretesa — analogia dei princìpi 

fisici, per dedurre da date premesse reali risultati quantitativa 

mente determinati, e cioè leggi in senso rigoroso, valide per 

la realtà della vita, in quanto l'economia dell’uomo sarebbe 



MAX WEBER 599 



univocamente « determinata », dato un certo scopo, in rapporto 

ai mezzi. E non si è tenuto presente che, per poter aspirare a 

questo risultato anche nei casi più semplici, si dovrebbe assume- 

re come « data » € presupporre come nota la totalità della real- 

tà storica attuale, insieme a tutte le sue connessioni causali, e 


che, quando questa conoscenza fosse accessibile allo spirito fini- 

to, non si potrebbe attribuire nessun valore conoscitivo a una 

teoria astratta. Il pregiudizio naturalistico, secondo il quale si 

dovrebbe creare, con quei concetti, qualcosa di affine a ciò che 

producono le scienze esatte della natura, aveva condotto appun- 

to a un’errata comprensione del senso di queste formazioni 

teoriche. Si è creduto che si trattasse dell'isolamento psicologico 

di uno specifico «impulso » dell’uomo, dell'impulso al guada- 

gno, oppure dell’osservazione isolata di una specifica massima 

dell'agire umano, cioè del cosiddetto principio economico. La teo- 

ria astratta riteneva di potersi reggere su assiomi psicologici; e la 

conseguenza era che gli storici invocavano una psicologia empi- 

rica, allo scopo di poter mostrare la non-validità di quegli 

assiomi e derivare psicologicamente il corso dei processi econo- 

mici. Noi non intendiamo criticare a fondo, in queste pagine, 

la fede nell’importanza di una scienza sistematica della « psico- 

logia sociale» — che del resto è ancor da creare — come 

fondamento futuro delle scienze della cultura, e in particolare 

dell'economia sociale. Proprio gli abbozzi finora compiuti, in 

parte brillanti, di un’interpretazione psicologica dei fenomeni 

economici mostrano in ogni caso che 707 si procede dall’analisi 

delle qualità psicologiche dell’uomo all’analisi delle istituzioni 

sociali, ma che viceversa il chiarimento dei presupposti e degli 

effetti psicologici delle istituzioni presuppone la precisa cono- 

scenza di queste ultime, nonché l’analisi scientifica delle loro 

connessioni. L'analisi psicologica significa allora semplicemente 

un approfondimento, molto importante nel caso specifico, della 

conoscenza del loro condizionamento storico-culturale e del lo- 

ro significato culturale. Ciò che ci interessa nell’atteggiamento 

psichico dell’uomo nelle sue relazioni sociali è appunto determi- 

nato in ogni caso specificamente, secondo il particolare signifi- 

cato culturale della relazione in esame. Si tratta infatti di 

motivi e di influssi psichici tra loro molto eterogenei, cd estre- 

mamente compositi nel caso concreto. La ricerca psicologico-so- 



600 MAX WEBER 



ciale costituisce un attento esame di diversi generi particolari, 

e tra loro assai disparati, di elementi della cultura, considerati 

in rapporto alla possibilità di interpretarli mediante la nostra 

comprensione. Noi dobbiamo imparare mediante essi a intende- 

re spiritualmente in misura crescente — partendo dalla cono- 

scenza delle istituzioni particolari — il loro condizionamento 

e il loro significato culturale, senza voler dedurre le istituzioni 

da leggi psicologiche o volerle spiegare in base a fenomeni 

psicologici elementari. 


Anche la polemica così complessa che si è svolta intorno alla 

giustificazione psicologica delle enunciazioni teoriche astratte, 

intorno all'importanza dell’« impulso al guadagno » e del « prin- 

cipio economico » ecc., ha dato un frutto assai scarso. 



Nel caso delle enunciazioni della teoria astratta, solo in ap- 

parenza ci troviamo di fronte a « deduzioni » da motivi. psicolo- 

gici fondamentali; in verità si tratta piuttosto di un caso specifi- 

co di una forma di elaborazione concettuale che è propria, e in 

certa misura indispensabile, delle scienze della cultura umana. 

Vale qui la pena caratterizzare tale forma in maniera un po’ 

più approfondita, per accostarci così alla questione fondamenta- 

le del significato della teoria per la conoscenza fornita dalla 

scienza sociale. E a tale fine noi lasceremo una volta per sempre 

fuori discussione se le formazioni teoriche che rechiamo come 

esempio, o alle quali accenniamo, corrispondano, così come 

esse sono, allo scopo a cui vogliono servire, se cioè esse sia- 

no di fatto elaborate in maniera conforme allo scopo. In quale 

misura l’odierna « teoria astratta » debba ancora essere sviluppata 

è, alla fine, anche un problema di economia del lavoro scienti- 

fico, a cui si riferiscono altri problemi. Anche la «teoria del- 

l'utilità marginale » sottostà alla « legge dell'utilità marginale ». 



Noi abbiamo dinanzi a noi, nella teoria economica astratta, 

un esempio di quelle sintesi che si designano di solito come 

«idee » di fenomeni storici. Essa ci offre un quadro ideale dei 

processi che avvengono in un mercato di beni, sulla base di 

un'organizzazione sociale fondata sull'economia di scambio, di 

una libera concorrenza e di un agire rigorosamente razionale. 

Questo quadro concettuale unisce determinate relazioni e deter- 



MAX WEBER 601 



minati processi della vita storica in un cosmo, in sé privo di 

contraddizioni, di connessioni concettuali. Per il suo contenuto 

questa costruzione riveste il carattere di un’ufopia, ottenuta 

attraverso l’accentuazione concettuale di determinati elementi 

della realtà. Il suo rapporto con i fatti empiricamente dati della 

vita consiste solo in questo, che laddove vengono determinati o 

supposti operanti, in qualsiasi grado, nella realtà connessioni 

del tipo astrattamente rappresentato in quella costruzione, cioè 

processi dipendenti dal « mercato », noi possiamo illustrare prag- 

maticamente e rendere intelligibile il carazzere specifico di que- 

sta connessione in un tipo ideale. Tale possibilità è indispensabi- 

le sia a scopo euristico sia a scopo espositivo. Il concetto tipico- 

ideale serve a orientare il giudizio di imputazione nel corso 

della ricerca: esso non è un’« ipotesi », ma intende orientare la 

costruzione di ipotesi. Esso zon è una rappresentazione del 

reale, ma intende fornire alla rappresentazione un mezzo di 

espressione univoco. Esso è quindi « l’idea » di un’organizzazio- 

ne moderna della società, fondata sull'economia di scambio, 

che è storicamente data; esso è stato elaborato in base ai medesi- 

mi principi logici con cui si è proceduto a costruire l’idea 

dell’«economia cittadina» medievale come concetto « geneti- 

co». Quando si fa così, si perviene a formare il concetto di 

«economia cittadina » non già come una media dei princìpi 

economici operanti di fatto nell’insieme delle città osservate, 

ma appunto come un zipo ideale. Esso è ottenuto attraverso 

l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e 

attraverso la connessione di una quantità di fenomeni particola- 

ri diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore 

misura, e talvolta anche assenti — che corrispondono a quei 

punti di vista unilateralmente sottolineati — in un quadro cor- 

cettuale in sé unitario. Considerato nella sua purezza concettua- 

le, questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamen- 

te nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta 

il compito di determinare in ogni caso singolo la maggiore o 

minore distanza della realtà da quel quadro ideale, stabilendo 

per esempio in quale misura il carattere economico della situa- 

zione di una determinata città possa venir qualificato concettual- 

mente come proprio dell’« economia cittadina ». Oculatamente 

impiegato, quel concetto rende i suoi specifici servizi a sco- 



602 MAX WEBER 



po di indagine e di illustrazione. Proprio nello stesso modo si 

può, per analizzare ancora un altro esempio, indicare l’« idea » 

dell’« artigianato » in un’utopia, congiungendo determinati trat- 

ti che si possono rintracciare diffusamente presso gli artigiani 

dei più diversi tempi e paesi — accentuati unilateralmente 

nelle loro conseguenze — in un quadro ideale in sé privo di 

contraddizione, e riferendoli a un'espressione concettuale, che 

si trova manifestata nel loro ambito. Si può inoltre compiere il 

tentativo di individuare una società nella quale tutti i rami di 

attività economica, e anche spirituale, siano regolati da massi- 

me che ci appaiono come l’applicazione del medesimo princi- 

pio caratteristico dell’« artigianato », elevato a tipo ideale. Si 

può poi ancora contrapporre quel tipo ideale dell’artigianato a 

un corrispondente tipo ideale di organizzazione industriale ca- 

pitalistica, astratta da certe caratteristiche della grande indu- 

stria moderna, e quindi compiere infine il tentativo di elabora- 

re l’utopia di una cultura «capitalistica », dominata esclusiva- 

mente dall’interesse all'impiego di capitali privati. Essa dovreb- 

be congiungere, accentuandoli in un quadro concettuale non 

contraddittorio per la nostra considerazione, determinati tratti 

esistenti in maniera diffusa della moderna vita materiale e 

spirituale, considerati nel loro carattere specifico. Ciò sarebbe 

un tentativo di indicare l’«idea » della cultura capitalistica — 

se e come a ciò si possa pervenire, non è ancora dato di saperlo. 

È però possibile, o piuttosto dev’essere considerato come sicuro, 

che si pervenga ad abbozzare più utopie di questo tipo, e 

certamente in misura assai numerosa, di cui nessuna è eguale 

alle altre, e di cui nessuna può venir osservata nella realtà 

empirica come ordinamento di fatto valido della situazione so- 

ciale; ognuna comporta però la pretesa di costituire una rappre- 

sentazione dell'«idea» della cultura capitalistica, e ognuna 

può anche far valere questa pretesa in quanto ha assunto dalla 

realtà, congiungendoli in un quadro ideale unitario, certi tratti 

della nostra cultura forniti di significato nel loro specifico carat- 

tere. Infatti quei fenomeni che ci interessano come fenomeni 

culturali derivano di regola questo interesse per noi — cioè il 

loro « significato culturale » — da idee di valore assai differen- 

ti con le quali possiamo porli in relazione. Come vi sono perciò 

« punti di vista » estremamente diversi dai quali possiamo consi- 



MAX WEBER 603 



derarli per noi significativi, così si possono impiegare anche i 

più diversi princìpi di scelta delle connessioni da assumere in 

un tipo ideale di una determinata cultura. 


Quale è però il significato di questi concetti tipico-ideali per 

una scienza di esperienza, quale noi intendiamo promuoverla? 

Si deve anzitutto porre in luce che la nozione di « ciò che deve 

essere », vale a dire di un «modello normativo », deve essere 

accuratamente distinto qui da questo quadro concettuale a cui 

ci riferiamo, e che è «ideale» in senso puramente logico. Si 

tratta della costruzione di connessioni che appaiono motivate in 

maniera plausibile alla nostra faztasia, e quindi « oggettivamen- 

te possibili », cioè adeguate nei confronti del nostro sapere no- 

mologico. 


Chi ritenga che la conoscenza della realtà storica debba o 

possa essere una riproduzione « priva di presupposti» di fatti 

«oggettivi », rifiuterà ad essi qualsiasi valore. E anche chi ha 

riconosciuto che non c'è un’« assenza di presupposti » in senso 

logico sul terreno della realtà, e che pure il più semplice rias- 

sunto di documenti o la più semplice registrazione delle fonti 

può avere qualche senso scientifico solo in base a un riferimen- 

to a « significati », e quindi in ultima istanza a idee di valore, 

considererà tuttavia la costruzione di qualsiasi « utopia » storica 

come un mezzo di illustrazione pericoloso per un lavoro storico 

impregiudicato, e più spesso semplicemente come un gioco. E 

infatti non si può mai decidere @ priori se si tratti con questo 

di un puro gioco concettuale, oppure di un’elaborazione concet- 

tuale scientificamente feconda; anche qui esiste un solo criterio, 

quello dell’efficacia per la conoscenza di fenomeni culturali 

concreti nella loro connessione, nel loro condizionamento causa- 

le e nel loro significato. Non come fine, bensì come mezzo ha 

dunque importanza la formazione di tipi ideali astratti. Ogni 

attenta osservazione degli elementi concettuali della rappresen- 

tazione storica mostra però che lo storico, nell’intraprendere il 

tentativo di determinare, al di là della mera constatazione di 

connessioni concrete, il significato culturale di un processo indi- 

viduale per quanto semplice possa essere, e quindi di « caratte- 

rizzarlo », lavora e deve lavorare con concetti che possono ve- 

nir definiti in maniera precisa e univoca soltanto sotto forma di 

tipi ideali. Oppure concetti come « individualismo », « imperia- 



604 MAX WEBER 



lismo », « feudalesimo », « mercantilismo » ecc. sono «conven- 

zionali », e le numerose formazioni concettuali del medesimo 

tipo, con le quali cerchiamo di concepire e di intendere la 

realtà, possono venir determinate nel loro contenuto mediante 

una descrizione « priva di presupposti» di qualsiasi concreto 

fenomeno, oppure mediante la congiunzione in forma astratta 

di ciò che è comune a più fenomeni concreti? La lingua che 

lo storico parla contiene in centinaia di parole questi quadri 

concettuali indeterminati, elaborati per un bisogno di espressio- 

ne che inconsapevolmente si fa valere, e il cui significato può 

dapprima soltanto essere avvertito intuitivamente, non già con- 

cepito con chiarezza. In infiniti casi, particolarmente nel cam- 

po della storia politica descrittiva, l’indeterminatezza del loro 

contenuto non è certo di alcun pregiudizio alla chiarezza della 

rappresentazione. Basta infatti che nel caso singolo sia sentito 

ciò che è in mente allo storico, oppure ci si può accontentare 

che una particolare accezione del contenuto concettuale sia pre- 

supposta con un relativo significato per il caso singolo. Ma” 

quanto più precisamente si deve recare alla coscienza la signifi- 

catività di un fenomeno culturale, tanto più inevitabile diventa 

il bisogno di lavorare con concetti chiari, determinati non solo 

in maniera particolare ma anche in tutti i loro aspetti. Una 

« definizione » di quelle sintesi formulate dal pensiero storico, 

secondo lo schema gezus proximum-differentia specifica, è natu- 

ralmente un’assurdità; se ne faccia pure la prova. Una forma 

siffatta di determinazione del significato verbale è possibile so- 

lo sul terreno di discipline dogmatiche, che lavorano con sillogi- 

smi. Non può esservi — o può esservi soltanto in apparenza — 

una semplice «risoluzione descrittiva» di quei concetti nei 

loro elementi, poiché ciò dipende proprio dalla determinazio- 

ne di quali elementi debbano essere considerati come essenzia- 

li. Se si deve tentare una definizione genetica del contenuto 

concettuale, rimane soltanto la forma del tipo ideale nel senso 

sopra fissato. Esso costituisce un quadro concettuale, il quale 

non è la realtà storica, e neppure l’« autentica » realtà, e tanto 

meno può servire come uno schema nel quale la realtà debba 

essere inserita come esempio; esso ha il significato di un puro 

concetto-limite ideale, a cui la realtà deve essere misurata e 

comparata, al fine di illustrare determinati elementi significati 



MAX WEBER 605 



vi del suo contenuto empirico. Questi concetti sono formazioni 

nelle quali costruiamo, impiegando Ja categoria di possibilità 

oggettiva, connessioni che la nostra fantasia, orientata e discipli- 

nata in vista della realtà, giudica adeguate. 


Il tipo ideale rappresenta, particolarmente in questa funzio- 

ne, il tentativo di concepire gli individui storici o i loro elemen- 

ti particolari in virtù di concetti genetici. Si prendano per 

esempio i concetti di «chiesa» e di «setta». Essi si lasciano 

risolvere, in via puramente classificatoria, in complessi di carat- 

teristiche in cui non soltanto il confine tra l’uno e l’altro, ma 

anche il contenuto concettuale deve rimanere sempre fluido. Se 

però voglio concepire il concetto di «setta» geneticamente, 

cioè in riferimento a certi importanti significati culturali che 

lo «spirito di setta» ha avuto per la cultura moderna, allora 

determinate caratteristiche dell’uno e dell’altro diventano essen- 

ziali, in quanto stanno in relazione causale adeguata con quegli 

effetti. I concetti diventano però al tempo stesso tipico-ideali, 

cioè essi non si presentano mai, o si presentano soltanto in 

maniera sporadica, nella loro piena purezza concettuale. Qui 

come ovunque ogni concetto non puramente classificatorio al- 

lontana dalla realtà. Ma la natura discorsiva del nostro conosce- 

re, vale a dire la circostanza che noi possiamo cogliere la real- 

tà soltanto mediante una catena di mutamenti di rappresenta- 

zione, postula una siffatta stenografia di concetti. La nostra 

fantasia può certo fare sovente a meno di una espressa formula- 

zione concettuale come mezzo di ricerca — ma per la rappre- 

sentazione, se essa vuol essere precisa, l’impiego di tali concetti è 

in innumerevoli casi del tutto indispensabile sul terreno dell’ana- 

lisi culturale. Chi la respinga in linea di principio deve limitar- 

si all’aspetto formale, per esempio a quello storico-giuridico, 

dei fenomeni culturali. Il cosmo delle norme giuridiche può 

naturalmente venire al tempo stesso determinato in forma con- 

cettualmente chiara e valere (in senso giuridico1) per la realtà sto- 

rica. Ma è del loro significato pratico che deve occuparsi il 

lavoro della scienza sociale nel nostro senso. Questo significato 

può però spesso essere reso consapevole in maniera precisa sol- 

tanto mediante il riferimento del dato empirico a un caso-limi- 

te ideale. Se lo storico (nel senso più ampio della parola) ri- 

fiuta un tentativo di formulazione di un tipo ideale siffatto 



606 MAX WEBER 



come « costruzione teorica », cioè come qualcosa di non adatto 

o di non indispensabile per il suo concreto scopo conoscitivo, 

la conseguenza è di regola che egli impiega, consapevolmente o 

meno, altri concetti analoghi sezz4 una formulazione linguisti 

ca e un'elaborazione logica, oppure che egli rimane attaccato al 

campo di ciò che è « sentito » indeterminatamente. 


Nulla è tuttavia più pericoloso di una mescolarza di teoria 

e storia, derivante da pregiudizi naturalistici, sia che si cre- 

da di aver fissato in quei quadri concettuali di carattere teorico 

il contenuto « proprio », l’«essenza» della realtà storica, sia 

che li si impieghi invece come un letto di Procuste nel quale 

debba essere costretta la storia, sia che si ipostatizzino infine le 

«idee » come una realtà « vera e propria » che sussista dietro al 

fluire dei fenomeni, cioè come « forze » reali che si manifesta- 

no nella storia. 


Soprattutto quest’ultimo pericolo incombe su di noi quando 

siamo abituati a comprendere tra le «idee » di un'epoca anche, 

e anzi in prima linea, i principi o gli ideali che hanzo domina- 

to le masse, oppure una parte storicamente considerevole degli 

uomini di quell’epoca, e che perciò sono stati significativi come 

componenti della sua configurazione culturale. A ciò si devono 

ancora aggiungere due considerazioni — in primo luogo la 

circostanza che tra l’«idea » nel senso di una direzione concet- 

tuale, pratica o teorica, e «idea » nel senso di un tipo ideale 

di un’epoca da noi costruito come strumento concettuale sussi- 

stono di regola determinate relazioni. Un tipo ideale di deter- 

minate situazioni sociali, che si lascia astrarre da certi caratteri- 

stici fenomeni sociali di un’epoca, può — e questo è infatti 

sovente il caso — avere ispirato l’uomo del tempo come ideale 

da conseguire praticamente oppure come massima per la regola- 

mentazione di determinate relazioni sociali. Ciò vale già per 

l’«idea» della « garanzia del sostentamento » e di varie teorie 

canonistiche, specialmente di san Tommaso, in rapporto al con- 

cetto tipico-ideale oggi impiegato dell’«economia cittadina » 

del Medioevo, a cui abbiamo accennato sopra. E ciò vale mag- 

giormente per il famigerato « concetto fondamentale » dell’eco- 

nomia politica, vale a dire per il concetto di « valore » economi- 

co. Dalla Scolastica fino alla teoria marxistica il principio di 

qualcosa che sia « oggettivamente » valido, e che quindi deve 



MAX WEBER 607 



essere, si è qui amalgamato con un’astrazione derivata dal cor- 

so empirico della formazione del prezzo. E quel principio, che 

il «valore» dei beni debba essere regolato secondo determinati 

princìpi « di diritto naturale », ha avuto e ha tuttora un'immen- 

sa importanza per lo sviluppo della cultura — non solo del 

Medioevo. Esso ha intensamente influenzato soprattutto la for- 

mazione empirica dei prezzi. Ciò che però viene, e può venir 

pensato sotto quel concetto teorico, può essere chiarito in manie- 

ra realmente univoca soltarzto in virtù di una precisa elaborazio- 

ne concettuale, e cioè di un’elaborazione tipico-ideale — e a ciò 

dovrebbe riflettere chi motteggia sulle « robinsonate » della teo- 

ria astratta, almeno finché non abbia da porre al loro posto 

qualcosa di meglio, e cioè di più chiaro. 


Il rapporto causale tra l’idea storicamente determinabile, 

che governa gli uomini, e quegli elementi della realtà storica 

dai quali è possibile astrarre il tipo ideale ad essa corrisponden- 

te, può naturalmente configurarsi in maniera assai diversa. In 

linea di principio occorre però stabilire soltanto che si tratta di 

due cose ovviamente eterogenee. Ma a ciò si deve inoltre ag- 

giungere che noi possiamo comprendere con precisione concet- 

tuale quelle «idee » medesime che governano gli uomini di 

un’epoca, e che operano in maniera diffusa tra di loro — dal 

momento che si tratta qui di una più complicata formazione 

concettuale — di nuovo soltanto zella forma di un tipo ideale; 

e ciò perché vivono empiricamente nella testa di una indetermi- 

nata e mutevole molteplicità di individui, assumendo in essi le 

più diverse gradazioni di forma e di contenuto, di chiarezza e 

di senso. Per esempio, quegli elementi della vita spirituale de- 

gli individui singoli in una determinata epoca del Medioevo, 

che di solito noi designamo come «il Cristianesimo» degli 

individui in questione, costituirebbe naturalmente — rel caso 

che si potesse rappresentarli in maniera compiuta — un caos di 

connessioni concettuali e affettive di ogni tipo, infinitamente 

differenziate e assai contraddittorie, sebbene la Chiesa medievale 

abbia certo realizzato l’unità della fede e dei costumi in misura 

particolarmente elevata. Se si propone la questione di che cosa 

sia stato allora in questo caos i « Cristianesimo » medievale, 

con il quale si deve nondimeno operare continuamente come se 



608 MAX WEBER 



fosse un concetto ben determinato, e in che cosa consista l’ele- 

mento «cristiano » che noi troviamo nelle istituzioni del Me- 

dioevo, risulta subito che anche qui viene, in ogni singolo caso, 

impiegata una pura formazione concettuale da noi creata. Esso 

è una combinazione di proposizioni di fede, di norme giuridico- 

ecclesiastiche e di norme etiche, di massime della condotta del- 

la vita e di innumerevoli connessioni particolari, che noi unia- 

mo in un’«idea»: è una sintesi alla quale non possiamo perve- 

nire in maniera non contraddittoria senza l’impiego di concetti 

tipico-ideali. 


La struttura logica dei sistemi concettuali in cui rappresen- 

tiamo tali «idee », e il loro rapporto con ciò che ci è immedia- 

tamente dato nella realtà empirica, sono naturalmente assai 

diversi. La questione si presenta ancora in forma relativamente 

semplice nei casi in cui vi siano uno oppure pochi princìpi 

teorici direttivi che si possono facilmente esprimere in formule 

— per esempio la fede nella predestinazione di Calvino — o 

postulati etici chiaramente formulabili, i quali abbiano domina- 

to gli uomini e prodotto effetti storici, in maniera da poter 

articolare l’«idea » in una gerarchia di posizioni che si svilup- 

pano logicamente in base a quei principi direttivi. Già allora si 

scorda però con troppa facilità che, per quanto potente sia stata 

nella storia l’importanza anche della forza coercitiva puramen- 

te Zogica del pensiero — il marxismo ne è un esempio eminente 

— tuttavia il processo storico-empirico nella testa degli uomini 

deve di regola venir inteso come condizionato psicologicamente 

e non logicamente. E il carattere tipico-ideale di siffatte sintesi 

di idee storicamente operanti risulta in maniera ancor più di- 

stinta allorché quei fondamentali principi direttivi e quei postu- 

lati non vivono, oppure non vivono più, nella testa degli indivi- 

dui dominati da posizioni che ne derivano logicamente, oppure 

per associazione, in quanto l’«idea » che in origine stava alla 

loro base è scomparsa, oppure ha trovato una diffusione solo 

nelle proprie conseguenze. In maniera ancor più decisiva il 

carattere della sintesi emerge come il carattere di un’« idea » 

che noi creiamo quando quei fondamentali princìpi direttivi 

fin dall’inizio sono pervenuti solo in forma incompiuta, o non 

sono pervenuti, a coscienza distinta, o per lo meno non hanno 

assunto la forma di chiare connessioni concettuali. Quando per- 



MAX WEBER 609 



ciò adottiamo questo procedimento, come accade e deve accade- 

re molto sovente, ci troviamo con questa «idea» — sia essa 

l’idea del «liberalismo» di un determinato periodo o quella 

del « metodismo » o quella di qualsiasi specie di « socialismo » 

concettualmente non sviluppato — di fronte a un puro tipo 

ideale, che è analogo alle sintesi dei « princìpi » di un’epoca 

economica da cui abbiamo preso le mosse. Quanto più ampie 

sono le connessioni che si devono rappresentare, e quanto più 

molteplice è stato il loro significato culturale, tanto più la loro 

rappresentazione sistematica in un complesso concettuale si ac- 

costa al carattere del tipo ideale, e tazto meno è possibile 

operare con uno solo di tali concetti; e tanto più naturali e 

inevitabili diventano quindi i tentativi, sempre ripetuti, di reca- 

re a coscienza sempre nuovi aspetti significativi mediante l’ela- 

borazione di concetti tipico-ideali. Tutte le formulazioni di 

un’«essenza» del Cristianesimo, per esempio, sono tipi ideali 

che hanno sempre, e necessariamente, soltanto una validità mol- 

to relativa e problematica se pretendono di essere considerate 

come una rappresentazione storica di ciò che esiste empirica- 

mente; e sono invece di alto valore euristico per la ricerca e di 

alto valore sistematico per tale rappresentazione se vengono 

impiegate semplicemente come mezzi concettuali per la compa- 

razione e per la misurazione della realtà in riferimento ad esse. 

In questa funzione esse risultano addirittura indispensabili. A 

tali formulazioni tipico-ideali si aggiunge però di regola ancora 

un altro elemento, che ne complica ulteriormente il significato. 

Esse vogliono di solito essere, oppure sono inconsapevolmente, 

tipi ideali non soltanto in senso /ogico, ma anche in senso 

pratico: sono cioè modelli che — per attenerci all'esempio — 

contengono ciò che il Cristianesimo deve essere secondo la con- 

vinzione dell’autore, cioè che in esso è per lui «essenziale », 

perché fornito di valore permanente. In questo caso, però, sia 

esso consapevole o — più spesso — inconsapevole, siffatte for- 

mulazioni contengono degli ideali 4i quali l’autore riferisce 

valutativamente il Cristianesimo: sono compiti e fini verso cui 

egli orienta la sua «idea » del Cristianesimo, e che naturalmen- 

te possono essere assai diversi, e senza dubbio sempre lo saran- 

no, dai valori ai quali gli uomini del tempo, per esempio i 



39. STORICISMO TEDESCO. 



610 MAX WEBER 



Cristiani primitivi, riferivano il Cristianesimo ‘. In questo signi- 

ficato le «idee» non sono naturalmente più puri strumenti 

logici, non sono più concetti a cui la realtà viene misurata 

comparativamente, bensì sono ideali in base ai quali essa è 

giudicata valutativamente. Nor si tratta più del puro processo 

teorico di riferimento di ciò che è empirico ai valori, ma di 

giudizi di valore che vengono accolti nel « concetto » del Cri- 

stianesimo. Poiché qui il tipo ideale pretende una validità em- 

pirica, esso penetra nella regione dell’interpretazione valuta- 

tiva del Cristianesimo; il terreno della scienza empirica è abban- 

donato, e di fronte a noi sta una professione personale, 707 

un'elaborazione concettuale di carattere tipico-ideale. Per quan- 

to questa distinzione sia una distinzione di principio, tuttavia 

la mescolanza di quei due significati dell’« idea », così fonda- 

mentalmente diversi, si presenta molto spesso nel corso del 

lavoro storico. Essa è sempre prossima allorché lo storico comin- 

cia a sviluppare la sua «concezione » di una personalità o di 

un’epoca. In antitesi ai criteri etici costanti che uno Schlosser® 

impiegava in conformità allo spirito del razionalismo, lo stori- 

co moderno educato relativisticamente, che vuole da un lato 

«intendere in base a se stessa » e dall’altro tuttavia anche « giu- 

dicare» l’epoca di cui parla, sente il bisogno di assumere i 

criteri del proprio giudizio « dalla materia», cioè di lasciar 

scaturire l’«idea » nel senso di ideale dall’«idea » nel senso di 

«tipo ideale ». E l’attrattiva estetica di un procedimento del 

genere lo trascina continuamente a scordare la linea in cui 

l’una e l’altra si distaccano — una deficienza che da un lato 

non può fare a meno del giudizio valutativo, e dall'altro porta 

a respingere da sé la responsabilità dei propri giudizi. Di fron- 

te a ciò è tuttavia un dovere elementare dell’autocontrollo scien- 



4. Weber si riferisce qui alle discussioni sull’« essenza » del Cristianesimo, parti- 

colarmente vive nella cultura filosofico-religiosa tedesca dci primi anni del secolo — 

a partire dalla pubblicazione di Das Wesen des Christentums di Adolf von Harnack 

(1900). 


5. Friedrich Christoph Schlossser (1776-1861), storico tedesco, autore della Wele- 

geschichte in zusammenhingender Darstellung (1816-24), della Geschichte des 18. 

Jahrhunderts (1823), poi continuata col nuovo titolo di Geschichte des 18. Jahr 

hunderts und des 19. bis zum Sturz des franzòsischen Kaiserreichs mit besonde- 

rer Riicksicht auf geistige Bildung (1836-49), di una Weltgeschichte fiir das deutsche 

Volk (1844-56) di carattere divulgativo e di varic altre opere. 



MAX WEBER 6II 



tifico, e il solo mezzo per prevenire gli inganni, distinguere 

con precisione la relazione logica comparativa della realtà con 

tipi ideali in senso logico dalla valutazione della realtà in base 

a ideali. Un «tipo ideale » nel nostro senso — si può ripeterlo 

ancora una volta — è completamente indifferente nei confronti 

del giudizio valutativo, e non ha nulla a che fare con una 

« perfezione » che non sia puramente logica. Vi sono tipi ideali 

tanto di bordelli quanto di religioni; e vi sono tipi ideali di 

bordelli che possono sembrare tecnicamente « conformi allo sco- 

po» dal punto di vista dell’odierna etica di polizia, come ve 

ne sono di quelli per cui vale proprio l'opposto. 


Deve qui necessariamente venir messa in disparte la discus- 

sione approfondita del caso che si presenta di gran lunga come 

il più complicato e interessante — la questione della struttura 

logica del concetto di stato. Si deve solamente osservare che, 

chiedendoci che cosa corrisponda nella realtà empirica all’idea 

dello « stato », noi troviamo un’infinità di comportamenti uma- 

ni attivi e passivi, in forma diffusa e discreta, di relazioni 

regolate di fatto e giuridicamente che presentano un carattere 

in parte singolare e in parte regolarmente ricorrente, tenute 

insieme da un'idea, cioè dalla fede in norme valide di fatto, o 

che devono valere, e in rapporti di potere di uomini sugli 

uomini. Questa fede è in parte un possesso spirituale concettual- 

mente elaborato, in parte è invece oscuramente sentita, in parte 

ancora passivamente accolta e configurata nel modo più diverso 

nella testa di individui i quali, se concepissero l’«idea » come 

tale in maniera realmente chiara, non avrebbero bisogno della 

«dottrina generale dello stato» a cui tale idea intende dare 

origine. Il concetto scientifico di stato, in qualsiasi modo venga 

formulato, è naturalmente una sintesi che z0i assumiamo per 

determinati scopi conoscitivi. Ma d'altra parte esso è pure 

astratto dalle non chiare sintesi che sono state ritrovate nella 

testa degli uomini storici. Però il contenuto concreto che lo 

« stato » storico assume in quelle sintesi dei contemporanei può 

venire illustrato soltanto se ci orientiamo in base a concetti 

tipico-ideali. Inoltre non c’è il minimo dubbio che il modo in 

cui quelle sintesi sono effettuate, in forma sempre logicamente 

incompiuta, dai contemporanei, cioè il modo in cui essi si 

fanno le loro «idee » dello stato — per esempio la metafisica 



612 MAX WEBER 



«organica » dello stato, sorta in Germania, in antitesi alla con- 

cezione « commerciale » americana — è di importanza eminen- 

temente pratica; cioè anche qui, in altri termini, l’idea pratica 

che si crede debba valere o valga e il zipo ideale teorico, 

costruito a scopi conoscitivi, si accostano tra loro e mostrano la 

continua tendenza a passare l’uno nell’altro. 



Noi abbiamo sopra considerato di proposito il « tipo ideale » 

essenzialmente — quand’anche non esclusivamente — come 

una costruzione concettuale per la misurazione e la caratterizza- 

zione sistematica di connessioni individuali, cioè significative 

nella loro singolarità, come per esempio il Cristianesimo, il 

capitalismo ecc. Ciò è avvenuto allo scopo di mettere da parte 

la banale nozione che nel campo dei fenomeni culturali cid che 

è astrattamente zipico sia identico con ciò che è astrattamente 

conforme al genere. Questo non è il caso. Senza analizzare qui 

in linea di principio il concetto di « tipico», più volte discusso 

e assai screditato per l’abuso fattone, noi possiamo assumere dal 

nostro precedente esame che l’elaborazione di concetti di tipo, 

nel senso di un’eliminazione di ciò che è « accidentale », trova 

la propria sede anche e precisamente in rapporto agli individui 

storici. Naturalmente anche quei concetti di genere, che trovia- 

mo a ogni passo come elementi di esposizioni storiche e di 

concreti concetti storici, possono però venir formati come tipi 

ideali mediante un procedimento di astrazione e di accentuazio- 

ne di determinati elementi ad essi concettualmente essenziali. 

Questo è appunto un caso di applicazione dei concetti tipico- 

ideali particolarmente frequente e importante dal punto di vista 

pratico; e ogni tipo ideale individuale si costruisce in base a 

clementi concettuali che sono generici, e che sono stati formati 

come tipi ideali. Anche in questo caso emerge però la specifica 

funzione logica dei concetti tipico-ideali. Un semplice concetto 

di genere, nel senso di un complesso di caratteristiche comuni a 

più fenomeni, è per esempio il concetto di «scambio» — fin- 

ché prescindo dal significato degli elementi concettuali e analiz- 

zo semplicemente l’uso linguistico quotidiano. Se però pongo 

questo concetto in relazione, per esempio, con la «legge di 

utilità marginale » ed elaboro il concetto di « scambio economi- 

co » come concetto di un processo economicamente razionale, 



MAX WEBER 613 



allora questo contiene in sé, al pari di ogni concetto logicamen- 

te sviluppato in maniera compiuta, un giudizio sulle condizioni 

«tipiche » dello scambio. Esso assume carattere genetico e di- 

venta perciò al tempo stesso tipico-ideale in senso logico, cioè si 

allontana dalla realtà empirica, la quale può solo essere compa- 

rata con esso e ad esso riferita. Una cosa analoga vale per tutti 

i cosiddetti « concetti fondamentali » dell'economia politica: es- 

si possono venir sviluppati in forma genetica soltanto come 

tipi ideali. L’antitesi tra semplici concetti di genere, i quali 

riuniscono ciò che è comune a certi fenomeni empirici, e tipi 

ideali di carattere generico — come per esempio nel caso di un 

concetto tipico-ideale dell’« essenza » dell’artigianato — è natu- 

ralmente fluida nel caso singolo. Ma nessun concetto di genere 

ha in quanto tale carattere «tipico», e non c’è nessun tipo 

« di media» che sia puramente conforme a un genere. Ovun- 

que parliamo, per esempio in statistica, di grandezze « tipi- 

che », si presenta qualcosa di più che una mera media. Quanto 

più ci troviamo dinanzi a una semplice classificazione di proces- 

si che si presentano nella realtà come fenomeni di massa, tanto 

più si tratta di concetti di genere; quanto più invece vengono 

formate concettualmente complicate connessioni storiche, prese 

in quei loro elementi su cui poggia il loro specifico significato 

culturale, tanto più il concetto — o il sistema concettuale — 

assumerà il carattere del tipo ideale. Poiché scopo dell’elabora- 

zione di concetti tipico-ideali è sempre quello di rendere esplici- 

to con precisione 207 già ciò che è conforme al genere, bensì, 

al contrario, il carattere specifico di certi fenomeni culturali. 


Che tipi ideali, anche di carattere generico, possano essere e 

siano impiegati, presenta un interesse metodologico soltanto in 

connessione con un altro fatto. 


Finora abbiamo imparato a conoscere i tipi ideali essenzial- 

mente soltanto come concetti astratti di connessioni che, perma- 

nendo nel flusso dell’accadere, sono da noi rappresentati come 

individui storici, i cui si compiono determinate linee di svilup- 

po. Ora si presenta però una complicazione, la quale reintrodu- 

ce in maniera molto facile, con l’aiuto del concetto di «tipi- 

co », il pregiudizio naturalistico che fine delle scienze sociali 

debba essere la riduzione della realtà a «leggi». Anche le 

linee di sviluppo possono venir costruite come tipi ideali, e 



614 MAX WEBER 



queste costruzioni possono avere un valore euristico assai consi- 

derevole. Ma così sorge, in misura particolarmente forte, il 

pericolo che vengano tra loro confusi il tipo ideale e la realtà. 

Si può per esempio pervenire al risultato teorico che in una 

società organizzata in forma rigorosamente «artigianale » la 

sola fonte di accumulazione del capitale sia la rendita fondia- 

ria. Su tale base si può forse poi costruire — poiché non si deve 

qui indagare la correttezza della costruzione — un quadro idea- 

le della trasformazione dell'economia a carattere artigianale in 

un'economia capitalistica, condizionato da determinati fattori 

semplici — terreno limitato, popolazione crescente, afflusso di 

metalli preziosi, razionalizzazione della condotta della vita. Se 

il corso storico-empirico dello sviluppo sia stato di fatto quello 

costruito può venir indagato soltanto con l’aiuto di questa co- 

struzione in quanto mezzo euristico, mediante la comparazione 

tra tipo ideale e «fatti». Se il tipo ideale è « correttamente » 

costruito, e tuttavia il corso oggettivo zor corrisponde al corso 

tipico-ideale, si verrebbe a conseguire la prova che la società 

medievale 07 è stata, in determinate relazioni, una società a 

carattere rigorosamente « artigianale ». E quando il tipo ideale 

è stato costruito in maniera «ideale » euristica — se e come 

ciò possa avvenire nel nostro caso, rimane qui del tutto fuori 

della nostra considerazione — allora esso orienterà nel medesi- 

mo tempo la ricerca sulla via che conduce a una più precisa 

penetrazione di quegli elementi della società medievale i quali 

non presentano carattere artigianale, studiati nel loro specifico 

carattere e nel loro significato storico. Esso ha attuato il suo 

scopo logico, quando reca a questo risultato, proprio in quanto 

ha manifestato la sua propria irrealtà. Esso costituiva, in tale 

caso, la prova di un'ipotesi. Il procedimento non è esposto a 

nessuna riserva metodologica fin quando si tenga presente che 

la costruzione tipico-ideale di uno sviluppo e la storia sono due 

cose da tenere rigorosamente distinte, e che la costruzione è 

stata qui semplicemente il mezzo per compiere in maniera 

sistematica l'imputazione valida di un processo storico alle sue 

cause reali, entro l'ambito di quelle possibili in conformità allo 

stato della nostra conoscenza. 


Mantenere rigorosamente in piedi questa distinzione è reso 

sovente molto difficile — secondo quanto ci dice l’esperienza — 



MAX WEBER 615 



dalla seguente circostanza. Nell’interesse della presentazio- 

ne in forma intuitiva del tipo ideale o dello sviluppo tipico-idea- 

le si cercherà di #lustrarlo mediante materiale intuitivo tratto 

dalla realtà storico-empirica. Il pericolo di questo procedimen- 

to, che pure è in sé del tutto legittimo, consiste nel fatto che 

il sapere storico appare qui come servitore della teoria, anziché 

viceversa. Il teorico si trova di fronte alla tentazione di conside- 

rare questo rapporto come normale, oppure — il che è peggio 

— di accostare teoria e storia, e addirittura di scambiarle tra 

loro. Questo caso si presenta in misura ancor più accentuata 

allorché la costruzione ideale di uno sviluppo è effettuata in 

maniera da inserirla, con la classificazione concettuale di tipi 

ideali di determinate formazioni culturali (per esempio delle 

forme di impresa industriale muovendo dall’« economia dome- 

stica chiusa », oppure dei concetti religiosi cominciando dalle 

« divinità dell’attimo »), entro una classificazione genetica. La 

serie dei tipi che risulta in base alle caratteristiche concettuali 

prescelte appare quindi come una loro successione storica, legal- 

mente necessaria. L'ordine logico dei concetti da un lato, e 

dall’altro l'ordinamento empirico di ciò che viene concepito 

nello spazio, nel tempo e nella connessione causale, sembrano 

così legati tra loro che quasi irresistibile diventa la tentazio- 

ne di fare violenza alla realtà, per confermare nella realtà la 

validità effettiva della costruzione. 


Di proposito si è evitato di condurre la dimostrazione in 

riferimento a quello che per noi è di gran lunga il più impor- 

tante caso di costruzioni tipico-ideali — cioè in riferimento a 

Marx. Ciò è avvenuto per non complicare ancora l’esposizione 

tirando dentro anche le interpretazioni di Marx, e per non 

anticipare le discussioni con cui la nostra rivista farà di regola 

oggetto di analisi critica la letteratura accumulatasi sul — oppu- 

re in rapporto al — grande pensatore. Qui ci si può pertanto 

limitare a constatare che tutte le «leggi» e le costruzioni di 

sviluppo specificamente marxistiche — in quanto sono teorica- 

mente prive di errore — hanno naturalmente carattere tipico- 

ideale. Chiunque abbia lavorato con concetti marxistici conosce 

l’eminente, e anzi singolare significato euristico di questi tipi 

ideali, quando li si impieghi per comparare con essi la realtà, e 

conosce al tempo stesso la loro pericolosità quando si voglia 



616 MAX WEBER 



presentarli come validi empiricamente, oppure come «forze 

operanti », «tendenze » ecc. reali (cioè, in verità, metafisiche). 


Concetti di genere; tipi ideali; concetti di genere tipico-idea- 

li; idee nel senso di combinazioni concettuali empiricamente 

operanti negli uomini storici; tipi ideali di queste idee; ideali 

che dominano gli uomini storici; tipi ideali di questi ideali; 

ideali a cui lo storico riferisce la storia; costruzioni zeoriche 

effettuate mediante l’impiego illustrativo del dato empirico; 

indagine storica condotta mediante l’impiego di concetti teori- 

ci come casi-limite ideali; e inoltre ancora le diverse complica- 

zioni possibili a cui si è solo potuto accennare — sono tutte 

formazioni concettuali, il cui rapporto con la realtà empirica 

del dato immediato resta problematico in ogni caso particolare. 

Questa elencazione mostra già da sola l’intrico senza fine dei 

problemi metodico-concettuali, che rimangono sempre in vita 

nel campo delle scienze della cultura. E noi abbiamo dovuto 

astenerci assolutamente dall’esaminare le questioni metodologi- 

che pratiche connesse ai problemi che si è potuto soltanto indi- 

care, e dal discutere in maniera approfondita le relazioni della 

conoscenza tipico-ideale con la conoscenza « legale », dei concet- 

ti tipico-ideali con i concetti collettivi, e così via. 



Lo storico persevererà tuttora, dopo queste polemiche, nel- 

l’affermare che la prevalenza della forma tipico-ideale di elabo- 

razione concettuale e di costruzione è un sintomo specifico 

della giovinezza di una disciplina. E in questo gli si deve in 

un certo senso dar ragione, ma con conseguenze diverse da 

quelle che egli vorrebbe trarne. Prendiamo un paio di esempi 

da altre discipline. È certo vero che lo scolaro infastidito, al 

pari del filologo primitivo, concepisce anzitutto una lingua 

«organicamente », cioè come una totalità sovra-empirica retta 

da norme, ma concepisce il compito della scienza come la 

determinazione di ciò che — in quanto regola linguistica — 

deve valere. Elaborare logicamente la «lingua scritta », come 

ha fatto ad esempio la Crusca, ridurne il contenuto a regole, è 

normalmente il primo compito che una « filologia » si propone. 

E quando invece oggi un insigne filologo proclama oggetto 

della filologia il « modo di parlare di ogni individuo », la deter- 

minazione di un programma siffatto è possibile solo in quanto 



MAX WEBER 617 



nella lingua scritta ci si trova dinanzi a un tipo ideale relativa- 

mente stabile, con cui può operare (almeno tacitamente) l’anali- 

si dell’infinita molteplicità del modo di parlare, che altrimenti 

sarebbe del tutto priva di orientamento e di approdo. Non 

altrimenti le costruzioni delle teorie dello stato a carattere gius- 

naturalistico o organico, oppure — per rammentarci di un 

ideale nel nostro senso — la teoria dello stato antico formu- 

lata da Benjamin Constant‘, funzionavano in certa misura co- 

me porti di rifugio, finché non si è imparato a orientarci 

nell’immenso mare dei fatti empirici. La maturazione di una 

scienza comporta infatti sempre il superamento del tipo ideale, 

nella misura in cui esso viene concepito come empiricamente 

valido oppure come concetto di genere. E perciò, per esempio, 

l’impiego dell’acuta costruzione di Constant è ancor oggi del 

tutto legittimo per l’illustrazione di determinati aspetti e di 

caratteristiche storiche peculiari dell’antica vita statale, se si 

tiene fermo con cura il suo carattere tipico-ideale. Non solo, 

ma soprattutto vi sono scienze alle quali è assegnata un’eterna 

giovinezza; e queste sono tutte le discipline storiche, tutte quel- 

le cioè a cui il fluire sempre progrediente della cultura propone 

di continuo nuove posizioni problematiche. È connesso all’es- 

senza del loro compito che tuzte le costruzioni tipico-ideali 

debbano tramontare, ma che al tempo stesso altre nuove siano 

sempre indispensabili. 

Di continuo si ripetono i tentativi di determinare il senso 

« proprio» o «vero » dei concetti storici, e mai essi giungono 

alla fine. Di conseguenza le sintesi, con cui la storia di conti- 

nuo lavora, rimangono regolarmente nella forma di concetti 

solo relativamente determinati, oppure, allorché si deve conse- 

guire a ogni costo l’univocità del contenuto concettuale, il con- 

cetto diventa un tipo ideale astratto e si rivela come un punto 

di vista teorico, quindi « unilaterale », dal quale la realtà può 



6. Benjamin-Henri Constant de Rebecque (1767-1830), uomo politico francese del 

periodo napoleonico e dell'età della Restaurazione, esiliato da Napoleone, in seguito 

uno dei maggiori esponenti dell’opposizione liberale alla monarchia borbonica, 

autore del Cours de politique constitutionelle (1818), del famoso discorso De la liber:é 

des anciens comparée è celle des modernes (1819), dell’opera De la religion, considéré 

dans sa source, ses formes et ses dévelopments (1824-27), dei MÉlanges de politique et 

de litiérature (1829) e di vari altri scritti, tra cui il volume postumo Du polytAdisme 

romain (1833). 



618 MAX WEBER 



essere illuminata e al quale essa può venir riferita — ma che si 

mostra evidentemente inappropriato come schema in cui essa 

potrebbe venir inserita senza residuo. Poiché nessuno di quei 

sistemi concettuali, di cui non possiamo fare a meno per la 

penetrazione degli elementi di volta in volta significativi della 

realtà, può tuttavia esaurirne l’infinita ricchezza. Nessuno è 

qualcosa di diverso da un tentativo di recare ordine, sulla base 

della situazione del nostro sapere e delle formazioni concettuali 

a nostra disposizione, nel caos di quei fatti che abbiamo com- 

preso nell’ambito del nostro inzeresse. L'apparato concettuale 

che il passato ha sviluppato mediante l'elaborazione, cioè piutto- 

sto mediante la trasformazione concettuale della realtà imme- 

diatamente data e il suo inserimento in quei concetti che corri- 

spondevano alla situazione della sua conoscenza e alla direzio- 

ne del suo interesse, sta in continua contrapposizione con la 

nuova conoscenza che noi possiamo e vogliamo ottenere dalla 

realtà. In questa lotta si compie il progresso delle scienze della 

cultura. Il suo risultato è un continuo processo di trasformazio- 

ne di quei concetti con cui cerchiamo di penetrare la realtà. La 

storia delle scienze della vita sociale è e rimane caratterizzata 

da un continuo alternarsi tra il tentativo di ordinare concettual- 

mente i fatti mediante un’opera di elaborazione concettuale, la 

risoluzione dei quadri concettuali così ottenuti mediante l’esten- 

sione e l’approfondimento dell’orizzonte scientifico, e l’elabora- 

zione di nuovi concetti sul fondamento così mutato. Non viene 

qui affatto in luce l’erroneità del tentativo di formare siste- 

mi di concetti 12 gezere — ogni scienza, anche la semplice 

storia descrittiva, lavora con la provvista concettuale del suo 

tempo — bensì la circostanza che nelle scienze della cultura 

umana la formazione dei concetti dipende dalla posizione dei 

problemi, e quest'ultima varia con il contenuto della cultura 

stessa. Nelle scienze della cultura il rapporto tra il concetto e 

il suo contenuto comporta la transitorietà di ogni sintesi siffat- 

ta. I grandi tentativi di costruzione concettuale hanno di regola 

avuto il loro valore, nel campo della nostra scienza, nel rivelare 

le limitazioni di significato del punto di vista che sta alla loro 

base. I più importanti progressi nel campo delle scienze sociali 

sono, dal punto di vista oggettivo, connessi alla trasposizione 

dei problemi pratici della cultura, e si presentano nella forma 



MAX WEEER 619 



di una critica dell’elaborazione concettuale. Sarà uno dei princi- 

pali compiti della nostra rivista servire allo scopo di questa 

critica, e perciò all'indagine dei princìpi della sintesi nel cam- 

po della scienza sociale. 



Traendo le conseguenze di quanto si è detto, noi pervenia- 

mo a un punto in cui le nostre opinioni si discostano talvolta 

da quelle di alcuni, anche eminenti, rappresentanti della scuola 

storica, tra i cui discendenti tuttavia ci siamo annoverati. Essi 

permangono sovente, in maniera espressa o tacita, nella convin- 

zione che il fine ultimo, lo scopo di ogni scienza sia quello di 

ordinare la propria materia in un sistema di concetti il cui 

contenuto deve essere ottenuto mediante l'osservazione di rego- 

larità empiriche, l’elaborazione di ipotesi e la loro verifica, 

finché non sia sorta su tale base una scienza «compiuta» e 

perciò deduttiva. In vista di questo fine il lavoro storico-indutti- 

vo che si sta attualmente conducendo sarebbe un lavoro prelimi- 

nare, condizionato dall’imperfezione della nostra disciplina: 

nulla deve naturalmente apparire più sospetto, dal punto di 

vista di questa forma di considerazione, della formazione e 

dell’impiego di concetti precisi che vorrebbero anticipare prema- 

turamente quel fine, proprio invece di un lontano futuro. Que- 

sta concezione sarebbe in linea di principio incontestabile sul 

terreno della dottrina antica e scolastica della conoscenza, a cui 

sono ancora profondamente attaccati gli specialisti della scuola 

storica: scopo dei concetti si presuppone essere la riproduzione 

rappresentativa della realtà «oggettiva», e da ciò deriva la 

continua insistenza sull’irrealtà di ogni concetto preciso. Chi 

pensa però fino in fondo il principio fondamentale della moder- 

na dottrina della conoscenza, richiamantesi a Kant, che i con- 

cetti sono e possono essere solamente mezzi del pensiero foggia- 

ti allo scopo di dominare spiritualmente il dato empirico, non 

potrà ritenere la circostanza che i concetti genetici siano neces- 

sariamente tipi ideali come un'obiezione valida contro la loro 

elaborazione. Per lui il rapporto tra concetto e lavoro storico si 

inverte: quel fine ultimo gli appare logicamente impossibile, e 

i concetti si rivelano non già fire, bensì mezzo in vista della 

conoscenza delle connessioni significative da puntì di vista indi- 

viduali. Proprio in guanto i contenuti dei concetti storici sono 



620 MAX WEBER 



necessariamente mutevoli, questi debbono essere ogni volta for- 

mulati in maniera precisa. Egli avanzerà soltanto l’esigenza 

che nel loro impiego sia accuratamente tenuto fermo il loro 

carattere di formazioni concettuali ideali, che cioè tipo ideale e 

storia non vengano scambiati tra loro. Dal momento che non si 

può considerare come fine ultimo quello di pervenire a concetti 

storici realmente definitivi, per l’inevitabile mutamento delle 

idee di valore direttive, egli riterrà che proprio in quanto con- 

cetti precisi e univoci vengono formulati in riferimento al parti- 

colare punto di vista, che ogni volta esplica una funzione diret- 

tiva, sia data la possibilità di mantenere chiari nella coscienza 

i limiti della loro validità, 


Si affermerà ora — e noi l’abbiamo già ammesso — che una 

concreta connessione storica può nel caso particolare venir illu- 

strata intuitivamente nel suo corso, senza che sia di continuo 

posta in relazione con concetti definiti. E di conseguenza si 

reclamerà per lo storico della nostra disciplina che egli, al pari 

di ciò che si è detto dello storico politico, parli la «lingua 

della vita ». Certamente! Occorre solamente aggiungere che in 

questo procedimento rimane necessariamente accidentale, in un 

grado spesso molto elevato, se il punto di vista in base a cui il 

processo considerato ottiene significato pervenga, o meno, a 

chiara coscienza. Noi non ci troviamo in genere nella felice 

situazione dello storico politico, per il quale i contenuti di 

cultura, a cui egli riferisce la sua esposizione, sono di regola 

univoci — 0 almeno così sembrano. Ogni rappresentazione che 

sia solo intuitiva assume il carattere proprio di una rappresenta- 

zione artistica: «ognuno vede ciò che reca in cuore». Giudizi 

validi presuppongono sempre l’elaborazione logicz del dato intui- 

tivo, cioè l'impiego di concetti; ed è certo possibile, e spesso 

esteticamente soddisfacente, conservarli in petto, ma ciò minac- 

cia di continuo il sicuro orientamento del lettore, sovente an- 

che quello di chi scrive, per ciò che concerne il contenuto e la 

portata dei suoi giudizi. 


Estremamente pericolosa può però diventare l’omissione di 

una precisa elaborazione concettuale per le discussioni pratiche 

di politica economica e sociale. Quale confusione abbiano qui 

prodotto per esempio l’impiego del termine « valore » — que- 



MAX WEBER 621 



sto figlio del dolore della nostra disciplina, al quale può appun- 

to essere dato un senso univoco soltanto su base tipico-ideale 

— oppure parole come « produttivo », « dal punto di vista eco- 

nomico-politico » ecc., che non reggono a nessuna analisi con- 

cettualmente chiara, è addirittura incredibile per lo spettatore 

che stia al di fuori. E a recar danno sono qui prevalentemente i 

concetti collettivi assunti dal linguaggio quotidiano. Si prenda, 

per fornire un'illustrazione il più possibile accessibile anche a 

chi non abbia competenza specifica, il concetto di « agricoltu- 

ra», quale si presenta nell’espressione « interessi dell’agricoltu- 

ra». Se assumiamo anzitutto gli « interessi dell’agricoltura » co- 

me le rappresentazioni soggettive più o meno chiare, ed empiri- 

camente determinabili, che i singoli operatori economici hanno 

dei loro interessi, e prescindiamo quindi del tutto dagli infiniti 

conflitti di interessi che qui sussistono tra allevatori di bestia- 

me, ingrassatori di bestiame, coltivatori di grano, consumatori 

di grano, distillatori di acquavite e così via, non ogni estraneo 

ma certo almeno ogni specialista si renderà conto dell'enorme 

groviglio di relazioni di valore, tra loro antagonistiche e con- 

traddittorie, che è qui sotto oscuramente implicato. Noi voglia- 

mo qui enumerarne solo alcune: interessi di agricoltori che 

vogliono vendere il proprio podere, e che perciò sono interessa- 

ti esclusivamente a un celere rialzo del prezzo del terreno; 

l'interesse contrapposto di coloro che intendono comperare, o 

accrescersi, o prendere in affitto; l'interesse di coloro che, per 

motivi di vantaggio sociale, desiderano conservare un determi- 

nato podere per i propri successori e sono quindi interessati 

alla stabilità della proprietà terriera; l'interesse contrapposto di 

coloro che desiderano, per sé e per i propri figli, un movimen- 

to del terreno in direzione di un padrone migliore oppure — il 

che non è senz'altro identico — di un acquirente fornito di 

disponibilità di capitali; l'interesse puramente economico dei 

« padroni più capaci», nel senso dell'economia privata, alla li- 

bertà di movimento economico; l'interesse antagonistico di de- 

terminati strati dominanti alla conservazione della tradizionale 

posizione sociale ed economica del proprio «ceto», e quindi 

della propria discendenza; l’interesse sociale degli strati di agri- 

coltori 207 dominanti al declino di quegli strati superiori, che 

opprimono la loro posizione; il loro interesse, che talvolta risul- 



622 MAX WEBER 



ta in collisione col precedente, di possedere in quegli strati una 

guida politica per la protezione dei propri interessi di guada- 

gno. E l’elenco potrebbe ancora essere accresciuto a lungo, 

senza trovare una fine, per quanto si proceda in maniera som- 

maria e imprecisa. Noi trascuriamo il fatto che agli interessi 

più «egoistici» di questo tipo possono mescolarsi o unirsi i 

più diversi valori ideali, e che tali valori possono ostacolarli o 

deviarli, per tenere soprattutto presente che, quando parliamo 

di «interessi dell'agricoltura», pensiamo di regola z0n sol- 

tanto a quei valori materiali e ideali a cui gli agricoltori stessi 

riferiscono i propri «interessi», bensì anche a quelle idee di 

valore, in parte completamente eterogenee, a cui noi possiamo 

riferire l'agricoltura: per esempio interessi produttivi, deri- 

vanti dall’interesse in una nutrizione più a buon mercato della 

popolazione e dall’interesse, che non sempre coincide con quel- 

lo, in una nutrizione qualitativamente migliore, a cui possono 

contrapporsi in varia maniera gli interessi della città e della 

campagna — mentre non c’è alcuna garanzia che l’interesse 

della generazione presente sia identico con il probabile inte- 

resse di quelle future; oppure interessi demografici, in partico- 

lare interessi a una 24merosa popolazione agricola, derivanti 

dagli interessi « dello stato» per motivi di politica di grande 

potenza o di politica interna, oppure da altri interessi ideali di 

specie più diversa, come dall’influenza prevista di una numero- 

sa popolazione agricola sul carattere culturale di un paese — 

interessi i quali possono contrastare con svariati interessi pri- 

vati di tutte le parti della popolazione agricola, e presumibil- 

mente anche con tutti gli interessi presenti della massa della 

popolazione agricola. Oppure si può rammentare l’interesse a 

un determinato tipo di organizzazione sociale della popolazio- 

ne agricola, a causa delle influenze politiche o culturali che ne 

derivano — interesse che può urtarsi per il suo orientamento 

con tutti i presumibili interessi presenti e futuri, anche i più 

urgenti, dei singoli agricoltori e anche « dello stato ». E — ciò 

che complica ulteriormente la cosa — lo «stato », al cui « inte- 

resse » noi volentieri riferiamo questi e numerosi altri interessi 

particolari del genere, è per noi spesso solo una designazione 

che riveste un groviglio, in sé estremamente intricato, di idee 

di valore, con cui esso è da parte sua posto in relazione nel 



MAX WEBER 623 



caso singolo: sicurezza puramente militare verso l’esterno; sicu- 

rezza della posizione dominante di una dinastia o di determina- 

te classi all’interno; interesse alla conservazione e all’estensione 

dell’unità statale della nazione, per se stessa o in funzione della 

conservazione di determinati beni culturali oggettivi, tra loro 

di nuovo assai diversi, che noi crediamo di rappresentare in 

forma di un popolo fornito di unità statale; trasformazione del 

carattere sociale dello stato nel senso di determinati ideali cultu- 

rali, ancora assai diversi — e si potrebbe continuare a lungo se 

si volesse anche soltanto accennare che cosa corre sotto l’etichet- 

ta di «interessi statali », a cui possiamo riferire «l’agricoltu- 

ra». L'esempio qui prescelto, e ancor più la nostra sommaria 

analisi, è grossolano e semplificato. Chi è privo di competenza 

specifica potrebbe ancora analizzare in maniera simile (e più a 

fondo) per esempio il concetto di « interessi di classe dei lavora- 

tori », per vedere quale groviglio, pieno di contraddizioni, in 

parte di interessi e di ideali dei lavoratori, in parte di ideali 

in base a cui noi consideriamo i lavoratori, stia al di sotto di 

esso. È impossibile superare lo slogan della lotta di interessi 

mediante un’accentuazione puramente empiristica della loro 

«relatività»: una chiara e precisa determinazione concettuale 

dei diversi punti di vista possibili è la sola via che ci consente 

di procedere oltre l'oscurità della frase. L’« argomento del libe- 

ro commercio » come intuizione del mondo o come norma vali- 

da è una cosa ridicola, ma gravi danni ha recato alle nostre 

discussioni di politica commerciale — e lo stesso vale quali che 

siano gli ideali di politica commerciale che il singolo vuole 

rappresentare — il fatto che noi abbiamo sottovalutato nel suo 

valore euristico l'antica esperienza di vita dei grandi mercanti 

depositata in tali formule tipico-ideali. Solo mediante formule 

tipico-ideali diventano realmente espliciti nel loro proprio carat- 

tere i punti di vista considerati nel caso singolo, e ciò attraver- 

so un’opera di confronto del dato empirico con il tipo ideale. 

L'uso dei concetti collettivi indifferenziati, con cui lavora il 

linguaggio quotidiano, è sempre il rivestimento di oscurità del 

pensiero o della volontà, ed è abbastanza spesso lo strumento di 

ingannevoli raggiri — in ogni caso è però un mezzo per ostaco- 

lare lo sviluppo di una corretta impostazione problematica. 



624 MAX WEBER 



Noi siamo alla fine di queste considerazioni, che miravano 

semplicemente a porre in luce la linea, spesso molto sottile, 

che separa scienza e fede, e a cogliere il senso dell’aspirazione 

alla conoscenza economico-sociale. La validità oggettiva di ogni 

sapere empirico poggia sul fatto, e soltanto sul fatto che la 

realtà data viene ordinata in base a categorie che sono soggetti 

ve in un senso specifico, in quanto cioè rappresentano il presup- 

posto della nostra conoscenza, e che sono vincolate al presuppo- 

sto del vglore di quella verità che soltanto il sapere empirico 

può darci. A colui che non consideri fornita di valore questa 

verità — e la fede nel valore della verità scientifica è infatti 

prodotto di determinate culture, e non già qualcosa di natural- 

mente dato — non abbiamo nulla da offrire con i mezzi della 

nostra scienza. Invano egli andrà in cerca di un’altra veri- 

tà che possa sostituire la scienza in ciò che essa soltanto può 

fornire — concetti e giudizi che non sono la realtà empirica, e 

che neppure la riproducono, ma che consentono di ordinarla 

concettualmente in modo valido. Nel campo delle scienze socia- 

li empiriche della cultura — l'abbiamo visto — la possibilità 

di una conoscenza fornita di senso di ciò che per noi è essenzia- 

le nell'infinità dell’accadere appare vincolata al costante impie- 

go di punti di vista di carattere specifico, i quali sono tutti, in 

ultima analisi, orientati verso idee di valore che da parte loro 

possono essere empiricamente constatate e vissute come elemen- 

ti di ogni agire umano fornito di senso, ma zor già fondate 

come valide in base al materiale empirico. L’«oggettività » co- 

noscitiva delle scienze sociali dipende piuttosto dal fatto che il 

dato empirico è sì orientato continuamente verso quelle idee di 

valore che sole gli forniscono un valore conoscitivo, ed è com- 

preso nel suo significato in base ad esse, ma tuttavia non diven- 

ta mai piedestallo per la prova, empiricamente impossibile, 

della loro validità. E la fede, che sempre è in qualche forma 

presente in tutti noi, nella validità sovra-empirica delle ultime e 

supreme idee di valore a cui ancorare il senso della nostra 

esistenza, non esclude ma reca con sé l’incessante mutabilità dei 

punti di vista concreti da cui la realtà empirica deriva un signi- 

ficato: la vita nella sua realtà irrazionale e il suo contenuto di 

possibili significati sono inesauribili, perciò la concreta configu- 

razione della relazione di valore rimane fluida, sottoposta co- 



MAX WEBER 625 



m'è al mutamento nell’oscuro avvenire della cultura umana. La 

luce, che emana da quelle supreme idee di valore, cade sempre 

su una parte finita, e continuamente mutevole, dell’immensa e 

caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo. 



Tutto ciò non dovrebbe venir frainteso nel senso che il 

compito proprio della scienza sociale debba essere una conti- 

nua caccia affannosa di nuovi punti di vista e di nuove costru- 

zioni concettuali. Al contrario, nulla dovrebbe qui venir affer- 

mato in maniera più risoluta del principio che il contributo 

alla conoscenza del significato culturale di connessioni storiche 

concrete è l’esclusivo fine ultimo a cui, accanto ad altri mezzi, 

intende servire anche il lavoro di elaborazione e di critica con- 

cettuale. Vi sono anche nel nostro campo, per usare un’espres- 

sione di F. T. Vischer?, « cercatori di materiale » e « cercatori di 

significato ». La gola bramosa di fatti dei primi può essere 

saziata solo con materiale documentario, con tavole statistiche 

e con inchieste, ma è insensibile alla raffinatezza del nuovo 

pensiero. La golosità dei secondi altera il proprio gusto con 

sempre nuovi distillati concettuali. Quella genuina capacità arti- 

stica, che per esempio tra gli storici Ranke possedeva in misura 

così grandiosa, si manifesta di solito nella capacità di creare 

qualcosa di nuovo mediante il riferimento di fatti z0t a punti 

di vista anch'essi noti. 


Ogni lavoro delle scienze della cultura in un’epoca di specia- 

lizzazione, dopo essersi diretto in base a determinate imposta- 

zioni problematiche a considerare una determinata materia, e 

dopo essersi creato i suoi princìpi metodici, riterrà l’analisi di 

questo materiale come uno scopo a sé, senza controllare di 

continuo in maniera consapevole il valore conoscitivo dei singo- 

li fatti in riferimento alle ultime idee di valore, e anche senza 

rimanere consapevole del proprio legame con queste. Ed è bene 

che sia così. Ma a un certo momento muta il colore: il signifi- 

cato dei punti di vista impiegato in maniera non riflessa diven- 

ta incerto, e la strada si perde nel crepuscolo. La luce dei 



7. Friedrich Theodor Vischer (1807-1887), autore di una Aesthetik oder Wissen- 

schaft des Schònes in sci volumi (1846-58), dì ispirazione hegeliana, e di numerosi 

saggi di estetica e di critica artistico-letteraria. 



40. STORICISMO TEDESCO. 



626 MAX WEBER 



grandi problemi culturali è di nuovo spostata. Allora anche la 

scienza si appresta a mutare la propria impostazione e il pro- 

prio apparato concettuale, e a guardare nella corrente dell’acca- 

dere dall'alto del pensiero. Essa segue quegli astri che, essi 

soli, possono mostrare senso e direzione al suo lavoro: 



ma sorge il nuovo impeto 


e mi slancio per bere alla sua luce eterna. 


Il giorno innanzi a me, la notte alle mie spalle, 

su di me il cielo, sotto di me le onde”. 



8. GoetHne, Faust, vv. 1085-88 (tr. it, di F. Fortini). 



IL SIGNIFICATO DELLA « AVALUTATIVITÀ » 

DELLE SCIENZE SOCIOLOGICHE ED ECONOMICHE * 



Per « valutazione » si debbono qui di seguito intendere, se 

nient'altro è detto esplicitamente o risulta di per sé eviden- 

te, le valutazioni « pratiche » di un fenomeno influenzabile me- 

diante il nostro agire, il quale viene considerato come riprovevo- 

le oppure come degno di approvazione *. Con il problema della 

« libertà» di una determinata scienza da valutazioni di questa 

specie, cioè con un problema concernente la validità e il senso 



a. Questo saggio è la trasformazione di una comunicazione, diffusa 

in forma manoscritta, preparata per una discussione interna nella riunione 

del 1913 del « Verein fr Sozialpolitik ». È stato eliminato il più possibile 

tutto ciò che interessava soltanto questo gruppo di studio, mentre sono 

state ampliate le considerazioni metodologiche generali. Tra le altre co- 

municazioni presentate per tale discussione è stata pubblicata quella del 

prof. E. Spranger!, nello « Schmollers Jahrhbuch fir Gesetzgebung, Ver- 

waltung und Volkswirtschaft », XXXVIII, 1914, pp. 33-57. Io confesso 

di aver trovato stranamente debole, perché non maturato chiaramente, que- 

sto lavoro di un filosofo che anch'io stimo assai; ma evito qui, anche già 

per ragioni di spazio, ogni polemica con lui, limitandomi a esporre il mio 

proprio punto di vista. 



* Der Sinn der « Wertfreiheit» der soziologischen und dlkonom:schen Wissen- 

schaften, « Logos », VII, 1917, pp. 40-88, raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze 

zur Wissenschafeslehre, Tiùbingen, ]. C. B. Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes 

Winckelmann) 1973, pp. 489-540 (Il significato della «avalutatività » delle scienze 

sociologiche ed economiche, tr. it. di Pietro Rossi, in !/ metodo delle scienze storico- 

sociali, Torino, Einaudi, 1958, pp. 309-72). 


1. Eduard Spranger (1882-1963), filosofo e pedagogista tedesco, autore di Lebens- 

formen (1914), di Kultur und Erzichung (1919), di Lebenserfahrung (1947) e di 

numerose altre opere, fu allievo di Dilthey, del quale sviluppò soprattutto la teoria 

delle scienze dello spirito. 



628 MAX WEBER 



di questo principio logico, non ha nulla a che fare la questione 

del tutto diversa, di cui si deve ora preliminarmente discutere 

— la questione se si debba, oppure no, fare « professione » nel- 

l'insegnamento accademico a favore delle proprie valutazioni pra- 

tiche, di carattere etico oppure fondate in riferimento a ideali di 

cultura o, in altra maniera, su un'intuizione del mondo. Questa 

non può venir discussa scientificamente. Infatti essa stessa è una 

questione del tutto dipendente da valutazioni pratiche, e quindi 

non può essere decisa per tale via. Per citare soltanto i poli estre- 

mi, vengono sostenuti: 2) sia il punto di vista per cui la separazio- 

ne di argomenti puramente logici o puramente empirici dalle 

valutazioni pratiche, o etiche, oppure connesse a un'intuizione 

del mondo è sì giustificata, ma tuttavia (e forse proprio perciò) 

entrambe le categorie di problemi appartengono all'ambito del- 

la cattedra; b) sia il punto di vista per cui, anche se quella 

separazione n0n può essere realizzata logicamente in maniera 

coerente, si deve raccomandare di tener distanti il più possibile 

dall’insegnamento accademico tutte le questioni pratiche di va- 

lore. 


Questo secondo punto di vista mi sembra inammissibile. In 

particolare la distinzione, non di rado fatta per le nostre disci- 

pline, delle valutazioni pratiche in valutazioni « politiche di 

parte » e in valutazioni di altro carattere mi sembra semplice- 

mente ineseguibile, e appropriata soltanto a nascondere la porta- 

ta pratica della presa di posizione suggerita agli ascoltatori. 

Inoltre, l'opinione che alla cattedra si addica la « mancanza di 

passione », e che di conseguenza debbano essere evitati gli argo- 

menti che comportano il pericolo di discussioni «eccitate », 

sarebbe — una volta ammesso in genere che sulla cattedra si 

possano enunciare valutazioni — una convinzione da burocrati, 

che ogni insegnante indipendente dovrebbe respingere. Di que- 

gli studiosi che 70» hanno ritenuto di dover rinunciare a valu- 

tazioni pratiche nelle discussioni empiriche, proprio i più appas- 

sionati — come per esempio Treitschke, e a modo suo pure 

Mommsen® — furono quelli maggiormente tollerabili. Poiché 



2. Theodor Mommsen (1817-1903), filologo e storico tedesco, autore di una 

fondamentale Romische Geschichte rimasta incompleta (1849-85), di Uber das rimi- 

sche Miinzivesen (1850), degli Unteritalische Dialekte (1850), della Romische Chrono- 



MAX WEBER 629 



appunto mediante la forte accentuazione emotiva l’ascoltato- 

re è almeno posto nella situazione di poter da parte sua stabili- 

re la soggettività della valutazione del professore, nella sua 

influenza su un'eventuale distorsione delle sue proposizioni di 

fatto, e di fare quindi da sé ciò che rimane precluso al tempera- 

mento del professore. Può quindi restar affidata all’autentico 

pathos quell’efficacia sulle anime della gioventù che — come io 

presumo — i sostenitori delle valutazioni pratiche pronunciate 

dalla cattedra desiderano assicurare ad esse, senza che l’ascolta- 

tore venga traviato alla confusione reciproca di diverse sfere — 

come necessariamente accade quando la determinazione di fatti 

empirici e l'esortazione a una presa di posizione pratica di 

fronte a grandi problemi della vita sono entrambe immerse 

nella stessa fredda assenza di temperamento. 


Il primo punto di vista mi sembra accettabile, e così lo è dal 

punto di vista soggettivo dei suoi sostenitori, solo se l’insegnante 

si pone come dovere incondizionato — in ogni caso particolare, e 

fino al pericolo di rendere priva di attrattive la propria lezione — 

quello di rendere inesorabilmente chiaro ai suoi ascoltatori e, ciò 

che costituisce la cosa principale, a se stesso, che cosa delle sue 

asserzioni è dedotto con un puro procedimento logico o è deter- 

minazione puramente empirica di fatti, e che cosa è invece 

valutazione pratica. Far questo mi sembra, d’altra parte, addi- 

rittura un imperativo di onestà intellettuale, una volta ammessa 

l’estraneità delle due sfere; in questo caso è assolutamente il 

minimo che si possa chiedere. 



Invece la questione se dalla cattedra si debba o no, in gene- 

rale (pur con tale cautela), enunciare valutazioni pratiche, è da 

parte sua una questione di politica universitaria pratica, e può 

in ultima analisi essere decisa soltanto dal punto di vista di 

quei compiti che l’individuo vorrebbe assegnare, in base alle 

sue valutazioni, alle università. Chi per esse, e quindi per se 

stesso, pretende ancor oggi in virtù della sua qualificazione di 

professore universitario la funzione universale di formare gli 



logie bis auf Casar (1858), delle Romische Forschungen (1864-79), del Rémisches 

Staatsrecht (1871-88), del Romisches Strafrecht (1899) e di varic altre opere, editore 

del Corpus Inscriptionum latinarum (a partire dal 1863), fu il maggiore storico dell'an- 

tichità dell'Ottocento. 



630 MAX WEBER 



uomini e di propagare una convinzione politica, etica, artisti- 

ca, culturale o di altra specie, si comporterà in maniera diffe- 

rente da colui che ritiene di dover affermare il fatto (e le sue 

conseguenze) che le aule accademiche svolgono oggi la loro 

azione realmente fornita di valore soltanto mediante l’insegna- 

mento specifico da parte di individui specificamente qualifi- 

cati, e che pertanto l’« onestà intellettuale » è la sola virtù parti- 

colare alla quale essi devono educare. Si può sostenere il primo 

punto di vista sulla base di posizioni ultime altrettanto svaria- 

te che il secondo. Quest'ultimo in particolare (che io personal- 

mente accolgo) si può derivarlo sia da una smisurata sia da 

una molto modesta valutazione del significato della formazione 

« specifica ». Lo si può sostenere, per esempio, non già perché 

si desideri che tutti gli uomini nel loro senso intimo diventino 

il più possibile degli «specialisti»; ma, proprio al contrario, 

perché si desidera vedere le ultime e più personali decisioni di 

vita, che un uomo deve prendere da sé, non confuse insieme 

con l'insegnamento specifico — per quanto alto il suo significa- 

to possa essere valutato non solo per la disciplina generale del 

pensiero, ma anche, indirettamente, per l’auto-disciplina e per 

l'orientamento etico del giovane — e vedere altresì la loro 

soluzione in base alla coscienza propria dell’ascoltatore r07 eli- 

minata da una suggestione che si esercita dalla cattedra. 


Il pregiudizio di Schmoller*, favorevole alla valutazione dal- 

la cattedra, mi risulta personalmente del tutto comprensibile 

come l’eco di una grande epoca, che egli e i suoi amici contri- 

buirono a creare. Ma ritengo che neppure a lui possa sfuggire 

la circostanza che anzitutto la situazione di fatto è, per la 

giovane generazione, mutata notevolmente in un punto impor- 

tante. Quarant'anni or sono, nel mondo degli studiosi delle 

nostre discipline era assai diffusa la fede che nel campo delle 

valutazioni pratico-politiche una soltanto delle possibili prese 

di posizione dovesse essere quella eticamente giusta (anche se 



3. Gustav von Schmoller (1838-1917), cconomista e storico economico tedesco, autore 

di Uber einige Grundfragen des Rechts und Volkswirtschaft (1875), delle Grundfragen 

der Sozialpolitix und der Volkswirtschaftslehre (1897), del Grundriss der allgemei- 

nen Volkswirtschaftslehre (1900), di Die soziale Frage (1918) e di varic altre opere, fu 

il fondatore della cosiddetta « giovane scuola storica » di economia, c difese l'impo- 

stazione storica dell’economia politica nei confronti della teoria marginalistica. 



MAX WEBER 631 



Schmoller ha certamente rappresentato questo punto di vista 

solo in misura assai limitata). Ma questo non è oggi più il 

caso, come si può facilmente rilevare, proprio tra i sostenitori 

delle valutazioni dalla cattedra. La legittimità delle valutazioni 

dalla cattedra non viene più oggi sostenuta in nome di un’aspi- 

razione etica, i cui postulati di giustizia (relativamente) sempli- 

ci in parte si configuravano, e in parte sembravano essere, sia 

nel modo della loro giustificazione sia nelle loro conseguenze, 

(relativamente) semplici e soprattutto (relativamente) imperso- 

nali, in quanto erano univocamente sopra-personali. Essa viene 

invece sostenuta (per effetto di uno sviluppo inevitabile) in no- 

me di un variopinto mazzo di « valutazioni culturali », cioè in 

verità di pretese soggettive alla cultura — o, in termini chiari, 

del supposto «diritto della personalità » dell’insegnante. Ci si 

può anche indignare di fronte a questo punto di vista, ma non 

lo si potrà confutare — e proprio in quanto esso implica appun- 

to una «valutazione pratica » — che di tutti i tipi di profezia 

la profezia professorale, atteggiata in tal senso « personalmen- 

te », è la sola realmente insopportabile. È una situazione senza 

confronto quella di numerosi profeti accreditati dallo stato, i 

quali non predicano per le strade o nelle chiese o altrove sulla 

pubblica piazza, oppure, privatamente, in conventicole personal- 

mente scelte che si dichiarano tali, ma si permettono invece di 

esprimere « in nome della scienza », nella quiete che si suppone 

oggettiva, ma che è poi incontrollabile, priva di discussione, e 

soprattutto protetta da ogni contraddittorio, di un'aula accade- 

mica privilegiata dallo stato, decisioni dalla cattedra su questio- 

ni di intuizione del mondo. È un vecchio principio, decisamen- 

te sostenuto da Schmoller in una certa occasione, che gli argo- 

menti enunciati nelle aule accademiche debbono rimanere sot- 

tratti alla discussione pubblica. Sebbene sia possibile opinare 

che ciò abbia eventualmente, pure nel campo delle scienze em- 

piriche, certi svantaggi, si assume ovviamente — e anch'io assu- 

mo — che la «lezione» debba essere appunto qualcosa di 

diverso da una « conferenza », che il rigore impregiudicato, la 

conformità ai fatti, la sobrietà dell’esposizione accademica pos- 

sano essere danneggiati nel loro scopo pedagogico dall’introdur- 

si della pubblicità, per esempio della pubblicità di tipo giornali- 

stico. Solo che un siffatto privilegio di incontrollabilità sembra in 



632 MAX WEBER 



ogni caso appropriato soltanto all'ambito della pura qualifica- 

zione specifica del professore. Non c’è però nessuna qualifica 

zione specifica per la profezia personale, e quindi non può 

neppur esserci nessun privilegio. E in primo luogo essa non 

può abusare della situazione di costrizione esistente per lo stu- 

dente — il quale deve, per progredire nella vita, far ricorso a 

determinate istituzioni accademiche e quindi ai rispettivi inse- 

gnanti — per istillargli insieme a ciò di cui egli ha bisogno, 

ossia allo stimolo e alla disciplina della sua capacità di ragiona- 

re e del suo pensiero, e insieme a ciò determinate conoscenze, 

anche — in forma protetta da ogni contraddizione — la pro- 

pria cosiddetta « intuizione del mondo », per quanto interessan- 

te essa possa talvolta risultare (mentre sovente è abbastanza 

indifferente). 


Per la propaganda dei suoi ideali pratici il professore, al 

pari di ogni altro individuo, ha a disposizione altre opportuni- 

tà; e quando non le ha, può facilmente procurarsele nella for- 

ma più appropriata, come l’esperienza dimostra per ogni one- 

sto tentativo. Ma il professore non deve avanzare la pretesa di 

recare nel suo zaino, in quanto professore, il bastone di mare- 

sciallo dell’uomo di stato (o del riformatore culturale), come 

egli fa quando utilizza la protezione della cattedra per esprime- 

re il suo sentimento di uomo di stato (o di politico della 

cultura). Nella stampa, nelle assemblee pubbliche, nelle riunio- 

ni, nei saggi, in ogni altra forma accessibile a ogni cittadino, 

egli può (e deve) fare ciò che il suo dio o il suo demone gli 

significa. Ma ciò che oggi lo studente dovrebbe soprattutto 

imparare nell'aula accademica dal suo professore è la capacità: 

1) di accontentarsi del semplice adempimento di un dato compi- 

to; 2) di riconoscere anzitutto i fatti, anche e in primo luogo 

i fatti personalmente scomodi, e quindi di distinguere la loro 

determinazione dalla presa di posizione valutativa; 3) di pospor- 

re la propria persona alle cose, e quindi di reprimere anzitutto 

il bisogno dell’esibizione importuna del suo gusto personale e 

degli altri suoi sentimenti. Mi sembra che questo sia oggi 

molto più urgente di quarant'anni or sono, quando il pro- 

blema non esisteva propriamente in questa forma. Nor è ve- 

ro affatto — come è stato affermato — che la « personalità » 

costituisce e debba costituire in questo senso un’« unità », e che 



MAX WEBER 633 



essa subisca per così dire detrimento quando non la si esibisce in 

ogni occasione. In ogni lavoro professionale, infatti, il compito 

come tale reclama il proprio diritto, e dev'essere adempiuto in 

base alle sue leggi. In ogni lavoro professionale colui che vi si 

dedica deve limitarsi a esso, ed escludere ciò che non appartie- 

ne rigorosamente al compito, ma soprattutto il proprio amore e 

il proprio odio. E zor è vero che una forte personalità sia 

documentata dal fatto che in ogni occasione indaga secondo 

una «nota personale » ad essa soltanto propria. Si deve al 

contrario auspicare che proprio la generazione che ora cresce si 

abitui di nuovo soprattutto al pensiero che « essere una persona- 

lità » è qualcosa che non si può volere di proposito, e che c’è 

soltanto una via per diventarlo (forse!) — la dedizione senza 

riserve a un «compito », quale possa essere nel caso specifico 

questo compito, e l’« esigenza quotidiana» che ne deriva. È 

contro le regole dello stile mescolare nelle discussioni di fat- 

to le faccende personali. E non compiere quel tipo specifico di 

auto-limitazione, che esso richiede, significa spogliare il lavoro 

« professionale » del solo significato che oggi gli è ancora real- 

mente rimasto. Poco importa che il culto della personalità ora 

di moda tenti di affermarsi sul trono, nell'ufficio pubblico o 

sulla cattedra: esso conduce sì quasi sempre a vasti effetti 

esteriori, ma interiormente è sempre misera cosa, e danneggia 

ovunque il compito. Spero che non ci sia particolare bisogno 

di dire che gli avversari, a cui queste analisi si riferiscono, 

hanno certo ben poco da fare con questa specie di culto di ciò 

che è « personale » in quanto « personale ». Essi in parte consi- 

derano il compito della cattedra in un'altra luce, in parte han- 

no ideali educativi che io rispetto, ma che non condivido. Però 

si deve considerare non soltanto ciò che essi vogliono, ma an- 

che il modo in cui ciò che essi legittimano con la propria 

autorità opera su una generazione, la quale rivela già una 

predisposizione sviluppata in maniera inevitabilmente molto 

forte a ritenersi importante. 


E infine richiede appena un accenno il fatto che parecchi 

supposti azversari di valutazioni (politiche) dalla cattedra non 

sono affatto giustificati quando, per screditare le discussioni di 

politica culturale e sociale che si compiono pubblicamente al di 

fuori dell’aula accademica, si richiamano al principio dell’esclu- 



634 MAX WEBER 



sione dei « giudizi di valore », da loro ancora spesso gravemen- 

te frainteso. L'indubitabile esistenza di questi elementi falsa- 

mente «avalutativi», ma in realtà tendenziosi, e introdotti 

nella nostra disciplina dall’ostinata e consapevole posizione par- 

tigiana di forti cerchie di interessati, ci consente di comprende- 

re con chiarezza come un ampio numero proprio di studiosi 

interiormente indipendenti possa attualmente continuare a soste- 

nere la valutazione dalla cattedra, poiché essi hanno troppo 

orgoglio per partecipare a quella pagliacciata di una « avalutati- 

vità » soltanto apparente. Personalmente io ritengo che, ciò no- 

nostante, debba essere fatto quello che (secondo la mia opinio- 

ne) è corretto, e che il peso delle valutazioni pratiche di uno 

studioso sarebbe soltanto accresciuto dalla sua capacità di limi- 

tarsi a sostenerle nelle occasioni opportune al di fuori dell’aula 

accademica, se si sa che egli possiede il rigore di fare, entro 

l’aula, soltanto ciò che è proprio del «suo ufficio ». Ma tutte 

queste sono appunto anch'esse questioni pratiche di valutazio- 

ne, e perciò non suscettibili di esser risolte. 


In ogni caso, però, l'affermazione di principio del diritto 

della valutazione dalla cattedra sarebbe coerente, a parer mio, 

solo se al tempo stesso si garantisse che tutte le valutazioni di 

ogni parte abbiano l'opportunità di farsi valere sulla cattedra *. 

Da noi, invece, con l’insistenza sul diritto alla valutazione dalla 

cattedra si sostiene di solito precisamente l'opposto di quel 

principio di un’equa rappresentanza di tutte le correnti (e ovvia- 

mente anche di quelle « più estreme »). Era per esempio natu- 

ralmente coerente, dal punto di vista personale di Schmoller, 

la tesi in base a cui egli spiegava che « marxisti e manchesteria- 

ni » sono privi di qualificazione per occupare cattedre universi- 

tarie, sebbene egli non abbia mai compiuto l’ingiustizia di 



a. A tale scopo non basta affatto il principio olandese dell'emancipa- 

zione anche della facoltà teologica dal controllo confessionale, congiunta 

alla libertà di fondare università a condizione che siano assicurati i mezzi 

finanziari, che siano osservate le prescrizioni per la qualificazione dei pro- 

fessori, e che sia garantito il diritto privato di istituire cattedre con il pa- 

tronato delle candidature da parte di coloro che le istituiscono. Infatti 

ciò avvantaggia soltanto chi possiede denaro e le organizzazioni autorita- 

rie che si trovano già in possesso del potere: soltanto gli ambienti cleri- 

cali, come è noto, ne hanno fatto uso. 



MAX WEBER 635 



ignorare i contributi scientifici che sono venuti da queste dire- 

zioni. Proprio su questi punti io personalmente non ho mai 

potuto seguire il nostro venerato maestro. Non si può ovvia- 

mente insieme richiedere l’autorizzazione alla valutazione dal- 

la cattedra e — allorché se ne devono trarre le conseguenze — 

sostenere che l’università è un'istituzione statale per la forma- 

zione di funzionari « fedeli allo stato ». In tale maniera l’uni- 

versità diverrebbe non una «scuola specializzata » (ciò che a 

molti docenti sembra degradante), bensì un seminario di preti 

— solo senza poterle dare la dignità religiosa che questo possie- 

de. Si è voluto dedurre certi limiti con un puro procedimento 

«logico». Uno dei nostri più eminenti giuristi spiegava una 

volta, mentre si pronunciava contro l'esclusione dei socialisti 

dalle cattedre, che egli non avrebbe potuto accettare come inse- 

gnante di diritto soltanto un « anarchico », poiché questi nega 

in genere la validità del diritto come tale — ed egli riteneva 

ovviamente questo argomento come conclusivo. Io sono dell’opi- 

nione precisamente opposta. L’anarchico può sicuramente esse- 

re un buon conoscitore del diritto. E se egli è tale, allora 

proprio quel punto di Archimede che si pone a/ di fuori delle 

convinzioni e dei presupposti che ci appaiono così evidenti — 

quel punto in cui lo colloca, quando è pura, la sua oggettiva 

convinzione — può renderlo capace di riconoscere nelle conce- 

zioni fondamentali della dottrina giuridica in uso una proble- 

matica la quale sfugge a tutti coloro per cui esse sono troppo 

ovvie. Infatti il dubbio più radicale è il padre della conoscen- 

za. Il giurista ha tanto poco il compito di «dimostrare» il 

valore di quei beni culturali, la cui esistenza è legata alla 

permanenza del « diritto », quanto il medico ha il compito di 

« provare » che l’allungamento della vita è degno di essere per- 

seguito in ogni circostanza. L'uno e l'altro non ne sono neppu- 

re in grado, con i loro mezzi. Ma se si vuol fare della cattedra 

la sede di discussioni pratiche di valore, allora sarebbe ovvia- 

mente un dovere quello di sottoporre proprio le questioni fon- 

damentali di principio a una libertà di discussione, senza restri- 

zione alcuna, da tutti i punti di vista. Può accadere questo? Ma 

le più decisive e importanti questioni pratico-politiche di valo- 

re sono oggi escluse, per la natura della situazione politica, 

dalle cattedre delle università tedesche. Per colui al quale gli 



636 MAX WEBER 



interessi della nazione stanno al di sopra di tutte — senza 

eccezione — le sue istituzioni concrete, è per esempio una 

questione di importanza centrale stabilire se la concezione og- 

gi predominante della posizione del monarca in Germania sia 

conciliabile con gli interessi internazionali della nazione, e con 

quei mezzi, cioè : Ta guerra e la diplomazia, con cui ad essi si 

provvede. Non sono sempre i peggiori patrioti, e neppure gli 

avversari della monarchia, che sono oggi inclini a rispondere 

negativamente a questa questione, e a non credere più nella 

possibilità di successi duraturi in quei due campi, fino al mo- 

mento in cui non subentrino dei mutamenti molto profondi. 

Eppure ognuno sa che queste questioni vitali della nazione 

non possono venir discusse in piena libertà sulle cattedre tede- 

sche ®. Ma in considerazione di questo fatto — che cioè proprio 

le questioni decisive di valutazione pratico-politica sono in per- 

manenza sottratte alla libera discussione dalle cattedre — mi 

sembra confacente alla dignità dei rappresentanti della scienza 

soltanto il tacere anche su quei problemi di valore, che si 

consente loro gentilmente di trattare. 



In nessun caso si deve però mescolare la questione se sia 

lecito, o necessario, o si debba nell’insegnamento presentare 

valutazioni pratiche — che è una questione non risolubile, 

poiché condizionata da una valutazione — con la discussione 

puramente /ogica della funzione che le valutazioni assolvono 

per le discipline empiriche, ad esempio per la sociologia e per 

l'economia politica. Altrimenti qui ne soffrirebbe la discussione 

impregiudicata del problema propriamente logico — la cui deci- 

sione però non dà per quelle questioni alcuna indicazione, al 

di fuori di una che è richiesta su base puramente logica, cioè 

l'esigenza della chiarezza e della precisa distinzione delle sfere 

problematiche eterogenee da parte dei docenti. 


Io non vorrei discutere inoltre se la distinzione tra determi- 

nazione empirica e valutazione pratica sia « difficile ». Essa lo 

è. Noi tutti, io che sostengo questa pretesa al pari di altri, 



a. Questo non è affatto un caso particolare della Germania. In quasi 

tutti i paesi vi sono, manifesti o celati, dei limiti di fatto; ed è diverso 

soltanto il tipo dei problemi di valore che vengono esclusi. 



MAX WEBER 637 



commettiamo sempre e ripetutamente degli errori in proposito. 

Ma per lo meno i sostenitori della cosiddetta economia politica 

etica potrebbero ben sapere che anche la legge morale è irrealiz- 

zabile pienamente, ma tuttavia vale in quanto è «imposta ». E 

un’analisi della coscienza potrebbe forse mostrare che la realiz- 

zazione del postulato è difficile soprattutto perché noi rinuncia- 

mo con riluttanza a inoltrarci sul terreno così interessante 

delle valutazioni con la « nota personale » che ci stimola. Ogni 

docente avrà naturalmente osservato che gli sguardi degli stu- 

denti si illuminano, e che i loro volti diventano più attenti, 

quando egli comincia a « dichiararsi » personalmente; e avrà 

osservato pure che la frequenza delle sue lezioni è influenzata 

in maniera molto vantaggiosa dall’aspettativa che egli lo fac- 

cia. Egli sa inoltre che la concorrenza tra le università per la 

frequenza mette sovente in condizioni di vantaggio, per le 

chiamate, un profeta per quanto piccolo, che riempia le aule, 

rispetto a uno studioso per quanto rilevante, che si dedichi 

all'insegnamento oggettivo — s'intende quando la profezia non 

si discosti troppo dalle valutazioni, politiche o convenzionali, 

considerate normali. Soltanto il profeta falsamente alieno da 

valutazioni, che esprime certi interessi materiali, ha nei suoi 

riguardi una possibilità maggiore, in virtù dell'influenza di tali 

interessi sui poteri politici. Io ritengo tutto questo indesiderabi- 

le, e quindi non voglio addentrarmi a discutere la tesi secondo 

cui l’esclusione di valutazioni pratiche sarebbe cosa « meschi- 

na », e renderebbe « noiose » le lezioni. Non voglio pronunciar- 

mi sulla questione se le lezioni su un campo specifico di espe- 

rienza debbano tendere soprattutto a essere « interessanti », ma 

da parte mia temo che in ogni caso uno stimolo realizzato 

mediante una nota personale troppo interessante tolga alla 

lunga agli studenti il gusto per il semplice lavoro di ricerca. 


Non voglio poi discutere, ma riconoscere esplicitamente 

che, proprio sotto l'apparenza della soppressione di ogni va- 

lutazione pratica, si possono risuscitare suggestivamente, con 

particolare forza, tali valutazioni, secondo il noto schema di 

«far parlare i fatti». La migliore qualità della nostra elo- 

quenza parlamentare ed elettorale opera appunto con questo 

mezzo — e ciò è del tutto legittimo per i suoi scopi. Non 

c'è però bisogno di sprecare nessuna parola per mostrare 



638 MAX WEBER 



che questo procedimento sarebbe sulla cattedra, proprio dal 

punto di vista della pretesa di quella distinzione, il più riprove- 

vole di tutti gli abusi. E che un’apparenza, slealmente suscitata, 

di realizzazione di un imperativo possa presentarsi come la sua 

realtà, non significa una critica dell’imperativo stesso. Questo è 

però senz’altro implicito: che, se l'insegnante non ritiene di 

doversi precludere delle valutazioni pratiche, deve però assoluta- 

mente dichiararle come tali e agli studenti e 4 se stesso. 


Ciò che si deve combattere nella maniera più decisa, infine, 

è la convinzione non rara che la via dell’« oggettività » scientifi- 

ca sia rappresentata dalla commisurazione reciproca delle diver- 

se valutazioni, e da un compromesso « diplomatico » tra di 

esse. La «linea di mezzo » non può essere dimostrata scientifi- 

camente, con i soli strumenti delle discipline empiriche, pro- 

prio allo stesso modo in cui non possono esserlo le valutazioni 

«estreme ». Inoltre, nella sfera della valutazione essa sarebbe 

normativamente ben poco univoca. Essa non appartiene alla 

cattedra, bensì ai programmi politici, agli uffici e ai parlamen- 

ti. Le scienze, sia normative sia empiriche, possono rendere 

agli uomini politici e ai partiti in lotta soltanto un servizio 

inestimabile, e cioè dire loro: 1) quali siano le diverse prese di 

posizione «ultime» concepibili di fronte a questo problema 

pratico; 2) come stiano i fatti di cui essi devono tener conto 

nella scelta tra queste prese di posizione. In questo modo noi 

rimaniamo fedeli al nostro « compito ». 


Un fraintendimento senza fine, ma soprattutto una disputa 

terminologica, e quindi completamente sterile, si sono legati al 

termine «giudizio di valore» — il che non ha ovviamente 

contribuito per nulla alla questione. È del tutto fuori dubbio, 

come è stato accennato, che queste discussioni riguardino, nelle 

nostre discipline, valutazioni pratiche di fatti sociali, considera- 

ti come desiderabili o indesiderabili praticamente da un punto 

di vista etico, o da qualche altro punto di vista culturale, o per 

altri motivi. Che la scienza 1) miri a conseguire risultati « forni- 

ti di valore », cioè corretti dal punto di vista logico e in riferi- 

mento ai fatti; 2) e miri a conseguire risultati «forniti di 

valore », cioè importanti nel senso dell'interesse scientifico; che 

inoltre già la scelta della materia implichi una « valutazione » 

— queste due cose sono state seriamente sollevate, nonostante 



MAX WEBER 639 



quanto si è detto in proposito *, come « obiezioni ». Ed è pure 

sempre risorto il fraintendimento, quasi incomprensibilmente 

forte, secondo il quale la scienza empirica non può trattare 

come oggetto le valutazioni « soggettive » degli uomini (e ciò 

mentre la sociologia, e nell'ambito dell'economia politica tutta 

la dottrina dell’utilità marginale, poggia sul presupposto contra- 

rio). Si tratta invece esclusivamente della pretesa, di per sé 

perfino banale, che il ricercatore e l’espositore debbano incondi- 

zionatamente fezer distinte — poiché si tratta di problemi 

eterogenei — la determinazione di fatti empirici (compreso l’at- 

teggiamento « valutante », da lui constatato, degli uomini empi- 

rici su cui indaga) e la sua presa di posizione pratica, che 

valuta questi fatti (comprese le « valutazioni » di uomini empi- 

rici che sono oggetto di indagine) come apprezzabili o non ap- 

prezzabili, e che in questo senso risulta «valutativa ». In una 

trattazione per altri aspetti fornita di valore, uno scrittore si 

esprime così: un ricercatore potrebbe assumere come « fatto » 

anche la propria valutazione, e trarne le conseguenze. Ciò che 

qui si intende è incontestabilmente esatto, ma l’espressione scel- 

ta è erronea. Si può naturalmente convenire, prima di una 

discussione, che una determinata misura pratica — per esempio 

che la copertura dei costi richiesti da un aumento dell’esercito 

debba esser ricavata soltanto dalle tasche dei possidenti — sia 

il « presupposto » della discussione stessa, e che si debbano quin- 

di discutere semplicemente i mezzi per attuarla. Questo è anzi 

sovente opportuno. Ma una siffatta intenzione pratica, presup- 

posta di comune accordo, non la si chiama un «fatto », bensì 

uno « scopo stabilito 4 priori». Che si tratti effettivamente an- 

che di cose diverse, potrebbe risultare presto nella discussione 

dei « mezzi» — salvo che lo « scopo presupposto » come indi- 

scutibile fosse così concreto come accendersi un sigaro. In tal 

caso anche i mezzi hanno solo di rado bisogno di discussione. 



a. Debbo riferirmi a ciò che ho già detto nei miei saggi precedenti (la 

correttezza talvolta insoddisfacente di formulazioni particolari, che in essi 

possono riscontrarsi, non riguardano nessuno dei punti essenziali della 

questione); per l'« inconciliabilità » di certe valutazioni ultime in un im- 

portante campo di problemi potrei rinviare a G. RabBRUCH, Einfiihrung 

in die Rechtswissenschaft, Berlin, 22 ed. 1913. Io divergo da lui in alcuni 

punti; ma essi non hanno importanza per il problema qui discusso. 



640 MAX WEBER 



In quasi ogni caso di un proposito generalmente formulato, 

come in quello prima scelto come esempio, si farà invece espe- 

rienza che nella discussione dei mezzi non soltanto appare che 

i vari individui hanno inteso qualcosa di completamente diverso 

sotto tale scopo che si supponeva preciso, ma in particolare 

risulta che proprio il medesimo scopo è voluto su basi ultime 

differenti, e che ciò influenza la discussione sui mezzi. Ma 

lasciamo questo da parte. Infatti, che si possa partire da un 

determinato scopo, voluto in comune, e discutere soltanto i 

mezzi per conseguirlo, e che da ciò risulti allora una discussio- 

ne da condurre sul piano puramente empirico — non è ancora 

accaduto a nessuno di contestarlo. Tutta la discussione si 

aggira sulla scelta degli scopi (e non già dei « mezzi» in vista 

di uno scopo che è dato), cioè concerne appunto il senso in cui 

la valutazione, a cui l’individuo si richiama, non può essere 

assunta come « fatto », ma può diventare oggetto di una critica 

scientifica. Se non si è determinato questo, ogni altra discussio- 

ne è infruttuosa. 


Noi non discutiamo qui la questione della misura in cui 

le valutazioni pratiche, in particolare quelle etiche, possono 

da parte loro pretendere una dignità mormativa, rivestendo 

quindi un carattere diverso da quello implicito in questioni 

simili a quella introdotta da questo esempio, se le bionde 

debbano essere preferite alle brune, o in altri giudizi sog- 

gettivi di gusto. Questi sono problemi della filosofia dei va- 

lori, non già della metodica delle discipline empiriche. Ciò 

che concerne le ultime è soltanto che da un lato la validità di 

un imperativo pratico in quanto norma, e dall’altro la verità di 

una determinazione empirica di fatti appartengono a settori 

problematici del tutto eterogenei, e che si danneggia la dignità 

specifica di ognuno dei due quando si dimentica ciò, cercando 

di unificare le due sfere. Questo è avvenuto in forte misura, a 

mio parere, soprattutto da parte di Schmoller*. Proprio il ri- 

spetto per il nostro maestro mi proibisce di passare sopra questi 

punti, in cui ritengo di non poter concordare con lui. 



a. Nella voce «economia politica» (Volkswirtschaftslehre) nello 

« Handwérterbuch der Staatswissenschaften », Berlin, 3? ed. 1911, vol. 

VIII, pp. 426-501. 



MAX WEBER 641 



In primo luogo vorrei rivolgermi contro la tesi secondo cui, 

per i sostenitori dell’« avalutatività », il mero fatto dell’instabili- 

tà storica e individuale delle prese di posizione valutative di 

volta in volta in vigore varrebbe come prova del carattere neces- 

sariamente solo «soggettivo », per esempio, dell’etica. Anche 

le determinazioni empiriche di fatti sono spesso soggette a di- 

sputa; e sul fatto che un tale debba essere ritenuto un furfante 


uò sovente esserci una concordanza sostanzialmente più gene- 

rale di quella relativa (proprio presso gli specialisti) alla inter- 

pretazione di un'iscrizione mutilata. L'assunzione, effettuata da 

Schmoller, di una crescente unanimità convenzionale di tutte le 

confessioni e di tutti gli uomini intorno ai punti principali 

delle valutazioni pratiche sta in aspra antitesi con la mia im- 

pressione opposta. Ma questo mi sembra senza rilievo per la 

questione. Ciò che in ogni caso è da discutere, infatti, è che ci 

si possa arrestare scientificamente di fronte a una qualsiasi 

evidenza di fatto, convenzionalmente stabilita, di certe prese di 

posizione pratiche, per quanto diffuse esse siano. La funzione 

specifica della scienza mi sembra, proprio all’opposto, quella 

di trasformare in problema ciò che è convenzionalmente eviden- 

te. E proprio questo hanno fatto, al tempo loro, Schmoller e i 

suoi amici. Che si possa poi indagare, e in certe circostanze 

valutare altamente, l’efficacia causale della esistenza di fatto di 

certe convinzioni etiche o religiose sulla vita economica — da 

ciò non deriva affatto che quelle convinzioni, che hanno forse 

causalmente operato molto, debbano perciò anche essere condi- 

vise o anche soltanto ritenute « fornite di valore»; così come, 

al contrario, mediante l’affermazione del valore di un fenome- 

no etico o religioso non si è detto proprio niente sulla possibili 

tà di qualificare anche le inconsuete conseguenze, che la sua 

realizzazione ha avuto o avrebbe, con il medesimo predicato 

positivo di valore. Su queste questioni non si arriva a niente 

attraverso determinazioni di fatto; esse vengono giudicate dal- 

l'individuo in maniera assai diversa, a seconda delle sue proprie 

valutazioni religiose, o pratiche di altro genere. Tutto ciò non 

riguarda la questione che viene discussa. E invece io mi oppon- 

go energicamente alla convinzione che una scienza «realisti 

ca» dei fenomeni etici, vale a dire l’indicazione delle in- 

fluenze di fatto che le convinzioni etiche, prevalenti in un 



41. SFORICISMO TEDESCO. 



642 MAX WEBER 



certo gruppo di uomini, hanno subito dalle altre condizioni di 

vita e a loro volta hanno esercitato su di esse, possa da parte 

sua dare luogo a un’«etica », la quale possa asserire qualcosa 

intorno a ciò che deve valere. Ciò avviene tanto poco quanto 

un'esposizione « realistica » delle concezioni astronomiche, per 

esempio, dei Cinesi — che mostrasse in base a quali motivi 

pratici e in qual modo facciano dell’astronomia, a quali risulta- 

ti e perché essa pervenga — potrebbe avere per scopo di dimo- 

strare la correttezza di questa astronomia cinese; e quanto la 

constatazione che gli agrimensori romani oppure i banchieri 

fiorentini (gli ultimi proprio nelle partizioni di grandi patrimo- 

ni) pervennero sovente con i loro metodi a risultati inconciliabi- 

li con la trigonometria o con la tavola pitagorica, potrebbe 

porre in discussione la validità di queste. Mediante l'indagine 

psicologico-empirica e storica di un determinato punto di vista 

valutativo, considerato nel suo condizionamento individuale, 

sociale, storico, non si perviene mai a nient'altro che a questo 

— a spiegarlo comprendendolo. E ciò non è da poco. Esso è da 

desiderarsi non soltanto per la conseguenza concomitante perso- 

nale (ma non scientifica), che si può più facilmente « rendere 

giustizia » a chi, realmente o apparentemente, la pensa in ma- 

niera diversa. Ma è anche scientificamente molto importante: 

1) per lo scopo di una considerazione causale empirica dell'a- 

gire umano, per imparare cioè a conoscere i suoi reali motivi 

ultimi; 2) per determinare, allorché si discute con qualcuno che 

diverge (realmente o apparentemente) nella loro valutazione, i 

punti di vista valutativi delle due parti. Infatti il senso vero e 

proprio di una discussione di valore è questo — di comprende- 

re ciò che l'avversario (o anche, ciò che colui che parla) real- 

mente intende, cioè il valore a cui ognuna delle due parti tiene 

in realtà, e non solo in apparenza, rendendo così possibile in 

genere una presa di posizione di fronte a questo valore. Ben 

lungi dal ritenere che dal punto di vista dell'esigenza dell’« ava- 

lutatività » delle analisi empiriche siano sterili, o prive di sen- 

so, le discussioni intorno alle valutazioni, proprio la conoscenza 

di questo loro senso risulta il presupposto di ogni utile conside- 

razione del genere. Esse presuppongono semplicemente la com- 

prensione della possibilità di valutazioni ultime inconciliabilmen- 

te divergenti in linea di principio. Poiché « tutto comprendere » 



MAX WEBER 643 



non significa anche « tutto perdonare », né la mera comprensio- 

ne del punto di vista altrui conduce, di per sé, alla sua approva- 

zione. Fssa conduce almeno altrettanto facilmente, e sovente 

con maggiore probabilità, a conoscere perché e in che cosa n0n 

si può concordare. Questa conoscenza è appunto una conoscen- 

za di verità, e 44 essa servono le « discussioni valutative ». Ciò 

che su tale strada non si può certo conseguire — perché sta 

nella direzione precisamente opposta — è una qualsiasi etica 

normativa, o in genere la capacità vincolante di qualche « impe- 

rativo ». Ognuno sa piuttosto che un fine siffatto viene reso più 

difficile dall’azione « relativizzante », almeno in apparenza, di 

tali discussioni. Con questo non si dice naturalmente che si 

debba, per tale motivo, evitarle. Proprio al contrario. Una con- 

vinzione «etica» che si lascia scalzare dalla « comprensione » 

psicologica di valutazioni divergenti è stata infatti fornita di 

valore né più né meno delle opinioni religiose che vengono 

distrutte dalla conoscenza scientifica — come talvolta accade. 

Quando infine Schmoller sostiene che i propugnatori dell’« ava- 

lutatività » delle discipline empiriche possono riconoscere soltan- 

to verità etiche «formali» (è ovvio che egli le intende nel 

senso della « critica della ragione pratica »), ci si deve addentra- 

re — sebbene il problema non rientri senz’altro nella nostra 

questione — in alcune considerazioni. 


In primo luogo si deve respingere l’identificazione — impli- 

cita nella concezione di Schmoller — degli imperativi etici con 

i « valori culturali », anche con i più alti. Infatti può esserci un 

punto di vista per il quale i valori culturali sono « imposti », 

anche nella misura in cui risultano in inevitabile e inconciliabi- 

le conflitto con ogni etica. E viceversa è possibile, senza interna 

contraddizione, un’etica la quale rifiuti tutti i valori culturali. 

In ogni caso le due sfere di valori non sono identiche. E così 

pure è un grave (per quanto diffuso) fraintendimento ritenere 

che proposizioni « formali», come quelle dell’etica kantiana, 

non contengano alcuna indicazione di contenuto. La possibilità 

di un'etica normativa non viene in alcun modo posta in questio- 

ne per il fatto che vi sono problemi di carattere pratico per i 

quali essa non può fornire, di per sé, prescrizioni univoche (e a 

tale ambito appartengono in modo specifico determinati proble- 

mi istituzionali, cioè appunto i problemi « politico-sociali »), e 



644 MAX WEBER 



inoltre che l’etica non è la sola cosa che «valga» nel mondo, 

ma che accanto ad essa sussistono altre sfere di valori — i cui 

valori può, in certe circostanze, realizzare soltanto chi si assu- 

ma una «colpa» etica. In ciò rientra specialmente la sfera 

dell’agire politico. Sarebbe da deboli, a parer mio, voler negare 

le tensioni nei confronti della sfera etica, che essa appunto 

contiene. Ma ciò non è affatto proprio soltanto di essa, come fa 

credere la contrapposizione in uso di «morale privata» e di 

« morale politica ». — Indaghiamo ora alcuni « limiti » dell’eti- 

ca, a cui si è prima fatto riferimento. 


Le conseguenze del postulato della « giustizia » rientrano 

nell’ambito delle questioni che non possono venir decise univoca- 

mente da ressuna etica. Se per esempio — il che corrisponde- 

rebbe maggiormente alle concezioni espresse a suo tempo da 

Schmoller — si debba anche molto a colui che fa molto, o 

viceversa si possa chiedere molto a chi molto può fare; se 

quindi in nome della giustizia (eliminando allora altri punti 

di vista — come quello dell’« incentivo » necessario) si debba- 

no concedere al grande talento anche grandi possibilità, o se si 

debba invece (come riteneva Babeuf*) pareggiare l'ingiustizia 

dell’ineguale distribuzione dei doni spirituali, preoccupandoci 

con rigore che il talento, il cui semplice possesso già fornisce 

un sentimento di prestigio che rende felice l’individuo, non 

possa utilizzare ancora per sé le sue migliori possibilità nel 

mondo — tutto questo non può venir risolto in base a premesse 

«etiche ». A questo tipo appartiene però la problematica etica 

della maggior parte delle questioni di politica sociale. 



Ma anche nel campo dell’agire personale vi sono problemi 

fondamentali, di carattere specificamente etico, che l’etica non 

può risolvere in base ai propri presupposti. Tra di essi rien- 

tra in primo luogo la questione fondamentale se il valore 

in sé dell’agire etico — il «puro volere» o l’«intenzione », 

come si vuole esprimerlo — debba bastare alla sua giustificazio- 



4. Frangois-Noel Babeuf, noto come Gracchus Babeuf (1760-1797), esponente 

dell'ala estremistica della Rivoluzione francese, pubblicò il giornale « Le tribun du 

peuple » e diresse la Congiura degli cguali: la sua teoria politica, di ispirazione 

rousscauiana, è fondata sulla rivendicazione dell'eguaglianza non soltanto politica, 

ma anche economica. 



MAX WEBER 645 



ne, secondo la massima «il Cristiano agisce bene e rimette a 

Dio la conseguenza » (come i moralisti cristiani l’hanno formula- 

ta), oppure se si debba prendere in considerazione la responsabi- 

lità per le conseguenze dell’agire, previste come possibili 0 co- 

me probabili, così come esse sono condizionate dal suo inseri- 

mento nel mondo eticamente irrazionale. Nel campo sociale 

ogni posizione politica radicalmente rivoluzionaria, soprattutto 

il cosiddetto « sindacalismo », procede dal primo postulato, e 

ogni « politica realistica» procede invece dal secondo. Entram- 

be si richiamano a massime etiche; ma queste massime stanno 

tra loro in un eterno contrasto, il quale non può essere affatto 

risolto senz’altro con i mezzi di un'etica che abbia il proprio 

fondamento soltanto in se stessa. 


Queste due massime etiche sono massime di carattere rigoro- 

samente « formale », in ciò simili ai noti assiomi della Critica 

della ragione pratica. Di questi ultimi si è molto spesso credu- 

to, per questo loro carattere, che non contenessero indicazioni di 

contenuto per la valutazione dell’agire. Ma ciò non è per nien- 

te esatto, come già si è accennato. Prendiamo di proposito un 

esempio il più possibile distante dalla « politica », il quale può 

forse chiarire che senso abbia propriamente questo carattere 

«solo formale», di cui si è a lungo parlato, di tale etica. 

Supponiamo che un uomo dica, riferendosi alla sua relazione 

erotica con una donna, « all’inizio il nostro rapporto era soltan- 

to una passione, ora esso costituisce un valore » — la temperata 

oggettività dell’etica kantiana esprimerebbe così la prima metà 

di questa proposizione: «all’inizio noi eravamo entrambi, l’u- 

no per l’altro, soltanto mezzi», e considererebbe quindi 

l'intera proposizione come un caso particolare di quel noto 

principio che stranamente si è volentieri ritenuto un’espressio- 

ne, condizionata solo storicamente, dell’« individualismo », men- 

tre in verità esso rappresenta una formulazione quanto mai 

geniale di un'infinita molteplicità di situazioni etiche, che si 

debbono appunto intendere correttamente. Nella sua enuncia- 

zione negativa, ed escludendo qualsiasi asserzione su quello 

che deve essere il contrapposto positivo della considerazione 

dell’altro «soltanto come mezzo », che eticamente deve venir 

rifiutata, essa comporta evidentemente: 1) il riconoscimento di 

sfere di valori autonome, al di fuori della sfera etica; 2) la 



646 MAX WEBER 



delimitazione della sfera etica nei loro confronti; 3) la determi- 

nazione infine del fatto che — e del senso in cui — si possono 

tuttavia attribuire all’agire al servizio di valori extra-etici delle 

differenze di dignità etica. Di fatto quelle sfere, che permetto- 

no o prescrivono la considerazione dell’altro «soltanto come 

mezzo », sono eterogenee rispetto all’etica. L'analisi non può 

qui essere ulteriormente proseguita: in ogni caso però risulta 

che il carattere « formale » anche di quella proposizione etica 

così astratta non rimane indifferente rispetto al contenuto dell’a- 

gire. Ma il problema si complica ancora. Quel predicato negati- 

vo, che è stato espresso con le parole « soltanto una passione », 

può da un determinato punto di vista venir considerato come 

un insulto a ciò che di interiormente più puro e più proprio vi 

è nella vita, dell'unica via o almeno della via primaria per 

uscire al di fuori dei meccanismi «di valore» impersonali e 

sovra-personali, e perciò ostili alla vita, per uscire dall’incatena- 

mento alla pietra senza vita dell’esistenza quotidiana e dalle 

pretese di un’irrealtà «imposta ». Si può ad ogni modo pensare 

a una concezione di questo punto di vista che — sebbene abbia 

a disdegno il termine «valore » per designare la concretezza 

dell’Erleben — costituirebbe appunto una sfera la quale, respin- 

gendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bontà, 

ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o 

valutazione della personalità, pretenderebbe tuttavia, e anzi pro- 

prio a causa di ciò, la sua propria dignità «immanente» nel 

senso estremo della parola. Quale che possa essere la nostra 

presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso 

essa non può venir dimostrata o «confutata » con i mezzi di 

nessuna « scienza ». 


Ogni considerazione empirica di questi argomenti condur- 

rebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill”, al riconosci- 

mento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisi- 

ca ad essi adeguata. Una considerazione non più empirica, ma 

interpretativa, cioè un’autentica filosofia dei valori, non potreb- 



5. Weber si riferisce qui alla formulazione dei saggi postumi Nature, the Uti- 

lity of Religion, and Theism, London, 1874, pp. 130-31 (ma cfr. anche p. 150). Per 

questo riferimento si veda il breve articolo Zwisclien zwei Gesetze, pubblicato nella 

rivista « Die Frau » del febbraio 1916 (ora raccolto in Gesammelte politische Schrif- 

ten, 2° cd. Tiibingen, 1958, pp. 139-42). 



MAX WEBER 647 



be poi dimenticare, procedendo innanzi, che uno schema con- 

cettuale dei « valori », per quanto bene ordinato, sarebbe incapa- 

ce di rendere giustizia proprio al punto decisivo della questio- 

ne. Tra i valori, cioè, si tratta ovunque e sempre, in ultima 

analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale 

senza possibilità di conciliazione, come tra « dio» e il « demo- 

nio ». Tra di essi non è possibile nessuna relativizzazione e 

nessun compromesso. Beninteso, non è possibile in base al loro 

senso. Poiché, come ognuno ha provato nella vita, ve ne sono 

sempre di fatto, e quindi secondo l’apparenza esterna, continua- 

mente. In quasi ognuna delle prese di posizione importanti di 

uomini reali, infatti, le sfere di valori si incrociano e si intrec- 

ciano. La superficialità della « vita quotidiana », in questo sen- 

so più appropriato del termine, consiste appunto nel fatto che 

l’uomo il quale vive entro di essa non diventa consapevole, e 

neppure vuole diventarlo, di questa mescolanza di valori mor- 

talmente nemici, condizionata in parte psicologicamente e in 

parte pragmaticamente; ed egli si sottrae piuttosto alla scelta 

tra «dio» e il «demonio», evitando di decidere quale dei 

valori in collisione sia dominato dall’uno e quale invece dall’al- 

tro. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile an- 

che se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’al- 

tro che nel dover riconoscere quell’antitesi e nel dover quindi 

considerare che ogni singola azione importante, e soprattutto la 

vita nel suo insieme — se essa deve non già scorrere via come 

un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente — 

rappresenta una catena di decisioni ultime, mediante cui l’ani- 

ma (come per Platone °) sceglie il suo proprio destino — e cioè 

il senso del suo agire e del suo essere. Non a caso il fraintendi- 

mento più grossolano, al quale vanno sempre incontro, di quan- 

do in quando, le intenzioni di coloro che sostengono la tesi 

della collisione tra i valori, è perciò costituito dall'interpretazio- 

ne di questo punto di vista come «relativismo » — cioè come 

un'intuizione della vita la quale poggia invece proprio sulla 

visione, radicalmente opposta, del rapporto reciproco delle sfere 

di valore, e può essere realizzata (in forma coerente) soltanto 



6. Weber allude qui al mito di Er, esposto nel libro X della Repubblica. 



648 MAX WEBER 



sul terreno di una metafisica configurata in maniera molto 

particolare (cioè di una metafisica « organica »). 



Ritornando al nostro caso specifico, mi sembra, senza possi- 

bilità di dubbio, che nel settore delle valutazioni pratico-politi- 

che (particolarmente anche di politica economica e sociale), da 

cui devono essere tratte le direttive per un agire fornito di 

valore, le sole cose che una disciplina empirica può porre in 

luce con i suoi mezzi sono le seguenti: 1) i mezzi indispensabili 

e 2) le inevitabili conseguenze; 3) la concorrenza reciproca, in 

tale maniera condizionata, di più valutazioni possibili, conside- 

rate nelle loro conseguenze pratiche. Le discipline filosofiche 

possono in proposito, con i loro mezzi concettuali, determinare 

il «senso» delle valutazioni, cioè la loro struttura dotata di 

senso e le loro conseguenze dotate di senso, indicando quindi il 

loro «luogo» entro la totalità dei valori « ultimi» che sono 

possibili in generale e delimitando le loro sfere di validità 

significative. Ma già questioni molto semplici — per esempio 

in quale misura uno scopo debba sanzionare i mezzi che sono 

per esso indispensabili; oppure in quale misura debbano venir 

messe in conto le conseguenze non volute; oppure come si 

debbano appianare i conflitti tra più scopi in concreto contra- 

stanti, che sono oggetto di volontà o di dovere — sono in tutto 

e per tutto questioni di scelta o di compromesso. Non c'è 

nessun procedimento scientifico (razionale o empirico) di qual- 

siasi specie, che potrebbe qui fornire una decisione. E meno 

ancora la rostra scienza, che è rigorosamente empirica, può 

pretendere di risparmiare all'individuo questa scelta; per cui 

essa non deve neppure suscitare l'apparenza di poterlo fare. 



Occorre infine osservare esplicitamente che il riconoscimen- 

to di questa situazione è, per le nostre discipline, del tutto 

indipendente dalla presa di posizione di fronte alle considera- 

zioni di teoria dei valori prima accennate con molta brevità. 

Non c’è infatti nessun punto di vista logicamente sostenibile 

in base a cui esso possa venir rifiutato, se si prescinde da una 

gerarchia di valori univocamente prescritta mediante dogmi 

ecclesiastici. Debbo aspettarmi che si trovi realmente della gen- 

te capace di affermare la zon-diversità di senso dei due gruppi 



MAX WEBER 649 



di questioni seguenti — da un lato questioni come: un fatto 

concreto avviene così o altrimenti? perché la situazione concre- 

ta in esame si è configurata così e non altrimenti? a una data 

situazione, secondo una regola dell’accadere di fatto, segue di 

solito un’altra, e con quale grado di probabilità? — e dall'altro 

questioni come: che cosa si deve praticamente fare in una 

concreta situazione? da quali punti di vista quella situazione 

può apparire praticamente auspicabile oppure no? vi sono pro- 

posizioni (assiomi) formulabili, in qualsiasi maniera, general- 

mente, a cui si possano ridurre questi punti di vista? Debbo aspet- 

tarmi che. sia sostenuta l'identità della questione concernente 

la direzione in cui una situazione di fatto, concretamente data 

(o in generale una situazione di un determinato tipo, in qual- 

che modo accessibile), si svilupperà con probabilità — e con 

quale misura di probabilità (cioè è solita svilupparsi tipicamen- 

te) — e dell’altra questione concernente invece il dovere di 

contribuire affinché una determinata situazione si sviluppi in 

una determinata direzione — sia essa di per sé probabile, oppu- 

re opposta o un’altra qualsiasi? Debbo aspettarmi infine che 

sia sostenuta l’identità della questione concernente l’opinione 

che determinate persone in certe circostanze concrete, o un 

numero indeterminato di persone nelle medesime circostanze, 

si formeranno con probabilità (o anche con sicurezza) su un 

problema di qualche specie, e dall’altra parte della questione 

concernente la correttezza di questa opinione, che si forma con 

probabilità o con sicurezza? Debbo cioè aspettarmi che vi sia 

della gente la quale affermi che le questioni di ognuna di tali 

coppie antitetiche abbiano anche soltanto qualcosa a che fare 

l'una con l’altra, e che esse realmente — come ogni tanto si 

ripete — non possano «essere separate l’una dall'altra »? e che 

quest’ultima asserzione 207 sia in contraddizione con le esigen- 

ze del pensiero scientifico? Se qualcuno, il quale pur concede 

l'assoluta eterogeneità delle due specie di questioni, tuttavia 

pretende di esprimersi nel medesimo libro, nella medesima pa- 

gina, magari in una proposizione principale o secondaria di 

una medesima unità sintattica, da un lato sull’uno e dall’altro 

sull’altro di quei due problemi tra loro eterogenei — questo è 

affar suo. Ciò che da lui si esige è semplicemente che egli non 

illuda senza volerlo (o anche per volontaria mordacità) i suoi 



650 MAX WEBER 



lettori sull’assoluta eterogeneità dei problemi. Personalmente re- 

sto del parere che nessun mezzo al mondo è troppo « pedante- 

sco» per essere impiegato allo scopo di evitare confusioni. 


Il senso delle discussioni intorno a valutazioni pratiche (de- 

gli stessi partecipanti alla discussione) può essere dato soltanto 

dalle operazioni seguenti: 



a) L'elaborazione degli assiomi di valore ultimi, internamen- 

te « coerenti », da cui procedono le opinioni tra loro contrappo- 

ste. Abbastanza spesso ci si inganna non soltanto sugli assiomi 

dell'avversario, ma anche sui propri. Questo procedimento costi- 

tuisce un'operazione che, nella sua essenza, parte dalla valuta- 

zione particolare e dalla sua analisi dotata di senso, per proce- 

dere sempre più in alto verso prese di posizione valutative più 

fondamentali. Esso non opera con gli strumenti di una discipli- 

na empirica e non apporta nessuna conoscenza di fatti. Esso 

«vale » nello stesso modo in cui vale la logica. 



b) La deduzione delle «conseguenze » connesse alla presa 

di posizione valutativa, che derivano da determinati assiomi di 

valore ultimi, quando essi, ed essi soltanto, sono posti a fonda- 

mento della valutazione pratica di un certo stato di cose. Essa 

è puramente dotata di senso in riferimento all’argomentazione 

logica, ma d’altra parte è vincolata a osservazioni empiriche per 

quanto riguarda la casistica più esauriente possibile di quelle si- 

tuazioni empiriche che possono venir prese in considerazione, in 

generale, in una valutazione pratica. 



c) La determinazione delle conseguenze di fatto che produ- 

ce la realizzazione pratica di una data presa di posizione valuta- 

tiva nei confronti di un certo problema: 


1) a causa del legame con determinati mezzi indispen- 

sabili; 


2) a causa dell’inevitabilità di determinate conseguenze 

concomitanti, non direttamente volute. 


Questa determinazione puramente empirica può avere come 

risultato, tra l’altro: 


1) l'assoluta impossibilità di qualsiasi realizzazione, per 

quanto solo molto approssimativa, del postulato di valore, in 

quanto non è possibile escogitare nessuna via per realizzarlo; 



MAX WEBER 651 



2) la maggiore o minore improbabilità di una sua realiz- 

zazione compiuta, o anche soltanto approssimativa, o per gli 

stessi motivi oppure perché esiste la probabilità che si verifichi- 

no conseguenze concomitanti non volute, che sono tali da ren- 

derne direttamente o indirettamente illusoria la realizzazione; 


3) la necessità di accettare tali mezzi o tali conseguenze 

concomitanti, che il sostenitore del postulato pratico in questio- 

ne non aveva considerato, di modo che la sua decisione valutati- 

va tra scopo, mezzo e conseguenza diventi per lui stesso un 

nuovo problema, e perda la sua forza coercitiva sugli altri. 



d) Infine possono presentarsi nuovi assiomi di valore, e di 

conseguenza nuovi postulati, che il sostenitore di un certo po- 

stulato pratico non ha osservato, e di fronte ai quali non ha 

quindi preso posizione, sebbene la realizzazione del proprio 

postulato entri in collisione con essi, sia in linea di principio 

oppure per le conseguenze pratiche che ne derivano, cioè per il 

loro senso o praticamente. Nell’un caso (contrasto di principio) 

si tratta, nella discussione ulteriore, di problemi del tipo 4); 

nell’altro (contrasto di conseguenze) si tratta di problemi del 

tipo c). 



Ben lungi dall'essere « prive di senso », le discussioni valuta- 

tive di questo tipo hanno, se sono intese correttamente nel loro 

scopo — €, a mio parere, allora soltanto — un'importanza 

molto rilevante. 


L'utilità di una discussione intorno a valutazioni pratiche, 

condotta al luogo giusto e nel giusto senso, non è però affatto 

esaurita con tali diretti « risultati », che essa può recare a matu- 

razione. Se è condotta correttamente, essa feconda nel modo 

più duraturo il lavoro empirico, in quanto gli fornisce le impo- 

stazioni problematiche di cui ha bisogno per la propria ricerca. 


I problemi delle discipline empiriche debbono certo venir 

risoli, da parte loro, in maniera « avalutativa ». Essi non sono 

« problemi di valore». Ma tuttavia stanno, nell’ambito delle 

nostre discipline, sotto l'influenza della relazione della realtà 

«ai» valori. Sul significato dell’espressione «relazione di valo- 

re» debbo riferirmi alle mie precedenti formulazioni, e soprat- 

tutto alle ben note opere di Heinrich Rickert. Sarebbe impossi- 

bile riprendere qui ancora una volta tali questioni. È sufficien- 



652 MAX WEBER 



te quindi ricordare che quell’espressione — « relazione di valo- 

re» — rappresenta semplicemente l’interpretazione filosofica di 

quello specifico « interesse » scientifico che dirige la selezione e 

la formulazione dell'oggetto di un'indagine empirica. 


Nell'ambito dell’indagine empirica, questa circostanza pura- 

mente logica non legittima in ogni caso nessuna « valutazione 

pratica ». In concordanza con l’esperienza storica essa pone 

però in rilievo che sono gli interessi culturali, e perciò gli 

interessi di valore, a indicare la direzione anche al lavoro delle 

scienze empiriche. È chiaro che questi interessi di valore posso- 

no svilupparsi nella loro casistica mediante le discussioni valuta- 

tive. E queste possono diminuire di molto, o almeno rendere 

più facile, al ricercatore che lavora scientificamente, e soprattut- 

to allo storico, il compito dell’«interpretazione di valore» — 

che per lui è un aspetto preliminare così importante del suo 

lavoro propriamente empirico. Infatti non soltanto la distinzio- 

ne tra valutazioni e relazioni ai valori, ma anche quella tra 

valutazione e interpretazione di valore (cioè lo sviluppo delle 

prese di posizione dotate di senso, che sono possibili di fron- 

te a un dato fenomeno), sovente non è compiuta chiaramente, e 

quindi ne derivano oscurità per la determinazione dell’essenza 

logica della storia: mi sia consentito di rinviare a questo propo- 

sito alle osservazioni già fatte altrove* (senza ritenerle del re- 

sto in alcun modo conclusive). 



Invece di inoltrarmi ancora una volta nella discussione di 

questi fondamentali problemi metodologici, vorrei prendere in 

esame alcuni punti particolari, che sono praticamente importan- 

ti per le nostre discipline. 


È ancora sempre diffusa la fede che si debba, o che sia 

necessario, oppure che si possa derivare delle indicazioni per 

le valutazioni pratiche da « tendenze di sviluppo ». Solo che da 

tali «tendenze di sviluppo », per quanto univoche esse siano, si 

possono trarre imperativi univoci dell’agire soltanto rispetto ai 

mezzi che si prevedono più appropriati per date prese di posi- 



a. Nel saggio Kritische Studien auf dem Gebiet der Rulturwissen- 

schaftlichen Logik, « Archiv fir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik », 

XXII, 1906, pp. 168-69 [ora in Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaft- 



slehre, pp. 245-47]- 



MAX WEBER 653 



zione, non però rispetto a quelle prese di posizione. Certamen- 

te qui il concetto di « mezzo» è il più ampio che si possa 

concepire. Chi per esempio considerasse gli interessi di potenza 

dello stato come un fine ultimo, dovrebbe in rapporto alla 

situazione data considerare una costituzione assolutistica oppu- 

re una costituzione democratico-radicale come il mezzo (relati- 

vamente) più adatto; e sarebbe estremamente ridicolo prendere 

un qualsiasi mutamento nella valutazione di questo apparato 

statale come mezzo per un mutamento nella presa di posizione 

«ultima ». È però inoltre evidente, come già si è detto, che al 

singolo sì presenta sempre nuovamente il problema se egli 

debba lasciar cadere la speranza nella realizzabilità delle sue 

valutazioni pratiche di fronte alla conoscenza del sussistere di 

una tendenza univoca di sviluppo, la quale condiziona lo scopo 

cui egli aspira all'impiego di muovi mezzi che, per motivi etici 

o di altra specie, gli appaiono eventualmente dubbi, o all’ac- 

cettazione di conseguenze concomitanti da lui aborrite, oppure 

la rende così improbabile da fare apparire il suo lavoro, misura- 

to in base alla possibilità di successo, una sterile « donchisciotte- 

ria ». Ma la conoscenza di tali « tendenze di sviluppo », più o 

meno difficilmente mutabili, non occupa affatto una posizione 

particolare. Ogri nuovo fatto singolo può parimenti avere per 

effetto di configurare in maniera nuova l'equilibrio tra lo scopo 

e i mezzi indispensabili, o tra il fine voluto e la conseguenza 

concomitante inevitabile. Se ciò debba accadere — e quali con- 

clusioni pratiche se ne possano trarre — è una questione che 

non rientra in una scienza empirica, e anzi, come si è detto, in 

nessuna scienza in genere, di qualsiasi specie. Si può per esem- 

pio dimostrare tangibilmente al sindacalista convinto che il suo 

agire non solo è socialmente « inutile », cioè non promette alcu- 

na conseguenza per il mutamento della situazione esterna di 

classe del proletariato, ma la peggiora inevitabilmente provocan- 

do disposizioni «reazionarie» — con questo però non gli si 

dimostra nulle, se egli è realmente fedele alle conseguenze 

ultime della sua convinzione. E ciò non perché egli sia un 

insensato, ma perché può aver «ragione» dal suo punto di 

vista — come dovremo discutere. In complesso gli uomini incli- 

nano abbastanza fortemente ad adattarsi interiormente al suc- 

cesso, 0 a ciò che promette di volta in volta il successo, e non 



654 MAX WEBER 



soltanto — come è evidente — nei mezzi o nella misura in cui 

si sforzano di realizzare i loro ideali ultimi, ma anche nella 

rinuncia a questi medesimi. In Germania si crede di poter 

fregiare questo comportamento con il nome di « politica realisti- 

ca ». In ogni caso non si riesce a comprendere perché proprio i 

rappresentanti di una disciplina empirica debbano sentire il 

bisogno di appoggiarlo, fornendo la propria approvazione alla 

«tendenza di sviluppo » di volta in volta prevalente e trasfor- 

mando l’« adattamento » a questa tendenza da problema di 

valutazione vitimo, da risolversi caso per caso da parte della 

coscienza dell’individuo, in un principio che si suppone coperto 

dall’autorità di una «scienza ». 


È esatto — se correttamente inteso — che una politica la 

quale rechi al successo è sempre l’« arte del possibile ». Ma 

non meno esatto è che il possibile molto sovente è stato rag- 

giunto solo in quanto si è mirato all’impossibile che sta al di 

là di esso. Infine, non è stata la sola etica realmente coerente 

dell’« adattamento » al possibile, cioè la morale burocratica del 

Confucianesimo, che ha prodotto le qualità specifiche della no- 

stra cultura — qualità che probabilmente noi tutti, nonostante 

ogni altra differenza, stimiamo (soggettivamente) in maniera 

più o meno positiva. Da parte mia, almeno, non vorrei dissua- 

dere sistematicamente la nazione, proprio in nome della scien- 

za, dal ritenere che — come prima si è posto in luce — accanto 

al « valore di successo » di un’azione stia anche il suo « valore 

di intenzione ». In ogni caso, però, il disconoscimento di questa 

circostanza danneggia la comprensione dei fatti reali. Poiché, 

per rimanere all'esempio prima addotto del sindacalista, è an- 

che logicamente un’assurdità commisurare a scopo di «critica » 

un atteggiamento, che — se coerente — deve avere come regola 

il suo « valore di intenzione », semplicemente con il suo « valo- 

re di successo ». Il sindacalista realmente coerente vuole sempli- 

cemente mantenere in se stesso, e per quanto è possibile suscita- 

re in altri, una determinata coscienza, che gli appare dotata di 

valore e sacra. Le sue azioni esterne, proprio quelle che in 

partenza sono condannate anche a un'assoluta mancanza di 

successo, hanno in ultima analisi lo scopo di dargli, di 

fronte al proprio foro, la certezza che tale coscienza è pu- 

ra, che essa ha cioè la forza di « comprovarsi » in azioni e non 



MAX WEBER 655 



è solo una mera smargiassata. Per tale scopo (forse) c’è soltan- 

to il mezzo costituito da tali azioni. Per il resto — se egli è 

coerente — il suo regno, come il regno di ogni etica dell’inten- 

zione, non è di questo mondo. « Scientificamente » si può solo 

determinare che questo modo di concepire i propri ideali è il 

solo internamente conseguente, e non è confutabile mediante 

« fatti » esterni. Io ritengo che con questo sia stato reso, sia 

ai sostenitori sia agli avversari del sindacalismo, un servizio — 

e precisamente quel servizio che essi a buon diritto pretendono 

dalla scienza. Mi sembra invece che nulla si possa ottenere, 

nel senso di zessuza scienza di qualsiasi tipo, a trattare con 

locuzioni del tipo « da un lato — dall’altro» di sette motivi 

«a favore» e di sei «contro» un determinato fenomeno (per 

esempio uno sciopero generale), e a discuterlo secondo il modo 

della vecchia mentalità giuridica oppure dei moderni memoria- 

li cinesi. Con quella riduzione del punto di vista sindacalistico 

alla sua forma il più possibile razionale e internamente coeren- 

te, e con la determinazione delle sue condizioni empiriche di 

nascita, delle sue possibilità e delle sue conseguenze pratiche 

conformi all’esperienza, è in ogni caso esaurito il compito della 

scienza avalutativa nei suoi confronti. Se si debba essere o non 

essere un sindacalista, ciò non si può mai provare senza far 

ricorso a premesse metafisiche ben determinate, le quali non 

sono dimostrabili, e in questo caso non lo sono certo median- 

te qualsiasi scienza, quale che essa sia. Così pure, che un 

ufficiale preferisca saltare in aria con il suo fortino anziché 

arrendersi, può nel caso specifico risultare assolutamente inuti- 

le sotto ogni riguardo, se commisurato alla conseguenza. Ma 

non sarebbe indifferente che sia esistita o no l'intenzione che 

lo ha spinto a ciò, senza indagarne l'utilità. Essa risulta « priva 

di senso » tanto poco quanto lo è quella del sindacalista coeren- 

te. Quando il professore, dalla comoda altezza della cattedra, 

vuole raccomandare un catonismo di tale specie, ciò non appari- 

rebbe certo particolarmente appropriato. Ma non è neppure 

indicato che egli apprezzi l’opposto, facendo un dovere dell’a- 

dattarsi degli ideali alle possibilità offerte appunto dalle tenden- 

ze di sviluppo attuali e dalle attuali situazioni. 


È stato qui innanzi ripetutamente usato il termine « adatta- 

mento », che nel caso specifico risulta, data la formulazione 



656 MAX WEBER 



scelta, abbastanza privo di fraintendimento. Ma si deve rilevare 

che di per sé ha un duplice significato: da un lato designa 

l'adattamento dei mezzi di una presa di posizione ultima a date 

situazioni (« politica realistica» in senso stretto) — dall’altro 

designa l'adattamento nella scelta delle medesime prese di posi- 

zione ultime, che sono in genere possibili, alle possibilità mo- 

mentanee che una di esse realmente o apparentemente possiede 

(ed è quel tipo di « politica realistica » con cui la nostra politi- 

ca, da ventisette anni in qua, è pervenuta a così curiosi succes- 

si). Ma con ciò il numero dei suoi possibili significati non è 

ancora esaurito. Sarebbe perciò piuttosto opportuno, a mio pare- 

re, in ogni discussione dei nostri problemi, sia di questioni di 

« valutazione » che di altre, togliere di mezzo questo concetto 

di cui si è tanto abusato. Infatti esso è sempre del tutto frainte- 

so come espressione di un argomento scientifico, nella cui for- 

ma si presenta ognora rinnovato sia a scopo di « spiegazione » 

(per esempio della sussistenza empirica di certe intuizioni eti- 

che presso certi gruppi umani in determinate epoche) sia a 

scopo di « valutazione » (per esempio di quelle intuizioni eti- 

che, esistenti di fatto, in quanto oggettivamente « adattate » e 

perciò oggettivamente « corrette » e fornite di valore). In nessu- 

no di questi sensi esso serve però a qualcosa, perché sempre ha 

bisogno a sua volta di interpretazione. Esso ha la sua patria 

nella biologia. Se fosse realmente preso in senso biologico, per 

designare la possibilità data dalle circostanze, e relativamente 

determinabile, che un gruppo umano possiede di mantenere la 

propria eredità psico-fisica mediante una grossa riproduzione, 

allora gli strati popolari economicamente meglio provvisti, e 

capaci di regolare più razionalmente la loro vita, sarebbero i 

«meno adattati », secondo le note esperienze fornite dalla stati- 

stica delle nascite. « Adattati » alle condizioni dell'ambiente del- 

la zona di Salt Lake erano, in senso biologico — ma anche in 

ognuno dei numerosi altri significati puramente empirici — i 

pochi Indiani che vi vivevano prima dell’arrivo dei Mormoni, 

e lo erano nella stessa maniera, altrettanto bene e altrettanto 

male, le più tarde e numerose popolazioni mormoniche. In 

virtù di questo concetto noi non perveniamo affatto a una 

migliore comprensione sul piano empirico, ma ci immaginiamo 

facilmente di farlo. E soltanto nel caso di due organizzazioni 



MAX WEBER 657 



per il resto assolutamente equivalenti sotto 0gr: rispetto — que- 

sto può venir stabilito fin d'ora — si può dire che una concreta 

differenza particolare è capace di condizionare una situazione 

empiricamente « più opportuna » per la permanenza di una di 

esse, e quindi in tal senso « più adattata » alle condizioni date. 

Per ciò che riguarda la valutazione si può tanto essere dell’opi- 

nione che il maggior numero e le prestazioni e qualità materia- 

li e di altra specie, che i Mormoni portarono sul posto e vi 

svilupparono, siano una prova della loro superiorità sugli India- 

ni, quanto essere invece del parere di colui che aborre incondi- 

zionatamente i mezzi e le conseguenze concomitanti dell’etica 

dei Mormoni, la quale è almeno corresponsabile di quelle azio- 

ni, e quindi può pienamente preferire la romantica esistenza 

degli Indiani nella prateria — senza che nessuna scienza al 

mondo, di qualsiasi specie, possa pretendere di dissuaderlo. 

Qui si tratta già, infatti, dell’irresolubile equilibrio tra scopo, 

mezzo e conseguenza concomitante. 


Soltanto quando la questione concerne i mezzi appropriati 

per un dato scopo, stabilito in maniera assolutamente univoca, 

essa può realmente venir decisa sul terreno empirico. La propo- 

sizione « x è il solo mezzo per y » è infatti la semplice inversio- 

ne della proposizione « a x segue y ». Però il concetto di « adat- 

tazione » (e tutti gli altri affini) non fornisce in nessun caso — 

e questa è la cosa principale — la minima informazione sulle 

fondamentali valutazioni ultime, e anzi semplicemente le cela; 

lo stesso fa, per esempio, il concetto in fondo confuso, e di 

recente prediletto, di «economia umana». « Adattato» nel 

campo della «cultura» è, secondo il modo in cui il concetto 

assume un significato, tutto o nulla. Poiché non si può elimina- 

re la lotta da ogni vita culturale. Si possono mutare i suoi 

mezzi, il suo oggetto, anche la sua direzione fondamentale e i 

suoi portatori; ma non si può metterla da parte. Essa può 

costituire, anziché un conflitto esterno di uomini ostili per co- 

se esterne, un conflitto interno di uomini che si amano in vista 

di beni interiori, e quindi non una costrizione esterna ma 

un'oppressione interna (appunto anche in forma di dedizione 

erotica o caritativa), o rappresentare infine un conflitto interio- 

re dell’anima dell'individuo con se stessa — ma sempre c’è, e 

sovente con conseguenze tanto maggiori quanto meno viene 



42. STORICISMO TEDESCO, 



658 MAX WEBER 



notata, cioè quanto più il suo corso assume la forma di un'ottu- 

sa o di una comoda indifferenza o anche di un’auto-illusione, 

oppure si compie mediante la «selezione ». La « pace» non 

significa nient'altro che un differimento delle forme di lotta o 

degli avversari o degli oggetti di lotta, o infine delle possibilità 

di selezione. Se e quando spostamenti del genere passino la 

prova di fronte a un giudizio valutativo, etico o di altra spe- 

cie, non può ovviamente essere stabilito in termini generali. 

Soltanto una cosa è fuori dubbio: che ogni ordinamento, di 

qualsiasi tipo, di relazioni sociali, se si vuole valutarlo, deve 

in ultima analisi essere sempre esaminato in riferimento al #po 

umano a cui esso, attraverso una selezione (di motivi) esterna o 

interna, dà le migliori possibilità per diventare predominante. 

Altrimenti l'indagine empirica non è realmente esaustiva, e 

neppure c’è la base di fatto necessaria per una valutazione, sia 

essa consapevolmente soggettiva oppure pretenda invece una 

validità oggettiva. Questa circostanza sia ricordata almeno a 

quei numerosi colleghi i quali credono che si possa operare, 

nella determinazione delle linee di sviluppo sociali, con un 

preciso concetto di « progresso ». Ciò ci conduce dinanzi al 

compito di un'analisi più ravvicinata di questo importante con- 

cetto. 


Si può naturalmente usare il concetto di « progresso » in 

maniera assolutamente avalutativa, se lo si identifica con il 

« progredire » di un qualsiasi concreto processo di sviluppo, 

considerato isolatamente. Ma nella maggior parte dei casi la 

cosa è sostanzialmente più complicata. Noi prendiamo qui in 

esame alcuni casi in cui, in campi eterogenei, la congiunzione 

con questioni di valore è la più intrinseca possibile. 


Nel campo dei contenuti irrazionali, sentimentali, affettivi 

del nostro. atteggiamento psichico, l'accrescimento quantitativo 

e la moltiplicazione qualitativa — che nella maggior parte dei 

casi vi è legata — delle possibili forme di atteggiamento posso- 

no venir designati in modo avalutativo come progresso della 

« differenziazione » psichica. Ma ad esso si unisce ben presto il 

concetto di valore di un accrescimento della « portata » o della 

«capacità » di un’« anima » concreta oppure — il che già rap- 

presenta una costruzione tutt'altro che univoca — di un’« epo- 



MAX WEBER 659 



ca» (come avviene nel libro di Simmel, Schopenhauer und 

Nietzsche”). 


È fuori di dubbio, naturalmente, che quel « progredire del- 

la differenziazione » esiste di fatto — con la riserva che non 

sempre esso c'è là dove si crede alla sua presenza. L'attenzione 

per le sfumature del sentimento, che viene crescendo nel perio- 

do attuale — sia come conseguenza dell’aumentata razionalizza- 

zione e intellettualizzazione di tutti i settori della vita, sia 

come conseguenza dell’aumentata importanza soggettiva che 

l'individuo attribuisce alle proprie manifestazioni di vita (per 

gli altri spesso estremamente indifferenti) — facilmente illu- 

de sull’esistenza di una crescente differenziazione. Essa può 

rappresentare questa differenziazione, oppure promuoverla; ma 

l'apparenza inganna con facilità, e io confesso che vorrei stima- 

re abbastanza alta la portata di tale illusione. Ad ogni modo il 

fatto esiste. Designare una differenziazione progressiva come 

« progresso » è di per sé una questione di opportunità termino- 

logica. Ma che essa debba venir valutata come « progresso » 

nel senso di una crescente « ricchezza interiore », non può in 

ogni caso essere deciso da nessuna disciplina empirica. Infatti 

queste discipline non hanno competenza per stabilire se le nuo- 

ve possibilità di sentimento che si vengono sviluppando, o che 

sono tratte alla coscienza, con le nuove «tensioni» e i nuovi 

« problemi » che in certe circostanze comportano, debbano ve- 

nir riconosciute come « valori ». Chi però non voglia assumere 

una posizione valutativa di fronte al fatto della differenziazio- 

ne in quanto tale — cosa che certamente nessuna disciplina empi- 

rica può proibire ad alcuno — e cerchi un punto di vista 

adatto allo scopo, viene di conseguenza condotto, anche da 

alcuni fenomeni contemporanei, di fronte alla questione del 

prezzo che questo processo, in quanto è diventato qualcosa di più 

di un'illusione intellettualistica, è «costato ». Egli non po- 

trà ad esempio dimenticare che la caccia all’Erlebzis — questo 

valore alla moda peculiare della Germania contemporanea — 

può essere in misura assai forte il prodotto di una diminu- 

zione della forza di sostenere interiormente la « vita quotidia- 

na», e che quella pubblicità, che l’individuo sempre più sente 



7. Schopenhauer und Nietzsche, ein Vortragszyklus, Leipzig, 1908. 



660 MAX WEBER 



il bisogno di dare al suo Erleden, potrebbe pure essere valutata 

come una perdita nel sentimento della distanza, e quindi dello 

stile e della dignità. In ogni caso, nel campo delle valutazioni 

dell’Erleben soggettivo il « progresso della differenziazione » è 

identico con l’aumento del « valore » soltanto nel senso intellet- 

tualistico di un accrescimento dell’Erleden consapevole, oppure 

dell’accrescimento della capacità di espressione e della comuni- 

cabilità. 


Le cose sono alquanto più complicate a proposito dell’appli- 

cabilità del concetto di « progresso » (nel senso di valutazione) 

al campo dell’arse. Essa viene talvolta contestata con violenza; 

e, a seconda del senso in cui viene intesa, a ragione o a torto. 

Non c'è mai stata nessuna considerazione valutativa dell’arte 

che potesse procedere con l’antitesi esclusiva di « arte» e « non- 

arte », facendo a meno delle distinzioni tra tentativo e riuscita, 

tra il valore delle diverse riuscite, tra la riuscita compiuta e 

quella che risulta infelice in qualche punto specifico, oppure in 

parecchi e anche importanti, ma tuttavia non è senz'altro priva 

di valore — e ciò non soltanto per una concreta volontà di 

creazione artistica, ma anche per la volontà artistica di epoche 

intere. Il concetto di un « progresso », applicato a queste situa- 

zioni, appare banale, a causa del suo impiego in riferimento a 

puri problemi tecnici. Ma esso non risulta di per sé privo di 

senso. Assai differente appare il problema per la storia del- 

l’arte e per la sociologia dell’arte, condotte in modo puramen- 

te empirico. Per la prima non c’è naturalmente un « progres- 

so» dell’arte nel senso della valutazione estetica di opere 

d’arte come opere riuscite in maniera dotata di senso; poiché 

questa valutazione non può venir compiuta con i mezzi della 

considerazione empirica, e si pone completamente al di là del 

suo lavoro. Invece proprio essa può impiegare un concetto di 

« progresso.» puramente tecnico, razionale e quindi univoco, 

del quale si deve adesso parlare — e la cui utilità per la storia 

empirica dell’arte deriva dal fatto che questo si limita esclusiva- 

mente alla determinazione dei 72e2z1 tecnici che una determina- 

ta volontà artistica usa per una data intenzione. L'importanza 

per la storia dell’arte di queste analisi così rigorosamente defini- 

te è facilmente sottovalutata, oppure fraintesa nel senso di iden- 

tificarle con una supposta « conoscenza », del tutto subalterna e 



MAX WEBER 661 



non genuina, che pretende di aver «inteso » un artista quando 

ha sollevato la tenda del suo laboratorio ed esaminato i suoi 

mezzi esteriori di rappresentazione, cioè la sua « maniera ». 

Soltanto il progresso « tecnico », preso nel suo significato corret- 

to, è di competenza della storia dell’arte, poiché proprio esso 

— e la sua influenza sulla volontà artistica — costituisce ciò 

che di empiricamente determinabile vi è nel corso dello svilup- 

po dell’arte, senza implicare il ricorso a una valutazione esteti- 

ca. Prendiamo alcuni esempi che possano illustrare i reali signi- 

ficati dell'elemento «tecnico », nel senso genuino del termine, 

per la storia artistica. 


L'origine del gotico fu in prima linea il risultato della solu- 

zione tecnica di un problema di copertura degli spazi, in sé di 

pura tecnica architettonica — la questione dell’ottimo, dal pun- 

to di vista tecnico, per l’edificazione di contrafforti di sostegno 

di una volta a croce, congiunta ad alcuni altri particolari che 

non occorre qui discutere. Vennero risolti problemi architettoni- 

ci molto concreti; e la conoscenza che in tale maniera diventa- 

va possibile una determinata maniera di copertura di spazi non 

quadrati suscitò l’entusiasmo appassionato di quegli architetti, 

per adesso e forse per sempre ignoti, ai quali è dovuto lo 

sviluppo del nuovo stile di costruzione. Il loro razionalismo 

tecnico condusse il nuovo principio a tutte le sue conseguenze. 

La loro volontà artistica lo utilizzò come possibilità di risol- 

vere compiti fino allora impensati, e spinse quindi la plastica 

sulla via di un nuovo «senso del corpo», suscitato in primo 

luogo dalle nuove elaborazioni di spazio e di piani dell’architet- 

tura, Che questa trasformazione, di carattere in primo luogo 

tecnico, si sia incontrata con certi contenuti di sentimento, 

condizionati in forte misura sociologicamente o dalla storia reli- 

giosa, fornì gli elementi essenziali di quel materiale di proble- 

mi con i quali lavorò la creazione artistica dell’epoca del goti- 

co. Allorché la considerazione storica e sociologica dell’arte ha 

posto in luce queste condizioni oggettive, tecniche o sociali o 

psicologiche, del nuovo stile, essa esaurisce il suo compito pura- 

mente empirico. Ma essa non « valuta » con ciò lo stile gotico 

in rapporto a quello romanico oppure a quello rinascimentale, 

anch'esso fortemente orientato in vista del problema tecnico 

della cupola, e insieme in vista dei mutamenti dell'ambito di 



662 MAX WEBER 



lavoro dell’architettura, condizionati pure sociologicamente; né 

« valuta » esteticamente, finché rimane una storia empirica del- 

l’arte, la singola costruzione. Anzi, l’interesse per le opere d’arte 

e le sue particolari qualità esteticamente rilevanti, quindi il suo 

oggetto, è ad essa eteronomo, cioè dato 4 priori in base al valore 

estetico che, con i suoi mezzi, essa non può affatto stabilire. 


Lo stesso avviene per esempio nel campo della storia della 

musica. Dal punto di vista dell’inzeresse dell’uomo europeo mo- 

derno («riferimento di valore »!) il suo problema centrale è 

questo: perché la musica armonica si sia sviluppata dalla polifo- 

nia, affermatasi quasi ovunque su base popolare, soltanto in 

Europa e in un determinato spazio di tempo, mentre altrove la 

razionalizzazione della musica si è incamminata per un’altra 

strada, il più delle volte precisamente opposta, e cioè per la 

strada di uno sviluppo degli intervalli mediante la divisione 

delle distanze (per lo più una quarta) anziché mediante la 

divisione armonica (una quinta). Al centro si colloca il proble- 

ma dell'origine della terza nella sua interpretazione armonica, 

cioè come elemento della triade, e inoltre il problema del cro- 

matismo armonico e ancora della ritmica musicale moderna 

(della cadenza lenta e veloce) — invece della cadenza puramen- 

te metronomica — vale a dire di una ritmica senza la quale è 

impensabile la moderna musica strumentale. Si tratta qui di 

nuovo prevalentemente di problemi di « progresso » razionale, 

e puramente tecnico. Che per esempio il cromatismo fosse noto 

molto prima della musica armonica, come mezzo di rappresen- 

tazione della « passione », risulta infatti dall'antica musica cro- 

matica (presumibilmente mono-armonica) per gli appassionati 

Sé ,uror del frammento di Euripide di recente scoperto. Non 

nella volontà espressiva artistica, bensì nei mezzi espressivi tec- 

nici stava la differenza di questa musica antica nei confronti di 

quella cromatica che i grandi innovatori musicali del Rinasci- 

mento crearono in un’impetuosa aspirazione razionale alla sco- 

perta — per poter appunto dare forma musicalmente alla « pas- 

sione ». La novità tecnica era però che questo cromatismo di- 

ventava quello dei nostri intervalli armonici, e non già quello 

delle distanze melodiche di semitono, o di quarto di tono, 

degli Elleni. E che potesse diventare tale, ha a sua volta il 

fondamento in precedenti soluzioni di problemi tecnico-raziona- 



MAX WEBER 663 



li; cioè soprattutto nella creazione della notazione razionale 

(senza la quale nessuna moderna composizione sarebbe nemme- 

no concepibile), e già prima nella creazione di determinati 

strumenti che costrinsero all’interpretazione armonica di inter- 

valli musicali, nonché, in particolare, del canto polifonico razio- 

nale. Un contributo molto importante a queste scoperte lo ave- 

va però fornito, nel primo Medioevo, il monachesimo dell’area 

missionaria nord-occidentale, il quale, senza presagire la poste- 

riore portata della propria opera, razionalizzò per i suoi scopi 

la polifonia popolare, invece di organizzare la propria musica 

— come fece il monachesimo bizantino — sul modello del 

uerorotég tratto dagli Elleni. Le caratteristiche concrete, condi- 

zionate sociologicamente e dalla storia religiosa, della situazio- 

ne esterna e interna della chiesa cristiana in Occidente consenti- 

rono qui che da un razionalismo proprio soltanto del monache- 

simo occidentale sorgesse questa problematica musicale, che 

era nella sua essenza di carattere «tecnico». Dall'altra parte 

l'adozione e la razionalizzazione della misura di danza, che è 

la fonte delle forme musicali sfocianti nella sonata, furono con- 

dizionate da certe forme di vita della società rinascimentale. 

Infine lo sviluppo del pianoforte, cioè di uno dei più importan- 

ti portatori tecnici dello sviluppo musicale moderno e della 

sua diffusione nella borghesia, si radicò nello specifico caratte- 

re intra-domestico della cultura nord-europea. Sono tutti « pro- 

gressi » dei mezzi tecnici della musica, che hanno così forte- 

mente determinato la sua storia. La storia empirica della musi- 

ca potrà e dovrà appunto seguire queste componenti dello svi- 

luppo storico, senza avanzare, da parte sua, una valutazione 

estetica delle opere musicali. Il « progresso » tecnico si è molto 

spesso compiuto in prodotti che, valutati esteticamente, appaio- 

no del tutto insufficienti. Ma la direzione di interesse, cioè 

l'oggetto da spiegare storicamente, è data alla storia della musi- 

ca eteronomamente, mediante la sua significatività estetica. 


Per il campo dello sviluppo della pittura, la nobile modestia 

dell’impostazione problematica di Die k/assische Kunst di Wélf- 

flin® costituisce un esempio eminente delle fecondità di un 

lavoro empirico. 



8. Heinrich von Woélfflin (1864-1945), storico dell’arte tedesco, autore dei Prole- 



664 MAX WEBER 



La piena separazione della sfera dei valori dalla realtà empi- 

rica emerge poi in maniera caratteristica dal fatto che l’impie- 

go di una determinata zecnica, per quanto « progressiva », non 

implica nulla sul valore estetico dell’opera d'arte. Opere d'arte 

create con la tecnica più « primitiva» — per esempio quadri 

privi di ogni nozione di prospettiva — possono risultare esteti- 

camente di eguale dignità di quelle più perfette prodotte me- 

diante la tecnica razionale, se si presuppone che la volontà 

artistica si sia limitata a quelle formulazioni che sono adeguate 

a tale tecnica « primitiva ». La creazione di nuovi mezzi tecnici 

rappresenta soltanto una crescente differenziazione, e dà sol- 

tanto la possibilità di una crescente « ricchezza » dell’arte, nel 

senso di un incremento di valore. Di fatto essa ha avuto, non 

di rado, l’effetto opposto di un «impoverimento» del senso 

della forma. Ma per la considerazione empirico-causale è pro- 

prio il mutamento della «tecnica» (nel senso più alto del 

termine) che costituisce l'elemento di sviluppo più importante 

dell’arte, che si può determinare in linea generale. 


Non soltanto gli storici dell’arte, ma gli storici in genere 

replicano di solito che essi non possono rinunciare al diritto di 

una valutazione politica o culturale o etica o estetica, né sono 

in grado di compiere, senza di essa, il proprio lavoro. La 

metodologia non ha né la forza né il proposito di prescrivere a 

chicchessia ciò che egli intende offrire in un’opera letteraria. 

Essa si prende, da parte sua, soltanto il diritto di stabilire che 

certi problemi hanno un senso tra loro eterogeneo, che il loro 

scambio reciproco conduce la discussione a uno sterile gioco di 

contrapposizioni, e che quindi una discussione condotta con i 

mezzi della scienza empirica o della logica per gli uni è for- 

nita di senso, e per gli altri è invece impossibile. Forse si può 

qui aggiungere, senza per ora inoltrarci nella sua dimostrazio- 

ne, un'osservazione generale: un'analisi attenta di lavori sto- 

rici mostra con facilità che lo sforzo di seguire la catena causa- 

le, storico-empirica, viene quasi senza eccezione interrotto, a 

danno dei risultati scientifici, allorché lo storico comincia a 



gomena zu einer Psycologie der Architektur (1866), di Renaissance und Barock (1888), 

di Die Klassische Kunst (1899), dei Kunstgeschichtliche Grundbegrifle (1915), dei Ge- 

danken zur Kunstgeschichte (1940) e di varie altre opere. 



MAX WEBER 665 



«valutare ». Egli incorre allora nel pericolo, per esempio, di 

« spiegare » come conseguenza di una « mancanza » o di una 

« caduta » ciò che forse era effetto di ideali a lui eterogenei del 

soggetto che agisce, e pecca quindi di fronte al suo compito più 

proprio — quello dell’« intendere ». Il fraintendimento si spie- 

ga per due ragioni. In primo luogo per il fatto che, restando 

all’arte, la realtà artistica è accessibile, oltre che alla pura consi- 

derazione valutativa estetica da un lato e dall’altro alla pura 

considerazione empirica, mirante alla determinazione delle cau- 

se, anche a una terza specie di considerazione — all’interpreta- 

zione di valore (sulla cui essenza non occorre qui ripetere ciò 

che si è detto in altra sede). Sul suo valore specifico, e sulla 

sua indispensabilità per ogni storico, non sussiste alcun dubbio; 

e così pure non c’è alcun dubbio che il consueto lettore di 

studi di storia dell’arte si aspetta di trovare anche, e per l’ap- 

punto, questa trattazione. Soltanto che essa, presa nella sua 

struttura logica, non è identica con la considerazione empirica. 


Questo però si deve riconoscere: chi vuole svolgere indagini 

di storia dell’arte, per quanto puramente empiriche, deve posse- 

dere la capacità di «intendere» la produzione artistica — e 

questo non è assolutamente concepibile senza quella capacità di 

giudizio estetico, cioè senza la capacità di valutazione. La 

stessa cosa vale pure per lo storico della politica o della lettera- 

tura o della religione o della filosofia. Ma ovviamente ciò non 

implica nient'altro sull’essenza logica del lavoro storico. 


Di ciò si dirà oltre. Qui si doveva discutere semplicemente 

la questione del senso in cui, a/ di fuori della valutazione 

estetica, si può parlare di « progresso » in sede di storia dell’ar- 

te. È risultato che questo concetto acquista un senso tecnico e 

razionale che designa i mezzi necessari per un certo proposito 

artistico, e può diventare come tale significativo per la storia 

dell’arte empiricamente condotta. È ora tempo di indagare que- 

sto concetto di progresso « razionale » nel suo campo più pro- 

prio, considerandolo nel suo carattere empirico o non-empirico. 

Poiché quanto si è detto è soltanto un caso particolare di una 

circostanza molto universale. 


La maniera in cui Windelband ha delimitato il tema della 

sua Geschichte der Philosophie — «il processo mediante cui 

l'umanità europea ha formulato la sua concezione del mondo... 



666 MAX WEBER 



in concetti scientifici» — conduce nella sua pragmatica, a mio 

parere assai brillante, all'impiego di uno specifico concetto di 

« progresso » che deriva da questo riferimento a valori culturali 

(e di cui egli trae le conseguenze); e questo concetto da un 

lato risulta nient’affatto evidente per ogni « storia » della filo- 

sofia, dall'altro, se si assume un corrispondente riferimento a 

valori culturali, vale non soltanto per una storia della filosofia, 

e neppure soltanto per la storia di qualsiasi altra disciplina, ma 

— diversamente da quanto Windelband sostiene! — per ogni 

« storia» in generale. Ciononostante, qui di seguito dobbiamo 

parlare soltanto di quei concetti razionali di « progresso », che 

occupano un posto nelle nostre discipline sociologiche ed econo- 

miche. La nostra vita sociale ed economica, europeo-americana, 

risulta « razionalizzata » in un modo e in un senso specifico. 

Spiegare questa razionalizzazione, e elaborare i concetti ad es- 

sa corrispondenti, è quindi uno dei principali compiti delle 

nostre discipline. Perciò ricompare il problema toccato nell’e- 

sempio della storia dell’arte, ma lasciato in quella sede aperto: 

che cosa vuol dire propriamente la designazione di un processo 

come « progresso razionale » ? 


Si ripete anche qui la combinazione di « progresso » nel 

triplice senso: 1) di un mero « progredire » nella differenziazio- 

ne; 2) di una progressiva razionalità tecnica dei mezzi; 3) di un 

incremento di valore. In primo luogo un comportamento sog- 

gettivamente « razionale » non è identico con un agire razional- 

mente « corretto », che impieghi cioè oggettivamente mezzi cor- 

retti, in conformità alla conoscenza scientifica. Ma esso di per 

sé significa soltanto che il proposito soggettivo è diretto a un 

orientamento ordinato in vista di mezzi ritenuti corretti per un 

dato scopo. Una progressiva razionalizzazione soggettiva dell’a- 

gire non è quindi, di necessità, anche oggettivamente un « pro- 

gresso » nella direzione verso l’agire razionalmente « corretto ». 

La magia, per esempio, è stata sistematicamente « raziona- 

lizzata » al pari della fisica. La prima terapia deliberatamente 

«razionale » ha significato quasi ovunque un disprezzo per la 



9. Lelrbuch der Geschichte der Philosophie, Frciburg, i.B., 4° cd. 1907, p. 8. 

10. Op. cit., pp. 15-16. 

11. Op. cit., p. 7. 



MAX WEBER 667 



cura dei sintomi empirici con erbe e bevande provate solo empi- 

ricamente, a favore dello sforzo di scacciare le « cause » (magi- 

che o demoniache) « vere e proprie » della malattia. Essa aveva 

perciò, formalmente, la medesima struttura razionale che rive- 

stono parecchi dei più importanti progressi della terapia moder- 

na. Ma noi non potremo valutare quelle terapie magiche di 

sacerdoti come « progresso » verso un agire «corretto », in 

antitesi a quell'empiria. E d’altra parte non ogni « progres- 

so» nella direzione verso l’impiego dei mezzi «corretti» è 

conseguito mediante un «progredire» nel primo senso, cioè 

nel senso soggettivamente razionale. Che un agire più raziona- 

le soggettivamente progressivo conduca a un agire oggettiva- 

mente « più conforme allo scopo », è soltanto una tra più possi- 

bilità, e rappresenta un processo da aspettarsi con una (diversa- 

mente grande) probabilità. Se però nel caso specifico è corretta 

la proposizione la quale asserisce che la regola x è il mezzo 

(possiamo assumere il solo) per raggiungere l’effetto y — ciò 

che costituisce una questione empirica, poiché si tratta della 

semplice inversione della proposizione causale: a x segue y — 

e se ora questa proposizione viene consapevolmente assunta da 

certi uomini per l'orientamento del proprio agire in vista del- 

l’effetto y — il che è pure determinabile empiricamente — 4/lo- 

ra il loro agire risulta orientato in modo « tecnicamente corret- 

to ». Se l’atteggiamento umano (di qualsiasi specie) è orientato 

in qualche punto particolare in modo tecnicamente « più corret- 

to» di prima, ha luogo un « progresso tecnico ». Se questo sia 

il caso, è — naturalmente presupponendo sempre l’assoluta uni- 

vocità dello scopo che viene stabilito — una determinazione 

che una disciplina empirica deve compiere di fatto con i mezzi 

dell’esperienza scientifica, ossia una questione empirica. 


Vi sono quindi, in questo senso — ben inteso, dato un certo 

scopo 4nivoco — concetti univocamente determinabili di corret- 

tezza «tecnica», e di progresso «tecnico» nei mezzi (dove 

qui « tecnica » viene intesa nel suo senso più ampio, cioè come 

comportamento razionale valido in tutti i campi, anche in quel- 

È, della manipolazione e del dominio politico, sociale, educati- 


o, propagandistico sulle masse). Si può in particolare (per 

accennare soltanto alle cose che ci toccano da vicino) parlare in 

maniera abbastanza univoca di « progresso » nel campo specifi 



668 MAX WEBER 



co chiamato di solito «tecnica», al pari però che nel campo 

della tecnica commerciale o anche di quella giuridica, se si 

assume qui come punto di partenza uno stato univocamente 

determinato di una formazione concreta. Approssimativamen- 

te, infatti, i singoli princìpi tecnicamente razionali, come ogni 

esperto sa, entrano tra loro in conflitto, e tra di essi si può 

trovare sì un equilibrio da qualche punto di vista di coloro che 

vi sono concretamente interessati, ma non mai in maniera 

«oggettiva». E assumendo dati bisogni, stabilendo inoltre che 

tutti questi bisogni in quanto tali, nonché la valutazione della 

loro importanza soggettiva, debbano essere sostrazti alla criti- 

ca, infine presupponendo una data maniera di ordinamento 

economico — di nuovo con la riserva che per esempio gli 

interessi alla durata, alla sicurezza e alla fecondità del soddisfa- 

cimento di questi bisogni possono entrare, ed entrano, in con- 

flitto — c'è anche un progresso «economico » verso un opti- 

mum relativo di copertura del fabbisogno nel caso di date 

possibilità di mezzi disponibili. Ma c’è soltanto in base a que- 

sti presupposti e a queste limitazioni. 


È stato fatto il tentativo di derivare da ciò la possibilità 

di valutazioni univoche, e perciò puramente economiche. Un 

esempio caratteristico in merito è il caso, citato dal prof. Lief- 

mann ", della distruzione di proposito dei beni di consumo 

scesi al di sotto del prezzo di costo, nell’interesse della redditivi- 

tà dei produttori. Questa distruzione dovrebbe essere valutata 

anche come oggettivamente « corretta dal punto di vista econo- 

mico ». Ma tale illustrazione e tutte le altre simili — questo è 

quanto ci interessa — assumono come evidenti una serie di 

presupposti che non lo sono; assumono cioè non soltanto che 

l'interesse dell'individuo vada oltre la sua morte, ma anche 

che esso deve valere come tale, una volta per sempre. Senza 

questa trasposizione dall’« essere » al « dover essere » la valuta- 

zione in questione, che si pretende puramente economica, non 

potrebbe venir effettuata univocamente. Poiché senza di essa, 

per esempio, non si può parlare degli interessi dei « produtto- 

ri» e dei «consumatori» come di interessi di persone che si 



12. Robert Liefmann {1874-1941), economista tedesco, autore dell’opera Die Un- 

ternchmungsformen (1912) e di altri scritti. 



MAX WEBER 669 



perpetuano. Che l'individuo prenda in considerazione gli inte- 

ressi dei suoi eredi, non è però più una circostanza puramente 

economica. Agli uomini viventi vengono qui sostituiti piuttosto 

degli interessati, i quali utilizzano il « capitale » nelle loro «im- 

prese » ed esistono per queste imprese. Ciò costituisce una fin- 

zione utile per scopi teorici; ma anche come finzione non si 

adatta alla situazione dei lavoratori, e in particolare di quelli 

senza figli. In secondo luogo essa ignora il fatto della « situazio- 

ne di classe » la quale, sotto il dominio del principio di merca- 

to, può assolutamente peggiorare (non che debba necessariamen- 

te), non già nonostante ma proprio ir conseguenza della distri- 

buzione « ottima » di capitale e lavoro nei diversi rami produtti- 

vi — ottima in quanto valutata dal punto di vista della redditi- 

vità — il rifornimento di beni per certi strati di consumatori. 

Infatti quella distribuzione « ottima » della redditività, che con- 

diziona la costanza dell’investimento di capitale, dipende a sua 

volta dalle costellazioni di forze esistenti tra le classi, le cui 

conseguenze possono nel caso concreto (non già che debbano ne- 

cessariamente) indebolire la posizione di quegli strati nella lot- 

ta per i prezzi. In terzo luogo essa ignora la possibilità di 

durevoli antitesi di interessi, prive di possibilità di composizio- 

ne, tra i membri di diverse unità politiche; e quindi prende 

partito 4 priori per l’« argomento della libertà di commercio », 

che si tramuta così, da mezzo euristico estremamente utile, in 

una «valutazione » tutt'altro che evidente, appena da esso 

si traggano postulati concernenti il dover essere. Quando però, 

per uscire da questo conflitto, essa presuppone l’unità politica 

dell'economia mondiale (il che teoricamente è senz'altro per- 

messo), allora l’ineliminabile possibilità della critica che suscita 

la distruzione di quei beni consumabili nell'interesse dell’opti- 

mum di redditività permanente (dei prodotti e dei consumato- 

ri) offerta dai rapporti esistenti — quale viene qui presupposto 

— si sposta semplicemente nella sua ampiezza. La critica si 

dirige cioè contro l’intero principio del rifornimento del merca- 

to in base a tali direttive, risultanti dall’optimum di redditi- 

vità, esprimibile in denaro, di singole economie in rapporto di 

scambio — si dirige contro il principio în quanto tale. Un'orga- 

nizzazione di rifornimento dei beni, non organizzata in forma 

di mercato, non avrebbe alcun motivo per tener conto della 



670 MAX WEBER 



costellazione di interessi economici individuali data in base al 

principio di mercato, e perciò non sarebbe neppur costretta a 

sottrarre al consumo quei beni già esistenti. 


Soltanto se si presuppongono le seguenti condizioni: 1) esclu- 

sivi interessi di redditività permanenti, di persone concepite 

come costanti e con bisogni anch'essi concepiti come costanti 

per lo scopo; 2) esclusivo dominio dell’organizzazione di rifor- 

nimento dei beni fondata sul capitale privato, mediante uno 

scambio di mercato completamente libero; 3) una potenza stata- 

le non interessata come mero garante giuridico — soltanto a 

queste condizioni la concezione del prof. Liefmann risulta cor- 

retta anche solo dal punto di vista teorico, e perciò giusta in 

maniera ovvia. Infatti la valutazione concerne allora i mezzi 

razionali per la migliore soluzione di un problema tecnico par- 

ticolare di distribuzione dei beni. Le finzioni dell’economia 

pura, utili a scopi teorici, non possono però essere trasformate 

in base di valutazioni pratiche di fatti reali. Rimane stabilito 

che la teoria economica non può asserire assolutamente nient’al- 

tro che questo: per il dato scopo tecnico x la regola y è il solo 

mezzo appropriato, oppure lo è insieme a yy e a y, — e nell’ulti- 

mo caso tra y, yi e y. vi sono differenze del modo di operare 

ed eventualmente di razionalità; la loro applicazione e il conse- 

guimento dello scopo x obbligano a tener conto delle « conse- 

guenze concomitanti » 2, z, e 2. Tutto ciò è il risultato di 

semplici inversioni di proposizioni causali; e nella misura in 

cui si possono riferire ad esse delle « valutazioni », queste risul- 

tano esclusivamente valutazioni del grado di razionalità di un’a- 

zione prospettata. Le valutazioni sono univoche soltanto quan- 

do lo scopo economico e le condizioni di struttura sociale ap- 

paiono date, quando si tratta soltanto di scegliere tra diversi 

mezzi economici, e quando questi sono diversi soltanto in riferi- 

mento alla sicurezza, alla rapidità e alla produttività quantitati- 

va dell'effetto, ma funzionano in maniera del tutto identica 

sotto ogni altro rispetto che possa risultare importante per gli 

interessi umani. Soltanto allora un mezzo deve essere anche 

valutato incondizionatamente come quello «tecnicamente più 

corretto », e questa valutazione risulta univoca. In ogni altro 

caso, che non sia puramente tecnico, la valutazione cessa di 



MAX WEBER 671 



essere univoca, e si presentano valutazioni che non possono 

venir determinate su base puramente economica. 


Ma con la determinazione dell’univocità di una valutazione 

tecnica entro la sfera puramente economica z0n si perviene, 

naturalmente, a una univocità della « valutazione » definitiva. 

Piuttosto, al di là di queste discussioni comincerebbe il turbine 

della infinita molteplicità di possibili valutazioni, che possono 

venir controllate soltanto riportandole ad assiomi ultimi. Infatti 

— per menzionare una cosa soltanto — dietro l’«azione» sta 

l’uomo, per il quale il progredire della razionalità soggettiva e 

della «correttezza» tecnico-oggettiva dell'agire in quanto tale 

può valere, al di sopra di un certo grado — e anzi, in base a 

certe concezioni, in maniera del tutto generale — come un 

pericolo a cui vengono esposti i beni importanti (ad esempio 

quelli etici o religiosi). Difficilmente qualcuno di noi condivide- 

rà l’etica (estrema) buddistica, che respinge ogni azione diretta 

a uno scopo perché essa è tale, cioè in quanto allontana dalla 

redenzione. Ma «confutarla », nel senso in cui si confuta un 

falso esempio aritmetico oppure un’errata diagnosi medica, è 

semplicemente impossibile. Pur senza ricorrere a esempi così 

estremi, è però agevole comprendere che i processi di raziona- 

lizzazione economica, per quanto senza dubbio « tecnicamente 

corretti», non sono in nessuna maniera legittimati di fronte al 

foro della valutazione per questa loro qualità. Ciò vale per 

tutti i processi di razionalizzazione, nessuno escluso, compren- 

dendovi pure campi in apparenza puramente tecnici come quel- 

li della banca. Coloro che si oppongono a tali processi di 

razionalizzazione non sono affatto necessariamente dei pazzi. 

Piuttosto, ogni qual volta si voglia valutare, si deve pren- 

dere in considerazione l’influenza dei processi di razionalizza- 

zione tecnica sulla modificazione dell’insieme delle condizioni 

di vita, esterne e interne. Sempre, e senza eccezione, il con- 

cetto di progresso legittimo nelle nostre discipline riguarda l’a- 

spetto « tecnico », il che vuol dire — come si è accennato — il 

«mezzo» necessario per uno scopo dato univocamente. Mai 

esso si innalza alla sfera delle valutazioni « ultime ». 


Dopo quanto si è detto, io ritengo l’impiego del termine 

« progresso » di per sé inopportuno anche nel campo limitato 

della sua applicabilità empiricamente incontestabile. Ma non è 



672 MAX WEBER 



mai possibile proibire ad alcuno l’uso di un termine; sono 

soltanto da evitare i possibili fraintendimenti. 


Rimane ora da discutere, prima di giungere alla fine, un 

ultimo gruppo di problemi concernenti la posizione dell’ele- 

mento razionale entro le discipline empiriche. 


Quando ciò che è normativamente valido diventa oggetto di 

indagine empirica, allora perde, in quanto oggetto, il suo carat- 

tere di norma; esso viene considerato come «esistente », non 

come « valido ». Per esempio, qualora la statistica volesse stabili- 

re il numero degli «errori aritmetici» entro una determinata 

sfera di calcolo professionale — il che potrebbe pur avere un 

senso scientifico — i princìpi fondamentali della tavola pitagori- 

ca «varrebbero » per essa in due sensi del tutto diversi. Per 

un verso la loro validità normativa è naturalmente il presuppo- 

sto assoluto del suo proprio lavoro di calcolo. Ma per un altro 

verso, per cui si indaga il grado di applicazione «corretta » 

della tavola pitagorica in quanto oggetto dell'indagine, le cose 

stanno, considerate logicamente, in maniera del tutto diversa. 

Qui l’applicazione della tavola pitagorica da parte di quelle 

persone, i cui calcoli sono oggetto di analisi statistica, viene 

studiata come una massima effettiva di comportamento, divenu- 

ta loro abituale mediante l’educazione; e si deve pertanto stabi- 

lire la frequenza della sua applicazione di fatto, proprio come 

possono essere oggetto di determinazione statistica certi fenome- 

ni di pazzia. Che la tavola pitagorica « valga » normativamen- 

te, sia cioè «corretta », non è oggetto di discussione in questo 

caso, in cui l’« oggetto » è invece la sua applicazione; ed è anzi 

logicamente del tutto indifferente. Lo statistico, nel corso della 

sua analisi statistica dei calcoli delle persone su cui indaga, 

deve da parte sua naturalmente adeguarsi a questa convenzio- 

ne, di calcolare « secondo la tavola pitagorica ». Ma egli dovreb- 

be parimenti impiegare un procedimento di calcolo « falso », 

quale risulta se valutato normativamente, nel caso in cui esso 

fosse stato ritenuto «corretto» in un gruppo umano ed egli 

dovesse indagare statisticamente la frequenza della sua applica- 

zione di fatto, che appariva «corretta » dal punto di vista di 

quel gruppo. Per ogni considerazione empirica, sociologica o 

storica, la nostra tavola pitagorica, nel caso in cui si presenti 

come oggetto dell'indagine, è una massima di comportamento 



MAX WEBER 673 



pratico valida convenzionalmente in un gruppo umano, e segui- 

ta con maggiore o minore approssimazione, e nient'altro. Ogni 

esposizione della dottrina pitagorica della musica deve anzitut- 

to assumere il calcolo « falso » — per il nostro sapere — che 12 

quinte siano eguali a 7 ottave. Così pure ogni storia della logi- 

ca deve assumere l’esistenza storica di asserzioni logiche (per 

noi) contraddittorie — ed è umanamente comprensibile, ma non 

rientra tuttavia nel compito di un'analisi scientifica, che si 

possa accompagnare tali « assurdità » con esplosioni di sdegno, 

come ha fatto uno storico assai eminente della logica medieva- 

le 13 


Questa metamorfosi di verità normativamente valide in opi- 

nioni valide convenzionalmente, alla quale sottostanno intere for- 

mazioni spirituali, anche i princìpi logici o matematici — me- 

tamorfosi che ha luogo quando tali verità diventano oggetto di 

una considerazione che si riferisce al loro essere empirico, e 

non già al loro senso (normativamente) corretto — avviene in 

maniera del tutto indipendente dalla circostanza che la validità 

normativa delle verità logiche e matematiche costituisce d’altra 

parte l’a priori di ogni scienza empirica. Meno semplice è la 

loro struttura logica nel caso di quella funzione già prima 

accennata, che loro spetta nell'indagine empirica di connessioni 

spirituali, e che deve di nuovo essere distinta con cura dalle 

altre due — cioè dalla loro posizione come oggetto di ricerca e 

dalla loro posizione come 4 priori della ricerca. Ogni scienza 

di connessioni spirituali o sociali costituisce una scienza del 

comportamento «ma7z0 (facendo rientrare nell’ambito di tale 

concetto, in questo caso, ogni atto spirituale e ogni abito psichi- 

co). Essa vuole « intendere » questo comportamento e per que- 

sta via « interpretare esplicativamente » il suo corso. Non possia- 

mo qui trattare il difficile concetto di «intendere»; a noi 

interessa, in questo contesto, soltanto una sua specie particola- 

re, cioè l'interpretazione « razionale ». Noi «intendiamo » ov- 

viamente senz’altro che un pensatore « risolva » un determinato 

« problema » nel modo che noi stessi riteniamo normativamen- 

te «corretto », che per esempio un uomo calcoli in maniera 



13. Weber allude qui alla Geschichte der Logik im Abendland di Karl Prand, 

Leipzig, 1855-70. 



43. STORiCISMO TEDESCO. 



674 MAX WEBER 



«corretta» o che impieghi per uno scopo che si propone i 

mezzi — a nostro parere — « corretti ». E la nostra comprensio- 

ne di questi processi è quindi particolarmente evidente, poiché 

si tratta appunto della realizzazione di ciò che è oggettivamen- 

te « valido ». E tuttavia ci si deve guardare dal credere che in 

questo caso ciò che è normativamente corretto appaia, dal pun- 

to di vista logico, nella medesima struttura che riveste nella 

sua posizione generale come 4 priori di ogni indagine scientifi- 

ca. Piuttosto la sua funzione come mezzo dell’«intendere » è 

precisamente la stessa che la « penetrazione simpatetica » pura- 

mente psicologica compie nelle connessioni logicamente i irrazio- 

nali dei sentimenti e degli affetti, allorché si tratta di conoscer- 

le attraverso la comprensione. Non già la correttezza normati- 

va, bensì da una parte le abitudini convenzionali del ricer- 

catore e del docente a pensare così e non altrimenti, dall’altra 

però anche, nel caso in cui sia richiesta, la sua capacità di 

poter « penetrare simpateticamente », a scopo di comprensione, 

in un pensiero che si discosta da quel modo, e che gli appare 

quindi normativamente « falso » secondo le sue abitudini, rap- 

presentano qui il mezzo della spiegazione comprendente. Già il 

fatto che il pensiero «falso», cioè l’«errore », sia in linea di 

principio accessibile alla comprensione al pari del pensiero 

«corretto », dimostra infatti che ciò che vale come normativa- 

mente «corretto» viene qui considerato non 12 quanto tale, 

ma soltanto come un tipo convenzionale, assai facilmente intel- 

ligibile. Ciò conduce ora a un'ultima constatazione sulla funzio- 

ne di ciò che è normativamente corretto nell’ambito della cono- 

scenza sociologica. 


Già allo scopo di «intendere » un calcolo, oppure un’asser- 

zione logica «falsa», e di stabilire e di rappresentare il suo 

influire in quelle conseguenze di fatto che ha avuto, si dovrà 

ovviamente non soltanto provarlo calcolando « correttamente », 

oppure pensando logicamente in maniera corretta, ma anche 

indicare esplicitamente, con i mezzi del calcolo «corretto » o 

della logica « corretta », quel punto in cui il calcolo o l’asserzio- 

ne logica in esame diverge da ciò che l’autore considera da 

parte sua come normativamente «corretto ». E ciò non di neces- 

sità soltanto per quello scopo pratico-pedagogico, che per esem- 

pio Windelband pone in primo piano nell’Introduzione alla 



MAX WEBER 675 



sua Geschichte der Philosophie" (stabilire « tavole di ammoni- 

mento » contro « vie errate »), e che costituisce soltanto un’au- 

spicabile prodotto secondario del lavoro storico. E ciò neppure 

perché ogni problematica storiografica, nel cui oggetto rientri 

no conoscenze logiche o matematiche o scientifiche di altro 

genere, debba inevitabilmente avere a propria base come unica 

possibile relazione di valore ultima, decisiva per la selezione, 

soltanto il «valore di verità» da noi riconosciuto valido, e 

quindi il « progresso » in direzione di questo; sebbene poi, se 

questo fosse effettivamente il caso, rimarrebbe da tener presente 

la circostanza sovente constatata da Windelband, che il « pro- 

gresso » in questo senso ha varie volte imboccato, invece della 

strada diretta, quella che — in termini economici — si può 

dire la «deviazione più redditizia » attraverso «errori», cioè 

attraverso confusioni di problemi. Ciò accade invece perché 

(anzi solo in quanto) quei punti in cui la formazione spiritua- 

le, indagata come oggetto, diverge da ciò che l’autore deve 

ritenere «corretto », diventeranno di regola per lui importanti 

— vale a dire specificamente «caratteristici» ai suoi occhi, e 

quindi, dal suo punto di vista, o riferiti direttamente ai valori 

oppure legati in rapporto causale con altri aspetti riferiti ai 

valori. Ciò avverrà normalmente quanto più il valore di verità 

di certi princìpi è il valore direttivo di un'esposizione storica, 

particolarmente della storia di una determinata « scienza » (per 

esempio della filosofia o dell’economia politica teorica). Ma que- 

sto non è affatto il caso esclusivo. Una situazione almeno analo- 

ga sì presenta ovunque un agire soggettivamente razionale, 

secondo il suo proposito, forma in genere l’oggetto di una 

rappresentazione, e ovunque «errori di pensiero » o «errori di 

calcolo » possono costituire delle componenti causali del corso 

dell’agire. Per «intendere » per esempio la condotta di una 

guerra si dovrà inevitabilmente immaginare da entrambe le 

parti — sebbene non necessariamente in forma esplicita o detta- 

gliata — un ideale comandante supremo, al quale sia nota la 

situazione generale e la dislocazione delle forze militari con- 

trapposte, e siano pure note e continuamente presenti le possibi- 

lità che ne derivano di conseguire il fine, in concreto univoca- 



14. Op. ait., p. tr. 



676 MAX WEBER 



mente determinato, della distruzione della potenza militare av- 

versaria — e che in base a questa conoscenza abbia agito senza 

errori, e anche « senza sbagliare » logicamente. Soltanto allora 

si può stabilire con precisione quale influenza ha avuto sull’an- 

damento delle cose la circostanza che i comandanti reali non 

abbiano posseduto né quella conoscenza né questa immunità 

dagli errori, e non siano stati in genere delle macchine per 

pensare razionali. La costruzione razionale ha qui pertanto il 

valore di servire come mezzo di corretta « imputazione » causa- 

le. Il medesimo senso hanno quelle costruzioni utopiche di un 

agire razionale rigoroso e privo di errori, che crea la teoria 

economica « pura ». 


Allo scopo dell’imputazione causale di processi empirici noi 

abbiamo bisogno appunto di costruzioni razionali, tecnico-empi- 

riche o anche logiche, le quali rispondano a questa questione: 

come, nel caso di una « correttezza » e « non-contraddittorietà » 

assolutamente razionale, sia empiricamente sia logicamente, po- 

trebbe configurarsi (oppure essersi configurata) una certa circo- 

stanza, che rappresenta o una connessione esterna dell’agire o an- 

che una formazione concettuale (per esempio un sistema filosofi 

co). Considerata dal punto di vista logico, la costruzione di una 

siffatta utopia razionalmente «corretta» è però soltanto una 

delle diverse formazioni possibili di un « tipo ideale » — come ho 

definito (in una terminologia per me preferibile a ogni altra 

espressione) tali costrutti concettuali. Infatti non soltanto è pos- 

sibile concepire, come si è detto, dei casi in cui una conclusione 

caratteristicamente fa/sa oppure un determinato atteggiamento 

tipico contrario allo scopo possono rendere, come tipo ideale, 

un migliore servizio; ma soprattutto vi sono intere sfere di 

atteggiamento (le sfere dell’« irrazionale »), nelle quali può 

meglio servire a tale proposito non già il massimo di razionali- 

tà logica, bensì semplicemente una univocità conseguita me- 

diante l’astrazione isolante. Di fatto il ricercatore impiega assai 

spesso dei «tipi ideali » costruiti in maniera normativamente 

«corretta ». Considerata logicamente, però, la «correttezza» 

normativa di questi tipi non è cosa essenziale. Ma un ricercato- 

re può, per caratterizzare per esempio una forma specifica di 

coscienza tipica agli uomini di un’epoca, costruire sia un tipo 

di coscienza che gli appare personalmente conforme alla norma 



MAX WEBER 677 



sotto il profilo etico, e quindi in tal senso oggettivamente « cor- 

retta », sia un tipo che gli appare invece eticamente opposto al- 

la norma — per comparare con esso l'atteggiamento degli uomi- 

ni sui quali sta indagando — oppure può infine costruire anche 

un tipo di coscienza a cui egli personalmente non attribuisce nes- 

sun predicato positivo o negativo di qualsiasi specie. Ciò che è 

normativamente « corretto » non ha nessun monopolio per que- 

sto scopo. Infatti, quale che sia il contenuto di un tipo ideale ra- 

zionale — sia che esso rappresenti una norma di fede etica, giuri- 

dica, estetica o religiosa, oppure una massima di politica giuridi- 

ca o sociale o culturale, oppure una « valutazione » di qualsiasi 

specie espressa nella forma il più possibile razionale — la sua co- 

struzione ha sempre, nell’ambito delle indagini empiriche, soltan- 

to lo scopo di « comparare » con esso la realtà empirica, e di sta- 

bilire il suo contrasto o la sua lontananza da essa oppure il suo 

relativo accostarsi ad essa, per poterla descrivere e intendere 

mediante l'imputazione causale e quindi spiegarla, facendo uso 

di concetti intelligibili 11 più possibile univocamente. Queste 

funzioni esplica, per esempio, l’elaborazione concettuale della 

dogmatica giuridica per la disciplina empirica della storia del 

diritto, e così pure la dottrina del calcolo razionale per l’ana- 

lisi dell’atteggiamento reale delle singole economie nell’econo- 

mia acquisitiva. Entrambe le discipline dogmatiche ora citate 

hanno naturalmente inoltre, in quanto «dottrine tecniche », 

scopi eminentemente pratico-normativi. Ed entrambe sono, in 

tale loro qualità di scienze dogmatiche, così poco empiriche 

nel senso qui discusso come possono esserlo la matematica o la 

logica, l’etica normativa o l’estetica, da cui del resto esse differi- 

scono, per altri motivi, tanto quanto queste sono anche diverse 

tra loro. 


La teoria economica, infine, è ovviamente una dogmatica 

in senso logicamente assai diverso da quello, per esempio, 

della dogmatica giuridica. I suoi concetti si riferiscono alla 

realtà economica in maniera specificamente diversa da quel- 

la in cui i concetti della dogmatica giuridica si riferiscono alla 

realtà dell’oggetto della storia o della sociologia del diritto. 

Ma, come i concetti dogmatici della scienza giuridica possono e 

debbono venir impiegati da queste ultime come «tipi ideali », 

così questa specie di impiego per la conoscenza della realtà 



678 MAX WEBER 



sociale presente e passata costituisce addirittura il senso esclusi- 

vo della teoria economica pura. Essa formula determinati pre- 

supposti, che nella realtà non si trovano quasi mai attuati in 

forma pura, ma che si riferiscono ad essa con un diverso grado 

di approssimazione, chiedendosi come in base ad essi verrebbe a 

configurarsi l’agire sociale degli uomini, qualora esso procedes- 

se in maniera strettamente razionale. Essa assume, in particola- 

re, il predominio di puri interessi economici ed esclude quindi 

l'influenza di orientamenti politici o di altra specie non econo- 

mica. 


In essa ha però avuto luogo il tipico procedere di una « con- 

fusione di problemi ». Infatti quella pura teoria « non-statale », 

«amorale », «individualistica », che è stata e sarà sempre indi- 

spensabile come strumento metodico, è stata concepita dalla 

scuola liberistica radicale come una copia esauriente della 

realtà « naturale», cioè della realtà che non è stata falsata 

dalla stupidità umana, e inoltre, in base a ciò, come un « do- 

ver essere» — come un ideale valido nella sfera normativa, che 

si poneva al posto di un tipo ideale utilizzabile per la ricerca 

empirica intorno a ciò che è. Allorché i mutamenti di valutazio- 

ne dello stato, prodottisi nella politica economica e sociale, 

provocarono una ripercussione nella sfera valutativa, questa ri- 

percussione colpì di nuovo la sfera dell’essere; di modo che la 

teoria economica pura fu rigettata non soltanto come espressio- 

ne di un ideale — sebbene essa non avesse mai potuto pretende- 

re tale dignità — ma anche come metodo per la ricerca sulla 

realtà di fatto. Considerazioni « filosofiche » di specie più diver- 

sa dovevano sostituire la pragmatica razionale; e l’identificazio- 

ne di ciò che è « psicologicamente » con ciò che vale eticamente 

rendeva ineseguibile una precisa distinzione della sfera della 

valutazione dal lavoro empirico. Le straordinarie prestazioni 

degli esponenti di questo sviluppo scientifico nel settore storico 

o sociologico o politico-sociale sono ormai universalmente rico- 

nosciute; ma chi giudichi in maniera impregiudicata deve pur 

riconoscere la completa caduta, durata per decenni, del lavoro 

teorico e in genere di una rigorosa scienza economica, che 

quella mescolanza di problemi ha avuto per sua naturale conse- 

guenza. Una delle due tesi principali, con cui lavoravano gli 

avversari della teoria pura, sosteneva che le costruzioni raziona- 



MAX WEBER 679 



li di questa fossero « pure finzioni », le quali non asseriscono 

nulla sulla realtà dei fatti. Correttamente intesa, questa afferma- 

zione è valida. Infatti le costruzioni teoriche sono soltanto al 

servizio della conoscenza della realtà — che da sole non posso- 

no fornire; e anche nel caso estremo questa realtà, per la coope- 

razione di altre circostanze e serie di motivi, non contenute 

nei loro presupposti, risulta soltanto approssimata rispetto al 

corso così costruito. Ciò non dimostra certamente nulla, secon- 

do quanto si è detto, contro l’utilità e la necessità della teoria 

pura. La seconda tesi sosteneva che non potesse esserci in ogni 

caso una dottrina avalutativa concernente la politica economi- 

ca, formulata scientificamente. Essa è naturalmente del tutto 

falsa, tanto falsa che proprio l’« avalutatività» — nel senso 

precedentemente illustrato — rappresenta il presupposto di 

ogni considerazione puramente scientifica della politica, in parti- 

colare di quella sociale ed economica. Non occorre qui ripetere 

che è evidentemente possibile, e scientificamente utile e necessa- 

rio, formulare proposizioni di questo tipo: per conseguire l’ef- 

feto (politico-economico) x, y è il solo mezzo, oppure — date 

le condizioni di, 52, d3 — Yi Y» yY: sono i soli mezzi, o i 

mezzi più appropriati. E c’è soltanto bisogno di accennare che 

il problema consiste nella possibilità di un'assoluta urivocità di 

designazione dello scopo a cui si tende. Se questa ha luogo, 

allora si tratta di una semplice inversione di proposizioni causa- 

li, e quindi di un problema puramente «tecnico ». Proprio 

perciò la scienza non è affatto costretta, in tutti questi casi, a 

concepire queste proposizioni teleologiche di carattere tecnico 

diversamente che come semplici proposizioni causali, cioè in 

questa forma: a y segue sempre, oppure a Yi, Ya» 7: Se 

gue, nelle condizioni è;, 6, 6, l’effetto x. Infatti ciò vuol 

dire precisamente la stessa cosa, e l’uomo « pratico » può facil- 

mente derivarne dei « precetti ». Ma la dottrina scientifica del- 

l'economia ha pure alcuni altri compiti, accanto alla determina- 

zione di pure formule tipico-ideali da un lato e dall'altro alla 

determinazione di tali connessioni economiche particolari, di 

carattere causale — poiché si tratta senza eccezione di connes- 

sioni di questo genere, se x è abbastanza uzivoco, e se quindi 

l'imputazione dell’effetto alla causa, cioè del mezzo allo scopo, 

dev'essere abbastanza rigorosa. Esso deve inoltre indagare la 



680 MAX WEBER 



totalità dei fenomeni sociali nel modo in cui sono condizionati 

da cause economiche; e ciò mediante l’interpretazione della 

storia e della società sotto il profilo economico. E d'altra parte 

essa deve pure determinare il condizionamento dei processi e 

delle forme di economia da parte dei fenomeni sociali, secondo 

le loro diverse forme e i loro diversi stadi di sviluppo; e ciò 

mediante la storia economica e la sociologia dell'economia. En- 

tro questi fenomeni sociali rientrano evidentemente, e certo in 

prima linea, le azioni e le formazioni politiche, in particolare 

lo stato e il diritto garantito statalmente: ma, è pure ovvio, 

non soltanto quelle politiche — bensì la totalità di quelle forma- 

zioni che influenzano l’economia, in «n grado abbastanza rile- 

vante per l'interesse scientifico. Indicare l'insieme di questi pro- 

blemi come una dottrina della « politica economica» sarebbe 

naturalmente assai poco appropriato. L’uso che tuttavia se ne 

fa a tale scopo può soltanto venir spiegato esteriormente in 

base al carattere delle università come istituti educativi per 

funzionari statali, e interiormente in base agli enormi strumen- 

ti che lo stato possiede per influire in modo intensivo sulla vita 

economica, e quindi in base all'importanza pratica della sua 

considerazione. Non occorre constatare di nuovo che in tutte 

queste indagini è sempre possibile invertire le asserzioni sul 

rapporto « causa-effetto » in asserzioni sul rapporto « mezzo-sco- 

po », quando la conseguenza in questione può essere stabilita 

con sufficiente univocità. In tale maniera il rapporto logico tra 

sfera della valutazione e sfera della conoscenza empirica non 

risulta naturalmente affatto mutato. E solo più a una cosa 

rimane, al termine di questa analisi, da accennare. 


Lo sviluppo degli ultimi decenni, e specialmente gli avveni- 

menti senza precedenti di cui siamo oggi testimoni, hanno 

potentemente accresciuto il prestigio dello stato. Ad esso soltan- 

to, tra tutte le comunità sociali, viene oggi attribuita una forza 

«legittima » sulla vita, la morte e la libertà; e i suoi organi ne 

fanno uso, in guerra contro i nemici esterni, in pace e in 

guerra contro gli oppositori interni. Esso è in pace il maggiore 

imprenditore economico e il più potente esattore di tributi dei 

cittadini; in guerra dispone nella maniera più illimitata di 

tutti i beni economici che gli sono accessibili. La sua moderna 

forma razionale di organizzazione ha reso possibile, in numero- 



MAX WEBER 681 



si settori, compiti che senza dubbio nessun agire associato di 

altra specie avrebbe potuto eseguire, neppure in modo approssi- 

mato. Non poteva non accadere che da ciò si traesse la conse- 

guenza che lo stato deve anche essere — soprattutto nelle valu- 

tazioni che si muovono entro il campo della « politica » — il 

« valore » ultimo, e che ogni agire sociale deve, in ultima anali- 

si, venire commisurato ai suoi interessi di esistenza. Solo che 

anche questo processo costituisce una trasposizione, del tutto 

indebita, di fatti della sfera dell’essere in norme della sfera 

della valutazione — pur prescindendo qui dalla mancanza di 

univocità delle conseguenze tratte da quella valutazione, come 

appare subito da ogni considerazione dei «mezzi» (per la 

«conservazione » o l’«incremento » dello «stato »). Entro la 

sfera dei puri fatti oggettivi si deve far valere anzitutto, di 

fronte a quel prestigio, la constatazione che lo stato 207 può 

certe cose. E ciò anche nei campi che risultano i suoi domini 

più propri, come in quello militare. L'osservazione di alcuni 

fenomeni che la guerra attuale ha reso manifesti negli eserciti 

di stati razionalmente eterogenei ci insegna che la libera dedi- 

zione dell'individuo al compito che il suo stato rappresenta — 

una dedizione che lo stato non può imporre — è tutt'altro che 

indifferente per il successo militare. E per il campo economico 

basta accennare che la trasposizione di forme e di principi 

dell’economia bellica in forma di fenomeni permanenti di pace 

potrebbe rapidamente avere conseguenze che condurrebbero in 

rovina, proprio per i suoi sostenitori, l'ideale di uno stato espan- 

sivo. Su questo, tuttavia, non occorre soffermarci più a lungo. 

Nella sfera della valutazione è però possibile sostenere, in ma- 

niera pienamente dotata di senso, il punto di vista che vorrebbe 

veder rafforzata il più possibile la potenza dello stato come 

mezzo coercitivo contro ogni resistenza, ma che d'altra parte 

gli nega qualsiasi valore proprio e lo qualifica come un mero 

strumento tecnico per la realizzazione di valori del tutto diver- 

si, dai quali soltanto esso potrebbe prendere in prestito la sua 

dignità e mantenerla anche solo finché non cercasse di spogliar- 

si di questo suo compito ausiliario. 


Naturalmente qui non si deve né svolgere né sostenere que- 

sto o qualsiasi altro possibile punto di vista valutativo. Si deve 

però soltanto ricordare che, se ce n'è qualcuna, l'obbligazione 



682 MAX WEBER 



più particolarmente appropriata a « pensatori» di professione 

consiste nel mantenere di fronte agli ideali dominanti al mo- 

mento, anche di fronte ai più forniti di maestà, una mente 

fredda, nel senso di rimanere personalmente capace di « nuota- 

re contro la corrente ». Le «idee tedesche del 1914 » furono un 

prodotto da letterati”. Il socialismo del futuro è una frase per 

la razionalizzazione dell'economia, da attuarsi mediante una 

combinazione di burocratizzazione ulteriore e di amministrazio- 

ne da parte di un gruppo organizzato di individui interessati. 

Quanto il fanatismo dei patrioti di ufficio della politica econo- 

mica invoca per queste misure puramente tecniche, in luogo di 

una discussione oggettiva della loro opportunità, in buona par- 

te condizionata semplicemente dalla politica finanziaria, la 

consacrazione non soltanto della filosofia tedesca ma anche del- 

la religione — come oggi avviene in ampie proporzioni — ciò 

non rappresenta altro che una ripugnante degenerazione di 

gusto di letterati che si reputano importanti. Come possano 0 

debbano apparire le reali «idee tedesche del 1918», alla cui 

elaborazione avranno parte anche i reduci dalla guerra, nessu- 

no può oggi ben prevedere. Ma da queste dipenderà appunto il 

futuro. 



15. Weber si riferisce qui al manifesto nazional-socialista pubblicato nel 1916 

dal sociologo tedesco Johann Plenge, col titolo 1789 und 1914: die symbolische 

Jahre in der Geschichte des politischen Geistes, nel quale le «idee tedesche del 1914 » 

erano contrapposte ai princìpi della Rivoluzione francese. 



LA SCIENZA COME PROFESSIONE * 



Per assecondare il vostro desiderio, dovrò parlare della « scien- 

za come professione ». Ebbene, è una specie di pedanteria di 

noi economisti, alla quale voglio attenermi, quella di prender 

sempre le mosse dalla situazione esteriore, e quindi, nel caso 

nostro, dalla domanda: come si configura la scienza come pro- 

fessione nel senso materiale della parola? E questo, in so- 

stanza, oggi praticamente significa: qual è la situazione di un 

laureato che abbia deciso di dedicarsi per professione alla scien- 

za nell’ambito della vita accademica? Per comprendere in che 

cosa consista su questo punto la particolarità della situazione 

tedesca, è opportuno procedere comparativamente, rendendoci 

conto di come stiano le cose nel paese straniero che sotto 

questo aspetto presenta la più recisa antitesi con le nostre condi- 

zioni, e cioè negli Stati Uniti. 


Da noi — come tutti sanno — un giovane che si dedichi 

alla scienza come professione, inizia normalmente la sua carrie- 

ra come « libero docente ». Dopo essersi consultato col professo- 

re titolare della materia e averne avuto l'approvazione, egli 

consegue l’abilitazione in una università, in base a un libro e a 

un esame, per lo più semplicemente formale, da parte della 

facoltà, dopo di che tiene lezioni — senza stipendio, compensa- 

to soltanto mediante le tasse d'iscrizione al suo corso — intor- 

no all'argomento da lui scelto entro i limiti della sua verza 



* Wissenschaft als Beruf (conferenza tenuta all’Università di Monaco, 1919), 

raccolto nel volume Gesammelte Aufsitze zur Wissenschaftslehre, Tiibingen, J. C. B. 

Mohr, 1922, 4* ed. (a cura di Johannes Winckelmann) 1973, pp. 582-613 (La scienza 

come professione, tr. it. di Antonio Giolitti, in Il lavoro intellettuale come pro- 

fessione, Torino, Einaudi, 1948, pp. 41-77). 



684 MAX WEBER 



legendi. In America la carriera universitaria comincia normal- 

mente in modo del tutto diverso, e cioè con l'assunzione in 

qualità di « assistente»: qualcosa di simile a quel che avviene 

di solito nei nostri grandi istituti delle facoltà di scienze natura- 

li e di medicina, dove è soltanto una frazione degli assistenti ad 

aspirare — spesso solo dopo parecchio tempo — alla formale 

abilitazione a libero docente. La differenza significa praticamen- 

te che da noi la carriera di un uomo di scienza poggia intera- 

mente su presupposti plutocratici. Giacché, per un giovane stu- 

dioso privo di disponibilità patrimoniali, è estremamente arri- 

schiato esporsi, in linea generale, alle condizioni imposte dalla 

carriera accademica. Egli deve poter tirare avanti almeno un 

certo numero di anni senza sapere in nessun modo se avrà in 

seguito la possibilità di riuscire a raggiungere una posizione 

che gli permetta di provvedere al proprio mantenimento. Vice- 

versa, negli Stati Uniti vige il sistema burocratico. Là il giova- 

ne è pagato fin dall’inizio. Modestamente, si capisce: lo stipen- 

dio, il più delle volte, raggiunge appena il livello del salario di 

un operaio a un grado minimo di specializzazione. Tuttavia 

egli comincia pur sempre con una posizione apparentemente 

sicura, giacché percepisce un compenso fisso. Ma è previsto 

che possa essere licenziato, come i nostri assistenti, e tale sorte 

lo attende spesso inesorabilmente se non corrisponde alle aspet- 

tative che si ripongono in lui. Tali aspettative però si limitano 

a che insegni ad «aula esaurita ». Ciò non può capitare a un 

libero docente tedesco. Una volta che egli lo diventa, non ci si 

libera più di lui. Certamente egli non ha «diritti». Tuttavia 

ha motivo di pensare che, dopo un'attività di alcuni anni, gli 

spetti una specie di diritto morale a esser preso in considerazio- 

ne: anche — e ciò è spesso importante — quando si tratti 

dell’eventuale abilitazione di altri liberi docenti. La questione 

se in linea di principio si debba dare l’abilitazione a qualunque 

studioso di provata capacità o se invece si debba tener conto dei 

«bisogni dell’insegnamento », attribuendo così ai docenti già 

abilitati un monopolio dell’insegnamento, è un penoso dilem- 

ma connesso con quel doppio aspetto della professione universi- 

taria a cui ora accenneremo. Di solito, si decide per la seconda 

alternativa. Ma ciò aumenta il pericolo che il titolare della 

materia în questione, nonostante la massima coscienziosità sog- 



MAX WEBER 685 



gettiva, dia la preferenza ai propri scolari. Personalmente, io 

ho seguito il principio — sia detto di passaggio — che uno 

studioso laureato con me debba dar prova di sé e conseguire 

l'abilitazione presso «n altro professore e in un’altra uni- 

versità. Ma il risultato fu che uno dei miei più valenti allievi 

venne respinto perché nessuno credette che tale fosse il motivo 

del suo trasferimento. 


Un'altra differenza rispetto all'America è la seguente: da 

noi, il libero docente è in generale meno occupato con le lezio- 

ni di quanto egli stesso desidererebbe. Senza dubbio avrebbe il 

diritto di tenere tutte le lezioni della sua materia. Ma ciò 

viene considerato una sconveniente mancanza di riguardo verso 

i docenti più anziani, e di regola le lezioni «importanti » sono 

tenute dal titolare della cattedra, mentre il docente si acconten- 

ta di lezioni 4 latere. Egli ne trae il vantaggio, sia pure 

involontariamente, di poter disporre degli anni della giovinez- 

za per il lavoro scientifico. 


Tutto ciò in America è organizzato in maniera fondamental- 

mente diversa. Proprio nei primi anni il docente è assolutamen- 

te sovraccarico di lavoro, appunto perché è pagato. In un dipar- 

timento di germanistica, per esempio, il professore ordinario 

terrà un corso di tre ore settimanali su Goethe e basta, mentre 

l'assistente più giovane sarà ben contento se con dodici ore 

settimanali, oltre all'insegnamento elementare della lingua tede- 

sca, gli verrà assegnato qualche altro argomento su un poeta 

della levatura di Uhland'. Infatti sono gli organi ufficiali 

della facoltà a prescrivere il programma di insegnamento, al 

quale l’assistente americano è altrettanto vincolato quanto da 

noi l’assistente d’istituto. 


Possiamo ora vedere chiaramente come da noi il più recen- 

te sviluppo dell’organizzazione universitaria in vasti settori del- 

la scienza segua l'orientamento di quella americana. I grandi 

istituti per gli studi di medicina o di scienze naturali sono 

imprese « capitalistiche di stato ». Non possono esser ammini- 

strati senza grandi mezzi. E anche lì si verifica, come in ogni 



1. Johann Ludwig Uhland (1787-1862), poeta romantico tedesco, autore anche 

di drammi storici, di studi sull’antica letteratura tedesca e di volumi sulla mito- 

logia germanica: prese parte alla vita politica dell'età della Restaurazione, aderendo 

a posizioni nazionali-liberali, e nel 1848 fu membro dell'assemblea di Francoforte. 



686 MAX WEBER 



impresa capitalistica, la « separazione del lavoratore dai mezzi 

di produzione ». Il lavoratore, vale a dire l’assistente, è ridotto 

a servirsi degli strumenti che lo stato mette a sua disposizione; 

egli viene pertanto a dipendere dal direttore d’istituto allo stes- 

so modo dell’impiegato in una fabbrica — giacché quel diretto- 

re s'immagina, in perfetta buona fede, che l'istituto sia «swo » 

e vi fa da padrone — e la sua posizione è spesso altrettanto 

precaria come quella di un qualsiasi « proletaroide » o di un 

assistente di università americana. 


La nostra vita universitaria tedesca va americanizzandosi, 

come la nostra vita in generale, in certi punti assai importanti, 

e questo sviluppo — ne sono convinto — si estenderà in seguito 

anche a quei campi dove, come avviene ancor oggi in larga 

misura nel mio, è l’artigiano stesso a possedere lo strumento di 

lavoro (essenzialmente la biblioteca), in modo del tutto analogo 

all’artigiano d’altri tempi nell’ambito del suo mestiere. Il pro- 

cesso è in pieno sviluppo. 


I vantaggi tecnici sono assolutamente indiscutibili, come in 

ogni azienda capitalistica e al tempo stesso burocratizzata. Ma 

lo « spirito» che vi domina è tutt'altro dall’antica atmosfera 

tradizionale delle università tedesche. C'è un abisso straordina- 

riamente profondo, esteriormente e interiormente, tra il dirigen- 

te di una simile grande impresa capitalistica universitaria e il 

solito professore ordinario di vecchio stile: anche nell’atteggia- 

mento interiore. Non posso qui dilungarmi su questo punto. 

Tanto all'interno quanto all’esterno l'antico ordinamento uni- 

versitario è diventato fittizio. Ma è rimasto, e anzi si è sostan- 

zialmente accentuato, un motivo caratteristico della carriera 

universitaria: il fatto che un simile libero docente, divenuto 

ormai un assistente, riesca finalmente a insediarsi nella posizio- 

ne di ordinario o di direttore d'istituto, costituisce un’opportu- 

nità che è un mero caso. Senza dubbio non domina soltanto il 

caso, ma esso ha tuttavia un'influenza straordinariamente gran- 

de. Non conosco quasi altre carriere al mondo dove esso abbia 

una parte così grande. Tanto più sono in grado di dirlo io che 

personalmente devo ad alcune circostanze meramenti accidenta- 

li di esser stato chiamato giovanissimo, ai miei tempi, alla 

cattedra di una materia nella quale allora altri della mia età 

avevano senza dubbio acquisito meriti maggiori dei miei. E in 



MAX WEBER 687 



base a questa esperienza presumo di avere una vista più acuta 

per scorgere l’immeritata sorte dei molti ai quali il caso ha 

giocato e ancora gioca il tiro opposto e che, nonostante tutta 

la loro capacità, non giungono attraverso quell’apparato seletti- 

vo al posto che loro spetterebbe. 


Che il caso e non la capacità in quanto tale abbia una parte 

così grande, non dipende soltanto, e nemmeno prevalentemente, 

dalle debolezze umane che naturalmente s'incontrano in questo 

processo di selezione come in tutti gli altri. Sarebbe ingiusto 

attribuire a deficienze personali di facoltà o di ministeri la 

responsabilità del fatto che indubbiamente vi siano tante medio- 

crità a esercitare una parte preponderante nelle università. Ciò 

fa parte delle leggi dell’agire in comune degli uomini, e special- 

mente di più organismi, cioè nel caso nostro delle facoltà propo- 

nenti e dei ministeri. Eccone una riprova: possiamo seguire 

attraverso i secoli le vicende delle elezioni papali, ossia il più 

importante esempio che ci sia dato controllare di una selezione 

personale del medesimo tipo. Soltanto di rado il cardinale di 

cui si dice che è il « favorito » riesce eletto: di regola tocca al 

candidato numero due o numero tre. La stessa cosa avviene col 

presidente degli Stati Uniti: per lo più è il numero due e 

spesso il numero tre, e solo eccezionalmente l’uomo più quota- 

to ma anche più eminente, quello che entra nella nomination 

delle convenzioni di partito e quindi nel processo elettorale. 

Gli Americani hanno già creato espressioni sociologiche tecni- 

che per queste categorie e sarebbe davvero interessante cercare 

in questi esempi le leggi di una selezione mediante la formazio- 

ne di una volontà collettiva. Non lo faremo ora. Ma esse valgo- 

no anche per i corpi accademici, e c'è da meravigliarsi non già 

che ne scaturiscano frequenti errori, bensì del numero pur sem- 

pre assai rilevante, da un punto di vista relativo, delle nomine 

giuste. Soltanto dove si ha l'intervento per motivi politici, di 

parlamenti — come in alcuni paesi — o, come prima da noi, di 

monarchi (entrambi operano allo stesso modo), oppure, come 

adesso, di rivoluzionari impadronitisi del potere, si può esser 

certi che tutte le probabilità di successo vanno soltanto alle 

accomodanti mediocrità o agli arrivisti. 


Nessun professore universitario ripensa volentieri alle discus- 

sioni per le nomine, perché di rado sono piacevoli. Tuttavia 



688 MAX WEBER 



posso affermare che in numerosissimi casi di cui sono a cono- 

scenza, mai è mancata la buona volontà di far dipendere la 

decisione da motivi puramente oggettivi. 


Bisogna infatti mettere in chiaro che non dipende soltanto 

dall’inadeguatezza della selezione in virtù di formazione di 

una volontà collettiva se nella decisione delle sorti accademi- 

che ha tanta importanza il «caso ». Ogni giovane che senta la 

vocazione dello studioso deve piuttosto rendersi ben conto che 

il compito a cui si accinge presenta un duplice volto. Deve 

avere non soltanto i requisiti dello studioso ma anche quelli 

dell'insegnante. Non è affatto detto che gli uni e gli altri 

coincidano. Si può essere uno studioso insigne e al tempo stesso 

un pessimo maestro. Basta rammentare l’attività d’insegnamen- 

to di uomini come Helmholtz e come Ranke. E non si tratta di 

eccezioni rare. Ma le cose stanno ora in modo che le nostre 

università, specialmente quelle piccole, si fanno la concorrenza 

più ridicola per le frequenze. Le affittacamere delle città univer- 

sitarie celebrano come una festa il millesimo studente, e il 

duemillesimo possibilmente con una fiaccolata. Gli interessi di 

propina dei singoli corsi — bisogna ammetterlo apertamente — 

risentono della nomina di un titolare « di grido » in qualche 

cattedra affine, e anche prescindendo da ciò il numero degli 

uditori fornisce una tangibile testimonianza in cifre, mentre le 

qualità di dottrina sono imponderabili e spesso (com'è del tutto 

naturale) addirittura contestate nel caso di arditi innovatori. 

Perciò nella maggior parte dei casi tutto soggiace a questa 

suggestione della benedizione e del valore incommensurabili 

del numeroso uditorio. Se di un docente si dice che è un 

cattivo maestro, ciò equivale per lo più alla sua condanna a 

morte nel campo universitario, quand’anche si tratti del primo 

dotto del mondo. Ma la questione se egli sia un buono o un 

cattivo maestro trova risposta nella frequenza di cui lo onora- 

no i signori studenti. Sta però di fatto che, se gli studenti si 

affollano intorno a un professore, ciò è determinato in larghissi- 

ma misura da circostanze meramente esteriori, come il tempera- 

mento o perfino l’inflessione di voce — e ciò a un punto tale 

che non si crederebbe possibile. Dopo un'esperienza in ogni 

modo abbastanza lunga e una fredda riflessione, ho concepito 

una profonda sfiducia verso i corsi universitari di massa, per 



Max Weber nel 1919. 



MAX WEBER 689 



quanto non si possa certo farne a meno. La democrazia dev’es- 

sere applicata dove si conviene. Ma l’insegnamento scientifico, 

quale dobbiamo esercitarlo nelle università tedesche in confor- 

mità alla loro tradizione, è una faccenda — non dissimuliamo- 

celo — di aristocrazia dello spirito. D'altra parte è certamente 

vero che saper esporre i problemi scientifici in modo da render- 

li accessibili a una mente incolta ma capace d’intendere, e da 

metter questa in grado di farsene un'idea propria — ciò che 

per noi è l’unica cosa decisiva — costituisce forse il compito 

pedagogicamente più difficile. Senza dubbio: ma non è il nu- 

mero degli uditori a decidere se esso sia stato risolto. E quest’ar- 

te costituisce appunto — per ritornare al nostro argomento — 

un dono personale e non coincide affatto necessariamente con 

le qualità scientifiche di uno studioso. A differenza dalla Fran- 

cia, però, noi non abbiamo alcuna corporazione degli « immor- 

tali » della scienza, ma per la nostra tradizione sono le universi- 

tà che devono soddisfare a entrambe le esigenze: quella della 

ricerca e quella dell’insegnamento. Ma è un puro caso che le 

capacità necessarie a questo scopo si ritrovino tutte nello stesso 

individuo. 


La vita accademica è quindi abbandonata al cieco caso. 

Quando dei giovani studiosi vengono a chiedere consiglio per 

l'abilitazione, la responsabilità che ci si assume accedendo alla 

richiesta è quasi intollerabile. Se si tratta di un ebreo, gli si 

risponde, naturalmente: «lasciate ogni speranza ». Ma anche 

a chiunque altro bisogna domandare, in coscienza: credete di 

poter sopportare di vedervi passare avanti, di anno in anno, 

una mediocrità dietro l’altra, senza amareggiarvi e intristirvi 

l'animo? E ogni volta la risposta è evidentemente la stessa: 

naturalmente, io vivo solo per la mia «vocazione»; ma per 

mio conto ho saputo solo di pochissimi che abbiano retto senza 

risentirne un danno interiore. 


Questo mi sembrava necesssario dire intorno alle condizioni 

esteriori della professione di studioso. 


Credo però che voi vogliate in realtà sentir parlare di qual- 

cosa d'altro, e precisamente della vocazione interiore alla scien- 

za. Al giorno d'oggi l’esercizio della scienza come professione è 

condizionato, sul piano interiore, dal fatto che la scienza è 

pervenuta a uno stadio di specializzazione prima sconosciuto, e 



44. STORICISMO TEDESCO. 



690 MAX WEBER 



tale rimarrà sempre in futuro. Non soltanto esteriormente, no 

certo, ma proprio interiormente, le cose stanno in modo che 

soltanto nel caso di un’estrema specializzazione l’individuo 

può avere sicura coscienza di produrre qualcosa di realmente 

perfetto nel campo scientifico. Tutti i lavori che sconfinano in 

campi contigui, come talvolta ci capita di fare, e come per 

esempio noi sociologi dobbiamo sempre fare, sono gravati dalla 

rassegnata coscienza di fornire tutt'al più allo specialista un'’uti- 

le impostazione di qualche problema nel quale non gli sarà 

tanto facile imbattersi nel suo campo specifico, cosicché il pro- 

prio lavoro non potrà non rimanere estremamente imperfetto. 

Soltanto attraverso una rigorosa specializzazione l’uomo di scien- 

za può giungere — una volta e forse mai più nella vita — a 

dire con sicura coscienza: ho prodotto qualcosa che durerà. 

Un'opera realmente definitiva e valida è oggi sempre un'opera 

specializzata. Resti quindi discosto dalla scienza chi non è capa- 

ce di mettersi, per dir così, dei paraocchi, e di pervenire all’i- 

dea che il destino della propria anima dipende appunto dall’e- 

sattezza, poniamo, di questa congettura — proprio di questa — 

rispetto a quel passo di quel manoscritto. Altrimenti egli non 

avrà mai fatto dentro di sé ciò che può chiamarsi l’« esperienza 

vissuta» della scienza. Senza questa strana ebbrezza, derisa 

dai non iniziati, senza questa passione, questo « dovevano passa- 

re millenni prima che tu venissi al mondo, e altri millenni 

attendono in silenzio»* — tutto per il successo di questa tua 

congettura — m0n c’è vocazione per la scienza e bisogna sceglie- 

re un’altra via. Infatti per l’uomo in quanto uomo, nulla ha 

valore di ciò che non può fare con passione. 


Ora, però, sta di fatto che, per quanto grande, genuina e 

profonda possa essere tale passione, il risultato appare ancora 

lontano. Essa è certamente una condizione preliminare per il 

fattore decisivo: l’« ispirazione ». È vero che oggi negli ambien- 

ti giovanili è assai diffusa l'opinione che la scienza sia diventa- 

ta un esercizio di calcolo da eseguirsi nei laboratori o nelle 

cartoteche statistiche col solo ausilio del freddo intelletto e non 

con tutta l’« anima », allo stesso modo di quel che avviene «in 

una fabbrica». A questo proposito si deve anzitutto osservare 



2. Il passo citato è di Carlyle. 



MAX WEBER 691 



che per lo più queste persone non hanno un'idea chiara di quel 

che avviene in una fabbrica più di quanto l’abbiano di ciò che 

avviene in un laboratorio. Nell’uno o nell’altra all'uomo deve 

venire in mente un'idea — e proprio l'idea giusta — per pro- 

durre qualcosa che abbia veramente valore. Ma quell'idea non 

si ottiene per forza. Non ha nulla a che fare con un qualsiasi 

freddo calcolo. Senza dubbio anche questa è una condizione 

imprescindibile. Nessun sociologo, per esempio, avrà da pentir- 

si se, anche nei suoi tardi anni, avrà speso qualche mese intor- 

no a molte decine di migliaia di elementi di calcolo del tutto 

banali. Non si può ricorrere impunemente ai soli mezzi mecca- 

nici, se si vuol conseguire qualche risultato; e quel che in 

definitiva si ricava è spesso irrisorio. Ma chi non ha un'idea 

determinata sullo scopo del calcolo e, durante il calcolo stesso, 

sulla portata dei risultati singoli, non ne trae neppure quel 

minimo. Normalmente l’« idea » si prepara a germogliare sol- 

tanto sul terreno del duro lavoro. Non sempre, s'intende. L’i- 

dea di un dilettante può avere un'importanza identica o mag- 

giore di quella di uno specialista. Molte delle nostre impostazio- 

ni e delle nostre conoscenze più importanti sono dovute pro- 

prio ai dilettanti. Il dilettante si distingue dallo specialista — 

come ha detto Helmholtz a proposito di Robert Mayer? — solo 

in quanto gli manca la precisa sicurezza del metodo di lavoro e 

non è quindi in grado di controllare 2 posteriori la portata 

della sua idea e di apprezzarla o applicarla. L'idea non sostitui- 

sce il lavoro. E il lavoro dal canto suo non può sostituire 0 

suscitare a forza l’idea più di quanto non possa farlo la passio- 

ne. L'una e l’altro — e specialmente tutti e due insieme — la 

maturano. Ma essa viene quando le aggrada e non quando 

pare a noi. È infatti vero che le cose migliori vengono in 

mente, come dice Ihering, fumando il sigaro sul divano oppure 

— come narra di sé Helmholtz con precisione di naturalista — 

passeggiando per una strada lievemente in salita, e via dicen- 

do, ma sempre, comunque, quando non si sta in loro attesa, 

non già durante l’ansia e lo sforzo di ricerca a tavolino. 



3. Julius Robert Mayer (1814-1878), medico e fisico tedesco, autore del volume 

Dic organische Bewegung in ihren Zusammenhinge mit dem Stoffwechsel (1845), con- 

tribuì alla formulazione del principio della conservazione dell'energia: fu oggetto 

di aspra critica da parte di Helmholtz, 



692 MAX WEBER 



Certo, però, non sarebbero venute in mente senza i prece- 

denti appassionanti problemi e senza quel tormento a tavolino. 

Comunque sia, l’uomo di scienza deve anche tener conto di 

quel caso che non va disgiunto da qualsiasi lavoro scientifico: 

verrà o no l’«ispirazione»? Si può essere un impareggiabile 

lavoratore e non avere mai avuto una propria idea originale. 

Ma è un grave errore credere che ciò avvenga soltanto nella 

scienza e che in un’azienda, per esempio, le cose stiano diversa- 

mente che in un laboratorio. Un commerciante o un grande 

industriale privo di «fantasia negli affari», cioè senza idee, 

senza idee geniali, rimarrà per tutta la vita, nel migliore dei 

casi, un semplice commesso o un impiegato tecnico: non creerà 

mai qualcosa di vitale nell’organizzazione. Nel campo della 

scienza l’ispirazione non ha affatto un'importanza maggiore — 

come immagina la presunzione degli studiosi — che nel campo 

dei problemi della vita pratica che deve padroneggiare un im- 

prenditore moderno. E d'altra parte la sua importanza non è 

minore — come spesso erroneamente si crede — che nel campo 

dell’arte. È puerile pensare che a tavolino, munito di un re- 

golo o di altri mezzi meccanici o di macchine calcolatrici, il 

matematico giunga a un risultato di qualche valore scientifico; 

la fantasia matematica di un Weierstrass* si presenta natural- 

mente orientata in modo del tutto diverso, nel suo senso e nel 

suo risultato, da quella di un artista, e anche sotto il profilo 

qualitativo è fondamentalmente differente. Non però quanto al 

procedimento psicologico. Entrambi sono esaltazione (nel senso 

della « mania » di Platone) e « ispirazione ». 


Ora, che uno abbia ispirazioni scientifiche, dipende da un 

destino a noi ignoto, ma soprattutto da un « dono», Un atteg- 

giamento, di cui è ben comprensibile la popolarità specialmente 

tra i giovani, si è schierato — e quell’indubitabile verità non è 

certo l’ultima ragione di ciò — in favore di alcuni idoli il cui 

culto vediamo oggi trionfare a tutti gli angoli di strada e in 

tutte le riviste. Tali idoli sono la «personalità» e l’«espe- 

rienza vissuta ». L'una e l’altra sono strettamente connesse: 



4. Karl Theodor Wilhelm Weicrstrass (1815-1897), matematico tedesco, autore 

di numerosi scritti raccolti nelle Gesammelte Abhandiungen (1894-1927), diede impor- 

tanti contributi alla teoria delle funzioni. 



MAX WEBER 693 



l'opinione dominante è che la seconda sia costitutiva della pri- 

ma e le appartenga. Ci si tormenta per «vivere la propria 

esperienza» — giacché questo fa parte del modo di vivere che 

si addice a una personalità — e non potendo riuscirvi bisogna 

almeno fare come se si possedesse questa grazia. Una volta 

questa «esperienza vissuta » si chiamava in tedesco Sensation. 

E di quel che fosse e significasse la « personalità », si aveva 

allora — ritengo — un'idea più esatta. 


Egregi ascoltatori! Nel campo scientifico ha una sua « perso- 

nalità » soltanto chi serve puramente la causa. E ciò non si 

verifica soltanto in campo scientifico. Non conosciamo alcun 

grande artista che non si sia interamente dedicato alla propria 

causa e che abbia servito altri all’infuori di questa. Perfino una 

personalità della levatura di Goethe non ha potuto impunemen- 

te — per quel che concerne la sua arte — prendersi la libertà 

di voler fare un’opera d’arte della propria « vita». Ma se pure 

non si voglia ammetterlo, bisogna tuttavia essere un Goethe 

per poterselo permettere, e ognuno dovrà convenire almeno sul 

fatto che nessuno mai ne è uscito immune, neppure lui, la cui 

figura è unica nel corso di millenni. Le cose non stanno altri- 

menti in politica: ma di ciò non si parlerà oggi. Nel campo 

della scienza non è certo una « personalità » colui il quale, al 

modo di un impresario, porta se stesso alla ribalta insieme alla 

causa a cui dovrebbe dedicarsi, e vorrebbe giustificare se medesi- 

mo col « vivere la propria esperienza », e domanda: come di- 

mostrerò di essere qualcosa di più di un semplice « speciali- 

sta», come riuscirò a dire qualcosa che non sia stato ancor 

detto da nessuno nella stessa forma o con lo stesso contenuto? 

Un fenomeno, questo, che oggi si osserva su larga scala e che 

lascia ovunque un’impronta di meschinità, avvilendo colui che 

si pone una simile domanda, laddove soltanto l’intima dedizio- 

ne al proprio compito, e ad esso soltanto, può innalzarlo all’altez- 

za e alla dignità della causa che pretende servire. Né diversa- 

mente avviene per l'artista. 


Contrapposto a queste condizioni preliminari che il nostro 

lavoro ha in comune con l’arte, esiste un destino che lo differen- 

zia profondamente dal lavoro dell’artista. Il lavoro scientifico 

è inserito nel corso del progresso. E viceversa nessun progresso 

— in questo senso — si attua nel campo dell’arte. Non è vero 



694 MAX WEBER 



che un’opera d’arte di un'epoca in cui siano stati elaborati 

nuovi mezzi tecnici o, per esempio, le leggi della prospettiva, 

si trovi per questa ragione a un più alto livello, sul piano 

puramente artistico, di un’opera d’arte priva di ogni conoscen- 

za di quei mezzi e di quelle leggi — se questa non è formal- 

mente o materialmente manchevole, cioè se ha scelto e plasma- 

to il proprio oggetto come era possibile fare a regola d’arte 

senza l'applicazione di quelle condizioni e di quei mezzi. Un'o- 

pera d’arte veramente «compiuta» non viene mai superata, 

non invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente 

un significato di diverso valore; ma di un’opera realmente 

«compiuta » in senso artistico nessuno potrà mai dire che sia 

«superata» da un’altra pur essa «compiuta». Al contrario, 

ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo 

dieci, venti, cinquant'anni è invecchiato. Questo è il destino, 0 

meglio, questo è il senso del lavoro scientifico, il quale, ri- 

spetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire 

la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in modo del 

tutto specifico: ogni lavoro scientifico «compiuto » comporta 

nuove « questioni » e vole essere « superato » e invecchiare. A 

ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza. Senza 

dubbio vi sono opere scientifiche che possono conservare dure- 

volmente la loro importanza come «mezzi di godimento» a 

causa della loro qualità artistica, oppure come mezzo di addestra- 

mento al lavoro. Ma esser superati scientificamente è — giova 

ripeterlo — non soltanto il destino di noi tutti, ma anche il 

nostro scopo. Non possiamo lavorare senza sperare che altri si 

spingeranno più avanti di noi. In linea di principio, questo 

progresso tende all’infinito. E con ciò siamo giunti al problema 

del senso della scienza. Infatti, non appare di per se stesso 

chiaro come possa avere in sé un senso e una ragione qualcosa 

che è sottoposto a una simile legge. Perché mai ci si adopera in- 

torno a quello che, nella realtà, non giunge e non può mai giun- 

gere alla fine? Ebbene, anzitutto per scopi puramente pratici, 

cioè per scopi tecnici nel senso ampio della parola: per poter 

orientare la nostra azione pratica in base alle aspettative che ci 

fornisce l’esperienza scientifica. Sta bene. Ma questo ha un si- 

gnificato solo per l'uomo pratico. Qual è ora la posizione inte- 

riore dell’uomo di scienza di fronte alla propria professione, 



MAX WEBER 695 



ammesso che egli cerchi di averne una in generale? Egli rispon- 

de: la scienza « per amore della scienza » e non per consentire 

ad altri di raggiungere successi nel campo degli affari di carat- 

tere tecnico, per potersi meglio nutrire, vestire, illuminare, go- 

vernare. Quale opera fornita di senso crede egli dunque di 

produrre in tal modo, con queste creazioni sempre destinate a 

invecchiare, col lasciarsi incanalare in questa attività divisa in 

settori specializzati, e protraentesi all'infinito? A questo propo- 

sito bisogna fare alcune considerazioni generali. 


Il progresso scientifico è una frazione, e senza dubbio la più 

importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale 

siamo sottoposti da secoli e contro il quale oggi di solito si 

prende una posizione così straordinariamente negativa. 


Anzitutto rendiamoci chiaramente conto di che cosa propria- 

mente significhi, dal punto di vista pratico, questa razionalizza- 

zione intellettualistica ad opera della scienza e della tecnica 

orientata scientificamente. Vorrà forse significare che oggi noi 

altri, per esempio ogni persona presente in questa sala, abbia- 

mo una conoscenza delle condizioni di vita nelle quali esistia- 

mo maggiore di quella di un Indiano o di un Ottentotto? Ben 

difficilmente. Chiunque di noi viaggi in tram non ha la mini- 

ma idea — a meno ch'egli non sia un fisico di mestiere — di 

come la vettura riesca a mettersi in moto: né, d’altronde, ha 

bisogno di saperlo. Gli basta di poter « fare assegnamento » sul 

modo di comportarsi di una vettura tranviaria, ed egli orienta 

in conformità la propria condotta; ma nulla sa di come si 

faccia per costruire un tram capace di mettersi in moto. Il 

selvaggio ha una conoscenza dei propri utensili incomparabil- 

mente migliore. Se oggi spendiamo del denaro, scommetto che, 

perfino se vi sono colleghi economisti qui presenti, ognuno 

avrà pronta una risposta diversa alla domanda: come avviene 

che qualcosa — ora poco, ora molto — possa esser comperato 

con il denaro? Il selvaggio sa in quale modo riesce a procu- 

rarsi il nutrimento quotidiano e quali istituzioni gli servano a 

questo scopo. La progressiva intellettualizzazione e razionaliz- 

zazione n0n significa dunque una crescente conoscenza genera- 

le delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa 

bensì qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltan- 

to si volesse, si potrebbe in ogni momento provare che non vi 



696 MAX WEBER 



sono forze fondamentalmente misteriose e imprevedibili le qua- 

li intervengano in modo da impedire che si possa dominare — 

in linea di principio — tutte le cose mediante la previsione 

razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo. Non 

occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare o per ingra- 

ziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono 

potenze del genere. A ciò sopperiscono i mezzi tecnici e la 

previsione razionale. È soprattutto questo il significato dell’in- 

tellettualizzazione in quanto tale. 


Questo processo di disincantamento proseguito per millenni 

nella cultura occidentale e, in generale, questo « progresso » 

del quale la scienza è un elemento e un impulso, contiene un 

qualche senso che vada al di Ià del fatto puramente pratico e 

tecnico? Questa domanda la trovate formulata come questione 

di principio soprattutto nelle opere di Lev Tolstòj. Egli vi 

giunse attraverso una propria via. Il problema centrale intorno 

al quale egli si tormentava era la questione se la morte fosse o 

no un fenomeno dotato di senso. E la sua risposta, nei con- 

fronti degli uomini civili, è negativa. Ciò appunto in quanto 

la vita del singolo individuo civilizzato, inserita nel « progres- 

so», nell’infinito, non può per il suo stesso senso immanente 

avere alcun termine. Giacché c'è sempre un ulteriore progresso 

da compiere per chi c'è dentro; nessuno muore dopo esser 

giunto al culmine, che è situato nell'infinito. Abramo e un 

qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva « vecchio e sazio 

della vita» perché si trovava nel ciclo organico della vita, 

perché la sua vita, anche per il suo significato, alla sera della 

sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché 

non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed egli poteva 

perciò averne « abbastanza ». Ma un uomo civile, il quale parte- 

cipa all’arricchimento progressivo della civiltà in idee, conoscen- 

ze, problemi, può diventare « stanco della vita » ma non sazio. 

Di ciò che la vita dello spirito sempre nuovamente produce egli 

coglie soltanto la minima parte, e sempre qualcosa di provviso- 

rio e mai definitivo: quindi la morte è per lui un accadimento 

privo di senso. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche 

la vita culturale come tale, in quanto appunto con la sua assur- 

da « progressività » fa della morte un assurdo. Ovunque, nei 



MAX WEBER 697 



suoi ultimi romanzi, quest'idea costituisce il motivo fondamen- 

tale dell’arte di Tolstòj. 


Quale posizione si può assumere in proposito? Al « progres- 

so», come tale, può riconoscersi un senso che va al di là della 

tecnica, cosicché avrebbe significato la professione dedicata al 

suo servizio? È un quesito che va posto. Ma non si tratta 

soltanto del problema della professione e della vocazione ne: 

riguardi della scienza, e cioè del problema: che cosa significa 

la scienza come professione per colui il quale vi si dedica? — 

bensì anche di questo: che cos'è la professione della scienza 

nell’ambito dell'intera vita dell'umanità? e qual è il suo valore? 


L’antitesi tra passato e presente è qui enorme. Vi ricordere- 

te di quella meravigliosa immagine al principio del libro VII 

della Repubblica di Platone: quegli uomini in una caverna 

incatenati, col viso rivolto alla parete di roccia, che la luce 

colpisce alle spalle e che non possono vederla e si preoccupano 

perciò soltanto delle ombre che essa getta sulla parete e cercano 

di stabilirne la causa. Finalmente uno di loro riesce a spezzare 

le catene, si volta e mira: il sole. Abbagliato brancola all’intor- 

no e descrive balbettando quel che ha veduto. Gli altri gli 

dànno del pazzo. Ma a poco a poco egli impara a vedere nella 

luce e allora si adopera a scendere tra gli uomini delle caverne 

e a trarli su verso la luce. Egli è il filosofo e il sole è la verità 

della scienza, che sola non va in caccia di fantasmi e di ombre 

ma persegue il vero essere. 


Ebbene, chi tiene oggi un simile atteggiamento verso la 

scienza? È proprio la gioventù a manifestare oggi un sentimen- 

to opposto: le formazioni concettuali della scienza sono un 

mondo sotterraneo di artificiose astrazioni che cercano di coglie- 

re con le loro mani esangui, senza mai riuscirvi, la linfa e il 

sangue della vita reale. È qui nella vita, in ciò che per Platone 

costituiva il gioco d’ombre sulle pareti della caverna, che palpi- 

ta la vera realtà: il resto sono fantasmi senza vita astratti da 

quella, e null’altro. Come si è effettuato un tale mutamento? 

L’appassionato entusiasmo di Platone nella Repubblica si spie- 

ga in ultima analisi considerando che allora per la prima volta 

si era scoperto consapevolmente il senso di uno dei più impor- 

tanti mezzi di ogni conoscenza scientifica: il concetto. Socrate 

ne ha rivelato tutta l’importanza. Ma non è stato il solo: in 



698 MAX WEBER 



India potete trovare saggi di una logica del tutto simile a 

quella di Aristotele. Mai però con questa coscienza del suo 

significato. Allora per la prima volta sembrò disponibile un 

mezzo per stringere chiunque nella morsa della logica così da 

non lasciarlo uscire senza ammettere o di non saper nulla o 

che questa e non altra è la verità, l'eterna verità, che non è 

transeunte come l’agire e l’indaffararsi degli uomini ciechi. Fu 

questa la straordinaria esperienza vissuta dai discepoli di Socra- 

te. Da ciò sembrava conseguire che, ove si fosse trovato l’esatto 

concetto del bello, del buono, come pure del coraggio, dell’ani- 

ma, e via dicendo, se ne potesse cogliere anche il vero essere, e 

ciò sembrava di nuovo aprire la via per sapere e per insegnare 

il modo giusto di agire nella vita, soprattutto come cittadino. 

Infatti la mentalità completamente politica dei Greci riduceva 

tutto a questo problema. Perciò si coltivava la scienza. 


Accanto a questa scoperta dello spirito greco si presenta ora 

— frutto del Rinascimento — il secondo grande strumento del 

lavoro scientifico, l'esperimento razionale, come mezzo per l’e- 

sperienza rigorosamente controllata, senza il quale sarebbe im- 

possibile la scienza empirica moderna. Anche precedentemente 

era stato adottato il metodo sperimentale: nella fisiologia, per 

esempio, in India, per servire alla tecnica ascetica dello Yogi; 

nella matematica, tra gli antichi Greci, ai fini della tecnica 

bellica; per i lavori nelle miniere, durante il Medioevo. Ma 

aver innalzato l'esperimento a principio della ricerca come tale 

è un prodotto del Rinascimento. Ne furono pionieri i grandi 

innovatori nel campo dell’arte: Leonardo e i suoi pari, e carat- 

teristici soprattutto gli sperimentatori di musica del Cinquecen- 

to con i loro clavicembali sperimentali. Da questi l’esperimento 

passò nella scienza soprattutto ad opera di Galilei, e nella teo- 

ria ad opera di Bacone; lo adottarono poi le singole discipline 

delle scienze esatte nelle università del continente, in primo 

luogo in Italia e in Olanda. 


Che cosa dunque significava la scienza per quegli uomini 

alla soglia dell’età moderna? Per gli sperimentatori nel campo 

dell’arte, come Leonardo e gli innovatori nella musica, signifi- 

cava la via per giungere alla vera arte, ciò che per loro equivale- 

va alla vera natura. L'arte doveva esser elevata alla dignità di 

una scienza, e cioè al tempo stesso, e soprattutto, l’artista al 



MAX WEBER 699 



rango di un dotto, dal punto di vista sociale e riguardo al senso 

della sua vita. È questa l’ambizione che sta per esempio alla 

base anche del Trattato della pittura di Leonardo. E oggi? 

«La scienza come via per giungere alla natura» — questa 

frase suonerebbe come una bestemmia alle orecchie dei giovani. 

No, tutt'al contrario: liberiamoci dall’intellettualismo della 

scienza per ritornare alla nostra propria natura e quindi alla 

natura in generale! Sarà forse allora la via per giungere all'ar- 

te? A questa domanda è superflua qualsiasi critica. — Ma 

all’epoca dell’origine delle scienze esatte della natura, ci si 

attendeva dalla scienza qualcosa di più. Se rammentate il detto 

di Swammerdam® «vi reco qui la prova della provvidenza di 

Dio nell’anatomia d’un pidocchio », capirete ciò che il lavoro 

scientifico, sotto l'influenza (indiretta) del Protestantesimo e 

del Puritanesimo, considerasse allora come proprio compito: la 

via per giungere a Dio. Questa, allora, non la si trovava più 

nei filosofi, nei loro concetti e nelle loro deduzioni: che non si 

potesse trovare Dio per la via tentata dal Medioevo, ben lo 

sapeva tutta la teologia pietistica di quel tempo, Spener* soprat- 

tutto. Dio è nascosto, le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pen- 

sieri non sono i nostri pensieri. Ma nelle vie esatte della natura, 

dove si poteva cogliere fisicamente la sua opera, là si sperava di 

poter rintracciare i suoi disegni in relazione al mondo. E oggi- 

giorno? Chi ancor oggi — tranne alcuni grandi fanciulli, quali 

è dato incontrare proprio nelle scienze naturali — crede che le 

conoscenze dell'astronomia o della biologia o della fisica o del- 

la chimica possano insegnarci qualcosa intorno al serso del 

mondo, o anche soltanto intorno alla via per la quale si possa- 

no rintracciare gli indizi di un simile « senso », se pur ve n'è 

uno? Quelle conoscenze sono semmai più adatte a soffocare in 

germe la fede che vi sia qualcosa di simile a un «senso» del 



5. Jan Swammerdam (1639-1680), naturalista olandese, autore del Tractatus 

physico-anatomico-medicus de respiratione usuque pulmonum (1667), del Miracu- 

lum naturae seu uteris muliebris fabrica (1672), della Ephemerae vita (1675) © 

di varie altre opere, diede importanti contributi allo studio degli insetti, all'embrio- 

logia, all'anatomia umana, e fu tra i pionieri del microscopio. 


6. Philipp Jakob Spener (1635-1705), teologo protestante tedesco, autore di Pia 

desideria (1675), di Dus geistliche Priestertum (1677), della Evangelische Glaubens- 

lehre (1688), delle Evangelische Lebenspffichten (1692) c di varie altre opere, fu il 

fondatore del movimento pietistico. 



700 MAX WEBER 



mondo! E finalmente, la scienza come via per giungere «a 

Dio»? Essa, la potenza specificamente estranea alla divinità? 

Che tale essa sia nessuno oggi, nel suo intimo, può dubitarne, 

pur essendo più o meno disposto a confessarlo. L’emancipazio- 

ne dal razionalismo e dall’intellettualismo della scienza costitui- 

sce il presupposto fondamentale della vita in comunione con il 

divino: questa massima, o qualcosa di significato identico, è 

una delle parole d’ordine che si ritrovano ovunque nel senti- 

mento dei nostri giovani dotati di animo religioso o che aspira- 

no a un'esperienza religiosa. Ed essa vale non soltanto per 

l’esperienza religiosa, ma per l’esperienza in generale. Parados- 

sale però è la via seguita: si elevano ora alla coscienza e si 

sottopongono alla sua lente proprio quelle sfere dell’irrazionale, 

le sole che finora l’intellettualismo non aveva ancora toccato. A 

ciò conduce infatti, in pratica, il moderno romanticismo intel- 

lettualistico dell’irrazionale. Questa via per liberarsi dall’intellet- 

tualismo porta a un risultato esattamente opposto al fine imma- 

ginato da coloro i quali la percorrono. Che infine per un inge- 

nuo ottimismo si sia celebrato nella scienza, ossia nella tecnica 

per il dominio della vita su di essa fondata, la via per giungere 

alla felicità, posso passarlo sotto silenzio dopo la critica demoli- 

trice rivolta da Nietzsche a quegli « ultimi uomini» i quali 

«hanno trovato la felicità». Chi ci crede più, tranne alcuni 

grandi fanciulli sulle cattedre o nei comitati di redazione? 


Torniamo al punto di partenza. Dati questi presupposti 

intrinseci, qual è il senso della scienza come professione, dal 

momento che sono naufragate tutte quelle precedenti illusioni 

— «la via per il raggiungimento del vero essere», «la via 

verso la vera arte», «la via verso la vera natura», «la via 

verso il vero Dio », «la via verso la vera felicità »? La risposta 

più semplice è stata data da Tolstòj con queste parole: « essa è 

priva di senso perché non risponde alla sola domanda importan- 

te per noi: che cosa dobbiamo fare? come dobbiamo vivere? » 

Il fatto che non vi risponda è assolutamente incontestabile. Si 

tratta soltanto di domandarsi in quale senso non dia « nessu- 

na» risposta, e se in luogo di questa essa non possa per caso 

dare un qualche aiuto a chi si ponga la questione nei suoi 

termini esatti. — Oggi si suole sovente parlare di una scienza 



MAX WEBER 701 



« senza presupposti ». Ce n'è una? Dipende da quel che si vuol 

intendere. Presupposto di qualsiasi lavoro scientifico è sempre 

la validità delle regole della logica e della metodologia, di 

questi fondamenti generali del nostro orientamento nel mondo. 

Ora siffatti presupposti, per lo meno quanto alla nostra questio- 

ne particolare, non sono affatto problematici. Si presuppone 

inoltre che il risultato del lavoro scientifico sia importante nel 

senso che sia « degno di essere conosciuto ». E qui evidentemen- 

te hanno la loro radice tutti i nostri problemi. Infatti questo 

presupposto non può essere a sua volta dimostrato con i mezzi 

della scienza. Può essere soltanto interpretato nel suo senso 

ultimo, che bisognerà accogliere o respingere a seconda della 

personale posizione ultima di fronte alla vita. 


Assai diverso, inoltre, è il tipo di relazione del lavoro scienti- 

fico con questi suoi presupposti, a seconda della loro struttura. 

Le scienze naturali come la fisica, la chimica, l’astronomia, 

presuppongono come evidente che le leggi ultime dell’accadere 

cosmico — costruibili, fin dove arriva la scienza — siano degne 

di esser conosciute. Non soltanto perché con queste nozioni si 

possono raggiungere successi tecnici, ma — se devono essere 

« professione » — « per se stesse ». Questo presupposto a sua 

volta non è assolutamente dimostrabile; e meno che mai si può 

dimostrare se il mondo da esse descritto sia degno di esistere, 

se cioè esso abbia un « senso », e se abbia un senso esistere in 

esso. Di ciò quelle scienze non si preoccupano. Oppure prende- 

te un'arte pratica così sviluppata scientificamente come la medi- 

cina moderna. Il « presupposto» generale dell'esercizio della 

medicina è — in parole povere — che sia considerato positivo, 

unicamente come tale, il compito della conservazione della vi- 

ta e della riduzione al minimo della sofferenza. E ciò è proble- 

matico. Il medico cerca con tutti i mezzi di conservare la vita 

al moribondo, anche se questi implora di essere liberato dalla 

vita, anche se la sua morte è e dev'essere desiderata — più o 

meno consapevolmente — dai suoi congiunti, per i quali la sua 

vita è ormai priva di valore mentre insopportabili sono gli 

oneri per conservarla, ed essi gli augurano la liberazione dalla 

sofferenza (si tratta, poniamo il caso, di un povero folle). Ma i 

presupposti della medicina e il codice penale impediscono al 

medico di desistere. La scienza medica non si pone la domanda 



702 MAX WEBER 



se e quando la vita valga la pena di esser vissuta. Tutte le 

scienze naturali dànno una risposta a questa domanda: che 

cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vi- 

ta? Ma se dobbiamo e vogliamo dominarla tecnicamente, e se 

ciò, in definitiva, abbia propriamente un senso, esso lo lasciano 

del tutto in sospeso oppure lo presuppongono per i loro scopi. 

Prendiamo, se volete, una disciplina come la scienza dell’arte. 

Il fatto che vi siano opere d’arte costituisce, per l’estetica, un dato. 

Essa cerca di stabilire a quali condizioni quel fenomeno si 

verifichi. Ma non si pone la domanda se il dominio dell’arte 

non sia per avventura un regno di magnificenza diabolica, un 

regno di questo mondo, e perciò intimamente opposto al divino 

e, per il suo carattere intrinsecamente aristocratico, allo spirito 

di fraternità. Essa non si domanda quindi se debbano esservi 

opere d’arte. Oppure prendiamo la giurisprudenza: essa stabili- 

sce ciò che è valido secondo le regole del pensiero giuridico, in 

parte coercitivamente logico e in parte vincolato da schemi 

convenzionali; vale a dire, stabilisce se sono riconosciute obbli- 

gatorie determinate regole giuridiche e determinati metodi per 

la loro interpretazione. Non decide se debba esservi il diritto e 

se debbano esser formulate proprio quelle regole; essa può indi- 

care soltanto che, se si vuol conseguire un risultato, il mezzo 

appropriato per raggiungerlo ci è dato da questa regola giuridi- 

ca, secondo le norme del nostro pensiero giuridico. O prendete 

ancora le scienze storiche della cultura. Esse ci insegnano a 

comprendere i fenomeni della cultura — politici, artistici, lette- 

rari e sociali — in base alle condizioni del loro sorgere. Ma 

non rispondono di per sé alla questione se questi fenomeni 

culturali fossero e siano degni di sussistere, e neppure all’altra 

questione se valga la pena di conoscerli. Esse presuppongono 

che abbia un interesse partecipare, mediante tale procedimen- 

to, alla comunità degli « uomini civili ». Ma che così stiano le 

cose, esse non sono in grado di dimostrarlo « scientificamente » 

a nessuno, e che esse lo presuppongano non dimostra affatto 

che ciò sia evidente. E infatti non lo è per nulla. 

Soffermiamoci ora su quelle discipline alle quali sono più 

vicino, e cioè la sociologia, la storia, l'economia, la dottrina 

dello stato, e su quelle forme di filosofia della cultura che si pro- 

pongono di darne un’interpretazione. Si afferma — e io lo 



MAX WEBER 793 



sottoscrivo — che la politica non si addice all’aula di lezione. 

Non vi si addice da parte degli studenti. Io vorrei deplorare 

per esempio che nell’aula del mio vecchio collega Dietrich Sché- 

fer? a Berlino gli studenti pacifisti si accalcassero intorno alla 

cattedra e facessero un chiasso simile a quello che devono aver 

inscenato gli studenti anti-pacifisti davanti al professor Fòr- 

ster®, dalle cui opinioni le mie divergono radicalmente in molti 

punti. Ma la politica non si addice all'aula neppure da parte 

degli insegnanti: meno che mai quando l’insegnante si occupa 

di politica dal punto di vista scientifico. Infatti la presa di 

posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni e 

partiti politici sono due cose diverse. Quando uno parla sulla 

democrazia in una riunione popolare, non fa mistero della 

propria presa di posizione personale: anzi, è questo il dannato 

obbligo e dovere, prender partito in modo chiaramente ricono- 

scibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso 

strumenti di analisi scientifica, bensì mezzi di propaganda per 

trarre dalla nostra parte gli altri. Esse non sono un vomere per 

smuovere il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade 

contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in 

un'aula sarebbe un misfatto usare la parola in questa maniera. 

Se.vi si parlerà di « democrazia », si osserveranno le sue di- 

verse forme, si analizzerà il modo in cui esse funzionano, si 

stabilirà quali siano le conseguenze particolari dell’una o dell’al- 

tra per le condizioni della vita, e poi vi si contrapporranno le 

altre forme non democratiche di organizzazione politica e si 

cercherà di giungere fino al punto in cui l'ascoltatore sia in 

grado di poter prendere posizione secondo i suo: ideali ultimi. 

Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo, dall'alto 

della cattedra, a prendere una qualsiasi posizione, sia esplicita- 

mente sia con suggerimenti — poiché naturalmente il metodo 

più sleale è quello di « far parlare i fatti». 



7. Dietrich Schifer (1845-1929), storico tedesco allievo di Treitschke, di oricn- 

tamento nazionalistico, 


8. Friedrich Wilhelm Forster (1869-1966), filosofo e pedagogista tedesco, autore 

di Lebensfiihrung (1909), di Autorità und Freiheit (1910), di Erziechung und Selbst- 

erziehung (1917), di Hauptaufgaben der Erziehung (1959) e di numerose altre opere 

di argomento etico-pedagogico ed etico-politico, fu sostenitore del pacifismo e quiodi 

oggetto di violenti attacchi da parte degli studenti nazionalisti. 



794 MAX WEBER 



Ma per quale ragione, precisamente, dobbiamo astenercene ? 

Premetto che diversi tra i miei stimatissimi colleghi sono del 

parere che una siffatta discrezione non sia attuabile e che, se 

anche lo fosse, sarebbe follìa pretenderla. Ora a nessuno può 

dimostrarsi scientificamente quale sia il suo dovere di professo- 

re universitario. Da lui si può pretendere soltanto la probità 

intellettuale, per cui sappia comprendere che la constatazione 

dei fatti, la determinazione di rapporti matematici o logici o 

della struttura interna di beni culturali da una parte — e dall’al- 

tra la risposta alla questione del valore della cultura e dei suoi 

contenuti particolari — e quindi del modo in cui si deve agire 

nell’ambito della comunità civile e dei gruppi politici — sono 

due problemi assolutamente eterogenei. Se poi egli domanda 

perché non debba trattarli entrambi nell'aula di lezione, ecco 

la risposta: perché il profeta e il demagogo non si addicono 

alla cattedra. Al profeta e al demagogo è stato detto: «esci 

per le strade e parla pubblicamente ». Parla, cioè, dov’è possibi- 

le la critica. Nell’aula di lezione, ove si sta seduti di faccia ai 

propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e 

reputo una mancanza di senso di responsabilità approfittare 

della circostanza che gli studenti sono obbligati dal program- 

ma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessu- 

no può intervenire a controbatterlo, per inculcare negli ascolta- 

tori la propria personale concezione politica invece di recare 

loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie cono- 

scenze e le proprie esperienze scientifiche. Può certamente avve- 

nire che l'individuo riesca solo imperfettamente a nascondere 

le proprie simpatie soggettive. Allora, egli si espone alla cri- 

tica più spietata davanti al foro della sua coscienza. E ciò 

d'altronde non prova nulla, poiché anche altri errori puramen- 

te di fatto sono possibili e non possono contrastare al dovere di 

ricercare la verità. Io mi rifiuto di ammetterlo anche e precisa- 

mente per l'interesse puramente scientifico. Sono disposto a 

provare sulle opere dei nostri storici che, ogni qual volta l’uo- 

mo di scienza mette innanzi il proprio giudizio di valore, 

cessa la perfetta comprensione del fatto. Tuttavia, ciò esula dal 

tema di questo discorso ed esigerebbe lunghe considerazioni 

critiche. 


Io domando semplicemente: come può da una parte un 





MAX WEBER 705 

cattolico credente e dall’altra un massone — in un corso sulle 

forme di chiesa e di stato o sulla storia della religione — come 

possono mai questi due esser condotti a un’eguale valutazione 

di tali oggetti? È impossibile. Eppure, il professore universita- 

rio deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze 

e i suoi metodi tanto all'uno come all’altro. Ora voi direte 

giustamente: neppure riguardo ai fatti relativi all'origine del 

Cristianesimo il cattolico credente potrà mai accettare l’opinio 

ne prospettatagli da un maestro che non condivida i suoi pre- 

supposti dogmatici. Senza dubbio! Ma la differenza consiste nel 

fatto che la scienza « priva di presupposti », nel senso che riftu- 

ta ogni vincolo religioso, non riconosce di fatto, dal canto suo, 

il « miracolo » e Ia «rivelazione ». Altrimenti essa tradirebbe i 

propri « presupposti ». Il credente li riconosce entrambi. E quel- 

la scienza « priva di presupposti » non pretende da lui meno — 

ma anche niente di più — del riconoscimento che bisogna 

seguire la via tentata dalla scienza, se si vuol spiegare quell’av- 

venimento prescindendo da quegli interventi soprannaturali, 

che per una spiegazione empirica devono essere esclusi come 

momenti causali. Ciò il credente può ammetterlo senza tradire 

la propria fede. 


Ma la funzione della scienza non avrà allora alcun senso 

per chi è indifferente al fatto in quanto tale e reputa importan- 

te soltanto la presa di posizione pratica? Forse sì. E anzitutto: 

un abile maestro considererà suo primo compito insegnare ai 

propri allievi a riconoscere i fatti scomodi, e cioè tali, intendo 

dire, che siano scomodi per la sua opinione di partito; e per 

ogni partito — per esempio anche per il mio — vi sono fatti 

del genere, estremamente imbarazzanti. Credo che il professore 

universitario, se avvezza i propri ascoltatori a questa necessità, 

compia una funzione non soltanto intellettuale, ma — oserei 

dire — una « funzione etica », per quanto una simile espressio- 

ne possa suonar troppo patetica applicata a un fatto così sempli- 

ce e ovvio. 


Finora ho parlato soltanto dei motivi pratici che consiglia- 

no di evitare di imporre una presa di posizione personale. Ma 

non è tutto qui. L’impossibilità di presentare « scientificamen- 

te» una presa di posizione pratica — eccetto nel caso di una 

discussione dei mezzi per uno scopo che si presuppone già dato 



45. STORICISMO TEDESCO. 



706 MAX WEBER 



— deriva da ragioni ben più profonde. Una simile impresa è in 

linea di principio priva di senso, in quanto i diversi ordi- 

ni di valori che esistono al mondo stanno tra loro in una lotta 

inconciliabile. Il vecchio Mill — la cui filosofia non intendo 

peraltro lodare, ma che su questo punto ha ragione — dice in 

qualche luogo: partendo dalla pura esperienza si giunge al 

politeismo. Il principio è formulato superficialmente e sembra un 

paradosso, tuttavia contiene una qualche verità. Di questo, se 

non altro, oggi siamo certi: che qualcosa può essere sacro non 

soltanto anche senza essere bello, ma perché e in quanto non è 

bello (potrete trovarne le prove nel cap. 53 del Libro di Isaia e 

nel Salmo 21) e che qualcosa può essere bello non soltanto anche 

senza essere buono bensì in quanto non è tale, come abbiamo 

imparato da Nietzsche e come anche prima potete trovare illu- 

strato nelle Fleurs du mal, come chiamò Baudelaire il suo 

volume di poesie; ed è infine una verità di tutti i giorni che 

qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello, né 

sacro, né buono. Ma questi sono soltanto gli esempi più elemen- 

tari di tale lotta tra gli dèi che presiedono ai diversi ordinamen- 

ti e valori. Come si possa fare per decidere « scientificamente » 

tra il valore della cultura tedesca e di quella francese, io lo 

ignoro. Anche qui c'è un antagonismo tra divinità diverse, per 

tutti i tempi. Avviene come nel mondo antico, ancora sotto 

l'incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, anche se in un altro 

senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad 

Apollo, e ciascuno in particolare agli dèi della propria città, 

così è ancor oggi, senza l’incantesimo e l’ammanto della forza 

plastica, mitica ma intimamente vera, di quell’atteggiamento. 

Su questi dèi e sulle loro lotte domina il destino, non certo la 

« scienza ». È dato solamente intendere che cosa sia il divino 

nell’uno e nell’altro caso, ovvero in un ordinamento e nell’al- 

tro. Ma con ciò la questione è assolutamente chiusa a qualsiasi 

discussione in un’aula di lezione e per bocca di un insegnante, 

quantunque naturalmente non sia affatto chiuso l’enorme proble- 

ma di vita che vi è racchiuso. Qui però la parola spetta a 

potenze diverse che non alle cattedre universitarie. Chi vorrà 

provarsi a « confutare scientificamente » l’etica del Sermone del- 

la Montagna, per esempio la massima: « non far resistenza al 

male », oppure l’immagine del porgere l’altra guancia? Eppure 



MAX WEBER 707 



è chiaro che, dal punto di vista intra-mondano, vi si predica 

un'etica della mancanza di dignità: bisogna scegliere tra la 

dignità religiosa, che questa etica comporta, e la dignità virile, 

che predica qualcosa di ben diverso: «devi far resistenza al 

male, altrimenti sei anche tu responsabile se questo prevale ». 

Dipende dalla propria presa di posizione rispetto al fine ultimo 

che l’uno sia il diavolo e l’altro il dio, e spetta all’individuo 

decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo. E così 

avviene per tutti gli ordinamenti della vita. Il grandioso razio- 

nalismo della condotta etico-metodica della vita, che sgorga da 

ogni profezia religiosa, aveva detronizzato questo politeismo a 

favore dell’« Uno, che è necessario», e poi, di fronte alle 

realtà della vita esteriore e interiore, si è visto costretto a scende- 

re a quei compromessi e a quelle relativizzazioni che tutti 

conosciamo dalla storia del Cristianesimo. Ma ciò è oggi una 

«realtà quotidiana » per la religione. Gli antichi dèi, spogliati 

del loro incanto e perciò ridotti a potenze impersonali, si leva- 

no dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e 

riprendono quindi la loro eterna lotta. Ma ciò che per l’uomo 

moderno è appunto tanto difficile, e sommamente difficile per 

la giovane generazione, è saper far fronte a siffatta realtà quoti- 

diana. Tutto quell’affannarsi in cerca dell’« esperienza vissuta » 

deriva da questa debolezza. Infatti è una debolezza non poter 

tenere levato lo sguardo al volto severo del destino dei tempi. 


Ma il destino della nostra cultura è appunto quello di essere 

diventati oggi nuovamente e più chiaramente consapevoli di ciò 

che per un millennio l’orientamento esclusivo — vero o presunto 

— verso il grandioso pathos dell'etica cristiana aveva celato ai 

nostri occhi. 


Ma basta ora con questi problemi che ci conducono troppo 

lontano. Poiché, quando una parte dei nostri giovani volesse 

dare a tutto ciò questa risposta: « già, ma noi veniamo a lezio- 

ne per ricavarne un'esperienza che non consista soltanto in 

analisi e in constatazioni di fatto », essi incorrerebbero nell’erro- 

re di cercare nel professore qualcosa di diverso da ciò che sta 

loro di fronte — e cioè un capo e non un maestro. La cattedra 

ci è conferita solamente in qualità di maestri. Si tratta di due 

cose ben diverse, e di ciò è facile convincersi. Permettetemi di 

condurvi ancora una volta in America, dove queste cose si 



708 MAX WEBER 



possono spesso vedere nella loro più pesante originarietà. Il 

ragazzo americano impara incomparabilmente meno del no- 

stro. Nonostante un'incredibile quantità di esami, il senso della 

sua vita scolastica non è ancora diventato tale da ridurlo un « tipo 

da esami », come avviene per il ragazzo tedesco. Infatti la buro- 

crazia, la quale esige il diploma di esame come biglietto d’ingres- 

so nel regno delle prebende degli uffici, è laggiù ancora agli inizi. 

Il giovane americano non porta rispetto a nulla e a nessuno, a nes- 

suna tradizione e a nessun ufficio, salvo che alla prestazione per- 

sonale: questa è per l’Americano la «democrazia», Per quanto la 

realtà possa comportarsi pur sempre in maniera distorta rispet- 

to a questo contenuto di senso, esso risulta però tale e di questo 

dobbiamo qui tener conto. Dell’insegnante che gli sta di fronte 

il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le sue 

nozioni e i suoi metodi per il denaro di mio padre, così come 

l’erbivendola vende i cavoli a mia madre. Con ciò è detto 

tutto. Tuttavia, se il maestro è per avventura un alipone di 

football, in questo campo egli è anche un capo. Ma se non è 

tale (o qualcosa di simile in altri sport), egli è semplicemente 

un insegnante e nulla più, e a nessun giovane americano verrà 

in mente di farsi vendere da lui delle « intuizioni del mondo » 

o delle regole per la sua condotta di vita. Ora, noi respingere- 

mo una simile opinione formulata in questi termini. Bisogna 

però domandarsi se in questo modo di sentire, che di proposi- 

to ho voluto spingere all'estremo, non si annidi un nocciolo 

di verità. 


Fratelli d'armi e sorelle d'armi! Voi venite alle nostre lezio- 

ni con la pretesa di trovare in noi qualità di capi, senza aver 

riflettuto che, di cento professori, almeno novantanove non pre- 

tendono e non possono pretendere di essere non soltanto cam- 

pioni di football della vita, ma neppure in generale «capi» 

nelle faccende della condotta della vita. Pensate che il valore 

dell'uomo non dipende certo dal fatto di possedere le doti di 

un capo. E comunque, le qualità che fanno di qualcuno un 

eminente studioso e un professore universitario non sono 

quelle stesse che ne fanno un capo sul terreno dell’orientamen- 

to pratico della vita o, più specificamente, della politica. È un 

puro caso che qualcuno possegga anche questa qualità, ed è 

una cosa assai preoccupante quando chiunque stia in cattedra 



MAX WEBER 709 



si sente posto di fronte alla pretesa che egli la possegga. E 

ancor più preoccupante, poi, è quando a ogni professore univer- 

sitario viene data facoltà di assumere nell’aula la posizione di 

un capo. Infatti coloro che si ritengono di esserlo più degli 

altri lo sono spesso meno di tutti; ma soprattutto la cattedra 

non può offrire alcuna possibilità di conferma. Il professore 

che si senta chiamato a dare il suo consiglio ai giovani e goda 

della loro fiducia, dovrà procurare di mettersi alla prova discu- 

tendo con loro in un rapporto personale da uomo a uomo. E se 

si sente chiamato a partecipare alle lotte tra le intuizioni del 

mondo e le diverse opinioni di partito, lo faccia al di fuori, 

nell’agone della vita: nella stampa, nelle assemblee, nei circoli, 

dove gli pare. È troppo comodo però dar prova del proprio 

coraggio di confessore della fede là dove gli astanti, e fors'an- 

che quelli di diversa opinione, sono condannati al silenzio. 


Voi mi porrete infine la domanda: se così stanno le cose, 

che offre allora la scienza di veramente positivo per la «vita » 

pratica e personale? E con ciò siamo daccapo al problema della 

vostra « professione ». Anzitutto, naturalmente, la scienza offre 

cognizioni sulla tecnica per padroneggiare la vita, rispetto agli 

oggetti esterni e rispetto all’agire dell’uomo, mediante la previ- 

sione razionale: ebbene, voi replicherete che con ciò siamo pur 

sempre al punto dell’erbivendola del ragazzo americano. Sono 

perfettamente della vostra opinione. Ma c’è in secondo luogo 

qualcosa che quell’erbivendola non è tuttavia capace di fare: i 

metodi del pensare, l’attrezzatura e l'addestramento a quello 

scopo. Direte forse che, se questi non sono proprio gli ortaggi, 

non sono tuttavia più che i semplici mezzi per procurarseli. 

Bene, diamolo oggi per ammesso. Ma fortunatamente la funzio- 

ne della scienza non è ancora finita, bensì noi siamo in condi- 

zione di aiutarvi a conseguire un ulteriore risultato: la chiarez- 

za. A patto, naturalmente, di possederla noi stessi. Se questo è 

il caso, possiamo renderlo chiaro: rispetto al problema del 

valore, intorno al quale sempre ci si aggira — per comodità vi 

prego di riferirvi, come esempio, ai fenomeni sociali — si 

possono prendere praticamente diverse posizioni. Se si assume 

l’una o l’altra, bisogna applicare — secondo le esperienze della 

scienza — certi mezzi o certi altri per attuarla praticamente. 

Ora questi mezzi possono essere di per sé tali che voi crederete 



710 MAX WEBER 



di doverli respingere. Allora, bisogna appunto scegliere tra lo 

scopo e i mezzi indispensabili. Lo scopo «giustifica» o no 

questi mezzi? L'insegnante può mostrarvi la necessità di questa 

scelta, ma non può fare di più, in quanto voglia rimanere 

insegnante e non diventare un demagogo. Naturalmente, può 

ancora dirvi: se volete questo o quell'altro scopo, dovete mette- 

re in conto anche questa o quell’altra conseguenza concomitan- 

te che si verifica in conformità all'esperienza; la situazione, 

cioè, è sempre la medesima. Tuttavia, tutti questi sono pur 

sempre problemi del genere di quelli che possono sorgere an- 

che per ogni tecnico, il quale in innumerevoli casi deve decide- 

re secondo il principio del minor male o del meglio relativo. 

Ma per lui una cosa, quella principale, è di solito già data: lo 

scopo. Non così avviene per noi, non appena siano in questione 

problemi realmente « ultimi ». E con ciò siamo giunti alla fun- 

zione più alta che la scienza in quanto tale può assolvere in 

servizio della chiarezza, e contemporaneamente anche ai suoi 

confini. Noi possiamo — e dobbiamo — anche dirvi: que- 

sta o quest'altra posizione pratica può essere derivata con 

intima coerenza e quindi con serietà, per quanto riguarda il 

suo senso, da questa o da quest'altra fondamentale concezione 

del mondo — magari da una soltanto o forse anche da più — 

ma non mai da quell'altra. Voi servite questo dio — per 

parlar figuratamente — e offendete quell'altro, se vi risolvete 

per questa presa di posizione. Infatti perverrete necessariamen- 

te a queste e a quest’altre conseguenze ultime dotate di senso, 

se rimarrete fedeli a voi stessi. Quest'opera, almeno in linea di 

principio, può esser compiuta. A ciò tendono la disciplina spe- 

ciale della filosofia e le discussioni di principio, per loro essen- 

za filosofica, delle singole discipline. Possiamo quindi, se ab- 

biamo ben capito il nostro compito (il che dev’esser qui presup- 

posto), costringere l'individuo — o almeno aiutarlo — a render- 

st conto del senso ultimo del suo proprio operare. Questo non 

mi sembra sia troppo poco, anche per la vita puramente perso- 

nale. Di un insegnante che riesca in questo compito sarei tenta- 

to di dire che si è messo al servizio di potenze «etiche», del 

dovere di promuovere la chiarezza e il senso di responsabilità, 

e credo che ne sarà tanto più capace quanto più coscienziosa- 



MAX WEBER g1I 



mente eviterà di fornire bell'e pronta o di suggerire per pro- 

prio conto all'ascoltatore una presa di posizione. 


Senza dubbio la soluzione che qui vi ho prospettato riposa 

su questo fondamentale dato di fatto: che la vita, in quanto 

deve fondarsi su se stessa ed essere compresa in base a se 

stessa, conosce soltanto la lotta eterna di quelle divinità tra 

loro — cioè, fuor di metafora, l’inconciliabilità e quindi l’inso- 

lubilità della lotta tra le posizioni ultime possibili in generale 

rispetto alla vita, vale a dire la necessità di decidere per l’una 

o per l’altra. Se in queste condizioni la scienza sia degna di 

diventare una «professione » e se essa stessa costituisca una 

« professione » fornita di valore oggettivo — ecco un altro giu- 

dizio di valore sul quale non è dato pronunciarsi nell’aula di 

lezione. Per l'insegnamento, infatti, la risposta affermativa è un 

presupposto. Io personalmente, col mio stesso lavoro, rispondo 

affermativamente. E ciò vale anche per quel punto di vista — 

che la gioventù oggi professa, o meglio che per lo più s'imma- 

gina semplicemente di professare — il quale odia l’intellettuali- 

smo come il più nero dei diavoli. Giacché ad esso si conviene il 

detto: «il diavolo è vecchio, pensateci: invecchiate e lo capire- 

te »°. Ciò non s'intende nel senso dell’atto di nascita, ma nel 

senso che, anche riguardo a questo diavolo, se si vuol farla 

finita con lui, non vale ricorrere alla fuga, come oggi si fa così 

volentieri, ma bisogna scrutare bene a fondo tutte le sue vie 

prima di poter vedere la sua potenza e i suoi confini. 


Che la scienza sia oggi una «professione» spectalizzata, 

posta al servizio dell’auto-riflessione e della conoscenza di situa- 

zioni di fatto, e non una grazia di visionari e profeti, dispensa- 

trice di mezzi di salvezza e di rivelazioni, o un elemento della 

meditazione di saggi e filosofi sul serso del mondo — è certa- 

mente un dato di fatto ineluttabile dalla nostra situazione stori- 

ca, al quale, se vogliamo restare fedeli a noi stessi, non possia- 

mo sfuggire. E se di nuovo sorge in voi Tolstò) a domanda- 

re: «se dunque non è la scienza a farlo, chi risponde allora 

alla domanda: che cosa dobbiamo fare? e come dobbiamo diri- 

gere la nostra vita? », oppure, nel linguaggio che testé 



9. Goetne, Faust, vv. 6817-18 (tr. it. di F. Fortini). 



712 MAX WEBER 



abbiamo usato: « quale degli dèi in lotta dobbiamo servire? o 

forse qualcun altro, e chi mai? », bisogna dire che la risposta 

spetta a un profeta o a un redentore. Se questi non è tra noi o 

se il suo annuncio non è più creduto, non varrà certo a farlo 

scendere su questa terra il fatto che migliaia di professori 

tentino di rubargli il mestiere nelle loro aule di lezione, come 

tanti piccoli profeti privilegiati o pagati dallo stato. Ciò servirà 

soltanto a nascondere tutto l'enorme peso del significato del 

fatto decisivo, che cioè il profeta, che invocano tanti della no- 

stra più giovane generazione, zon esiste. L'interesse interiore 

di un uomo davvero «musicale» in senso religioso non sarà 

mai e poi mai soddisfatto, io credo, dall’espediente per cui si 

cerca di nascondergli con un surrogato — come sono tutti 

questi falsi profeti in cattedra — il fatto fondamentale che il 

destino gli impone di vivere in una epoca lontana da Dio e 

priva di profeti. La serietà del suo sentimento religioso dovreb- 

be, mi sembra, ribellarvisi. Ora, voi sarete indotti a domanda- 

re: ma come ci si deve comportare di fronte al fatto dell’esi- 

stenza della « teologia » e delle sue pretese a porsi come « scien- 

za»? Cerchiamo di non sottrarci alla risposta. « Teologia» e 

« dogmi » non si trovano certo sempre e ovunque, ma neppure 

esclusivamente nel Cristianesimo. Li incontriamo (guardando 

dietro di noi nel tempo) in forme molto sviluppate anche nell’I- 

slam, nel Manicheismo, nella Gnosi, nell’Orfismo, nel Parsismo, 

nel Buddismo, nelle sette indù, nel Taoismo, nelle Uparishad e 

naturalmente anche nell’Ebraismo. Com'era naturale, essi sono 

sviluppati sistematicamente in misura assai diversa. E non è un 

caso che non soltanto il Cristianesimo occidentale li abbia co- 

struiti, o tenda a costruirli in forma più sistematica — a diffe- 

renza della teologia, per esempio, dell’Ebraismo — ma anche 

che il loro sviluppo abbia avuto qui un significato storico di 

gran lunga più importante. È questo un prodotto dello spirito 

greco, dal quale deriva tutta la teologia dell’Occidente come 

(evidentemente) tutta la teologia orientale deriva dal pensiero 

indiano. Ogni teologia consiste nella razionalizzazione intellet- 

tuale del patrimonio religioso della salvezza. Nessuna scienza è 

assolutamente priva di presupposti e nessuna può stabilire il 

fondamento del proprio valore per chi rifiuti tali presupposti. 

Tuttavia, ogni teologia aggiunge alcuni presupposti specifici 



MAX WEBER 713 



per il proprio lavoro e quindi per la giustificazione della pro- 

pria esistenza. In diverso senso e con diversa portata. Per ogni 

teologia, per esempio anche per quella induistica, vige il presup- 

posto che il mondo deve avere un senso; e la questione da 

risolvere è la seguente: come bisogna interpretarlo, perché ciò 

possa esser concepito? In modo del tutto simile alla teoria 

della conoscenza di Kant, la quale muoveva dal presupposto 

che «c'è una verità scientifica, ed essa vale » e quindi si do- 

mandava: in virtù di quali condizioni del pensiero ciò è possibi- 

le (in modo dotato di senso)? Oppure al modo degli estetici 

moderni i quali (esplicitamente — come per esempio Georg 

von Lukics!” — oppure di fatto) muovono dal presupposto 

che « vi sono opere d’arte » e si domandano: come ciò è possibi- 

le (in modo dotato di senso)? Tuttavia, le teologie non si 

accontentano di regola di quel presupposto (appartenente essen- 

zialmente alla filosofia della religione); esse muovono di rego- 

la dal presupposto ancor più remoto per cui determinate « rive- 

lazioni» devono essere assolutamente credute in quanto fatti 

che rivestono un’importanza per la salvezza — come tali, cioè, 

che soli rendono possibile una condotta nella vita dotata di 

senso — e per cui determinati modi di essere e di agire possie- 

dono la qualità della santità, ossia costituiscono una condotta 

di vita dotata di senso religioso o sono elementi di questa. La 

domanda che si pone la teologia è allora di nuovo: come 

possono essere interpretati in modo dotato di senso, nell’am- 

bito di un'immagine complessiva del cosmo, questi presupposti 

che vanno accettati in modo assoluto? Quei presupposti sì trova- 

no per la teologia al di là di ciò che è «scienza». Essi non 

sono un «sapere» nel senso corrente, bensì un « possedere ». 

Non possono esser sostituiti — la fede o gli altri stati di grazia 

— da nessuna teologia, per chi non li « possieda ». Meno che 

mai, poi, da un’altra scienza. Anzi, in ogni teologia « positi- 

va » il credente giunge al punto dov'è valida la massima agosti- 

niana: credo non quod, sed quia absurdum est. La capacità di 

compiere questo estremo « sacrificio dell’intelletto » costituisce 

il carattere decisivo dell’uomo che appartiene a una religione 



10. Weber si riferisce qui ai primi volumi di Lukics, Die Seele und die Formen 

(1911) e Die Thcorie des Romans (1916). 



714 MAX WEBER 



positiva. E così stando le cose, è chiaro che, ad onta (o piutto- 

sto in conseguenza) della teologia (che svela questo stato di 

cose), la tensione tra la sfera di valore della «scienza» e 

quella della salvezza religiosa è insuperabile. 


Il «sacrificio dell'intelletto» lo compie, com'è naturale, il 

discepolo al profeta e il credente alla chiesa. Ma non è ancora 

mai sorta una nuova profezia — riprendo qui di proposito 

questa immagine che ha urtato molte suscettibilità — semplice- 

mente per il fatto che molti intellettuali moderni abbiano senti- 

to il bisogno di arredare, per così dire, la loro anima con 

oggetti antichi garantiti come autentici, e si siano ricordati in 

quest'occasione che tra questi vi è anche la religione, che essi 

certamente non possiedono, ma che sostituiscono con una spe- 

cie di cappella privata addobbata come per gioco con immagini 

sacre di tutti i paesi, oppure con ogni sorta di esperienze vissu- 

te alle quali conferiscono la dignità di un patrimonio mistico 

di salvezza e che vanno a vendere in piazza. Tutto ciò è 

semplicemente ciarlataneria o auto-illusione. Ma non è davvero 

una ciarlataneria, bensì qualcosa di assai serio e sincero — 

quantunque non esente, talvolta, da qualche fraintendimento 

del suo stesso significato — il fatto che alcune di quelle comuni- 

tà di giovani, sorte nel silenzio di questi ultimi anni, diano 

alle loro relazioni reciproche il senso di un legame religioso, 

cosmico o mistico. È vero che ogni atto di genuina fratellanza 

può connettersi con la consapevolezza che con ciò viene in 

certo qual modo accumulato in un dominio sovra-personale 

qualcosa che non andrà perduto; ma altrettanto mi sembra 

dubbio che la dignità delle relazioni puramente umane tra i 

membri di una comunità venga elevata attraverso siffatte inter- 

pretazioni religiose. — Tuttavia, questo non rientra più nel 

nostro tema. 


È il destino dell’epoca nostra, con la sua caratteristica razio- 

nalizzazione e intellettualizzazione, e soprattutto col suo disin- 

cantamento del mondo, che proprio i valori ultimi e più subli- 

mi siano diventati estranei al gran pubblico per rifugiarsi nel 

regno extra-mondano della vita mistica o nella fraternità di 

relazioni immediate tra gli individui. Non è accidentale che la 

nostra arte migliore sia intima e non monumentale, e che oggi 



MAX WEBER 715 



soltanto in seno alle più ristrette comunità, nel rapporto da 

uomo a uomo, nel piazissimo, palpiti quell’indefinibile che un 

tempo pervadeva e rinsaldava come un soffio profetico e una 

fiamma impetuosa le grandi comunità. Proviamoci a forzare e 

a «inventare» un senso monumentale dell’arte, ed ecco na- 

scere un pietoso aborto come quello dei numerosi monumenti 

commemorativi degli ultimi vent'anni. Qualcosa di simile si 

riproduce nella sfera interiore, con effetti ancor più deleteri, se 

si cerca di escogitare nuove formazioni religiose senza una nuo- 

va genuina profezia. E la profezia formulata dalla cattedra 

potrà forse dar vita a sette fanatiche, mai però a un'autentica 

comunità. A chi non sia in grado di affrontare virilmente 

questo destino della nostra epoca bisogna consigliare di torna- 

re in silenzio, senza la consueta conversione pubblicitaria, ma 

schiettamente e semplicemente, nelle braccia delle antiche chie- 

se, largamente e misericordiosamente aperte. Esse non gli ren- 

dono il passo difficile. Comunque, egli dovrà in qualche modo 

compiere — è inevitabile — il « sacrificio dell’intelletto ». Non 

glielo rimprovereremo, se egli ne sarà realmente capace. Infatti 

un simile sacrificio dell’intelletto in favore di un’incondiziona- 

ta dedizione religiosa è pur sempre qualcosa di moralmente 

diverso da quel modo di evitare la semplice probità intellettua- 

le che si verifica quando, non avendo il coraggio di rendersi 

chiaramente conto della propria posizione ultima, si allevia que- 

sto dovere con una debole relativizzazione. E lo considero an- 

che più rispettabile di quella profezia dalla cattedra che non 

ha capito che entro le pareti dell’aula di lezione nessun'altra 

virtù ha valore al di fuori della semplice probità intellettuale. 

Questa ci impone di mettere in chiaro che oggi tutti coloro i 

quali vivono nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori si 

trovano nella stessa situazione descritta nel bellissimo canto del- 

la sentinella idumèa durante il periodo dell’esilio, che si legge 

nell’oracolo di Isaia: «Una voce chiama da Seir in Edom: 

sentinella quanto durerà ancora la notte? E la sentinella ri- 

sponde: verrà il mattino e anche la notte; se volete domandare, 

tornate un’altra volta » !. Il popolo, al quale veniva data questa 

risposta, ha domandato e atteso ben più di due millenni, e sap- 



Ir. Isaia, cap. 21, 11-12. 



716 MAX WEBER 



piamo il suo tragico destino. Ne vogliamo trarre insegnamento 

che anelare e attendere non basta, e ci comporteremo in altra 

maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al « com- 

pito quotidiano» — nella nostra qualità di uomini e nella 

nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile quando 

ognuno abbia trovato e segua il démone che tiene i fili della 

sua Vita. 



OSWALD SPENGLER 



NOTA BIOGRAFICA 



Oswald Spengler nacque a Blankenburg, ai confini della Sassonia, il 

29 maggio 1880, figlio di un ingegnere minerario e di una madre con 

forti inclinazioni artistiche. Dopo aver compiuto gli studi liceali a 

Halle, frequentò le università di Monaco, di Berlino e di Halle, seguen- 

do corsi di matematica, di scienze naturali e poi di filosofia. Nel 1904 

conseguì il dottorato a Halle, con una dissertazione sul pensiero di 

Eraclito (Halle, 1904). Dal 1908 al 1Igri insegnò al liceo di Amburgo; 

dopo di che si trasferì a Monaco, vivendo come scrittore indipendente. 

Durante gli anni della prima guerra mondiale Spengler si dedica alla 

stesura della sua opera maggiore, Der Untergang des Abendlandes, di 

cui il primo volume compare nel 1918, al termine del conflitto, e il 

secondo nel 1922 (Miinchen, 1918-22; tr. it. Milano, 1957). Il titolo di 

quest'opera — che incontra subito un enorme successo — esprime la sua 

connessione con il clima politico della sconfitta tedesca: il crollo della 

Germania si traduce nel « tramonto » della civiltà occidentale, interpreta- 

to come il necessario momento di decadenza a cui ogni cultura è 

condannata. 


I presupposti filosofici generali dell’opera di Spengler possono essere 

rintracciati per un verso nel pensiero di Dilthey — sviluppato in senso 

relativistico — e per l’altro verso in Goethe e in Nietzsche, i due 

« autori » di Spengler. Da Dilthey deriva la rivendicazione di una via di 

accesso alla storia che sia irriducibile al metodo della scienza naturale, 

così come deriva l'affermazione del carattere storico di tutte le manifesta- 

zioni del mondo umano. Spengler non soltanto accoglie l’antitesi tra due 

modi di considerare la realtà, ma dà alla distinzione tra natura e storia 

un rilievo ontologico; d'altra parte egli si richiama alla tesi diltheyana 

dell’auto-centralità delle epoche storiche, applicandola alle culture e facen- 

do così di ogni cultura un organismo chiuso in se stesso, privo di 

rapporto con le altre culture. Da Goethe deriva invece la prospettiva 

biologica in base alla quale la storia viene interpretata come un processo 

organico, contrapposto all’uniformità delle vicende naturali nel cui ambi- 

to vale il principio di causalità: la «natura vivente» di Goethe si 

trasforma nel « mondo come storia », definito in antitesi al « mondo 

come natura», e la sua logica è intesa come una logica organica, 



720 OSWALD SPENGLER 



eterogenea alla logica meccanica della natura. Da Nietzsche, infine, 

deriva lo schema ciclico di interpretazione della storia, per cui il proces- 

so di ogni cultura appare come la ripetizione di un processo sempre 

eguale: la dottrina dell'eterno ritorno viene tradotta nell’affermazione 

dell'identità del ciclo biologico degli organismi elementari della storia, 

cioè delle culture. 


Queste diverse componenti confluiscono — in una mescolanza talvol- 

ta eclettica — a costituire l'impianto teorico di Der Untergang des 

Abendlandes. In base ad esse Spengler si propone di dimostrare che ogni 

cultura, essendo un organismo biologico, nasce, si sviluppa, decade e 

muore, secondo la legge ineluttabile della sua specie: perciò ogni cultu- 

ra — anche quella dell'Occidente — è destinata, a un certo momento, a 

perire. E nulla valgono gli sforzi degli uomini rivolti a sottrarla a 

questa sorte, poiché la logica organica della storia incarna il volere del 

destino, al quale l’uomo non può che sottomettersi. Però, se il ciclo 

evolutivo è comune a tutte le culture, diverso è il patrimonio biologico 

di ognuna: ogni cultura dà origine a un proprio mondo simbolico, le 

cui manifestazioni valgono soltanto all’interno di essa e non sono parteci- 

pabili dai membri delle altre culture. Da ciò la conclusione relativistica 

a cui Spengler perviene: tra le culture non è possibile alcuna comunica- 

zione, poiché non vi sono valori comuni tra di esse. Ogni cultura crea i 

propri valori, che sono del tutto diversi da quelli delle altre culture. In 

questo quadro la civiltà occidentale si presenta come una cultura partico- 

lare ormai pervenuta al proprio tramonto, e inarrestabilmente avviata 

alla fine. Analizzando i fenomeni politico-economici che caratterizzano il 

mondo contemporaneo — l'affermazione della classe borghese, il prevale- 

re dell'economia sulla politica, la dernocrazia, l’organizzazione capitalisti- 

ca — Spengler cerca di porre in luce i sintomi di questa decadenza, in 

virtù della quale la civiltà occidentale si presenta non più come una 

« cultura » ma come una «civiltà in declino », ossia come una Zivilisa- 

tion. Il tentativo di costruire una morfologia della storia universale 

(come Spengler definisce la sua impresa filosofica) mette così capo alla 

profezia, in chiave pessimistica, dell'imminente conclusione del ciclo 

storico della civiltà occidentale. 


Benché oggetto di numerose critiche e confutazioni, l’opera di Spen- 

gler ebbe una larga accoglienza positiva, e le sue idee contribuirono in 

misura rilevante a preparare quel clima ideologico da cui trarrà origine 

e alimento il nazismo. Nei volumi successivi a Der Untergang des 

Abendlandes — da Preussentum und Sozialismus (Miinchen, 1919) a 

Politische Pflichten der deutschen ]ugend (Miinchen, 1924) e a Neubau 

des deutschen Reiches (Miinchen, 1924), e poi ancora da Der Mensch 

und die Technik (Miinchen, 1931; tr. it. Milano, 1931) a Jahre der 

Entscheidung (Miinchen, 1933; tr. it. Milano, 1934) — Spengler conduce 



OSWALD SPENGLER 721 



un'aspra polemica contro il liberalismo, il regime parlamentare, i partiti 

politici, affermando la necessità di restaurare l’autorità dello stato e di 

dar vita a un socialismo coerente con la tradizione prussiana. È pur vero 

che egli non aderì mai al nazismo; ma l'opposizione alla repubblica di 

Weimar e l’esaltazione del primato della politica, della superiorità della 

razza bianca, del cesarismo, ne fanno uno dei padri ideologici del 

regime. Negli ultimi anni Spengler vive ritirato, ritornando sui temi 

della morfologia della storia universale e dedicando una particolare 

attenzione al passaggio dalla preistoria alla storia e all’origine delle 

culture: questi scritti, rimasti inediti per lungo tempo, sono stati pubbli- 

cati soltanto in epoca recente (Urfragen, Miinchen, 1965; tr. it. Milano, 

1971; e Friihzeit der Weltgeschichte, Minchen, 1966). Muore a Monaco 

l'8 maggio 1936. 



46. STORICISMO TEDESCO. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Di Der Untergang des Abendlandes esiste una recente riedizione in 

un volume, Miinchen, 1963, 19697, nonché un’edizione economica nei 

« Deutsche Taschenbiicher », 1973; anche Der Mensch und die Technik 

è stato ristampato nel 1971. Gli altri scritti del periodo 1919-24 sono stati 

raccolti nel volume Politische Schriften, Miinchen, 1933. Ai volumi già 

menzionati si devono aggiungere le Reden und Aufsitze (a cura di H. 

Kornhardt), Minchen, 1937, 1938 ?, 1951° — che comprende anche Preus- 

sentum und Sozialismus — e i Gedanken (a cura di H. Kornhardt), 

Miinchen, 1941. L'epistolario di Spengler è stato pubblicato col titolo 

Briefe 1913-1936 (a cura di A. M. Koktanek, in collaborazione con M. 

Schròter), Minchen, 1963. 



Sul dibattito a cui diede origine la pubblicazione di Der Untergang 

des Abendlandes riferisce ampiamente M. ScHnòrER, Die Streit um Spen- 

gler, Miinchen, 1922, ora ristampato come prima parte di Metaphysik des 

Untergangs (Eine kulturkritische Studie tiber Oswald Spengler), Miin- 

chen, 1949. 



Tra la vasta letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di Spen- 

gler segnaliamo gli studi seguenti: 



« Logos », IX, 1920-21, n. 2 (fascicolo speciale dedicato a Spengler), con 

articoli di K. JoéL, E. ScHwartz, W. SpreceLBere, L. Curtius, E. 

Frank, E. Mezcer. 



T. L. Harins, Die Struktur der Weltgeschichte, Tibingen, 1921. 

A. Messer, Oswald Spengler als Philosoph, Stuttgart, 1922. 

A. Fauconnet, Oswald Spengler, Paris, 1925. 



R. G. Corrinewoon, Oswald Spengler and the Theory of Historical Cy- 

cles, « Antiquity: a Quaterly Review of Archaeology », I, 1927, pp. 

311-25 € 435-46. 


V. Bronio-BroccHieri, Spengler. La dottrina politica del pangermanesi- 

mo post-bellico, Milano, 1928. 



tr 



A. 



G. 



OSWALD SPENGLER 723 



. Fenvre, De Spengler à Toynbee: quelques philosophies opportunistes 



de l’histoire, « Revue de métaphysique et de morale », XLIII, 1936, 

pp. 573-602. 



. Giusso, Spengler e la dottrina degli universi formali, Napoli, 1936. 



. Gaune, Spengler und die Romantik, Berlin, 1937. 



Scunoter, Mesaphysik des Untergangs (Eine kulturkritische Studie 

ber Oswald Spengler), Miinchen, 1949. 



S. Hucnes, Oswald Spengler: a Critical Estimate, New York, 1952. 



. Barrzer, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Gegenwari, Neheim- 



Hiisten, 1959. 



. Stutz, Oswald Spengler als politischer Denker, Bern, 1959. 

A. 



Waismann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce, 

Buenos Aires, 1960, parte I. 



Barrzer, Philosoph oder Prophet? Oswald Spenglers Vermichtnis und 

Voraussagen, Neheim-Hiisten, 1962. 



Mitter, Oswald Spenglers Bedeutung fiir die Geschichtswissenschaft, 

« Zeitschrift fir philosophische Forschung», XVII, 1963, pp. 483-98. 



Spengler-Studien: Festgabe fiir Manfred Schròter zum 85. Geburtstag (a 



A. 



cura di A. M. Koxraner), Miinchen, 1965. 



M. Koxraner, Oswald Spengler in seiner Zeit, Miùnchen, 1968. 



Un elenco completo degli scritti di Spengler è dato da A. M. Korra- 



NEK, Oswald Spengler in seiner Zeit cit., pp. 473-80. Manca invece una 

bibliografia aggiornata degli scritti su Spengler: si vedano però le indi- 

cazioni contenute nei volumi sopra menzionati di M. ScHRòTER e di H. S. 

HucHs. 



IL PROBLEMA DELLA STORIA UNIVERSALE: 

FISIOGNOMICA E SISTEMATICA * 



È ora finalmente possibile compiere il passo decisivo e ab- 

bozzare un'immagine della storia non più dipendente dalla po- 

sizione accidentale dell’osservatore in un determinato « presen- 

te» — il suo presente — e dalla sua qualità di membro interes- 

sato di una particolare cultura, le cui tendenze religiose, spiri- 

tuali, politiche, sociali lo inducono a ordinare il materiale stori- 

co sulla base di una prospettiva temporale e spazialmente 

delimitata, e a imporre quindi a ciò che è accaduto una forma 

arbitraria e superficiale, ad esso intimamente estranea. 


Ciò che finora mancava era la distanza dall’oggetto. Nei 

confronti della natura essa era stata acquisita da lungo tempo; 

ma qui era anche più facile acquisirla. Il fisico traccia il qua- 

dro meccanico-causale del suo mondo come cosa ovvia, come se 

egli non esistesse affatto. 


La stessa cosa è però possibile anche nel mondo formale 

della storia. Fino ad oggi noi non lo sapevamo. Caratteristico 

degli storici moderni è l'orgoglio dell'oggettività; ma con ciò 

essi tradiscono quanto poco siano consapevoli dei propri pre- 

giudizi. Perciò si può forse dire (e lo si farà in avvenire) che è 

fino ad oggi mancata una reale considerazione della storia di 

stile faustiano, ossia una considerazione che possegga la di- 



* Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, 

cap. I: Das Problem der Weltgeschichte, sezione 1: Physiognomik und Systematik, 

Miinchen, C. H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, 1918-1922, ed. definitiva 1923, vol. I, 

pp. 125-151 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile 

concessione della Casa Editrice Longanesi). 



726 OSWALD SPENGLER 



stanza sufficiente per osservare, nell'immagine complessiva della 

storia universale, anche il presente — che è tale solo in rapporto 

a una delle innumerevoli generazioni umane — come qualcosa 

di infinitamente distante ed estraneo, come un lasso di tempo 

che non ha un peso maggiore di tutti gli altri, senza il criterio 

falsificante di qualche ideale, senza il riferimento a se stessi, 

senza desiderio, preoccupazione e intima personale partecipa- 

zione, come li pretende la vita pratica; una distanza, quindi, 

che consenta — per dirla con Nietzsche, che però non la posse- 

deva a sufficienza — di considerare il fatto «uomo» da una 

lontananza immensa; un colpo d’occhio sulle culture, anche 

sulla propria, come quello che si dà sulla serie di vette di una 

catena di montagne all’orizzonte. 


Per far questo bisognava, ancora una volta, portare a compi- 

mento un'impresa simile a quella di Copernico, una liberazio- 

ne dall’apparenza in nome dello spazio infinito come quella 

che da tempo lo spirito occidentale aveva compiuto nei confron- 

ti della natura, allorché passò dal sisterna tolemaico del mondo 

al sistema che oggi è il solo per lui valido, eliminando in tal 

modo come formalmente determinante la posizione accidentale 

dell'osservatore su un particolare pianeta. 


La storia universale è suscettibile, e ha bisogno, del medesi- 

mo distacco da una posizione di osservazione accidentale — 

dall’« età moderna ». Certo, il secolo x1x ci appare infinitamen- 

te più ricco e importante che non, per esempio, il secolo xIx 

avanti Cristo; ma anche la Luna ci sembra più grande di 

Giove e di Saturno. Da lungo tempo il fisico si è liberato dal 

pregiudizio della distanza relativa; non così lo storico. Noi ci 

permettiamo di designare la cultura dei Greci come antichità 

in rapporto alla nostra età moderna. Lo era forse anche per i 

raffinati Egizi alla corte del grande Thutmosi!, che si trovava- 

no al culmine del loro sviluppo storico — un millennio prima 

di Omero? Per noi gli avvenimenti che si sono svolti dal 1500 al 

1800 sul terreno dell'Europa occidentale riempiono il terzo più 

importante « della » storia universale. Per lo storico cinese che 



1. Thutmosi (o Tutmosi) III, faraone della Diciottesima dinastia vissuto intorno 

al 1600 a. C., sotto il cui regno la potenza egiziana raggiunse il suo culmine, esten- 

dendosi fino alla Siria e a Cipro. 



OSWALD SPENGLER 727] 



guarda indietro ai quattromila anni di storia cinese e giudica in 


base ad essa, non sono che un breve e poco significativo episo- 


dio, neppure lontanamente così importante come i secoli della 

10, Depp 


dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) che fanno epoca nella sua 


«storia universale ». 


L'intento delle pagine che seguono è di svincolare la storia 

dal pregiudizio personale dell’osservatore, che nel nostro caso 

la riduce essenzialmente alla storia di un frammento del passa- 

to, assumendo come fine ciò che è accidentalmente presente 


’ P 

nell'Europa occidentale, e come criteri di ciò che è stato rag- 

giunto e dev'essere raggiunto gli ideali e gli interessi validi in 

questo particolare momento. 



II 



Natura e storia: in questo modo si contrappongono tra 

loro, agli occhi di ogni uomo, le due possibilità estreme di 

ordinare in un'immagine del mondo la realtà circostante. Una 

realtà è natura in quanto subordina ogni divenire al divenuto, 

è storia in quanto subordina ogni divenuto al divenire. Una 

realtà può essere vista nella sua forma «ricordata » — così 

sorge il mondo di Platone, di Rembrandt, di Goethe, di Beetho- 

ven — oppure può essere concepita criticamente nella sua esi- 

stenza sensibile presente — ed ecco i mondi di Parmenide e di 

Descartes, di Kant e di Newton. Conoscere, nel senso rigoroso 

del termine, è quell’atto dell'esperienza vissuta il cui risultato 

compiuto si chiama « natura». Il conosciuto e la natura sono 

identici. Ogni conosciuto è equivalente — come dimostra il 

simbolo del numero matematico — a ciò che è meccanicamente 

limitato, a ciò che è esatto una volta per sempre, a ciò che è 

posto. La natura è il complesso di ciò che è necessario in virtà 

di leggi: vi sono soltanto leggi maturali. Nessun fisico che sia 

consapevole della propria funzione vorrà procedere al di là di 

questo limite. Il suo compito è quello di determinare la totali- 

tà, il sistema ben ordinato di tutte le leggi che si possono 

ritrovare nell'immagine della su4 natura e, più precisamente, 

che rappresentano in maniera esauriente e senza residuo l’im- 

magine della sua natura. 



728 OSWALD SPENGLER 



D'altra parte l'intuire — e rimando al detto di Goethe: 

«l’intuire va ben distinto dal guardare »? — è quell’atto dell’e- 

sperienza vissuta che, in quanto si compie, è esso medesimo 

storia. Ciò che viene immediatamente vissuto è l’accaduto, 

è storia. 


Ogni accadere è singolare e irripetibile. Esso reca in sé la 

caratteristica della direzione (del «tempo»), dell’irreversibili 

tà. L’accadere, contrapposto come ormai divenuto al divenire, 

come realtà irrigidita alla realtà vivente, appartiene irrevocabil- 

mente al passato: il sentimento di ciò è l'angoscia cosmica. 

Ogni cosa conosciuta è però atemporale, né passata né futura, 

bensì semplicemente «esistente » e perciò di validità permanen- 

te. Questa è la struttura interna di ciò che è oggetto di leggi 

naturali. La legge — ciò che è posto — è anti-storica; essa 

esclude il caso. Le leggi naturali sono forme di una necessità 

priva di eccezione, e quindi inorganica. È chiaro il motivo per 

cui la matematica, come ordine quantitativo del divenuto, si 

riferisce sempre alle leggi e alla causalità, e soltanto ad esse. 

Il divenire « non ha numero ». Soltanto ciò che è privo di vita 

— e il vivente soltanto se si prescinde dal suo essere vivente — 

può venir contato, misurato, analizzato. Il puro divenire, la 

vita, è in questo senso illimitato. Esso si pone oltre l'ambito 

della causa e dell’effetto, della legge e della misura. Nessuna 

profonda e genuina ricerca storica va in cerca della legalità 

causale; in caso diverso non ha compreso la sua essenza più 

propria. 


E tuttavia la storia osservata non è puro divenire; essa è 

un'immagine, una forma del mondo che irradia dall’essere 

desto dell'osservatore, e nella quale il divenire domina il dive- 

nuto. È sulla presenza in essa del divenuto, e quindi su una 

deficienza, che poggia la possibilità di ricavarne scientificamen- 

te qualcosa; e quanto maggiore è tale presenza, tanto più essa 

appare meccanica, intellettualistica, causale. Anche la « natura 

vivente » di Goethe — un'immagine del mondo completamente 

estranea alla matematica — conteneva tanto di morto e di 

rigido da poterne trattare scientificamente almeno la facciata. 

Se questo contenuto diminuisce molto, se essa è prossima al 



2. Goerne, Lettera a Wilhelm von Humboldt del 3 dicembre 1795. 



OSWALD SPENGLER 729 



puro divenire, allora l’intuire è divenuto un puro Erlebnis che 

consente soltanto modi di elaborazione artistica. A ciò che vide 

con il proprio occhio spirituale come destino dei mondi, Dante 

non avrebbe potuto dare forma scientifica; neppure Goethe 

avrebbe potuto darla a ciò che scorse nei grandi attimi del suo 

abbozzo faustiano; e altrettanto poco Plotino e Giordano Bru- 

no alle loro visioni, che non sono state il risultato di ricerche. 

Qui sta la causa più importante del conflitto concernente la 

forma intima della storia. Di fronte allo stesso oggetto, allo 

stesso materiale di fatti, ogni osservatore ha, secondo la sua 

disposizione, una diversa impressione della totalità, inafferrabi- 

le e incomunicabile, che sta a base del suo giudizio e gli 

conferisce un colore personale. Il grado del divenuto sarà sem- 

pre diverso nella visione di due uomini: motivo sufficiente per 

cui essi non possono mai intendersi sul compito e sul metodo. 

Ognuno dà all’altro la colpa per la mancanza di chiarezza di 

pensiero, e tuttavia ciò che è designato con questa espressione, 

e sulla cui struttura nessuno ha potere, non è qualcosa di 

peggio ma una diversità necessaria. La stessa cosa vale per 

tutta la scienza naturale. 


Ma si tenga ben presente che pretendere di trattare scientifi- 

camente la storia è, in ultima istanza, sempre qualcosa di 

contraddittorio. La scienza genuina si estende fin dove hanno 

validità i concetti di vero e di falso: ciò vale per la matemati- 

ca, e vale pure per la disciplina di raccolta, di ordinamento e 

di esame del materiale, che è preliminare rispetto alla storia. 

Ma lo sguardo storico vero e proprio, che procede soltanto di 

qui, appartiene al regno dei significati, in cui i termini decisi- 

vi non sono il vero e il falso, ma il superficiale e il profondo. 

Il vero fisico non è profondo, ma « acuto ». Solamente quando 

abbandona il campo delle ipotesi di lavoro e sfiora le cose 

supreme, può essere profondo; ma allora è diventato ormai 

anche lui un metafisico. La natura dev'essere considerata scienti- 

ficamente, mentre la storia deve essere oggetto di poesia. Il 

vecchio Leopold von Ranke avrebbe detto, una volta, che il 

Quentin Durward di Scott? rappresenta la vera storiografia. E 



3. Walter Scott (1771-1832), pocta e romanziere scozzese, autore di famosi ro- 

manzi storici che ebbero larga influenza anche sugli storici romantici: il Quentin 

Durward, qui citato, è del 1823. 



730 OSWALD SPENGLER 



le cose stanno proprio così; una buona opera storica ha il suo 

vantaggio nel fatto che il lettore può diventare il suo proprio 

Walter Scott. 


D'altra parte, dove dovrebbe dominare il regno dei numeri 

e del sapere esatto, Goethe aveva chiamato «natura vivente » 

proprio ciò che era un'intuizione immediata del puro divenire 

e del formarsi, e che quindi era storia nel senso qui definito. Il 

suo mondo era anzitutto un organismo, un essere vivente; e si 

comprende che le sue ricerche, anche quando recano esterior- 

mente un’impronta fisica, non hanno come scopo in sé numeri 

né leggi né una causalità fissata in formule, e in generale 

nessun’analisi, ma sono piuttosto morfologia nel senso più alto 

ed evitano perciò il mezzo specificamente occidentale (e nien- 

t'affatto antico) di ogni considerazione causale, l'esperimento 

misuratore, senza però farne mai lamentare l’assenza. La sua 

considerazione della superficie terrestre è sempre geologia, mai 

mineralogia (che egli chiamava scienza di ciò che è morto). 


Diciamolo ancora una volta: non esiste nessun confine preci- 

so tra i due modi di concepire il mondo. Se è vero che dive- 

nire e divenuto sono antitetici, altrettanto sicuro è il fatto che 

essi sono presenti entrambi in ogni specie di intendere. Rivive 

la storia colui che intuisce entrambi i termini come divenienti e 

in via di compimento; conosce la natura chi li analizza come 

divenuti e compiuti. 


In ogni uomo, in ogni cultura, in ogni grado di cultura è 

presente una disposizione originaria, un’originaria inclina- 

zione e determinazione a preferire una delle due forme come 

ideale di comprensione del mondo. L’uomo dell’Occidente è in 

alto grado disposto storicamente *, mentre l’uomo antico lo fu 

in misura minima. Noi consideriamo tutto ciò che è dato in 

rapporto al passato e al futuro, l’antichità riconobbe come esi- 

stente soltanto il presente nella sua puntualità: il resto diventa- 



a. L’anti-storico come espressione di una decisa disposizione siste- 

matica dev'essere nettamente distinto da ciò che è astorico. L'inizio del 

quarto libro di Die Welt als Wille und Vorstellung di Schopenhauer ($ 53) 

è indicativo di un uomo che pensa in modo anti-storico, che cioè reprime, 

in base a fondamenti teoretici, l'elemento storico che è presente in lui 

e lo respinge contrapponendogli l’astorica natura ellenica che non lo 

possiede e non lo comprende. 



OSWALD SPENGLER 731 



va mito, In ogni nota della nostra musica, da Palestrina‘ fino a 

Wagner, abbiamo davanti a noi anche un simbolo del divenire; 

i Greci avevano in ogni loro statua un'immagine del puro 

presente. Il ritmo di un corpo poggia sul rapporto simultaneo 

delle parti, il ritmo di una fuga sul corso temporale. 



III 



In questo modo i principi della forma e della legge ci si 

presentano come i due elementi fondamentali di ogni configura- 

zione del mondo. Quanto più decisamente un’immagine del 

mondo reca in sé i tratti della natura, tanto più illimita- 

tamente valgono in essa la legge e il mumero. Quanto più 

puramente un mondo viene intuito come un esterno diveniente, 

tanto più l’inafferrabile ricchezza del suo processo di formazio- 

ne è estranea al numero. «La forma è qualcosa di mobile, di 

diveniente, di transeunte. La dottrina della trasformazione. La 

dottrina della metamorfosi è la chiave per penetrare tutti i 

segni della natura» — si dice in un’annotazione postuma di 

Goethe, Così la celebre « fantasia sensibile esatta » di Goethe, 

che lascia il vivente agire su di sé*, si distingue già sotto il 

profilo metodologico dal procedimento esatto e mortifero della 

fisica moderna. Il residuo dell’aliro elemento — che si troverà 

sempre — si manifesta nella scienza naturale rigorosa sotto 

forma di scorie e di ipotesi inevitabili, il cui contenuto 

intuitivo riempie e sostiene tutto ciò che è rigidamente numera- 

bile e aderente a formule; e nella ricerca storica si manifesta 

come cronologia, vale a dire come una rete di numeri intima- 

mente del tutto estranea al divenire (e qui mai tuttavia percepi- 



a. «Vi sono fenomeni originari, che noi non dobbiamo turbare e 

pregiudicare nella loro divina semplicità » (GoetHE, colloquio con Falk 

del 25 gennaio 1813, citato da J.D. Fark, Goethe aus naherm persòn- 

lichem Umgange dargestellet, Leipzig, 1832 [ed. Artemis, vol. XXII, 

p. 680]). 



4. Giovanni Pierluigi da Palestrina (1526-1594), compositore italiano, autore di 

celebri messe, di magnificat, di inni, di mottetti, di lamentazioni ecc., è la principale 

figura della musica sacra del Cinquecento. 


S. GortHe, Fragmente zur vergleichenden Anatomie (morfologia), in Natur 

wissenschafdlichen Schriften, Zurich, 1952, vol. II, p. 415. 



732 OSWALD SPENGLER 



ta nella sua estraneità), che avvolge e penetra il mondo delle 

forme storiche come uno scheletro di date o come statistica, 

senza che si possa parlare di matematica. Il numero cronologi- 

co designa ciò che è reale singolarmente, il numero matematico 

designa ciò che è costantemente possibile. Il primo delimita 

forme ed elabora per l’occhio del comprendere i contorni di 

epoche e di fatti; è al servizio della storia. Il secondo è esso 

stesso la legge che deve stabilire il termine e il fine della 

ricerca. Il numero cronologico è preso in prestito, come mezzo 

di una scienza preliminare, dalla scienza per eccellenza, cioè 

dalla matematica; nel suo uso si prescinde tuttavia da questa 

qualità. Si colga la differenza tra i due simboli seguenti: 

12 x 8 = 96 e 18 ottobre 1813 °. Qui l’uso del numero si distin- 

gue completamente, proprio come l’uso linguistico nella prosa 

e nella poesia. 


Ancora un’altra cosa occorre qui osservare. Poiché a base 

del divenuto sta sempre un divenire e la storia rappresenta un 

ordinamento dell'immagine del mondo nel senso del divenire, 

la storia è la forma del mondo originario, mentre la natura — 

nel senso di un meccanismo elaborato del mondo — è una 

forma successiva, che può essere realmente realizzata soltanto 

da parte dell’uomo appartenente a culture mature. Di fatto 

l’ambiente oscuro e animistico dell'umanità primitiva, di cui 

ancor oggi testimoniano i suoi usi e i suoi miti religiosi, quel 

mondo completamente organico e pieno di arbitrio, di demoni 

ostili e di potenze capricciose, costituisce una totalità vivente, 

inafferrabile, enigmaticamente fluttuante e imprevedibile. Si 

può anche chiamarlo natura, ma esso non è la nostra natura, 

non è il riflesso irrigidito di uno spirito conoscente. Questo 

mondo originario risuona ancora talvolta, come un frammento 

di umanità da lungo tempo passata, soltanto nell’anima infanti- 

le e nei grandi artisti, in mezzo a una « natura» rigorosa che 

lo spirito cittadino delle culture mature ha costruito con tiranni- 

ca energia intorno al singolo. Qui sta il motivo della tensione 

irritata tra intuizione scientifica (« moderna ») e intuizione arti- 

stica (« non pratica ») del mondo, nota a ogni epoca tarda. L’uo- 



6. Data della battaglia di Lipsia, in cui Napolcone fu sconfitto dal generale prus- 

siano Blicher. 



OSWALD SPENGLER 733 



mo aderente ai fatti e il poeta non perverranno mai a intendersi 

reciprocamente. Qui dev'essere cercato anche il motivo per cui 

ogni ricerca storica che aspiri alla scientificità, mentre do- 

vrebbe sempre recare in sé qualcosa della fanciullezza e del 

sogno, qualcosa di goethiano, sfiora il rischio di diventare una 

mera fisica della vita pubblica — cioè una storia « materialisti- 

ca », come si è essa stessa chiamata senza alcun sospetto. 


« Natura » nel senso esatto del termine è il modo più raro, 

limitato agli uomini delle grandi città di culture più tarde, il 

modo maturo e forse già senile di possedere la realtà; la storia 

è invece il modo ingenuo e giovanile, e anche più inconsapevo- 

le, proprio di tutta l'umanità. Così almeno la natura numerabi- 

le, priva di mistero, analizzata e analizzabile di Aristotele e di 

Kant, dei Sofisti e dei darwinisti, della fisica e della chimica 

moderna si contrappone a quella natura immediatamente vissu- 

ta, illimitata, sentita di Omero e dell’E444”, dell’uomo dorico 

e di quello gotico. "Trascurare questo vorrebbe dire disconoscere 

l’essenza di ogni considerazione della storia. Essa è la natura 

propriamente zazurale, mentre la natura esatta, ordinata mecca- 

nicamente, è una concezione artificiale dell'anima di fronte al 

suo mondo. Ciononostante — o proprio per questo — la scien- 

za naturale è facile per l'uomo moderno, mentre la considera- 

zione della storia gli è difficile. 


Le spinte del pensiero meccanicistico, che procede completa- 

mente sulla base della delimitazione matematica, della distinzio- 

ne logica, della legge e della causalità, compaiono assai per 

tempo. Si trovano nei primi secoli di tutte le culture, per 

quanto ancora deboli, isolate, ancora tendenti a svanire nella 

ricchezza della coscienza religiosa del mondo; basti citare il 

nome di Ruggero Bacone®. Presto esse assumono un carattere 

più rigoroso; non manca loro — come a tutto ciò che è conqui- 

sta spirituale e sottoposto alla minaccia della natura umana — 



7. Raccolta di canti mitologici ed epici, redatti in Islanda tra il secolo x e il se- 

colo xur, a cui fa seguito un trattato di arte poetica composto dall'islandese Snorri 

Sturluson: è la principale fonte di conoscenza dell’antica religione germanica, che si 

presenta tuttavia già in forma dottrinalmente elaborata. 


8. Ruggero Bacone (1214-1292?), filosofo inglese e monaco francescano, autore 

dell'Opus maius, dell'Opus minus, dell'Opus tertium e di vari altri scritti, è consi- 

derato il maggior rappresentante dell'orientamento empiristico nella Scolastica del 

secolo xuI. 



734 OSWALD SPENGLER 



l'aspetto tirannico ed esclusivistico. In modo non percepibile il 

regno di ciò che è espresso in concetti spaziali — infatti i 

concetti sono per loro essenza numeri, di costituzione puramen- 

te quantitativa — penetra il mondo esterno del singolo, produ- 

ce nelle, con e tra le semplici impressioni della vita sensibile 

una connessione meccanica di tipo causale e numerico, sottopo- 

nendo in ultimo la coscienza desta degli uomini civili delle 

grandi città — si tratti della Tebe egizia o di Babilonia, di 

Benares, di Alessandria o delle metropoli dell'Europa occidenta- 

le — a una costrizione continua da parte del pensiero fondato 

sulle leggi naturali. In tal modo nulla più si oppone al pregiu- 

dizio di ogni filosofia e di ogni scienza (giacché di un pregiudi- 

zio si tratta) secondo cui questa situazione è /o spirito uma- 

no e ciò che gli sta di fronte, l’immagine meccanicistica del 

mondo circostante, è il mondo. Logici come Aristotele e Kant 

hanno elevato questa visione a visione dominante, ma Platone 

e Goethe vi si oppongono. 



IV 



Il grande compito della conoscenza del mondo, che per 

l'uomo appartenente alle culture superiori è un bisogno, una 

specie di penetrazione della sua esistenza che egli crede dovuta 

a sé e ad essa — sia che il suo procedimento venga chiamato 

filosofia o scienza, sia che la sua affinità con la creazione artisti- 

ca e con l’intuizione della fede venga sentita con intima certez- 

za oppure venga contestata — è in ogni caso sicuramente il 

medesimo: quello di rappresentare nella sua purezza il linguag- 

gio formale dell'immagine del mondo che è determinato ante- 

riormente all'essere desto del singolo e che questi, finché non 

la pone a confronto con altre, deve considerare come «il» 

mondo. 


Tenendo conto della differenza tra natura e storia, questo 

compito deve essere duplice. L'una e l’altra parlano il proprio 

linguaggio formale, differente sotto ogni riguardo; in un’imma- 

gine del mondo non ben caratterizzata — come di regola avvie- 

ne — i due linguaggi possono sovrapporsi e confondersi, mai 

però congiungersi in un’unità intima. 



OSWALD SPENGLER 735 



Direzione e estensione sono le caratteristiche dominanti 

in virtù delle quali si distinguono l'impressione storica e 

quella naturalistica del mondo. L’uomo non è affatto in grado 

di lasciarle operare contemporaneamente nella loro azione for- 

mativa. Il termine «lontananza » ha un doppio senso indicati- 

vo: da un lato significa futuro, dall'altro distanza spaziale. Si 

osserverà che il materialista storico percepisce quasi di necessità 

il tempo come dimensione matematica. Per l'artista nato, al 

contrario — come dimostra la lirica di tutti i popoli — le 

lontananze panoramiche, le nuvole, l'orizzonte, il sole calante 

sono tutte impressioni che si legano irresistibilmente col senti- 

mento di qualcosa di là da venire. Il poeta greco nega il futuro 

e di conseguenza non vede, non canta tutto questo: dal mo- 

mento che appartiene del tutto al presente, appartiene an- 

che del tutto alla vicinanza. Lo scienziato naturale, l’uomo 

di intelletto produttivo in senso proprio — sia egli uno sperime- 

tatore come Faraday”, un teorico come Galilei o un calcolatore 

come Newton — trova nel suo mondo soltanto quantità prive 

di direzione che egli misura, vaglia e ordina. Soltanto ciò 

che è quantitativo sottostà alla formulazione numerica, è deter- 

minato in modo causale, può diventare concettualmente accessi- 

bile ed essere formulato in leggi. Con ciò sono esaurite le 

possibilità della pura conoscenza della natura. Tutte le leggi 

sono connessioni quantitative o — come si esprime il fisico — 

tutti i processi fisici si svolgono nello spazio. Senza modificare 

il dato di fatto, il fisico antico avrebbe corretto tale espressione 

nel senso dell’antico sentimento del mondo, negatore dello spa- 

zio, dicendo che tutti i processi «Hanzo luogo tra corpi». 


Tutto ciò che è quantitativo è estraneo alle impressioni 

storiche. Il suo organo è diverso. Il mondo come natura e il 

mondo come storia hanno i loro propri modi di apprendimen- 

to. Noi li conosciamo e li usiamo quotidianamente, senza però 

essere stati finora consapevoli della loro antitesi. Ci sono una 

conoscenza della natura e una conoscenza dell’uomo, vale a 

dire l’esperienza scientifica e l’esperienza della vita. Si segua 



9. Michael Faraday (1791-1867), fisico e chimico inglese, autore della C/hemical 

Manipulation (1827), delle Experimental Researches in Electricity (1839-1855), delle 

Experimental Rescarches in Chemistry and Physics (1859), diede contributi fondamen- 

tali allo sviluppo della teoria dell'elettricità e del magnetismo. 



736 OSWALD SPENGLER 



quest’antitesi fino alle sue ultime profondità e si comprenderà 

che cosa intendo. 


Tutti i modi di concepire il mondo possono essere definiti, 

in ultima analisi, come morfologia. La morfologia di ciò che è 

meccanico ed esteso, cioè una scienza che scopre e ordina leggi 

naturali e relazioni causali, si chiama sistematica; la morfolo- 

gia di ciò che è organico, della storia e della vita, vale a dire 

tutto quanto reca in sé direzione e destino, si chiama fisiogno- 

mica. 





Il modo sistematico di considerazione del mondo ha rag- 

giunto e oltrepassato il suo culmine in Occidente durante il 

secolo scorso; il modo fisiognomico ha invece ancora davanti a 

sé il suo grande momento. Tra un centinaio di anni tutte le 

scienze ancora possibili su questo terreno sono destinate a diven- 

tare frammenti di un’unica immensa fisiognomica di tutto 

quanto è umano. Questo significa una «morfologia della 

storia universale ». In ogni scienza, dal punto di vista del fine 

come del materiale, l’uomo racconta se stesso. Esperienza scien- 

tifica vuol dire auto-conoscenza spirituale. Da questo punto di 

vista la matematica è stata considerata poco prima come un 

capitolo della fisiognomica. Non abbiamo preso in esame ciò 

che si proponeva il singolo matematico: il dotto in quanto tale e 

i suoi risultati in quanto esistenza di una somma di sapere si 

differenziano reciprocamente. Il matematico come uomo la cui 

operosità costituisce una parte del suo manifestarsi, e il cui 

sapere e opinare costituisce una parte della sua espressione, è 

qui il solo ad avere importanza, e precisamente come orgazo di 

una cultura. Essa parla di sé per il suo tramite. Come personali- 

tà, come spirito, nel suo scoprire, nel suo conoscere, nel suo 

formare egli appartiene alla fisiognomica di quella cultura. 


Ogni matematica che, in quanto sistema scientifico oppure 

— come nel caso dell'Egitto — nella forma dell’architettura, 

rende manifesta a tutti l’idea del suo numero, inerente al suo 

essere desto, è la confessione di un’anima. Quanto è certo che 

la funzione che si propone appartiene soltanto alla superficie 

della storia, altrettanto certo è che il suo elemento inconscio, 



OSWALD SPENGLER 737 



cioè il numero stesso e lo stile dello sviluppo che la conduce 

alla costruzione di un mondo formale chiuso, costituisce un’e- 

spressione dell’esistenza, del sangue. La sua storia vitale, il suo 

fiorire e sfiorire, la sua relazione profonda con le arti figurati- 

ve, con i miti e i culti della medesima cultura, tutto ciò appar- 

tiene a una morfologia del secondo tipo, cioè a una morfologia 

storica, finora ritenuta quasi impossibile. 


La facciata visibile di ogni storia ha perciò lo stesso significa- 

to dell'apparenza esteriore dell’uomo singolo, vale a dire della 

statura, del volto, del portamento, dell’andatura: non il lin- 

guaggio, ma il parlare; non lo scritto, ma la scrittura. Tutto 

ciò è ben presente al conoscitore di uomini. Il corpo con tutte 

le sue operazioni, il limitato, il divenuto, il transitorio, è espres- 

sione dell'anima. Ma essere conoscitore di uomini vuol dire 

anche conoscere quei grandi organismi umani di stile superiore 

che chiamo culture; vuol dire cogliere il loro volto, il loro 

linguaggio, le loro azioni, nello stesso modo in cui si colgono 

quelle di un uomo singolo. 


La fisiognomica descrittiva e figurativa è arte del ritratto 

trasferita all'elemento spirituale. Don Chisciotte, Werther, Ju- 

lien Sorel! sono i ritratti di un’epoca. Faust è il ritratto di 

un'intera cultura. Lo scienziato naturale, il morfologo in quan- 

to sistematico, conosce il ritratto del mondo soltanto come com- 

pito imitativo; la stessa cosa vale per la «fedeltà alla natu- 

ra» e la « somiglianza » nel caso dell’artigiano che dipinge, il 

quale, in fondo, si accinge alla sua opera in modo puramente 

matematico. Ma un ritratto genuino nel senso di Rembrandt è 

fisiognomica, cioè storia racchiusa in un attimo. La serie dei 

suoi autoritratti non è altro che un’autobiografia autenticamen- 

te goethiana. Così si dovrebbe scrivere la biografia delle grandi 

culture. La parte imitativa, il lavoro dello storico di mestiere 

sulle date e sui numeri è soltanto mezzo, non fine. Ai tratti del 

volto della storia appartiene tutto ciò che è stato finora valutato 

soltanto in base a criteri personali, in base all’utilità e alla dan- 

nosità, al bene e al male, al piacere e al dispiacere: forme stata- 

li e forme economiche, battaglie e arti, scienze e divinità, mate- 

matica e morale. Tutto ciò che è divenuto in generale, tutto 



10. Personaggio principale de Le ronge et le noir di Stendhal. 



47. STORICISMO TEDESCO, 



738 OSWALD SPENGLER 



ciò che si manifesta è simbolo, è espressione di un’anima; 

aspira a essere considerato con l’occhio del conoscitore di uomi- 

ni, a non essere ricondotto a leggi, ma sentito nel suo significa- 

to. In tal modo l’indagine si eleva a una certezza ultima e 

suprema: tutto ciò che è transitorio è soltanto un'immagine. 


Alla conoscenza della natura ci si può educare, ma conosci- 

tore della storia si nasce. Il conoscitore coglie e penetra uomini 

e fatti di un colpo, sulla base di un sentimento che non s’impa- 

ra, che è sottratto a ogni influenza intenzionale, che ben rara- 

mente si produce nella sua massima forza. Analizzare, definire, 

ordinare, delimitare in base a cause ed effetti, si può sempre 

farlo, se si vuole: questo è un lavoro, l’altra è una creazione. 

Forma e legge, immagine e concetto, simbolo e formula hanno 

un organo completamente diverso. Ciò che si manifesta in que- 

st’antitesi è il rapporto tra vita e morte, tra generazione e 

distruzione. L'intelletto, il sistema, il concetto uccidono in 

quanto « conoscono »; fanno del conosciuto un oggetto irrigidi- 

to, che si può misurare e suddividere. Invece l’intuizione vivifi- 

ca; incorpora il singolo in un’unità vivente, intimamente senti- 

ta. Il poetare e la ricerca storica sono affini quanto affini sono 

il calcolare e il conoscere. Ma — come disse una volta Hebbel !! 

— «i sistemi non possono venir sognati né le opere d’arte 

calcolate o, il che è lo stesso, escogitate ». L'artista, lo storico 

autentico intuisce il modo in cui qualcosa diviene. Egli rivive 

ancora una volta il divenire nei tratti di ciò che è osservato. Il 

sistematico — sia egli fisico, logico, darwiniano oppure scritto- 

re di storia pragmatica — ha esperienza di ciò che è divenuto. 

L'anima di un artista è, come l’anima di una cultura, qualcosa 

che aspira a realizzarsi, qualcosa di concluso e di perfetto o — 

nel linguaggio della filosofia antica — un microcosmo. Lo spiri- 

to sistematico staccato dal sensibile — « as-tratto» — è un fe- 

nomeno tardo, ristretto e perituro, e appartiene agli stadi più 

maturi di una cultura. È un fenomeno collegato alle città, in 

cui la sua vita si concentra sempre di più: esso appare e di 

nuovo scompare insieme con esse. La scienza antica sussiste 



11. Christian Friedrich Hebbcl (1813-1863), poeta e drammaturgo tedesco, autore 

di vari drammi di argomento storico, di poesie, dì saggi estetici, nonché di Tagedé- 

cher (iniziati nel 1836): il suo pensicro è ispirato da Gocthe e dalle tcorie idcalistiche, 

in particolare da Schelling c da Hegel. 



O$WALD SPENGLER 739 



soltanto nel periodo che va dagli Ionici del secolo vi fino all’e- 

poca romana; di artisti antichi ve ne furono per tutta l’antichi- 

tà. Possa servire da ulteriore chiarimento lo schema seguente: 



Anima Mondo 

Esistenza Possibilità Compimento Realtà 

(Vita) 

Divenire Divenuto 

Essere Direzione Estensione 

desto Organico Meccanico 

Simbolo, immagine Numero, concetto 

Storia Natura 

Immagine Ritmo, forma Tensione, legge 

del mondo Fisiognomica Sistematica 

Fatti Verità 



Se si cerca di pervenire a chiarezza sul principio di unità in 

base al quale ognuno dei due mondi viene concepito, si troverà 

che la conoscenza regolata matematicamente si riferisce in tutto 

e per tutto, e in modo tanto più deciso in quanto più è pura, a 

qualcosa che è costantemente presente. L'immagine della natu- 

ra, quale il fisico la considera, è ciò che si dispiega al momen- 

to dinanzi ai suoi sensi. Tra i presupposti per lo più sottintesi, 

ma non per questo meno saldi, di ogni ricerca naturale vi è 

quello secondo cui «la» natura è la medesima per ogni essere 

desto e per tutti i tempi: un esperimento decide una volta per 

tutte. Non che il tempo venga negato, ma all’interno di questo 

orientamento si prescinde da esso. La storia reale poggia inve- 

ce sul sentimento, altrettanto certo, del contrario. La storia 

presuppone come suo organo un tipo di sensibilità interiore, 

difficile da descrivere, le cui impressioni vengono colte in un’in- 

finita trasformazione e non possono quindi essere raccolte in 

un punto del tempo (del supposto «tempo» dei fisici si parle- 

rà più oltre). L'immagine della storia — si tratti della storia 

dell'umanità, del mondo degli organismi, della terra o del 

sistema delle stelle fisse — è un'immagine della memoria. La 

memoria viene qui concepita come uno stato superiore che non 



740 OSWALD SPENGLER 



è affatto proprio a ogni essere-desto, ed è concesso a qualcuno 

solo in grado minimo, vale a dire come una forma del tutto 

particolare di immaginazione che consente di rivivere l’attimo 

singolo sub specie aeternitatis, in continua relazione con tutto 

ciò che è passato e futuro: essa è il presupposto di ogni specie 

di contemplazione retrospettiva, di auto-conoscenza e di auto- 

confessione. In questo senso l’uomo antico non possiede alcuna 

memoria, e quindi neppure storia, né in sé né intorno a sé. 

« Nessuno può emettere giudizi sulla storia, se non chi ne 

abbia fatto esperienza egli stesso » (Goethe !). Nella coscienza 

del mondo dell’antichità tutto il passato è assorbito nell’attimo. 

Si confrontino le teste quanto mai « storiche » delle sculture del 

duomo di Naumburg, delle figure di Direr e di Rembrandt, 

con quelle ellenistiche, per esempio con quella della celebre 

statua di Sofocle. Le prime narrano l’intera storia di un’anima, 

mentre i tratti delle seconde si limitano strettamente all’espres- 

sione di un essere momentaneo. Esse tacciono tutto ciò che ha 

condotto, nel corso di una vita, a questo essere — sempre che 

se ne possa in generale parlare di fronte a un uomo genuina- 

mente antico, che è sempre compiuto, mai un essere diveniente. 



VI 



È ora possibile rintracciare gli elementi ultimi del mondo 

formale della storia. Forme innumerevoli, che compaiono e 

scompaiono, che si stagliano e si dileguano nuovamente in una 

ricchezza senza fine; una confusione smagliante di mille colori 

e di mille luci, caratterizzata in apparenza dalla più libera 

accidentalità — questa è, a prima vista, l’immagine della storia 

universale, quale essa si dispiega nella sua totalità di fronte 

all’occhio interiore. Ma lo sguardo che penetra più profonda- 

mente nell’essenziale separa da questo arbitrio quelle forme 

pure che, fittamente ricoperte e disvelantisi soltanto controvo- 

glia, stanno alla base di ogni umano divenire. 


Dell’immagine del divenire complessivo del mondo con i 

suoi orizzonti che si accumulano potenzialmente — così come 



12. GoerHe, Maximen und Reflezionen, 517. 



OSWALD SPENGLER 741 



l'occhio faustiano che li abbraccia — e quindi del divenire 

del cielo stellato, della superficie terrestre, degli esseri viventi, 

degli uomini, noi consideriamo ora soltanto l’unità morfolo- 

gica estremamente piccola della «storia universale » nel sen- 

so consueto della parola, cioè della storia (poco apprezzata 

dal vecchio Goethe) dell'umanità superiore, che abbraccia cir- 

ca seimila anni, senza affrontare l’arduo problema dell’ana- 

logia interna di tutti questi aspetti del divenire. Ciò che dà 

senso e contenuto a questo fuggevole mondo di forme, e 

che è rimasto finora profondamente sommerso sotto la massa 

quasi impenetrabile di «date» e di «fatti» tangibili, è il 

fenomeno delle grandi culture. Soltanto quando queste forme 

originarie siano state individuate, sentite, elaborate nel loro si- 

gnificato fisiognomico, può ritenersi compresa da noi l'essenza 

e la forma intima della storia umana — in antitesi all’essenza 

della natura. Soltanto partendo da questo sguardo profondo e 

prospettico si può parlare seriamente di una filosofia della sto- 

ria. Soltanto allora si può cogliere ogni fatto presente nell’im- 

magine storica, ogni idea, ogni arte, ogni guerra, ogni persona- 

lità nel suo contenuto simbolico, e considerare la storia non 

più come mera somma del passato, priva di un proprio ordine 

e di una interna necessità, bensì come un organismo di strut- 

tura quanto mai rigorosa e con un'articolazione fornita di sen- 

so, nel cui sviluppo il presente accidentale dell’osservatore non 

indica una semplice sezione e il futuro non appare più come 

informe e indeterminabile. 


Le culture sono organismi; la storia universale è la loro 

biografia complessiva. L’immensa storia della cultura cinese o 

della cultura antica è morfologicamente l’esatta contropartita 

della piccola storia del singolo uomo o di un animale, di un 

albero, di un fiore. Per lo sguardo faustiano non si tratta di 

un’esigenza, ma di un'esperienza: se si vuol conoscere la for- 

ma interna, ovunque ripetuta, la morfologia comparativa delle 

piante e degli animali ha già da lungo tempo preparato il 

metodo adatto. Nel destino delle singole culture che si succe- 



a. Non si tratta del metodo analitico del « pragmatismo » zoologico 

dei darwinisti con la loro caccia di connessioni causali, bensì del metodo 

intuitivo e sintetico di Goethe. 



742 OSWALD SPENGLER 



dono, che crescono l’una accanto all’altra, si toccano, si ostacola- 

no, si soffocano, viene a esaurirsi il contenuto di tutta la storia 

umana. E se passiamo spiritualmente in rassegna le loro forme, 

che finora erano troppo profondamente nascoste sotto la superfi- 

cie del corso banale di una «storia dell'umanità », perveniamo 

a scoprire la forma originaria della cultura, libera da ogni 

elemento perturbatore e privo di significato, la quale sta alla 

base di tutte le culture particolari come loro ideale formale. 


Distinguo qui l’idea di una cultura, il complesso delle sue 

possibilità interne, dalla sua manifestazione sensibile nell’imma- 

gine della storia, che costituisce la sua realizzazione compiuta. 

Questo è il rapporto dell’anima con il corpo vivente, con la sua 

espressione in mezzo all'universo visibile ai nostri occhi. La 

storia di una cultura è la progressiva realizzazione di ciò che 

ad essa è possibile. Il compimento equivale alla fine. In questo 

modo l’anima apollinea — che alcuni di noi possono forse 

comprendere e rivivere — stava in rapporto con il suo dispiega- 

mento nella realtà, con l’« antichità » della quale l’archeologo, 

il filologo, lo studioso di estetica e lo storico indagano i resti 

accessibili all’occhio e all’intelletto. 


La cultura è il fenomeno originario di tutta la storia univer- 

sale passata e futura. La profonda e poco apprezzata idea che 

Goethe scoprì nella sua «natura vivente», e che ha sempre 

posto a base delle sue ricerche morfologiche, deve qui venir 

applicata, nel suo senso più preciso, a tutte le formazioni della 

storia umana pienamente maturate, morte mentre ancora stava- 

no fiorendo, semi-sviluppate o soffocate ancora in germe. Si 

tratta di un metodo fondato sul sentire simpatetico, non sull’a- 

nalisi. « Il massimo a cui l’uomo può pervenire è la meraviglia; 

perciò sia soddisfatto quando il fenomeno originario lo pone in 

uno stato di meraviglia; non gli è concesso niente di superiore, 

e neppure.deve cercarvi qualcosa di più: qui sta il limite »!. 

Fenomeno originario è quello in cui l’idea del divenire sta 

dinanzi agli occhi nella sua purezza. Goethe vide chiaramente, 

davanti al suo occhio spirituale, l’idea della pianta originaria 

nella forma di ogni pianta singola, nata accidentalmente o an- 

che solo possibile. Nella sua indagine sull’os intermazillare 



13. GoerHe, Gespriche mit Eckermann, 18 febbraio 1829. 



OSWALD SPENGLER 743 



egli partì dal fenomeno originario del vertebrato, e in altro 

campo partì dalla stratificazione geologica, dalla foglia come 

forma originaria di ogni organo vegetale, dalla metamorfosi 

delle piante come immagine primordiale di tutto il divenire 

organico. « La medesima legge si potrà applicare a tutti gli 

altri esseri viventi » !* — scrisse da Napoli a Herder, comunican- 

dogli la sua scoperta. Si trattava di uno sguardo sulle cose che 

Leibniz avrebbe potuto intendere; il secolo di Darwin ne restò 

invece il più possibile distante. 


Non esiste però ancora una considerazione della storia che 

sia completamente libera dai metodi del darwinismo, cioè dalla 

scienza naturale sistematica poggiante sul principio causale. 

Mai si è discusso di una fisiognomica rigorosa e chiara, compiu- 

tamente consapevole dei suoi mezzi e dei suoi limiti, i cui 

metodi dovevano essere ancora trovati. Questo è il grande com- 

pito del secolo xx: porre accuratamente in luce la struttura 

interna delle unità organiche attraverso le quali e nelle quali si 

compie la storia universale; distinguere ciò che è morfologica- 

mente necessario ed essenziale da ciò che è accidentale, coglie- 

re l’espressione degli avvenimenti e scoprire il linguaggio che 

sta alla sua base. 



VII 



Una massa sterminata di esseri umani, una corrente senza 

sponde che scaturisce dall’oscuro passato, là dove il nostro senti- 

mento del tempo perde la propria capacità ordinatrice e l’in- 

quieta fantasia — o l’angoscia — ha suscitato come per magia 

in noi l'immagine di epoche geologiche per nascondere un enig- 

ma insolubile; una corrente che va a perdersi in un futuro 

altrettanto oscuro e atemporale — questo è il substrato del- 

l’immagine faustiana della storia umana. L’onda uniforme di 

innumerevoli generazioni muove questa vasta superficie. Fasci 

di luce si estendono abbaglianti. Effimeri bagliori passano e 

danzano, scompigliano e turbano il chiaro specchio, si trasfor- 

mano, balenano e scompaiono: sono ciò che abbiamo chiamato 



14. GoerHE, Italienische Reise, lettera a Herder del 17 maggio 1787. 



744 OSWALD SPENGLER 



generazioni, stirpi, popoli, razze. Essi abbracciano una serie di 

generazioni in un ambito delimitato della superficie storica. 

Quando si spegne la forma plasmatrice in esse presente — e 

questa forza è assai diversa, e predetermina un’assai diversa 

durata e plasticità di queste formazioni — si dissolvono anche 

le caratteristiche fisiognomiche, linguistiche, spirituali, e il feno- 

meno si risolve di nuovo nel caos delle generazioni. Arii, Mon- 

goli, Germani, Celti, Parti, Franchi, Cartaginesi, Berberi, Ban- 

tù, sono tutti nomi che designano formazioni estremamente 

differenziate di tale ordine. 


Ma su questa superficie le grandi culture tracciano i loro 

maestosi cerchi di onde. Esse compaiono all’improvviso, si 

estendono seguendo direttrici fastose, si acquietano, scompaio- 

no lasciando di nuovo solitario e stagnante lo specchio della 

marea. 


Una cultura nasce nell’attimo in cui una grande anima si 

desta dallo stato psichico originario dell’umanità eternamente 

fanciulla e se ne distacca, come una forma da ciò che è privo di 

forma, come qualcosa di limitato e di perituro dall’illimitato e 

dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio delimi- 

tabile in modo preciso, al quale rimane vincolata come una 

pianta. Una cultura perisce quando quest'anima ha realizzato 

l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di 

lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, ritor- 

nando quindi nel grembo della spiritualità originaria. Ma la 

sua esistenza vivente, cioè quella successione di grandi epoche 

che designano in una linea retta il suo compimento progressi- 

vo, è una lotta interiore e piena di passione per l’affermazione 

dell'idea contro le potenze del caos verso l'esterno, e verso 

l'interno contro l’inconscio in cui esse si sono astiosamente 

ritirate. Non è soltanto l’artista a combattere contro la resisten- 

za della materia e l’'annientamento dell’idea entro di sé. Ogni 

cultura si trova in una relazione profondamente simbolica e 

quasi mistica con ciò che è esteso, con lo spazio nel quale e 

attraverso il quale essa vuole realizzarsi. Quando il fine è rag- 

giunto e l’idea, la molteplicità delle sue possibilità interne, si 

è compiuta e si è realizzata verso l'esterno, improvvisamente la 

cultura si irrigidisce; essa muore, il suo sangue si coagula, le 

sue forze vengono meno — ed essa diventa una civiltà in decli- 



OSWALD SPENGLER 745 



no. Questo è ciò che sentiamo e intendiamo parlando di egizia- 

nismo, di bizantinismo, di mandarinismo. Così essa può anco- 

ra, come un gigantesco albero marcito nella foresta, protende- 

re i suoi rami fradici per secoli e millenni. È quello che vedia- 

mo in Cina, in India, nel mondo islamico. In questo modo 

l’antica civiltà in declino dell’epoca imperiale si elevava gigante- 

sca, con apparente forza giovanile e apparente ricchezza, sot- 

traendo aria e luce alla giovane cultura araba dell’Oriente. 


Questo è il senso di tutti i tramonti della storia — del 

compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che sovrasta 

ogni cultura vivente. Di essi quello che ci appare più chiaro 

nei suoi contorni è il «tramonto dell’antichità », mentre già 

oggi avvertiamo chiaramente in noi e intorno a noi i primi 

indizi di un avvenimento ad esso del tutto analogo per corso e 

durata, che appartiene ai primi secoli del prossimo millennio: 

il « tramonto dell’Occidente » ?. 


Ogni cultura percorre le età dell’individuo: ognuna ha la 

sua infanzia, la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vec- 

chiaia. Un’anima giovanile, timida, ricca di presentimenti si 

manifesta negli albori del romantico e del gotico. Essa riempie 

di sé il passaggio faustiano dalla Provenza dei Trovatori fino al 

duomo di Hildesheim del vescovo Bernward”. Qui soffia un 

vento di promavera. « Nelle opere dell’antica architettura tede- 

sca — dice Goethe! — si vede il fiorire di una situazione 

straordinaria. Chi si trovi immediatamente di fronte una fiori- 

tura del genere, non può che stupirsi; ma chi penetri nella 

segreta vita interna della pianta, nel muoversi delle forze, se- 

guendo passo passo lo sviluppo della fioritura, vede la cosa con 

occhi del tutto diversi; sa quello che vede ». L'infanzia ci 



a. Non si tratta della catastrofe delle migrazioni dei popoli che costi- 

tuisce —- come nel caso della distruzione della cultura maya da parte 

spagnola — un caso privo di necessità più profonda, bensì dell'intimo 

disfacimento che sopravviene fin da Adriano, e corrispondentemente in Ci- 

na sotto la dinastia orientale Han (25-220 d. C.). 



15. Hildeshcim è una città della Bassa Sassonia, sede episcopale dall'epoca di 

Carlo Magno: San Bernward vi fu vescovo dal 993 al 1022, facendo costruire le mura 

intorno alla città e favorendo lo sviluppo della metallurgia. 


16. GoerHE, Gespricke mit Eckermann, 21 ottobre 1823. 



746 OSWALD SPENGLER 



parla in modo simile e con voci del tutto affini, con l’arte 

dorica pre-omerica, con quella cristiana antica, cioè arabo-primi- 

tiva, e con le opere dell’antico regno egizio che ha inizio con 

la quarta dinastia. Qui una coscienza del mondo mitica lotta 

con tutto ciò che di oscuro e di demoniaco è presente in essa e 

nella natura come con una colpa, per poter maturare fino alla 

pura luminosa espressione di un'esistenza finalmente conquista- 

ta e compresa. Quanto più una cultura si avvicina al mezzogior- 

no della sua esistenza, tanto più il suo linguaggio formale 

finalmente assicurato diventa maturo, aspro, controllato, denso, 

tanto più essa è certa nel sentimento della propria forza e 

tanto più chiari diventano i suoi tratti. Nell’epoca primitiva 

tutto ciò era ancora sordo e confuso, procedeva per tentativi, 

pieno al tempo stesso di nostalgia e di angoscia infantile. Si 

consideri la decorazione dei portali delle chiese romanico-goti- 

che della Sassonia e della Francia meridionale: si pensi alle 

catacombe cristiane primitive, ai vasi in stile diploico. Ora, 

nella piena coscienza della forza plasmatrice giunta alla maturi- 

tà — come si manifesta nelle epoche dell’inizio del Medio 

Impero, dei Pisistrati, di Giustiniano I, della Controriforma — 

ogni singolo tratto espressivo appare scelto, rigoroso, misurato, 

di una meravigliosa levità e naturalezza. Qui troviamo ovun- 

que attimi di perfezione luminosa, attimi in cui sono sorti la 

testa di Amenemhet III ” (la sfinge di Hyksos di Tanis), la 

cupola di Santa Sofia, i dipinti di Tiziano. Ancora più tardi, 

delicati, quasi fragili, della dolcezza dolorosa degli ultimi gior- 

ni d’ottobre, sono l’Afrodite di Cnido e la sala dei cori dell’E- 

retteo, gli arabeschi degli archi saraceni a ferro di cavallo, lo 

Zwinger di Dresda", Watteau! e Mozart. Infine, nella vec- 

chiaia della civiltà in declino, il fuoco dell’anima si spegne. 

Per una volta ancora la forza calante trova l’ardire, pervenen- 

do con parziale successo a una grande creazione — nel classici- 

smo, che non è estraneo a nessuna cultura in via di estinzione; 



17. Amenembet II, faraone della Dodicesima dinastia vissuto intorno al 1850- 

1800 a, C. 


18, Lo Zwinger è il castello rcale di Dresda, costruito nell'età barocca, sede di 

celebri collezioni. 


19. Jcan-Antoinc Wattcau (1684-1721), uno dci maggiori pittori francesi del Set- 

tecento. 



OSWALD SPENGLER 747 



l’anima ripensa ancora una volta dolorosamente — nel romanti- 

cismo — alla propria infanzia. Alla fine stanca, neghittosa, 

fredda, essa smarrisce la gioia dell’esistenza e — come nell’epo- 

ca imperiale di Roma — aspira a fare nuovamente ritorno dalla 

luce millenaria nell’oscurità della mistica spirituale originaria, 

nel grembo materno, nella tomba. Questa è la magia della 

« seconda religiosità », che i culti di Mitra, di Iside, del Sole 

hanno esercitato una volta sull'uomo della tarda antichità — i 

medesimi culti che in Oriente un’anima appena albeggiante 

aveva riempito di un’interiorità completamente nuova, facendo- 

ne l’espressione primitiva, sognante, angosciata della sua solitu- 

dine in questo mondo. 



VII 



Si parla dell’abito di una pianta e con ciò si intende la 

forma di apparenza esterna propria ad essa soltanto, cioè il 

carattere, l'andamento, la durata del suo manifestarsi nel mon- 

do visibile ai nostri occhi — l'elemento per cui ognuna si 

distingue, in ogni sua parte e in ogni fase della sua esistenza, 

dagli esemplari di tutte le altre specie. Applicherò questo im- 

portante concetto fisiognomico ai grandi organismi della storia, 

e parlerò dell'abito della cultura, della storia o della spiri- 

tualità indiana, egiziana, antica. Un sentimento indeterminato 

di esso è stato da sempre a base del concetto di stile; e quando 

si parla dello stile religioso, intellettuale, politico, sociale, econo- 

mico di una cultura, e dello stile di un'anima in generale, ci 

si limita a chiarirlo e ad approfondirlo. Questo abito dell’esi- 

stenza nello spazio, che nell'uomo singolo si estende al fare e 

al pensare, al portamento e alla disposizione spirituale, abbrac- 

cia nell'esistenza di intere culture l’espressione complessiva del- 

la vita di ordine superiore, come la scelta di determinati generi 

artistici (la scultura e l'affresco da parte dei Greci, il contrap- 

punto e la pittura a olio in Occidente) e il riftuto deciso di altri 

generi artistici (l’arte plastica da parte degli Arabi), la propen- 

sione all’esoterismo (in India) o alla popolarità (nel mondo 

antico), al discorso orale (nell’antichità) o allo scritto (in Cina 

e in Occidente), come forme di comunicazione spirituale, non- 



748 OSWALD SPENGLER 



ché il tipo di costumi, di amministrazione, di mezzi di traspor- 

to e le forme di rapporto sociale. Tutte le grandi personalità 

antiche costituiscono un gruppo a sé, il cui abito spirituale è 

rigorosamente distinto da quello dei grandi uomini appartenen- 

ti al gruppo arabo o occidentale. Si confronti un Goethe o un 

Raffaello con gli uomini dell’antichità, ed Eraclito, Sofocle, 

Platone, Alcibiade, Temistocle, Orazio, Tiberio ci appariranno 

subito come raccolti in un’unica famiglia. Ogni metropoli anti- 

ca — dalla Siracusa di Gerone fino alla Roma imperiale — in 

quanto incarnazione e simbolo di un medesimo sentimento del- 

la vita, è profondamente diversa per piano urbanistico, per la 

struttura delle strade, per il linguaggio dell’architettura priva- 

ta e pubblica, per il tipo delle piazze, dei vicoli, dei cortili, 

delle facciate, per il colore, il chiasso, il traffico, per lo spirito 

delle sue notti, dal gruppo delle metropoli indiane, arabe, occi- 

dentali. A Granada molto tempo dopo la sua conquista si 

poteva ancora sentire l’anima delle città arabe, di Bagdad e del 

Cairo, mentre nella Madrid di Filippo II si incontrano già 

tutte le caratteristiche fisiognomiche delle immagini di città 

moderne come Londra e Parigi. In ogni diversità di questa 

specie c'è un alto grado di simbolismo: si pensi alla propensio- 

ne occidentale per le prospettive e i tracciati stradali rettilinei, 

come lo scorcio possente dei Champs Elysées visti dal Louvre o 

la piazza di San Pietro, e alla loro antitesi rispetto alla confusio- 

ne e alla ristrettezza quasi intenzionale della Via Sacra, del 

Foro romano e dell’Acropoli con il loro ordine asimmetrico e 

aprospettico delle parti. Anche la struttura della città ripete o 

per un oscuro impulso (come avviene nel gotico) o consapevol- 

mente (come dopo Alessandro e Napoleone) qui il principio 

matematico leibniziano dello spazio infinito, là quello euclideo 

dei corpi isolati. 


Ma all’abito di un gruppo di organismi appartiene anche 

una determinata durata della vita e un determinato ritmo di 

sviluppo. Questi concetti non possono mancare in una dottrina 

della struttura della storia. Il ritmo dell’esistenza antica era 

diverso da quello dell’esistenza egizia o araba. Si può parlare 

dell’« andante » dello spirito ellenico-romano e dell’« allegro 

con brio » di quello faustiano. Al concetto di durata della vita 

di un uomo, di una farfalla, di una quercia, di un filo d'erba si 



OSWALD SPENGLER 749 



connette, del tutto indipendentemente da ogni accidentalità del 

destino individuale, un determinato valore. Nella vita di tutti 

gli uomini dieci anni costituiscono una sezione approssimativa- 

mente equivalente, e anche la metamorfosi degli insetti è lega- 

ta, nei casi singoli, a un numero di giorni già noto con precisio- 

ne in anticipo. I Romani ricollegavano ai loro concetti di pueri- 

tia, adulescentia, juventus, virilitas, senectus una rappresentazio- 

ne fornita di precisione quasi matematica. Senza dubbio la 

biologia del futuro farà della durata predeterminata della vita 

delle varie specie e dei vari generi — in antitesi al darwinismo, 

e con un'esclusione di principio dei motivi causali di finalità 

riguardo all'origine delle specie — il punto di partenza di una 

problematica completamente nuova. La durata di una genera- 

zione — poco importa di quali esseri — è un fatto di significa- 

to quasi mistico. Queste relazioni posseggono anche, in manie- 

ra finora mai percepita, una validità per tutte le culture superio- 

ri. Ogni cultura, ogni sua epoca iniziale, ogni crescita e ogni 

declino, ognuna delle sue fasi e dei suoi periodi internamente 

necessari possiede una durata determinata, sempre eguale, sem- 

pre ricorrente con l'insistenza di un simbolo. In quest'opera si 

dovrà rinunciare a svelare questo mondo di connessioni piene 

di mistero, ma i fatti che verranno in seguito sempre più in 

luce sveleranno tutto ciò che qui rimane celato. Che cosa signi- 

fica il sorprendente periodo di cinquant’anni, che si riscontra 

in ogni cultura, nel ritmo del divenire politico, spirituale, arti- 

stico? *® Che cosa significano i periodi di trecento anni del 

barocco, dello ionico, delle grandi matematiche, dell’arte plasti- 

ca attica, della pittura a mosaico, del contrappunto, della mec- 

canica galileiana? Che cosa significa la durata ideale di un 

millennio nella vita di ogni cultura, in confronto a quella 

dell'individuo, in cui «la vita dura settant'anni » ? 



a. Mi limiterò a fare qui riferimento alla distanza delle tre guerre 

puniche e alla serie, anch'essa da intendersi in maniera puramente rit- 

mica, della guerra di successione spagnuola, delle guerre di Federico il 

Grande, di Napoleone, di Bismarck e della guerra mondiale. Affine a 

ciò è il rapporto spirituale tra nonno e nipote. Di qui trae origine la 

convinzione dei popoli primitivi che l’anima del nonno ritorni nel nipote 

e il costume diffuso di dare al nipote il nome del nonno, che con la sua 

forza mistica ne rievoca l’anima nel mondo corporeo. 



750 OSWALD SPENGLER 



Nel modo in cui le foglie, i fiori, i rami, i frutti recano ad 

espressione nella loro forma, nella loro foggia e nel loro porta- 

mento l’essere vegetale, lo stesso fanno le formazioni religiose, 

intellettuali, politiche ed economiche nell’esistenza di una cultu- 

ra. Ciò che per l’individualità di Goethe significa una serie di 

manifestazioni così differenti quali il Faust, la Farbenlehre, il 

Reineke Fuchs, il Tasso, il Werther, il viaggio in Italia, l'amo- 

re per Federica, il West-ostliche Divan e le Ròmische Elegien, 

per l’individualità del mondo antico significano le guerre per- 

siane, la tragedia attica, la polis, il dionisiaco, al pari della 

tirannide, delle colonne ioniche, della geometria di Euclide, 

della legione romana, dei combattimenti tra gladiatori e del pa- 

nem et circenses dell’epoca imperiale. 


In questo senso ogni esistenza individuale in qualche modo 

significativa ripete, con profonda necessità, tutte le epoche 

della cultura a cui appartiene. In ciascuno di noi la vita interio- 

re si desta — in quell’istante decisivo a partire dal quale si sa 

di essere un Io — nel punto e nel modo in cui si è destata 

l'anima dell'intera cultura. Ognuno di noi, uomini dell’Occi- 

dente, ancora rivive da fanciullo, nei suoi sogni ad occhi aperti 

e nei giochi infantili, il suo gotico, le sue cattedrali, i castelli 

feudali e le saghe degli eroi, il Dieu Je veut delle Crociate e il 

tormento del giovane Parsifal’. Ogni giovane greco aveva la 

sua epoca omerica e la sua Maratona. Nel Werther di Goethe, 

immagine di una svolta giovanile nota a ogni uomo faustiano, 

ma a nessun uomo antico, ritorna l’epoca di Petrarca e del 

Minnesang”®. Quando Goethe abbozzò l’Urfaust, egli era Parsi 

fal; quando finì la prima parte, era Amleto; soltanto con la 

seconda parte diventò l’uomo universale del secolo x1x, quale 



20. Eroc di una leggenda popolare di origine celtica, poi collegato con il ciclo 

di Re Artà o dei « cavalieri della tavola rotonda »: in questo nuovo contesto Parsifal 

diventa il personaggio principale della ricerca del Graal, dando così il titolo — nel 

secolo xt — a un noto pocma cavalleresco di Chrétien de Troyes. A quest'ultima ver- 

sione si è richiamato Wagner nella sua ultima opera, il Parsifal, scritta nel 1876-1877 

e messa in musica nel 1877-1882. 


21. Designazione collettiva della lirica tedesca dei secoli xir e xm, affine alla 

poesia trobadorica provenzale, che si ispira all'ideale dell’« amor cortese ». La parola 

è composta dai termini Minne (= Liebe, amore) c Sang (= Gesang, canto o canzone); 

essa si riferisce all'omaggio reso dal cavaliere alla sua dama, cspresso con la parola 

Minnedienst. 



OSWALD SPENGLER 751 



Byron lo intese. Perfino la senilità, quei secoli capricciosi e 

infecondi dell’Ellenismo più tardo, la «seconda fanciullezza » 

di un'intelligenza stanca e svogliata, si può studiare in più 

d’uno dei grandi vegliardi dell’antichità. Nelle Baccanti di Eu- 

ripide è anticipato molto del sentimento della vita, e nel Timeo 

di Platone molto del sincretismo religioso dell’età imperiale. Il 

secondo Faust di Goethe e il Parsifal! di Wagner svelano in 

anticipo quale forma la nostra spiritualità assumerà nei prossi- 

mi secoli, negli ultimi secoli creativi. 


Per omologia degli organi la biologia intende la loro equiva- 

lenza morfologica, in antitesi all’analogia, che si riferisce inve- 

ce all’equivalenza della loro funzione. Goethe ha concepito que- 

sto concetto importante, e così fecondo nelle sue conseguenze, 

il cui sviluppo lo ha condotto a scoprire nell'uomo l’os interma- 

xillare; Owen? ne ha dato una formulazione rigorosamente 

scientifica. Io introduco questo concetto anche nel metodo sto- 

rico. 


È noto che a ogni parte del cranio umano corrisponde in 

modo preciso in tutti i vertebrati — fino ai pesci — un’altra 

parte, in modo tale che le pinne pettorali dei pesci e i piedi, le 

ali, le mani dei vertebrati terrestri sono organi omologhi, anche 

se hanno perduto ogni più piccola parvenza di somiglianza. 

Omologhi sono i polmoni degli animali terrestri e la vescica 

natatoria dei pesci; analoghi sono invece — in riferimento all’u- 

so — i polmoni e le branchie®. Qui si manifesta un talento 



a. Non è superfluo aggiungere che questi fenomeni puri della natura 

vivente sono estranei a ogni elemento causale, e che il materialismo do- 

vette pervertirne l'immagine con l’introduzione di cause finali, per otte- 

nere un sistema adatto all'intelletto comune. Goethe, che del darwi- 

nismo aveva grosso modo anticipato ciò che di esso rimarrà ancora tra 

cinquant'anni, escluse completamente il principio di causa. Egli carat- 

terizza la vita reale priva di cause e di scopi in modo tale che i darwi- 

nisti non si sono qui affatto avveduti dell'assenza del principio. Il con- 

cetto di fenomeno originario non permette nessuna assunzione causale, 

a meno che non si voglia fraintenderlo in senso meccanicistico. 



22. Richard Owen (1804-1892), biologo inglese, autore della Memoir on the Pearly 

Nautilus (1832), della Odontography (1840-1845), della History of British Fossil Mam- 

mals and Birds (1846), della History of British Fossil Reptils (1849-1884) e di varie 

altre opere, diede importanti contributi alla paleontologia degli animali vertebrati. 



752 OSWALD SPENGLER 



morfologico approfondito, ottenuto attraverso una rigorosissi- 

ma educazione dello sguardo, che è del tutto estraneo all’attua- 

le ricerca storica con la sua comparazione superficiale, tra 

Cristo e Budda, tra Archimede e Galilei, tra Cesare e Wallen- 

stein”?, tra i piccoli stati tedeschi e quelli ellenici. Nel corso 

di quest'opera diventerà sempre più chiaro quali immense pro- 

spettive si aprano allo sguardo storico, non appena questo meto- 

do rigoroso venga compreso ed elaborato anche all’interno 

della considerazione della storia. Formazioni omologhe sono — 

per menzionarne qui soltanto alcune — l’arte plastica antica e 

la musica strumentale dell'Occidente, le piramidi della Quarta 

dinastia e le cattedrali gotiche, il Buddismo indiano e lo Stoici- 

smo romano (mentre Buddismo e Cristianesimo z07 sono nep- 

pure analoghi), l'epoca degli « stati in lotta» della Cina, degli 

Hyksos e delle guerre puniche, le epoche di Pericle e degli 

Omeiadi, le epoche del Rigveda”, di Plotino e di Dante. Omo- 

loghi sono la corrente dionisiaca e il Rinascimento, analoghe 

sono invece la corrente dionisiaca e la Riforma. Per noi — lo 

ha giustamente sentito Nietzsche — « Wagner riassume la mo- 

dernità ». Di conseguenza dev’esserci qualcosa di corrisponden- 

te anche per la modernità antica; ed è l’arte di Pergamo. 


Dall’omologia dei fenomeni storici deriva nel medesimo 

tempo un concetto del tutto nuovo. Io definisco « contempora- 

nei» due fatti storici che, ognuno nella sua cultura, com- 

paiono esattamente nel medesimo luogo (relativo) e hanno per- 

ciò un significato esattamente corrispondente. Si è già mostra- 

to come lo sviluppo della matematica antica e di quella occiden- 

tale siano avvenuti in piena coerenza. In questo caso Pitagora e 

Descartes, Archita* e Laplace, Archimede e Gauss” dovrebbe- 



23. Albrecht Wenzel Euscbius von Waldstein o Wallenstcin (1583-1634), condot- 

tiero delle armate imperiali durante la guerra dei Trent'anni, in seguito accusato di 

tradimento e ucciso, La sua vita ispirò la trilogia di Schiller che da Wallenstein 

prende il nome (scritta nel 1798-1799). 


24. Prima parte dei Veda, raccolta di inni e di racconti cosmogonici anteriori 

all'800 a. C., che costituiscono il primo nucleo della letteratura metafisica indiana. 


25. Archita di Taranto, matematico greco della prima metà del secolo Iv, svilup- 

pò l’opera di Pitagora e fu in relazione con Platone. 


26. Carl Friedrich Gauss (1777-1855), matematico c astronomo tedesco, autore delle 

Disquisitiones arithmeticae (1801) e di numerosi altri scritti, dicde una nuova impo- 

stazione alla teoria dei numeri e aprì la strada alle geometrie non cuclidec. Non meno 



OSWALD SPENGLER 753 



ro essere designati come contemporanei; la nascita dello ionico 

e del barocco si compie contemporaneamente; Polignoto” e 

Rembrandt, Policleto” e Bach sono contemporanei. Contempo- 

ranei appaiono, in tutte le culture, la Riforma, il Puritanesi- 

mo, e soprattutto la svolta che reca alla civiltà in declino. 

Nell'antichità quest'epoca porta i nomi di Filippo e di Alessan- 

dro; nell'Occidente l’avvenimento ad essa contemporaneo com- 

pare nella forma della Rivoluzione francese e di Napoleone. 

Alessandria, Bagdad e Washington vengono costruite contem- 

poraneamente; l'apparizione delle antiche monete e della no- 

stra contabilità a partita doppia, della prima tirannide e della 

Fronda, di Augusto e di Shih Huang Ti”, di Annibale e della 

guerra mondiale avvengono contemporaneamente. 


Spero di dimostrare che tutte — senza eccezione — le gran- 

di creazioni e forme della religione, dell’arte, della politica, 

della società, dell'economia, della scienza sorgono, si compiono 

e periscono contemporaneamente nelle diverse culture; che la 

struttura interna di una corrisponde completamente a quella 

delle altre; che nell'immagine storica di ogni cultura non c’è 

un solo fenomeno fornito di profondo significato fisiognomico 

di cui non si possa rintracciare la contropartita, in una forma 

rigorosamente definibile e in un luogo ben determinato, anche 

nelle altre. Ma per cogliere l’omologia tra due fatti occorre un 

approfondimento e un’indipendenza dall’apparenza della faccia- 

ta completamente diversi da quelli finora consueti tra gli stori- 

ci, i quali non si sarebbero mai sognati che il Protestantesimo 

trova il suo corrispettivo nel movimento dionisiaco e che il 

Puritanesimo inglese dell'Occidente corrisponde all’Islam nel 

mondo arabo. 


Da questo aspetto deriva una possibilità che va molto al di 

là dell’ambizione di ogni ricerca storica precedente, la quale si 



importanti sono le sue ricerche astronomiche: calcolò per primo l'orbita del pianetino 

Ccrere cd elaborò un nuovo metodo di calcolo dell'orbita dei piancti. 


27. Polignoto di Taso, pittore greco vissuto nella prima metà del secolo v. 


28. Policleto, grande scultore greco del secolo v. 


29. Shih Huang Ti (259-210 a. C.), « primo imperatore sovrano », è il titolo as- 

sunto dal re Cheng dello stato di Ch'in dopo l'unificazione della Cina e la soppres- 

sione degli altri stati indipendenti. A lui si devono la semplificazione della scrittura 

cinese, l'estensione del sistema giuridico Ch'in a tutto l'impero, l'organizzazione am- 

ministrativa dell'impero, nonché il completamento della Grande muraglia. 



48. STORICISMO TEDESCO, 



754 OSWALD SPENGLER 



limitava essenzialmente a ordinare il passato, nella misura in 

cui esso era conosciuto, secondo uno schema unilineare — cioè 

la possibilità di procedere oltre il presente come limite dell’inda- 

gine e di determinare in anticipo anche le epoche zoz ancora 

trascorse della storia occidentale nella loro forma interna, nella 

loro durata, nel loro ritmo, nel loro senso, nel loro risultato, 

ma anche la possibilità di ricostruire con l’aiuto di connessioni 

morfologiche le epoche da gran tempo scomparse e sconosciute, 

e perfino intere culture del passato. Si tratta di un procedimen- 

to non dissimile da quello della paleontologia che oggi è in 

grado di fornire, sulla base di un singolo frammento del cra- 

nio, nozioni ampie e sicure sullo scheletro e sull’appartenenza 

del frammento a una specie determinata. 


Una volta presupposto il ritmo fisiognomico è del tutto pos- 

sibile ritrovare, sulla base di particolarità disperse della decora- 

zione, dell’architettura e della scrittura, e di dati isolati di 

natura politica, economica, religiosa, i tratti organici fondamen- 

tali dell'immagine storica di interi secoli; è possibile ricavare 

da elementi del linguaggio formale dell’arte la forma statale ad 

essa contemporanea, dalle forme matematiche il carattere delle 

corrispondenti forme economiche. Si tratta di un procedimento 

genuinamente goethiano, che riporta all’idea goethiana di fero- 

meno originario, e che è corrente nel limitato ambito della 

zoologia e della botanica comparativa, ma che può venir esteso, 

in misura finora mai sospettata, all'intero campo della storia. 



FILOSOFIA DELLA POLITICA * 





Sul concetto di politica abbiamo riflettuto più di quanto 

fosse opportuno, e tanto meno ci siamo intesi sul modo di 

considerare la politica reale. I grandi uomini di stato sono 

soliti agire immediatamente, sulla base di un sicuro intuito dei 

fatti. Per essi ciò è tanto evidente che non viene loro neppure 

in mente la possibilità di riflettere sui concetti generali fonda- 

mentali di questo agire — posto che tali concetti esistano. Essi 

sapevano da sempre che cosa dovevano fare. Una teoria in 

proposito non corrispondeva né al loro talento né al loro gu- 

sto. Ma i pensatori di professione che posavano lo sguardo sui 

fatti creati dagli uomini erano così intimamente distanti da 

questo agire che perdevano tempo almanaccando di astrazioni 

— preferibilmente in immagini mitiche come quelle di giusti- 

zia, virtù, libertà — e in base ad esse misuravano l’accadere 

storico del passato e soprattutto del futuro. Essi dimenticarono 

che si trattava in fondo di semplici concetti, e pervennero alla 

convinzione che la politica esista per dare forma al corso del 

mondo secondo una ricetta ideale. E poiché una cosa simile 

non è avvenuta mai e in nessun luogo, l’agire politico apparve 

loro così ristretto in confronto al pensiero astratto che nei loro 

libri disputavano sul fatto se possa in qualche modo esserci un 

« genio dell’azione ». 



* Der Untergang des Abendlandes: Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, 

cap. Il-iv: Der Staat, sezione 3: Philosophie der Politig, Minchen, C. H. Beck'sche 

Verlagsbuchhandlung, 1918-22, cd. definitiva 1923, vol. II, pp. 544-579 (traduzione di 

Sandro Barbera e Pietro Rossi, autorizzata, per gentile concessione della Casa Edi- 

trice Longanesi). 



756 OSWALD SPENGLER 



Qui si compirà invece il tentativo di creare, anziché un 

sistema ideologico, una fisiognomica della politica quale è stata 

realmente fatta nel corso della storia intera, e non così come 

avrebbe dovuto essere fatta. Il compito era quello di penetrare 

il senso ultimo dei grandi fatti, di «vederli», di sentire e di 

circoscrivere il loro elemento simbolicamente significativo. I 

progetti di miglioramento del mondo non hanno nulla a che 

fare con la realtà storica?. 


Noi chiamiamo storia le correnti dell’esistenza umana nella 

misura in cui le concepiamo come movimento; le chiamiamo 

generazione, ceto, popolo, nazione nella misura in cui le conce- 

piamo invece come qualcosa di mosso. La politica è il modo e 

la maniera in cui quest’esistenza che scorre si afferma, cresce, 

trionfa sulle altre correnti della vita. Tutta la vita è politica, 

in ogni suo tratto istintivo, fino al midollo. Ciò che oggi 

designiamo volentieri come energia vitale (come vitalità), quel 

« qualcosa » in noi che vuole ad ogni costo avanzare e sollevar- 

si, il cieco, cosmico, nostalgico impulso alla validità e alla po- 

tenza che rimane legato — a mo’ di pianta e di razza — alla 

terra, alla « patria », quell’essere diretto e quel dover necessaria 

mente agire costituisce quello che ovunque, tra gli uomini 

superiori, cerca ed è costretto a cercare, come vita politica, le 

grandi decisioni per essere oppure per subire un destino. Infatti 

o si cresce 0 si muore: non c'è una terza possibilità. 


Per questo motivo la nobiltà come espressione di una razza 

forte è il ceto propriamente politico: la disciplina, non la cultu- 

ra è la forma propriamente politica di educazione. Ogni gran- 

de politico, che è un centro di forza nella corrente di ciò che 

accade, ha qualcosa di nobile nel modo di sentire la propria 



a. «I regni passano, un buon verso rimane» — così si esprimeva 

Wilhelm von Humboldt sul campo di battaglia di Waterloo. Ma la per- 

sonalità di Napoleone ha plasmato in anticipo la storia dei secoli suc- 

cessivi, Per ciò che riguarda i buoni versi, egli avrebbe dovuto inter- 

rogare in proposito un contadino per strada. È vero che essi rimangono, 

ma per l'insegnamento della letteratura. Platone è eterno, ma per i 

filologi. La figura di Napoleone domina però interiormente noi tutti, 

i nostri stati e i nostri eserciti, la nostra opinione pubblica, tutto il 

nostro essere politico — e in misura tanto maggiore quanto meno ne 

abbiamo coscienza. 



OSWALD SPENGLER 757 



vocazione e nel proprio legame interiore. Invece tutto ciò che 

è microcosmico, tutto ciò che è «spirito», è anche apolitico; 

perciò ogni politica programmatica e ogni ideologia hanno qual- 

cosa di sacerdotale. I migliori diplomatici sono i fanciulli 

quando giocano o vogliono avere qualcosa. Allora la sostanza 

cosmica presente nell'esistenza singola si fa strada immediata- 

mente e con una sicurezza da sonnambulo. Col destarsi della 

giovinezza gli uomini non imparano, ma anzi disimparano 

questa maestria dei primi anni di vita: proprio per questo 

motivo l’uomo di stato è cosa rara tra gli uomini. 


Queste correnti dell’esistenza nell’ambito di una cultura su- 

periore — perché soltanto all’interno di essa e tra di esse vi è 

grande politica — sono possibili solo al plurale. Un popolo 

esiste realmente soltanto in rapporto ad altri popoli. Ma pro- 

prio per questo motivo il rapporto naturale, razziale, tra di 

essi è la guerra. Si tratta di un fatto che nessuna verità cambie- 

rà mai. La guerra è la politica originaria di ogzi essere viven- 

te, fino al punto che la lotta e la vita sono in fondo tutt'uno e 

che con la volontà di lotta si spegne anche l'essere. Vi sono 

antiche parole germaniche come orrusta e orlog che significano 

serietà e destino, in antitesi allo scherzo e al gioco: è un 

rafforzamento, non una differenza di essenza. E se ogni alta 

politica vuol essere una sostituzione della spada con armi spiri- 

tuali, se l'ambizione dell’uomo di stato alla sommità di tutte le 

culture è quella di rendere quasi non più necessaria la guerra, 

rimane pur sempre l’affinità originaria tra diplomazia e arte 

della guerra: il carattere di lotta, la medesima tattica, la mede- 

sima astuzia bellica, la necessità di avere sullo sfondo forze 

materiali per dare peso alle operazioni. Anche il fine rimane lo 

stesso: la crescita della propria unità vitale — ceto o nazione 

— a spese delle altre. Ogni tentativo di escludere questo ele- 

mento razziale conduce soltanto alla sua trasposizione in un 

campo diverso: anziché tra partiti c'è la lotta tra territori o, 

quando la volontà di crescita viene meno anche qui, tra bande 

di avventurieri a cui il resto della popolazione volontariamente 

si rassegna. 


In ogni guerra tra potenze della vita si tratta di stabilire 

chi debba governare il tutto. È sempre una vita e mai un 

sistema, una legge o un programma, che fornirà il ritmo nella 



758 OSWALD SPENGLER 



corrente dell’accadere ®. Essere il centro di azione, il centro 

attivo di una massa, elevare la forma interiore della propria 

persona a forma di interi popoli e di intere epoche, avere il 

comando della storia per poter condurre il proprio popolo e la 

propria stirpe, con i suoi fini, al culmine degli avvenimenti — 

questo è l'impulso inconsapevole e irresistibile operante in 

ogni essere individuale fornito di vocazione storica. C'è soltan- 

to storia personale, e quindi anche soltanto politica personale. 

La lotta non di princìpi ma di uomini, non di ideali ma di 

caratteri razziali per esercitare il potere costituisce il presuppo- 

sto e il fine della politica: le rivoluzioni stesse non costituisco- 

no un'eccezione, poiché la « sovranità popolare » non è che una 

parola per esprimere il fatto che il potere dominante ha assun- 

to il titolo di capo-popolo anziché quello di re. Con questo non 

muta il metodo di governare, e neppure la posizione dei gover- 

nanti. Anche la pace universale, tutte le volte che c’è sta- 

ta, non è stata altro che la schiavitù dell’umanità intera 

sotto il governo di un piccolo numero di nature forti decise a 

dominare. Il concetto di esercizio del potere implica — già tra 

gli animali — che un’unità vitale si frantumi in soggetti e 

oggetti di governo. Ciò è talmente ovvio che questa struttura 

interna di ogni unità di massa non va perduta neppure un 

istante, anche durante le crisi più gravi come quella del 1789. 

Soltanto il detentore del potere scompare, non però l’ufficio; e 

quando nel corso degli avvenimenti un popolo perde realmente 

ogni guida e si spinge in avanti senza regola, ciò significa 

soltanto che trasferisce all’esterno la propria guida, perché è 

diventato oggetto nella sua totalità. 


Non vi sono popoli politicamente dotati; vi sono soltanto 

popoli che sono saldamente in mano a una minoranza gover- 

nante e che quindi si trovano bene nella loro costituzione. 

Come popolo, gli Inglesi sono altrettanto privi di giudizio, 

ristretti e poco pratici di cose politiche che qualsiasi altra nazio- 

ne, ma posseggono, pur con tutto il loro gusto per i dibattiti 

pubblici, una tradizione di fiducia. La differenza consiste sem- 

plicemente nel fatto che l’Inglese è oggetto di un governo che 



a. È questo il significato della frase inglese men not measures, che 

indica il segreto di ogni politica che ha successo. 



OSWALD SPENGLER 759 



ha consuetudini assai antiche e ricche di successo, a cui egli 

acconsente perché ne conosce per esperienza il vantaggio. Da 

questo consenso, che dal di fuori appare come accordo, non c’è 

che un passo per arrivare alla convinzione che tale governo 

dipenda dalla volontà popolare, anche se all’inverso è proprio 

esso che gli inculca sempre, per motivi tecnici, questo punto di 

vista. La classe di governo inglese ha sviluppato i suoi fini e i 

suoi metodi in piena indipendenza dal « popolo »; essa lavora 

con — e in — una costituzione non scritta le cui finezze 

nient’affatto teoriche, nate dall’uso, sono impenetrabili e in- 

comprensibili al profano. Ma il coraggio della truppa dipende 

dalla fiducia nella guida — una fiducia che vuol dire rinuncia 

non arbitraria alla critica. È l'ufficiale che rende eroi i codardi 

o codardi gli eroi: ciò vale per gli eserciti, per i popoli, per i 

ceti come per i partiti. Il talento politico di una massa non è 

altro che fiducia nella sua guida. Ma essa dev'essere guadagna- 

ta; deve maturare lentamente, venir mantenuta in virtù del 

successo e diventare tradizione. Il difetto di capacità direttive 

nello strato dominante si manifesta come scarso sentimento di 

sicurezza presso i dominati, cioè come quella specie di critica 

priva d'istinto e petulante, che mette fuori forma un popolo 

con la sua semplice presenza. 



II 



Come si fa politica? — L'uomo di stato nato è soprattutto 

un conoscitore: un conoscitore di uomini, di situazioni, di 

cose. Egli possiede lo « sguardo » che abbraccia integralmente, 

senza esitare, l'ambito del possibile. Il conoscitore di cavalli 

saggia con «ro sguardo il portamento dell’animale e sa quali 

prospettive esso possiede nella corsa. Il giocatore lancia uno 

sguardo all’avversario e ne conosce la prossima mossa. Fare ciò 

che è giusto senza « saperlo », la mano sicura che allenta imper- 

cettibilmente o lascia andare del tutto la redine — tutto ciò è 

l'opposto dell’uomo teoretico. Il ritmo segreto di ogni divenire 

è il medesimo in lui e nelle cose storiche. L'uno ha sentore 

dell’altro, l’uno esiste per l’altro. L'uomo di azione non si 

trova mai in pericolo di condurre una politica sentimentale o 

programmatica. Non crede alle grandi parole: egli ha continua- 



760 OSWALD SPENGLER 



mente sulle labbra la domanda di Pilato. Verità — ma l’uomo 

di stato nato sta al di là del vero e del falso, non scambia la 

logica degli avvenimenti con la logica dei sistemi. Le « verità » 

— o gli «errori », che sono qui la stessa cosa — vengono da lui 

considerate soltanto come correnti spirituali, riguardo alla loro 

efficacia: egli ne scorge la forza, la durata e la direzione, e le 

mette in conto per il destino della potenza da lui diretta. 

Certamente possiede convinzioni che gli sono care, ma come 

uomo privato; nessun politico di statura si è mai sentito dipen- 

dente da esse mentre agiva. « Colui che agisce è sempre privo 

di coscienza; nessuno ha coscienza come ne ha l’uomo contem- 

plativo » !. Ciò vale per Silla e Robespierre così come per Bi- 

smarck e Pitt. I grandi papi e i capi-partito inglesi, finché 

dovevano dirigere il corso delle cose, non seguivano princìpi 

diversi da quelli dei conquistatori e degli agitatori di tutti i 

tempi. Si tragga dalle azioni di Innocenzo III, che ha condotto 

la Chiesa vicino al dominio del mondo, la loro regola fonda- 

mentale, e se ne ottiene un catechismo del successo che rappre- 

senta l’estremo opposto di ogni morale religiosa, ma senza il 

quale nessuna chiesa, nessuna colonia inglese, nessun patrimo- 

nio americano, nessuna rivoluzione vittoriosa, infine nessun sta- 

to e nessun partito, nessun popolo si troverebbe in una situazio- 

ne sopportabile. La vita, non l’individuo, è priva di coscienza. 


Perciò occorre intendere il tempo per il quale si è nati. Chi 

non avverte e non coglie le sue potenze più segrete, chi non 

sente in se stesso qualcosa di affine che lo spinge in avanti per 

un cammino che non si può circoscrivere con concetti, chi 

crede a ciò che sta in superficie, all'opinione pubblica, alle 

grandi parole e agli ideali del giorno, non è all’altezza dei suoi 

avvenimenti. Allora questi lo hanno in loro potere, e non vicever- 

sa. Mai guardarsi alle spalle e mai trarre il criterio dal passato! e 

tanto meno di fianco, da un qualsiasi sistema! In epoche come 

l’attuale o come quella di Gracco vi sono due specie di idealismo 

infausto: quello reazionario e quello democratico. L'uno crede 

nella reversibilità della storia, l’altro nella presenza in essa di 

un fine. Ma per il necessario insuccesso in cui entrambe gettano 

la nazione sul cui destino hanno acquisito potere, è indifferente 



1. GorrHe, Maximen und Reflexionen, 241. 



OSWALD SPENGLER 761 



che la si sacrifichi a un ricordo o a un concetto. L’uomo di 

stato genuino è la storia fatta persona; è il suo orientamento 

in forma di volontà singola, la sua logica organica in forma di 

carattere. 


Ma l’uomo di stato di valore dovrebbe anche essere un edu- 

catore in senso elevato: non come rappresentante di una mora- 

le o di una dottrina, ma come modello nel suo agire. È un 

fatto noto che nessuna religione nuova ha mai mutato lo stile 

dell’esistenza. Essa ha penetrato l’essere desto, l’uomo spiritua- 

le, ha gettato nuova luce su un mondo al di là, ha creato una 

felicità incommensurabile con la forza della modestia, della 

rinuncia e della sopportazione fino alla morte; ma sulle forze 

della vita non possedeva alcun potere. Soltanto la grande perso- 

nalità — la sostanza impersonale, la razza in essa presente, la 

forza cosmica che le è connessa — opera creativamente sul 

vivente, non istruendo ma disciplinando, trasformando il tipo 

di interi ceti e di interi popoli. Non /e verità, # bene, i 

sublime, bensì i;7 Romano, # Puritano, : Prussiano costituisco- 

no un fatto. Il sentimento dell’onore, il sentimento del dovere, 

la disciplina, la decisione sono tutte cose che non si imparano 

dai libri; esse vengono destate, nel fluire dell’esistenza, da un 

modello vivente. Perciò Federico Guglielmo I? fu uno dei più 

grandi educatori di tutti i tempi e il suo portamento persona- 

le, plasmatore di una razza, non è più scomparso nel susseguir- 

si delle generazioni. Ciò che distingue l’uomo di stato genuino 

dal semplice politico, dal giocatore per diletto, dal cacciatore 

di felicità che opera sulle sommità della storia, dall’avido e 

dall’ambizioso, dal maestro di scuola che va predicando un 

ideale, è il fatto che egli può esigere il sacrificio e lo ottiene 

perché il sentimento di essere necessario all’epoca e alla nazio- 

ne viene condiviso da migliaia di uomini, li plasma fin nel loro 

intimo e li rende capaci di imprese alla cui altezza non si 

sarebbero altrimenti mai sollevati*. 



a. Ciò vale, in definitiva, anche per le chiese, le quali sono qualcosa 

di completamente diverso dalle religioni, cioè elementi del mondo dei 



2. Federico Guglielmo I (1688-1740), re dì Prussia dal 1713 alla morte, pose le ba- 

si dell’amministrazione dello stato prussiano: la sua parsimonia e la sua vita frugale 

servirono di esempio a generazioni di funzionari del nuovo stato. 



762 OSWALD SPENGLER 



Ma il momento supremo non consiste nell’agire, bensì nel 

poter comandare. Soltanto con questo il singolo cresce al di 

sopra di sé, diventando il punto centrale di un mondo attivo. 

C'è una specie di comandare che fa dell’obbedire una consuetu- 

dine fiera, libera e nobile — e che Napoleone, per esempio, 

non ha posseduto. Un residuo di mentalità subalterna gli ha 

impedito di educare degli uomini e non degli strumenti di 

registrazione, di dominare tramite personalità anziché median- 

te decreti; e poiché non era capace di questa sensibilità sottile 

del comandare e doveva quindi fare da solo tutto quanto era 

veramente decisivo, doveva a poco a poco fallire a causa della 

sproporzione tra i compiti della sua posizione e i limiti della 

capacità di azione umana. Ma chi possiede questa dote suprema 

e ultima dell’umanità più perfetta — come Cesare o Federico il 

Grande — alla sera di una battaglia, quando le operazioni 

vanno incontro all’esito voluto e la campagna si decide con la 

vittoria, oppure nell’ora in cui si conclude, con l’ultima firma, 

un’epoca della storia, prova un sentimento di potenza meravi- 

glioso che rimane per sempre precluso agli uomini della veri- 

tà. Vi sono attimi — che indicano i punti più alti delle cor- 

renti cosmiche — in cui l’individuo è consapevole di essere 

identico al destino e di stare al centro del mondo, e percepisce 

la sua personalità quasi come il manto di cui la storia futura è 

in procinto di avvolgersi. 


Il primo compito è di fare qualcosa da sé; il secondo, meno 

appariscente ma più difficile e più grande nella sua efficacia 

remota, è di creare una tradizione, di coinvolgere altri af- 

finché proseguano la propria opera, il suo ritmo e il suo spiri- 

to; scatenare una corrente di attività unitaria che non ha più 

bisogno del primo capo per mantenere la propria forma. Con 

ciò l’uomo di stato cresce a un’altezza che l’antichità ha defini- 

to come divinità: diventa il creatore di una vita nuova, il 

capostipite spirituale di una razza giovane. Dopo pochi anni 

egli scompare, come essere singolo, da questa corrente. Ma una 



fatti e quindi — nel carattere della loro guida — fenomeni politici e 

non religiosi. Non la predica cristiana, ma il martire cristiano ha con- 

quistato il mondo, e del possesso di questa forza egli era debitore non 

già alla dottrina, ma all’esempio dell'Uomo sulla croce. 



OSWALD SPENGLER 763 



minoranza da lui suscitata, un altro essere di specie assai rara, 

subentra al suo posto per un tempo indeterminato. Un indivi- 

duo può produrre e lasciare come eredità questo elemento co- 

smico, quest’anima di uno strato dominante; in tutta la storia 

questo ha sempre dato effetti durevoli. Il grande uomo di stato 

è raro: se egli venga, se si affermi, se troppo presto o troppo 

tardi — tutto ciò è affidato al caso. I grandi individui spesso 

distruggono più di quanto non abbiano costruito, e ciò a causa 

del vuoto che la loro morte lascia nella corrente dell’accadere. 

Ma creare una tradizione vuol dire escludere il caso. Una tradi- 

zione alleva un tipo medio elevato su cui il futuro può fare 

sicuro affidamento: non un Cesare, ma un senato; non un 

Napoleone, ma un corpo incomparabile di ufficiali. Una forte 

tradizione attrae da tutte le parti i talenti e consegue grandi 

successi con ridotte capacità: lo dimostrano le scuole pittoriche 

italiane e olandesi non meno dell’esercito prussiano e della 

diplomazia della curia romana. È stata una grande debolezza 

di Bismarck — in confronto a Federico Guglielmo I — che egli 

abbia sì saputo agire, ma non formare una tradizione, che non 

abbia creato accanto al corpo di ufficiali di Moltke® una razza 

corrispondente di politici che si identificasse con il suo stato e 

con i nuovi compiti da esso posti, che traesse continuamente 

dal basso uomini importanti incorporando per sempre il loro 

stile di azione. Se ciò non avviene, anziché uno strato di gover- 

no formato di un sol getto si avrà un insieme di teste che 

affronta disarmata l’imprevisto. Ma se ciò riesce, allora sorge 

un « popolo sovrano » nell’unico senso che è degno di un popo- 

lo e che è possibile nel mondo dei fatti; una minoranza ben 

integrata e altamente selezionata, provvista di una tradizione 

sicura e maturata attraverso una lunga esperienza, che attrae c 

utilizza sul suo cammino ogni talento e che proprio per questo 

motivo si trova in accordo con il resto della nazione da essa 

governato. Una minoranza siffatta diventa a poco a poco una 

razza genuina — anche se una volta era stata un partito — e 



3. Helmuth Carl Bernhard von Moltke (1800-1891), generale prussiano, prestò dap- 

prima servizio nell’esercito turco; ritornato in Germania nel 1840, diresse le armate 

prussiane nella guerra del 1866 conuo l’Austria e poi nella guerra franco-tedesca del 

1870-71. A lui si deve l’organizzazione in forma moderna dell’esercito prussiano: gran- 

de stratega, ebbe una parte decisiva nell'esito vittorioso delle due guerre. 



764 OSWALD SPENGLER 



decide con la sicurezza del sangue, non dell’intelletto. Proprio 

per questo motivo tutto accade in essa « da sé»: non ha più 

bisogno del genio. Ciò significa, se così si può dire, la sostitu- 

zione del grande politico con la grande politica. 


Ma che cos'è la politica? — Essa è l’arte del possibile: è 

una formula antica, che dice quasi tutto. Il giardiniere può 

trarre una pianta dal seme o nobilitarne la specie; può dispiega- 

re o lasciar deperire le disposizioni in essa latenti, la sua cresci- 

ta e la sua foggia, la sua fioritura e i suoi frutti. Dal suo 

sguardo per il possibile, e quindi per il necessario, dipendono 

la perfezione, la forza, l’intero destino della pianta. Ma la 

forma fondamentale e la direzione della sua esistenza, le sue 

fasi di sviluppo, la sua velocità e la sua durata, la «legge 

secondo cui si manifesta » 70n sono in potere del giardiniere. 

Essa deve realizzarla, oppure muore; e la stessa cosa vale per 

quell’immensa pianta che è la «cultura» e per le correnti 

dell’esistenza di generazioni umane racchiuse nel suo mondo di 

forme politiche. Il grande uomo di stato è il giardiniere di un 

popolo. 


Ogni individuo che agisce è nato in e per un determinato 

tempo. In tal modo è determinato anche l’ambito di ciò che 

può venir conseguito da /ui. Il nonno e il nipote hanno di 

fronte cose differenti; anche il loro fine e il loro compito sono 

quindi differenti. L'ambito si restringe ulteriormente a causa 

dei limiti della sua personalità e delle qualità del suo popolo, 

della situazione e degli uomini con cui deve lavorare. Ciò che 

qualifica il politico di statura è il fatto che di rado egli deve 

fare sacrifici per essersi ingannato su questi limiti, ma anche il 

fatto che non tralascia nulla di quanto può essere realizzato. In 

ciò rientra pure — e proprio tra Tedeschi non si ripeterà mai 

abbastanza — il fatto che egli non scambia ciò che dovrebbe 

essere con.ciò che sarà. Le forme fondamentali dello stato e 

della vita politica, la direzione e il luogo del suo sviluppo 

sono dati con un determinato tempo, e sono immutabili. Tutti 

i successi politici vengono conseguiti con questi clementi, non 

già a loro spese. Gli adoratori degli ideali politici creano dal 

nulla: essi sono — nelle loro teste — sorprendentemente liberi; 

ma i loro edifici ideali, costruiti su concetti vuoti come quelli 

di saggezza, giustizia, libertà, eguaglianza sono in definitiva 



OSWALD SPENGLER 765 



sempre gli stessi, e ricominciano sempre da capo. A chi è 

padrone dei fatti basta dirigere in modo impercettibile ciò che 

gli è semplicemente presente. Questo sembra poca cosa; e 

tuttavia soltanto qui comincia la libertà in senso elevato. Ciò 

che conta sono le piccole mosse, l’ultima cauta pressione sul 

timone, la fine sensibilità per le sfumature più sottili dell’ani- 

ma dei popoli e degli individui. L'arte dello stato è da un lato 

chiara visione delle grandi linee tracciate in modo irrevocabile; 

dall’altro è mano sicura per ciò che è singolare e personale, 

per ciò che in questo quadro può trasformare un disastro che si 

approssima in un successo decisivo. Il segreto di ogni vittoria 

risiede nell’organizzazione di quanto non appare. Chi sa far 

questo può dominare il vincitore come rappresentante dei vinti, 

al pari di Talleyrand a Vienna. Cesare, la cui posizione era 

allora quasi disperata, ha posto a Lucca al servizio dei propri 

fini, senza farsi accorgere, la potenza di Pompeo, scavandogli 

così la fossa. Ma vi è un pericoloso limite del possibile, che la 

perfetta sensibilità dei grandi diplomatici dell’epoca barocca 

non ha quasi mai toccato, mentre è privilegio degli ideologi 

inciamparvi continuamente sopra. Vi sono svolte nella storia da 

cui il conoscitore si lascia trascinare per un intero periodo, pur 

di non perdere il dominio. Ogni situazione possiede la propria 

misura di elasticità, sulla quale non ci si può ingannare in nes- 

sun modo. Una rivoluzione giunta al suo scoppio dimostra 

sempre una deficienza di sensibilità politica, sia dei governanti 

sia dei loro avversari. 


Il necessario dev'essere fatto al tempo giusto, cioè fin quan- 

do è un dono con cui il potere del governo si assicura la 

fiducia, e non dev'essere fatto come un sacrificio che manifesti 

debolezza e desti disprezzo. Le forme politiche sono forme 

viventi che si trasformano inesorabilmente in una determinata 

direzione. Si cessa di essere «in forma » quando si vuol ostaco- 

lare questa marcia oppure deviarla in direzione di un ideale. 

La nobiltà romana possedette questa sensibilità; non così quel- 

la spartana. Nell’epoca dell’ascesa della democrazia si è sem- 

pre pervenuti all’attimo fatale — in Francia prima del 1789, in 

Germania prima del 1918 — in cui era troppo tardi per presenta- 

re una riforma necessaria come un libero dono, e quindi si 



766 OSWALD SPENGLER 



sarebbe dovuto rifiutarla con energia priva di esitazione in 

quanto ora, come sacrificio, preparava la dissoluzione. Ma chi 

non vede per tempo la prima necessità, disconoscerà ancora più 

sicuramente la seconda. Anche il viaggio a Canossa può avveni- 

re troppo presto o troppo tardi; in ciò risiede, per interi 

popoli, la decisione se essi saranno in futuro un destino per gli 

altri, oppure se dovranno subirlo da altri. Ma la democrazia in 

decadenza ripete lo stesso errore di voler tenere fermo ciò che 

era l’ideale di ieri: questo è il pericolo del secolo xx. Su ogni 

sentiero che conduce al cesarismo si trova un Catone. 

L'influenza che anche un uomo di stato in posizione eccezio- 

nalmente forte può avere sui metodi politici è assai ristretto; è 

proprio del valore dell’uomo di stato non farsi illusioni in pro- 

posito. Il suo compito è di lavorare con e dentro le forme 

storiche presenti; soltanto il teorico si entusiasma a scoprire 

forme più ideali. Nell’«essere in forma» politico rientra però 

l’incondizionato padroneggiamento dei più moderni. Qui non 

c'è nessuna scelta: i mezzi e i metodi sono dati dal tempo, e 

appartengono alla forma interna di un’epoca. Chi si sbaglia su 

di essi, chi consente al suo gusto e al suo sentimento di prevale- 

re sulla propria sensibilità, perde di mano i fatti. Il pericolo di 

un’aristocrazia è di essere conservatrice nei mezzi; il pericolo 

della democrazia è di scambiare la formula con la forma. I 

mezzi del presente sono ancora per molti anni quelli parlamen- 

tari: le elezioni e la stampa. Su di essi si può avere l’opinione 

che si vuole, si può onorarli o disprezzarli, ma bisogna padro- 

neggiarli. Bach e Mozart padroneggiavano i mezzi musicali del 

loro tempo: questo è l’indice di ogni specie di maestria. Le 

cose non stanno diversamente per l’arte dello stato. Ma quella 

che importa non è, in ogni caso, la forma esteriore generalmen- 

te visibile, bensì ciò di cui è il rivestimento. Perciò essa può 

venir mutata senza che sia mutato qualcosa nell’essenza dell’ac- 

cadere; può venir tradotta in concetti e in testi costituzionali 

senza neppur incidere sulla realtà; e l’ambizione di tutti i 

rivoluzionari e dottrinari si riduce a immischiarsi in questo 

gioco di diritti, di princìpi e di libertà alla superficie della 

storia. L'uomo di stato sa che l’estensione del diritto di voto è 

del tutto inessenziale rispetto alla tecnica ateniese o romana, 



OSWALD SPENGLER 767 



giacobina, americana e ora anche tedesca, di fare le elezioni. 

Comunque suoni la costituzione inglese, ciò è indifferente di 

fronte al fatto che la sua applicazione è controllata da un 

piccolo strato di famiglie nobili, di modo che Edoardo VII‘ era 

un ministro del proprio ministero. Per quanto riguarda la stam- 

pa moderna, il visionario può ben appagarsi del fatto che essa 

è costituzionalmente « libera »; il conoscitore si domanda soltan- 

to chi ne dispone. 


La politica è infine la forma in cui si compie la storia di 

una nazione in una pluralità di nazioni. La grande arte consi- 

ste nel mantenere internamente in forma la propria nazione in 

vista degli avvenimenti esterni. Non soltanto per i popoli, gli 

stati e i ceti, ma per le unità viventi di ogni specie fino ai 

gruppi di animali più semplici e al corpo dell'individuo, questo 

è il rapporto naturale tra politica interna e politica estera: 

la prima esiste esclusivamente per la seconda, e non viceversa. 

Il democratico genuino tratta di solito la politica interna come 

uno scopo in sé, mentre il diplomatico di media levatura pensa 

soltanto alla politica estera. Ma proprio per questo motivo i 

risultati particolari di entrambi restano sospesi in aria. Senza 

dubbio il maestro nell’arte politica si rivela nel modo più mar- 

cato nella tattica delle riforme interne, nella sua attività econo- 

mica e sociale, nell’abilità di mantenere in accordo, e al tempo 

stesso funzionante, la forma pubblica della totalità — « diritti 

e libertà » — con il gusto dell’epoca, e nell'educazione di senti- 

menti senza i quali non è possibile che un popolo si mantenga 

in buona costituzione: fiducia, rispetto dei capi, consapevolez- 

za della propria potenza, soddisfazione e, se diventa necessa- 

rio, entusiasmo. Ma tutto ciò mantiene il suo valore soltanto 

in riferimento al fatto fondamentale della storia superiore, cioè 

al fatto che un popolo non è solo al mondo e che per il 

suo futuro è decisivo il rapporto di forze con altri popoli e 

altre potenze, non il semplice ordinamento interno. E poi- 

ché lo sguardo dell’uomo comune non giunge tanto in là, è 

la minoranza governante che deve possederlo anche per il re- 



4. Edoardo VII (1841-1910), re d’Inghilterra a partire dal rgor, alla morte della 

madre regina Vittoria, promosse una politica di entenze con la Francia e la Russia: il 

suo regno — come allude qui Spengler — si ispirò ai più rigorosi principi costituzionali. 



768 OSWALD SPENGLER 



sto del popolo: quella minoranza in cui l’uomo di stato trova 

lo strumento con cui può realizzare i suoi propositi *. 



III 


Per la politica primitiva di ogni cultura le potenze direttive 

rappresentano un dato di fatto. L’intera esistenza riveste una 

forma rigorosamente patriarcale e simbolica; i condizionamenti 

del territorio materno sono così forti, il vincolo feudale e an- 

che lo stato fondato sul ceto sono, per la vita così circoscritta, 

una cosa talmente ovvia che la politica dell’epoca omerica e 

dell’epoca gotica si limita ad agire nel quadro di forme date. 

Queste forme mutano, in certa misura, per proprio conto. Che 

questo sia un compito della politica non perviene mai chiara- 

mente alla coscienza, anche quando una monarchia è rovesciata 

o una nobiltà è assoggettata. Esiste soltanto una politica di 

ceto, una politica imperiale, papale, di vassalli. Il sangue, la 

razza, parla con imprese impulsive e semi-consapevoli, poiché 

anche il sacerdote, nella misura in cui fa politica, agisce qui 

come uomo di razza. I « problemi» dello stato non si sono 

ancora destati. La signoria e i ceti originari, l’intero mondo di 

forme primitive, sono dati da Dio, e soltanto in base a questo 

presupposto si combattono minoranze organiche, fazioni. 


È proprio dell’essenza della fazione che non le venga neppu- 



a. Non ci sarebbe neppure bisogno di sottolineare che questi non 

sono i princìpi di un governo aristocratico, ma del governare in genere. 

Nessun capo di masse fornito di talento — né Cleone5 né Robespierre 

né Lenin — ha mai considerato diversamente il suo ufficio. Chi si 

sente realmente l’incaricato della moltitudine anziché il dirigente di 

coloro che non sanno quello che vogliono, non sarà padrone in casa 

propria neppure per un giorno. La questione è soltanto quella di sta- 

bilire se i grandi capi-popolo facciano uso della loro posizione a vantaggio 

proprio o degli altri; e su quest'argomento ci sarebbe parecchio da dire. 



5. Cleone, uomo politico ateniese del secolo v a. C., pervenuto al potere dopo la 

morte di Pericle (429 a. C.), capeggiò il partito favorevole a una guerra offensiva con- 

tro Sparta. Morì in battaglia ad Amfipoli nel 422 a. C., dopo che le sorti del conflitto 

già volgevano a sfavore di Atene. 



OSWALD SPENGLER 769 



re in mente l’idea di poter mutare secondo un programma 

l’ordine delle cose. La fazione vuol conquistare un posto all’in- 

terno di quest'ordine, vuole conquistare potenza e possesso, co- 

me tutto ciò che cresce in un mondo che cresce. Si tratta di 

gruppi in cui hanno un ruolo la parentela tra i casati, l'onore, 

la fedeltà, i vincoli di un’interiorità quasi mistica, e da cui 

rimangono del tutto escluse le idee astratte. Di questo genere 

sono le fazioni dell’epoca omerica e gotica, Telemaco e i Proci 

di Itaca, gli Azzurri e i Verdi sotto Giustiniano, i Guelfi e i 

Ghibellini, i casati di Lancaster e di York, i Protestanti?, gli 

Ugonotti, e ancora le potenze che hanno suscitato la Fronda e 

la prima tirannide. Il libro di Machiavelli poggia completamen- 

te su questo spirito. 


Una svolta subentra non appena assume la guida — con le 

grandi città — il non-ceto, cioè la borghesia. Ora, al contrario, 

è la forma politica che assurge a oggetto della lotta, a proble- 

ma: fin allora era maturata, ora dev'essere creata. La politica 

si desta; non soltanto viene concepita, ma anche tradotta in 

concetti. Contro il sangue e la tradizione si sollevano le poten- 

ze dello spirito e del denaro. Al posto dell'organico subentra 

l'organizzato, al posto del ceto subentra il partito. Un partito 

non è una formazione razziale, ma un insieme di teste e per- 

ciò tanto superiore agli antichi ceti nello spirito, quanto più 

povero nell’istinto. Esso è il nemico mortale di ogni articolazio- 

ne sviluppata in base al ceto, la cui semplice presenza ne con- 

traddice l’essenza. Proprio per questo motivo il concetto di 

partito è sempre legato con il concetto incondizionatamente 

negatore, dissolutore e socialmente livellatore dell'eguaglianza. 

Non si riconoscono più ideali di ceto, ma solamente interessi 

professionali ®. Ma esso è legato anche a quello, altrettanto ne- 

gatore, della libertà: / partiti sono un fenomeno puramente 

cittadino. Con la completa liberazione della città dalla campa- 

gna la politica di ceto lascia ovunque il passo alla politica di 

partito — poco importa che ne abbiamo conoscenza oppure 



a. I quali erano, in origine, un'alleanza di diciannove principi e 

città libere (1529). 


b. Perciò sul terreno dell’eguaglianza borghese il possesso di denaro 

prende subito il posto che prima occupava il rango genealogico. 



49. STORICISMO TEDESCO. 



779 OSWALD SPENGLER 



no: in Egitto con la fine del Regno di mezzo®, in Cina con 

gli stati combattenti”, a Bagdad e a Bisanzio con gli Abassidi*. 

Nelle capitali dell'Occidente si formano i partiti di tipo parla- 

mentare, nelle città-stato antiche i partiti del foro; partiti di 

stile magico li conosciamo nel Maali® e presso i monaci di 

Teodoro di Studion *"°. 


Ma è sempre il n0m-ceto, l’unità della protesta contro l’essen- 

za del ceto in generale, la cui minoranza dirigente — « cultura 

e possesso» — si presenta come partito fornito di un program- 

ma, di uno scopo non sentito ma definito, e che rifiuta tutto 

quanto non si lascia cogliere intellettualmente. Esiste perciò, 

in fondo, un unico partito — quello della borghesia, quello 

liberale; ed esso è anche pienamente cosciente di questo rango. 

Esso si identifica con il « popolo ». I suoi avversari, soprattutto 

i ceti genuini, « Juzker e preti», sono nemici e traditori « del 

popolo », mentre la propria opinione è la « voce del popolo », 

che viene iniettata a questo con tutti i mezzi della manipolazio- 

ne politica di partito come il discorso del foro o la stampa 

occidentale, per poterla quindi rappresentare. 



a. Cfr. anche J. WeLLHausen, Die religiòs-politischen Oppositionspar- 

teien im alten Islam, Gòttingen, 1901. 



6. Periodo della storia egiziana che abbraccia l'Undicesima e la Dodicesima di- 

nastia, dal secolo xx1 a. C. all'invasione degli Hyksos: in quest'epoca la capitale del- 

l'Egitto fu trasferita da Memfi a Tebe, c il nuovo stato raggiunse un maggior grado 

di unità attraverso il controllo esercitato sulla nobiltà feudale delle province e le sue ten- 

denze centrifughe. 


7. Con l’espressione Clan-kso (« stati combattenti ») si designano gli ultimi duc 

secoli e mezzo di dominio della dinastia Chou — vale a dirc il periodo che va dal 

500 circa al 249 a. C. — caratterizzati da una situazione di anarchia feudale e di lot- 

te tra i diversi regni che costituivano l'Impero cinese. 


8. Dinastia araba succeduta a quella omeiade, che salì al potere nel 750 trasfe- 

rendo Ja capitale del mondo arabo da Damasco a Bagdad. Il suo dominio entra in 

erisi verso la fine del secolo, giungendo al termine nel 1055, quando i Turchi selgiu- 

cidi — da tempo convertiti alla fede islamica — conquistano Bagdad. Tuttavia il ca- 

liffato abasside continuerà formalmente a esistere fino al 1258, quando sarà soppresso 

dai Mongoli che subentreranno ai Turchi nel possesso di Bagdad. 


9. Il Maali (o Mali) è una regione dell’Africa a sud del Sahara, sull'alto corso del 

Niger, dove nei secoli xiv e xv si sviluppò un regno reso particolarmente fiorente dal- 

la posizione strategica di alcune città-mercato come Timbuktu c Gao. 


10. Tcodoro di Studion (759-826), monaco bizantino, abate del monastero di Stu- 

dion a Costantinopoli, fu coinvolto nella disputa sull’iconoclastia e assunse posizione 

favorevole al culto delle immagini: scrisse tre Légoi antirretikoì, inni sacri e varie lettere. 



OSWALD SPENGLER 771 



I ceti originari sono la nobiltà e il clero. Il partito origina- 

rio è quello del denaro e dello spirito, il partito liberale, il 

partito della grande città. Qui risiede la giustificazione profon- 

da dei concetti di aristocrazia e di democrazia, e ciò per tutte 

le culture. Aristocratico è il disprezzo per lo spirito delle cit- 

tà, democratico è il disprezzo per il contadino, l’odio per la 

campagna. È questa la differenza tra politica di ceto e politi- 

ca di partito, tra coscienza di ceto e mentalità di partito, tra 

razza e spirito, tra crescita e costruzione. Aristocratica è la cultu- 

ra compiuta, democratica è l’incipiente civiltà in declino della 

metropoli, finché l’antitesi non viene superata nel cesarismo. 

Come è certo che la nobiltà è :/ ceto, e che il terzo stato non 

perverrà mai a essere realmente in forma in questa maniera, 

così è certo che la nobiltà riuscirà sì a organizzarsi in partito, 

ma non a sentirsi tale. 


Ma la rinuncia a ciò non le è consentita. Tutte le costituzio- 

ni moderne rinnegano i ceti e sono organizzate sulla base del 

partito come l’ovvia forma fondamentale della politica. Il seco- 

lo x1x, e nello stesso modo anche il n a. C., è l’apogeo della 

politica di partito. Il suo carattere democratico impone la for- 

mazione di partiti contrapposti, e mentre una volta — ancora 

nel secolo xvi — il terzo stato si costituiva come ceto secon- 

do il modello della nobiltà, ora invece la formazione difensiva 

del partito conservatore sorge in base al modello del partito 

liberale ® completamente dominato dalle forme di esso, borghe- 

sizzato senza essere borghese, costretto a una tattica i cui mez- 

zi e i cui metodi sono esclusivamente determinati dal liberali 

smo. Esso ha soltanto la scelta tra maneggiare questi mezzi 

meglio dell'avversario © o soccombere. Ha però profonde radici 



a. Alla democrazia inglese e americana è essenziale il fatto che in 

Inghilterra i contadini sono scomparsi e che in America non sono mai 

esistiti. Il farmer è spiritualmente un abitante dei sobborghi, e prati- 

camente esercita l'agricoltura come un'industria: in luogo dei villaggi 

vi sono soltanto frammenti di metropoli. 


b. Ed essa sorge ovunque tra i due ceti originari sussiste anche una 

antitesi politica, come in Egitto, in India e in Occidente, e anche dove 

c'è un partito clericale, cioè non una religione ma una chiesa, non 

dei fedeli ma un clero. 



c. E il suo più forte contenuto di razza gliene dà tutte le prospettive. 



772 OSWALD SPENGLER 



nell’essenza di un ceto il fatto che esso non colga questa situa- 

zione e voglia combattere non il nemico, ma la forma: di qui 

un appello ai mezzi estremi che ha devastato, all’inizio del 

declinare di ogni civiltà, la politica interna di interi stati, conse- 

gnandoli inermi all’avversario esterno. La necessità, propria di 

ogni partito, di essere borghese nell’apparenza diventa caricatu- 

ra non appena, a fianco degli strati cittadini forniti di cultura 

e di possesso, si organizza come partito anche il resto del popo- 

lo. Così, per esempio, il marxismo, che in teoria è una negazio- 

ne della borghesia, come partito è invece del tutto piccolo-bor- 

ghese nel suo comportamento e nella sua guida. Vi è un conflit- 

to permanente tra la volontà, che esce necessariamente fuori 

del quadro della politica di partito e quindi di ogni costituzio- 

ne — entrambe sono esclusivamente liberali — e che può venir 

designata in modo onorevole solo come guerra civile, e il suo 

modo di presentarsi, al quale ci si crede obbligati e che in 

ogni caso bisogna tenere per conseguire in quest'epoca qualche 

risultato durevole. Ma il modo di presentarsi di un partito nobi- 

liare in parlamento è intimamente tanto poco genuino quanto 

quello di un partito proletario. Qui soltanto la borghesia è a 

casa propria. 


A Roma patrizi e plebei hanno combattuto essenzialmente 

come ceti, dall’istituzione dei tribuni nel 471 a. C. fino al ricono- 

scimento del loro pieno potere legislativo nella rivoluzione del 

287 a. C. A partire da quel momento l’antitesi ha un’importan- 

za soltanto più genealogica, e si sviluppano partiti che si posso- 

no a buon diritto designare come partito liberale e partito con- 

servatore: il populus che dava il tono al foro® e la nobiltà che 

aveva il proprio sostegno nel senato. Intorno al 287 a. C. quest’ul- 

timo si trasforma da consiglio di famiglia delle antiche stirpi 

in un consiglio di stato dell’aristocrazia amministrativa. Vicini 

al populus .sono i comizi centuriati, organizzati in base al pos- 



a. La plebs corrisponde al terzo stato — borghesi e contadini — del 

secolo xvin, mentre il populus corrisponde alla « massa » metropolitana 

del secolo xix. Questa differenza si esprime nel comportamento nei 

confronti degli schiavi liberati, in gran parte di origine non italica, che 

la plebs come ceto cerca di relegare nel minor numero possibile di tribus, 

mentre nel populus come partito essi avranno ben presto un'importanza 

determinante. 



OSWALD SPENGLER 773 



sesso, e il gruppo dei grandi finanzieri, gli equites; vicino alla 

nobiltà è invece la classe contadina, influente nei comizi tribu- 

ti. Si pensi da un lato ai Gracchi e a Mario, dall’altro a Caio 

Flaminio; e basta guardare un po’ più attentamente per osserva- 

re la posizione del tutto mutata dei consoli e dei tribuni. Essi 

non sono più gli uomini di fiducia nominati dal primo e dal 

terzo stato, il cui comportamento è determinato da questo fat- 

to, bensì rappresentano e cambiano il partito. Vi sono consoli 

« liberali» come Catone il Vecchio e tribuni «conservatori » 

come Ottavio, l'avversario di Tiberio Gracco. Entrambi i parti- 

ti stabiliscono i loro candidati per le elezioni e cercano di 

imporli con tutti i mezzi di manipolazione demagogica; e se 

l’uso del denaro non ha avuto successo nelle elezioni, avrà mi- 

glior sorte sugli eletti. 


In Inghilterra tories e whigs si sono costituiti come partiti 

all’inizio del secolo x1x, borghesizzandosi nella forma e assu- 

mendo entrambi alla lettera il programma liberale: in tal mo- 

do l'opinione pubblica era, come sempre, completamente con- 

vinta e soddisfatta. In virtù di questa conversione magistrale, e 

compiuta al tempo giusto, non si arrivò alla formazione di un 

partito nemico del ceto, com’era avvenuto nella Francia del 

1789. I membri della Camera Bassa diventarono, da emissari del- 

lo strato sociale dominante, rappresentanti del popolo che ne 

dipendevano d’ora in poi finanziariamente; ma la guida rima- 

se nelle stesse mani e l’opposizione tra i partiti, per la quale 

fin dal 1830 vennero spontaneamente coniati i termini « libera- 

le» e «conservatore», poggiò su una questione di più o di 

meno, non già su un alternata Sono i medesimi anni in cui 

l'aspirazione letteraria alla libertà della « Giovane Germania » 

si trasformava in una mentalità di partito; gli anni in cui nell’A- 

merica del presidente Jackson " il partito repubblicano si orga- 

nizzava contrapponendosi a quello democratico, e il principio 

che le elezioni sono un affare e che tutti gli uffici pubblici 

sono bottino del vincitore veniva riconosciuto formalmente *. 



a. Contemporaneamente la Chiesa cattolica passa silenziosa dalla poli- 

tica di ceto alla politica di partito, con una sicurezza strategica che non 



11. Andrew Jackson (1767-1845), presidente degli Stati Uniti dal 1829 al 1837: sotto 

la sua presidenza si consolidò la struttura bipartitica della vita politica americana. 



774 OSWALD SPENGLER 



Ma la forma della minoranza dirigente si sviluppa izarresta- 

bilmente dal ceto, attraverso il partito, fino a diventare un se- 

guito di individui. La fine della democrazia e il suo trapasso 

al cesarismo si manifesta quindi nel fatto che non scompare 

tanto il partito del terzo stato, il liberalismo, bensì il partito 

come forma in generale. La mentalità, il fine popolare, gli 

ideali astratti di ogni genuina politica di partito si dissolvono 

e in loro luogo subentra la politica privata, la sfrenata volontà 

di potenza di pochi uomini di razza. Un ceto ha un istinto, 

un partito ha un programma, un seguito ha un padrone: que- 

sta è la strada che dal patriziato e dalla plebe, passando attra- 

verso ottimati e popolari, conduce ai pompeiani e ai cesariani. 

L'epoca del genuino dominio dei partiti abbraccia a malapena 

due secoli e presso di noi è, dopo la guerra mondiale, già in 

piena decadenza. Che l’intera massa dell’elettorato mandi avan- 

ti, per un impulso comune, uomini che devono sostenere la 

sua causa — come è detto ingenuamente in tutte le costituzio- 

ni — era possibile soltanto all’inizio, e presuppone che non 

siano presenti neppure le premesse dell’organizzazione di deter- 

minati gruppi. Così era nel 1789 in Francia, e nel 1848 in Germa- 

nia. All’esistenza di un’assemblea è però subito legata la forma- 

zione di unità tattiche la cui coesione poggia sulla volontà di 

affermare la posizione dominante acquisita e che non si conside- 

rano più affatto portavoce dei propri elettori, ma, al contrario, 

li rendono docili con tutti i mezzi di propaganda per disporli 

ai propri scopi. Una tendenza del popolo che si sia organizza- 

ta è con ciò già diventata lo strumento dell’organizzazione, e 



sarà mai ammirata abbastanza. Nel secolo xvi essa era stata comple- 

tamente aristocratica per ciò che riguardava lo stile della sua diplomazia, 

l'assegnazione delle grandi cariche e lo spirito dei suoi circoli più elevati. 

Si pensi al tipo di abate e ai principi della chiesa che diventarono ministri 

e ambasciatori, come il giovane cardinale di Rohan !?. Ora, in modo del 

tutto «liberale », alla nobiltà dell'origine si sostituisce Ia mentalità, al 

gusto la capacità di lavoro, e i grandi mezzi della democrazia — stampa, 

elezioni, denaro — vengono da essa manipolati con un'abilità che il 

liberalismo vero e proprio ha raggiunto ben di rado, e mai superato. 



12. Louis René Edouard cardinale di Rohan (1734-1803), fu ambasciatore speciale 

a Vienna dal 1771 al 1774, e in seguito arcivescovo di Strasburgo dal 1779 al 1801. 



OS$WALD SPENGLER 775 



procede inarrestabilmente su questa strada finché anche l’orga- 

nizzazione non è diventata strumento dei capi. La volontà di 

potenza è più forte di ogni teoria. All’inizio, la guida e l’appa- 

rato sorgono in funzione del programma; poi vengono difesi 

dai detentori a causa della potenza e del bottino — come oggi 

avviene generalmente, dato che in tutti i paesi migliaia di per- 

sone vivono del partito, degli uffici e degli affari che esso of- 

fre; infine il programma scompare dal ricordo e l’organizzazio- 

ne lavora soltanto a proprio profitto. 


Nel caso del più vecchio degli Scipioni e di Quinto Flami- 

nio possiamo ancora parlare di amici che li seguono in guerra, 

ma Scipione minore si è formata una colors amicorum — certa- 

mente il primo esempio di un seguito organizzato — che lavo- 

ra poi anche davanti al tribunale e nel corso delle elezioni * 

Analogamente, il rapporto di fedeltà tra patrono e clienti, in 

origine del tutto patriarcale e aristocratico, si sviluppa fino a 

diventare una comunità di interessi basata su un fondamento 

assai materiale; e già prima di Cesare vi sono contratti scritti 

tra candidati ed elettori con la precisa determinazione del com- 

penso e della prestazione corrispondente. D'altra parte si costi- 

tuiscono — esattamente come nell’America odierna® — i circo- 

li e le associazioni elettorali dei tribuni che dominano o spaven- 

tano la massa elettorale del distretto per poter negoziare l’affa- 

re elettorale con i grandi capi (i precursori dei Cesari) da poten- 



a. Per quanto segue cfr. M. Getzer, Die Nobilitàt der ròmischen 

Republik, Leipzig, 1912, p. 43 sgg., e A. Rosemsero, Untersuchungen zur 

ròmischen Zenturienverfassung, Berlin, 1911, p. 62 sgg. 


b. Universalmente nota è la Tammany Hall a New York; ma in 

tutti i paesi governati da partiti la situazione si avvicina a questa. Il 

caucus americano che distribuisce gli uffici pubblici tra i suoi aderenti 

costringendo la massa degli elettori a confluire sui loro nomi, è stato intro- 

dotto in Inghilterra da Chamberlain !* con il nome di National Liberal 

Federation, e dopo il 1919 è in rapido sviluppo anche in Germania. 



13. Sede di riunione della Società di St. Tammany, fondata fin dal 1789, che co- 

stituì il primo nucleo del partito democratico; per tutto l’Ottocento, e ancora nei pri- 

mi decenni di questo secolo, fu un importante circolo e gruppo di pressione nella vita 

politica degli Stati Uniti. 


14. Joseph Chamberlain (1836-1914), uomo politico inglese, fu tra l’altro segreta- 

rio alle colonie durante la guerra anglo-boera; ebbe una parte importante nella questio- 

ne irlandese. 



776 OSWALD SPENGLER 



za a potenza. Questo non è il naufragio, bensì il senso e il 

necessario risultato finale della democrazia; e il lamento che 

gli idealisti estranei al mondo levano su questa distruzione del- 

le loro speranze indica soltanto la loro cecità di fronte all’ineso- 

rabile divergenza tra verità e fatti e all’intima connessione tra 

denaro e spirito. 


La teoria politico-sociale è soltanto un substrato, ma un sub- 

strato necessario, della politica di partito. L’orgogliosa serie 

che da Rousseau va fino a Marx ha il proprio corrispettivo 

nell'antichità in quella che dai Sofisti giunge fino a Platone e 

a Zenone. In Cina si possono ancora ritrovare nella letteratura 

confuciana e taoistica i tratti fondamentali di dottrine corri- 

spondenti: basti menzionare il nome del socialista Mo Ti”. 

Nella letteratura bizantina e araba del periodo abasside, dove 

il radicalismo si presenta sempre in una formulazione rigida- 

mente ortodossa, esse occupano largo spazio e agiscono come 

forze motrici in tutte le crisi del secolo rx; in Egitto e in India 

la loro presenza è dimostrata dallo spirito degli avvenimenti 

del periodo di Budda e degli Hyksos. Esse non hanno bisogno 

di una formulazione letteraria; altrettanto efficace è la loro dif- 

fusione orale, la predicazione e la propaganda da parte delle 

sette e delle leghe, come avviene generalmente all'origine delle 

correnti puritane, nonché nell’Islam e nel Cristianesimo anglo- 

americano. 


Se queste dottrine siano «vere» o «false» è una questione 

senza senso — si deve sottolinearlo sempre — per il mondo 

della storia politica. La «confutazione » del marxismo, per 

esempio, rientra nell’ambito delle discussioni accademiche o 

dei dibattiti pubblici, in cui ognuno ha ragione e gli altri 

hanno sempre torto. Ciò che importa è se queste dottrine sono 

efficaci, cioè da quando e per quanto tempo la fede nel miglio- 

ramento della realtà mediante un sistema di idee costituisce, in 

generale, una potenza con cui la politica deve fare i conti. Noi 

ci troviamo in un'epoca di fiducia illimitata nell’ onnipotenza 

della ragione. I grandi concetti generali di libertà, di giustizia, 



15. Mo Ti (o Mo Tsc), filosofo cinese vissuto tra la seconda metà del secolo v e 

i primi decenni del secolo 1v a. C., all’epoca degli « stati combattenti », si distaccò 

dal Confucianesimo per elaborare, nell'opera che da lui trac il nome — il Mo-tse — 

una teoria dell'amore universale. 



O$WALD SPENGLER 777 



di umanità, di progresso, sono sacri; le grandi teorie sono van- 

geli. La loro forza di convinzione non poggia su motivi, poi- 

ché la massa di un partito non possiede né l’energia critica né 

la distanza necessaria per sottoporle a una prova seria, bensì 

sul crisma sacramentale delle loro parole d’ordine. Ma questa 

magia si limita alla popolazione delle grandi città e all’epoca 

del razionalismo, di questa « religione dei dotti ». Essa non agi- 

sce però sulla classe contadina, e sulle masse cittadine ha in- 

fluenza soltanto per un certo periodo, con la violenza di una 

nuova rivelazione. Ci si converte, si aderisce con fervore alle 

parole e ai loro annunciatori, si diventa martiri sulle barricate, 

sui campi di battaglia, sul patibolo; allo sguardo si apre un 

aldilà politico e sociale, e la critica spassionata sembra bassa e 

profana, degna di morte. 


Ma con ciò scritti come il Contract social e il Manifesto 

comunista diventano strumenti di potenza di prim’ordine nel- 

la mano di uomini energici, che si sono affermati all’interno 

della vita di partito e che sanno formare e utilizzare le convin- 

zioni della massa da essi dominata. 


Ciononostante questi ideali astratti hanno una potenza che 

si estende appena oltre i due secoli — il periodo della politica 

di partito. Non che vengano confutati, ma diventano noiosi. 

Rousseau lo è già da lungo tempo, tra breve lo sarà anche 

Marx. Alla fine si abbandona non questa o quella teoria, ma 

la fede nelle teorie in generale, e con questa anche l’ottimismo 

esaltato del secolo xvitI, convinto di poter correggere i difetti 

della realtà mediante l’applicazione di concetti. Quando Plato- 

ne, Aristotele e i loro contemporanei definivano le forme di 

costituzione antiche e le mescolavano per ottenere la costituzio- 

ne più saggia e più bella, tutto il mondo li ascoltava; ed è 

stato proprio Platone, col suo tentativo di riformare Siracusa 

secondo una ricetta ideologica, a rovinare questa città ®. Altret- 

tanto sicuro mi sembra che gli stati meridionali della Cina 

sono stati messi fuori forma a causa di esperimenti filosofici 

dello stesso tipo, e si sono così posti alla mercè dell’imperiali- 



a. Sulla storia di questo tragico esperimento cfr. E. MerEr, Geschickie 

des Althertums, Stuttgart, 1884-1902, vol. V, $ 987 sgg. 



778 OSWALD SPENGLER 



smo Ch’in®!. I fanatici giacobini della libertà e dell’eguaglian- 

za hanno consegnato per sempre la Francia, dopo il Diretto- 

rio, al mutevole dominio dell’esercito e della borsa, e ogni 

rivolta socialista apre nuove vie al capitalismo. Ma al tempo in 

cui Cicerone scrisse il suo De republica per Pompeo e Sallustio 

le sue esortazioni a Cesare, più nessuno vi poneva attenzione. 

In Tiberio Gracco si può forse ancora scoprire un'influenza di 



quello stoico entusiasta, Blossio, che morì più tardi suicida do- 



po aver condotto alla rovina anche Aristonico di Pergamo"; 



ma nell’ultimo secolo prima di Cristo le teorie sono diventate un 

abusato tema scolastico, e d’allora in poi conta soltanto la po- 

tenza. 


Nessuno deve illudersi: l’epoca della teoria volge al termi- 

ne anche per noi. I grandi sistemi del liberalismo e del sociali- 



a. I « progetti degli stati combattenti », il Ch'un-ch'iu Fan lu e le 

biografie che si trovano in Ssu-ma Ch’ien sono pieni di esempi di uno 

scolastico immischiarsi della « saggezza » nella politica !*. 


b. Sulla sua «città del sole » formata di schiavi e di salariati giorna- 

nalieri cfr. PauLy-Wissowa, Real-Encyclopidie der classischen  Alter- 

turmswissenschaft, vol. II, col. 962. In modo analogo il rivoluzionario re 

Cleomene III di Sparta (235 a. C.) subì l’influenza dello stoico Sfero!9. 

Si capisce perché il senato romano mise ripetutamente al bando « filosofi 

e retori », cioè politicanti, acchiappanuvole e mestatori. 



16. Lo stato di Ch'in si affermò, alla fine dell’epoca degli « stati combattenti », 

come nucleo di riunificazione dell’impero, sconfiggendo c sottomettendo a sé gli stati 

meridionali: ciò condusse nel 249 a. C, alla deposizione dell'ultimo imperatore Chou c, 

tre anni dopo, all'ascesa al trono di Shih Huang Ti, che fondò la nuova dinastia Ch'in. 


17. Blossio di Cuma, filosofo stoico della seconda metà det secolo Il a. C., allievo 

di Antipatro di Tarso, fu amico di Tiberio Gracco; dopo la sua morte si rifugiò a Per- 

gamo, dove nel 133 a. C. Aristonico, fratello del defunto re Attalo III (che aveva la- 

sciato i suoi domini in eredità a Roma), aveva rivendicato per sé il regno, appoggian- 

dosi sui proletari e sugli schiavi e vagheggiando la formazione di uno stato socialista, 

detto MALéTOALE, « città del sole ». Nel 130 l'intervento romano mise fine al tentativo 

di Aristonico, che fu fatto prigioniero, condotto a Roma e giustiziato; Blossio si tolse 

invece la vita. 


18. Il Ch'un-ch'iu Fan lu è il titolo dell'opera principale di Tung Chung-shu (179- 

104 2. C.), filosofo confuciano del periodo Han. Ssu-ma Ch’ien (145-86 a. C.) fu au- 

tore, insieme con il padre Ssu-ma T'an, della prima grande storia cinese, i SMik Chi. 


19. Cleomene III, re di Sparta dal 235 al 219 a. C., tentò una riforma politico-so- 

ciale dello stato spartano estendendo la cittadinanza ai pericci e redistribuendo le ter- 

re; combattè contro la lega achea e contro Antigono Dosone, re di Macedonia, rima- 

nendo però sconfitto. Suo ispiratore c consigliere fu il filosofo stoico Sfero, discepolo di 

Clcante. 



OSWALD SPENGLER 779 



smo sono sorti nell’insieme tra il 17750 e il 1850. Quello di Marx è 

oggi vecchio quasi di un secolo, ed è rimasto l’ultimo. Con la 

sua concezione materialistica della storia esso rappresenta inter- 

namente l’estrema conseguenza del razionalismo, e perciò an- 

che una conclusione. Ma come la fede rousseauiana nei diritti 

dell’uomo ha perduto la sua forza all’incirca nel 1848, così la 

fede in tale concezione l’ha perduta con la guerra mondiale. 

Chi confronta la dedizione fino alla morte, che le idee di 

Rousseau hanno incontrato nella Rivoluzione francese, con il 

comportamento dei socialisti del 1918, costretti a conservare di 

fronte ai loro seguaci e a se stessi una convinzione che non 

possedevano più — e non in vista dell'idea, ma in vista della 

potenza che da essa dipendeva — può vedere già tracciata in 

anticipo la via su cui cadrà alla fine ogni programma, in quan- 

to intralcia la lotta per il potere. La fede in un programma 

aveva dato distinzione all’avo; per il nipote è una dimostrazio- 

ne di provincialismo. Al suo posto spunta già oggi, dal biso- 

gno dell’anima e dal tormento della coscienza, una nuova rasse- 

gnata pietà che rinuncia a fondare un nuovo mondo terreno, e 

che in luogo di concetti acuti cerca il mistero, per trovarlo 

finalmente nella profondità di una seconda religiosità. 



IV 



Questo è un aspetto, l'aspetto linguistico, di quel grande 

fatto che è la democrazia. Rimane da considerare l’altro fatto 

decisivo, quello della razza. La democrazia sarebbe rimasta nel- 

le teste e sulla carta se tra i suoi apostoli non vi fossero state 

nature genuine di dominatori per cui il popolo non era che un 

oggetto e gli ideali non erano che mezzi, anche se spesso non 

ne erano consapevoli. Tutti i metodi, anche i meno sospetti, 

della demagogia, che è nel suo intimo la stessa cosa della diplo- 

mazia dell’ancien régime — soltanto che si fonda sulle masse 

anziché sui prìncipi e ambasciatori, su opinioni, disposizioni, 

esplosioni di volontà disordinate anziché su spiriti eletti, e quin- 

di sembra un'orchestra di ottoni anziché antica musica da came- 

ra — sono stati elaborati da democratici onesti ma pratici; e i 

partiti della tradizione li hanno appresi soltanto da loro. 


La via della democrazia è però caratterizzata dal fatto che 



780 OSWALD SPENGLER 



gli autori delle costituzioni popolari non hanno mai avuto so- 

spetto dell'efficacia reale dei loro progetti; né l'hanno avuto il 

creatore della costituzione « serviana » ? di Roma o l’Assem- 

blea nazionale di Parigi. Poiché tutte queste forme non sono 

cresciute come il feudalesimo, ma sono state escogitate, e non 

già sulla base di una conoscenza profonda degli uomini e delle 

cose, bensì sulla base di rappresentazioni astratte del diritto e 

della giustizia, un abisso separa lo spirito delle leggi dalle con- 

suetudini pratiche che si formano silenziosamente, sotto la lo- 

ro pressione per adattarle al ritmo della vita reale o per tener- 

le distanti da questa. Soltanto l’esperienza ha insegnato — al 

termine dell’intero sviluppo — che i diritti del popolo e l’in- 

fluenza del popolo sono cose differenti. Quanto più universale 

è il diritto di voto, tanto più ristretto è il potere di un 

elettorato. 


Agli inizi di una democrazia il campo appartiene soltanto 

allo spirito. Non c’è nulla di più nobile e di più puro della 

seduta notturna del 4 agosto 1789 e del giuramento della pallacor- 

da o della mentalità presente nella chiesa di San Paolo a Fran- 

coforte?! dove, avendo già in mano il potere, si discusse tanto 

a lungo su verità universali da dare il tempo alle potenze della 

realtà di riunirsi e di spazzare via i sognatori. Ciononostante, 

l’altra grandezza di ogni democrazia si annuncia abbastanza 

presto e rammenta il fatto che si può far uso dei diritti costitu- 

zionali soltanto se si ha del denaro ?. Il funzionamento approssi- 

mativo del diritto di voto presuppone, qualsiasi cosa ne pensi 

l’idealista, che non esista alcuna dirigenza organizzata la qua- 



a. La democrazia primitiva, caratterizzata da progetti costituzionali 

pieni di speranza e che per noi giunge fino all’epoca di Lincoln, Bi- 

smarck e Gladstone, deve faure quest'esperienza; la democrazia successiva 

— che per noi è quella del parlamentarismo maturo — prende le mosse 

da essa. Da_allora, verità e fatti si sono separati definitivamente nella 

forma dell'ideale di partito da un lato, della cassa del partito dall’altro. 

Il parlamentare genuino si sente, in virtà del denaro, svincolato dalla 

dipendenza che è contenuta nella concezione ingenua che l’elettore ha 

dell’eletto, 



20. Questa costituzione trac il proprio nome da Servio Tullio, il sesto (secondo la 

tradizione) re di Roma, vissuto probabilmente nel secolo vi a. C. 

21. Luogo di riunione dell'Assemblea costituente tedesca nel 1848. 



OSWALD SPENGLER 781 



le agisce sugli elettori nel proprio interesse e assumendo come 

criterio il denaro disponibile. Ma se questa esiste, il voto ha 

ancora soltanto il significato di una censura che la massa eserci- 

ta sulle singole organizzazioni; sulla loro formazione essa non 

possiede però più la minima influenza. Analogamente, il dirit- 

to ideale delle costituzioni occidentali, cioè il diritto della mas- 

sa di determinare liberamente i propri rappresentanti, rimane 

mera teoria, poiché in realtà ogni organizzazione sviluppata si 

completa da sé. Si desta infine il sentimento che il suffragio 

universale non contiene alcun diritto reale, neppure quello del- 

la scelta tra i partiti, poiché le formazioni di potere cresciute 

sul suo terreno dominano col denaro tutti i mezzi spirituali 

del discorso parlato e scritto e così dirigono a piacimento l’opi- 

nione dei singoli sui partiti, mentre questi allevano da parte 

loro, attraverso la disponibilità dei pubblici uffici, l'influenza e 

le leggi, una schiera di partigiani fedeli — cioè appunto il 

caucus che esclude tutti gli altri individui inducendoli a una 

fiacchezza elettorale che alla fine non potrà più essere superata 

neppure nelle grandi crisi. 


Apparentemente sussiste una forte differenza tra la democra- 

zia parlamentare occidentale e quella delle civiltà egizia, cine- 

se, araba, nel periodo del loro declino, a cui è completamente 

estranea l’idea di elezioni condotte con il suffragio universale. 

Ma per noi, in quest'epoca, la massa come elettorato è «in 

forma » nel medesimo senso in cui lo era stata precedentemen- 

te come insieme di sudditi, cioè come oggetto per un soggetto, 

e in cui lo era stata a Bagdad e a Bisanzio come setta o come 

monacato, e altrove come esercito governante, come associazio- 

ne segreta o come stato particolare all’interno dello stato. La 

libertà è, come sempre, semplicemente negativa. Essa consiste 

nel rifiuto della tradizione — della dinastia, dell’oligarchia, 

del califfato. Ma l’esercizio della potenza trapassa subito intat- 

to da questi poteri ad altri nuovi, cioè a capi-partito, a dittato- 

ri, a pretendenti, a profeti e ai relativi aderenti, e di fronte ad 

essi la massa rimane ancor sempre incondizionatamente ogget- 


?. Il « diritto del popolo all’auto-determinazione » è un modo 



a. Se ciononostante si sente invece liberata, ciò dimostra nuovamente 

la profonda incompatibilità tra spirito metropolitano e tradizione, mentre 



782 OSWALD SPENGLER 



di dire cortese: di fatto con ogni suffragio universale — non 

organico — cessa anche il senso originario dell’eleggere in gene- 

rale. Quanto più vengono dissolte politicamente le articolazio- 

ni dei ceti e delle professioni, tanto più priva di forma e iner- 

me diventa la massa degli elettori, tanto più incondizionata- 

mente essa è alla mercé dei nuovi poteri, cioè delle direzioni 

dei partiti, che dettano ad essa la loro volontà con tutti i 

mezzi di coercizione spirituale, per decidere tra loro la lotta 

per il dominio — cioè con metodi di cui in fondo la massa 

non vede né comprende nulla — e che utilizzano ognuno a 

proprio vantaggio l'opinione pubblica come un’arma da essi 

stessi forgiata. Ma proprio per questo una spinta irresistibile 

muove la democrazia su tale via, che conduce alla propria 

auto-dissoluzione °. 


I diritti fondamentali di un popolo antico ($fuog, populus) 

si estendevano fino alla possibilità di occupare gli uffici pubbli- 

ci più elevati e di amministrare la giustizia®. A tal fine si era 

«in forma» nel foro — in modo del tutto euclideo, come 

massa fisicamente presente riunita in un punto: qui si diventa- 

va oggetto di una manipolazione di stile antico, effettuata cioè 

con mezzi fisici, diretti, sensibili, con una retorica che agiva in 



tra la sua attività e l'essere governata dal denaro sussiste un’intima rela- 

zione. 


a. La costituzione tedesca del 1919, sorta quindi già sulla soglia di 

una democrazia declinante, contiene in piena ingenuità una dittatura 

delle macchine di partito, che hanno trasferito a sé ogni diritto e che non 

sono seriamente responsabili di fronte a nessuno. Il famigerato voto 

proporzionale e la lista nazionale assicurano ad esse l’auto-integrazione. 

In luogo dei diritti « del popolo» — come idealmente li conteneva la 

costituzione del 1848 — esistono soltanto i diritti dei partiti: ciò suona 

come innocuo, ma racchiude in sé il cesarismo delle organizzazioni. 

In questo senso essa è però la più progredita costituzione di quest'epoca; 

lascia giù riconoscere la fine; alcune piccolissime trasformazioni, ed essa 

concederà ai singoli il potere illimitato. 


b. Al contrario, la legislazione è connessa con un ufficio. Anche 

quando l'accoglimento o il rigetto di una legge spettano formalmente 

a un'assemblea, la legge può essere introdotta soltanto da un magi- 

strato, per esempio da un tribuno. Le aspirazioni della massa al con- 

seguimento di un diritto — spesso suggerite dai detentori del potere — 

si manifestano quindi in occasione delle elezioni a qualche carica, 

come ci insegna l'età dei Gracchi. 



OSWALD SPENGLER 783 



modo immediato sull’occhio e sull’orecchio di ognuno e che 

con i suoi strumenti, a noi diventati in parte disgustosi e dif- 

ficilmente sopportabili, con lacrime studiate, con vesti straccia- 

te =, con la lode spudorata dei presenti, con menzogne insensa- 

te sull’avversario, con un repertorio fisso di brillanti locuzioni 

e cadenze armoniose, con giochi e con doni, con minacce e 

percosse, ma soprattutto con denaro — è sorta esclusivamente 

in questo luogo e a questo scopo. Noi ne conosciamo gli inizi 

dall’Atene del 400° e la fine, in misura spaventosa, dalla Roma 

‘di Cesare e di Cicerone. È come sempre: le elezioni si sono 

trasformate da nomina di rappresentanti di ceto in una lotta 

tra candidati di partito. Ma con ciò è ormai data l’arena in cui 

penetra il denaro — e dopo Zama con un enorme incremento 

di dimensioni. « Quanto maggiore era la ricchezza che si pote- 

va concentrare nelle mani dei singoli individui, tanto più la 

lotta per la potenza politica diventava una questione di dena- 

10 »°. Con ciò è detto tutto. Ma in un senso più profondo 

sarebbe tuttavia falso parlare di corruzione. Non è la degenera- 

zione del costume, ma il costume stesso — quello della demo- 

crazia matura — che assume con una necessità fatale forme 

del genere. Il censore Appio Claudio (310) — senza dubbio un 

genuino ellenista e ideologo della costituzione (come potevano 

essercene soltanto nel circolo di Madame Roland ?) — ha sicura- 

mente pensato nelle sue riforme ai diritti elettorali e non all’ar- 

te di fare le elezioni; ma quei diritti preparano soltanto la 



a. Ancora a cinquant'anni Cesare dovette recitare una commedia 

siffatta davanti ai suoi soldati sul Rubicone, perché essi erano abituati 

a questo se si voleva qualcosa da loro. Ciò corrisponde più o meno alla 

«voce sincera della convinzione » nelle assemblee odierne. 


b. Ma il tipo Cleone era ovviamente presente a Sparta come a Roma 

al tempo dei tribuni consolari. 


c. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 94. Insieme al César di Eduard 

Merer, questo libro fornisce il migliore sguardo d’insieme sul metodo 

della democrazia romana. 



22. Jcanne-Manon Phlipon (1754-1793), moglic dell'uomo politico Jean-Marie Ro- 

land, ministro nel governo girondino: fu arrestata dopo la fuga del marito e in se- 

guito ghigliottinata nel 1793, durante il Terrore: nel carcere scrisse un Appel è l'im- 

partiale postérité. Le sue Mémoires furono pubblicate postume molti anni più tardi, 

nel 1820. 



784 OSWALD SPENGLER 



strada a quest'arte. La razza si manifesta soltanto in essa, e 

ben presto si afferma completamente. All’interno di una ditta- 

tura del denaro il lavoro del denaro non può però essere defini- 

to come decadenza. 


La carriera dei pubblici uffici romani richiedeva, da quan- 

do si svolgeva nella forma di elezioni popolari, un capitale che 

rendeva il futuro uomo politico debitore verso tutto il suo am- 

biente. Ciò valeva soprattutto per la carica di edile, nella quale 

si doveva superare in magnificenza i predecessori attraverso 

l'offerta di pubblici giochi, per poter ottenere più tardi i voti 

degli spettatori. Silla fallì la prima canditatura alla pretura 

perché non era stato edile. C'era poi lo splendido seguito con 

cui ci si doveva quotidianamente mostrare nel foro per far 

colpo sulla massa oziosa. Una legge impediva la scorta dietro 

pagamento; ma ancora più costoso era obbligarsi i nobili me- 

diante i prestiti, mediante la raccomandazione agli uffici e 

agli affari, mediante la difesa davanti al tribunale, che li impe- 

gnava a far da scorta e alla visita quotidiana del mattino. 

Pompeo era patrono di mezzo mondo, dai contadini del Pice- 

no fino ai re orientali; egli rappresentava e proteggeva tutti. 

Questo era il suo capitale politico, che poteva mettere in cam- 

po contro i prestiti senza interesse di Crasso e contro l’« indora- 

mento »° di tutti gli ambiziosi da parte del conquistatore della 

Gallia. Si facevano servire agli elettori colazioni estese all’inte- 

ro circondario”, si concedevano posti gratuiti per assistere ai 

giochi dei gladiatori o si mandava perfino direttamente in casa 

del denaro — come faceva Milone. Cicerone chiama tutto ciò 

«rispettare i costumi dei padri ». Il capitale elettorale assunse 

dimensioni di tipo americano, raggiungendo talvolta la som- 

ma di centinaia di milioni di sesterzi. Nel corso delle elezioni 

del 54 a. C. il tasso di interesse salì dal 4% all’8%, perché la mag- 

gior parte dell'enorme massa di liquido disponibile a Roma fu 

investita nella propaganda. Cesare, quand'era edile, aveva spe- 

so tanto che Crasso fu costretto a garantire per venti milioni 

affinché i creditori gli consentissero di partire per la provincia, 



a. Inaurari: a questo scopo Cicerone raccomandò a Cesare il suo 

amico Trebazio. 



b. Tributim ad prandium vocare (Cicerone, Pro Murena, 72). 



OSWALD SPENGLER 785 



e ancora nell’elezione a pontefice massimo aveva talmente oltre: 

passato il suo credito che il suo avversario Catulo poté offrirgli 

del denaro perché si ritirasse, dal momento che in caso di 

sconfitta sarebbe stato perduto. Ma la conquista della Gallia — 

che egli intraprese anche per questo motivo — e il relativo 

sfruttamento fecero di lui l’uomo più ricco del mondo: così è 

stata realmente ottenuta la vittoria di Farsalo *. Infatti Cesare 

ha conquistato tutti questi miliardi avendo di mira la potenza, 

come Cecil Rhodes”, e non per il piacere di ricchezza, come 

Verre e in fondo anche Crasso, il quale era un grosso finanzie- 

re che faceva parallelamente anche il politico. Egli comprese 

che, sul terreno di una democrazia, i diritti costituzionali non 

significano nulla senza denaro, tutto col denaro. Mentre Pom- 

peo ancora sognava di poter trarre legioni dalla terra, Cesare 

le aveva da lungo tempo tradotte in realtà con il suo denaro. 

Egli aveva trovato già pronti questi metodi: li padroneggiava, 

ma senza identificarsi con essi. Si deve aver ben chiaro il fatto 

che, fin dal 150 a. C., i partiti riuniti sulla base di princìpi si 

dissolvono in seguiti personali raccolti intorno a uomini i qua- 

li avevano un fine politico privato e conoscevano bene le armi 

del loro tempo. 


Tra di esse rientra, accanto al denaro, anche l'influenza sui 

tribunali. Dato che le antiche assemblee popolari votavano sola- 

mente, ma senza discutere, il processo di fronte ai rostra è una 



a. Si tratta di miliardi di sesterzi, che passarono da allora per le 

sue mani. Le offerte votive dei templi della Gallia, che egli fece vendere 

in Italia, provocarono un crollo nel valore dell’oro. Cesare e Pompeo 

costrinsero il re Tolomeo a versare, per il suo riconoscimento, 144 milioni 

(e altri 240 gliene fece versare Gabinio). Il console Emilio Paolo (50 a. C.) 

fu comperato con 36 milioni, Curione con 60 milioni. Da ciò si possono in- 

ferire le invidiabilissime possibilità dell'ambiente che circondava Cesare. 

Per il trionfo del 46 a. C. ognuno dei suoi oltre centomila soldati rice- 

vette 24.000 sesterzi, mentre agli ufficiali e ai capi toccarono somme ben 

superiori, Ciononostante, alla sua morte il tesoro pubblico era così 

ricco da garantire la posizione di Antonio. 



23. Cecil John Rhodes (1853-1902), uomo politico e finanziere sud-africano di ori- 

gine inglese, fu primo ministro della colonia di Città del Capo dal 1890 al 1896. Diede 

una spinta decisiva allo sviluppo dell'industria diamantifera nel Sud-Africa, soprat- 

tutto nella regione che da lui prese il nome. 



50. STORICISMO TEDESCO. 



786 OSWALD SPENGLER 



forma di lotta di partito e la scuola vera e propria di eloquen- 

za politica. Il giovane politico iniziava la sua carriera accusan- 

do e, se possibile, annientando una grossa personalità ®, come 

fece Crasso a diciannove anni contro il famoso Papirio Carbo- 

ne, amico dei Gracchi, che era passato più tardi dalla parte 

degli ottimati. Per tale motivo Catone fu accusato quaranta- 

quattro volte e sempre assolto. La questione giuridica passa 

qui in secondo piano *. La cosa determinante è la posizione di 

partito del giudice, il mumero dei patroni e l’ampiezza del 

seguito; il numero dei testimoni serve propriamente a mettere 

in luce la potenza politica e finanziaria dell’accusatore. Tutta 

l’eloquenza di Cicerone contro Verre vuol convincere i giudici, 

sotto Ja maschera di un magnifico pathos etico, che la sua 

condanna è nel loro interesse di ceto. Secondo la generale conce- 

zione antica è ovvio che il seggio in tribunale debba servire 

agli interessi privati e a quelli di partito. Ad Atene gli accusato- 

ri democratici erano soliti avvertire i giurati popolari, al termi- 

ne del loro discorso, che assolvendo l’accusato ricco avrebbero 

messo in forse i loro onorari processuali ©. La grande potenza 

del senato romano poggia in gran parte sul fatto che esso ave- 

va in mano, attraverso la nomina di tutti i tribunali, il desti- 

no di ogni cittadino; su questa base si può misurare la portata 

della legge graccana del 122 a. C., che trasferiva i tribunali al 



a. Cfr. M. GELZER, op. cit., p. 68. 


b. Si tratta in gran parte di concussione e di corruzione. Dal mo- 

mento che ciò faceva allora tutt'uno con la politica, che giudice e accusato 

avevano fatto la stessa cosa e che tutti lo sapevano, l’arte consisteva nel 

tenere — nelle forme di una ben recitata passione morale — un discorso 

di partito il cui scopo vero e proprio era inteso soltanto dall’iniziato. 

Ciò corrisponde del tutto alle moderne usanze parlamentari. Il « popolo » 

rimarrebbe molto stupito se vedesse come, dopo gli accaniti discorsi 

durante la seduta (destinati alla stampa), gli avversari di partito si intrat- 

tengono amabilmente tra di loro. Si pensi anche ai casi in cui un partito 

scende in campo con passione a favore di una proposta dopo averne 

assicurata, mediante un accordo con gli avversari, la disapprovazione. 

A Roma la sentenza non importava affatto; bastava che l’accusato abban- 

donasse in precedenza volontariamente la città, escludendosi così dalla 

lotta di partito e dal concorso agli uffici. 


c. Cfr. R. von Ponumann, Griechische Geschichte, Miinchen, 5° ed. 



1914, pp. 236-37. 



OSWALD SPENGLER 787 



ceto dei cavalieri e metteva quindi la nobiltà, cioè le alte cari- 

che, alla mercé del mondo della finanza. Nell’82 a.C. Silla 

restituì al senato, contemporaneamente alle proscrizioni dei 

grandi finanzieri, anche i tribunali come arma politica, beninte- 

so; e la lotta finale tra i detentori del potere trova la sua 

espressione anche nel continuo mutare della scelta dei giudici. 


Ma mentre l’antichità — e il foro di Roma in testa — racco- 

glieva la massa popolare in un corpo visibile e compatto per 

costringerla a fare dei suoi diritti l’uso che si voleva fosse fat- 

to, « contemporaneamente » la politica europeo-americana intro- 

duceva mediante la stampa un campo di forza di tensioni spiri- 

tuali e finanziarie esteso a tutta la terra, nel quale ogni indivi- 

duo è inserito senza averne coscienza e in modo da dover pensa- 

re, volere e agire come ritiene opportuno da qualche parte, di 

lontano, una personalità dominante. Questo è dinamica contrap- 

posta alla statica, sentimento faustiano del mondo contrappo- 

sto al sentimento apollineo, pathos della terza dimensione con- 

trapposto al puro presente sensibile. Non si parla da uomo a 

uomo; la stampa e, collegato con essa, il servizio elettrico di 

informazioni mantengono l’essere desto di interi popoli e di 

interi continenti sotto l’assordante fuoco di fila di frasi, di 

parole d'ordine, di punti di vista, di scene, di sentimenti, gior- 

no per giorno, anno per anno, cosicché ogni io diventa mera 

funzione di un'immensa entità spirituale. Il denaro prende la 

sua strada politica non come metallo che passa di mano in 

mano; non si converte più in giochi e in vino. Esso si trasfor- 

ma invece in forza e determina, mediante la sua quantità, 

l'intensità di questa manipolazione. 


Polvere da sparo e stampa sono connesse l’una con l’altra, 

in quanto entrambe sono inventate nell'antico periodo gotico e 

scaturite dal pensiero tecnico germanico, come i due grandi stru- 

menti della tattica faustiana della distanza. La Riforma conob- 

be all’inizio dell'età successiva i primi manifesti e le prime 

artiglierie da campagna; la Rivoluzione francese conobbe, all’i- 

nizio del declinare della civiltà, la prima ondata di opuscoli 



a. In questo modo Rutilio Rufo poté essere condannato nel famige- 

rato processo del 93 a. C. perché come proconsole, aveva doverosamente 

proceduto contro le concussioni delle società di appalto. 



788 OSWALD SPENGLER 



dell'autunno 1788 e a Valmy il primo fuoco di massa di un’arti- 

glieria. Ma con ciò la parola stampata impiegata in forma mas- 

siccia ed estesa su superfici infinite diventa un’arma infida nel- 

le mani di chi sa dirigerla. In Francia, nel 1788, si trattava anco- 

ra di un'espressione spontanea di convinzioni private, ma in 

Inghilterra si era già al punto di suscitare intenzionalmente 

un'impressione nei lettori. La guerra condotta contro Napoleo- 

ne da Londra, su territorio francese, con articoli, libelli, memo- 

rie inautentiche, ne costituisce il primo grande esempio. I fo- 

gli isolati dell’età illuministica si trasformano nella « stampa », 

come si dice con indicativa anonimità *. La campagna di stam- 

pa nasce come la continuazione — o la preparazione — della 

guerra condotta con altri mezzi, e la sua strategia fatta di 

scontri di avamposti, di diversivi, di sorprese e di attacchi a 

ondate viene elaborata durante il secolo xix fino al punto che 

una guerra può già essere perduta prima ancora che parta il 

primo colpo, perché la stampa l’ha vinta nel frattempo. 


Oggi noi viviamo senza possibilità di resistenza sotto l’azio- 

ne di questa artiglieria spirituale, di modo che quasi nessuno 

acquisisce la distanza interiore necessaria per rendersi conto del- 

l’enormità di tale spettacolo. La volontà di potenza in veste 

puramente democratica ha compiuto il suo capolavoro facendo 

sì che il sentimento di libertà degli oggetti venga addirittura 

adulato pur nella schiavitù più completa che sia mai esistita. Il 

senso borghese liberale è fiero dell’abolizione della censura, 

che costituiva l’ultimo limite, mentre il dittatore della stampa 

— Northcliffe! * — assoggetta la folla di schiavi dei suoi letto- 

ri alla frusta dei suoi articoli di fondo, dei suoi telegrammi e 

delle sue illustrazioni. La democrazia ha completamente sop- 

piantato il libro con il giornale nella vita spirituale delle masse 

popolari. Il mondo dei libri, con la sua ricchezza di punti di 

vista che costringevano il pensiero alla selezione e alla critica, 

è un possesso reale ancora soltanto per circoli ristretti. Il popo- 

lo legge l’unico giornale — il «suo» giornale — che quotidia- 



a. E quasi in analogia con «l'artiglieria ». 



24. Alfred Charles William Harmsworth, visconte di Northcliffe (1865-1922), crea- 

tore del giornalismo moderno: a lui si deve la fondazione del « Daily Mail » nel 1896 

c del « Daily Mirror » nel 1903. Nel 1908 si assicurò pure il controllo del « Times ». 



OSWALD SPENGLER 789 



namente penetra in ogni casa in milioni di esemplari, attraen- 

do di buon mattino gli spiriti nella propria orbita, facendo 

passare nel dimenticatoio i libri con i propri supplementi e, se 

questo o quel libro compare ancora all’orizzonte, eliminando 

la sua influenza con una critica che arriva prima di esso. 


Che cos'è la verità? Per la massa è ciò che si legge e si 

ascolta continuamente. Può ben esserci da qualche parte un 

povero minchione che se ne sta seduto e raccoglie motivi per 

stabilire «la verità» — questa rimarrà sempre la sua verità. 

L’altra verità, la verità pubblica del momento, che sola impor- 

ta nel mondo reale degli effetti e dei risultati, è oggi un prodot- 

to della stampa. Ciò che essa vuole, è vero. Coloro che la 

comandano producono, trasformano, cambiano Ja verità. Tre 

settimane di lavoro di stampa, e tutto il mondo ha riconosciu- 

to la verità*. I suoi argomenti sono inconfutabili finché si 

dispone del denaro per ripeterli senza interruzione. Anche la 

retorica antica faceva conto sull’impressione e non sul contenu- 

to — Shakespeare ha brillantemente mostrato, nell’orazione fu- 

nebre di Antonio, di che cosa si trattasse — ma essa si limita- 

va al presente e al momento. La dinamica della stampa esige 

effetti duraturi. Essa deve mantenere durevolmente gli spiriti 

sotto pressione. I suoi argomenti vengono confutati non appe- 

na una potenza finanziaria maggiore sposa gli argomenti con- 

trari e li pone ancora più spesso davanti a tutte le orecchie e a 

tutti gli occhi. Nello stesso attimo l’ago magnetico dell’opinio- 

ne pubblica si orienta verso il polo più forte. Ognuno si convin- 

ce subito della nuova verità: all'improvviso ci si sveglia da un 

errore. 


Alla stampa politica si connette il bisogno di un'istruzione 



a. L'esempio più forte sarà sempre, per le future generazioni, la 

questione della «responsabilità » della guerra mondiale, vale a dire 

la questione di chi possiede — attraverso il dominio della stampa e dei 

cavi telegrafici di ogni parte della terra — il potere di stabilire davanti 

all'opinione mondiale la verità di cui ha bisogno per i suoi scopi poli 

tici, e di mantenerla in vita finché ne ha bisogno. Questione comple- 

tamente diversa, che soltanto in Germania viene confusa con la prima, 

è quella puramente scientifica di sapere chi aveva interesse a provocare 

proprio nell’estate 1914 un avvenimento, sul quale esisteva già allora 

un'intera letteratura. 



790 OSWALD SPENGLER 



scolastica generale, che mancava completamente all’antichità. 

È una pressione del tutto inconsapevole per avvicinare le mas- 

se, in quanto oggetti della politica di partito, a quello strumen- 

to di potere che è il giornale. All’idealista degli inizi della 

democrazia ciò appariva come illuminazione priva di intenzio- 

ni recondite, e ancor oggi vi sono qua e là degli sciocchi che si 

entusiasmano al pensiero della libertà di stampa; ma proprio 

in questo modo hanno via libera i futuri Cesari della stampa 

mondiale. Chi ha imparato a leggere soccombe alla loro poten- 

za, e la tarda democrazia si trasforma, dalla sognata auto-deter- 

minazione, in una radicale determinazione dei popoli da parte 

dei poteri a cui la parola stampata obbedisce. 


Oggi ci si combatte per sottrarre agli altri quest'arma. Agli 

ingenui inizi della potenza giornalistica, questa era ancora osta- 

colata dai divieti della censura, con la quale i rappresentanti 

della tradizione si difendevano; la borghesia protestava che la 

libertà dello spirito era in pericolo. Ora la massa percorre tran- 

quillamente la sua strada: ha finalmente conquistato questa 

libertà, ma sullo sfondo le nuove potenze combattono, non vi- 

ste, per comperare la stampa. Senza che il lettore lo avverta, il 

giornale — e con esso anche il lettore — cambia di padrone *. 

Anche qui il denaro trionfa costringendo al suo servizio gli 

spiriti liberi. Nessun domatore ha mai avuto meglio in suo 

potere i propri animali; si scatena il popolo come massa di 

lettori, ed esso si precipita per le strade, si getta sull’obiettivo 

indicato, minaccia e spacca le finestre. Un cenno all’apparato 

della stampa e il popolo tace e ritorna a casa. La stampa è 

oggi un esercito con proprie armi accuratamente organizzate, 

con giornalisti come ufficiali, con lettori in qualità di soldati. 

Ma anche qui accade come in ogni esercito: il soldato obbedi- 



a. Durante la preparazione della guerra mondiale la stampa di interi 

paesi cadde finanziariamente sotto il controllo di Londra e di Parigi; 

e quindi i relativi popoli caddero sotto una rigorosa schiavitù spirituale. 

Quanto più democratica è la forma interna di una nazione, tanto più 

facilmente e completamente essa si espone a tale pericolo. Questo è lo 

stile del secolo xx. Un democratico di vecchio stampo oggi non richie- 

derebbe più libertà per la stampa ma dalle stampa; nel frattempo i capi 

sono mutati in «arrivati », costretti a garantire la propria posizione di 

fronte alla massa, 



OSWALD SPENGLER 791 



sce ciecamente, i mutamenti di obiettivi bellici e di piano opera- 

tivo si compiono senza che egli ne venga a conoscenza. Il 

lettore nulla sa di ciò che si vuol fare con lui, e non deve 

neppure sapere quale sarà il suo ruolo. Non esiste una satira 

più tremenda della libertà di pensiero. Un tempo non si pote- 

va osare di pensare liberamente; ora ciò è permesso, ma non è 

più possibile. Si può pensare soltanto ciò che si deve volere, 

e proprio questo viene percepito come libertà. 


L’altro aspetto di questa tardiva libertà è che a ognuno è per- 

messo di dire ciò che vuole, ma la stampa è libera di prenderne 

conoscenza oppure no. Essa può condannare a morte ogni « veri- 

tà » rifiutandosi di comunicarla al mondo: una spaventosa con- 

giura del silenzio, tanto più onnipotente quanto più la massa ser- 

vile dei lettori di giornale non si accorge affatto della sua presen- 

za*. Qui affiora, come sempre durante le doglie del cesari- 

smo, un frammento dell’epoca primitiva perduta. Il cielo del 

divenire è in procinto di chiudersi. Come nelle costruzioni di 

cemento armato e di acciaio ricompare ancora una volta la 

volontà espressiva del primo gotico — ora però fredda, domi- 

nata, civilizzata — così qui la ferrea volontà di potenza della 

chiesa gotica sopra gli spiriti si annuncia nella forma della 

«libertà della democrazia ». L’età del « libro» è compresa tra 

la predica gotica e il giornale moderno. I libri sono un’espres- 

sione personale; la predica e il giornale obbediscono a uno 

scopo impersonale. Nella storia universale gli anni della Scola- 

stica offrono l’unico esempio di una disciplina spirituale in gra- 

do di impedire in tutti i paesi la comparsa di scritti, di discor- 

si, di pensieri che contraddicono l’unità voluta. Tutto ciò è 

dinamica spirituale. Gli uomini antichi, indiani, cinesi avrebbe- 

ro guardato inorriditi a tale spettacolo. Ma proprio questo ritor- 

na come risultato recessario del liberalismo europeo-america- 

no, quale l’intese Robespierre: « il dispotismo della libertà con- 

tro la tirannide ». Al posto dei roghi subentra il grande silen- 

zio. La dittatura dei capi-partito si appoggia sulla dittatura 

della stampa. Mediante il denaro si cerca di sottrarre schiere 

di lettori e popoli interi all'influenza nemica, portandoli nella 

propria sfera di idee. Qui essi vengono a conoscere soltanto ciò 



a. Al confronto i grandi roghi di libri dei Cinesi sono cosa innocua. 



792 OSWALD SPENGLER 



che devono sapere, e una volontà superiore plasma l’immagine 

del loro mondo. Non occorre più obbligare i sudditi al servi- 

zio militare, come facevano i principi dell’età barocca. Con arti- 

coli, telegrammi, immagini — Northcliffe! — se ne fustigano 

gli spiriti, finché essi stessi richiedono le armi e costringono i 

loro capi a una lotta a cui questi volevano essere costretti. 


Questa è la fine della democrazia. Se nel mondo delle veri- 

tà la dimostrazione è l'elemento decisivo, nel mondo dei fatti 

lo è il successo. Successo vuol dire il trionfo di una corrente 

dell’esistenza sopra le altre. La vita ha affermato i suoi diritti; 

i sogni dei riformatori sono diventati strumenti di nature do- 

minatrici. Nella tarda democrazia la razza irrompe asservendo 

gli ideali oppure gettandoli con scherno nel baratro. Così è 

avvenuto nella Tebe egizia, a Roma, in Cina; ma in nessun’al- 

tra civiltà in declino la volontà di potenza assume una forma 

tanto inesorabile. Il pensiero, e quindi anche l’agire della mas- 

sa, viene tenuto sotto una pressione ferrea. Per questo motivo, 

e soltanto per questo, si è lettori ed elettori, sotto una doppia 

schiavitù, mentre i partiti diventano seguiti obbedienti di po- 

chi, sui quali il cesarismo getta ormai la sua prima ombra. 

Come la monarchia inglese del secolo x1x, così i parlamenti 

del secolo xx diventano a poco a poco spettacoli solenni ma 

vuoti. Come là scettri e corone, così qui i diritti popolari vengo- 

no presentati alla massa con un grande cerimoniale e rispettati 

tanto più scrupolosamente quanto minore è la loro importan- 

za. Questo è il motivo per cui l’astuto Augusto non ha mai 

perduto occasione di celebrare le usanze avite della libertà ro- 

mana. Ma già oggi il potere si trasferisce dai parlamenti nei 

circoli privati, e le elezioni si riducono inarrestabilmente a una 

commedia, per noi come per Roma. Il denaro ne organizza il 

corso nell’interesse di coloro che lo posseggono* e l’azione 



a. Qui risiede il mistero del perché tutti i partiti radicali — e quindi 

poveri — diventano necessariamente gli strumenti delle potenze finan- 

ziarie, a Roma degli equites, e oggi della borsa. Teoricamente essi 

attaccano il capitale, ma in pratica attaccano non già la borsa bensì, 

nell'interesse di questa, la tradizione. All'epoca dei Gracchi le cose 

andavano né più né meno di oggi, e lo stesso vale per tutti i paesi. La 

metà dei capi delle masse, e con loro l’intero partito, può essere compe- 

rata con denaro, uffici, partecipazioni ad affari. 



OSWALD SPENGLER 793 



elettorale diventa un gioco convenuto in precedenza, inscenato 

sotto forma di auto-determinazione popolare. Se originariamen- 

te un’elezione era una rivoluzione in forme legittime, questa 

forma si è esaurita e, quando la politica del denaro diventa 

insopportabile, si «elegge » nuovamente il proprio destino con 

i mezzi primitivi della violenza sanguinaria. 


La democrazia annienta se stessa con il denaro, dopo che il 

denaro ha annientato lo spirito. Ma proprio perché sono svani- 

ti tutti i sogni di migliorare la realtà mediante le idee di uno Ze- 

none” o di un Marx, e si è imparato che nel regno della realtà 

una volontà di potenza può essere piegata soltanto da un'altra 

volontà — questa è la grande esperienza dell’epoca degli stati 

in lotta — sorge alla fine una profonda nostalgia per tutto ciò 

che ancora vive delle vecchie e nobili tradizioni. Si è stanchi 

fino al disgusto dell'economia monetaria. Si spera in una libera- 

zione da qualsiasi parte venga, in una nota genuina di onore e 

di cavalleria, di nobiltà interiore, di rinuncia e di senso del 

dovere. Viene allora il tempo in cui le potenze del sangue 

ricche di forma si ridestano nel profondo, dopo essere state 

cacciate dal razionalismo delle grandi città. Tutto ciò che si è 

conservato per il futuro della tradizione dinastica e dell’antica 

nobiltà, tutto ciò che si è conservato del costume superiore che 

si mantiene al di sopra del denaro, tutto ciò che è in sé abba- 

stanza forte per essere — secondo il detto di Federico il Gran- 

de — servitore dello stato in un lavoro duro, pieno di rinunce, 

scrupoloso, anche nel possesso del potere illimitato, tutto ciò 

che ho designato come socialismo in contrapposizione al capita- 

lismo® — tutto ciò diventa all'improvviso il punto di raccolta 

di immense forze vitali. Il cesarismo cresce sul terreno della 

democrazia, ma le sue radici affondano nel substrato del san- 

gue e della tradizione. L’antico Cesare deve il suo potere al 

tribunato, ma la sua dignità e quindi anche la sua durata la 

possiede in quanto princeps. Anche qui si ridesta l’anima del 



a. Cfr. O. SrencLER, Preussentum und Sozialismus, Miinchen, 1919, 



PP. 41-42. 



25. Zenone di Cizio (336-264 a. C.), fondatore della scuola stoica, autore di nu- 

merosi scritti pervenutici in forma frammentaria. 



794 OSWALD SPENGLER 



gotico primitivo: lo spirito degli ordini cavallereschi supera lo 

spirito vichingo avido di bottino. Per quanto i futuri detentori 

del potere possano dominare il mondo come possesso privato, 

essendo ormai irrimediabilmente caduta la grande forma politi- 

ca della cultura, questa potenza priva di forma e di limiti 

contiene tuttavia un compito: quello di un’instancabile cura 

per questo mondo, che costituisce l’opposto degli interessi pro- 

pri dell’età del dominio del denaro e che richiede un elevato 

sentimento dell’onore e un'alta coscienza del dovere. Ma pro- 

prio per questo si scatena ora la lotta finale tra democrazia e 

cesarismo, tra le potenze dominanti di un'economia monetaria 

dittatoriale e la volontà ordinatrice puramente politica dei Cesa- 

ri. Per intendere questa lotta finale tra economia e politica, 

in cui la politica riconguista il suo regno, occorre uno sguardo 

alla fisiognomica della storia economica. 



ERNST TROELTSCH 



NOTA BIOGRAFICA 



Ernst Troeltsch nacque a Hauenstetten, presso Augusta, il 17 febbraio 

1865. Dal 1883 al 1888 frequentò le università di Erlangen, di Goòttin- 

gen e di Berlino, dedicandosi soprattutto — sotto la guida di Albrecht 

Ritschl e di Paul Lagarde — agli studi teologici. Conseguì il dottorato 

nel 1888, con la dissertazione Geschichte und Metaphysik (Gòttingen, 

1888). Dopo esser stato per breve tempo pastore luterano a Monaco, 

ottiene nel 1891 l’abilitazione a Géttingen, con il volume Vernunft und 

Offenbarung bei Johann Gerhard und Melanchton (Géòttingen, 1891). 

Nel 1892 inizia la carriera accademica a Bonn, e nel 1894 viene chiama- 

to a coprire la cattedra di teologia sistematica all’Università di Heidel- 

berg, dove rimarrà per oltre vent'anni, impegnandosi anche nella vita 

politica e sedendo per due legislature alla camera alta del Baden. 


I primi scritti di Troeltsch mostrano chiaramente il prevalere degli 

interessi religiosi e teologici, i quali si incontrano e si scontrano, 

talvolta in maniera drammatica, con la consapevolezza della storicità 

della vita religiosa. Fin dall'inizio egli prende posizione nei confronti 

della concezione idealistica della religione, denunciando il carattere fitti- 

zio della «conciliazione » da essa operata tra il processo storico e 

l’assolutezza della fede religiosa. Nel saggio Die christliche Weltan- 

schauung und ihre Gegenstromungen (1894) egli respinge insieme l'idea- 

lismo e il positivismo, a causa della loro incapacità di intendere la vita 

religiosa e di dare una giustificazione filosofica dell'autonomia della 

religione. Al centro del pensiero di Troeltsch si colloca, in questo 

periodo, il problema del rapporto tra storia e religione, concepiti come 

termini antitetici: da una parte la coscienza storica ci mostra il condizio- 

namento di ogni forma di vita religiosa e la sua appartenenza a un 

processo di sviluppo, dall'altra la religione avanza una pretesa di va- 

lidità assoluta. Quest'antitesi viene illustrata nei successivi scritti del 

periodo di Hcidelberg, da Die Selbstindigkeit der Religion (1895) a 

Christentum und Religionsgeschichte (1897) e a Uber historische und 

dogmatische Methode in der Theologie (1898), da Die wissenschafiliche 

Lage und ihre Anforderungen an die Theologie (Tibingen, 1900) ai 

Grundprobleme der Ethik (1902; tr. it. Napoli, 1974) e al volume Die 

Absolutheit des Christentums und die Religionsgeschichte (Tiibingen, 



798 ERNST TROELTSCH 



1902, 19127, 1929; tr. it. Napoli, 1968). L’urto della coscienza storica 

mette in crisi non soltanto la fede religiosa, ma anche la teologia: da un 

lato la religione cristiana ha perduto la sua fondazione soprannaturale, 

dall'altro lo sforzo di darne una giustificazione teologica non può più 

prescindere dalla coscienza storica. Questa giustificazione viene cercata 

da Troeltsch considerando il Cristianesimo non come la religione assolu- 

ta, ma come la religione più alta, cioè come quella in cui si realizza 

non già il possesso, bensì il grado maggiore di partecipazione alla verità. 

Muovendo da questa prospettiva Troeltsch interviene — con il saggio 

Was heisst « Wesen des Christentums »? (1903; tr. it. Napoli, 1974) — 

nel dibattito suscitato dalla pubblicazione dell’opera di Adolph von Har- 

nack, e successivamente prende parte alla discussione sul modernismo. 

Negli scritti posteriori, dal volume Psychologie und Erkenntnistheorie 

in der Religionswissenschaft (Tibingen, 1905, 19227) al saggio Wesen 

der Religion und der Religionswissenschaft (1909), il problema della 

religione e della sua validità viene ricondotto al quadro di un’impostazio- 

ne neocriticistica, modificata però attraverso l'assunzione di un fonda- 

mento 4 priori autonomo della vita religiosa che viene individuato in 

un complesso di valori irriducibili a quelli conoscitivi o etici o estetici. 

La ricerca delle condizioni di possibilità della religione mette così capo 

alla determinazione della sua autonomia nei confronti degli altri campi 

dell’attività umana. 


In questo stesso periodo, a contatto con Max Weber, Troeltsch ha 

sviluppato il proprio interesse per la religione anche sul terreno storiogra- 

fico, studiando le relazioni tra il Cristianesimo e lo sviluppo politico ed 

economico della società europea. Il punto di partenza della sua analisi è 

la Riforma protestante, considerata nel suo distacco dal Cristianesimo 

medievale e nel suo rapporto con il processo di formazione del mondo 

moderno. Nel saggio Protestantisches Christentum und Kirche in der 

Neuzeit (Leipzig-Berlin, 1906, 1922°) e nel volume Die Bedeutung des 

Protestantismus fiir die Entstehung der modernen Welt (1906, poi Miin- 

chen, 19112, 1924}; tr. it. Venezia, 1929) egli prende in esame le 

differenze di orientamento che caratterizzano la religione protestante e la 

cultura moderna; in seguito la sua attenzione si estende, investendo tutto 

il processo storico del Cristianesimo, con particolare riguardo alle origi- 

ni della fede cristiana e alla figura di Cristo come termine di riferimen- 

to dello sviluppo ulteriore — indagata nel volume Die Bedeutung der 

Geschichtlichkeit Jesu fiir den Glauben (Tibingen, 1911) — o all’opera di 

Agostino — studiata in Augustin, die christliche Antike und das Mittel- 

alter (Minchen, 1915; tr. it. Napoli, 1970). Ma il contributo storico di 

maggior rilievo fornito da Troeltsch è l'ampia analisi delle dottrine 

politico-sociali cristiane, condotta in Die Soziallehren der christlichen 

Kirchen und Gruppen (Tiùbingen, 1912; tr. it. Firenze, 1941-60). In 



ERNST TROELTSCH 799 



quest'opera — la quale raccoglie una serie di saggi apparsi dapprima 

nell'« Archiv fiir Sozialwissenschaft und Sozialpolitik » —- Troeltsch si 

propone di studiare le dottrine che, dal Cristianesimo primitivo alla 

Riforma protestante, caratterizzano sotto il profilo sociale lo sviluppo 

della religione cristiana, ponendo in luce il rapporto di condizionamento 

reciproco che in tal modo si instaura tra la vita religiosa e la vita 

economica che la religione intende regolamentare, ma dalla quale viene 

nel medesimo tempo influenzata. Troeltsch si accosta alle indagini webe- 

riane sulla sociologia della religione, riconoscendo l'appartenenza del 

Cristianesimo al processo di sviluppo di una data civiltà e la dipendenza 

delle sue dottrine dalla struttura sociale che questa è venuta creando. 

Ma, a differenza di Weber, egli fa valere il postulato dell'autonomia 

della vita religiosa, avanzando l'esigenza di delimitare l'ambito storico 

proprio della religione. Come risulta anche dal saggio Religion, Wirt- 

schaft und Gesellschaft (1913), che enuncia i presupposti metodologici di 

questa impostazione, il condizionamento reciproco tra religione e vita 

economico-sociale viene a configurarsi come l’incontro di serie causali 

indipendenti — una delle quali è appunto la serie dei fenomeni religiosi. 


Nel 1915 Troeltsch lascia Heidelberg, chiamato all’Università di 

Berlino a insegnarvi filosofia. Il mutamento di cattedra rispecchia il 

mutamento di interessi che si determina, in questi ultimi anni, nel 

pensiero di Troeltsch, e che lo spinge ad affrontare in termini generali 

il problema dello storicismo. Fin dal 1904, del resto, egli aveva espresso 

la sua adesione di massima alla posizione di Rickert nel saggio Moder- 

ne Geschichtsphilosophie (tr. it. Napoli, 1974). Ritornando sui problemi 

della storia e della conoscenza storica a distanza di circa un decennio, 

in una serie di saggi che hanno inizio nel 1916 (e che saranno poi 

raccolti col titolo Der Historismus und seine Probleme, Tiibingen, 

1922), Troeltsch sottolinea le conseguenze relativistiche dello storicismo, 

e quindi la crisi del pensiero storico che esso esprime. Lo storicismo, 

inteso come relativismo storico, riduce i valori a prodotto storico e porta 

quindi all’« anarchia dei valori ». Contro questo pericolo egli si richiama 

alla teoria dei valori, e in particolare a Rickert, rivendicando il rappor- 

to di ogni momento del processo storico con valori assoluti, capaci di 

dare un senso alla successione degli eventi. Ma questo rapporto non 

comporta — come per Rickert — una trascendenza metastorica dei 

valori, bensì la loro immanenza a ogni oggetto storico, considerato nella 

sua individualità. Il punto di arrivo di Troeltsch è quindi il significato 

romantico di individualità, recuperato attraverso il riferimento alla nozio- 

ne leibniziana di monade. Questa impostazione viene in parte ripresa nei 

saggi postumi Der Historismus und seine Uberwindung (Berlin, 1924), 

nei quali è riaffermata l’esigenza della restaurazione di un sistema di 



800 ERNST TROELTSCH 



valori, da compiersi attraverso il richiamo a una determinata tradizione 

culturale. 


Il dopoguerra vede Troeltsch intensamente impegnato nella vita pub- 

blica, come deputato al parlamento prussiano e come sotto-segretario 

(dal 1919 al 1921) per gli affari evangelici presso il Ministero dell'educa- 

zione. Egli partecipa alla fondazione del partito democratico, e nel 1920 

difende la costituzione della repubblica di Weimar in una serie di lettere 

pubblicate sulla rivista « Der Kunstwart» (e poi raccolte col titolo di 

Spektator-Briefe, Tùbingen, 1924). Muore a Berlino il 1° febbraio 1923. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Le opere di Troeltsch sono state raccolte, anche se soltanto parzial- 

mente, nelle Gesammelte Schriften, edite dalla casa editrice Mohr in 

quattro volumi, dal 1912 al 1925: dopo la guerra la Scientia Verlag di 

Aalen ne ha dato una ristampa anastatica, apparsa tra il 1961 e il 1966. 

Il primo volume (apparso nel 1912, e ristampato nel 1965) contiene Die 

Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen; il secondo (apparso 

nel 1913, e ristampato nel 1962) raccoglie, sotto il titolo Zur religiòsen 

Lage, Religionsphilosophie und Ethik, numerosi saggi di argomento 

religioso e storico-religioso, tra cui Die theologische und religiòse Lage 

der Gegenwart, Die Kirche im Leben der Gegenwart, Religion und 

Kirche, Die christliche Weltanschauung und ihre Gegenstrimungen, 

Christentum und Religionsgeschichte, Was heisst « Wesen des Christen- 

tums »?, Wesen der Religion und der Religionswissenschaft, Grundpro- 

bleme der Ethik, Moderne Geschichtsphilosophie, Uber historische und 

dogmatische Methode in der Theologie; il terzo (apparso nel 1922, e 

ristampato nel 1961) racchiude Der Historismus und seine Probleme; il 

quarto (apparso nel 1925, e ristampato nel 1966) comprende, sotto il 

titolo Aufsitze zur Geistesgeschichte und Religionssoziologie, diversi 

saggi di storia religiosa e intellettuale, tra cui Religion, Wirtschaft und 

Gesellschaft, Epochen und Typen der Sozialphilosophie des Christen- 

tums, Das stoisch-christliche Naturrecht und das moderne profane Natur- 

recht, Das Verhdltnis des Protestantismus zur Kultur, Luther, der Prote- 

stantismus und die moderne Welt, Renaissance und Reformation, Das 

Wesen des modernen Geistes, nonché numerose recensioni a libri di 

argomento analogo. 


Rimangono al di fuori di questa raccolta diversi volumi e saggi, i 

più importanti dei quali sono stati menzionati nella nota biografica. Ad 

essi occorre aggiungere le lezioni sulla G/aubenslehre, Miinchen-Leip- 

zig, 1925, e la raccolta di saggi Deutscher Geist und Westeuropa (a 

cura di H. Baron), Tibingen, 1925. In epoca recente sono stati ristampa- 

ti i seguenti volumi: Die Absolutheit des Christentums und die Reli- 

gionsgeschichte, Minchen, 1960; Augustin, die christliche Antike und 

das Miztelalter, Aalen, 1963; Der Historismus und seine Uberwindung, 



51. STORICISMO TEDESCO. 



802 ERNST TROELTSCH 



Aalen, 1966; Spektator-Briefe, Aalen, 1966; Deutscher Geist und Westeu- 

ropa, Aalen, 1966. 



Dell’ampia letteratura critica concernente l'opera e il pensiero di 

Troeltsch segnaliamo gli studi seguenti: 

E. Vermelt, La pensée religieuse de Troeltsch, Strasbourg-Paris, 1922. 



A. Passerin d’EnTrÈèvEs, Il concetto del diritto naturale cristiano e la sua 

storia secondo E. Troeltsch, « Atti della R. Accademia delle Scienze 

di Torino », LXI, 1925-26, pp. 664-704. 



O. Hintze, Troelisch und die Probleme des Historismus, « Historische 

Zeitschrift», CXXXV, 1927, pp. 188-239, ora raccolto nel volume 

Soziologie und Geschichte (a cura di G. Oestreich), Gòttingen, 1964 7, 



PP. 323-73. 

H. Liesricn, Die historische Wahrheit bei Ernst Troeltsch, Giessen, 1937. 

W. BracHmann, Ernst Troeltschs historische Weltanschauung, Halle, 1940. 



D. Frerssero, Das Problem der historischen Objektivitàt in der Geschichts- 

philosophie von Ernst Troeltsch, Emsdetten, 1940. 



W. Koncer, Ernst Troeltsch, Tibingen, 1941. 



J. J. ScHaar, Geschichte und Begriff (Eine kritische Studie zur Geschichts- 

methodologie von Ernst Troeltsch und Max Weber), Tiubingen, 1946. 



E. Fiuino, Geschichte als Offenbarung (Studien zur Frage Historismus 

und Glaube von Herder bis Troeltsch), Berlin, 1956, cap. 1v. 



W. Bopenstein, Neige des Historismus: Ernst Troeltschs Entwicklungs- 

gang, Giitersloh, 1959. 



H. G. DrescHer, Das Problem der Geschichte bei Ernst Troeltsch, « Zeit- 

schrift fir Theologie und Kirche », LVII, 1960, pp. 186-230. 



A. WAIsMann, E? historicismo contemporaneo: Spengler, Troeltsch, Croce, 

Buenos Aires, 1960, parte II. 



I. E. ALserca, Gewinnung theologischer Normen aus der Geschichte der 

Religion bei E. Troeltsch, Miinchen, 1961. 



W. F. KascH, Die Sozialphilosophie von Ernst Troeltsch, Tiibingen, 1963. 



E. Lessinc, Die Geschichtsphilosphie Ernst Troeltschs, Hamburg-Berg- 

stedt, 1965. 



B. A. Rest, Toward a Theology of Involvement: the Thought of E. 

Troeltsch, Philadelphia, 1965. 



ERNST TROELTSCH 803 



M. WincgeLHaus, Kirchengeschichte und Soziologie im neunzehnten ]ahr- 

hundert und bei Ernst Troeltsch, Heidelberg, 1965, capp. ir. 



G. von ScHLIppe, Die Absolutheit des Christentums bei Ernst Troeltsch 

auf dem Hintergrund der Denkfelder des 19. Jahrhunderts, Neustadt 

a.d. Aish, 1966. 



H. Henrno, Max Weber und Ernst Troeltsch als Geschichtsdenker, 

« Kantstudien », LIX, 1968, pp. 410-34. 



L'elenco completo degli scritti di Troeltsch si trova nelle Gesammelte 

Schriften cit., vol. IV, pp. 863-72. Manca invece una bibliografia aggior- 

nata degli scritti su Troeltsch: si vedano però le indicazioni contenute nei 

volumi sopra menzionati di I. E. ALserca e di E. Lessinc, nonché nella 

traduzione de L’assolutezza del Cristianesimo e la storia delle religioni 

(a cura di A. Caracciolo), pp. LXI-LXIv. 



CRISTIANESIMO E STORIA DELLA RELIGIONE* 



Il carattere più generale della situazione religiosa — che 

può essere riconosciuto da ognuno e che si impone a ognuno — 

consiste in una decomposizione della religione ecclesiastica la 

quale, nonostante il dominio esterno che all’occasione incide 

assai profondamente, si è seriamente allentata nelle sue struttu- 

re interne e non riesce più a dominare la vita interna degli 

ambienti che spingono spiritualmente in avanti. La misura di 

devozione soggettiva e di bisogno religioso non è oggi presumi- 

bilmente molto inferiore a un tempo. Sono soltanto caduti i 

mezzi di coercizione esterna e il generale attaccamento alla 

chiesa che suscitavano, nelle epoche di forte dominio esteriore 

delle chiese e di rigorosa subordinazione della scienza alla teolo- 

gia, la parvenza di una fede diffusa. Là dove prima c’era 

semplicemente una sottomissione indifferente o una fede consue- 

tudinaria priva di sentimento, troviamo oggi un’antitesi aperta 

e una consapevole emancipazione, oppure la medesima fede 

consuetudinaria in teorie anti-religiose oppure la stessa indiffe- 

renza, soltanto diventata dominante e che si ritiene interessante 

o progredita. La differenza importante consiste piuttosto nella 

scossa subìta dalla fede anche presso i credenti e coloro che 

vogliono credere, nella lotta risolutiva delle nuove grandi cono- 

scenze e dei nuovi metodi scientifici contro i concetti fondamen- 

tali e i metodi espositivi della fede cristiana così come si 

era fin allora presentata. Certamente, questi effetti sconcertanti 



* Christentum und Religionsgeschichte, « Preussische Jahrbicher », LXXXVII, 1897, 

PP. 415-447, raccolto in Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von 1.C.B. Mohr, 

vol. II, 1913, pp. 328-363 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



806 ERNST TROELTSCH 



non procedono soltanto dalla scienza, ma procedono in egual 

misura dalle reazioni etiche, e più spesso anti-etiche, contro la 

morale qual è stata finora, dall’impulso precipitoso di una felici- 

tà indirizzata in senso puramente intra-mondano e all’interno 

della quale manca alla fede la risonanza corroborante nella 

coscienza complessiva e in una tradizione avita universalmente 

venerata. Ma, ciononostante, in tutti gli spiriti gravi € pro- 

fondi le conseguenze della scienza costituiscono i motivi autenti- 

ci di questa situazione precaria, almeno per quanto riguarda il 

Protestantesimo. Da quando nell’età illuministica si è creata 

una fondazione completamente nuova del pensiero scientifico, e 

quindi una nuova forma di cultura europea, il Protestantesimo 

ha concluso con la scienza — in parte per un’intima concordan- 

za, in parte a causa della sua minore chiusura ecclesiastica — 

un’alleanza indissolubile, che lo ha legato ad essa in una lotta 

perpetuamente oscillante, dove talora prevale l’influenza della 

scienza moderna, talora quella della tradizione. Il Cattolicesi- 

mo ha invece, dopo alcuni imbarazzi transitori, annientato la 

scienza moderna all’interno del suo ambito di potere e — poi- 

ché anch'esso doveva naturalmente concludere un compromesso 

con il mondo moderno — lo ha fatto non già con la scienza, 

ma con le correnti politiche, giuridiche e sociali dell’età moder- 

na, con le potenze del suffragio universale; e a condizione di 

ottenere un franco riconoscimento della sua esistenza, concede 

ai dotti una posizione privata molto differenziata nei confronti 

delle sue dottrine. Il suo destino dipende in primo luogo dallo 

sviluppo delle conseguenze che farà scaturire la politica che 

esso ha impostato nel corso del nostro secolo. Il destino del 

Protestantesimo, invece, dipende in primo luogo dallo sviluppo 

degli effetti che sono derivati e che derivano tuttora dall’allean- 

za contratta con la scienza nel secolo xvi. Non si deve però 

dimenticare che oggi l’interesse per la situazione religiosa non 

si esaurisce affatto nell'interesse per il destino di queste due 

confessioni. Anche se ha preso prevalentemente le mosse dal 

Protestantesimo, e se è possibile solamente in base a questo, 

si è tuttavia venuto formando un ambito più ampio di persone 

le quali — estranee alle chiese piuttosto che irreligiose — inda- 

gano oggettivamente la questione religiosa nel suo rapporto 

con i problemi scientifici e cercano di districare e, per quan- 



ERNST TROELTSCH 807 



to è possibile, di chiarire la situazione. Anche chi, come me, è 

fermamente convinto che un risanamento delle condizioni reli- 

giose sia in definitiva possibile soltanto muovendo dal terreno 

delle comunità religiose, deve tuttavia ammettere che al presen- 

te il centro di gravità di tutte le trattazioni concernenti la 

religione risiede in questo gruppo di persone, e non nella teolo- 

gia corporativa. Chi vuole ottenere chiarezza sulla situazione, 

deve cominciare l'indagine di qui. Le pagine seguenti devono 

illuminare la situazione, appunto nel senso di una considerazio- 

ne nient’affatto corporativa, per un aspetto la cui importanza 

diventerà ogni anno più chiara. 


Il fondamento della scossa critica non è la nuova speculazio- 

ne sorta con l’Illuminismo, la quale poneva al posto della filo- 

sofia ecclesiastica costruita con elementi neoplatonici, aristote- 

lici e biblici una nuova metafisica che assumeva in modo auto- 

nomo la tradizione antica ponendo al tempo stesso le premesse 

di una metafisica la quale preparava la moderna scienza della 

natura e della storia. Speculazione e teologia sono affini per 

natura. Entrambe scaturiscono dall’impulso della natura umana 

verso l’infinito e il soprasensibile, che l’una cerca di cogliere 

scientificamente e l’altra religiosamente. Laddove c’è un genera- 

le senso speculativo, si comprende anche ciò che vuole la tcolo- 

gia; e dove nell’uomo è presente un forte bisogno religioso, vi 

è anche l'impulso più forte alla speculazione. Per quanto possa- 

no divergere nei risultati — e ciò particolarmente a partire 

dall’Illuminismo, dove la speculazione assunse elementi del tut- 

to nuovi, sconosciuti all’antichità e alla Bibbia — essi si ritrova- 

no sempre e si rafforzano a vicenda. L’Illuminismo si è impo- 

sto con una nuova speculazione proprio perché, in base alla 

tradizione precedente, l'interesse religioso agiva come elemento 

dominante; e proprio perché la speculazione e la teologia sono 

affini nonostante qualsiasi antitesi, esso è pervenuto a soluzioni 

pacifiche e di compromesso, che a molti tra gli uomini migliori 

del secolo xviti apparvero una soluzione durevole del problema 

posto dall’epoca e l’inizio di un periodo magnifico. L'epoca di 

Schleiermacher e di Hegel parve approfondire questa soluzione 

pacifica, e porla su una base di principio. Il frutto principale 

della nuova speculazione, la formulazione in termini di imma- 

nenza metafisica del rapporto tra Dio e il mondo e la diffusio- 



808 ERNST TROELTSCH 



ne etica del contenuto spirituale sull’ambito complessivo della 

vita intra-mondana, sembrava debitore della sua essenza a in- 

fluenze cristiane, oltre che antiche, e suscettibile di essere age- 

volmente assimilato dal principio cristiano. Pareva così aprirsi 

un luminoso campo di nuove indagini teologiche e filosofi- 

che, a cui — come indicano le biografie di quel tempo — 

prendevano parte attiva uomini di ogni professione. 


Questa pace e questo interesse sono scomparsi da tempo, in 

parte perché la chiesa e la religione popolare non volevano accet- 

tare un compromesso del genere, che incideva assai profonda- 

mente, preferendo isolarsi dalla vita scientifica, ma in parte, e so- 

prattutto, perché la speculazione fu sconfitta dalla crescita auto- 

noma degli elementi che all’inizio aveva saputo subordinare a sé 

e tenere al proprio servizio. Le due nuove creazioni dell’Illumini- 

smo, la scienza matematico-meccanica della natura e la scienza 

critico-comparativa della storia, si svincolarono e conobbero 

una diffusione straordinaria, che assorbiva ogni attività e ogni 

interesse. La speculazione precedente non era più in grado di 

affermarsi nei loro confronti. La conseguenza di ciò fu che — 

nella cultura respinta dall’ortodossia rinnovata — insieme alla 

speculazione andò perduto anche il senso del soprasensibile vis- 

suto e insegnato dalla religione, e un pensiero educato in modo 

completamente empiristico non seppe più avvicinarsi a quei 

problemi. Ma ancora più importante fu l’altra conseguenza, 

che ognuna delle due scienze suscitava un’enorme trasformazio- 

ne dell'immagine del mondo e della storia, la quale sembrava 

dover distruggere passo a passo i concetti religiosi di Dio e 

dell'anima, e nello stesso tempo minava i fondamenti storici su 

cui aveva poggiato la precedente intuizione che il Cristianesimo 

aveva di se stesso. La lotta così scoppiata è molto più violenta e 

pericolosa di quella con la speculazione nemica, ma pur sempre 

affine: si tratta di una lotta con una conoscenza e una concezio- 

ne dei fatti differente, che penetra in tutti i campi della vita. 

La discussione richiesta da questa situazione fa tutt'uno con 

esse. La speculazione compare soltanto in secondo piano. 


Delle due nuove scienze, la scienza della natura sembra a 

molti l'avversario autentico; essi si rallegrano o si dolgono dei 

trionfi che fanno arretrare ogni giorno di più la fede. Il 

tentativo di generalizzare e di trasferire conoscenze e metodi 



ERNST TROELTSCH 809 



che hanno dimostrato nel loro campo una straordinaria capaci- 

tà di prestazione costituisce però una delle illusioni maggiori 

tra quelle che di solito accompagnano i successi inattesi. Non 

c'è dubbio che la legalità autonoma e la regolarità del processo 

naturale, poste in luce dalla scienza della natura, hanno reso 

impossibili le vecchie rappresentazioni antropomorfiche dell’a- 

zione divina. Ma queste rappresentazioni sono già state scosse 

da altri motivi, e in parte proprio da motivi religiosi, e posso- 

no ritrarsi dinanzi a una concezione approfondita del concetto 

di Dio. Nello stesso tempo i tentativi di sottomettere la vita 

spirituale alle leggi naturali hanno mostrato soltanto che essa 

possiede una sua propria legalità e un suo proprio modo di 

agire, del tutto differente e nient’affatto coincidente con quello 

della natura. Certamente, anche la scienza della natura ha raf- 

forzato l'impressione che la natura proceda insensibile soltanto 

in base alle proprie leggi, senza curarsi affatto della vita spiri- 

tuale, dei suoi scopi e dei suoi beni, e che sembri capricciosa- 

mente talora prepararla e favorirla, talora però anche annientar- 

la brutalmente. Ma questa impressione è antichissima, e pro- 

prio in essa la nostalgia religiosa si compiace soprattutto di 

mettere radici nel fondamento più profondo della vita spiritua- 

le per non rimanere soffocata da quei grandi enigmi e per 

diventare libera nei riguardi della semplice natura. Del resto, 

ogni indagine seria ha mostrato che, per quanto tutte le connes- 

sioni possano essere concepite come puramente meccaniche, per 

quanto si escluda ogni derivazione e deviazione in vista di 

particolari scopi arbitrari, nelle forme di questa connessione 

agiscono tuttavia idee organizzatrici; che, almeno nella vita 

organica, il caso meccanico non spiega nulla; che ogni spiega- 

zione fondata su leggi naturali concerne soltanto l’elemento di 

regolarità generale tratto dall'esperienza, ma non l’esperienza 

stessa nella sua realtà concreta. Ciò che il mondo reale offre è, 

in verità, un dualismo di elementi razionali e forniti di valore 

da un lato, di elementi irrazionali e puramente fattuali dall’al- 

tro. Le leggi generali e i contenuti forniti di senso si compene- 

trano. Le prime ricoprono ogni realtà con la rete orientativa 

delle loro lince direttrici, i secondi stanno nelle maglie di 

questa rete. Che uno di questi due aspetti sia parvenza, oppure 

che uno soltanto sia veramente dominante, è cosa impossibile 



810 ERNST TROELTSCH 



da dimostrare: decidere in un senso o nell’altro è, e rimane 

sempre, una questione di fede. Che però la fede secondo cui la 

natura e la materia sono tutto, e che da esse deriva tutto il 

resto, sia impossibile da sostenere, lo mostra l’effettiva autono- 

mia del mondo spirituale. Questa soltanto è la questione che 

dobbiamo porre alla scienza della natura — se il mondo spiritua- 

le, con il suo dover essere e i suoi valori culturali, sia qualcosa 

di autonomo e fornito di una propria forza rispetto alla natura; 

per il resto possiamo lasciare che essa percorra tranquillamente 

il suo cammino, il quale resta precluso a chiunque si occupa di 

scienza dello spirito. La risposta di tutti gli studiosi realmente 

importanti è affermativa, anche se diverse sono le intuizioni 

più precise in merito a tale rapporto. Per la ricerca naturale, i 

problemi particolari confluiscono nelle questioni relative al rap- 

porto tra cervello e anima e alla presenza di idee teleologiche 

oganizzatrici nello sviluppo della natura, che mostrano una 

natura al servizio — almeno in generale — degli scopi dello 

spirito. Entrambi i problemi possono essere risolti soltanto da 

scienziati e filosofi uniti; essi sono ancora oggi, come tutti 

sanno, straordinariamente dibattuti. Ma lo storico e l’indagato- 

re della vita spirituale non ha bisogno di attendere queste solu- 

zioni. Per lui è un punto fermo non soltanto ciò che costituisce 

al presente un patrimonio comune nei confronti di ogni tipo di 

materialismo, cioè il fatto che lo spirito è una forza autonoma 

inderivabile dalla natura, ma anche il principio più importante 

che questa potenza autonoma non manifesta la sua forza specifi- 

ca in un adattamento formale alla natura, ma contiene piutto- 

sto di per sé anche contenuti spirituali, disposizioni e impulsi 

autonomi, dai quali sorge, in un'azione reciproca con le esigen- 

ze della realtà sensibile, il ricco mondo della storia. Nel suo 

campo l'autonomia, la legalità autonoma e la forza creativa — 

meno familiari allo studioso della natura — dello sviluppo spiri- 

tuale nella religione, nella morale e nella cultura si presentano 

così chiaramente che egli può applicarsi a questo campo consi- 

derandolo almeno relativamente autonomo, e trattare i suoi 

problemi come problemi del mondo spirituale. 


In questo nostro campo d’indagine risiede però anche il 

vero e proprio centro di gravità della questione religiosa. Poi- 

ché la religione è un elemento costitutivo della vita storica, le 



ERNST TROELTSCH 811 



questioni principali che la riguardano si collocano in campo 

storico. La scienza storica moderna, che si estende a epoche e 

a regioni prima sconosciute, ha anche posto la fede cristiana di 

fronte a problemi del tutto nuovi; e il sorgere di una storia 

comparativa delle religioni l’ha scossa profondamente alla ba- 

se. Fino al secolo xviri la teologia, e la scienza in generale, 

conosceva soltanto — con eccezioni scarse e prive di influenza 

— il presupposto rigorosamente soprannaturale del mondo cri- 

stiano, cosicché il Cristianesimo riposava su una rivelazione 

comunemente ritenuta soprannaturale e legittimata da miracoli 

che interrompevano il corso della natura. Il pensiero scienti- 

fico si estendeva soltanto alla sua interpretazione, non alla sua 

realtà di fatto. Di fenomeni concorrenti, non cristiani, si cono- 

scevano soltanto la mitologia greco-romana e l’Islam. La prima 

veniva però considerata come la corruzione peccaminosa di 

residui di una conoscenza risalente all’Eden, e il secondo come 

un’eresia del Cristianesimo. I suoi miracoli erano, come quelli 

dell’eretico, scimmiottamenti del demonio. Al contrario, la cre- 

denza in dio della filosofia greca non comportava alcuna con- 

correnza alla rivelazione cristiana, ma rappresentava il frutto 

del « pensiero naturale », il prodotto normale e canonico del 

lumen naturale, che costituiva nei confronti della rivelazione 

un’analogia e un grado preliminare più o meno amichevolmen- 

te apprezzato, di cui non si poteva fare a meno per la definizio- 

ne € l’esposizione del contenuto della rivelazione. Questo mon- 

do angusto e ristretto, dai presupposti storici semplici ed eviden- 

ti, fu distrutto dal secolo xvi. Certamente, furono in primo 

luogo la moderna scienza della natura e la metafisica moderna 

a porre in questione il miracolo e il soprannaturale, ma ben 

presto questo effetto derivò in misura sempre crescente dalla 

ricerca storica. Accanto al Cristianesimo, all’antichità e all’I- 

slam si collocavano le altre grandi religioni del mondo antico 

con le loro analoghe dottrine teologiche; e, al di fuori del 

mondo cristiano, uno sterminato mondo « pagano» si apriva 

nelle parti della terra recentemente dischiuse al commercio e 

descritte da resoconti di viaggi molto ammirati. Ne venivano 

così posti doppiamente in dubbio gli analoghi miracoli ed ele- 

menti soprannaturali della storia ebraica e cristiana, e la prete- 

sa unicità della Chiesa. Voltaire e Montesquieu amavano proce- 



812 ERNST TROELTSCH 



dere mediante questi paralleli tra religione cristiana e religione 

pagana. L'applicazione dei nuovi metodi pragmatici e critici, 

approntati dal deismo ed energicamente approfonditi dai teolo- 

gi tedeschi del secolo xvi, si mostrava possibile anche per la 

storia del Cristianesimo, e distruggeva sia la finzione cattolica 

secondo cui la chiesa sarebbe la semplice prosecuzione del 

Cristianesimo primitivo, sia la finzione protestante secondo cui 

la Riforma ne costituirebbe la restaurazione. Tutte le imposta- 

zioni della precedente visione confessionale della storia furono 

negate c sostituite da una nuova impostazione, che inseriva la 

storia della rivelazione e della chiesa nel generale pragmatismo 

storico. Ciò che il secolo xvilt aveva cominciato a fare ancor 

sempre esitante, cercando in ogni cosa un’immutabile verità di 

ragione e onorando in tutte le religioni, ma particolarmente 

nel Cristianesimo, la « religione naturale », fu proseguito dal 

secolo xIxX con crescente successo e con una smisurata estensio- 

ne. Esso ha dissolto la vita dell'umanità in una corrente ininter- 

rotta di divenire storico, di trasformazioni continue, mostrando- 

ne il frammento a noi accessibile nel suo movimento interno, e 

per le parti a noi ignote — che si collocano prima e dopo tale 

frammento — dispiegando agli occhi della fantasia l’immagine 

di trasformazione senza fine. Ma esso ha soprattutto fornito sia 

ai singoli campi sia alla considerazione complessiva della sto- 

ria metodi storico-filologici concreti — e in luogo del metodo 

pragmatico quello genetico, che poggia sul presupposto di uno 

sviluppo continuativo e omogeneo della vita spirituale, indaga 

le leggi di formazione della tradizione presso i popoli antichi 

€ proprio qui mostra come, muovendo da queste tradizioni le 

quali offuscano ogni sviluppo e ogni condizionamento naturale, 

si possa chiaramente ricostruire il corso reale delle cose. In 

quella corrente impetuosa anche le religioni piccole e grandi — 

alle quali si aggiungeva con l’inizio del secolo anche la religio- 

ne indiana appena scoperta, insieme alle varie religioni ad essa 

imparentate — apparvero nient'altro che onde che si alzano e 

si abbassano, infinitamente diverse e senza quiete. Infatti dal 

nuovo metodo filologico scaturì naturalmente anche un’indagi- 

ne del tutto nuova delle religioni antiche. E le « antichità reli- 

giose » nella loro stretta connessione con il diritto, la politica, 

l'articolazione della società, l’arte e la scienza dei popoli anti- 



ERNST TROELTSCH 813 



chi, costituiscono il corpo principale della tradizione. Miti e 

tradizioni, culti e leggi religiose vengono sempre più riconosciu- 

ti nella loro connessione naturale con la vita complessiva. Di 

qui scaturirono, alla fine, le indagini degli etnologi e degli 

antropologi sui popoli « senza storia », le quali hanno mostrato 

la presenza presso di questi di un gran numero di tratti molto 

prossimi alle tracce più antiche dello sviluppo culturale e reli- 

gioso dei popoli civili e gettato nuova luce sui loro inizi. Dalla 

cooperazione tra scienza dell’antichità, filologia orientale ed et- 

nologia è così sorta una nuova grande disciplina, la storia delle 

religioni, che è certamente elaborata in modo ancora molto 

incompleto e diseguale, ma da cui provengono già ora, diretta- 

mente o indirettamente, gli effetti più forti. I suoi metodi 

sono profondamente penetrati nell’analisi della religione israeli- 

tica e cristiana. Nessuno poteva più mettere in dubbio la sua 

splendida influenza nel campo profano ed extra-cristiano; non 

appena la si applicò a fondo alla totalità della tradizione cristia- 

na, si vide che questa chiave, capace di aprire tutte le porte, si 

adattava anche qui alla serratura. La storia del Cristianesimo è 

così stata inserita irrevocabilmente nella storia generale della 

religione, per quanto si cercasse di nuovo di sottrarlo ad essa 

nei punti più importanti. D'altra parte, anche l’indagine di 

principio sull’essenza e sulla verità delle conoscenze religiose 

aveva bisogno di abbracciare con lo sguardo la molteplicità 

storica delle religioni. Lo spirito del pensiero moderno, orienta- 

to in senso storico, ha costretto in ogni campo filosofi e teologi 

a considerazioni storiche, soppiantando il vecchio e più elemen- 

tare procedimento, puramente logico-speculativo. In tal modo 

il cerchio della considerazione storica religiosa si è chiuso da 

tutte le parti intorno al Cristianesimo. 


Gli effetti di tutto ciò sono evidenti; ma essi sono più impor- 

tanti di quel che si è in un primo tempo supposto e di quel che 

ancora oggi spesso si suppone. La conoscenza prossima fu che 

tutti gli elementi soprannaturali, e in particolare le relazioni 

causali asserite dal pensiero giudaico-cristiano, sono scomparsi 

dalla concezione della storia del Cristianesimo, e che questa 

storia è stata studiata secondo l’analogia con altre tradizioni, 

mantenendo in pieno l’importanza che prima rivestiva. In tale 

maniera il Cristianesimo ha però perduto la fondazione sopran- 



814 ERNST TROELTSCH 



naturale che lo distingueva da tutte le altre religioni; la sua 

storia primitiva era solo più la fonte, non più la sua prova. I 

suoi fondamenti storici, che avevano avuto un’importanza deci- 

siva per la sua precedente concezione di se stesso, hanno comin- 

ciato a vacillare, e ciò ha trasformato tutta la sua essenza. In 

tale maniera, però, era minacciata non soltanto la sua sopranna- 

turalità, ma anche — come presto è risultato — la sua singolari- 

tà e il suo valore esclusivo di verità. Esso diventava solamente 

una delle grandi religioni universali accanto all'Islam e al Bud- 

dismo, una religione che, al pari di queste, si è sviluppata 

attraverso una lunga preistoria e che ha raccolto l'eredità di 

formazioni storiche di larga portata. Dov'è rimasta allora la 

sua verità esclusiva o anche soltanto la sua posizione di privile- 

gio, dov'è rimasta soprattutto la fede nella sua rivelazione esclu- 

siva e unica? La questione dell’autenticità dell’anello diventava 

ancora più grave di quanto era stata per la religione razionale 

di Lessing. Ma la conseguenza va ancora più in là. Non soltan- 

to la validità e la verità del Cristianesimo, ma anche quella 

della religione in generale come campo autonomo e particolare 

della vita viene trascinata via da questo vortice della molteplici- 

tà storica. Come può esserci comunque una verità nella fede 

religiosa, la quale si manifesta in mille forme diverse, chiara- 

mente dipendenti dalla situazione e dalle circostanze, e si ripor- 

ta a rivelazioni che si presentano tutte come infallibili e univer- 

salmente valide, o almeno come un'opera soprannaturale imme- 

diatamente procedente dalla divinità, e che al tempo stesso si 

contraddicono completamente? Come può esserci ancora una 

religione nell’infinita molteplicità e nelle profonde differenze 

delle religioni, se la religione deve significare in verità una 

comunità con la divinità? Non si dovrebbe almeno dire, con le 

note parole di Schiller: 

«Quale religione riconosco? Nessuna di tutte 

quelle che mi nomini. — E perché? per religione »'? 



Oppure con le parole di Goethe, che certamente non esprimo- 

no tutta la sua autentica intuizione al riguardo: 



« Chi possiede scienza ed arte 

ha anche la religione; 



1. ScuitLer, Epigramme, Mein Glaube (1797). 



ERNST TROELTSCH 815 



chi non ha né Vl’una né l’altra 

s'abbia la religione »?? 



Si tratta di una storia di follia e di superstizione, nel miglio- 

re dei casi del rozzo precedente e del surrogato popolare della 

filosofia e dell’arte, scaturito esclusivamente dal pensiero e dal- 

l’errore umano, non dell’opera della divinità — per lo meno 

non più e non diversamente di quanto lo sia qualsiasi altro 

evento — dal momento che la divinità non può mettersi in 

dissenso con se stessa. Ma con ciò le questioni riprendono da 

capo: perché allora queste innumerevoli vie traverse delle reli- 

gioni per giungere alla verità della filosofia e dell’arte? perché 

la necessità di un surrogato popolare? donde viene l’enigmatica 

autonomia e la forza propria delle religioni, che ora si accorda- 

no con l’arte e la scienza ispirandole alle più alte imprese, ora 

le annientano nel loro fiorire e ne prendono il posto? donde 

viene il caratteristico contenuto interno di relazioni coerci- 

tive e viventi con la divinità, che non può essere vissuto al- 

trove e che la scienza e l’arte possono soltanto trarre dalla 

religione ? 


Qui stanno infatti i problemi veri e propri per chi ha visto 

che la scienza naturale non può decidere nulla in merito alla 

possibilità o impossibilità della religione, o può decidere soltan- 

to le questioni preliminari più generali. Essi costituiscono an- 

che la base più profonda della crisi attuale, sebbene la cultura 

media continui ad attribuire questo progresso o questa sfortuna 

— secondo il punto di vista — solamente alla scienza della 

natura. Come la scepsi, che invade oggi tutti i campi, ha il 

suo fondamento principale nel relativismo prodotto dal diffon- 

dersi degli studi storici, così ha qui la sua radice, ora più con- 

sapevolmente, ora più inconsapevolmente, anche la posizione 

contraddittoria della nostra migliore cultura nei confronti della 

religione, che oscilla avanti e indietro tra un mezzo riconosci- 

mento e una mezza contestazione, riconoscendo in qualche 

modo la verità e la necessità di un fenomeno storico così potente 

e tuttavia non impegnandosi seriamente con nessuna delle sue 

forme concrete. 



2. GoetHE, Xenien, 9. 



816 ERNST TROELTSCH 



Ma le grandi crisi storiche guariscono spesso — come Ja 

lancia di Odino — le ferite che hanno inferto. Come la moder- 

na scienza della natura costringeva, proprio in virtù della sua 

coerente elaborazione, a indagini gnoseologiche sulla causalità 

e sulla sostanza, conducendo perciò al superamento del suo 

carattere materialistico e naturalistico, così anche la nuova scien- 

za storica ha costretto a cercare con maggiore profondità di 

prima le forze propulsive e unitarie della storia. Se 1’Illumini- 

smo, ancora sottoposto all’influenza del soprannaturalismo, ave- 

va riposto il contenuto della storia in una verità di ragione 

sempre eguale, rigida, spiegando a partire da essa tutte le devia- 

zioni e tutti i mutamenti in base a motivi puramente soggetti 

vi, la nostra intuizione della storia procedeva all'indietro — 

sotto l’influenza delle nuove idee poetiche di Lessing, Herder, 

Goethe — dai variopinti e molteplici fenomeni esterni alle 

tendenze spirituali di fondo della natura umana che stanno alla 

loro base e che sono in essi soltanto incorporate, e insegnava 

poi a riconoscere di nuovo queste tendenze nella loro interna 

connessione come il dispiegarsi della ragione umana complessi 

va, che nel corso dello sviluppo dispiega il proprio contenuto 

spirituale — come un grande individuo — attraverso la succes- 

sione delle generazioni. In tal modo è stata fondata la grande 

intuizione moderna della storia, che costituisce il presupposto 

nuovo di ogni scienza dello spirito: essa racchiude ancora in sé 

gravi problemi, ma si è già dimostrata estremamente feconda. 

Da essa è sorta anche una nuova intuizione della religione e 

del suo sviluppo storico. Anche nella religione si è pervenuti, 

muovendo da forme fenomeniche infinitamente diverse, a un 

nucleo interno, sempre presente e almeno formalmente identi- 

co, agli Er/ebnisse interni della coscienza, che si cristallizzano 

e si ramificano a formare quelle forme fenomeniche soltanto in 

virtù della cooperazione di varie condizioni esterne. Era questo 

Erlebnis fondamentale ciò che occorreva comprendere e analiz- 

zare. In base alle rivelazioni originarie e acquisite di questo 

Erlebnis si doveva comprendere la formazione dei gruppi di 

religioni; e nel sorgere di gruppi di religioni sempre più gran- 

di e comprensivi si doveva riconoscere il dispiegarsi dell’idea 

religiosa. C'erano naturalmente vie molto differenti per proce- 

dere a quest’analisi, e numerosi sono stati gli errori. Il presup- 



ERNST TROELTSCH 817 



posto di un’indagine di questo tipo è naturalmente la conoscen- 

za approfondita della storia empirica delle religioni, ma di 

tale conoscenza si può finora parlare solo parzialmente. Nel 

complesso questa è la strada che si accorda con la tendenza del 

pensiero scientifico, e che ha già condotto a molte conoscenze 

fornite di valore. Dobbiamo soltanto imparare a considerare la 

religione con occhio sempre più amorevole, sempre più libero 

da presupposti dottrinali, razionalistici e sistematizzanti, e a 

studiarla in modo sempre più penetrante proprio nei suoi carat- 

teristici e appariscenti fenomeni e personalità specificamente 

religiosi, anziché nell'uomo comune. Allora ci si disvela — co- 

me il nucleo più profondo della storia religiosa dell'umanità 

— un Erlebnis non suscettibile di essere ulteriormente analizza- 

to, un fenomeno originario ultimo che, al pari del giudizio 

etico e dell’intuizione estetica, rappresenta un fatto ultimo e 

semplice della vita psichica, ma che è caratteristicamente diver- 

so da entrambi. Noi riconosciamo leggi particolari — proprie 

di questo campo della vita — nella formazione di idee e di 

norme, nella produzione di simboli e di azioni religiose, nell’al- 

largamento, nella crescita e nell’elaborazione, nella contrapposi- 

zione e nella lotta con forze estranee o antitetiche; nell’aliena- 

zione e nell’approfondimento, nell’intreccio con altri sistemi di 

vita e della concentrazione che ne viene di nuovo fuori, nella 

formazione della tradizione e della comunità nonché nella pro- 

duzione originale che continua sempre a sussistere accanto a 

queste, nel rapporto degli spiriti produttivi con i fedeli ad essi 

subordinati. In tutte queste formazioni diversissime vive pur 

sempre una realtà fondamentale unitaria, ossia la religione, il 

contatto indeducibile, puramente fattuale, sempre nuovamente 

vissuto, con la divinità. Si può passare da una religione all’al- 

tra: anche le religioni tra loro più opposte possono comprende- 

re, con qualche attenzione, il linguaggio religioso l'una dell’al- 

tra. Si tratta sempre della stessa realtà, che viene colta in diver- 

si gradi e da diversi lati. Ma questa unità non è l’unità rigida 

della religione naturale — come aveva ritenuto la concezione 

della storia del secolo xvi — e non si basa sull’accordo tra ope- 

razioni intellettuali coscienti; essa è invece fondata su una comu- 

ne tendenza di movimento dello spirito umano, la quale spinge 

avanti in direzioni diverse e si compie attraverso il movimento 



52. STORICISMO TEDESCO. 



818 ERNST TROELTSCH 



dello spirito divino che opera misteriosamente nella profondità 

inconscia dello spirito umano unitario. Incapace di raggiungere 

il suo fine nel breve tratto della vita individuale, questo movi- 

mento si compie attraverso il lavoro in comune di innumerevo- 

li generazioni che, afferrate e condotte dall’agire divino, si 

affidano ad esso vivendone sempre più riccamente e profonda- 

mente l’intimo contenuto. Questo movimento è uno sviluppo 

perturbato in vario modo, ma che in tutte le perturbazioni si 

riprende sempre di nuovo, reca a realizzazione il contenuto 

posto come possibilità e come nucleo nel sistema religioso di 

vita, mostra i diversi gruppi di religioni nella loro relazione 

reciproca e nella loro graduale successione, e nel corso stesso 

della storia porta alla luce — con la contrapposizione di diverse 

religioni — il criterio della loro valutazione. In tal modo si 

innalza davanti ai nostri occhi, anziché il caos, un cosmo di 

religioni, a proposito del quale non si deve dimenticare che qui 

la successione di gradi indica non soltanto una serie temporale, 

ma anche una contemporaneità. Questo cosmo è stato spesso 

considerato un gioco che presenta in sfumature quanto mai 

variopinte e ricche la realtà fondamentale comune, oppure co- 

me una cooperazione di diverse verità parziali che costitui- 

scono la bella totalità. Ma questa considerazione estetica, che 

faceva della storia delle religioni uno spettacolo ricco e bello 

per la divinità, contraddice sia il vero senso dell’idea di svilup- 

po sia l’essenza reale delle religioni. L'idea di sviluppo, tratta 

attraverso diverse idee mediatrici dai fenomeni spirituali del 

movimento di un fine unitario, si spinge fino al conseguimento 

di questo scopo finale a cui sempre si tende e che sempre 

agisce; e le grandi religioni tanto meno si arrestano in sé 

quanto più hanno compreso il loro fine, ma anzi tendono con 

passione spesso struggente verso la verità totale e intera. Soltan- 

to dove l’idea di sviluppo viene mantenuta nel suo senso pieno, 

essa non opera in modo snervante e distruttivo; e soltanto dove 

le religioni sono animate da questa passione, esse hanno una 

vitalità intima che le spinge in avanti. Perciò occorre in ultima 

analisi, e soprattutto, rintracciare il fine o almeno la tendenza 

al fine della storia delle religioni, la quale non può trovare il 

suo termine nei sistemi della scienza e dell’arte ad essa prossi- 

mi oppure in un concetto astratto di religione elaborato in base 



ERNST TROELTSCH 819 



alla varietà delle religioni, ma soltanto in una religiosità concre- 

ta, particolarmente profonda e potente, particolarmente forte e 

coniata in forma pura. Essa deve contenere i momenti di verità 

delle altre o potersene appropriare, e deve in ogni caso incorpo- 

rare in modo vivente l’idea centrale che emerge dal loro svilup- 

po. In quale misura essa sia configurata unitariamente e in 

quale misura possa penetrare universalmente, nessun postulato 

può stabilirlo 4 priori. Si tratta soltanto di un postulato che 

deriva dallo stesso sviluppo religioso, in modo tale da fornire 

una tendenza al fine e da fare sì che essa si renda riconoscibile, 

almeno come avviamento e come tendenza verso il futuro. 


Il vecchio metodo della teologia soprannaturalistica ne risul- 

ta pertanto capovolto. Essa muoveva dal presupposto, assunto 

come ovvio, che il Cristianesimo costituisce — a causa del suo 

carattere soprannaturale — l’unica verità, e si curava soltanto 

di porre le altre poche religioni conosciute in un rapporto 

tollerabile con questa religione soprannaturale, ed essa sola ve- 

ra. La sua filosofia della storia collegava immediatamente il 

Cristianesimo, inteso come restaurazione soprannaturale, al per- 

fetto e semplice inizio dell’umanità; la molteplicità delle altre 

religioni non era che un prodotto dell’offuscamento successivo 

al peccato, e i loro elementi di verità erano residui dell’antica 

perfezione dello stato originario. Il Cristianesimo era non sol- 

tanto la suprema e più profonda redenzione, ma l’unica reden- 

zione operata immediatamente da Dio, mentre tutte le altre 

religioni nascevano esclusivamente dal pensiero e dall’errore 

umano, e la loro fede di redenzione doveva essere stata soltanto 

auto-redenzione in base a una forza naturale. La ricerca storica 

moderna costringe a percorrere il cammino inverso. Essa mo- 

stra che questo soprannaturalismo e questa forma di fondazio- 

ne costituiscono un modo, comune a tutte le religioni superio- 

ri, di esprimere la loro convinzione della propria verità. Essa 

distrugge l’idea di un semplice inizio soprannaturale dell’uma- 

nità, e mostra anche presso i devoti dell’Indo e delle montagne 

persiane la forza profondissima e vivissima della fede redentri- 

ce e della comunanza immediata con Dio. Essa percorre in tal 

modo la via dall’universale al particolare, dall'indagine della 

religione come contatto particolare con la divinità, che ha luo- 

go ovunque, all’indagine dei particolari ambiti concreti di reli- 



820 ERNST TROELTSCH 



gione. Cercando di coglierli nel loro rapporto interno, in una 

prospettiva storico-evolutiva, essa va alla ricerca del prodotto 

supremo di questa storia, guidata dalla convinzione — certamen- 

te indimostrabile, e che rappresenta essa stessa una fede etico-re- 

ligiosa — che la storia non è un gioco di varianti senza fine, 

bensì il dispiegarsi del contenuto più profondo e unitario dello 

spirito umano. Ai suoi occhi la storia della religione è una 

storia di Dio con gli uomini, una storia della redenzione che 

eleva l’umanità e l’uomo singolo al di sopra del legame con la 

mera natura sensibile, con il bisogno e con l’aspirazione pura- 

mente naturale, fino alla comunità con Dio e alla libertà dello 

spirito sul mondo e sulla mera, ottusa fattualità dell’esistenza. 

In quanto la storia della religione raggiunge in questo modo, o 

meglio realizza, la verità — in grado diverso secondo la situa- 

zione e le condizioni — vincolando l’uomo con il fondamento 

più profondo della sua esistenza e con l’insieme dei suoi beni 

spirituali, ne è nata la convinzione che in essa, e in essa soltan- 

to, si raggiunge un reale progresso della storia e che essa può 

credere, del tutto diversamente dalla storia degli altri campi 

della vita, nel conseguimento di uno scopo definitivo e sempli- 

ce. Mentre la morale, il diritto, la cultura, la scienza e l’arte si 

riferiscono a una situazione mondana sempre mutevole e sono 

perciò sempre costrette a comportare nuovi impercettibili adat- 

tamenti, innumerevoli dissoluzioni e nuove formazioni, la reli- 

gione ha invece a che fare con il fondamento eterno, sempre 

identico a se stesso, della vita. Penetrandolo sempre più profon- 

damente, essa può ritenere possibile raggiungere quella misura 

di verità e di unificazione interna che è in generale concessa al- 

l’uomo sulla terra — certamente sempre intrecciata, in relazioni 

continuamente mutevoli, con la situazione complessiva che si 

trasforma, in lotta con le potenze contrapposte dell’inerzia, 

del peccato, dell’esteriorizzazione egoistica, e creando, in base 

alla verità una volta raggiunta, una sempre nuova e più profon- 

da forza vitale, ma pur sempre nella certezza di avere vissuto 

ed esperito il nucleo del mondo soprasensibile. Si tratta di un 

postulato di cui nessuno, che abbia riconosciuto nella religione 

un campo autonomo della vita, può fare a meno. Certamente, 

a questo punto si aprono i problemi ultimi e più profondi, le 

questioni fondamentali della storia: perché abbia luogo in gene- 



ERNST TROELTSCH 821 



rale una storia; perché gli uomini debbano essere tratti fuori e 

liberati dalla balia della natura e delle sofferenze da essa a noi 

inflitte, dall’inerzia e dall’egoismo, soltanto in virtù della reli- 

gione; perché le condizioni di questo processo e i suoi effetti 

siano talmente differenti e non si possa parlare di una possibili- 

tà identica per tutti di partecipare al suo frutto; perché innume- 

revoli generazioni e individui debbano venir consumati in esso, 

e pur sempre rimanere differenze di grado; se, e come, tutta 

questa diseguaglianza potrà mai essere appianata. Queste sono 

le questioni ultime e più profonde che un’epoca fornita del 

coraggio della speculazione cercherebbe di illuminare mediante 

una speculazione che muova dai fatti della vita interiore, e 

nelle quali un’epoca stanca di speculazione come la nostra vene- 

ra invece rassegnata i limiti della conoscenza umana; questioni 

a cui risponde in modo oscuro e logoro, ma profondo e com- 

prensivo, la religione stessa attraverso la dottrina dell’amore 

creativo di Dio e della vita dopo la morte, dell’auto-redenzione 

di Dio nell’elevazione dei regni degli spiriti finiti alla comunità 

con lui. 


Non sono quindi queste questioni ultime a dover essere 

ancora indagate se si deve risolvere il problema posto dalla 

considerazione storico-religiosa. E neppure può trattarsi di ga- 

rantire l'assunzione fondamentale qui presupposta — cioè che 

la religione è un campo di vita autonomo, un contatto interio- 

re con la divinità — contro le obiezioni che dalla pienezza 

delle particolarità storiche traggono l’occasione per una spiega- 

zione di tipo illusionistico la quale deriva la religione, intesa 

come prodotto secondario, da altri fatti fondamentali. Ogni 



spiegazione del genere naufraga sempre dinanzi al fatto che la 



religione non può essere derivata dal pensiero causale o dall’im- 

pulso filosofico, e neppure dalla fantasia e dal bisogno di felici- 

tà: ciò risulta particolarmente chiaro nelle più eminenti perso- 

nalità religiose, in cui opera ancora la forza completa dell’ispi- 

razione e la religione non si è ancora risolta in teologia, in 

etica o in culto, ma anche ogni fedele può constatarlo in se 

stesso, nella sua propria esperienza. Egli segue una coercizione 

che lo trascende, una tendenza verso qualcosa che non trae 

origine dal mondo delle esperienze sensibili e dai bisogni sensi 

bili, ma che doveva già essere contenuto nel sentimento prima 



822 ERNST TROELTSCH 



di poter essere manifestato o postulato. Per una spiegazione 

realmente di tipo illusionistico resterebbe soltanto l’ipotesi — 

che è stata anche tentata e che da molti punti di vista sarebbe 

ancora la più accettabile — che si richiama a una follia conta- 

giosa, ad allucinazioni di visionari invasati, le quali poi si 

sarebbero trasmesse, in forma più debole, ai comuni fedeli 

mantenendo sempre un’enigmatica forza di contagio. Su un'ipo- 

tesi siffatta non si può naturalmente discutere: essa significa 

soltanto il riconoscimento del fatto che nella religione siamo 

sempre di fronte al fenomeno fondamentale ultimo — non 

ulteriormente risolubile, che rimane sempre enigmatico e in- 

commensurabile — della vita spirituale, e che in esso è presen- 

te un proprio autonomo principio di sviluppo condizionato sì 

dal resto della vita, ma non esclusivamente prodotto da essa. Si 

può quindi restare fermi, in generale, all’intuizione fondamen- 

tale già ricordata, ossia alla filosofia della storia di Hegel, di 

Schleiermacher e di Humboldt, che riconosce nella religione un 

fenomeno universale della vita spirituale e applica alla sua sto- 

ria l’idea di sviluppo, che può condurre soltanto a uno studio 

sempre più realistico e impregiudicato dei fenomeni specifica- 

mente religiosi e che dev'essere liberata dalla connessione trop- 

po stretta — e ancora dominante — della religione con intuizio- 

ni complessive di carattere metafisico ed estetico. Le questioni 

che scaturiscono da tale concezione sono piuttosto quelle che si 

riferiscono, in modo particolare, al rapporto della molteplicità 

e relatività storica con l’unità ultima e con la propria verità, 

postulato della fede religiosa. E proprio per gli storici che si 

immergono nella pienezza della realtà sorgono sempre di nuo- 

vo certi problemi: come si possa, da questo punto di partenza, 

Spiegare o piuttosto sostenere, in rapporto a quella tendenza 

all’assoluto, l'effettiva diversità delle concezioni religiose fonda- 

mentali, la diversità di intensità e di purezza, la debolezza di 

vita religiosa che caratterizza talvolta interi periodi e interi 

popoli. L’altra questione, che tocca in maniera ancora più im- 

mediata l’interesse generale, è se realmente una delle religioni 

concrete oppure — dal momento che esso rappresenta la gran- 

de religione storica dell'ambito di cultura europeo-america- 

no, € può praticamente costituire per noi il culmine dello svi- 

luppo religioso, collocandosi sicuramente, per interiorità e atti- 



ERNST TROELTSCH 823 



vità religiosa, al di sopra del Giudaismo, dell'Islam, del Buddi- 

smo e del Bramanesimo — se il Cristianesimo possa essere real- 

mente considerato il punto di convergenza della vita religio 

sa e il fondamento di ogni sviluppo ulteriore. 


Per rispondere alla prima questione occorre riflettere che il 

concetto di religione è rimasto, con quanto si è detto, ancora 

assai indeterminato e incompiuto. La storia della religione mo- 

stra piuttosto chiaramente, per quanto è possibile, che la religio- 

ne non può essere un’azione di Dio sul sentimento, chiusa 

internamente in sé a ogni altra realtà, immediata e sempre ripro- 

ducentesi in modo spontaneo. Che essa sia questo, lo afferma 

ovunque soltanto la teoria della mistica, cioè di quel particola- 

re risultato di complicati sviluppi storico-religiosi che compare 

ogni volta che si è smarriti dinanzi alle singole forme concrete 

della fede in Dio e si ritorna a un'azione ineffabile e sempre 

eguale di Dio sull’anima, oppure quando, rifuggendo paurosa- 

mente da ogni esteriorità e da ogni mediazione, si aspira a 

una comunanza il più possibile interiore e immediata con Dio. 

Il vuoto e l’auto-limitazione priva di rapporti comunitari di 

questa devozione, la concentrazione artificiosa che si punisce 

con l’irritazione e la spossatezza, il distacco dal mondo mostra- 

no fin dall’inizio quanto poco si tratti di fenomeni normali. 

Una teoria del genere passa anzi sopra fatti di importanza 

fondamentale. Quell’influenza divina non si compie cioè in 

ogni uomo in maniera nuova e autonoma, e in modo puramen- 

te interiore come se fosse una specie di magia dell'anima, ma si 

compie attraverso mediazioni di vario genere. L'impressione 

religiosa o — per impiegare un’immagine tratta dalla psicolo- 

gia empirica — lo stimolo religioso scaturisce sempre soltanto 

da avvenimenti e da esperienze vissute di tipo esterno e inter- 

no, nella natura e nella storia, nella coscienza e nel cuore. Per 

la grande maggioranza degli uomini l’elemento mediatore del- 

lo stimolo religioso è la tradizione religiosa, accanto alla quale 

stimoli religiosi indipendenti rivestono un'importanza solita- 

mente più ristretta. L’enigma proprio dello sviluppo religioso 

individuale consiste nel vedere come da tradizioni non compre- 

se, dapprima estranee e interpretate in modo infantile, sorga 

gradualmente la devozione autonoma, interiore e personale, la 

quale è cosciente, almeno nei punti più alti, della sua comunan- 



824 ERNST TROELTSCH 



za interiore e della sua relazione reciproca con la vita divina. 

Se ci si riferisce però all’origine di questi ambiti di tradizione 

— talvolta racchiusi l’uno nell’altro © incrociantisi tra di loro 

— ci si imbatte, dove è possibile risalire fino agli inizi di una 

religione, in personalità straordinariamente originali che, legate 

meno strettamente alla mediazione della tradizione, ricevono 

dai grandi avvenimenti della natura o della storia, dai destini 

della vita individuale o dai processi della loro vita interiore lo 

stimolo a nuove grandi intuizioni, attraendo le altre sotto la 

potenza della loro devozione e della loro personalità. Quanto 

più queste concezioni fondamentali, che compaiono in modo 

puramente fattuale e non possono venir derivate da altre, sono 

profonde e personali, e collegate con avvenimenti grandi e 

importanti, tanto più esse si presentano come nuclei di grandi 

contenuti di vita, come princìpi che si dispiegano nel lavoro di 

molte generazioni. I visionari, gli estatici e gli ispirati delle 

antiche religioni, i profeti, i riformatori e i santi sono di solito 

personalità di questo genere, e la loro caratteristica principale 

è un’enorme unilateralità che respinge tutto il resto, e mediante 

la quale soltanto essi possono produrre tale effetto. Ma, una 

volta dischiusa da essi in questo modo determinato, la comu- 

nanza con Dio crea un allargamento e una diffusione straordi- 

naria dei rapporti fondamentali così dati. Essa si sviluppa 

finché possiede una forza di sviluppo non ancora utilizzata e 

finché non viene sopraffatta da impressioni più potenti. 


Il fatto che nel campo della religione, come in tutti gli 

altri, le disposizioni e le capacità siano diverse, che il con- 

tenuto e la portata di un principio religioso possano essere 

sviluppati soltanto mediante il lavoro di appropriazione di mol- 

te generazioni, che l’esperienza religiosa scaturisca da elementi 

diversi di una realtà infinitamente varia, e che in tale maniera 

l’unica verità sia colta diversamente in differenti concezioni 

fondamentali — tutto ciò è inerente all’enigma stesso della 

storia, la quale distribuisce il contenuto della vita spirituale 

nel lavoro di miliardi di uomini, e il cui mistero è noto soltan- 

to a Dio. Ma tutto ciò non cancella la fede che in questa 

molteplicità sia vissuta una verità unitaria. Procedendo dalle 

differenze condizionate dal luogo e dal tempo, da particolarità 

personali e storico-culturali, dalla mescolanza dei nomi di divi- 



ERNST TROELTSCH 825 



nità e delle mitologie, da alienazioni e da deformazioni infanti- 

li e rozze, o egoistiche e sacrileghe, fino al nucleo unitario, 

troviamo sempre una verità molto affine. Osserviamo il grande 

terrore dinanzi al mistero di un mondo soprasensibile che si 

introduce nel corso della vita quotidiana e che desta l’uomo, 

ora spaventandolo ora consolandolo, dal sonno di un'esistenza 

puramente intra-mondana; la manifestazione di forze divine 

nella natura, da cui scaturisce in definitiva una sensibilità pan- 

teistica; l'autorizzazione di norme etiche e giuridiche da parte 

della divinità, la quale si rivela come sacra ed esige anzitutto 

purezza e verità, dirittura e rigore nell’agire. In particolare, 

beni superiori e beatificanti si collocano al di sopra del mondo 

sensibile, un elemento permanente ed eterno si eleva sul mutare 

del desiderio e del bisogno, e da ciò sorge la fede nella reden- 

zione, che nella religione in generale riconosce la redenzione 

dal dolore e dalla colpa, dal carcere dell’insoddisfazione eterna- 

mente mutevole. Tutte queste cose possono essere viste come 

oggettivamente connesse, come impulsi verso una concezione 

unitaria; e la questione del perché gli individui prendano 

parte in modo così diseguale alla piena verità oggettivamente 

connessa non può turbare questa conoscenza, in quanto è una 

questione eternamente insolubile sulla terra. 


In base al medesimo fatto fondamentale della mediazione di 

tutte le spinte religiose si spiegano però, in collegamento con 

un secondo fatto fondamentale, anche gli altri fenomeni che 

abbiamo menzionato: la diversa intensità e direzione dell’inte- 

resse religioso, la debolezza della vita religiosa, che non sem- 

pre dipende soltanto da ottusità e da rifiuto nei confronti dell’e- 

levazione ideale o da una consapevole opposizione. Non parlere- 

mo qui, in quanto si tratta di cose ovvie, di quest’ultimo condi- 

zionamento da parte dell’inerzia, dell’egoismo, della rozzezza e 

dell’esteriorità, né degli effetti della lotta continua della religio- 

ne contro gli impedimenti ad essa opposti dalla volontà. Occor- 

re considerare piuttosto altre cose. L'intuizione di Dio non è 

isolata in sé, e neppure è un'esperienza vissuta accolta passiva- 

mente. Essa è fin dall’inizio rivestita di determinati tratti di 

simbolizzazione poetica, e opera mediante riferimenti concreti a 

certi campi di fenomeni naturali o etici e con determinati 

strumenti di espressione linguistica. Agendo come stimolo sul- 



826 ERNST TROELTSCH 



l’anima in virtù di questo contenuto concreto, essa suscita im- 

mediatamente — al pari di ogni altro stimolo — una quantità 

di reazioni, cosicché non può mai liberarsene in tutta la sua 

purezza, ma in ogni momento della sua influenza è sempre 

indissolubilmente collegata con le più svariate reazioni psichi- 

che. La connessione è qui più stretta e ramificata di quanto 

non avvenga per qualsiasi altro stimolo, perché l’esperienza 

religiosa è l’esperienza dominante, che attrae o respinge ogni 

cosa, e perché eccita più di ogni altra il sentimento in tutte le 

sue sfumature. Esiste anche un'« appercezione » religiosa in vir- 

tù della quale lo stimolo religioso penetra immediatamente nel- 

la connessione di tutte le rappresentazioni e di tutti i sentimen- 

ti, e ne viene influenzato nella sua direzione, nella sua forza e 

nel suo ambito, anche se poi dà a sua volta nuove linee diretti- 

ve e nuove intonazioni all’intera struttura. È noto che le natu- 

re specificamente religiose intrecciano impetuosamente, nelle 

loro idee religiose fondamentali, tutto ciò che è vicino e ciò 

che è lontano, oppure respingono tutto quanto si oppone, o che 

non si connette immediatamente, come cose del mondo e cure 

quotidiane; allo stesso modo coloro che hanno il loro centro di 

gravità in altre disposizioni, adattano la religione a interessi 

scientifici, etici, estetici, cercando di mediarla con il resto oppu- 

re, dove quest’adeguazione risulta impossibile, di respingerla. 

Nelle condizioni di quest’appercezione, differente in ogni indi- 

viduo, risiede per lo più il motivo delle enormi diversità indivi- 

duali all’interno di ogni particolare ambito religioso, delle di- 

verse rappresentazioni e sensazioni religiose, della diversa posi- 

zione e forza dello stimolo religioso all’interno del contenuto 

psichico complessivo, della prevalente dipendenza dalla tradizio- 

ne e dal simbolo, della prevalente autonomia e reazione, della 

diversa misura di forza trascinante e di appropriazione riflessi- 

va. Quanto più sviluppata e più ricca è la vita spirituale, tanto 

più intricate e impenetrabili diventano le condizioni di quell’ap- 

percezione, e tanto più energicamente la religione richiede quel 

raccoglimento e quell’attenzione silenziosa allo stimolo religio- 

so, che si chiama devozione e preghiera. Non si deve quindi 

dimenticare che gli individui non stanno soli, ma innalzano, 

nella più stretta relazione reciproca, certe inclinazioni e certe 

tendenze a potenze socialmente dominanti. Così anche dal pun- 



ERNST TROELTSCH 827 



to di vista religioso vi sono epoche prevalentemente conservatri- 

ci ed epoche prevalentemente critiche, in cui ora la tradizione 

consolidata nel culto e nella chiesa domina ogni cosa con il 

sentimento di una sacralità intangibile, ora un'autonomia criti- 

ca suscitata da sconvolgimenti generali della vita spirituale si 

ribella mettendo in questione la legittimità e la connessione di 

ogni idea. Così può esserci alla fine, dopo violente lotte religio- 

se, un periodo di fastidio che si rivolge alle cose del mondo e 

di più facile acquisizione; può esserci, sotto l’influenza di gran- 

di movimenti materiali, politici e sociali, o sotto l'influenza di 

conoscenze scientifiche, una crescente ripugnanza di grandi 

masse nei confronti della religione, come dimostrano per esem- 

pio la cultura dell’età imperiale romana, la morale confuciana 

delle classi superiori della Cina — non areligiosa ma assai 

povera dal punto di vista religioso — e le moderne condizioni 

della vita europea. In modo analogo si devono intendere anche 

le situazioni di debolezza della vita religiosa di alcuni popoli 

primitivi, a cui se ne contrappongono altri forniti di un fervore 

molto più vivo e relativamente puro. Anche qui ci sorprende di 

nuovo, naturalmente, la partecipazione misteriosamente dise- 

guale dell'individuo al valore ultimo dell’esistenza e l’inevitabi- 

le unilateralità di tutto cid che è umano; ma di per sé la 

religione è, e rimane, essenzialmente la stessa. Non abbiamo 

nessun motivo di dubitare della sua essenziale unità interna. Si 

tratta della medesima verità, che viene raggiunta da diverse 

parti e in un diverso rapporto con gli altri elementi della vita 

spirituale. 


Con ciò siamo di fronte alla seconda questione precedente- 

mente accennata: se cioè vi sia un punto di convergenza, un 

culmine che emerga in modo visibile, tra queste diverse conce- 

zioni parziali della verità o, più precisamente, se il Cristianesi- 

mo — che vuole esserlo — possa anche realmente valere come 

tale. Il motivo che ci induce a formulare in modo così determi- 

nato la questione non è la propensione ad assolutizzare la reli- 

gione in cui siamo nati e siamo stati educati, e che sola ci è 

completamente familiare, facendone l’essenza della verità in ge- 

nerale. Infatti il suo dominio non è più così ovvio e ingenua- 

mente immediato che si debba senz'altro sottostare a questo 

impulso di universalizzazione. L'ottimismo del sentimento pan- 



828 ERNST TROELTSCH 



teistico della natura che sempre si sprigiona dall’arte antica e, 

dall’altro lato, l'impressione delle religioni pessimistiche e pie- 

ne di mistero dell'Oriente agiscono tra di noi in modo abbastan- 

za forte da costringerci a una decisione pienamente consapevo- 

le. Da questa impostazione viene fuori anche non soltanto il 

necessario postulato che la piena verità della religione deve 

pur rivelarsi in qualche luogo. In sé e per sé, ciò potrebbe 

essere forse riservato solamente a un lontano futuro. Se impo- 

stiamo così la questione, il motivo è che soltanto il Cristianesi- 

mo nel suo sviluppo ha avanzato in modo sempre più netto e 

penetrante questa pretesa. Sorretto dall’autorità del tutto inte- 

riore e personale — ma che conteneva in sé un residuo di 

incommensurabilità — del suo maestro, esso si rivolge esclusiva- 

mente al nucleo interiore dell'individuo, ai bisogni più universa- 

li, più profondi e più semplici di quiete e di pace del cuore, a 

un senso positivo, ultimo, definitivo dell’esistenza; si rivolge a 

ogni individuo senza eccezione, poiché presuppone presente in 

ciascuno questo nucleo essenziale ed è sicuro di poter educare 

tutti a tali bisogni. Pace dell’anima con Dio, e quindi supera- 

mento della sofferenza del mondo e di tutti i dolori della 

coscienza, ma anche viva e attiva realizzazione della volontà 

divina; il comandamento dell’amore verso i fratelli, che sono 

fratelli in virtù del Padre comune: ecco il suo vangelo. Da ciò 

scaturisce anche la comunità più salda e comprensiva, in quan- 

to esso fa derivare l’origine dell'essere umano dallo spirito divi- 

no e lo riconduce al fine della comunità con Dio e con i 

fratelli, costringendo ogni credente a collaborare a quella uni- 

versalità e al fine della perfezione comune. Esso è quindi l’uni- 

ca religione che pretenda una universalità assolutamente incon- 

dizionata, l’unica che abbia perciò prodotto dal proprio seno 

una filosofia della storia che connetta inizio, metà e fine della 

storia dell'umanità, e che in questa storia riconosca una realtà 

in sé internamente connessa, irripetibilmente specifica e al servi- 

zio di fini incondizionatamente validi. Ma soprattutto si tratta 

di una validità universale non asserita solamente in linea di 

fatto: essa scaturisce per il suo sentimento dall’intima necessità 

dell'essenza di Dio, che creando il mondo deve poi ricondurre 

a sé le sue creature traendole dal mondo e dall’errore, dalla 

colpa e dallo scoramento. La sua grazia non è arbitrio, e i suoi 



ERNST TROELTSCH 829 



comandamenti non sono una mera statuizione; l’una e gli altri 

emanano dalla sua essenza e si realizzano dall’interno median- 

te l’amore per Dio, che per primo ha amato i suoi figli. Qui la 

tendenza della religione alla validità universale ha raggiunto 

la sua vetta: tutto ciò che è particolare, proprio di un popolo, 

condizionato dal mondo, è spazzato via; ogni dipendenza da 

una situazione meramente data, sempre incoerente, è superata 

dall’universalità di un fine ancora da raggiungere, ma già fon- 

dato nella sua determinazione e nella sua essenza. 

Certamente, ciò mostra anche l’unilateralità del tipo di vita 

determinato in modo prevalentemente religioso. Ma, secondo la 

legge — che domina anche la religione — della differenziazio- 

ne dell’essenziale, questo non costituisce nulla di sorprendente, 

e neppure costituisce un limite. Non si può concepire come 

essenza dei gradi supremi un monismo di valori culturali che 

non differenzia nulla, ma soltanto una costituzione dello spiri- 

to che sviluppi coerentemente le singole tendenze riequilibran- 

do le tensioni che ne sono derivate. Proprio in quella unilatera- 

lità il Cristianesimo raggiunge la piena interiorità e l’universali- 

tà puramente umana. La tensione così determinatasi, e ora più 

che mai aperta, nei confronti dei valori culturali intra-monda- 

ni dà al tutto il carattere della vita spirituale superiore, si 

riunifica sempre di nuovo nel lavoro vivente e consapevole. In 

tutte le sue trasformazioni e le sue mescolanze, in tutte le 

caricature e gli abomini, in tutte le stagnazioni e gli irrigidi- 

menti, il Cristianesimo annunciava tuttavia questa tendenza — 

superiore a ogni cosa — verso ciò che è individuale-personale, 

verso ciò che è universalmente umano, verso ciò che è totale e 

ricco di tensione. Lo conferma anche lo sguardo alle altre 

grandi religioni universali, che soltanto possono essere prese in 

considerazione accanto al Cristianesimo. L'Islam, il fratello più 

giovane scaturito dal Giudaismo insieme con il Cristianesimo, 

ha accolto da essi in modo puramente estrinseco questo univer- 

salismo, insieme alla forma della rivelazione scritturale e ai 

frammenti della sua filosofia della storia. Esso gli inerisce sol- 

tanto per l’unità del suo dio e per la semplice intelligibilità dei 

suoi pochi e poveri comandamenti morali, ma non discende 

dall’intima necessità dell'essenza del suo dio, che anzi è un dio 

caratterizzato da un duro e imprevedibile arbitrio. L'Islam rap- 



830 ERNST TROELTSCH 



presenta una regressione rispetto al Giudaismo e al Cristianesi- 

mo, e non ha mai potuto nascondere del tutto il suo carattere 

di religione guerriera nazionale araba. Il Buddismo — per 

vari aspetti parallelo al Cristianesimo — è fin dall'inizio soltan- 

to la religione di un ordine monastico, al quale possono e 

devono accostarsi tutti coloro che hanno riconosciuto la nullità 

della volontà di vivere, e dal quale scaturisce quindi un vivo 

impulso missionario. Ma la sua validità universale è conseguen- 

za semplicemente della validità universale di questa conoscen- 

za, non già dell’essenza di una divinità che chiami tutti a un 

fine comune — al cui posto si presenta qui piuttosto un ordine 

impersonale di redenzione. L’ordine degli illuminati presuppo- 

ne pur sempre la grande massa degli sprovveduti e dei laici, 

che forniscono sostentamento al monaco. La grande maggioran- 

za ritorna sempre nel circolo della migrazione delle anime e 

costituisce soltanto la massa da cui i sapienti si separano e 

della cui carità vivono fin quando scompaiono nel Nirvana 

uscendo dal cielo delle anime. Questo processo si ripete senza 

fine e senza connessione in periodi cosmici che si susseguono 

all'infinito; ma sempre alcuni illuminati si separano dal mondo 

della parvenza, e sempre la massa rimane imprigionata in que- 

sto stesso mondo della parvenza. Come il mondo non ha nes- 

sun fine positivo unitario, così non l’hanno la vita e la devozio- 

ne. Si aspira all’ordine e si apprezza la pace della redenzione, 

ma nessuna necessità interiore costringe tutta l’umanità a unir- 

si in vista di essa. Per quanto l'universalità della religione 

possa farsi valere in esso, così come nell’Islam, e per quanto 

venga talvolta reclamata, la pretesa dell'uno e dell’altro è — 

per estensione di fatto e nella sua fondazione — meno intensa 

che quella del Cristianesimo. Questo è l’unica religione che si 

riconosce e si afferma incondizionatamente, in virtù della pro- 

pria forza religiosa, come verità universalmente valida, e che 

perciò consegue di fatto ciò che è insito nella tendenza della 

religione in generale. Esso è l’unica religione che, in base al 

proprio impulso vitale, ottiene sempre la vittoria sull’inclinazio- 

ne all’irrigidimento dogmatico e rituale; l’unica che non si 

irrigidisce nella legge, né si fissa, nel concepire l’idea di reden- 

zione, semplicemente nella negazione. 


Che essa sia veramente conclusiva, e immutabile nella sua 



ERNST TROELTSCH 831 



essenza per tutto il futuro, non si può certo dimostrare median- 

te una semplice costruzione storico-filosofica. Per quanto con- 

vinti possiamo essere che nella storia delle religioni ha luogo 

un progresso continuativo, il quale poggia sul movimento inter- 

no dello spirito divino in quello umano, non possiamo tuttavia 

proporre un concetto generale della religione come forza di 

questo sviluppo, e presentare il Cristianesimo come il suo neces- 

sario compimento. Quel concetto potrebbe essere proposto sulla 

base di un’esperienza difettosa ed essere trasformato in modo 

sostanziale da sviluppi futuri. Né possiamo indicare nel Cristia- 

nesimo la convergenza effettivamente realizzata delle diverse 

serie di sviluppo, per quanto possiamo trovarvi la trascendenza 

astratta del Giudaismo attenuata mediante l’assunzione degli 

inevitabili elementi panteistici del paganesimo, e l’antitesi supe- 

rata mediante un'unità superiore. Infatti soltanto ai nostri giorni 

si profila l’incontro tra gli abitanti del nostro pianeta, e quindi 

una convergenza delle diverse linee di sviluppo. La discussione 

e la convergenza del Cristianesimo con le religioni orientali 

appartiene ancora al futuro, e accentuerà forse in modo sorpren- 

dente nel Cristianesimo aspetti rimasti finora non sviluppati. 

Tutte le costruzioni del genere poggiano su un’intuizione della 

storia che risulta inevitabile — nella sua idea fondamentale — 

per ogni considerazione religiosa e idealistica, ma non sono 

sufficienti a fornire una prova. Questa sarebbe forse possibile 

soltanto alla fine dei giorni. 


L'unico elemento che può essere fatto immediatamente vale- 

re a conferma della pretesa del Cristianesimo è la circostanza 

che a questa sua singolare pretesa corrisponde anche un'effetti- 

va singolarità del suo contenuto e della sua essenza, che si 

presenta chiaramente a una ricerca storico-religiosa. D'altra par- 

te le religioni costituiscono un'unità che progredisce nel suo 

complesso, e si può riconoscere una tendenza generale diretta a 

una spiritualizzazione, interiorizzazione, eticizzazione e indivi- 

dualizzazione crescente, e quindi — poiché questa è la necessa- 

ria conseguenza — al formarsi di una fede sempre più profon- 

da nella redenzione: a ciò si è già accennato sopra. In tutte le 

grandi religioni ha luogo uno sviluppo caratterizzato in questo 

modo. Attraverso la liberazione dai fenomeni naturali esso spiri- 

tualizza le divinità, fino al tramonto di tutte le divinità partico- 



832 ERNST TROELTSCH 



lari in un’essenza divina universale, in cui esse diventano forme 

del suo agire; attraverso l’eticizzazione delle singole divinità e 

la compenetrazione religiosa della morale esso traduce in forma 

etica la divinità, facendone il nucleo e il custode delle leggi 

etiche, e subordina la fede negli spiriti alla fede negli dèi in 

un’escatologia più o meno influenzata da motivi etici, mentre 

le divinità che non si inseriscono in questo processo diventano 

dèi locali, demoni e spiriti cattivi. Facendo sì che gli dèi si 

rivolgano alla coscienza e alla volontà, anziché semplicemente 

all’obbedienza culturale e alla scrupolosità cerimoniale, esso po- 

ne la divinità in relazione con l’individuo in quanto tale, non 

più soltanto con la famiglia, la stirpe, lo stato e la conclusione 

di un'alleanza. Con l’individualizzazione comincia infine a 

emergere il carattere universalistico della religione. Ma pro- 

prio con questo esso innalza Dio sopra il mondo e sopra la 

natura, facendone la fonte originaria più profonda, che si fa 

valere al di là di ogni finitudine e di ogni confusione, e con la 

divinità solleva al tempo stesso l’uomo dalla frammentarietà, 

dalla dispersione e dall’inquietudine del finito, così come dalla 

colpa e dal destino della vita terrena. Secondo la quantità di 

forza che fin dall’inizio ha posto nella concezione fondamenta- 

le, questo processo va più o meno avanti: qui si arresta prima, 

là più tardi. Ma anche dove le religioni pervengono a una 

completa altezza e maturità, dove sboccano nella mistica e 

nella fede nella redenzione, il limite inerente al fatto di essere 

sorte dall’adorazione della natura non viene per lo più supera- 

to. Esse conservano le tracce della loro origine particolaristi- 

ca e naturalistica, capovolgendosi in speculazioni sacerdotali 

fantastiche, in una filosofia monistica, in una mistica acosmisti- 

ca o — com'è il caso del Buddismo — in una metodica scettica 

della redenzione. L’eticizzazione già conseguita sprofonda di 

nuovo nell’abisso del panteismo, e la religione popolare decade 

in culti orgiastici o in una rigogliosa superstizione sincreti- 

stica, che la riporta all'antico politeismo. Soltanto «ra reli- 

gione ha rotto completamente l’incanto della religione naturale 

e si presenta, in quanto tale, in forma singolare: la religione 

di Israele e il Cristianesimo. Davanti all'imminente decadenza 

del suo popolo, la religione di Israele si è sostanzialmente svin- 

colata dai suoi fondamenti particolaristici e naturalistici, colle- 



ERNST TROELTSCH 833 



gando la fede in Jahvè con la purezza del cuore e con la 

certezza di una chiarificazione risolutiva del corso della vita 

terrena alla fine dei giorni. Da questo nucleo è venuto fuori, 

nella persona di Gesù, il Cristianesimo, che, pur sentendo Dio 

più prossimo ai singoli cuori e immediatamente operante nel 

mondo, è però impedito da questo fondamento di ricadere nel 

panteismo e nella mistica di una compiuta religione della natu- 

ra e che, pur donando al cuore la beatitudine e la quiete in 

Dio, si aspetta tuttavia nella certezza della transitorietà dell’esi- 

stenza sensibile un mondo superiore ed esclude quindi un im- 

mergersi puramente immanente in Dio. In quanto esso libera 

non soltanto dalla sofferenza della finitudine e dalla pressione 

della natura, ma soprattutto dall’ostinazione e dalla pusillanimità 

del cuore umano, dalla debolezza e dalla coscienza della colpa, in 

quanto con questa liberazione del cuore e con la certezza di 

una comunità con Dio che supera il tempo conferisce forza per 

agire e amare sulla terra, il Cristianesimo rappresenta una reli- 

gione della redenzione di ordine superiore che sovrasta in egual 

misura sia il pessimismo buddistico sia la mistica neoplatonica 

— i due prodotti estremi della devozione extra-cristiana. In 

virtù di questa rottura di principio con ogni specie di religione 

della natura, esso porta a compimento — unico tra tutte le 

religioni — la tendenza alla redenzione, nello stesso modo in 

cui ha recato a compimento, in connessione con questa, la 

tendenza a una validità universale puramente interiore. 


In virtù di questa specificità di fatto, di questo accordo 

intimo tra esigenza ed essenza, noi riconosciamo nel profetismo 

e nel Cristianesimo il culmine, o meglio un nuovo punto di 

partenza nella storia della religione — il sorgere del sole dopo 

l'aurora, non conclusione e fine che porta alla quiete, ma inizio 

di un nuovo giorno con nuovo lavoro e nuove lotte. Vi sono 

ancora molti lati oscuri da chiarire, occorre ancora conoscere 

con maggiore purezza la sua luce propria. Un lavoro stermina- 

to sta ancora di fronte ad esso, e dalla sua forza interna risulte- 

rà, nel contatto con la mutevole situazione del mondo e con le 

altre religioni, un'ulteriore crescita della religione, certamente 

non costruibile 4 priori. Il fatto stesso che ne sia capace, che 

possieda questa capacità di costante ringiovanimento e adatta- 

mento, costituisce appunto un'ulteriore conseguenza della sua 



53. STORICISMO TEDESCO. 



834 ERNST TROELTSCH 



particolarità. In quanto religione dello spirito che — a differen- 

za da ogni religione della natura, sia essa approfondita in sen- 

so panteistico o configurata eticamente — si riferisce al nucleo 

interno, spirituale ed etico, sempre vivente e attivo, dell’essen- 

za degli uomini, il Cristianesimo possiede la forza dell’autocriti- 

ca e della purificazione, dell’approfondimento e del rinnova- 

mento; esso può sempre richiamarsi attraverso le scorze mitolo- 

giche alla sua essenza intima e purificarsi sempre di nuovo 

dalle inevitabili contaminazioni con ambiti di pensiero ad esso 

estranei, Il Cristianesimo non è vincolato a determinate conce- 

zioni della natura e a formazioni sociali transitorie e particola- 

ri; esso contiene un impulso di aspirazione, di attività e di 

perfezionamento che manca a qualsiasi mistica che si immerga 

soltanto nell’unità data dell’universo; contiene fini positivi che 

il quietismo buddistico volto solo al pessimismo non conosce; 

abbraccia infine la fede universalistica con una profondità ric- 

ca di impulso, di cui l'Islam ha potuto acquisire soltanto l’aspet- 

to superficiale. Poniamo per esempio il caso — in sé possibile 

— che l’astronomo Schiaparelli® ha ipotizzato per il nostro 

pianeta, traendo lo spunto dai cosiddetti canali di Marte, che 

cioè con il raffreddamento della terra e il restringersi dei mezzi 

di sussistenza che essa offre possa diventare necessaria un’analo- 

ga enorme unificazione del lavoro umano; e che soltanto tali 

lavori di protezione, intrapresi con un'estrema fatica collettiva, 

rendano possibile ancora l’esistenza: in tal caso dovremmo pen- 

sare immediatamente a infinite trasformazioni nel diritto, nel- 

la morale, nella società e nello stato; e sicuramente anche nella 

religione. Non è verosimile che un'impresa del genere possa 

svolgersi sotto la protezione della benedizione papale o sotto 

l'impulso di disposizioni di istanze ecclesiastiche superiori, o 

che possa essere disturbata da una disputa sul Simbolo apostoli- 

co. Nulla ci impedisce però di pensare che la forza dello spiri- 

to comune, necessaria per quest'opera, scaturisca da una viva 



3. Giovanni Virginio Schiaparelli (1835-1910), astronomo italiano, autore de Le 

stelle cadenti (1873), delle Norme per le osservazioni delle stelle cadenti e dei bolidi 

(1896) e di varie altre opere, studiò in particolare i pianeti intorno alla Terra e osservò 

per primo i canali di Marte. I suoi ultimi studi furono dedicati a L'astronomia nell'An- 

tico Testamento (1903). 



ERNST TROELTSCIH 835 



devozione teistica, quali che siano le forme che potrebbe assu- 

mere in un’epoca siffatta, Come si è detto, è il significato 

effettivo del Cristianesimo tra le religioni, l’elaborazione di 

una religione della redenzione di tipo personalistico in antitesi 

a ogni religione della natura, non già una costruzione storico-fi- 

losofica conclusa, che autorizza questa fiducia. A tale fiducia 

non si può quindi obiettare il fatto che essa indulga al caso, il 

quale ci fa appunto apparire il sole della verità sopra il piccolo 

frammento di storia a noi noto, come sopra un'isola nel mare 

sconfinato. Non si tratta perciò tanto di una determinata forma 

storica del Cristianesimo, quanto piuttosto dell'idea della reli- 

gione personalistica della redenzione, la cui forma odierna — 

essendosi formata nel tempo — sicuramente non è nulla di 

eterno. Ma nel profetismo e nel Cristianesimo quest'idea è di- 

ventata una forza storica e si svilupperà ulteriormente, muoven- 

do da questa forma fondamentale, verso risultati che oggi non 

conosciamo ancora, né abbiamo bisogno di conoscere. Basti il 

fatto che, così come sono, essi significano il trapasso alla religio 

ne della redenzione di tipo personalistico, e che possiamo senti- 

re l’eterno in questo elemento temporale. Possiamo ben ammet- 

tere che l’origine delle grandi religioni in generale avvenga 

nella giovinezza dell’umanità, quando la vita è più semplice e 

più facile è l’incondizionato immergersi nella religione, quan- 

do le connessioni dell’esistenza sulla terra sono ancora meno 

intricate e la pura formazione di forze religiose è meno distur- 

bata. L’origine delle religioni della natura si perde in oscure 

epoche primitive che si sottraggono all'indagine. La religione 

di Israele con la sua duplice progenie — Cristianesimo e Islam 

— è una religione giovane e ha impostato il tema del futuro, in 

base a cui il Cristianesimo ha elaborato, come fondamento di 

ogni ulteriore sviluppo, la decisiva e universale verità religiosa. 

A ciò si aggiunge un’altra considerazione. Le variazioni della 

vita e del pensiero umano sono imprevedibili nel particolare, 

assai limitate in una prospettiva ampia. Così anche la fantasia 

rivolta al futuro potrà rappresentarsi non già un gioco infinita- 

mente oscillante di contenuti di vita spirituale fondamentalmen- 

te diversi, bensì un’elaborazione sempre più ardua e intricata, 

sempre più estesa e complicata di idee fondamentali acquisite. 

Tra queste idee fondamentali la più salda e la più forte sarà 



836 ERNST TROELTSCH 



quella della devozione cristiana, poiché essa sola collega l’uma- 

nità con il fondamento permanente ed eterno della vita spiritua- 

le in maniera puramente interiore, e in questa connessione 

supera, con un'attività redentrice, al tempo stesso la necessità e 

la sofferenza dell’esistenza terrena. 


In questo modo l’intreccio della storia della religione si 

rischiara, e viene in luce una tendenza di sviluppo in cui 

possiamo riconoscere la direzione del futuro. Disperso e isolato, 

in lotta con la natura per la vita, commosso da impressioni e 

da avvenimenti nella natura, nella vita collettiva e nella vita 

individuale, il mondo primitivo dell’uomo produce innumerevo- 

li religioni, esteriormente assai diverse, ma intimamente impa- 

rentate, la maggior parte delle quali si sono indurite con la 

vita delle orde, delle stirpi e dei popoli a cui appartengono, 

arrestandosi al loro livello. Qui la natura e l’uomo vengono 

presi così come si presentano immediatamente, e da questa 

situazione scaturiscono impressioni religiose fornite di una capa- 

cità di sviluppo molto ristretta. Soltanto pochi grandi popoli 

realizzano, con la loro più ampia coesione nazionale e linguisti- 

ca, una prosecuzione e un approfondimento rispetto a questo 

grado di religione, in quanto i tratti fondamentali suscettibili 

di sviluppo vengono estesi e approfonditi, la rozza mitologia e 

il culto superstizioso vengono eliminati o depotenziati e tutti 

gli impulsi religiosi che procedono dalle nuove impressioni di 

vita e di cultura vengono fusi nella tradizione precedente. Essi 

sfociano nella religione della moralità, nel panteismo, infine 

nel pessimismo e nella mistica, ma si arrestano ancor sempre al 

mondo e all'uomo lasciandolo così come l’hanno trovato, senza 

indicargli fini positivi che superino la natura. Soltanto la nostal- 

gia e il presentimento accennano in essi a tali fini. Soltanto za 

religione ha definitivamente sciolto il legame che la univa imme- 

diatamente con la natura e, riconoscendo un dio creatore che, 

in quanto spirito, si distingue dalla natura, ha indicato al 

tempo stesso all’uomo il fine di un’elevazione positiva sulla 

natura materiale e la natura spirituale in esso innata. Questa è 

stata la religione di Israele, che rappresenta uno dei fatti più 

importanti all'interno della storia universale a noi nota. In 

quanto conclusione dello sviluppo interno di Israele e congiun- 

zione con il monoteismo filosofico ellenico, il Cristianesimo si 



ERNST TROELTSCH 837 



è posto saldamente sul campo di rovine delle religioni naziona- 

li distrutte dagli imperi universali, mentre in Israele il profeti- 

smo si rattrappiva nel Giudaismo e accanto ad essi l'Islam racco- 

glieva i suoi credenti, intorno a poveri frammenti di queste reli- 

gioni, sul campo di rovine dell'Asia e dell’Africa. Con il sorgere 

di questi grandi princìpi religiosi, la produzione religiosa è 

diventata sempre più ristretta, e si muove soltanto più nella 

creazione di formazioni intermedie di tipo sincretistico o di 

varianti. Il futuro appartiene alla lotta delle grandi formazioni 

religiose. Tra di queste il Cristianesimo, in quanto punto di 

partenza di un grado sostanzialmente nuovo, costituisce però la 

forza che — ricca di tensioni con la cultura più elevata e 

tuttavia inscindibilmente legata ad essa — sta al centro della 

grande lotta mondiale, non già come sistema finito e rigido, 

bensì come una potenza vivente che forma il punto di riferi- 

mento di ogni ulteriore conoscenza e di ogni ulteriore impulso 

religioso, sviluppandosi ancora nel futuro secondo la legge im- 

prevedibile della vita religiosa. Una gran parte di questo proces- 

so di sviluppo, che ha già prodotto mutamenti di grande rilie- 

vo, si trova alle nostre spalle; mentre un momento importante 

di esso, cioè la progressiva differenziazione, la dissoluzione dal 

legame immediato con lo stato e la politica, con il diritto e la 

morale mondana, con la scienza e la spiegazione del mondo, la 

concentrazione nel suo contenuto puramente religioso e la rin- 

novata influenza di questo contenuto sulla situazione complessi- 

va, si compie davanti ai nostri occhi. Il Cristianesimo si racco- 

glie in se stesso e si tramuta in una nuova operosità. Perciò non 

deve indurci in errore la miseria ecclesiastica della sua realtà 

momentanea e la ripugnanza morale per le lotte interne al 

clero. Si tratta della tendenza al futuro che sempre ritorna di 

nuovo alla luce, non già della sua attuale confusione confessio- 

nale. 


È evidente che, come l’intera intuizione della storia fino ad 

oggi dominante rimanda alla nostra letteratura e filosofia classi- 

ca, così questa intuizione della storia delle religioni in particola- 

re ha stretti punti di contatto con le idee di Lessing, Goethe, 

Herder, Kant, Hegel, Schleiermacher e di altri pensatori affini. 

Essa cerca solamente di liberare la concezione della religione 

dalla prossimità eccessiva in cui questi l'avevano collocata con 



838 ERNST TROELTSCH 



altre potenze spirituali. Lessing ha concepito il suo evangelium 

aeternum secondo un “analogia troppo stretta con la libera scien- 

za dell’Illuminismo, che si reggeva da sé pervenendo a dimo- 

strazioni in base alla propria connessione interna. Herder ha 

accostato troppo la religione al concetto etico di umanità e, 


iché vedeva questa umanità ovunque, ha troppo sfumato i 

confini delle religioni, mentre Schleiermacher l’ha dissolta trop- 

po in uno spinozismo romantico che nelle religioni vedeva 

soltanto i modi individualmente diversi in cui si è consapevoli 

dell’immanenza in Dio. Analogamente, Hegel ha conformato 

in modo eccessivo la religione al monismo metafisico e ha 

soprattutto derivato in maniera dottrinaria e rigida il suo svi- 

luppo dalla necessità logica del movimento delle idee, pregiudi- 

cando così l'originaria realtà di fatto dei suoi diversi sviluppi e 

la sua misteriosa potenza. Anche Goethe — questo spirito uni- 

versale — ha troppo commisurato la particolarità del Cristiane- 

simo tra le altre religioni, da lui chiaramente riconosciuta, alla 

propria concezione poetica e organica della matura, e ne ha 

invece respinto sullo sfondo gli elementi pessimistici, nella sua 

avversione artistica per le rotture e le catastrofi, le tensioni e le 

lotte. E tuttavia la saggezza della sua vecchiaia ha una serie di 

visioni profonde, alle quali la fede e la miscredenza attuale si 

richiamano volentieri come a indicazioni di uno sviluppo più 

soddisfacenti. Ne è testimonianza, invece di molti altri, questo 

brano spesso citato dei Warderjahre: « Ma quanto ci è voluto 

non solamente per lasciare la terra sotto di sé e per richiamarsi 

a un luogo di nascita più alto, ma anche per riconoscere come 

cose divine pure l’abiezione e la povertà, la beffa e il disprez- 

zo, l’ignominia e la miseria, il dolore e la morte; per considera- 

re il peccato e il delitto non già come ostacoli, ma per venerar- 

li e amarli come incrementi del sacro! In tutte le epoche si 

trovano tracce di quest’atteggiamento; ma una traccia non è il 

fine, e una volta raggiunto quest’ultimo l’umanità non può più 

tornare indietro e si può dire che — una volta fatta la sua 

comparsa — la religione cristiana non può più scomparire: una 

volta preso corpo divino, non può più venir dissolta »*. I suoi 

« misteri » dovevano appunto diventare un epos simboleggiante 



4. Goetne, Wilhelm Meisters Lehr- und Wanderjahre, libro I, cap. 1 



ERNST TROELTSCH 839 



la storia della religione, che doveva essenzialmente contenere le 

idee fondamentali qui prospettate e che, in un frammento com- 

piuto, rappresenta — con il simbolo della Croce circondata di 

rose — il Cristianesimo come scopo finale, analogamente alle 

considerazioni dei Wanderjahre. 


Certamente, la scienza « moderna » si è nel frattempo allon- 

tanata in larga misura — almeno nella sua parte più cospicua 

— da questi fondamenti profondi della nostra cultura. Determi- 

nanti ai fini di questo allontanamento sono state non tanto le 

conseguenze scientifiche, quanto invece gli effetti di condizioni 

esterne che procedono dalle enormi trasformazioni pratiche del 

nostro secolo. Le operazioni della nuova tecnica, che tutto mo- 

dificano, le scottanti questioni sociali che ne derivano, il risve- 

gliarsi dell’egoismo nazionale, non da ultima la popolazione 

che si è accresciuta in queste condizioni pervenendo a un sosten- 

tamento migliore, hanno distolto l’interesse verso questioni cul- 

turali pratiche e posto al centro il problema della felicità intra- 

mondana. Il dogma del progresso della cultura, l’ottimismo 

culturale, domina l’opinione odierna, e tutte le conquiste scien- 

tifiche vengono viste alla luce di esso. Si fa in fretta a trarre 

dal periodo di pensiero storicizzante, aperto dalla nostra grande 

epoca, la conseguenza del relativismo, ma soltanto per togliere 

valore alle potenze ideali finora operanti, e in particolare al 

Cristianesimo, mentre si crede tranquillamente nel progresso e 

in una felicità assoluta del futuro. Si applica con sollecitudine 

la scienza naturale allo scopo di sottoporre ogni esistenza e 

ogni vita alle « leggi naturali », ma soltanto per ridurre a favo- 

le tutti i valori spirituali che vanno oltre la felicità intra-monda- 

na, mentre si attribuisce alla volontà umana — nei confronti 

della medesima legalità naturale — un potere enorme, in grado 

di sottometterla artificialmente alla felicità culturale. Ci si in- 

nalza molto al di sopra dei sogni fantastici di una metafisica 

alla ricerca della connessione tra mondo sensibile e mondo so- 

prasensibile, e si assume senza alcuna precauzione la propria 

situazione come il logico fine ultimo della storia, contrapponen- 

do al periodo della spiegazione religiosa, e quindi metafisica, 

del mondo il periodo « positivo », al servizio di scopi pratici 

puramente intra-mondani. Contro questi stati d'animo collettivi 

non si può fare nulla in modo diretto, tanto meno indicando 



840 ERNST TROELTSCH 



le loro contraddizioni. Essi devono dispiegare le loro conseguen- 

ze pratiche ancor più chiaramente di quanto non sia avvenuto 

finora. La devastazione e l’inaridimento della vita spiritua- 

le, la progressiva decadenza della forza etica e della serietà 

religiosa, l’ottusità che si consuma nel godimento di sempre 

nuovi desideri devono mostrarci dove ci stiamo dirigendo in 

questo modo, nonostante tutti i progressi esteriori, e che una 

completa felicità intra-mondana è la più illusoria delle chimere. 

Allora ci si richiamerà di muovo al nostro migliore possesso 

spirituale, e in base ad esso sapremo valutare i progressi scienti- 

fici. Allora i gravi pericoli impliciti nella storicizzazione di 

ogni scienza, e anche della scienza della religione, potranno 

essere superati più facilmente di adesso. 


Non è questa la sede adatta per indagare in quale misura le 

intuizioni qui sviluppate possano e siano in grado di influire 

sulla teologia ufficiale delle chiese e delle facoltà universitarie. 

Finora esse agiscono in misura abbastanza forte nella configura- 

zione delle ricerche di critica biblica o di storia del dogma, le 

cui conseguenze di rado vengono tratte fino in fondo. D'altra 

parte esse hanno appena modificato, più che trasformato real- 

mente, le loro strutture sistematiche. Ma la teologia, per sua 

stessa natura, è qui di fatto costretta a una maggiore prudenza, 

e deve imporsi un certo ritegno. Essa non è pura scienza, e in 

ogni caso non è scienza libera; ma è piuttosto vincolata alle 

determinazioni giuridiche, alla tradizione effettiva, ai rapporti 

e agli scopi presenti, e costituisce pertanto più un compromesso 

con la scienza che una scienza vera e propria. I suoi compiti 

sono in primo luogo compiti pratici, posti dallo stato effettivo 

dell’istituto ecclesiastico; ed essa può rendere operanti sulla 

sua materia le conoscenze scientifiche in modo soltanto indiret- 

to, eliminando le antitesi troppo aspre, e per il resto mediando 

ed equilibrando. Certamente i teologi possono, in quanto uomi- 

ni di cultura, promuovere in modo significativo le grandi que- 

stioni; ma in quanto devono servire scopi ecclesiastici, sono 

vincolati da compiti e da rapporti pratici. In realtà, pur tenen- 

do conto dell'importanza della collaborazione dei teologi, le 

grandi questioni scientifiche sono sempre state decise al di 

fuori della teologia. Queste decisioni reagiranno poi sulla teolo- 

gia, dando luogo a una specie di equilibrio delle temperature. 



ERNST TROELTSCH B4r 



Il singolo teologo potrà, in queste condizioni di antitesi, distin- 

guere tra teologia essoterica e teologia esoterica nella misura in 

cui è consapevole di volere in entrambe, in verità, il medesimo 

scopo; ma non potrà spezzare il circulus vitiosus per cui ogni 

chiusura della teologia rafforza l’avversione della scienza e ogni 

ostilità della scienza rafforza la chiusura della teologia, almeno 

fin quando la straordinaria importanza della questione ecclesia- 

stica rimane celata alla vita complessiva di un’indifferenza illu- 

minata. 


All’interesse generale importano cose ben diverse che non le 

indagini specificamente teologiche. Ciò richiede che il relativi- 

smo storico, che in tutti i campi della vita intellettuale cerca 

di soffocarci nell’erudizione e di paralizzare ogni forza creati- 

va, venga riconosciuto come il nemico più pericoloso anche nel 

campo della religione, e venga quindi superato. Da tutte le 

parti aumentano i segni che si comincia a esserne stanchi. Si 

cerca di superarlo mediante l’entusiasmo patriottico, mediante 

l'ideale della giustizia sociale, mediante le fantasie del futuro, 

mediante un altruismo areligioso; si ha sete di ideali semplici, 

assoluti e universalmente validi. Ma tutto ciò non sarà sufficien- 

te. Su tale strada si riconoscerà che la patria autentica di tutti 

questi ideali è la religione, e che quindi occorre riacquistare la 

fede sicura e gioiosa in un fine assoluto soprattutto in seno ad 

essa. Certamente questo non può avvenire ignorando di colpo 

la storia e rinnegando i suoi metodi. Può invece avvenire se 

riprendiamo le grandi idee fondamentali della nostra letteratu- 

ra, filosofia e storiografia classiche e se scorgiamo nella storia 

il dispiegarsi di un contenuto spirituale unitario e semplice nel 

suo nucleo; se nelle religioni più grandi e più potenti non 

cerchiamo semplicemente il fenomeno storico interessante, ma 

la connessione con quel nucleo eterno della vita spirituale. 

Allora si riconoscerà di nuovo che anche la storia delle religio- 

ni non ha soltanto elementi, ma anche un legame spirituale, e 

che questo non è così difficile da trovare come ritengono le 

persone prudenti le quali suppongono che la verità storica sia 

accessibile soltanto allo studio specialistico. Non si avrà più 

terrore della possibilità che il capo di questo filo stia in mano 

nostra e richieda da noi soltanto di venire tirato in modo 

schietto e semplice. Se la storia è, di fatto, soltanto la lotta 



842 ERNST TROELTSCH 



infinitamente complicata per il dispiegarsi di un contenuto spi- 

rituale semplice, ci sarebbe poi tanto da stupirci se fossimo 

pervenuti nel Cristianesimo al nucleo di tale contenuto, e doves- 

simo dar forma alla nostra realtà in base ad esso e nell’ambito 

della sua forza? Ci resterebbe ancora abbastanza lavoro da com- 

piere per riempire una dozzina di millenni. 



RELIGIONE, ECONOMIA E SOCIETÀ * 



«Religione ed economia» è un tema che tempo addietro 

sarebbe suonato assai strano. « Filosofia ed economia », « musi- 

ca ed economia», « matematica ed economia» non avrebbero 

suscitato stupore. Fin quando s’intendeva la religione in modo 

puramente ideologico come dogma o come dottrina o come 

metafisica, o come una morale vincolata a determinate rappre- 

sentazioni del cosmo, il tema non poteva che essere privo di 

senso. I dotti dell’Illuminismo si sarebbero riferiti con un sorri- 

so pieno di ironica intelligenza all'economia finanziaria dei 

papi, agli interessi materiali degli ecclesiastici e dei principi 

devoti, e in questo tema avrebbero scorto soltanto la questione 

dell'impulso assai comune che sta sotto cose in apparenza tanto 

sublimi: così Hume ha considerato la Riforma come conseguen- 

za di una polemica sul denaro per le indulgenze. Intorno alla 

metà del secolo scorso, quando per la prima volta le conseguen- 

ze del sistema capitalistico urtarono apertamente con le esigen- 

ze tecniche del Cristianesimo, si aveva certamente una compren- 

sione più profonda del problema. Ma qui esso si presentò come 

una questione puramente etico-pratica, cioè come il problema 

del modo in cui si potevano superare, dal punto di vista del senti- 

mento cristiano dell'amore e dell’educazione cristiana del carat- 

tere, le conseguenze devastatrici del liberalismo economico man- 

chesteriano. Kingsley'!, Maurice ?, Carlyle alzarono la bandiera 

di una riforma cristiana della società; e ad essi fece seguito, in 



* Religion, Wirtschaft und Gesellschaft (conferenza tenuta alla Gehe-Stiftung di 

Dresda, 1913), in Gesammelte Schriften, Tibingen, Verlag von J.C.B. Mohr, vol. IV, 

1925, pp. 21-33 (traduzione di Sandro Barbera e Pictro Rossi). 


1. Charles Kingsley (1819-1875), sacerdote anglicano, pocta e scrittore inglese, au- 



844 ERNST TROELTSCH 



Germania, il socialismo cristiano di Stòcker® e di Friedrich 

Naumann ‘. Ma neppure questo è il senso del tema, quale oggi 

lo poniamo. Con questo tema si allude a una questione pura- 

mente teorica di storia della religione e di storia della cultura: 

l'impostazione scaturisce dalla teoria economica della storia della 

cultura — per lo più designata erroneamente come materia- 

lismo storico — che dalle grandi opere di Karl Marx si è diffusa 

a tutte le concezioni storiche dell’epoca. Essa era stata già pro- 

posta da qualche storico, come per esempio Karl Nitzsch', e 

aveva trovato rispondenza in particolare nella storia politica e 

nella storia del diritto. Essa non ha quindi nessuna connessione 

necessaria con il vero e proprio sistema del socialismo. Si tratta, 

in verità, di una questione che in parte è scaturita dall’affina- 

mento e dall’ampliamento avvenuto nella ricerca delle relazio- 

ni causali nella storia, e in parte ci è imposta dalle influenze 

della struttura economica sulla vita complessiva — ovunque 

percepibili nella nostra esperienza odierna. Nella storia poli- 

tica essa è diventata oggi ovvia. Ma il suo significato è molto 

più profondo. La connessione con i fondamenti economici ri- 

sulta particolarmente chiara soltanto nella storia politica e nella 

storia del diritto. Ma essa sussiste di fatto anche nel campo della 

cultura spirituale fino ad arrivare al suo centro, cioè alle intui- 

zioni religiose e metafisiche del mondo. Essa è in massima parte 



tore di numerosi romanzi, sermoni religiosi e saggi politici, fu uno dei principa- 

li rappresentanti del socialismo cristiano in Gran Bretagna. 


2. John Frederick Denison Maurice (1805-1872), sacerdote anglicano e teologo in- 

glese, autore della History of Moral and Metaphysical Philosophy (1850-60), dei TAco- 

logical Essays (1853), delle Lectures on Ecclesiastica! History (1854), di What is Re- 

velation (1859), di The Conscience (1868), di Social Morality (1869) e di varie altre 

opere, svolse un'intensa azione educativa rivolta verso le masse operaie e ispirò il 

movimento del socialismo cristiano. 


3. Adolf Stòcker (1835-1909), teologo protestante e uomo politico tedesco, autore 

di vari saggi e discorsi, fondò la Berliner Bewegung, di ispirazione cristiano-sociale, 

opponendosi alla politica bismarckiana e criticando pure la social-dernocrazia. 


4. Friedrich Naumann (1860-1919), teologo protestante e uomo politico tedesco, 

autore di Demokratie und Kaîisertum (1900), dci Briefe tiber Religion (1903), di Mit- 

teleuropa (1915), nonché di numerosi altri scritti in parte raccolti sotto il titolo Got- 

teshilfe (1896-1903), fu esponente di un socialismo cristiano che aderiva ai principi di 

espansione imperialistica della politica guglielmina; in seguito il suo pensiero si spostò 

verso posizioni liberali. Fu amico di Weber e di Trocltsch. 


5. Karl Wilhelm Nitzsch (1818-1880), storico tedesco, allievo c continuatore di 

Nicbuhr, autore della Geschichte der ròmischen Republik (pubblicata postuma nel 

1884-85) e di altre opere. 



ERNST TROELTSCH 845 



una connessione inconscia e non intenzionale, ma le connessioni 

di questo genere sono appunto le più forti e durature nella vita 

dello spirito. Proprio in questo Karl Marx non ha imparato 

invano dalla fine arte di Hegel, che con straordinaria acutezza 

sapeva portare alla luce gli intrecci e le mescolanze del com- 

plesso dei contenuti dell'anima, e ricostruire le forze fondamen- 

tali di quelle mescolanze. Non c’è dubbio che proprio una 

attenzione maggiore a queste connessioni sia in grado di get- 

tare moltissima luce sulla comprensione della religione come 

potenza pratica della vita. Forse non si esagera se si afferma 

che soltanto in questo modo diventa possibile una compren- 

sione reale della religione e del suo significato per la vita. Con 

ciò perviene alla coscienza un aspetto di essa che naturalmente 

agiva anche prima di questa chiarificazione teoretica, ma che 

si sottraeva alla coscienza scientifica, e se ne sottrae in gran 

parte anche oggi. Finora la concezione della religione era, 

soprattutto tra i Protestanti, puramente ideologica e dogma- 

tica. I Cattolici avevano una comprensione più profonda alme- 

no per il suo aspetto culturale e organizzativo. Il culto e l’ele- 

mento irrazionale in essa presenti sono stati sottolineati in misu- 

ra sempre più forte dalla ricerca etnografica, e in tal modo è stata 

sempre più delimitata l’intuizione puramente ideologico-dogma- 

tica dell'oggetto. Ma la stretta connessione con la vita sociale e 

— poiché questa è in gran parte condizionata da motivi eco- 

nomici — anche con la vita economica è stata considerata 

troppo poco. Fa eccezione qui soltanto la brillante opera di 

Fustel de Coulanges’ La cité antique, apparsa nel 1864, che 

però non ha avuto il seguito che avrebbe meritato. Soltanto la 

storia socialistica della cultura e le influenze da essa derivanti 

hanno recato il problema a un più ampio — anche se non si 

può ancora dire più generale — riconoscimento. 



6. Numa-Denis Fustel de Coulanges (1830-1889), storico francese, autore de La 

cité antique (1864), della Histoire des institutions politiques de l'ancienne France (1875), 

poi rielaborata in una successiva edizione in tre volumi (La Gaule romane del ’gr, 

L'invasion germanique et la fin de l'empire del *g1, La monarchie frangaise dell'88), 

de L’Alleu et le domain rural pendant l'époque mérovingienne (1889), de Les ori- 

gines du systeme féodal: le bénéfice et le patronat (1890), de Les transformations de 

la royauté pendant l'épogue carolingienne (1892), nonché di alcune raccolte di saggi, 

studiò in particolare le basi religiose della struttura politico-sociale romana, aprendo 

la strada a una considerazione antropologica della città antica. 



846 ERNST TROELTSCH 



Di ciò è certamente colpevole in larga misura il modo in 

cui tale compito è stato affrontato nella letteratura socialistica, 

per esempio nelle opere di Kautsky” sulle origini del Cristianesi- 

mo. Qui domina, nonostante alcune buone intuizioni particola- 

ri, la più pedantesca dogmatica della ben nota costruzione 

della storia: i puri rapporti economici sono la causa della strati- 

ficazione di classe; ogni classe si rispecchia in una metafisica e 

in una religione che proteggono la sua esistenza e i suoi interes- 

si; il Cristianesimo è il rispecchiamento utopico-trascendente 

della plebaglia disorganizzata e inerme della tarda antichità; 

questa organizzazione puramente religiosa, e quindi impotente, 

del proletariato, in disaccordo con lo sviluppo sociale dell’epo- 

ca, fu poi sottomessa dalle classi dominanti e assoggettata, 

attraverso certe trasformazioni della sua dogmatica e della sua 

etica, agli interessi della proprietà e del potere; soltanto a 

tratti si è manifestato — e si manifesta ancor oggi — l’origina- 

rio carattere proletario del movimento cristiano. Questa è certa- 

mente una ricostruzione del tutto fantastica dell’origine del 

Cristianesimo. Ma anche nell’esposizione molto più raffinata ed 

esperta che degli stessi processi ha fornito Maurenbrecher*, la 

derivazione della religione cristiana dalla psicologia di massa 

proletaria viene trattata come un ovvio principio di ricerca 

della causalità storica, e di conseguenza al Vangelo viene attri- 

buito un significato proletario del tutto astorico. Anche qui 

appare, come presupposto dogmatico, la teoria di una dipenden- 

za unilaterale dell'elemento religioso dalle situazioni di classe 



7. Karl Kautsky (1854-1938), teorico socialista tedesco, fondatore della rivista « Die 

neue Zeit » nel 1883, fu uno dei maggiori esponenti della Seconda Internazionale e 

critico aperto del « revisionismo » social-democratico, contro il quale difese la tesi della 

necessità della rivoluzione. Dopo il 1917 prese posizione contro la rivoluzione sovietica e 

contro Lenin. È autore di numerose opere, come Das Erfurter Programm in seinem 

grundsdtzlicheri Teil erldutert (1892), Bernstein und das sozialdemokratische Programm 

(1899), Der Weg zur Macht (1909), Vorlàufer des Sozialismus (1909-21), Der politische 

Massenstreil (1914), Die Internationale und der Krieg (1915), Die Diktatur des Proleta- 

riats (1918), Ethik und materialistische Geschichtsauffassung (1922), Materialistische 

Geschichtsauffassung (1927). Troelisch si riferisce qui al volume Der Ursprung des 

Christentums, Stuttgart, 1908. 


8. Max Heinrich Maurenbrecher (1874-1930), storico tedesco, autore di Von Na- 

sareth nach Golgota: Untersuchungen tiber die weltgeschichtlichen Zusammenginge 

des Urchristentums, Berlin-Schéneberg, 1909 — a cui si riferisce qui Trocltsch — e di 

altri volumi di argomento storico. 



ERNST TROELTSCH 847 



condizionate economicamente: la religione è, nella sua essenza, 

il rispecchiamento di situazioni di classe. Qui — e anche altro- 

ve nella letteratura socialista — non si è tentato di illustra- 

re e di provare questo principio in base al materiale generale 

della storia della religione. Esso viene in fondo utilizzato soltan- 

to a scopo di polemica contro il Cristianesimo. Ma soltanto con 

un’indagine che si estenda a tutta la storia della religione si può 

mostrare il significato reale di questo principio, e anche la 

trasformazione quanto mai diversa di tale significato ai diffe- 

renti gradi della vita religiosa *. 


Il problema è molto più complicato. Non può esser fatto 

coincidere con un problema così ampio quale quello dell’origi- 

ne della religione. Infatti esso non può venir risolto in modo 

puramente storico e psicologico, e conduce a costruzioni pura- 

mente astratte, ben distanti da ciò che effettivamente ci mostra 

la realtà concreta e vivente. Esso dev'essere riferito alla vita 

reale delle religioni a noi note, e qui trova sicuramente abba- 

stanza materiale per la sua trattazione. La questione puramente 

filosofico-religiosa della nascita e dell’origine può quindi essere 

risolta. Si tratta piuttosto di chiederci: in quale misura la vita 

reale delle religioni ci rivela un condizionamento interno ed 

essenziale dell’elemento religioso da parte della vita economica, 

nonché da parte della struttura di classe e della stratificazione 

sociale in larga misura determinata da essa? e viceversa, in 

quale misura la vita economica ci rivela la presenza di effetti 

essenziali e interni dell'elemento religioso sul lavoro economi- 

co? Occorre pertanto lasciar da parte i contatti semplicemente 

accidentali e transitori, e piuttosto considerarli soltanto nella 



a. Un sociologo acuto e sensibile come Simmel ha cercato di acquisire 

e di fondare, in questa maniera più generale, le conoscenze storico-reli- 

giose. Egli indica nel sentimento della dedizione dei singoli membri di 

una connessione sociologica alla sua potenza presente in modo non sen- 

sibile, onnipenetrante, la radice psicologica della religione, derivando quin- 

di la fede nei miracoli dall’inafferrabilità di tale potenza, percepita con 

stupore. Soltanto attraverso l’autonomizzazione dell’elemento religioso so- 

prasensibile qui racchiuso nascerebbe la religione propriamente detta. Ma 

anche questa è semplicemente una fantasia spiritosa, che oltre tutto assu- 

me dal marxismo soltanto la sopravvalutazione delle connessioni dei grup 

pi e delle masse, ma non il loro fondamento esclusivamente economico. 



848 ERNST TROELTSCH 



misura in cui ne scaturisce qualcosa di durevole e di intimo. 

Un tale significato di accidentale, cioè quello dell’incontro di 

due direzioni di sviluppo del tutto separate e tra loro indipen- 

denti, ma che s’incrociano in un determinato punto, non è raro 

nella storia, e proprio nel nostro campo dobbiamo aspettarce- 

lo, poiché le due forze che qui si toccano sono fin dall’inizio 

prevalentemente estranee l’una all'altra. Ma proprio se si rico- 

nosce questo fatto occorre escludere dalla nostra indagine que- 

gli clementi accidentali meramente transitori che rimangono, 

per così dire, esteriori — e che il pragmatismo illuministico 

collocava volentieri in primo piano — anche se essi costituisco- 

no una parte pratica, tutt'altro che priva di importanza, del 

nostro problema. 


Con questa impostazione si presuppone che nelle religioni 

considerate storicamente l’elemento religioso presente nel mito 

e nel culto, nel mondo della rappresentazione e del sentimento, 

sia qualcosa di relativamente autonomo ed entri in connessione 

con tutti gli interessi economici, ma non coincida mai piena- 

mente con essi. Tale è il caso di tutte le religioni evolute. La 

ricerca etnografico-antropologica sulla religione è ancora assai 

poco orientata verso questa impostazione, e non è perciò in 

grado di rispondere alla questione. Essa deve quindi restare al 

di fuori della nostra considerazione. Ciò è possibile, del resto, 

perché qui abbiamo di fronte cose che devono essere comprese 

non già sulla base dell’originario sviluppo preistorico dello spiri- 

to, bensì in base agli intrecci di una cultura in qualche misura 

ormai differenziata. In essa si può riconoscere ovunque la ten- 

denza a un’autonomizzazione della vita e del pensiero specifica- 

mente religioso e a un’analoga autonomizzazione del lavoro 

economico, che diventa così comprensibile in base al suo scopo 

pratico. La nostra questione può sorgere soltanto a partire dal- 

le influenze reciproche, in parte consapevoli e in parte incon- 

scie, e dal compenetrarsi delle due tendenze. Ma se queste due 

tendenze sono distinte nella loro essenza, il loro contatto non 

può essere affatto diretto. Né le religioni sono ideali economici, 

né le forme e gli interessi economici sono leggi religiose. I 

contatti sono soltanto mediati. La questione consiste allora nel 

determinare in che cosa consista quell’entità mediatrice; e la 

risposta è molto semplice. Essa consiste nelle grandi forme 



ERNST TROELTSCH 849 



sociologiche dell’esistenza, che da un lato vengono continua- 

mente create dalla religione e, una volta assicuratesi tale fonda- 

mento, incidono nel modo più profondo su ogni lavoro econo- 

mico, dall’altro sorgono su fondamenti economici — tra gli 

altri — assorbendo nella loro onnipotenza il mondo della rappre- 

sentazione religiosa. 


Già Fustel de Coulanges aveva posto la questione in modo 

straordinariamente chiaro e aderente. Egli mostra come tra gli 

Indiani, i Greci e i Romani la forza organizzativa del culto 

religioso dei morti o degli antenati pone i fondamenti della 

famiglia patriarcale, del diritto familiare e privato, della pro- 

prietà privata del suolo, dell’economia domestica o familiare 

chiusa, della posizione giuridica delle donne, dei figli e degli 

schiavi. Una volta consacrate e vincolate religiosamente, queste 

regole conservano un potere enorme sulla vita pratica. In base 

ai loro princìpi si compie l'associazione in curie e in fratrie e 

infine, con forme di culto del tutto analoghe, il sinecismo verso 

la città, mentre tutta la vita della polis rimane — nel diritto e 

nel costume, in guerra e in pace — vincolata a un sistema 

rituale che ha la massima importanza per tutta la vita politica, 

per tutto il diritto e, attraverso di questo, anche per ogni 

lavoro economico. Qui è chiarissima l’iniziativa fortemente de- 

terminante dell’idea religiosa e dell’organizzazione sociologica 

da essa creata. A questo punto ci si può certamente domandare 

se, all’inverso, questa configurazione del culto degli antenati 

non dipenda dall’acquisizione di una dimora stabile e dalla 

transizione dell'agricoltura, cosicché l’iniziativa sarebbe di nuo- 

vo dalla parte della vita economica e questa fornirebbe le condi- 

zioni necessarie per la tendenza decisiva di sviluppo del culto 

religioso degli antenati. Una comparazione con lo sviluppo del 

culto presso popoli nomadi e semi-nomadi, come i Tartari e i 

Mongoli, dovrebbe dare qui un chiarimento. In relazione agli 

Israeliti, il sociologo americano Wallis*® ha di fatto mostrato 

come la venerazione religiosa del dio-clan della grande fami- 

glia e la comunità nomade che stava sotto la sua protezione 

abbiano durevolmente impresso al popolo di Israele il carattere 



9g. Wilson Dallam Wallis (1886-1970), sociologo americano, autore del volume 



Messiahs: Christian and Pagan, Boston, 1918 — al quale allude qui Troeltsch — e di 

vari manuali di sociologia e di antropologia. 



54. STORICISMO TEDESCO. 



850 ERNST TROELTSCII 



di una morale economica primitivo-conservatrice o di una reli- 

gione della solidarietà tribale contrapposta a una religione citta- 

dina. Questa morale primitiva della fratellanza, colorata di 

socialismo, che si pone in antitesi alla cultura della città e del 

regno mondano, sarebbe poi stata sublimata e interiorizzata dai 

profeti nella morale religiosa umanitaria che conosciamo dalle 

più nobili leggi e profezie dell’Antico Testamento. A questi 

esempi si potrebbe accostare la struttura delle caste indiane e 

la loro connessione con il mondo della rappresentazione religio- 

sa, da cui è determinato il carattere economico dell’India; © 

anche il culto familiare cinese, che possiede una grandissima 

importanza per la struttura sociale dell'impero e quindi per 

ogni modo e direzione di lavoro economico. In ogni caso è 

chiaro che abbiamo qui davanti relazioni straordinariamente 

strette, ma sviluppate e mediate in modo piuttosto vario, che 

incidono profondamente da entrambi i lati — da quello della 

religione e da quello del lavoro economico — sulla totalità 

dello spirito e del senso della vita. Si tratta — come ha posto 

giustamente in luce Fustel de Coulanges — di un rapporto di 

azione reciproca che può essere determinato sempre soltanto 

caso per caso e in cui è molto difficile, a causa del carattere 

inconscio dei processi, stabilire l'iniziativa dell’uno o dell’altro 

elemento. 


Il medesimo studioso indica però anche, in modo non meno 

chiaro e intuitivo, la graduale rottura dell’ordinamento sociale, 

condizionato dalle originarie potenze sociologico-culturali, da 

parte del razionalismo degli interessi economici e politici — il 

quale impara a seguire i propri impulsi — non appena vi siano 

masse sufficientemente vaste i cui bisogni non vengono più 

soddisfatti nel vecchio sistema socio-culturale. In base all’esem- 

pio dei Greci e dei Romani, egli descrive le rivoluzioni rivolte 

contro l’ordinamento e il legame religioso della società, il razio- 

nalismo dei bisogni che in esse si sprigiona e i tentativi di 

nuove ricostruzioni razionali della società che poi, reagendo 

sull’etica e sulla dottrina sociale della filosofia, cercano di crear- 

si un nuovo ideale etico. A ciò si può aggiungere che una 

rivoluzione siffatta si è relativamente affermata ed è penetrata 

soltanto in Grecia e a Roma. Nel resto dell’umanità dominano 

ancor oggi — prescindendo dagli ambiti delle religioni univer- 



ERNST TROELTSCH 851 



sali di cui avremo occasione di parlare tra poco — quelle stesse 

situazioni di vincolo sociologico-culturale della società e dell’e- 

conomia. Basta fare riferimento, per esempio, al libro di viaggi 

dell'americano Henry Frank" Peter the Hermit (New York, 

1907), con le sue immagini della società colte dal basso, per 

avere l'impressione immediata dell’effetto di queste cose sulla 

vita economica pratica e, reciprocamente, prove stupefacenti 

della divinizzazione religiosa degli ordinamenti esistenti. In 

questo consistono le difficoltà politico-religiose del Giappone 

moderno, il quale ha scelto il razionalismo dello stile economi- 

co europeo e non può conciliarlo con i fondamenti sociologi- 

co-culturali della sua vita precedente. Da ciò derivano gli esperi- 

menti religiosi che ora intendono creare artificialmente una 

nuova religione statuale e imperiale, ora cercano un appoggio 

nel Cristianesimo, ora si accontentano dell’indifferente ateismo 

europeo. 


Non è però possibile seguire qui il tema in questa sua 

enorme estensione; si deve piuttosto fare riferimento a un singo- 

lo punto determinato. A ciò siamo indotti anche dal fatto che 

la religione etnica del culto degli antenati e dello stato — la 

sola che abbiamo finora toccata — non è affatto dominante in 

modo esclusivo. Essa ha subìto rotture in singoli punti, ad 

opera di religioni universali e spirituali, la cui essenza consiste 

soltanto nell’idea di Dio, nell’ethos, nel sentimento, nell’intui- 

zione religiosa del mondo, e che producono di conseguenza 

forme sociologiche del tutto differenti. In luogo della comu- 

nità di culto coincidente con determinati gruppi naturali, com- 

pare qui la comunità religiosa di idee e di sentimenti — cioè 

una comunità universale e propagandistica. Pertanto anche il 

rapporto tra religione ed economia è completamente diverso. 

Si tratta del Buddismo e delle tendenze ad esso affini in Oriente, 

del Giudaismo con le sue due grandi ramificazioni — Cristia- 

nesimo e Islam — in Occidente. Certamente, anche queste 

nuove formazioni religiose non sono sorte senza una preistoria 



10. Henry Frank (1854-1933), predicatore prima metodista e poi congregaziona- 

lista, passò infine a una forma di religione liberale con simpatie positivistiche. Fon- 

datore della Rationalist Society di New York nel 1897, scrisse tra l'altro numerosi 

romanzi filosofici (tra cui quello citato nel testo) e un poema allegorico dal titolo 

The Last Enigma (1924). 



852 ERNST TROELTSCH 



sociale, e quindi anche economica, che le condizionasse. Qui però 

non possiamo approfondire ancora quest’elemento: basti rile- 

vare che emerge ora un concezione e una posizione in linea di 

principio nuova del nostro problema. Qui l’idea religiosa è essa 

stessa un'idea etica e metafisica; essa comporta non più soltanto 

in modo mediato, attraverso le sue conseguenze sociologiche, 

ma anche in modo immediato, attraverso la sua valutazione 

religiosa della vita, una presa di posizione nei confronti della 

vita sociale ed economica. Tuttavia essa è diversa nelle diverse 

religioni che abbiamo elencato. Il Buddismo considera i vecchi 

ordinamenti di casta conservati dal culto come indifferenti; li 

lascia comunque sussistere e non crea affatto una propria auto- 

noma comunità religiosa. Così esso agisce con la piena coerenza 

della sua idea — che consiste nella totale assenza di proprietà 

— soltanto attraverso i suoi specifici portatori, i monaci; per 

il resto lascia sussistere gli ordinamenti così come sono, e im- 

pedisce solamente il sorgere di ogni vita razionalistica diretta 

al profitto, che potrebbe distruggerlo. Tra le religioni occiden- 

tali il Giudaismo ha acquistato notoriamente un’enorme impor- 

tanza economica, la quale in parte è fondata sull’accettazione 

attiva del mondo implicita nella sua fede nella creazione e 

sulla considerazione religiosa delle virtù della diligenza, del- 

l’operosità, della sobrietà, ma per la maggior parte è scatu- 

rita dai suoi destini storici? In verità, nel Giudaismo la 

religione rimane anzitutto legata a un saldo contesto popola- 

re, e la sua etica economica e il suo atteggiamento verso l’econo- 

mia sono influenzati da quest'idea fortemente terrena del futu- 

ro e della destinazione del popolo eletto. Qui la frattura dell’e- 

lemento religioso con l’elemento sociale — e quindi anche con 

quello economico — non si è ancora compiuta. Ma essa non è 

avvenuta neppure nell'Islam, che rimane internamente legato, 

attraverso il Corano e il suo specifico diritto, a gradi primitivi 

di organizzazione della società e a livelli primitivi di economia. 



a. Nel ben noto — e per molti versi illuminante — libro di Sombart!! 

quest'ultimo elemento è sottovalutato, almeno quanto è sopravvalutato il 

primo. 



11. Troeltsch si riferisce qui alle tesi sostenute da Sombart in Die /uden und das 

Wirtschaftsleben, Munchen, 1908. 



ERNST TROELTSCH 853 



Ciò costituisce la base della forza e del successo della sua missio- 

ne tra le razze inferiori, ma anche della sua debolezza e della 

sua ostilità nei confronti dello stile economico europeo. Questo 

non è infatti conciliabile già con la natura primitiva del diritto 

islamico e con i suoi giudizi da cadì. La liberazione reale 

dell’interiorità religiosa e della comunità religiosa separata da 

tutti gli elementi sociali ed economici ha avuto veramente luo- 

go soltanto nel Cristianesimo, ma pur sempre in modo tale che 

essa non significa una completa negazione ascetica del mondo, 

ma si richiama nel medesimo tempo — insieme con il Giudai- 

smo — alla bontà della creazione e al significato del mondo 

come luogo di lavoro. 


In ciò è però contenuta non già una soluzione particolar- 

mente chiara del problema, ma piuttosto un’impostazione più 

difficile e complicata del compito. In particolare si deve bada- 

re ai seguenti punti di rilievo. 


In primo luogo, con questa totale interiorizzazione e spiritua- 

lizzazione della religione, essa viene liberata dalle sue implica- 

zioni con la vita sociale ed economica. Ma ciò significa anche 

che influenze e determinazioni dirette su questo mondo profa- 

no della vita possono svilupparsi dall'idea religiosa soltan- 

to con grande difficoltà. Tale idea si muove sempre a un'altez- 

za ideale che si contrappone indifesa ai concreti rapporti della 

vita e alle loro potenti formazioni di interesse. In particolare 

ciò significa, reciprocamente, che il lavoro economico rimane 

ora abbandonato a se stesso e può sviluppare, del tutto indistur- 

bato, il suo razionalismo degli interessi e delle opportunità 

come un principio puramente mondano. Ma dato che il razio- 

nalismo della vita economico-sociale si configura, in ultima ana- 

lisi, come lotta economica per l’esistenza 0 come concorrenza, 

questa etica religiosa si contrappone ovunque alla lotta raziona- 

le per l’esistenza, che non può mai impedire direttamente. Il 

mondo delle idee religiose non possiede nessun mezzo suo pro- 

prio e diretto per organizzare € per interrompere tale lotta, 

e si rivolge ai mezzi razionali con cui la stessa visione profana 

degli scopi si propone di regolarla. La santificazione religiosa 

del carattere e l’amore fraterno non sono in grado di risolvere 

in modo diretto, e di per sé soli, questi problemi. Il libro 



854 ERNST TROELTSCH 



dell'inglese Benjamin Kidd Social Evolution!" — a suo tempo 

oggetto di larga considerazione, e a cui lo zoologo A. Weis- 

mann ha premesso un’introduzione — ha riconosciuto in modo 

molto aderente questo stato di cose, contrapponendo il raziona- 

lismo della lotta per l’esistenza, come principio puramente ra- 

zionale, al principio religioso dell’autorità e dell’ordine sulla 

base dei sovrastanti princìpi dell'amore. Se però le cose stanno 

in questo modo, allora la soluzione del problema riposerà sem- 

pre su qualche mezzo atto a far tacere, o almeno a regolare, la 

lotta per l’esistenza, ma che la religione non può mai sviluppa- 

re semplicemente da se stessa. Essa dovrà sempre fare affida- 

mento su qualche auto-regolamentazione razionale o accidenta- 

le di quella lotta per l’esistenza che sia ad essa favorevole 

e che le venga incontro, ma che essa può soltanto cogliere e 

fissare. Si tratterà però sempre di compromessi e di equilibri 

con la vita reale. 


In secondo luogo, l’idea religiosa dominante sembra qui 

essere, in sé e per sé, di natura puramente religiosa e ideologi- 

ca. Infatti il punto di partenza non è un vincolo immediato 

della vita naturale da parte del culto, una coincidenza tra cer- 

te forme naturali e le forme culturali della comunità, bensì 

l'ideale etico. Ma la sua indipendenza è anche qui molto condi- 

zionata. Il rapporto reale è molto più complicato di quanto 

non appaia a prima vista. In verità, anche qui gli ideali fonda- 

mentali non sono affatto così liberi dal sostrato reale e concre- 

to sul quale, e nei confronti del quale, si elevano. Gli ideali di 

Gesù sono connessi con il grado di economia e con le situazioni 

climatico-naturali della Galilea: non sarebbero potuti nascere 

in una grande città moderna. In modo analogo, tutti i successi- 

vi ideali economici dell’epoca cristiana recano, inconsapevol- 

mente e involontariamente, l'impronta del suolo su cui sorgo- 

no. Essi contengono sempre qualcosa che appartiene all’epoca e 

alla situazione, ma che non percepiscono come tale e che fissa- 

no in forma di verità eterne, di comandamenti divini, di inter- 

pretazioni della Bibbia. Come il mondo ideale della Bibbia 

lascia ovunque trasparire il fondamento sociale ed economico 



12. Social Evolution, London, 1894; tr. ted. col titolo Soziale Evolution, Jena, 

1895. La prefazione di Weismann è premessa a questa traduzione. 



ERNST TROELTSCH 8355 



su cui poggia, così tutte le successive interpretazioni della Bib- 

bia sono da parte loro condizionate dalle idee ovvie che le 

circondano e che esse presuppongono. Cattolicesimo, Luteranesi- 

mo, Calvinismo, sette e mistici leggono la Bibbia in base a 

certi determinati presupposti sociologici, considerati come ov- 

vi, che vogliono vedere confermati e regolati dalla Bibbia. Al- 

l'inverso, anche i tipi di azione in apparenza soltanto filosofici 

e razionalistici, o che si presentano come costume e come pras- 

si, sono inconsciamente determinati da presupposti cristiani, e 

nei sistemi che pretendono di essere completamente profani vi 

è una ricchezza di spirito cristiano. Il rapporto deve qui essere 

ogni volta illuminato e stabilito caso per caso. Qui non vi sono 

quelle leggi e formule generali di sviluppo progressivo, tanto 

care al moderno bisogno di generalizzazione. Si tratta di un 

gioco di forze che oscilla avanti e indietro, il cui risultato 

dev'essere determinato in ogni caso particolare di un'idea econo- 

mico-sociale che domina i grandi periodi. 


In terzo luogo, occorre considerare che, proprio per la sua 

pura interiorità e per l’autonomia dell'elemento religioso che 

viene qui elevata al massimo grado, l’idea cristiana non possie- 

de alcun mezzo di influenza diretta, e che anche le esigenze 

etiche molto idealistiche non sono, di per sé sole, un mezzo 

del genere. Essa esercita le sue influenze principali — nonostan- 

te la pretesa spesso avanzata di un condizionamento diretto 

puramente ideologico — non già attraverso l’esigenza etica ma 

indirettamente, attraverso le forme di comunità religiosa da 

essa create. Queste scaturiscono da idee dogmatiche, di culto e 

puramente religiose, e non vengono mai progettate a scopi 

sociali profani; tuttavia possiedono una potenza organizzatrice 

e vincolante, che nessuna formazione sociale del puro raziona- 

lismo possiede. Con queste forti forme sociologiche esse ab- 

bracciano però anche — analogamente a quanto ha mostrato 

Fustel de Coulanges per gli antichi culti degli antenati e della 

città — la vita complessiva, e costituiscono la sua ovvia base 

etico-spirituale. Nel Cattolicesimo e nel Protestantesimo è certa- 

mente presente qualcosa del terreno sociale da cui traggono la 

loro linfa vitale. Ma l’organizzazione sociologico-religiosa del- 

l’autorità, dell’istituzione, dell’individualismo ha determinato 

in misura ancora maggiore la generale atmosfera culturale, e 



856 ERNST TROELTSCH 


soltanto per il suo tramite è stata influenzata la vita profana 

nell'economia e nella società. Nonostante l’apparente autono- 

mia dell’ideologia etica sussiste anche qui il problema marxi- 

stico, ma in modo che esso non significa semplicemente la dipen- 

denza dell’elemento religioso da quello sociale ma anche, reci- 

procamente, la dipendenza dell'elemento sociale da quello reli- 

gioso. Ciò che si presenta nel caso singolo non può venir chiari- 

to da una teoria generale, ma soltanto da un’indagine condotta 

caso per caso. Partendo da ciò risulta parimenti chiaro che il 

razionalismo economico, laddove perviene a un'autonomia illi- 

mitata, si volgerà contro questi vincoli sociologico-religiosi e 

cercherà di rendersene del tutto indipendente. 


Non sono dunque soltanto l'impossibilità di abbracciare il pro- 

blema in tutta l'ampiezza della sua realtà storico-religiosa, la 

limitazione della sua osservazione e della sua conoscenza ai 

pochi punti finora accessibili, e la necessità di indagarlo sem- 

pre concretamente caso per caso, che hanno in ultima analisi li- 

mitato l’indagine all’unica religione che ci è, da questo punto di 

vista, perfettamente familiare. E neppure è la sua importanza 

per la nostra cultura — che ha peso pratico soltanto per noi. Si 

tratta piuttosto, in primo luogo, della particolare importanza in- 

trinseca che, da questo punto di vista, il Cristianesimo riveste. 


Esso si è sviluppato sulla linea di confine tra Oriente e 

Occidente, dall’umanità religiosamente fondata e dalla speran- 

za di redenzione dei profeti di Israele, e si è quindi configu- 

rato — svincolandosi completamente da tutte le condizioni na- 

turali e sociali — nella forma della più pura interiorità religio- 

sa e della fratellanza umana, e al tempo stesso nella forma di 

una radicale speranza di redenzione, che si aspettava dal cielo 

lo stato corrispondente ai suoi ideali come un’imminente fonda- 

zione miracolosa del regno di Dio. Questo ethos e questa spe- 

ranza di redenzione si sono uniti con la venerazione religiosa 

del nunzio del regno di Dio, dando così luogo a una nuova 

comunità umana puramente religiosa e culturale ed essendo 

poi costretti, per il mancato avvento del regno di Dio, ad 

applicare il loro ideale — come regola di vita della Chiesa — 

alla vita pratica e duratura nella società e nell’economia. 


In tal modo ha avuto immediatamente inizio il problema, 

che perdura fino ai nostri giorni. 



STORIA E DOTTRINA DEI VALORI * 



Il problema è quello della creazione della sintesi culturale 

contemporanea sulla base dell’esperienza e della conoscenza sto- 

rica. Ciò ha condotto alla connessione del comprendere storico- 

individuale con l’idea di un criterio. Questo criterio si è però 

dimostrato complicato, in quanto racchiudeva in sé una duplice 

applicazione all’accaduto e al futuro, assumendo un diverso 

significato nei due casi. Esso comportava da un lato la misura- 

zione dell’accaduto in base agli ideali ad esso di volta in volta 

propri, dall’altro la direzione verso il dover essere da produrre 

nel presente, il quale non può scaturire da un’astratta ragion 

pura, ma solamente in stretto contatto con le possibilità e le 

tendenze effettive del momento. La connessione di questi due 

momenti del criterio risultava infine nell’idea dell’indivi- 

dualità di ogni formazione presente di un criterio, in quanto 

questa è anche, da parte sua, una formazione e creazione della 

vita storica. Tale essa apparirà agli storici futuri, e fin da ora 

dobbiamo comprenderla e sentirla in questo modo. Tutto pog- 

gia perciò anche qui sull’idea di individualità; solo che ora in 

questa idea non compare soltanto la fatticità del particolare e 

del singolare, come avviene prevalentemente nella logica empi- 

rica della storia, ma l’individualizzazione di volta in volta di 

un ideale, la concrezione di un dover essere. In questo nuovo e 

più profondo senso dell’individualità idea e fattualità sono ora, 

già nell’accaduto, una cosa sola; e lo sono l’una e l’altra anche, 



® Der Historismus und seine Probleme, 1. Uber Masstàbe zur Beurteilung histo- 

rischer Dinge und ihr Verhdltnis zu cinem gegenwirtigen Kulturideal, sezione 5: Ge- 

schichte und Werilehre, in Gesammelte Schriften, Tiùbingen von J. C. B. Mohr, 

vol. III, 1922, pp. 200-221 (traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



858 ERNST TROELTSCH 



e con un interesse pratico ben altrimenti rafforzato, nella forma- 

zione di un criterio e nella sintesi culturale contemporanea; in 

tale senso poggia infine anche la connessione delle tendenze 

ideali trascorse con quelle da creare muovendo dal presente. La 

comprensione di questa connessione è però una questione di 

azione e di creazione intuitiva, per la quale non esiste nessun’al- 

tra oggettività al di fuori della coscienza del fatto che, essendo 

creata da un tratto interno della storia stessa, si conferma nella 

coscienza come vincolante e nell’esperienza come feconda. 


È chiaro — ed è stato più volte sottolineato — che in questo 

modo si passa dal terreno della pura logica storica al terreno di 

una nuova regione scientifica. È il terreno della dottrina dei 

valori o assiologia, come oggi si usa dire. L’intestazione di 

questo capitolo avrebbe quindi potuto anche essere « Storia e 

dottrina dei valori» — esattamente come quello precedente 

avrebbe potuto anche intitolarsi «Storicismo e naturalismo ». 

Se sono stati preferiti i titoli sopra segnati, lo si è fatto per 

ottenere la massima prossimità ai problemi della vita di oggi e 

per evitare un’astrattezza troppo esangue. Ma da un punto di 

vista puramente logico si è compiuto, in questo capitolo, il 

trapasso dalla storia alla dottrina dei valori; si è cioè entrati in 

questa nuova regione scientifica attraversando la porta del con- 

cetto di individualità, che solo può condurre dall’una all’altra. 

E lo può perché il concetto di individualità non significa soltan- 

to la particolarità puramente fattuale di un complesso storico- 

spirituale dato di volta in volta, ma significa al tempo stesso 

un’individualizzazione dell’ideale o del dover essere, che certo 

non si realizza compiutamente in ogni forma particolare, ma 

che aspira a realizzarsi e che in essa si incorpora, secondo le 

circostanze, più o meno felicemente *. Entrare nella regione 



a. Sulla.« progressiva scoperta del regno dell’individuale, che lo spi- 

rito tedesco intraprese con focoso zelo », si veda F. MEINEcKE, Weltbiir- 

gertum und Nationalstaat, Miinchen und Berlin, 1908, p. 277. Significa- 

tiva è anche l'osservazione sulla duplicità dell’individuale che viene qui 

presupposto, cioè il suo aspetto fattuale e l'aspetto della doverosità: si 

veda a p. 281, dove si rimanda a Novalis! e a Ranke (nonché a Humboldt). 



1. Friedrich Leopold von Hardenberg, detto Novalis (1771-1801), uno dei mag- 

giori poeti romantici tedeschi, autore degli Hymnen an die Nacht (1797), del romanzo 

incompiuto Die Lekrlinge zu Sais (1798), di un altro romanzo anch'esso non condotto a 



ERNST TROELTSCH 859 



della dottrina dei valori per questa porta non costituisce la 

regola; e tuttavia ciò è imprescindibile per una filosofia materia- 

le della storia, cioè per poter pensare e porre il valore in base 

alla storia. Si tratta del primo grande problema di ogni filoso- 

fia della storia, rispetto al quale tutti gli altri passano in secon- 

da linea. Rimane da dire ancora qualche parola polemica in 

merito alla consueta configurazione della dottrina dei valori 

nella filosofia moderna. 


Che cos'è la teoria generale dei valori o assiologia? Come si 

coordina con le scienze della natura e dello spirito — entram- 

be scienze del reale, fortemente e coercitivamente determinate 

nel loro rapporto con l'oggetto — nel g/obus intellectualis 

delle scienze? È una scienza empirica o @ priori, formale o mate- 

riale? Questa impostazione influenzata dal neokantismo, e oggi 

così predominante, è però troppo semplice ed esclusiva. In veri- 

tà nessuna scienza è puramente empirica, ma ognuna è frammi- 

sta di princìpi di elaborazione @ priori; e d'altra parte 

nessuna scienza è puramente formale, ma comporta sempre 

un'elaborazione dei fatti dell'esperienza e delle realtà vissute, 

con la cui materialità sta al tempo stesso in stretta connessione 

— prescindendo naturalmente dalla logica formale (si può qui 

trascurare l'ardua filosofia della matematica, ossia la questione se 

sia puramente formale e 4 priori, oppure anch'essa carica di sen- 

sibilità e di intuizione). In ogni caso la dottrina dei valori non 

può quindi essere una scienza puramente 4 priori e formale. An- 

ch’essa rivela princìpi di elaborazione della realtà vissuta che 

stanno in stretta connessione con questa e che possono venir 

trovati soltanto in base all’analisi della vita reale. La sua distin- 

zione dalle altre scienze della realtà consiste soltanto nel diver- 

so significato e nella diversa posizione che i princìpi di elabora- 

zione a cui essa fa riferimento hanno nei confronti della realtà 

vissuta. Questi si propongono non già il collegamento esisten- 

ziale e oggettivo del reale, ma la sua valutazione e formazione 

soggettiva e normativa. Ma, come quelle forme di collegamen- 

to si connettono strettamente con l’essenza del reale, così 

anche queste norme di valutazione e di formazione si connetto- 



termine su Heinrich von Ofterdingen (1799) c di Fragmente di argomento filosofico. 

Il suo pensiero storico-politico è esposto in Die Clristenheit oder Europa (1799), roman- 

tico vagheggiamento dell'unità del mondo cristiano medievale. 



860 ERNST TROELTSCH 



no indissolubilmente con le tendenze di contenuto già presenti 

nella vita reale. Perciò, come quelle forme possono essere astrat- 

te soltanto dalle scienze già esistenti e reagiscono poi sulle 

scienze in forma più raffinata e sistematizzata, così anche que- 

ste vengono tratte da valutazioni e formazioni effettive. Ciò 

può accadere soltanto in virtù di una fenomenologia comprensi- 

va, quale è stata oggi ormai intrapresa, soprattutto da parte 

della scuola fenomenologica. Tutte le valutazioni, anche quelle 

più soggettive, più accidentali e più legate ai sensi, vengono in 

tal modo collocate su un terreno comune insieme con quelle 

più oggettive, più ideali e più svincolate dalla sensibilità, per 

poter poi rintracciare su questa base le diverse classi di valori e 

la loro legge essenziale, e per poter infine ricondurre il rappor- 

to reciproco delle varie classi di valori a una legge universale, 

che naturalmente è una legge concernente non l’essere ma il 

dover essere, pur essendo, in quanto tale, sempre profondamen- 

te radicata nell’essere. Non è qui il caso di inoltrarci in partico- 

lari assai spinosi. È necessario sottolineare la cosa principale, 

cioè che questo inquadramento complessivo dei valori ha il 

significato di mostrare fondamentalmente l’essere vivente non 

già come un essere contemplativo e riflessivo, ma come un 

essere che agisce praticamente, che sceglie, lotta e tende a qual- 

cosa, in cui ogni mera intellettualità e ogni mera contemplazio- 

ne si pone, in ultima istanza, al servizio della vita, sia essa 

animale o personale-spirituale. Ciò è importante, nel suo signifi- 

cato assolutamente decisivo, anche per il nostro argomento. 

Altrettanto importante è però mettere in rilievo che, a un’anali- 

si più prossima, l’unitarietà di questi valori pratici — inizial- 

mente ammessa — si articola immediatamente nei valori mera- 

mente animali e nei valori personali-spirituali della cultura, ai 

quali appartiene il carattere formale della doverosità e dell’im- 

pegno alla- realizzazione. Particolarmente significativa è poi, 

sempre all’interno di questi ultimi, la scissione tra le conse- 

guenze tratte dalla doverosità formale — le quali, in quanto 

doveri individuali e doveri comunitari, designano l’elemento 

morale in senso stretto® — e i contenuti culturali, di cui si 



a. Di questa scissione si dovrà ancora parlare nell'analisi conclusiva 

sull’etica e sulla filosofia della storia. 



ERNST TROELTSCH 861 



tratta nelle scienze della cultura o nelle scienze sistematiche 

dello spirito relative allo stato, al diritto, all'economia, all’arte, 

alla religione e alla scienza (per lo meno nella misura in cui 

questa è bene culturale e non logica). Il fine ultimo di quest’a- 

nalisi è perciò naturalmente, come ogni volta che si confidi 

nell’unità e nel senso del reale, la sintesi in vista di una costru- 

zione e di un sistema dei valori in cui il presupposto di questa 

fiducia — che è, in ultima analisi, una fiducia religiosa — non 

dev'essere dimenticato, e in cui anche l’intera questione dell’esi- 

stenza e dell’origine di questi valori nell’essere vivente finito 

deve riportare al rapporto della coscienza assoluta o Dio con la 

coscienza finita. La dottrina dei valori conduce necessariamente 

a sfondi metafisici in cui dev'essere risolto, in particolare, anche 

il problema del rapporto tra vita e materia della vita, tra dover 

essere ed essere ?, 



a. Purtroppo lo sviluppo e la formazione storica della dottrina dei va- 

lori non sono ancora stati studiati in maniera sufficiente. Sarebbe urgente 

un libro in proposito del tipo della Geschichte des Materialismus di Lan- 

ge? o dell’Erkenntnisproblem di Ernst Cassirer3. Le esposizioni attuali 

prendono invece le mosse soprattutto da Lotze, che ha dato inizio al mu- 

tamento propriamente moderno della metafisica in una dottrina dei valori 

e ha quindi inserito, come in ultima istanza decisive per il contenuto 

della metafisica, le idee della dottrina kantiana della ragion pratica su 

una base metafisica alquanto più ampia. La dottrina dei valori costituisce 

di per sé un problema molto più antico e comprensivo, e l’inserimento 

kantiano-lotziano nella metafisica è soltanto una delle molte forme pos- 

sibili di collegamento con la metafisica. Il suo problema ultimo, più ca- 

ratteristico e generale consiste quindi nella permanente conversione dell’es- 

sere nell’aspirazione e nel dovere, e di questi ultimi nuovamente nell'es- 



2. F. A. Lance, Die Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in 

der Gegenwart, Iserlohn, 1866. — Friedrich Albert Lange (1828-1875), filosofo tedesco 

di orientamento neokantiano, fu altresì autore di Die Grundlagen der mathematischen 

Psychologie (1865), di Die Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung fiir Gegenwart und Zukunfe 

(1865), dei Neue Beitrige zur Geschichte des Materialismus (1867) e delle postume Logi- 

sche Studien (1877). 


3. E. Cassirer, Das ErZenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschafe der 

neueren Zeit, Berlin, 1906-1920 (il quarto e ultimo volume sarà pubblicato in inglese a 

New Haven, nel 1950). — Ernst Cassirer (1874-1945), filosofo tedesco di orientamento 

neokantiano, autore di Stbstanzbegrif und Funktionsbegriff (1910), della Philo- 

sophie der symbolischen Formen (1923-1929), di Zur Logik der Kulturwissenschaften 

(1942), di An Essay on Man (1944) e di altre importanti opere di storia della filosofia, 

in particolare sul Rinascimento e sull'Illuminismo, sviluppò l'impostazione neocritici- 

stica propria della scuola di Marburg nel senso di una « filosofia della cultura ». 



862 ERNST TROELTSCH 



In tal modo non è stata ancora caratterizzata abbastanza la 

specificità di questa scienza, e soprattutto non è stata illustrata 

la particolarità dell’attuale stato del problema, sottoposto a 

oscillazioni così sensibili. Essa pure riesce a fare completa chia- 

rezza sul metodo e sul fine soltanto se, anche qui, si ritorna 

alle radici dei punti di vista e delle terminologie moderne, cioè 

alla svolta cartesiana verso la filosofia della coscienza, da cui 

abbiamo già visto scaturire il naturalismo e lo storicismo. Ciò 

che qui inganna è soltanto la circostanza che l’equiparazione 

terminologica di tutte le reazioni pratiche, sia del sentire sia 

del volere, in quanto valori, è dovuta alla filosofia moderna 

successiva a Lotze e all’influenza dell'economia politica. In sé 

e per sé, invece, l'impostazione è antica e coincide con il carte- 



sere — un problema che non può venir risolto in base ai presupposti della 

logica puramente formale e astratta della riflessione, ma che rimanda a 

quel piano meta-logico giù sopra accennato. Se viene mantenuto sul piano 

della logica astratta della riflessione, esso conduce sempre ad antinomie 

e a impossibilità, a semplici accostamenti tra essere e dover essere, tra 

causalità e teleologia, tra determinismo e libertà, tra immobilità e mo- 

vimento, tra rappresentazione e volontà —- in breve, a un dualismo inso- 

stenibile, in cui alla fine rimane soltanto l'essere come il più facile da 

rappresentare e da elaborare logicamente. Tra le esposizioni storiche cfr. 

K. WieperHoLp, Wertbegriff und Wertphilosophie (Erginzungs-Heft alle 

« Kantstudien », 52, Berlin, 1920); E. HevpE, Grundlegung der Wertlehre, 

Leipzig, 1916 (dal punto di vista della filosofia dell’immanenza di Grefs- 

wald); W. SrricH, Das Wertproblem und die Philosophie der Gegen- 

wart (Diss.), Leipzig, 1909; G. Picx, Die Ubergegensdtzlichkeit der Werte, 

Tibingen, 1921 (si richiama a Lask e a Rickert). Accanto ai lavori più 

volte citati di Ehrenfels, Meinong, Miinsterberg, Volkelt, si devono segna- 

lare E. von Hartmann, System der Philosophie im Grundriss, vol. V: 

Grundriss der Axiologie, oder Wertwigungslehre, Sachsa, 1908; E. von 

Srrancer, Lebensformen, Halle, 2° ed. 1921; M. ScHeLER, Der Forma- 

lismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle, 22 ed., 1921; D. 

von Hitpesranp, Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis, «Jahrbuch 

fiir Philosophie und phinomenologische Forschung », V, 1922, pp. 462-601 

(trattazione di finissima psicologia cattolica da cura dell'anima, intesa co- 

me «legge essenziale » dell'ordinamento dei valori); T. Lessine, Studien 

zur Wert-Axiomatik, Leipzig, 2° ed. 1914 (di tendenza anti-psicologi- 

stica e indifferente a ogni reale, con conseguenze pessimistiche). Sono lar- 

gamente d’accordo con J. VoLkeLr, di cui si veda il System der Asthetik, 

Miinchen, vol. III, 1914. Lo stesso problema ritornerà in seguito dal punto 

di vista del concetto di sviluppo, e ci costringerà a menzionare e a distin- 

guere le diverse scuole e i diversi gruppi: per ora basti un accenno. 



ERNST TROELTSCH 863 



sianesimo. Se il punto di partenza decisivo è la coscienza, 

l'analisi dei suoi contenuti e dei suoi principi formali e la 

costruzione filosofica della realtà in base agli clementi e ai 

princìpi in essa trovati, allora le rappresentazioni, i sentimenti 

e le volizioni — vale a dire la cosiddetta esperienza interna ed 

esterna — diventano il solido nucleo di ogni pensiero, e i fatti 

teoretici e pratici della coscienza si accostano gli uni agli altri 

come datità in larga misura omogenee, a partire dalle quali 

soltanto si può procedere a un'articolazione e a una distinzio- 

ne. Le cose stavano in modo completamente diverso nella filoso- 

fia antica e medievale. Qui non c’era una dottrina della ragion 

pratica o dei valori, bensì una dottrina dei beni e degli scopi, 

rispetto ai quali la vita affettiva sensibile apparteneva fin dall’i- 

nizio all’aspetto finito e sensibile, inessenziale, dell’esistenza. 

In Platone e Aristotele i beni erano scopi cosmici, contenuti 

nella ragione divina, che si realizzavano nello sviluppo teleolo- 

gico attraverso la « partecipazione » dello spirito finito alla ra- 

gione divina. Non diversamente stavano le cose con la legge 

naturale dello Stoicismo, che era una legge cosmica e alla qua- 

le la ragione umana partecipava in una maniera particolare. 

Anche l’edonismo, che si esprimeva in forma collaterale, sfocia- 

va in un'imitazione dell'armonia e della bellezza dell’universo, 

e per di più non riuscì ad affermarsi. La dottrina cristiana 

fondava i beni su un ordine cosmico e su una gerarchia dei 

beni, accogliendo così fondamentalmente le idee antiche, e svi- 

luppava il suo sistema gerarchico dei beni come una copia dei 

gradi di realizzazione della vita di Dio nel mondo. In ultima 

analisi essi non procedono più qui in base alla mera « partecipa- 

zione » al sistema soprasensibile delle idee e delle leggi, ma 

scaturiscono da una conciliante auto-partecipazione di Dio nella 

creatura, che si esprime in valori umanitario-naturali e in valori 

religiosi-soprannaturali. Identità e diversità tra spirito divino e 

spirito finito vengono qui affermate contemporaneamente, e da 

questa coincidentia oppositorum scaturisce il sistema dei beni 

come manifestazione di un movimento di vita divino *. Soltan- 



a. Cfr. il mio Augustin. Die christliche Antike und das Mittelalter, 

Miinchen, 1915, e H. Hemsòra, Die sechs grossen Themen der abendlin- 

dischen Metaphysik und der Ausgang des Mittelalters, Berlin, 1922. 



864 ERNST TROELTSCH 



to la svolta cartesiana ha trasformato i beni in fatti esclusivi di 

coscienza. L’empirismo inglese ne ha subito tratto la conseguen- 

za dell’equiparazione di tutte le reazioni pratiche in quanto 

sensazioni di piacere e si è sforzato di costruire l’etica e il 

sistema culturale sulla base del piacere. I grandi razionalisti 

continentali si attennero certamente, anche nella filosofia prati- 

ca, alla scissione tra sensibilità e ragione, ma nel complesso 

cercarono di ricondurre i valori all’intelletto, e cioè di sviluppa- 

re l’etica in base al fatto — immanente alla coscienza — dell’in- 

telletto e quindi della sua antitesi rispetto alla sensibilità. An- 

che un metafisico dogmatico come Spinoza non faceva eccezio- 

ne, poiché tutta la sua metafisica è, in definitiva, il dispiega- 

mento dell’essenza formale del pensiero, e in quanto tale proce- 

de da parte sua dalla coscienza. La terminologia si muove 

ancora all’interno del linguaggio antico e cristiano, mescolata 

con la terminologia del piacere — anch'essa del resto derivante 

dall’antichità. Ma il principio è già quello dei «valori». La 

dottrina kantiana produsse infine i concetti universali della ra- 

gione teoretica e della ragione pratica, distinguendo poi all’in- 

terno di quest'ultima tra scopi ipotetici e scopi categorici e 

sovra-ordinando in linea generale il pratico al teorico. Anche la 

speculazione post-kantiana non è tanto distante come può sem- 

brare, poiché la sua dottrina dell'identità procede ancora dalla 

conoscenza e cerca di derivare i valori dall’essenza formale 

della ragione, non dalla ricchezza ontologica dell’idea di Dio. I 

valori non sono partecipazione o derivazione della grazia, bensì 

produzione e creazione umana in base all’impulso della ragio- 

ne. Infine le dottrine del positivismo, che è assai vicino all’utili- 

tarismo inglese, fanno egualmente sorgere nello sviluppo i valo- 

ri culturali dall’intelletto e dal senso comune, cioè spiegano 

tutto sulla base di dati fondamentali psicologici e delle loro 

implicazioni evoluzionistiche, per fondare in definitiva — con 

la maggiore sobrietà possibile — una sistematica dei fini socia- 

li così posti sulla base di una conoscenza positiva delle leggi 

della natura e della società. La naturale conseguenza di ciò è 

stata alla fine la terminologia dei valori, cioè la riunione — 

oggi consueta — di tutte le reazioni e formazioni pratiche nella 

teoria dei valori; e l’indagine sistematica del significato del 

valutare poteva ora essere intrapresa non soltanto per la coscien- 



ERNST TROELTSCH 865 



za, ma per la filosofia nel suo complesso — come è accaduto 2 

partire da Lotze, fino a confluire oggi con la filosofia pratica 

di Kant. La « filosofia dei valori » in senso stretto, sviluppatasi 

oggi in seguito a questa confluenza, la quale edifica l’intera 

dottrina dei valori in base al valore teoretico o al valore di 

validità dell’elemento logico e la pone in questa forma al posto 

della metafisica — ci riferiamo in particolare alle teorie di 

Miinsterberg, di Rickert e di Lask — rappresenta pertanto un 

tentativo di spremere dall’elemento soggettivo o immanente al- 

la coscienza l’elemento oggettivo: tentativo che esprime, con 

tutta la sua acutezza, soltanto la precarietà di un siffatto punto 

di vista dell’immanenza. Queste teorie costituiscono, entro la 

dottrina dei valori, soltanto una specificazione acuta ma poco 

feconda. 


Questo fondamentale soggettivismo non costituisce però l’e- 

lemento decisivo per la connessione che abbiamo ora di fronte. 

Esso non potrà venir mutato nel suo punto di partenza analiti- 

co-coscienziale finché dura il pensiero moderno, e si potrà discu- 

tere soltanto dei suoi risultati e del modo delle sue conclusioni 

metafisiche — in quanto mutamenti siffatti non sono mai man- 

cati e vengono oggi ripresi in modo sempre più pressante, 

senza dimenticare l'applicazione assai approfondita di Male- 

branche alla conoscenza in Dio anche dei valori pratici *. Per 

il nostro argomento è però decisivo un altro punto. Dato il 

carattere immanente-soggettivo dell’utilitarismo, della ragione 

pratica e del positivismo, il solo mezzo per distinguere i valori 

oggettivi, oggetto di dovere, o i valori culturali etici dai valori 

animali e sensibili della vita e dell’utilità diventa l’universalità 



a. In Spranger e in Scheler* i punti di contatto con Malebranche sono 

innegabili. Sulla genesi dell'idea di individualità in Leibniz cfr. H. ScHma- 

LENBACH, Leibniz, Mùnchen, 1921 — libro molto istruttivo, anche se l’asse- 

rita connessione con il Calvinismo non mi sembra abbastanza persuasiva. 



4. Max Scheler (1874-1928), filosofo tedesco, autore di Die transzendentale und 

die psychologische Methode (1900), di Der Formalismus in der Ethik und die materiale 

Wertethik (1916), di Wesen und Formen der Sympathie (1923), di Die Wissensformen 

und die Gesellschaft (1926), della Philosophische Weltanschauung (1929) c di varie 

altre opere, appartiene al movimento fenomenologico: egli si propose soprattutto di 

costruire un'etica «materiale », fondata sulla determinazione di una gerarchia di 

valori e contrapposta quindi all'etica «formale » kantiana. 



55. STORICISMO TEDESCO, 



866 ERNST TROELTSCH 



delle valutazioni — da un lato l’uziversalità empirica e di 

fatto, dall’altro la validità universale ideale, che dev'essere rico- 

nosciuta. La maggiore utilità possibile del maggior numero 

possibile di persone oppure la validità universale formale della 

ragion pura, libera dalla sensibilità, o ancora la vittoriosa diffu- 

sione riconoscibile nel corso dello sviluppo: questi diventano 

gli strumenti di distinzione, e quindi i criteri di valutazione. 

Ma con ciò viene scartato il concetto di individualità. Esso 

diventa un insieme di punti d’intersezione accidentali di leggi 

psicologiche generali da cui si deve estrarre, in modo faticoso 

e artificioso, l’universale dover essere; o diventa intorbidimen- 

to, adattamento e individualizzazione storica, che perviene alla 

norma in sé, atemporale e universalmente valida. Nell’uno e 

nell'altro caso non c’è alcuna via verso l’individuale, inteso 

come unità intima di fattuale e di ideale. Una via siffatta non 

è stata ancora trovata neppure nelle odierne considerazioni fe- 

nomenologiche, le quali prendono tutte quante le mosse da 

norme, dalla visione dell'essenza e dalla legalità atemporale, 

per aggiungervi soltanto in seguito il rattoppo dell’individualiz- 

zazione empirica. Proprio perciò queste dottrine dei valori urta- 

no sempre, senza speranza, contro la storia. Esse disconoscono 

l'autentica individualità presente nella storia, come stato parti- 

colare e determinato di un intreccio reciproco di essere e dover 

essere, di fattuale e ideale; disconoscono l’inesauribile e impre- 

vedibile produttività della storia, la quale produce sempre nuo- 

vi elementi individuali e quindi non individualizza leggi gene- 

rali, ma ci pone di fronte a formazioni di valori sempre nuove 

e imprevedibili. Questo è il nucleo in cui, più che altrove, la 

moderna dottrina dei valori ha bisogno di una riforma. Ciò che 

insegnarono i Romantici, Schleiermacher, Wilhelm von Hum- 

boldt, Goethe, dev*essere sempre riconosciuto di nuovo come il 

suo problema principale, e posto al centro® per cacciare via gli 



a. Si veda il Politisches Gesprich di Ranke in Werke, voll. XLIX.L: 

Zur Geschichte Deutschlands und Frankreichs im 19. Jahrhundert (a cu- 

ra di A. Dove), Leipzig, 1887, p. 325: «Senza una tensione, senza un 

nuovo inizio non si può pervenire dall’universale al particolare. Lo spiri- 

tuale, che ti sta improvvisamente davanti nella sua imprevista realtà, non 

si lascia derivare da nessun principio superiore. Partendo dal particolare 

puoi clevarti, con cautela e risolutezza, all’universale; ma dalla teoria 



ERNST TROELTSCH 867 



spettri di leggi generali e atemporali, con le quali la storia e la 

vita non possono cominciare nulla e che aprono sempre nuovi 

abissi immaginari tra storia e dottrina dei valori, le quali tendo- 

no invece a unificarsi. Il fatto che le teorie fenomenologiche, 

nella loro aspirazione ben consolidata a leggi generali di essen- 

za, pervengano, nei diversi pensatori, a risultati diversi — nono- 

stante la conclamata visione dell'essenza — costituisce la prova 

di questo stato di cose assolutamente decisivo. 


È del tutto impossibile, partendo dalla fragile, isolata e 

vuota coscienza — per quanto si possa attenuarla e dissolverla 

mediante la teoria della non-sostanzialità o dell’inconoscibilità 

dell'io — ottenere in virtù di una semplice psicologia delle 

reazioni la comprensione dell’individualità, che dovrebbe ap- 

punto avere la sua sede principale nella dottrina dei valori. Di 

qui si perviene sempre soltanto ad acuti sofismi o a nullità 

tautologiche, alla disputa se il valore risieda nell’oggetto o nel 

soggetto o nella relazione tra i due termini, se esso sia una 

sensazione e una percezione oppure una disposizione e una 

reazione soggettiva, se sia fondato su un giudizio di esisten- 

za o di non-esistenza, se sia semplicemente momentaneo o co- 

stante, semplicemente relativo o se scaturisca dal sentire o dal 

volere o dal rappresentare o da un elemento psichico ad esso 

proprio, se sia meramente accidentale e personale oppure sovra- 

personale e oggettivo, e così via. Tutte queste difficoltà artificio 

se e insolubili, oppure solubili soltanto introducendo di soppiat- 

to valori dogmaticamente normativi (e proprio per ciò oggetto 

di fede), cadono qualora si concepisca in modo diverso il pun- 

to di partenza, cioè il cosiddetto io, qualora lo si consideri non 

più come qualcosa di isolato e di vuoto, provvisto soltanto delle 

facoltà formali del rappresentare, del sentire e del volere, ma 

come virtualmente comprensivo — e ogni volta in un ambito 

assai diverso — della totalità della coscienza, oppure si conside- 

ri quest’ultima come comprendente in sé l'io, qualora si ritorni 

(in qualche forma oggi possibile) all'idea leibniziana della mo- 

nade, e in particolare della monade umana, che assume in base 



generale non c'è strada che conduca all’intuizione del particolare ». Si ve- 

da inoltre p. 327: « Natura della cosa, opportunità, gezio e fortuna coope- 


Priz/e » OPp 6 P 

rano [al sorgere di nuove forme] ». 



868 ERNST TROELTSCH 



alle sue complicazioni una posizione particolare. Allora è possi- 

bile intendere i valori nella loro ovvia soggettività e nel loro 

carattere relazionale, che deriva dal carattere pratico e dai fini 

pratici di ogni essere, cioè dalla vita che tutto riempie. Allora 

le valutazioni estranee, passate e future, possono venir sentite 

come proprie, perché portiamo al tempo stesso in noi gli io 

estranei. Allora possono esserci coincidenze nelle valutazioni, 

in quanto noi tutti deriviamo dal medesimo fondamento della 

totalità della vita, e possiamo quindi sentire allo stesso modo. 

Allora è possibile distinguere i valori animali, cioè i valori 

meramente vitali che derivano dalle relazioni ambientali, rispet- 

to ai valori oggettivi o spirituali, poiché questi ultimi esistono 

per la totalità dello spirito divino nella sua totalità che compren- 

de la finitudine, e poiché l’essere individuale partecipa a questa 

totalità dello spirito. Allora possono esserci medie e sedimenta- 

zioni sociologicamente condizionate di queste valutazioni, oscu- 

rità, turbamenti e disordini dei conflitti tra motivi, da cui 

scaturiscono alla fine sempre soltanto il rischio e l’auto-riflessio- 

ne, cioè una propria disposizione la quale non è tuttavia inven- 

zione. Psicologia e sociologia possono descrivere tutte queste 

forme di realizzazione, ma non possono fondare alcun valore 

particolare e scoprirne le origini ultime. Ma, soprattutto, soltan- 

to in questo modo si può cogliere il senso autentico dell’indivi- 

dualità, così come i Romantici e i poeti, i filosofi e gli storici 

— in primo luogo Wilhelm von Humboldt — lo hanno sottrat- 

to all’intellettualismo leibniziano, ancora chiuso in sé senza 

finestre. Questo essere individuale che partecipa alla totalità 

della vita rappresenterà e realizzerà nella sua situazione, nel 

suo ambiente e nella sua influenza particolare il fondamento 

comune della vita in una maniera ad esso propria — sia sotto 

l'aspetto animale del soddisfacimento dei bisogni e della promo- 

zione della vita, sia sotto l’aspetto della comprensione del mon- 

do delle idee divine. L'uomo, nel suo grado di realizzazione 

della coscienza, diventerà quindi un essere storicamente indivi- 

dualizzato, nonostante i mille aspetti di omogeneità e di comu- 

nanza che ha con altri uomini, e possiederà in tal modo non 

soltanto una determinatezza di fatto, ma anche un compito che 

è oggetto di dovere, nella cui realizzazione crca e acquisisce la 

sua essenza. Rimangono naturalmente le questioni ultime — 



ERNST TROELTSCH 869 



come Dio o l’assoluto o la totalità della vita pervenga a questo 

movimento costante dell’essere verso i valori, che altro non è 

se non la vita, e come questa totalità della vita pervenga all’au- 

to-divisione nelle monadi finite. Si tratta di questioni a cui 

nessuno può rispondere, ma che non possono neppure essere 

sostituite da altre impostazioni più corrette e più facilmente 

suscettibili di risposta. Esse sono eterne come il pensiero: sol- 

tanto l’auto-divinizzazione e l’auto-svuotamento dello spirito 

moderno — due momenti strettamente connessi tra loro — 

hanno potuto dimenticarle o considerarle mal poste. Si ritorne- 

rà ancora su di esse trattando della teoria della conoscenza 

storica. Qui ci limitiamo per ora ad accennare al significato 

decisivo di questa impostazione per l’individualizzazione stori- 

ca di tutti i valori. Essa vale sia per gli individui particola- 

ri che per gli individui collettivi, senza i quali non si potrebbe- 

ro concepire neppure i primi e che, da parte loro, possono 

essere concepiti soltanto in base ai presupposti indicati. 


In tal modo il concetto centrale della dottrina dei valori 

diventa quello dell’individualità, nel senso di un’unificazione 

di fattuale e di ideale, di dato naturalmente e in conformità 

alle circostanze e, nel medesimo tempo, di eticamente imposto. 

In questo senso il concetto di individualità coincide con quello 

della fondamentale relatività dei valori. Ma relatività dei valo- 

ri non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbitrio, bensì 

designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò mai deter- 

minabile atemporalmente e universalmente, di ciò che esiste di 

fatto e di ciò che dev'essere. Questo intreccio può e dev'essere 

colto ogni volta — sia che si tratti dell’individualità singola 

di una persona, sia che si tratti dell’individualità collettiva di 

un popolo e di una comunità culturale — mediante l’auto-rifles- 

sione e l’approfondimento in se stessi, nonché mediante la com- 

prensione e la conoscenza della situazione e del condizionamen- 

to storico. Non è senz'altro a portata di mano, ma dev'essere 

creato; non si tratta quindi di un naturalismo di tipo vegetale. 

Proprio perciò questo intreccio non è qualcosa di estetico, che 

induca all’auto-godimento o alla semplice curiosità — come 

viene spesso frainteso — ma è un compito e un dovere, e al 

tempo stesso anche un orientamento universale, assai sobrio e 

pratico, sulle possibilità e sui presupposti della situazione. Esso 



870 ERNST TROELTSCH 



esige un sapere spassionato, una volontà chiara, uno sguardo 

acuto. Tanto meno l’individuale, inteso in questo senso, costitui- 

sce una mera categorica logica, che debba essere applicata a 

qualsiasi oggetto in virtù di una coercizione logica, a fianco di 

una considerazione dal punto di vista di leggi generali che 

derivi dalla medesima coercizione. Esso è piuttosto una creazio- 

ne umana e una realtà metafisica, l’intreccio di fatto e di 

spirito, di natura e di ideale, di necessità e di libertà, di univer- 

sale e di particolare. Esso emerge con forza e importanza mol- 

to diversa dagli sfondi nascosti dei processi storici. Vi sono 

uomini e periodi, strati sociali e gruppi ricchi di individualità 

e poveri di individualità; i primi sono sempre caratterizzati da 

una salda fede in questo loro procedere dall’universale. Essi 

percepiscono la loro particolarità come missione divina e come 

compito, e non badano all’interesse della propria personalità, 

ma alla specificità del loro compito. Si apre così, muovendo 

dall’individuale, lo sguardo verso la metafisica, del quale non 

si ritiene di aver bisogno quando ci si attiene a ciò che è 

astrattamente generale, poiché questo in apparenza sostituisce 

la metafisica. Il costante procedere dell’individuale e dei suoi 

criteri da uno sfondo oggettivo e universale è però un’idea che 

non si può formulare senza la metafisica, a meno di non farla 

rientrare nell’ambito — del resto impossibile — del mero acci- 

dentale o dell’interessante auto-compiaciuto. A questo punto si 

stabilisce la relazione della dottrina dei valori con la metafisi- 

ca, che in altri punti appare meno pressante. Ma la relatività 

dei valori ha senso soltanto se in questo relativo c'è qualcosa 

di assoluto che vive e che crea; altrimenti essa sarebbe soltanto 

relatività, non già relatività dei valori. Essa presuppone un 

processo vitale dell’assoluto, nel quale questo può essere colto e 

formato in ogni punto nella maniera corrispondente a tale pun- 

to. L’assoluto dev'essere colto ovunque e in primo luogo dev’'es- 

sere anche formato. Infatti esso è una volontà di creazione e di 

forme, la quale negli spiriti finiti diventa auto-formazione in 

base a un fondamento e a un impulso divino. E questi diversi 

punti devono connettersi e succedersi secondo una determinata 

regola, che costituisce l’essenza del divenire dello spirito 

divino e che si afferma, nonostante tutto, nelle vicende acciden- 

tali e negli erramenti o nei cedimenti della volontà. Tutto ciò 



ERNST TROELTSCH 871 



inerisce al concetto d’individualità, di relatività dei valori, di 

criterio e di sempre nuova creazione. Questa connessione con 

l’assoluto può essere un mito, com'era un mito la dottrina 

platonica della partecipazione Ia quale conteneva già il nucleo 

di una dottrina dell’individualità, almeno nella misura in cui 

lo consentiva lo spirito dell’antichità, che ipostatizzava i valori 

e li considerava come affari generali dello stato. Anche la dot- 

trina cristiana dell’auto-disvelamento di uno spirito divino vi- 

vente nello spirito finito costituisce un mito; però essa ha con- 

dotto alle più fini e profonde osservazioni psicologiche, che 

chiariscono gli enigmi dell'anima molto più profondamente di 

quanto non possano farlo le aride teorie psico-genetiche o aprio- 

ristiche con cui si sono sostituiti gli antropomorfismi e i duali- 

smi, certamente sovente rozzi, di questo modo di pensare. Con 

mezzi semplici come la derivazione psicologica dal piacere o 

da un altro principio analogo, o come l’estrazione dei caratteri 

meramente formali, non si può cogliere il miracolo dei valori, 

dell’individualità e della relatività, che la storia pone in mille 

modi davanti ai nostri occhi?. 



a. Su tutta questa tematica si veda T. Lit, Geschichte und Leben, 

Leipzig, 1918, assai vicino al punto di vista qui sviluppato. Stimolante e 

per molti versi affine è pure R. MicLer-FrerenFELS, Philosophie der 

Individualitàt, Leipzig, 1921. In questo libro si percorre energicamente 

fino in fondo la strada, sovente tentata, della trasformazione del punto 

di partenza cartesiano, sostituendo la coscienza con il concetto di incon- 

scio, e con la correlazione tra soggetto e oggetto nell’universale corrente 

cosmica della vita, che lampeggia nell’io singolo, nel singolo momento 

della coscienza. Ma in tal modo il concetto di individualità viene dissolto 

in quello del semplice io o dell'essere singolo, e quest'ultimo viene poi 

radicato nell’universale corrente della vita, al di sopra o al di sotto della 

coscienza. Si dissolve così l'intreccio di generale e di particolare, di asso- 

luto e di relativo, che mi raffiguro; l’individuale diventa immediatamente 

caos e turbine, e la valutazione diventa anche qui qualcosa di sempli- 

cemente razionale-generale, che deve poi essere una « razionalizzazione » 

sempre soltanto parziale e relativa, sempre fittizia, inevitabile per gli 

scopi della vita. Nessuno sa da dove questa possa venire, in queste circo 

stanze, dal momento che l’autore non vuole vedervi semplicemente delle 

finzioni utili sotto il profilo biologico. — Analoghe obiezioni continuo a 

mantenere contro le idee affini esposte da G. Simmer in Lebensanschauung, 

Miinchen und Leipzig, 1918. Qui l’individuale diventa un felice caso di 

coincidenza della vita con una forma che la penetra. Anch'egli conosce 



872 ERNST TROELTSCH 



In tal modo siamo ritornati alla storia. Di fatto l’uomo che 

agisce e la storia che parla di lui non possono affatto essere 

compresi senza il concetto della relatività dei valori. Per quan- 

to riguarda l’uomo che agisce basta fare riferimento a Goethe, 

la cui dottrina dell'attività sempre nuova e vivente, che scaturi- 

sce dall'esigenza quotidiana, che trova conferma nella sua fe- 

condità ed è, in ultima analisi, fondata su un impulso divino, 

rappresenta addirittura il vangelo della relatività dei valori. 

Da tutt'altro versante Kierkegaard ha formulato, nelle sue di- 

scussioni estremamente istruttive con Hegel e con il Romantici- 

smo, la stessa idea: « L'elemento storico è l’unità del metafisi- 

co e dell’accidentale. Io divento a un tratto consapevole di me 

stesso, nella mia necessità e nella mia finitudine accidentale 

(in quanto io, questo essere determinato, nato in questa regio- 

ne e in quest'epoca, sono sotto l’influenza molteplice di tutte 

queste mutevoli circostanze). E quest’ultimo aspetto non può 

essere trascurato, anzi la vera vita dell'individuo è l’apoteosi 



quindi nella storia soltanto le epoche di grazia, cioè le poche isole in cui 

si raggiunge tale felice coincidenza. Per me l’individuale come fatticità è 

distinto dali’individualità che dev’esserne formata come suo compito: risul- 

ta così possibile vedere un’aspirazione e un travaglio continuo attraverso cui 

queste isole si riuniscono a formare dei continenti. Le isole simmeliane 

sono soltanto le vette di questo massiccio montuoso che le connette. — È 

facile scorgere quanto la mia idea sia vicinissima alla concezione di Wil- 

helm von Humboldt. Ma ja fondazione gnoseologica e la valutazione 

relativa all'etica e alla filosofia della storia sono differenti. Su Humboldt 

si veda l'opera citata di E. SpranceER e l’analisi (condotta da un punto di 

vista antitetico) di J. GoLDFRIEDRICH, Die historische Ideenlehre in Deutsch- 

land, Berlin, 1902, che costituisce del resto la sola analisi utilizzabile del 

libro. Per il modo in cui il problema si configura presso un pensatore 

evoluzionista che rifiuta l’individualismo storico, si può vedere Hans 

DriescH 5, Si svaluta la storia, e si hanno criteri soltanto in base all'unico 

elemento che si sviluppa, cioè al sapere, Driesch stesso (nella Wirklich- 

keitslehre, Leipzig, 1917, PP- 327 -34) si riferisce a Schopenhauer e agli 

Indiani. Sui diversi concetti di individualità cfr. H. ScHmaLENBACH, Indi 

vidualitit und Individualismus, « Kantstudien », XXIV, 1920, pp. 365-88. 



5. Hans Driesch (1867-1941), zoologo, biologo e filosofo tedesco, autore di Der 

Vitalismus als Geschichte und als Lehre (1905), della Philosophie des Organischen 

(1909), della Ordaungslehre (1912), di Leib und Scele (1916), della Wirklichkeitslehre 

(1917), della MerapAysik der Natur (1926) e di numerose altre opere, formulò una 

concezione vitalistica della realtà in opposizione al punto di vista del meccanicismo. 



ERNST TROELTSCH 873 



della finitudine, la quale non consiste nel fatto che l’io privo 

di contenuto esca di soppiatto da questa finitudine per volatiz- 

zarsi e svaporare nella sua emigrazione celeste, ma nel fatto 

che il divino abita e si trova nelle finitudine ». Dal lato dell’uo- 

mo questo divino individualizzato non può essere colto, secon- 

do lo stesso Kierkegaard, solamente nel salto e nel rischio esi- 

stenziale; non si tratta di una concrezione estetico-panteistica, 

ma di un prodotto dell’azione e dell’auto-formazione che si 

deve rischiare nel pericolo dell'errore e che ci si deve ogni 

volta riproporre per acquisire, nella ripetizione, una connessio- 

ne e una consistenza *. Interessanti sono anche le considerazio- 

ni con cui il generale von Radowitz® guarda retrospettivamen- 

te al suo lavoro, e che si possono qui citare per le osservazioni 

che vi aggiunge a commento uno dei nostri storici più significa- 

tivi. Radowitz aveva combattuto per la realizzazione di un siste- 

ma di norme religiose e razionali di politica e di cultura, e nei 

suoi Neue Gespriche (1851), in genere veramente istruttivi, era 

pervenuto a questo risultato: «la verità non è assoluta, bensì 

relativa allo spazio e al tempo » — ma, beninteso, rimane pur 

sempre verità. Osserva in proposito Meinecke: « Tutte queste 

idee erano onde nella corrente del movimento generale dell’epo- 

ca, che era diretto a frantumare dogmi, speculazioni e costru- 

zioni astratte, e a sostituire l'elemento di assoluta verità e gui- 

da nella vita con ciò che è storicamente vero e vivente. Così 

Radowitz, nell’ultimo stadio del suo sviluppo, si approssimava 

al moderno realismo storico »*. E alcune pagine prima: « Due 



a. Cfr. H. Reuter, S. Kierkegaards religionsphilosophische Gedanken 

im Verhéltnis zu Hegels religionsphilosophischem System, Leipzig, 1914, 

Pp. 42-43. Si veda anche Ranke (Politisches Gespràch cit., pp. 337-39): 

« Ogni vita reca in sé il proprio ideale: l'impulso intimo della vita spiri- 

tuale è il movimento verso l'idea, verso una maggiore eccellenza. Questo 

impulso è innato, radicato nella sua origine... Quante comunità spirituali 

terrene, tratte alla luce dal genio e dall'energia morale, comprese entro 

uno sviluppo inarrestabile, ognuna a proprio modo! Guarda a queste co- 

stellazioni nei loro corsi, nella loro azione reciproca, nei loro sistemi! ». 



6. Joscph Maria von Radowitz (1797-1853), uomo politico tedesco, ebbe una 

parte importante nella politica prussiana dopo il 1848; nel 1858 fu per alcuni mesi 

ministro degli affari esteri, conducendo una politica apertamente anti-austriaca. 


7. F. Meinecge, Radowitz und die deutsche Revolution, Berlin, 1913, p. 533. 



874 ERNST TROELTSCH 



compiti strettamente connessi tra loro si ponevano allo spirito e 

alla volontà di quell’epoca: ricollegare alla realtà la sfera delle 

massime ideali, minacciate di isolamento, e riunire organica- 

mente all’interno di tale realtà le potenze vitali antiche e nuo- 

ve, passate e future »*. Si tratta della fondamentale teoria del 

«realismo storico » di cui Meinecke parla qui e in altri passi, 

e con cui si indica la trasformazione della storia ideale di tipo 

hegeliano e della storia organicistica di tipo schellinghiano, ma 

anche della storia politica troppo soggettivamente diretta agli 

scopi del presente, nel realismo universale della metà del seco- 

lo xix. Questo realismo storico è, almeno in Germania, qualco- 

sa di completamente diverso dall’equiparazione della storia 

con le scienze della natura. Esso non si esaurisce affatto nel 

forte rilievo dato agli elementi economici e sociologici nella 

comprensione storica 0 nell’apprezzamento dell’accidentale, del- 

l’irrazionale e della personalità. La sua essenza più propria 

non è altro che l’idea dominante della relatività dei valori e 

dell’individuale, sia che si tratti di individualità particolari o 

di individualità collettive. Esso risulta quindi completamente 

autonomo dal realismo delle scienze naturali; e anche con la 

politica realistica di Bismarck ha a che fare soltanto nella misu- 

ra in cui questa ha contribuito a rendere diffidenti verso le 

risoluzioni troppo idealistiche del reale e dei suoi conflitti in 

generalità ideali e in contraddizioni meramente logiche. Per il 

resto, questo realismo è quanto mai lontano dalla concezione 

amorale e cinico-scettica della storia: esso vede nelle formazio- 

ni storiche il divino nelle sue concrezioni e nella sua lotta 

contro il caos e la malvagità, come mette in rilievo lo stesso 

Meinecke. Certamente, esso è stato finora troppo poco indaga- 

to sotto il profilo teoretico, ed è difficile estrarre i suoi tratti 

fondamentali più generali dalla smisurata letteratura storica. 

Esso è ancora molto insicuro nel cogliere l’assoluto nel relati- 

vo, e perciò non trova o non cerca la via verso una sintesi 

culturale contemporanea®. Non si può tuttavia disconoscere 



a. Sul relativismo storico si veda G. P. Goocn, History and Historians 

in the Nineteenth Century, London, 1913, nonché J. E. E.D. Acton, The 



8. Op. cit., p. 522. 



ERNST TROELTSCH 875 



che proprio con la più stretta connessione tra storia politica e 

storia della cultura — alla quale tende tutta la storia moderna 

— il realismo storico si dirige soprattutto all’idea dell’individua- 

lità nel senso qui descritto, e quindi anche all’idea della relativi- 

tà dei valori. Risulta quindi chiaro che tutta questa storia non 

ha affatto rinunciato all'idea di una connessione interna e di 

un profondo fondamento spirituale dello sviluppo, ma anzi 

scorge — almeno in linea di principio — nell’individuale un 

universale e nel relativo un assoluto, anche se, per il suo timo- 

re dinanzi alla filosofia, di rado si arrischia a determinare in 

modo più preciso e concreto questo rapporto. Anche qui si 

deve osservare che questo relativismo dei valori e questo reali- 

smo appartengono in modo preponderante alla storia e all’eti- 



German Schools of History, « English Historical Review », I, 1886, trad. 

ted. col titolo Die neuere deutsche Geschichtswissenschaft (a cura di 

J. Imelmann), Berlin, 1887, nonché E. RorHacger, Einleitung in die Gei- 

steswissenschaften, Tùbingen, 1920, pp. 130-90 (la letteratura relativa si 

trova a pp. 163-64). Rothacker riconosce giustamente in esso uno costitu- 

zione spirituale, un atteggiamento di valore e una dottrina dello sviluppo, 

senza però mai giungere a una caratterizzazione vera e propria che muova 

dal punto centrale. — Un'indagine approfondita risulta qui impossibile. 

Basterà accennare a varie osservazioni di Meinecke, che più di tutti accom- 

pagna il pensiero storico con una riflessione su di esso e che spiega da 

parte sua il realismo storico come uno specifico atteggiamento spirituale. 

Del suo Radowitz ho sopra riferito i punti importanti. Da Weltbirgertum 

und Nationalstaat cit. prendo nota dei punti seguenti: carattere decisivo 

del concetto di individualità (p. 138); il sorgere dello spirito moderno 

e in particolare del passaggio dal pensiero costruttivo al pensiero empi- 

rico, dal pensiero idealistico-speculativo a quello realistico (p. 265); la rela- 

tività dei valori e tuttavia l’insostituibilità dell’individuale (p. 271); il 

«panteismo ottimistico-realistico, che del sentimento trapassa subito ai 

fatti » (p. 281). E ancora: « Alla fine si pervenne alla giusta delimitazione, 

per cui ideale ed esperienza, oggetto considerato e soggetto considerante 

furono distinti in modo da rendere a tutti giustizia: una delimitazione — 

si può quasi dire — nello spirito di Kant, anche se si trattava di un con- 

fine fluido e dileguantesi. Ma questo fluire del particolare nel generale, 

dell'esperienza nella speculazione, era fondato sulla natura vera e propria 

delle cose. L'elemento principale in tutto questo era che il regno dell’espe- 

rienza veniva liberato, mentre veniva allontanato ulteriormente quello dei 

tentativi di interpretazione universale e speculativa » (p. 289). Noto poi 

da Preussen und Deutschland, Miinchen, 1918: « Ciò che finora sembrava 

intelligibile soltanto come emanazione di determinati princìpi, si tra- 



876 ERNST TROELTSCH 



ca tedesca, che ci hanno insegnato con Kant la separazione tra 

ciò che è dato naturalmente e ciò che è imposto idealmente, e 

con il Romanticismo l'intreccio organico delle forze storiche 

in un’individualità di volta in volta creativa, e che quindi cerca- 

no il loro compito nell’unificazione delle due tendenze. La posi- 

zione di primario rilievo attribuita allo stato e alla politica 

realistica costituisce perciò soltanto 40 dei suoi tratti caratteri- 

stici, ma non quello decisivo. Anche senza questa particolare 

inclinazione il relativismo dei valori è sempre il punto più im- 

portante nel diritto, nell’economia, nella società, nella religio- 

ne e nell’arte, anche nelle idee ultime e più generali di razze e 

di ambiti culturali. Le idee del Politisches Gesprich di Ranke 

conservano tutta la loro verità anche se le si applica non sola- 

mente o non prevalentemente allo stato. Invece la storia del- 



sformò — agli occhi di una considerazione realistica delle cose — nel risul- 

tato di necessità momentanee, in adattamenti alla situazione » (p. It1); 

« quel flusso del divenire che lascia scorrere ciò che nello spirito è saldo 

non già per farne gioco di onde, ma perché l’eterna e aremporale natura 

divina venga riconosciuta nella ricchezza e nella connessione interna 

delle sue produzioni semporali » (p. 114). Meinecke scorge molto chiara- 

mente anche la stretta connessione della sintesi culturale contemporanea 

con la conoscenza storica dell’individuale passato, dove un elemento 

determina l’altro. « La fonte della luce che cade sul passato risiede negli 

ideali di vita dell'osservatore: così la storia e la vita, l'io e il mondo 

confluiscono in modo misteriosamente vivente, in un gioco di riflessi con- 

trapposti » (p. 104). « Il nostro pensiero storico e il nostro ideale culturale 

vivono e si muovono nell’intuizione della molteplicità e dell’accostamento 

di stati, nazioni, culture libere e forti... In questo specchio della divinità 

noi guardiamo ancora oggi, affascinati e creduli come cent'anni or sono » 

(p. 502). Certamente, da questa correlazione data insieme con l’idea della 

relatività dei valori Meinecke si solleva — al pari di Ranke — a una con- 

cezione puramente contemplativa, assoluta, della storia in sé: ma di ciò 

si parlerà in seguito. — Sull’antitesi del realismo storico tedesco, che è al 

tempo stesso mistica, rispetto al pensiero anglo-francese si veda l’acuto 

scritto di E. KaurMann, Kritik der neukantischen Rechtsphilosophie, Ti- 

bingen, 1921, p. 92 sgg., dove sono sottolineate anche le deficienze di 

realizzazione. Ma anche in quel campo vi sono posizioni diverse. Cfr. anche 

il saggio di E.R. Curtius, Das franzòsische Universitàtsleben, « Frank- 

furter Zeitung », 22 maggio 1918 (edizione serale), il quale scrive: « è inte- 

ressante che questi giovani Francesi del 1918 vedano nella Germania di 

Goethe, del Romanticismo e dell’età successiva un modello per la ‘ giusta 

sintesi tra speculazione ed esperienza” ». 



ERNST TROELTSCH 877 



l’Europa occidentale vive piuttosto nella prosecuzione dell’Illu- 

minismo, il quale tendeva a sviluppare il dover essere dall’ele- 

mento « naturale » e quindi a rifarsi a fini astrattamente univer- 

sali, mentre il suo realismo si faceva valere nella considerazio- 

ne dei condizionamenti naturali e sociologici e l’individuale 

veniva per lo più nascosto o assunto in maniera inconsapevole 

nell'inserimento dei propri ideali in quei valori universali « na- 

turali ». Di qui è nata una vasta polemica: ciò che agli uni 

appare insieme cinicamente brutale e mistico, agli altri appare 

come superficialità e ipocrisia. Ma in verità il realismo privo 

di pregiudizi risulta ovunque molto diffuso. Ciò appare chiara- 

mente dall’eccellente libro di G. P. Gooch * — il quale si distin- 

gue per il limpido panorama dei risultati conseguiti dai diversi 

studiosi — anche se nella storiografia inglese e francese emer- 

ge innegabilmente una preponderanza dei valori nazionali, di 

partito o « naturali » rispetto all’universale relatività dei valori. 

E non di rado ciò accade anche da noi. 


È evidente che questa relatività storica dei valori presenta 

una certa analogia con la dottrina della relatività fisica, che 

oggi prevale in tutto il mondo nell’impostazione problematica 

così fortemente potenziata da Einstein. Ciò non avviene a ca- 

so, né è privo di fondamento oggettivo, anche se la relatività 

dei valori si è formata dall’epoca del Romanticismo e del reali- 

smo storico senza alcuna relazione con la seconda. Il fonda- 



a. G. P. GoocH rimprovera per esempio a Sismondi? « la mancanza di 

relatività » (op. cit., p. 137), e a Carlyle che «egli non si rese mai conto 

che il dovere principale di uno storico non è né l'apologia né l’invettiva, 

ma l’interpretazione dei processi complessivi e degli ideali in conflitto, 

che hanno costituito la varietà delle vita umana » (p. 339). Questo è il 

realismo storico; certamente, nella formula interpretativa che spesso ri- 

corre in Gooch vi sono problemi filosofici in cui egli non si addentra. 


b. Anche in me mancava qualsiasi relazione del genere, e me ne sono 

reso conto solamente a fatto compiuto. Altri l'hanno rilevato prima di me: 

A.C. Bouquet (Is Christianity the Final Religion?, London, p. 241) mi 



9. Jean-Charles Simonde de Sismondi (1773-1842), storico ed economista svizzero, 

autore della Histoire des républiques italiennes au Moyen dge (1807-1818), dei Nos- 

veaux principes d'économie politique (1819), dell'Histoire des Frangais (1821-1844) e 

di numerosi saggi raccolti negli Etwdes sur les constitutions des peuples libres (1836) 

e negli Erudes sur l’économie politigue (1837), nonché di varie altre opere. 



878 ERNST TROELTSCH 



mento interno dell’incontro risiede nel fatto che la relatività 

fisica è la forma d’individualità decisiva sul terreno della scien- 

za fisica, cioè è la particolarità della posizione da cui si deve 

ogni volta stabilire e calcolare il sistema di riferimento. Ciò 

accadeva già nel sistema galileiano-newtoniano, ma qui la validi- 

tà universale del principio d’inerzia, considerato come una spe- 

cie di assoluta verità di ragione, poteva nascondere le conse- 

guenze della relatività della posizione. Se, come avviene in Ein- 

stein, l'inerzia viene dissolta e si afferma una velocità crescente 

dei movimenti, la posizione stessa viene immessa da ogni par- 

te in un movimento reciproco e mutevole, diventando così del 

tutto singolare. Ma anche questa relatività non è un relativi- 

smo illimitato, bensì — nella misura in cui il sistema di riferi- 

mento viene calcolato da ogni posizione ed è possibile determi- 

nare matematicamente, nonostante la sua mobilità, la relazio- 

ne con gli altri oggetti — permane l’assoluto nel relativo, il 

carattere di sistema e di riferimento della realtà naturale, a cui 

contribuisce anche la costanza della velocità maggiore di tutte, 

la velocità della luce. Ma anche se non fosse possibile conserva- 

re quest’ultimo principio, si potrebbe certamente stabilire attra- 

verso il calcolo il suo mutamento e costruire in tal modo la 

possibilità di una sistematica, diversa soltanto da una posizione 

all’altra. 


In tutto il resto le due dottrine della relatività sono certo 

fondamentalmente diverse. Ma il punto principale del loro ac- 

cordo è abbastanza importante: l’incontro del relativo e dell’as- 

soluto nell’individuale — qui come fatto, lì come compito. 

Alla posizione particolare corrisponde l’individualità della situa- 

zione storica; al sistema di riferimento universale, diverso di 

caso in caso, corrisponde lo sviluppo interno o la connessione 

del divenire storico, che dev'essere costruita di nuovo a partire 

da ogni momento culturale e da ogni nuovo ideale. 


Questo secondo punto, cioè l’immagine dello sviluppo stori- 



definisce «una specie di Einstein del mondo religioso ». Cfr. anche 

A. Dierericn, Die neue Front, Berlin, 1922, p. 168 sgg. In entrambi 

i casi si tratta del problema del criterio, su cui ha attirato la mia atten- 

zione, subito dopo la conferenza, uno dei più eminenti fisici. Invece il 

raffronto tra Einstein e Spengler, che si trova spesso, è del tutto insen- 





sato. Einstein non è un scettico! 



ERNST TROELTSCH 879 



co-universale che corrisponde alla sintesi culturale contempora- 

nea, rappresenta quindi il secondo tema centrale della filosofia 

materiale della storia, già presente da sempre nel primo tema, 

ma che adesso richiede una considerazione a parte. Per chi 

proviene da Kant, Fichte, Schiller, Nietzsche il primo punto è 

da tempo in posizione di rilievo; per chi proviene da Schel- 

ling, Hegel, Ranke*, Comte e Spencer lo è invece il secondo. 

Ad esso sarà dedicata un’analisi particolare nel prossimo capito- 

lo, dove avremo a che fare con un'elaborazione letteraria mol- 

to più ricca del tema, e tratteremo in modo più approfondito 

le teorie relative. 



a. Ranke sottolinea però entrambi gli aspetti: « Ciò che importa è che 

si rimanga sempre fedeli a se stessi, collegando il nuovo con il vecchio, 

la resistenza con il procedere in avanti, incamminandosi sicuramente e 

grandiosamente sul cammino dello sviluppo» (Reflexionen iiber die 

Theorie [ossia sul sistema dei valori assoluti della ragione], in Werke, 

volumi XLIX-L, p. 237). Ma Ranke tende a privilegiare lo sviluppo ri- 

spetto alla propria e contemporanea creazione sintetica. La forza vera, 

storicamente fondata, è per lui identica con l'energia morale. « Potrai 

menzionarmi poche guerre importanti per le quali non si possa dimo- 

strare che la vera energia morale ha riportato la vittoria » (op. cit., 

p.- 327). Certamente, che cosa voleva dire « energia vera »? Le due cita- 

zioni contengono entrambi i temi di cui qui si tratta, e i loro sfondi 

devono essere presi in esame separatamente. Quando assolutisti morali 

e di altro genere designano Ranke come « adoratore del successo », que- 

sto non è del tutto sbagliato. Ma ciò dipende dal prevalere del concetto 

di sviluppo che si può riscontrare in lui, in Hegel e in molti alui. Ma 

anche questo non è propriamente corretto: infatti Ranke conosceva la 

correlazione del concetto di sviluppo con il concetto di valore, e se non ha 

determinato con precisione quest'ultimo, lo ha sempre coscientemente 

presupposto. Tale correlazione costituisce il problema vero e proprio; e 

uno degli scopi principali del mio libro è di chiarirla e di trarre le neces- 

sarie conseguenze pratiche da questo chiarimento. Certamente soltanto 

il secondo volume conterrà le conseguenze pratiche, vale a dire l’atteg- 

giamento che ne risulta nei confronti della storia; ma già il quarto capi- 

tolo di questo primo volume le prepara. 



FRIEDRICH MEINECKE 



36. STORICISMO TEDESCO. 



NOTA BIOGRAFICA 



Friedrich Meinecke nacque a Salzwedel, presso Magdeburgo, il 30 

ottobre 1862. Nove anni dopo la famiglia si trasferì a Berlino, dove 

Meinecke compì gli studi liceali e (eccetto per due semestri passati a 

Bonn) anche quelli universitari, seguendo tra gli altri l’ultimo corso di 

Droysen. Dopo aver conseguito il dottorato a Berlino nel 1886, con una 

dissertazione sull’autenticità di un documento della storia tedesca del 

primo Seicento, entrò l’anno seguente nell'amministrazione degli archivi 

prussiani. Nel 1894, alla morte di Hermann von Sybel — che aveva 

guidato i suoi primi passi di storico — Meinecke assume la direzione 

della « Historische Zeitschrift », destinata a diventare, sotto la sua 

guida, il maggiore organo della storiografia tedesca. Risale a questi 

anni la preparazione della monumentale biografia di un generale delle 

guerre napoleoniche, Das Leben des Generalfeldmarschall Hermann von 

Boyen (Stuttgart, 1896-99). Nel 1896 ottiene l’abilitazione a Berlino, con il 

primo volume di questa biografia, e nel 1901 viene chiamato all’Universi- 

tà di Strasburgo, da dove passerà nel 1906 a Friburgo e nel 1914 

a Berlino. 


Erede della tradizione storiografica prussiana dell'Ottocento, ammira- 

tore di Bismarck e della sua costruzione politica, Meinecke ha ben 

presto concentrato il proprio interesse sulla resistenza al dominio napoleo- 

nico e sul processo di formazione della Germania come stato nazionale. 

Rientrano in questo filone di ricerca il volume Des Zeitalter der deu- 

tschen Erhebung (Bielefeld-Leipzig, 1906) e i saggi raccolti in Von Stein 

zu Bismarck (Berlin, 1909), nonché il successivo volume Radowitz und 

die deutsche Revolution (Berlin, 1913) e numerosi altri studi sui rap- 

porti tra Prussia e Germania. Ma esso trova la sua maggiore espressione 

nella prima grande opera di Meinecke, Weltbiirgertum und National 

stat (Miùnchen-Berlin, 1908; tr. it. Firenze, 1930), dedicata all’esa- 

me del processo di traduzione in termini politici dell'ideale nazionale 

tedesco, e del contemporaneo processo di allargamento dell’atteggiamento 

politico prussiano che fa suo quell’ideale c gli offre una base concreta di 

realizzazione. La « nazione culturale » tedesca e la « nazione territoria- 

le» prussiana appaiono qui i termini dialettici di una relazione in virtù 

della quale la Germania perviene a costituirsi come stato nazionale. Il 



884 FRIEDRICH MEINECKE 



punto di arrivo di tale processo viene indicato nell'opera di Bismarck, 

di cui Meinecke fornisce una giustificazione storico-politica, riconoscen- 

do in essa la confluenza di uno sforzo storico secolare. Nel corso di 

quest’analisi Meinecke enuncia una concezione dello stato che appare 

fondata sull’attribuzione ad esso del carattere dell’individualità: in quan- 

to individuo, lo stato possiede il diritto all'auto-determinazione, e il suo 

compito è quello di provvedere alle condizioni che garantiscono la 

permanenza e l’accrescimento della sua potenza. Il distacco dal cosmopo- 

litismo illuministico appare quindi la premessa indispensabile per il 

riconoscimento del valore autonomo dello stato, del suo diritto ad affer- 

marsi e a farsi valere nei confronti degli altri stati. 


Questa prospettiva, al tempo stesso politica e filosofica, è stata posta 

in crisi dalla guerra e dalla sconfitta tedesca. Se già negli anni di 

Strasburgo, e soprattutto in quelli di Friburgo, Meinecke aveva corretto 

in senso liberale il giovanile nazionalismo conservatore di stampo prussia- 

no, dopo il 1918 egli appoggia la repubblica di Weimar, pronunciandosi 

in favore della democrazia. Ciò lo spinge — sulle tracce di Weber e di 

Troeltsch, suo collega a Berlino — ad assumere un atteggiamento critico 

verso la soluzione bismarckiana del problema nazionale tedesco e a ricono- 

scerne le insufficienze. Fin dai saggi raccolti nel volume Nach der 

Revolution (Minchen-Berlin, 1919) egli intraprende così un'opera di 

revisione delle prospettive storiografiche tradizionali, da lui stesso condi- 

vise negli anni precedenti, la quale si tradurrà, sul piano politico, in una 

costante opposizione al nazismo. Questo diverso orientamento di pensie- 

ro si rivela chiaramente nella seconda grande opera di Meinekce, Die 

Idee der Staatsrison in der neueren Geschichte (Minchen-Berlin, 1924; 

tr. it. Firenze, 1942), che ha il suo motivo conduttore nell’antitesi tra 

krdtos ed éthos, tra potenza e spirito. Quest’antitesi si presenta, agli 

occhi di Meinecke, come costitutiva del mondo della politica; e nel 

prevalere della potenza sullo spirito — quale si è avuto appunto nella 

storia tedesca da Bismarck in poi — egli addita il demone intrinseco alla 

politica. Lo stato è nel medesimo tempo potenza e spirito; ma proprio 

per questo motivo non deve smarrire la propria essenza spirituale, 

riducendosi a mera potenza. In quanto condizionata da una situazione 

oggettiva, e quindi inserita in una serie di rapporti causali, l’esistenza 

dello stato sorge su una base naturale; ma lo stato è pure orientato verso 

la realizzazione di valori, e perciò si eleva a una vita spirituale. La 

«ragion di stato» (che dà il titolo all'opera) è il ponte gettato tra la 

potenza e lo spirito allo scopo di risolvere la loro antinomia e di 

garantire la permanenza dello spirito nell’ambito della politica. Ma tale 

antinomia non è altro che un caso specifico di un contrasto più generale, 

quello tra il fondamento naturale della storia e il compito, ad essa 

inerente, di realizzare valori culturali. In questi stessi anni, attraverso la 



FRIEDRICH MEINECKE 885 



collaborazione con Troeltsch e lo studio dell'idea della «ragion di 

stato », Meinecke approda anch'egli alla teoria dei valori. Fin dal saggio 

Personlichkeit und geschichiliche Welt (1918), egli aveva rivendicato 

l'autonomia della personalità, definendola in base al rapporto tra necessi- 

tà e libertà, poi ripreso per qualificare la potenza e lo spirito nella loro 

antitesi; in seguito, in Ernst Troeltsch und das Problem des Historismus 

(1923) e in Kausalitàten und Werte in der Geschichte (1924), l’afferma- 

zione dell'autonomia dei valori rispetto alle serie causali che costituisco- 

no il processo storico lo conduce a doverne giustificare l’assolutezza, 

messa in questione dalle conseguenze relativistiche dello storicismo. 


Dopo essersi opposto all'avvento del nazismo, Meinecke è costretto al 

silenzio dopo il 1933, e nel ’35 deve lasciare Ia direzione della « Histori- 

sche Zeitschrift ». Il problema dello storicismo e del suo rapporto con i 

valori diventa, in questo periodo, l'oggetto principale della riflessione e 

dell'analisi storica meineckiana. Convinto che lo storicismo non conduca 

necessariamente al relativismo, ma possa coesistere con la fede in valori 

assoluti — secondo l'insegnamento che egli trova in Goethe e in Ranke 

— Meinecke traccia, in Die Entstehung des Historismus (Minchen-Ber- 

lin, 1936; tr. it. Firenze, 1954), un ampio quadro dello sviluppo dello 

storicismo dalle sue origini settecentesche fino alla cultura romantica. Al 

suo inizio, lo storicismo si è affermato in antitesi al giusnaturalismo e al 

suo presupposto di una ragione umana immutabile, depositaria di un 

sistema di verità eterne: l'atteggiamento giusnaturalistico appare così il 

grande antagonista dello storicismo. In seguito lo storicismo ha fatto 

valere, nel pensiero tedesco della fine del secolo xvitt, una diversa forma 

di considerazione della realtà, fondata su due princìpi — il principio 

dell’individualità di ogni fenomeno storico e il principio dello sviluppo. 

Ma questa concezione individualizzante ed evolutiva del processo storico 

non riveste senz'altro un significato relativistico; e proprio la lezione di 

Goethe e di Ranke ci dimostra che lo storicismo non esclude la possibili 

tà di considerare ogni epoca, ogni momento della storia in riferimento a 

valori assoluti. In vari saggi, poi raccolti in Vom geschichtlichen Sinn 

und vom Sinn der Geschichte (Leipzig, 1939; tr. it. Napoli, 1948) e 

negli Aphorismen und Skizzen zur Geschichte (Leipzig, 1942, 1953; tr. 

it. Napoli, 1962), Meinecke ha ribadito — richiamandosi soprattutto a 

Ranke — la presenza dell’assoluto nella storia, e al tempo stesso la sua 

irriducibilità al processo storico. Ma in tale maniera il rapporto tra 

immanenza e trascendenza dei valori viene a configurarsi come un 

mistero, la cui soluzione può essere fornita non già in termini razionali, 

ma soltanto dal ricorso alla fede. 


Dopo la fine della guerra e il crollo del nazismo Meinecke ha ripreso 

la critica dell’edificio politico bismarckiano, cercando — in Die deutsche 

Katastrophe (Wiesbaden, 1946; tr. it. Firenze, 1948) — una spiegazione 



886 FRIEDRICH MEINECKE 



del fenomeno nazista che ne individuasse le radici profonde nella storia 

tedesca. Questa critica lo ha pure condotto a moderare l’entusiastico 

richiamo a Ranke delle opere precedenti, e a rivalutare invece l’importan- 

za di Burckhardt. In seguito ebbe gran parte nella costituzione della 

Freie Universitit di Berlino-Ovest, di cui fu il primo rettore. Morì a 

Berlino-Dahlem il 6 febbraio 1954, più che novantenne. 



NOTA BIBLIOGRAFICA 



Gli scritti di Meinecke sono stati raccolti nei sette volumi dei 

Werke, pubblicati tra il 1957 e il 1968 per iniziativa del Friedrich-Mei- 

necke-Institut della Freie Universitit di Berlino, ad opera dell'editore 

Oldenbourg di Minchen, della Toeche-Mittler Verlag di Darmstadt e 

della Koehler Verlag di Stuttgart. Il primo volume (a cura di W. 

Hofer, Miinchen, 1957) contiene Die Idee der Staatsrison in der neueren 

Geschichte; il secondo (a cura di G. Kotowski, Darmstadt, 1958) 

racchiude le Politische Schriften und Reden dal 1910 al 1951, ordinate 

cronologicamente; il terzo (a cura di C. Hinrichs, Miinchen, 1959) 

comprende Die Entstehung des Historismus; il quarto (a cura di E. 

Kessel, Stuttgart, 1959) raccoglie, sotto il titolo Zur Theorie und Philo- 

sophie der Geschichte, i principali saggi metodologici e filosofici, tra cui 

Persòonlichkeit und geschichiliche Welt, Kausalititen und Werte in der 

Geschichte, Geschichte und Gegenwart, gli scritti minori sulla storia 

dello storiciimo e in particolare su Goethe, Schiller, Schleiermacher, 

Ranke, Dilthey, Troeltsch, Spengler ecc.; il quinto (a cura di H. 

Herzfeld, Miinchen, 1962) contiene Weltbirgertum und Nationalstaat; il 

sesto (a cura di L. Dehio e P. Classen, Stuttgart, 1962) racchiude 

un'ampia scelta di lettere, col titolo Ausgewdhlter Briefwechsel; il setti- 

mo (a cura di E. Kessel, Miinchen, 1968) raccoglie, sotto il titolo Zur 

Geschichte der Geschichtsschreibung, numerosi saggi su Ranke, Burck- 

hardt, Droysen, Sybel, Treitschke, Lehmann, Delbriick, Baumgarten, 

Schmoller, Lamprecht, Dove, Below, Neumann ecc. 


Rimangono al di fuori di questa raccolta diversi volumi, in particola- 

re la monografia su Boyen, il volume Das Zeitalter der deutschen 

Erhebung, il volume Radowitz und die deutsche Revolution, e altri già 

menzionati nella nota biografica. Ad essi si devono aggiungere î due 

libri di memorie Er/ebtes 1862-1901, Leipzig, 1941, e Strassburg-Freiburg- 

Berlin, 1901-1919, Stuttgart, 1949, poi raccolti in unico volume col titolo 

Erlebtes 1862-1919, Stuttgart, 1964 (tr. it. Napoli, 1971). 



Dell’ampia letteratura critica concernente l’opera e il pensiero di 

Meinecke segnaliamo gli studi seguenti: 



888 FRIEDRICH MEINECKE 



F. CHÙiasop, Uno storico tedesco contemporaneo: Federico Meinecke, « Nuo- 

va rivista storica », XI, 1927, pp. 592-603. 



E. Seeserc, Zur Entstehung des Historismus: Gedanken zu Friedrich 

Meineckes jiingstem Werk, « Historische Zeitschrift », CLVII, 1937, 

pp. 241-66. 



W. Horer, Geschichtsschreibung und Weltanschauung: Betrachtungen 

zum Werk Friedrich Meineckes, Miinchen, 1950. 



W. Goetz, Friedrich Meinecke: Leben und Persònlichkeit, « Historische 

Zeitschrift », CLXXIV, 1952, pp. 231-50 (l’intero fascicolo è dedicato 

a Meinecke, ma contiene anche saggi di altro argomento). 



L. Denio, Friedrich Meinecke: der Historiker in der Krise, Berlin, 1953. 



H. Hottpack, Friedrich Meinecke: das Machiproblem in der neuesten 

deutschen Geschichte, « Hochland », XLVI, 1953-54, pp. 437-51. 



F. CuÙason, Federico Meineke, « Rivista storica italiana », LXVII, 1955, 

pp. 272-88. 



P. J. Wotrson, Friedrich Meinecke, « Journal of the History of Ideas », 

XIV, 1956, pp. 511-25. 



R. W. SterLIino, Ethics in a World of Power (The Political Ideas of 

Friedrich Meinecke), Princeton, 1958. 



A. Neeri, Saggi sullo storicismo tedesco: Dilthey e Meinecke, Milano, 

1959, parte II. 



S. Pistone, Federico Meinecke e la crisi dello stato nazionale tedesco, 

Torino, 1969. 



F. Tessitore, Friedrich Meinecke storico delle idee, Firenze, 1969. 

Un'ampia bibliografia degli scritti di e su Meinecke è fornita da A. 

M. Reinotp nel fascicolo speciale della « Historische Zeitschrift » dedi- 



cato a Meinecke, CLXXIV, 1952, pp. 503-23; successive indicazioni si pos- 

sono trovare nei volumi sopra menzionati di S. Pistone e F. TESssITORE. 



PERSONALITÀ E MONDO STORICO * 



Quando ho accettato di svolgere il tema della conferenza 

odierna, ho subito chiarito a me stesso che le applicazioni 

pedagogiche (che ci si attende forse in primo luogo da questa 

conferenza) potevano esaurirsi in breve tempo, mentre i princì- 

pi e le convinzioni generali da cui esse devono scaturire si 

affacciano su problemi che oggi toccano non soltanto lo storico, 

ma ogni uomo che aspiri alla personalità. Parlare di questi 

problemi e prima ancora confrontarmi con essi, mi stimolava 

tanto più fortemente quanto più le tempeste di quest'epoca, 

nel mezzo della lotta e della preoccupazione senza respiro a 

cui ci costringono, hanno ridestato in noi tutti una nuova pre- 

potente nostalgia per il raccoglimento interiore e per l’auto-ri- 

flessione. La questione principale sarà quindi la seguente: che 

cosa significa il mondo storico per la formazione della persona- 

lità? Dalla risposta che ne seguirà si potranno trarre subito, e 

facilmente, le conseguenze per lo spirito e il metodo dell’inse- 

gnamento della storia. 


Ma che cos'è — dobbiamo chiederci anzitutto — la persona- 

lità, che cosa vuole e deve essere? Il detto di Goethe, che la 

personalità è la felicità suprema dei figli della terra, risuona 



* Die Bedeutung der geschichtlichen Welt und des Geschichtsunterrichts fiir die 

Bildung der Einzelpersonlichkeit, « Geschichtliche Abende im Zentralinstitut fir Er- 

zichung und Unterricht », 2, Berlin, E.S. Mittler und Sohn, 1918, 2* ed. col titolo 

Personlichkeit und geschichtliche Welt, 1922, poi raccolto in Staat und Persònlichkeit, 

Berlin, E. S. Mittler und Sohn, 1933, pp. 1-27, e in Schaffender Spiegel (Studien zur 

deutschen Geschichtsschreibung und Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler 

Verlag, 1948, pp. 211-228, infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie 

der Geschichte (a cura di E. Kesscl), Stuttgart, K. F. Koehler Verlag, 1959, pp. 30-60 

(traduzione di Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



890 FRIEDRICH MEINECKE 



all'orecchio come il suono di campana di una chiesa che ci dà, 

nelle dispersive cure quotidiane, una promessa quieta e regolar- 

mente ripetuta, una promessa che è però, al tempo stesso, una 

richiesta. E invero essa promette e richiede da noi una certa 

costanza interiore in mezzo a tutte le cose esterne che ci assedia- 

no e che ci pongono in uno stato di attività o di compartecipa- 

zione, ossia un limite saldo che possiamo e dobbiamo custodire 

tra l’interno e l’esterno, e che deve non già chiudere ermetica- 

mente l’interno, ma regolare e guidare il suo rapporto con il 

mondo esterno, un santuario interiore con vie di entrata e di 

uscita, egualmente adatto per riposare tranquillamente e racco- 

gliere le forze in noi stessi come per scaricare attivamente tali 

forze verso l’esterno; in breve, un mondo autonomo e tuttavia 

organicamente connesso con il grande mondo, singolare e inso- 

stituibile, e tuttavia soltanto configurazione particolare di 

forze universali della vita, libero in sé e tuttavia dipendente 

dalla totalità, che abbraccia contemporaneamente, al di là di 

tutto questo, l'elemento più reale e vivente che abbiamo e che 

nessuna critica della conoscenza può sottrarci, vale a dire l’io 

consapevole di se stesso. Questo elemento più vitale di ogni 

altro ci è dato dalla natura come un dono miracoloso. Un 

miracolo altrettanto grande, ma che richiede un’elaborazione 

attiva, è quello di costruire in base ad esso la personalità e di 

elevarci in tal modo al di sopra della semplice natura. Si 

comprende che la personalità dev'essere la felicità suprema dei 

figli della terra soltanto quando si diventa consapevoli di que- 

sto duplice miracolo. Mentre la natura costringe tutta la vita 

di altro genere che essa reca alla luce nei ferrei vincoli della 

determinatezza, all’uomo essa lascia la possibilità di sciogliere 

questi vincoli, di costruire in sé un mondo della libertà, di 

curare in esso il bene supremo della libertà — peculiarità inimi- 

tabile — senza però perdere la connessione con tutto il resto 

della vita. Non si può essere felici nell’isolamento completo, 

ma non si può esserlo neppure nella completa fusione con il 

mondo esterno. Per diventarlo si deve sentire nella libertà il 

legame e la partecipazione alla totalità della vita e sentire di 

nuovo in ogni legame e in ogni comunanza la libertà e l’unici- 

tà della propria vita. In questo rapporto della personalità 

con il mondo è prefigurata al tempo stesso la forma originaria 



FRIEDRICH MEINECKE 801 



di ogni buona e vitale costituzione dello stato e della società. Il 

singolo e la totalità, l'io e l’ambiente — nella loro azione 

reciproca, nella loro auto-conservazione reciproca all’interno di 

una connessione inseparabile scorre anche la vita storica. 

Sorgono così due problemi: che cosa significa la personalità 

per il mondo storico? e che cosa significa il mondo storico per 

la formazione della personalità? Viene subito in luce che il 

primo problema è stato trattato molto più di frequente, e in 

modo manifestamente più interessato del secondo. Forse che in 

ciò si manifesta un certo sentimento di fondo che la prima 

questione sia più importante della seconda? Bisognerebbe am- 

mettere che la totalità ha maggior valore del singolo e che si 

tratta anzitutto di indagare questa totalità del mondo storico 

nei fattori in essa operanti? Non c’è dubbio che in questo 

privilegiamento del primo problema si palesano sia lo spirito sto- 

rico del secolo x1x sia l’allargamento della vita storica complessi- 

va che ha avuto luogo nel corso di esso. Agli inizi e fino al 

culmine della filosofia idealistica si muoveva ancora dai bisogni 

della personalità; in Kant e in Fichte era quindi dominante il 

problema della libertà etica. Ma già in Hegel il processo stori- 

co complessivo, che travolge gli individui — lo vogliano o no 

— nella sua corrente, diventava il tema predominante. Con lo 

sviluppo della moderna scienza storica e con l’importanza cre- 

scente delle masse si giunse quindi alla grossa disputa tra ten- 

denza collettivistica e tendenza individualistica. Il collettivi- 

smo e — in intimo accordo con esso — il positivismo e la 

nuova scienza sociologica presero le mosse, nella loro imposta- 

zione dei problemi, dall’importanza predominante delle colletti- 

vità rispetto agli individui. La tendenza individualistica della 

scienza storica e la filosofia ad essa prossima si sentivano, nei 

confronti di quelle tendenze, più in difesa che all'attacco, e si 

sforzavano al tempo stesso coscienziosamente di riconoscere il 

nucleo di legittimità presente nelle tesi dei collettivisti. In tal 

modo sulla nostra immagine della storia è stata distesa una 

robusta rete di nozioni collettivistiche e, di fronte alla pres- 

sione esercitata dalle grandi forze della vita storica comples- 

siva sul singolo individuo, sempre più fievole è diventata la 

questione del senso e dello scopo del mondo storico per la 

formazione delle personalità libere e singolari. Quest'ultima mi- 



892 FRIEDRICH MEINECRE 



nacciava di fatto di perdere importanza e di recedere da scopo 

in sé a mezzo subordinato nei confronti del corso complessivo. 

Dovremo ancora occuparci della situazione che ne risultava per 

il rapporto della moderna personalità con il mondo storico. 

Una cosa è però certa, cioè che le due questioni dell'importan- 

za della personalità per la storia e dell’importanza della storia 

per la personalità sono connesse tra loro, e che la risposta 

all'una pregiudica sempre la risposta all’altra. Coloro che soste- 

nevano l’importanza della personalità per la storia lo facevano 

proprio perché sentivano profondamente l’importanza del mon- 

do storico per la loro propria vita personale. Essi nascon- 

devano con pudore il loro interesse etico-pratico mascheran- 

dolo sotto un problema di pura conoscenza. Ora noi torniamo 

a districarlo chiarendoci le conseguenze del collettivismo e del- 

l’individualismo per il nostro problema. 


Il collettivismo nella sua forma più netta vede nell’indivi- 

duo solamente un punto di intersezione e di passaggio delle 

varie forze sociali. Le grandi istituzioni, i costumi e le opi- 

nioni — diventati stabili — dei gruppi sociali e delle comunità 

dei popoli trascinano e attraversano l’individuo inerte, che dal- 

la natura ha ricevuto il carattere di un individuo da gregge. 

Pertanto progresso e sviluppo verso nuove istituzioni e nuove 

intuizioni non sono l’opera di singoli uomini, ma l’espressione 

di mutati rapporti di vita esterni. Gli individui, che sembrano 

rappresentare € realizzare questi rinnovamenti, sono soltanto 

gli esponenti di rapporti e di tendenze più generali. Il mondo 

storico, così come viene praticamente vissuto nella sua pienezza 

di istituzioni tramandate e di forze vitali, ha quindi sì un’im- 

portanza enorme e addirittura predominante per l’individuali- 

tà, ma non lascia spazio né materia alla costruzione di una 

libera e singolare personalità da parte dell'individuo. Ciò che 

appare sotto forma di personalità libera e incomparabile viene 

costruito piuttosto dall'ambiente, e tutti i materiali dell’edifi- 

cio derivano da questo. La composizione di tali elementi all’in- 

terno del singolo individuo può essere singolare e individuale, 

ma soltanto come la composizione dell'immagine multicolore 

nel caleidoscopio. Inoltre il mondo storico, così come può esse- 

re vissuto teoricamente nell'indagine e nell’intuizione del passa- 

to, darà alla testa pensante la seria e rigorosa nozione fonda- 



FIMEDRICH MEINECKE 893 



mentale che l’uomo è fatto di materia comune e che l’abitudine 

è la sua nutrice. 


Tuttavia un deprimente determinismo di tal genere non è 

rimasto l’ultima parola delle teorie positivistiche e collettivisti- 

che. Piuttosto, proprio dal loro centro risuona il richiamo al 

progresso e all’ascesa, alla liberazione dell'umanità dalla gravo- 

sa pressione del passato. Ma la sua speranza si collega in tal mo- 

do non alle forze etico-individuali, ma a quelle etico-sociali. Esse 

credono alla presenza e alla crescita graduale di una ragione 

collettiva, di una disposizione generale dell'umanità — o di 

certe razze dell'umanità — a sollevarsi dallo stato di pura 

naturalità, attraverso lo stadio di semi-civiltà, fino a uno stato 

di popoli compiutamente civili. E questo processo di incivili- 

mento raggiunge poi anche il singolo individuo, lo arricchisce 

e lo libera in qualche misura, crea il moderno uomo civile e il 

moderno soggettivismo — ma sempre soltanto in virtù di un’or- 

ganizzazione generale che sta al di sotto di esso e lo spinge in 

avanti. Anche ogni etica pratica che si connetta a questo modo 

di vedere procede in maniera caratteristica dall’affermazione di 

possibilità generali, di diritti universali, di libertà e di migliora- 

menti della situazione sociale, economica e politica che devono 

mettere l’individuo in grado di partecipare, secondo la misura 

delle sue doti, a tutti i beni culturali elaborati dalla collet- 

tività. Questo è il processo ideale della moderna democrazia 

occidentale, la quale riposa ampiamente su presupposti positivi- 

stici e collettivistici. Ma con questo tipo di costruzione teore- 

tica e pratica del mondo storico — dobbiamo ora chiederci — 

si può sviluppare la piena felicità di ciò che Goethe intendeva 

parlando di personalità? Ciò è possibile soltanto se essa dimenti- 

ca i tetri presupposti di questa costruzione, se essa si sente non 

soltanto come prodotto di uno sviluppo generale, come compar- 

tecipe dei suoi frutti — dei dividendi da esso in certa misura 

versati — ma anche come portatrice di uno sviluppo individua- 

le del tutto specifico, come detentrice di un grado elevato di 

libera auto-determinazione, come proprietaria di una fonte na- 

scosta di vita spontanea. Un positivismo intelligente si spinge 

anche fino ad ammettere che una fede siffatta è utile per susci- 

tare nell’individuo il massimo di forza e di felicità, perché 

l'illusione di essere liberi ha lo stesso effetto di esserlo veramen- 



894 FRIEDRICH MEINECKE 



te. Quest'illusione può poi aggirarsi nella luce crepuscolare del 

dubbio e della fede, come ama fare il moderno uomo di cultu- 

ra, spiritualmente differenziato e soggettivisticamente eccitabi- 

le. Su tale via si possono ottenere molteplici sensazioni e im- 

pressioni sul rapporto tra io e mondo, un raffinato auto-godi- 

mento, anche uno slancio ostinato verso uno stato di superuo- 

mo con prove svariate e perfino eroiche: spesso incontriamo 

queste disposizioni nei profili dei nostri giovani in uniforme, e 

la nostra poesia e la nostra arte più recenti ne sono piene. Ma 

una quieta e profonda chiarezza sul rapporto del mondo stori- 

co con la personalità, un’armonica sicurezza della personalità, 

un vittorioso superamento del dubbio paralizzante e distruttivo 

sul valore della vita storica non possono essere ottenuti in que- 

sto modo. 


Per sciogliere tale dubbio occorre partire da un’altra conce- 

zione della personalità — proprio da quella che sviluppavo in 

apertura. Essa non si fonda soltanto sul fatto che ci è gradita e 

forse ci aiuta nella lotta della vita, ma sul fatto che viene 

richiesta sia da un’auto-osservazione immediata sia da una con- 

siderazione impregiudicata della vita storica. L’auto-osservazio- 

ne ci insegna che la ferrea legge causale, entro cui vediamo 

incatenata senza eccezioni la vita storica, ha tuttavia la sua 

radice ultima solamente nella profondità dello spirito umano, e 

che da questa stessa profondità scaturiscono anche altri bisogni, 

altrettanto costrittivi, che non permettono di considerare il 

mondo storico soltanto come una sezione dalla generale connes- 

sione causale della natura. Lo spirito umano crea, ed è costretto 

a creare — in base a un impulso spontaneo e a una disposizio- 

ne originaria — un mondo di valori spirituali ed etici i cui 

destini sono sì sottoposti nella vita alla legge causale e al 

mutare delle cose, ma la cui esîstenza in sé rivela nell'uomo 

una sfera superiore alla connessione naturale e causale. Costrui- 

re questa sfera non vuol soltanto dire creare la cultura e la 

storia, ma vuol dire anche creare la personalità; poiché alla 

personalità spetta conservare e continuare i valori della cultura 

una volta creati — questa è la sua funzione storica. Tali valori 

culturali non sono solamente, come vuole il positivismo, puri 

prodotti causali di rapporti e di forze generali — certamente, 

questi vi cooperano potentemente e devono essere assolutamen- 



FRIEDRICH MEINECKE 895 



te riconosciuti — ma sono affidati, per mantenere la loro vitali- 

tà ed essere incrementati, al lavoro comune di innumerevoli 

individui singoli. Non è soltanto la grande personalità domi- 

nante, l’eroe nel senso di Carlyle, che fa la storia e produce la 

cultura; ogni singolo uomo in cui si è destata una vita spiritua- 

le, liberata dal vincolo naturale, vi coopera e può contribuire 

ad essa con qualcosa di originale e di proprio. In tutte le nuove 

formazioni della vita storica la ricerca deve sempre, quando vi 

riesce, indagare più a fondo la loro genesi; deve sentire il 

respiro della vita individuale e personale — uomini che non 

erano soddisfatti di sopportare ancora pazientemente il passa- 

to, di essere mera impronta dell'ambiente e di rimanere un 

numero nella massa oscura, ma che aspiravano inquieti, con 

nostalgia e desiderio, ad acquistare per sé un frammento di 

libertà e il dominio sull’ambiente, di imprimere nell'ambiente 

un frammento del proprio io, creando il bene come il male ma 

diventando con ciò fermento della storia. Certamente, si deve 

subito aggiungere che ogni elemento di novità che la personali- 

tà singola può imporre alla vita storica si trova nella più 

stretta continuità e connessione causale con l’antico, con ciò 

che è tramandato, e ne è a ogni passo condizionato e delimita- 

to. La libertà di movimento e il carattere specifico della persona- 

lità possono sì apparire talmente piccoli che si capisce che si 

sia voluto eliminarli dalla storia considerata come fattore essen- 

ziale; ma sono abbastanza grandi per poter comprendere il 

miracolo per cui lo spirito si è sollevato al di là dei limiti della 

natura, nonostante ogni legame con essa, e ha potuto produrre 

un mondo storico. 


Soltanto a questo punto possiamo dare una risposta all’altro 

aspetto, oggi dominante, del duplice problema e cercare di 

chiarire l’importanza del mondo storico per la costruzione del- 

la personalità. Fin dal principio esso assume ora, per l’indivi- 

duo, colori più chiari e gioiosi che in una concezione rigorosa- 

mente positivistica del mondo storico. E gli fa cenno dicendo: 

entra in me, io non ti soffocherò se ti farai coraggio e se 

vorrai guardarmi nel cuore. Io non sono per te un ferreo desti- 

no che non ti lascia scelta alcuna nel pensiero e nell'azione, 

ma sono un compito alla cui soluzione sei chiamato a collabora- 

re. Devi servirmi, ma non come schiavo, bensì come uomo 



896 FRIEDRICH MEINECKE 



libero; poiché solamente in quanto innumerevoli altri prima 

di te l'hanno fatto, sono diventato ciò che sono e sono in 

grado di offrirti la mano per liberarti dall’oppressione della 

legge naturale. Guardami inoltre nella pienezza delle mie confi- 

gurazioni, nessuna delle quali è eguale all’altra e che pure 

sono tessute tutte insieme da me. Da ciò trai la speranza che 

anche il tuo elemento più proprio € più peculiare sarà conserva- 

to in me, anche se costituirà soltanto un piccolo filo nel mio 

manto regale. E perciò ti dico: diventa libero, diventa te stesso. 


Il mondo storico pone quindi alla singola personalità una 

richiesta generale e una richiesta individuale. Essa deve compie- 

re qualcosa di universalmente valido, impiegando tutto ciò che 

di soltanto istintivo è in essa presente come materia e mezzo 

per scopi etici e spirituali ed erigendo così in sé il dominio di 

ciò che è ideale. Anche questi scopi ideali compaiono anzitutto 

come qualcosa di universale, imposti alla personalità dall’ester- 

no. Tutti i doveri e i compiti — la famiglia, il lavoro, la 

società, la patria, lo stato e la cultura — rientrano in questo 

ambito. In essi si nasce e non si può sceglierli a piacimento, 

perché fin dall’inizio ci assalgono imperiosamente. Se dalla per- 

sonalità non si richiedesse altro se non che, opprimendo i suoi 

impulsi egoistici, essa si elevasse — in virtù dell’auto-determina- 

zione etica nel senso kantiano — a organo degli interessi uni- 

versali e agisse soltanto secondo massime di una legislazione 

universale, non si sarebbe ancora fatto abbastanza. Si otterreb- 

be soltanto una libertà formale, non ancora riempita di contenu- 

to; poiché il contenuto di questo agire eticamente libero ci 

sarebbe fornito dal mondo esterno. E all’osservatore critico gli 

uomini che volessero accontentarsi di questa specie di libertà 

non potrebbero ancora apparire come personalità compiute, 

ma soltanto come inservienti volontari di scopi oggettivi forse 

molto grandi, ma pur sempre formati dall’esterno. Inoltre que- 

sti scopi storici sfocerebbero facilmente in una rigidità priva di 

vita, e diventerebbero simili a quel carro degli dèi indiano il qua- 

le stritola le masse dei fedeli che si buttano davanti ad esso. In 

questa maniera i nostri nemici hanno rappresentato, durante 

la guerra, il rapporto del Tedesco con il suo stato tramandato 

e ci hanno attribuito un cieco, fanatico servilismo verso lo 

stato, che per fortuna è lungi da noi ma che — comunque lo 



Friedrich Meinecke intorno 



FRIEDRICH MEINECKE 897 



si consideri — può essere ammesso come possibilità estrema di 

certi germi di sviluppo presenti in noi. La personalità stessa e 

il mondo storico che la circonda soffrirebbero di questa specie 

di rapporto, perché dalla personalità non si potrebbe trarre 

fuori tutto quanto c’è in essa, tutto ciò che potrebbe servire e 

contribuire al mondo storico. La dottrina dell’imperativo cate- 

gorico — questa legge fondamentale di formazione della perso- 

nalità — dev'essere quindi integrata, così come la legge del 

Vecchio Testamento ha trovato il suo compimento nel Nuovo 

Testamento. Diventa te stesso — dice questa legge del Nuovo 

Testamento alla personalità. Coltiva la tua peculiarità non con 

l’amore animale, senza capacità di scelta, per tutto ciò che ti 

spinge verso la peculiarità e vorrebbe affermarsi contro il mon- 

do esterno, poiché ciò conduce soltanto alla soggettività vana o 

all’ostinata eccentricità. Riconosci invece la legge organica in 

base a cui le tue forze individuali e i beni vitali tratti dal tuo 

ambiente possono connettersi in un mondo unitario, in sé con- 

cluso; cerca un principio direttivo, un’idea della tua vita in te 

stesso che possa valere solamente per te e per nessun altro allo 

stesso modo, perché a ogni passo decisivo nella vita devi interro- 

gare solo te stesso e la tua coscienza in merito al tuo dovere. 

Questa formazione in noi di un’idea individuale della vita per- 

mette anche — come lo permetteva già l'imperativo categorico 

— la lotta contro gli impulsi inferiori, sensibili, non già per 

reprimerli bensì per ordinarli ed educarli, per dare anche al 

bisogno presente in noi, indifferente e gregario, una nota parti- 

colare, un valore consono con la totalità della vita. Nel concet- 

to di individualità non è possibile infatti conservare la divisio- 

ne netta tra spirito e materia. La dote naturale della natura 

sensibile-spirituale complessiva è e rimane il terreno che alimen- 

ta la personalità; e soltanto in base all’armonia, alla reciproca 

compenetrazione e illuminazione dei sensi e dell'anima cresce 

la sua peculiarità, la sua bellezza e la sua forza. È un’acquisi- 

zione della sensibilità moderna che essa non pretenda più di 

dividere questa connessione data e vivente con un atto di violen- 

ta ascesi dello spirito nei riguardi del mondo sensibile. In tal 

modo le svolte storiche del secolo xtx penetrano nella formazio- 

ne del moderno ideale di personalità. Il carattere rigoristico 



dell’etica kantiana tradisce ancora la sua origine dall’ascesi cri- 



57. STORICISMO TEDESCO. 



898 FRIEDRICH MEINECKE 



stiana. Ma contemporaneamente già nasceva, con Rousseau e 

Goethe, un nuovo sentimento della vita — la coscienza dell’uni- 

tà ultima di natura e spirito, dello stretto e misterioso intreccio 

di forze sensibili e forze spirituali, dell’accresciuta pienezza vi- 

tale dell’uomo, che si immerge gioioso in questo sentimento di 

unità. In stretta connessione con tutto ciò Herder, Goethe, Wil- 

helm von Humboldt e i Romantici scoprivano il valore insosti- 

tuibile dell'individuale, di ciò che è cresciuto in modo origina- 

le e singolare nella storia e nella vita. Lo spirito realistico del 

secolo x1x fece uso pratico di queste nuove sensazioni e cono- 

scenze in quanto, distruggendo dottrine e pregiudizi, riconob- 

be il diritto alla propria esperienza e osservazione della vita, 

colse e sfruttò ovunque ciò che c’è di attivo, di naturalmente 

dato e di potente, e cercò così anche di dispiegare in pieno la 

forza dell’individuale e della personalità. Ne è derivata — certa- 

mente con alcune riserve che dobbiamo ancora avanzare — 

una più robusta ondata di sangue vitale per il nostro ideale di 

personalità. 


La situazione storica che si presenta di volta in volta ha 

quindi un’importanza enorme per la formazione della persona- 

lità. La disposizione e l’impulso a diventare personalità è uni- 

versalmente umano e opera a tutti i livelli dello sviluppo, an- 

che a quelli più bassi, sebbene la pressione del mondo esterno e 

della tradizione permetta che su questi si dispieghino soltanto 

pochi germi, particolarmente forti. Inoltre la specificità dell’am- 

biente storico agisce in modo da destare in primo luogo le 

disposizioni che hanno una corrispondenza con esso e da la- 

sciar cadere altre disposizioni, non circondate dal favore della 

costellazione. Intere pleiadi di pittori o di dotti, di teste politi- 

che o di nature religiose possono prosperare stupendamente in 

un'epoca, mentre l’epoca successiva ricopre nuovamente quelle 

strade già aperte alla personalità. Un Goethe potrebbe diventa- 

re ancor oggi Goethe? Appartiene alla tragicità della vita stori- 

ca che la vocazione di un’epoca — si potrebbe dire la sua 

predestinazione — tocchi sempre soltanto alcuni lasciando inve- 

ce altri, che in epoca diversa avrebbero potuto attingere una 

grandezza umana, nell'esercito sonnolento della massa. Ma 

un'autentica natura gocthiana metterebbe in moto i suoi cle- 

menti e mediterebbe la propria ascesa anche in epoca sfavorevo- 



FRIEDRICH MEINECKE 899 



le. Perciò anche le masse non possono mai essere considerate 

nella storia come masse del tutto morte. Esse sono piene di 

personalità potenziali che, se anche non possono risplendere, 

gettano tuttavia un barlume di luce sul loro ambiente. Anche i 

guerrieri dell'esercito sonnolento sognano la vittoria e la glo- 

ria. — Buona e cattiva stagione per la personalità si alternano 

quindi nel corso della storia. I tempi più favorevoli al suo 

sviluppo sono quelli dell’albeggiare tra vecchie e nuove epo- 

che, quando forme vitali, idee e istituzioni da tempo dominan- 

ti si rilassano e si trasformano, perdendo la loro forza vincolan- 

te. Allora il bisogno sociale, politico e spirituale procede incer- 

to alla ricerca di nuove vie; ma presto, come in un'alta marea, 

spumeggia il coraggio di un pensiero e di un agire nuovo, 

fresco e perfino rivoluzionario, e brulicano d’un tratto teste 

vitali e originali. Così avvenne quando la Grecia passò dall’epo- 

ca arcaica a quella delle guerre persiane: le rigide costituzioni 

aristocratiche delle sue città-stato furono turbate dal nuovo fer- 

mento della democrazia, e contemporaneamente si destò il dub- 

bio verso l’antica fede negli dèi. La stessa cosa accadde nel 

mondo romano-germanico alle soglie tra Medioevo ed età mo- 

derna, anzitutto nella vivace Italia del Rinascimento, ma an- 

che sul pesante e più duro terreno della Germania agli inizi 

dell’Umanesimo e della Riforma. Sarebbe però errato cercare 

in queste epoche l’esigenza e la capacità di produrre nuova 

vita personale esclusivamente presso i rinnovatori e le loro nuo- 

ve idee riformatrici. Si potrebbe piuttosto azzardare la tesi 

che, con quanta maggiore forza e personalità irrompe la nuo- 

va vita, tanto più forza vitale dev’esserci ancora in ciò che è 

vecchio. Le nuove idee non scaturiscono mai da situazioni total- 

mente marce e senili. La Chiesa romana non era marcia e 

senile quando Lutero se ne distaccò. Proprio ciò che vi era 

ancora di vitale nel Cristianesimo medievale gli ha dato un 

infinito travaglio, e Lutero non si è mai completamente sottrat- 

to al suo dominio. Tutte le grandi personalità riformatrici so- 

no state uomini di transizione, la cui interiorità era «campo 

di battaglia tra due epoche » e il cui mondo ideale di penetran- 

te ricerca mostra spesso una continuità sorprendente con la tra- 

dizione dalia quale si sono liberati. Di regola il rinnovatore 

respinge consapevolmente soltanto una parte di ciò che è vec- 



900 FRIEDRICH MEINECKE 



chio, e non ne abbandona mai completamente il terreno. Ma i 

conflitti che ne derivano sono adatti, come nessun altro, ad 

agitare l’assopita profondità dell’uomo, spingendolo a raccoglie- 

re saldamente e a organizzare gli elementi della sua natura 

per poter affrontare la lotta con il passato e il mondo esterno 

— e costruire così la personalità. Allora anche nature di media 

forza e di medio talento possono innalzarsi al di sopra di se 

stesse. Ulrico di Hutten' non era affatto un pensatore profon- 

do né un carattere armonico, e probabilmente in tempi norma- 

li non sarebbe andato oltre una certa varietà problematica di 

impieghi del suo focoso impulso vitale; nella sua nuova missio- 

ne crebbe nel volgere di pochi anni, quasi di colpo, fino a 

diventare una personalità orgogliosa, libera e sicura di sé. Con 

un grande senso delle condizioni di vita della personalità Con- 

rad Ferdinand Meyer? ha contrapposto allo Hutten morente il 

giovane Loyola?, uno dei massimi maestri della storia universa- 

le per quanto riguarda la costruzione della propria personalità. 

Anche il vecchio mondo può infatti mostrare, in queste epo- 

che rivoluzionarie, di che cosa sia ancora capace, e gettare con- 

tro l'epoca nuova potenti caratteri rappresentativi. Quando un 

secolo fa la Prussia muoveva i primi passi decisivi da stato 

organizzato in base a ceti a stato borghese-nazionale e tutta 

una serie di importanti personalità si sollevava storicamente 

all'altezza di questo compito, era al tempo stesso uno spettaco- 

lo magnifico vedere lo Junker Marwitz* impegnarsi in una 

lotta cavalleresca, da antico gentiluomo della Marca, come in 



1. Ulrico di Hutten (1488-1523), umanista tedesco, autore dell’Ars versificandi 

(1511), del Mordus gallicus (1519) e di vari altri scritti, fu coinvolto nella vita poli- 

tica c nelle polemiche letterarie della Germania del primo Cinquecento; fu tra i mag- 

giori collaboratori della raccolta di Epistelae obscurorum virorum (1517). Allo scoppio 

della Riforma prese posizione contro la Chiesa romana, cd ebbe un'aspra polemica 

con Erasmo. 


2. Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898), poeta c romanziere svizzero, autore di 

Balladen (1867), di Romanzen und Bilder (1870), del poema Muttens letzte Tage 

(1871) e di un altro pocma su Engelberg (1873), nonché di numerose altre poesie e 

di romanzi, soprattutto di argomento rinascimentale, come /iirg Jenatsch (1876) c 

Der Heilige (1880). Mcinccke si riferisce qui, ovviamente, al pocma su Hutten. 


3. Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore della Compagnia di Gesù, una delle 

più cminenti figure della Controriforma cattolica. 


4. Friedrich August Ludwig von der Marwitz (1777-1837), generale dell'esercito 

prussiano dal 1817, vagheggiò la restaurazione della vecchia società organizzata in 

base ai «ceti »: le sue opere sono apparse postume nel 1852. 



FRIEDRICH MEINECKE 901 



un’armatura sferragliante, contro l’epoca nuova. Anche il conte- 

nuto vitale della vecchia epoca può essere spesso toccato dalle 

nuove idee, nonostante la sua resistenza esterna, e presentarsi 

quindi in modo particolarmente ricco d’interiorità e raffinato. 

I colti amici di Federico Guglielmo IV, accesi di entusiasmo 

per l’autorità di diritto divino e per il vecchio stato patrimonia- 

le, vedevano nel soggettivismo e nel panteismo dei moderni 

un peccato mortale; tuttavia non sempre potevano, alla luce di 

una sottile indagine psicologica, assolversi l’un l’altro da que- 

sto peccato. Per comprendere tale gioco riflesso di idee la sem- 

plice storia delle idee non è sufficiente, perché essa non può 

non cedere alla tentazione di vedere l’individuale come qualco- 

sa di soltanto ideale. Solamente la domanda relativa all’effetto 

che questi intrecci di idee hanno avuto sulla formazione della 

personalità conduce nel cuore dell’uomo. 


Ogni epoca produce anche i suoi particolari tipi di personali- 

tà. Nei periodi di ampio e inarrestato dispiegamento delle for- 

ze nazionali, quando le lotte di liberazione e di unificazione 

gloriosamente condotte a termine, la fine dei disordini cittadi- 

ni, la prosperità economica elevano il sentimento di sé, risve- 

gliano la fiducia in sé e nell’epoca, stimolano il senso impren- 

ditoriale, la personalità si sviluppa in modo diverso che nei 

tempi di lotta e di transizione. L'Atene di Pericle, la Roma 

augustea, l’Inghilterra nell’epoca di Elisabetta e l'Olanda nel 

suo secolo d’oro hanno vissuto periodi del genere. Allora rece- 

dono le tensioni interne e le lotte psicologiche, in cui il singo- 

lo cerca se stesso seguendo la sua legge; si appianano le rughe 

dei volti e gli uomini ci appaiono più armonici e pacifici, più 

ricchi e rigogliosi. Allora spiriti grandi, medi e piccoli possono 

dispiegarsi l’uno accanto all’altro in una pienezza brulicante e 

recare alla luce tutto quanto è in essi presente. Un Sofocle e 

un Orazio, uno Shakespeare e un Rembrandt crebbero in que- 

ste condizioni. Anche i caratteri politici possono, in queste epo- 

che che scorrono tranquille o — il che è assai simile — alla 

testa di piccoli stati non scossi fortemente dalle lotte per la 

potenza, perdere qualcosa della rigida unilateralità della loro 



5. Federico Gugliclmo IV (1795-1861), re di Prussia dal 1840 alla morte, amante 

dell'antichità e delle arti. 



902 FRIEDRICH MEINECRE 



volontà, e apparire più rilassati, più inclini al compromesso e 

più disposti al godimento e a una cultura più varia. Pericle 

non ha sviluppato la sua poliedrica personalità durante le guer- 

re persiane e neppure in quelle peloponnesiache, ma negli opu- 

lenti decenni intermedi. E le repubbliche cittadine italiane e 

tedesche, i piccoli e medi stati tedeschi, la Svizzera, hanno 

prodotto non pochi uomini di stato forniti di una certa forza 

mite, di costante avvedutezza e di equilibrio spirituale — dal 

borgomastro strasburghese Jakob Sturm ai moderni uomini 

di stato del Baden all’epoca della fondazione dell'Impero. Non 

si deve certo dimenticare che un'epoca di lotta e di transizione 

non è mai esclusivamente tale, c che non vi sono neppure 

epoche e situazioni di pura fioritura e raccolta. Ogni epoca 

storica ha sopra di sé diversi strati atmosferici disposti l’uno 

sull’altro, tempestosi o sereni, e i contemporanei cercano ora 

nell’uno ora nell’altro la collocazione della loro personalità. 

Spesso però i caratteri più grandi e più ricchi possono muover- 

si contemporaneamente con eguale energia in tutti questi stra- 

ti. Occorre ancora una volta pensare al Rinascimento italiano, 

in cui si vedono sovrapposti immediatamente gli strati di una 

forza che erompe rigogliosamente, di una contemplazione di- 

mentica del mondo, di conflitti appassionati di idee e di 


tenza. Nella sua qualità di uomo di stato in esilio Machiavel- 

li racconta come passava il tempo nel suo villaggio giocando 

per alcune ore al giorno con gente del popolo, per poi ritorna- 

re nel suo santuario e alzare con venerazione lo sguardo alle 

opere degli antichi. Contemporaneamente, però, scriveva il li- 

bro sul Principe, che conteneva una forza la quale avrebbe 

mosso il mondo. In questa doppia vita di passione politica e di 

godimento spirituale egli ebbe un precursore nell’imperatore 

Federico II”, certamente la personalità più colta del Medioevo. 



6. Jakob Sturm (1489-1553), giurista e uomo politico tedesco, fu uno dei capi 

della Riforma protestante in Germania. Avviato alla carricra ecclesiastica c poi a 

quella diplomatica, studiò diritto a Liegi c a Porigi; rientrato nel 1524 a Strasburgo, 

fece parte del Senato c quindi, a partire dal 1526, del Consiglio dei Tredici; in seguito 

fu varie volte presidente del Senato. Convertitosi alla dottrina luterana, prese parte 

alle controversie religiose dell'epoca, e svolse un'intensa attività diplomatica, rappre- 

sentando Strasburgo alla prima dicta di Spira e in varie altre occasioni. 


7. Federico Il di Svevia (1194-1250), re di Germania c, dal 1220, imperatore del 

Sacro Romano Impero, viene qui ricordato per i suoi interessi culturali, che fecero 



FRIEDRICH MEINECKE 903 



Anche questi viveva in un secolo intimamente duplice, in cui 

c'era la compenetrazione e l'accostamento di vecchie e nuove 

idee, il rigoglioso dispiegamento della vita e lo scontro più 

violento; in tutte queste sfere Federico II si muoveva con egua- 

le virtuosismo, artista nella vita e uomo di volontà a un tem- 

po, e di durezza diamantina nel nucleo del suo essere. Emerge 

qui la personalità, per alcuni aspetti comparabile, di Federico 

il Grande, che dal suo secolo prese sia gli ideali filantropici e 

i gusti spirituali della filosofia illuministica sia il lavoro di 

formazione dello stato e della potenza che disprezza gli uomi- 

ni, mescolando eroicamente queste contraddizioni nelle prove 

imposte dal destino alla sua personalità. 


Attraverso l’irradiarsi della sua natura e delle sue azioni 

egli diventò uno degli elementi di formazione delle personali 

tà della nostra epoca classica. Nulla agisce in modo così imme- 

diato sul destarsi della personalità nell’uomo come il modello 

di una personalità estranea. Tutta la vecchia concezione della 

storia e la vecchia etica della storia non conoscevano consiglio 

migliore che quello di fare — come ha detto Machiavelli — 

come l’arciere che dirige il suo arco più in alto del bersaglio, e 

di scegliersi a modelli della propria condotta di vita i maggio- 

ri eroi, i grandi eroi irraggiungibili del passato. Da allora noi 

sappiamo che con la semplice imitazione di tratti estranei non 

si è fatto ancor nulla, e che non basta l’imitazione da sola a 

mediare le influenze di una personalità sull’altra. Tutti i mate- 

riali e gli stimoli del mondo storico, che l’individuo trae da 

esso per formare la sua personalità, equivalgono agli elementi 

del terreno che la pianta estrae scegliendo secondo il bisogno 

della propria legge di formazione organica e respingendo ciò 

che non le si confà. Federico il Grande aveva tratti quanto 

mai estranei, addirittura antipatici, a Goethe, Schiller, Kant e 

Fichte: non si appassionavano per lui, anzi lo rifiutavano in 

vari modi, ma lo rivivevano. Non potevano fare a meno del 

miracolo che aveva reso possibile un uomo del genere — eroe 

e filosofo al tempo stesso — nella loro epoca, che ritenevano 



della sua corte palermitana uno dei maggiori centri della vita intellettuale della prima 

metà del secolo xt. Fu egli stesso uomo esperto di matematica e di scienza naturale; 

le sue liriche ne fanno uno dei primi pocti italiani, esponente della scuola siciliana. 

Alla sua iniziativa si deve il codice promulgato nel 1231. 



904 FRIEDRICH MEINECKE 



troppo colta e raffinata. Sicché Federico il Grande non ha sola- 

mente rafforzato la loro coscienza nazionale e l'orgoglio di 

essere Tedeschi, ma ha anche consolidato — cosa ancor più 

necessaria per loro — la fede che la loro vocazione e il loro 

dovere consisteva nel rompere i limiti della convenzione, i pre- 

giudizi dell’epoca, e diventare uomini seguendo la propria 

legge. 


Anche dai tempi in cui vissero essi e le altre personalità 

della loro generazione attinsero la linfa di cui avevano biso- 

gno, secondo le leggi della più individuale affinità elettiva. 

Essi vissero successivamente un’epoca di dispiegamento, un’epo- 

ca di lotta e poi ancora una pacifica età di dispiegamento nei 

giorni dell’ancien régime al tramonto, della Rivoluzione france- 

se e di Napoleone, e poi della Restaurazione — una molteplici- 

tà d’impressioni di incomparabile vantaggio non soltanto per 

coloro che da esse furono chiamati ad agire e ad affrontare la 

vita, ma anche per coloro che vollero accoglierle in sé soltanto 

con anima silenziosa e indipendenza interiore. Dapprima si 

vinse con uno sviluppo interiore la pressione esercitata sulla 

vita personale dalle invecchiate articolazioni di ceto della socie- 

tà e dalla tutela da parte dello stato assistenziale; si edificò in 

sé un autonomo mondo spirituale, così saldamente fondato sul- 

l'essenza dello spirito umano da poter affrontare tutte le scosse 

e i rivolgimenti successivi delle situazioni storiche senza suscita- 

re alcun dubbio sulla giustizia e sulla fecondità dei suoi princì- 

pi fondamentali. La vita interiore dei nostri grandi poeti e 

pensatori procedette regolare e potente senza mai deviare, pur 

in mezzo a tutte le esperienze dell’epoca, dalla convinzione 

che lo spirito si costruisce il corpo ed è in grado di riedificare 

secondo il proprio bisogno qualsiasi forma distrutta. Perciò, 

non appena questo compito si presentò allo stato prussiano do- 

po il 1806,.le forze erano immediatamente disponibili. Ora essi 

non avevano altro pensiero se non quello di risollevare lo stato 

caduto in basso risvegliando nella nazione una nuova vita perso- 

nale. Non già che si immaginassero di poter creare delle perso- 

nalità ad opera dello stato: ciò che si voleva creare era soltan- 

to la possibilità, per l'individuo, di diventare una personalità, 

liberandolo dalle catene di un mondo storico invecchiato, of- 

frendogli nuove forme di azione e confidando per il resto nell’a- 



FRIEDRICH MEINECKE 905 



lito dello spirito. E per quanto la distruzione delle vecchie 

forme di stato e di società e la costruzione di quelle nuove non 

giungessero allora neppure a metà cammino, questa fiducia con- 

servò tuttavia la sua legittimità. Anche nell’ibrido mondo dell’e- 

tà della Restaurazione, che da alcuni fu sentito e vissuto come 

prospero dispiegamento, come «bonaccia alcionesca », da altri 

come indegna vittoria delle forze del passato sulle forze del 

futuro, le personalità eruppero trovando in essa sia il sereno 

silenzio di cui gli uni avevano bisogno, sia la lotta turbinosa 

di idee che per gli altri costituiva l’aria vitale. Fin dopo la 

metà del secolo x1x l’idealismo e l’individualismo classico han- 

no così fecondato, attraverso l’influenza immediata delle loro 

idee originali, lo sviluppo dell’individuo a personalità. Anche 

la rappresentazione dell’essenza della personalità in generale, 

di cui si è detto all’inizio, si è sviluppata su questo terreno. 

Ma prima essa dovette essere riconquistata perché — come ab- 

biamo visto — correva il pericolo di venir svalutata da un 

nuovo modo di pensare dannoso alla personalità. Questa crisi 

non era però altro che l’aspetto parziale di una svolta di tutta 

la nostra vita storica, che da una considerazione puramente 

teoretica ci conduce sempre più ai problemi pratici del nostro 

tempo e ci ripropone una duplice questione: che cosa significa 

il mondo odierno, così com’è storicamente divenuto, e che cosa 

significa il mondo storico del passato, così come esso ci si 

rappresenta oggi, per la formazione della personalità moder- 

na? Queste due questioni sono ancora una volta strettamente 

connesse tra loro. 


Paragoniamo i vantaggi e gli svantaggi della nostra situazio- 

ne storica odierna con quella in cui Goethe e Wilhelm von 

Humboldt poterono formarsi come personalità. Anzitutto si 

mostrano alcuni parallelismi. Come quell’epoca dopo la pace 

di Hubertusburg *, così anche noi abbiamo vissuto dopo il 1871 

un'epoca di indisturbato e rigoglioso dispiegamento delle forze 

nazionali. Ciò che per quell’epoca fu la personalità di Federi- 



co il Grande, per noi è stato — con un'influenza ancor più 



8. È la pace che conclude, nel febbraio 1763, la guerra dei Sctte anni, assicu- 

rando fino allo scoppio della Rivoluzione francese — pur con alcune interruzioni — 

un lungo periodo di pace in Europa. 



906 FRIEDRICH MEINECKE 



costrittiva e più ampia — la personalità di Bismarck. Come 

quell’epoca fu risvegliata dalla sua pace dalla catastrofe mondia- 

le delle guerre rivoluzionarie, così noi siamo stati risvegliati 

dalla catastrofe della guerra mondiale. Alcune somiglianze più 

sottili potranno un giorno svelarsi, sulla base di questi fatti 

comparabili, allo sguardo dello storico. Oggi ancora non riuscia- 

mo a vederle; abbiamo l’impressione che prevalgano le differen- 

ze interne. Molti degli impedimenti esterni che allora ostacola- 

vano lo sviluppo della vita individuale sono scomparsi — soprat- 

tutto le barriere sociali e i legami della società organizzata in 

ceti dell’ancien régime. Il nobile non opprime più il borghese, 

i contadini sono da un secolo liberi dal giogo. Nella vita stata- 

le ed economica l’impulso produttivo dell’individuo, fecondato 

dagli impulsi di una grande e potente esistenza nazionale, può 

agire in modo incomparabilmente più libero e più ricco. An- 

che il costume e la condotta della vita si sono da allora allenta- 

ti in modo che ogni forte bisogno personale può manifestarsi 

liberamente. Le possibilità esterne di dispiegamento della perso- 

nalità sembrano quindi essersi moltiplicate, mentre l’ambiente 

che avrebbe potuto ostacolarlo sembra diventato più pieghevo- 

le e flessibile. Abbiamo messo un individualismo di massa al 

posto dell'individualismo della nostra epoca classica, limitato a 

piccoli strati e a piccole cerchie; e nelle masse del quarto stato, 

da poco comparse sulla scena, si è oggi largamente diffuso l’im- 

pulso a prender parte a tutti i beni culturali secondo la misura 

della propria possibilità e del proprio desiderio. E tuttavia, 

nonostante tutte queste facilitazioni e moltiplicazioni di possibi- 

lità, la nostra epoca non può competere con la grandezza dell’o- 

pera di quella, che pur in mezzo a tutti gli ostacoli esterni 

e all’angustia della vita nazionale e sociale era in grado di 

costruire l’autonomo mondo spirituale della personalità. Forse 

che, in presenza di un’accresciuta fecondità esterna, siamo di- 

ventati interiormente più piccoli e infecondi? Può essere; ma 

solamente le generazioni successive potranno giudicare in mo- 

do definitivo. Possiamo tuttavia forse dire, acuendo lo sguar- 

do, che il compito di diventare personalità è per l’uomo moder- 

no non già più facile, ma più difficile; che lo sviluppo moder- 

no non soltanto ha liberato la strada da vecchi ostacoli, ma ha 

ammassato ostacoli nuovi e forse maggiori. L’ideale classico di 



FRIEDRICH MEINECKE 907 



umanità e di personalità fu creato con la risoluzione di ignora- 

re l’ambiente storicamente divenuto con i suoi ostacoli e con la 

sua meschinità, di collocarsi al di sopra di esso, di metterlo 

in disparte per potersi accingere indisturbati alla costruzione 

del mondo interiore e della libera personalità. Questa risoluzio- 

ne fu allora possibile perché nell’ancien régime al tramonto lo 

stato e l’individuo potevano ignorarsi reciprocamente e fare a 

meno l’uno dell’altro, perché non avevano ancora nulla di es- 

senziale da offrirsi. Altrettanto poco sviluppati erano lo scam- 

bio e l’azione reciproca tra il concreto mondo economico-socia- 

le e il mondo spirituale. Questa distanza dalla vita e dalla 

realtà, in cui da noi si dispiegò all’inizio la libera personalità 

propria dell’ideale di umanità, non poteva però durare. La per- 

sonalità stessa si spinse ben presto nel calore e nella pienezza 

della vita che a sua volta aveva bisogno di essa, la invocava e 

le poneva compiti grandi e fecondi nello stato, nella società e 

nell’economia. Questa prossimità vitale tra personalità e am- 

biente concreto, acquisita nella prima metà del secolo x1x e da 

allora ancor sempre accresciuta, rappresentava per la personali- 

tà — come sempre avviene — tanto un guadagno quanto una 

perdita. Essa acquistò in fini creativi e in impulso creativo, 

sviluppando un gran numero di forze e di capacità prima son- 

nolenti, che non ci si sarebbe mai aspettato dai Tedeschi; per- 

dette in indipendenza interiore, in auto-riflessione e in auto-de- 

terminazione interiore e quindi, in ultima analisi, anche in inti- 

ma forza spontanea e rigenerativa. Essa correva ora, di fatto, 

il rischio di diventare mera funzione al servizio dei nuovi com- 

piti sui quali si gettava, di cessare di essere scopo autonomo e 

di diventare mezzo per altri scopi, certo assai grandi ma pur 

sempre impersonali. Tutte le istituzioni che spingono gli uomi- 

ni a raccogliersi in una massa — pensava il giovane Wilhelm 

von Humboldt — sono oggi più dannose che mai per la forma- 

zione degli individui, e l’uomo non dovrebbe essere sacrificato 

al cittadino. Humboldt non poteva immaginare fino a qual 

punto il secolo xrx avrebbe riunito gli uomini in masse e li 

avrebbe trasformati in cittadini. E non soltanto la vita politica 

borghese contribuiva a raccogliere gli uomini in masse, ma 

anche le diverse professioni cominciavano a impegnare la perso- 

nalità con forza maggiore che nell’epoca classica. La moderna 



908 FRIEDRICH MEINECKE 



divisione del lavoro agevolava il lavoro collettivo e in apparen- 

za anche il lavoro individuale, ma danneggiava le radici della 

loro forza. Essa costringeva l'individuo a scomporsi in se stes- 

so, a restringere la sfera della pura vita personale — il rifugio 

dell'anima in sé — per soddisfare le accresciute pretese del 

mondo esterno. Ne sono nate tensioni spesso assai feconde per 

la formazione del carattere, perché si voleva ora bastare insie- 

me a se stessi e al compito di vita oggettivo, e nel complesso 

la vita tedesca è risultata più ricca di tipi di personalità profes- 

sionalmente differenziati. Il moderno imprenditore, il moder- 

no politico di professione, e inoltre i vecchi tipi del funziona- 

rio amministrativo, dell’ufficiale, del dotto tedesco — adattati 

ai nuovi tempi — presentano nel loro insieme un quadro in- 

comparabilmente più ricco di varie forme di personalità oggi 

possibili che non quello, per esempio, della società nobiliare 

dei ceti superiori che compare nel Wilhelm Meister di Goethe. 

Ma ora è anche facile che il tipico sopraffaccia il singolare e 

l’individuale. 


È chiaro che queste difficoltà, con cui deve combattere la 

formazione della personalità moderna, sono prodotte da essa 

in virtù del suo proprio lavoro storico, Costruendo a poco a 

poco le singole sfere della cultura moderna, consacrando loro 

il proprio sangue vitale, accrescendo il loro contenuto e la loro 

importanza, essa fece sì che queste diverse sfere ottenessero per 

sé anche individualità e personalità, che entrassero in lotta tra 

loro per il proprio potere, per la propria auto-affermazione. 

Procedendo dalla comunità spirituale-mondana ancora origina- 

riamente unificata nel corpus christianum del Medioevo, venne- 

ro dapprima a separarsi tra loro una sfera statuale e una sfera 

ecclesiastica; ma anche la scienza, l’arte, l'economia, le classi 

sociali ecc. si costruirono a poco a poco sedi proprie, e tale 

processo si è moltiplicato nel secolo x1x. Queste diverse sfere 

culturali crescono — come gli atolli corallini — in virtù del 

lavoro di milioni di personalità grandi e piccole; ciò che pri- 

ma era vivente opera personale diventa ben presto opera rigi- 

da, inflessibile, convenzionale, costringendo sotto il suo domi- 

nio la personalità che per la prima volta si presenta al posto di 

lavoro. Proprio una considerazione unilaterale di questo proces- 

so fu quella che produsse la dottrina positivistica della persona- 



FRIEDRICH MEINECKE 909 



lità. AI contrario, noi dicevamo che le diverse sfere culturali e 

i beni culturali che in esse hanno la loro sede possono conser- 

varsi e accrescersi soltanto attraverso l’opera delle personalità. 

È chiaro però che l’epoca più favorevole per il pieno, libero, 

vivente manifestarsi della personalità nel mondo culturale è ap- 

punto quella in cui quest’ultima viene costruita per la prima 

volta e non è ancora edificata troppo compiutamente. Dov'è 

possibile scoprire un nuovo territorio, là compaiono in gran 

numero i grandi costruttori di cultura. Ma la nostra situazione 

è simile a quella di una città vecchia e densamente abitata che 

esige sì, anche nelle sue parti antiche, parecchie trasformazioni 

e muove costruzioni, ma con compromessi continui, travagliati, 

che paralizzano il libero volo dei progetti. Oggi il mondo stori- 

co è costruito tutto intorno alla personalità — questo è il no- 

stro destino. Guai a te se sei un nipote! 


Oppure c'è una possibilità di liberarsi dalla pressione del 

passato, dalle opera operata, e di dispiegare di nuovo liberamen- 

te l’ala della personalità? Forse che ci affanniamo troppo intor- 

no a questo passato, che sappiamo troppo di esso e lo rispettia- 

mo con eccessivo timore? è forse il cosiddetto storicismo a tor- 

mentarci e a renderci deboli? Ne deriva la questione di ciò 

che significa per la formazione della personalità la conoscenza, 

l'intuizione del mondo storico passato e l’immergersi in esso 

con amore — forse con troppo amore — di cui ci vantiamo 

come di una delle grandi conquiste del secolo xrx. È noto che 

Nietzsche cominciò la sua carriera di sovvertitore dei valori con 

un attacco appassionato allo storicismo, quando nel 1873-74 

scrisse la dissertazione sull’utilità e sullo svantaggio dello stu- 

dio della storia’. La moderna formazione storica — egli asseri- 

va — indebolisce gli istinti creativi della personalità perché la 

forza plastica riposa sul dimenticare, sul poter dormire. La sa- 

zietà della storia condurrebbe a una fede da epigoni, rende 

l'individuo spaurito: la storia è sopportata soltanto dalle forti 

personalità, mentre dissolve completamente quelle deboli, poi- 

ché essa confonde il sentimento dove questo non è abbastanza 



9g. Meinecke si riferisce qui alla dissertazione Vom Nutzen und Nachteil der 

Historie fiir das Leben, che costituisce la prima delle Unscitgemasse Betrachtungen, 

Leipzig, 1873-76. 



gQIO FRIEDRICH MEINECKE 



forte da commisurare a sé il passato. I Greci sono stati un 

popolo eminentemente astorico. Nietzsche avrebbe anche potu- 

to fare riferimento alle generazioni della nostra epoca classica, 

che hanno prodotto la maggiore ricchezza in fatto di personali- 

tà. Anch’esse erano in alto grado astoriche; o almeno esse co- 

minciarono come tali. Come tennero il più possibile distanti lo 

stato e l’ambiente sociale concreto, così esse trascurarono, anche 

nella formazione dei loro ideali, il passato storico. Esse fecero 

eccezione solamente per la Grecità, elevandola a proprio cano- 

ne — ma non per la Grecità storica, bensì per la Grecità pla- 

smata secondo i loro propri ideali, la quale diventò così un’ipo- 

stasi di questi ideali. Agiva qui un potente istinto plastico che 

non si sottometteva al passato, ma che sottometteva a sé il 

passato trasformandolo in leva della propria volontà di vita. 

Ma — miracolosamente — in questa lotta tra la personalità e 

il passato accadde che anche il passato acquistò forza, la sua 

ombra si riempì di sangue vitale, acquistò forma e linguaggio 

e cominciò a dare testimonianza di sé. Dal movimento di pen- 

siero dell’idealismo tedesco e dal Romanticismo, che ad esso si 

collega, sono infatti scaturite la nuova concezione della storia 

e la nuova ricerca storica culminata in Ranke. Questo movi- 

mento di pensiero era nello stesso tempo strettamente connesso 

con quelle grandi svolte che condussero le personalità più in 

profondo nella vita concreta dello stato e della società. La con- 

templazione storica e Ja creazione politico-sociale del secolo 

xIx non devono essere separate nella loro origine, e si sono 

pure continuamente fecondate tra loro. Potenti e istintivi biso- 

gni fondamentali spinsero la personalità dapprima ad acquista- 

re la propria libertà e autonomia in una distanza vitale priva 

di storia e di stato, per inserire in seguito nel mondo storico, 

con l’azione e il pensiero, la forza così acquisita. 


Nietzsche ha completamente trascurato il fatto che lo storici- 

smo, il quale uccide — a suo parere — gli istinti creativi, era 

in ultima analisi scaturito proprio da istinti creativi quali quel- 

li che egli esigeva. Si è a buon diritto obiettato a Nietzsche, 

anche sul piano personale, che lui, il critico amaro della cultu- 

ra storica, ha poi tratto la sua forza da una cultura storica di 

inconsueta finezza. Una delle conoscenze più sottili che la cul- 

tura storica potesse fornire era appunto la capacità di apprezza- 



FRIEDRICH MEINECKE QI 



re anche la forza e il significato degli istinti non storici nella vita 

storica. Nessuno che abbia spinto lo sguardo fin dentro i suoi 

abissi potrà negarlo. E neppure si potranno negare i pericoli 

dello storicismo che Nietzsche ha scoperto. Si può tuttavia por- 

re in dubbio la possibilità di liberarsi dalla cultura storica una 

volta che la si è accolta in sé. Si può definire un paradiso 

il mondo degli istinti creativi non gravati dal sapere storico; 

ma una volta che si sia mangiata la mela della conoscenza stori- 

ca, non possiamo più far ritorno in questo paradiso. Come nel 

volgersi della personalità verso la vita produttiva, anche qui 

c'è una necessità storica che ha prodotto dal suo seno gli irrobu- 

stimenti e gli indebolimenti della nostra vita. Noi veniamo in- 

deboliti dalla cultura storica quando ci lasciamo ridurre a puri 

suoi recipienti, quando ci lasciamo sopraffare da un’erudizione 

massiccia che però non riusciamo a penetrare del tutto spiritual- 

mente. Noi veniamo ancora seriamente indeboliti nella nostra 

intima forza produttiva quando non osiamo più svincolarci dal- 

le dande della tradizione storica e dei modelli storici o quando 

ci immaginiamo di poter padroneggiare spiritualmente la no- 

stra erudizione con quel relativismo rapido e virtuosistico che 

crede di comprendere tutta la realtà storica, al pari del presen- 

te, attraverso un’elegante illustrazione della sua necessaria cau- 

salità e quindi attraverso la sua giustificazione. A chi crede di 

poter in questo modo chiudere le questioni, a chi non è capace 

di tacere di fronte agli enigmi e agli abissi spaventosi dell’uma- 

nità storica, e anche di fronte ai miracoli divini che in essa si 

manifestano, la cultura storica ha di fatto tolto dalle ossa ogni 

midollo. Nietzsche ha allora ragione: essa è veleno per il debo- 

le, e nutrimento per il forte. In definitiva ogni cultura, e quin- 

di anche ogni educazione, deve in primo luogo pensare ai forti 

e non ai deboli. Ma spesso la forte personalità trova oggi pro- 

prio nel mondo storico la consolazione e il sostegno minacciati 

dal gravoso e opprimente presente. Essa trova consolazione € 

sostegno partecipando interiormente alle lotte del passato, la- 

sciandosi scuotere dagli oscuri destini e dai poteri sotterranei 

che irrompono nella vita dello spirito, lasciandosi sollevare dal- 

l’immortale volontà dello spirito, per sconfiggere il destino e 

costruire un proprio mondo in mezzo al mondo della ferrea 

connessione causale. Allora si riconosce che il problema della 



912 FRIEDRICH MEINECKE 



vita individuale non è diverso da quello della storia universale 

— cioè la contrapposizione tra libertà e necessità. Ma si ricono- 

sce pure che libertà e necessità non soltanto si contrappongo- 

no, ma al tempo stesso si intrecciano, e che senza il fecondo 

impulso coercitivo della necessità non è possibile alcuna liber- 

tà. Ciò che importa è penetrare il necessario con la libertà. 

Quelle potenze storiche vitali dello stato, della società, delle 

sfere culturali e delle professioni, che oggi sembrano minaccia- 

re più fortemente che mai la libertà e la specificità della perso- 

na, hanno quest’effetto, ossia sprofondano nel regno della rigi- 

da necessità, solamente quando la personalità rinuncia a traspor- 

re in esse il suo elemento più proprio, sia sfuggendole codarda- 

mente, sia sottomettendovisi ciecamente. Ma la pressione e la 

coercizione dell’ambiente storico cedono e diventano una benefi- 

ca atmosfera vitale se la personalità comprende la sua posizione 

organica e il suo compito nel processo storico complessivo, e 

riconosce la possibilità di rimanere libera e se stessa anche al 

servizio della totalità. 


Tuttavia lo stesso processo storico complessivo è il grande 

modello e la camera del tesoro dell’individualità. L'aspetto di 

ricchezza infinita di forme umane ch’esso offre dischiude spes- 

so nell’osservatore — come una bacchetta magica — forze af- 

fini, scioglie impedimenti e pregiudizi interni, lo rende indul- 

gente e comprensivo. E per quanto il senso affinato della multi- 

formità individuale della vita storica possa indurre nature più 

deboli a perdersi in essa, il bisogno dell’individuo più forte 

non si acquieterà finché non scopre la struttura interna di que- 

sta pienezza brulicante, finché non scorge nella loro lucentez- 

za dorata i più alti tra tutti i fenomeni individuali — le idee 

— sorretti da personalità. Ma allora scocca la scintilla dentro 

la vita personale, destando anche in essa l’infinita esigenza di 

venir governata dalle idee. 


Questa via alla personalità, che passa attraverso la cultura 

storica, è quindi diversa, più faticosa e più minuziosa di quel- 

la che indicano gli istinti elementari di una vita tutta immersa 

nel presente. Qui la riflessione deve per più versi sostituire ciò 

che la fresca natura non è più in grado di fare. Essa lotta 

continuamente con la zavorra del materiale storico. Prima di 

essere in grado di diventarne signore, lo spirito deve sottoporsi 



FRIEDRICH MEINECKE 913 



alla pressione di un’educazione rigorosa e faticosa, la quale 

deve renderlo capace di creare la vita passata dalla fonte stes- 

sa, anziché da torbide derivazioni. Questo tipo di educazione 

rischia a sua volta di snaturarsi in mero addestramento, perché 

il carattere di massa della vita moderna lo spinge a rivolgersi 

più alla media degli uomini che alla individualità. Tutte le 

difficoltà e le contestazioni con cui deve oggi combattere l’inse- 

gnamento storico-umanistico, tutti i tormenti e le manchevolez- 

ze dell'esame devono qui essere presi in considerazione. In defi- 

nitiva, però, il valore o disvalore di questo processo di formazio- 

ne può venir riconosciuto soltanto dai frutti che matura; e 

qui, ancora una volta, decide non la quantità, ma la bellezza e 

la dolcezza del frutto. E presso di noi esso continua pur sem- 

pre a crescere verso una nobile perfezione. Chi tra noi, che 

l’abbia gustato, potrebbe rinunciarvi? Tra noi, se non voglia- 

mo diventare più poveri e ritornare in basso, non può scompari- 

re quel tipo di personalità che nel mondo storico si allarga 

fino all’infinità dello spirito e del senso, fino a una dolce e 

forte sensibilità per tutto ciò che è umano. 


Anche la vita moderna si preoccupa che altri tipi si ponga- 

no a fianco di questo e lo conservino vivo con la loro concorren- 

za reciproca. È emerso, senza vincoli e risoluto, il moderno 

uomo di volontà e di potere, che aspira a governare con mano 

salda le leve rafforzate della civiltà, dell'economia e della tecni- 

ca odierna, apprezzando tutti i valori culturali in base alla 

utilità ed effettualità immediata. Non è solamente un utilitari- 

smo sensibile-egoistico quello che fa qui la sua comparsa e che, 

se pervenisse al dominio, minaccerebbe nel modo più pesante 

la vita della personalità. Anche l’utile della comunità può di- 

ventare un motivo che spinge la personalità; e per sua fortu- 

na lo diventa in larga misura, perché i bisogni della moderna 

vita comunitaria sono cresciuti così infinitamente e sono diven- 

tati talmente prepotenti che nessuno può più sottrarvisi del tut- 

to; essi sono in grado di sollevare al di sopra di sé anche chi 

all’inizio perseguiva soltanto il proprio utile. Questa socializza- 

zione della nostra vita, che è rapidamente cresciuta nel corso 

della guerra e che crescerà ancor di più per le sue conseguen- 

ze, minaccia certamente anche la personalità — come abbiamo 

osservato — con il destino di perdersi nella totalità e di diventa- 



38. STORICISMO TEDESCO. 



914 FRIEDRICH MEINECKE 



re una semplice funzione di essa. Ma meno di tutti ne sono 

minacciati proprio i più forti tra gli uomini di volontà e di 

azione. Lo ha dimostrato già Bismark, che sotto vari aspetti 

prefigurava questo tipo. Certamente egli aveva ancor sempre 

un sentimento di partecipazione alla cultura storica più vivo di 

quel che possiede di solito il moderno uomo di volontà. Que- 

sto tipo si trova ancora in fase di sviluppo, ed è ancora troppo 

presto per valutare le possibilità di una umanità superiore che 

sono in esso presenti. Ma qui e là si manifesta in lui la buona 

volontà di ricostruire i ponti spezzati con la cultura storica, di 

diventare al tempo stesso uomo di volontà e di spirito. Allora 

da un istinto veramente plastico nascerebbe tra noi qualcosa di 

nuovo e di grande. 


Si vorrebbe concedere la stessa fiducia anche a un terzo 

tipo di aspirazione moderna alla personalità, che condivide 

con il corso della cultura storica il bisogno di un contenuto 

culturale interiore e con l’utilitarismo il rifiuto di una formazio- 

ne storica rigorosa. Si tratta del soggettivismo moderno che, 

adirato contro la rigida disciplina di questa formazione, si ab- 

bandona, seguendo Nietzsche, agli innati istinti originari della 

natura e dell’individualità e — «il giorno innanzi a me, la 

notte alle mie spalle »1! — esce allo scoperto. Ad esso si affida- 

no soprattutto le nature dotate artisticamente. La loro mancan- 

za di rispetto per la cultura storica e il mondo storico ha le 

proprie radici, in ultima analisi, nelle esperienze storiche del 

secolo x1x e nella situazione tragica che esso ha creato per lo 

spirito artistico. In esso sono state distrutte e lacerate le salde 

forme di vita della vecchia società al pari dei saldi stili della 

creazione artistica. Il nuovo, ciò che ne prese il posto nella 

società e nell’arte, assomigliò a edifici a scopo di utilità o di 

moda, rapidamente costruiti per i bisogni della massa, senza 

quella patina dignitosa, senza un gusto delle forme, ma sfigura- 

ti piuttosto dal gusto rozzo degli arricchiti. La vecchia forma 

irrevocabilmente perduta e il ritorno ad essa afflitto dalla male- 

dizione propria degli epigoni; la nuova forma insufficiente e 

ripugnante, e in verità l'assenza di forma — accompagnata 

tuttavia da un insopprimibile bisogno di forma: non c’era da 



1o. Goetne, Faust, v. 1087 (tr. it. di F. Fortini), 



FRIEDRICH MEINECKE 915 



meravigliarsi che il soggetto dotato di sensibilità artistica, sen- 

za sostegno nel mondo storico e rigettato su di sé, si abbando- 

nasse a un’irrequieta sperimentazione e all’escogitazione di nuo- 

ve forme arbitrarie, trovando la libertà della personalità nella 

mancanza di legami. Ogni volta ci viene assicurato di nuovo 

che ora il tempo della ricerca è finalmente passato e che è 

stata trovata la nuova sintesi della vita con la nuova forma 

artistica. E quando ci avviciniamo pieni di aspettative, ogni 

volta ci accorgiamo di una lotta di nature altamente dotate, 

che però sembra condannata a una tragica mancanza di radici 

e all’artificiosità. Noi comprendiamo il fatto che la loro perso- 

nalità tormentata si rivolta contro la pressione che viene dal- 

l’ambiente odierno non soltanto socializzato, ma anche utilitari- 

stico e meccanizzato; e a questo proposito non si deve neppure 

dimenticare la pressione del falso storicismo, scolasticamente 

meccanizzato. Ma i mezzi di difesa a cui ricorre lo spirito 

soggettivistico ci sembrano violenti e spasmodici. La distanza 

dalla vita e dalla realtà, in cui esso ritorna in varie guise a 

perdersi, non è comparabile a quella in cui vivevano gli uomi- 

ni della nostra epoca classica, perché viene soltanto artificiosa- 

mente estorta a una vita alle cui potenti correnti complessive 

nessuna personalità sana e forte può più sottrarsi. Spesso in 

luogo dell’interiorità cercata e preesistente emerge soltanto 

una nuova esteriorità dall’acconciatura moderna, una mera mo- 

da culturale. 


Nel moderno espressionismo ci si sottrae nel modo più 

coerente a tutti i diritti e a tutte le catene della tradizio- 

ne e della realtà. Ma ancor più immediatamente la cultu- 

ra storica è minacciata dalle esigenze di riforma educativa e 

scolastica avanzate dal movimento giovanile. Invece noi chiedia- 

mo: è realmente impossibile pensare al tempo stesso in modo 

moderno e storicamente? ed è impossibile tuffarsi nella corren- 

te della vita moderna senza perdere la solitudine sacra della 

vita interiore? 


Occorre anzitutto riconoscere liberamente e coraggiosamen- 

te la difficile situazione in cui oggi si trova la personalità. Noi 

viviamo in una cultura vecchia, ma probabilmente ancora lonta- 

na dall’essere decrepita. Proprio perché oggi sentiamo di nuo- 

vo con tanta passione il problema della personalità, possiamo 



916 FRIEDRICH MEINECKE 



aver fiducia che sotto la lava irrigidita degli strati culturali del 

passato, che sovrastano la nostra vita, esso arde ancora poten- 

temente. Noi viviamo altresì in un’epoca di rivolgimenti inau- 

diti delle condizioni di vita esterna, e come potevamo già 

definire una rivoluzione ciò che avevamo vissuto nei decen- 

ni prima della guerra, così possiamo farlo per ciò che è ac- 

caduto dopo di allora e per ciò che dobbiamo ancora aspet- 

tarci. Si susseguono nuove libertà e nuove estensioni, ma an- 

che nuove forme di dipendenza e nuove restrizioni della vita 

individuale. Affermare il carattere aristocratico del tipo tede- 

sco di formazione della personalità, come si è configurato fino- 

ra, è inevitabile, ma anche infinitamente faticoso. Noi abbia- 

mo vissuto la successione e la mescolanza di epoche di rigoglio- 

so dispiegamento e di epoche di transizione e di lotta. Questi 

possono essere — come abbiamo già chiarito — tempi in cui le 

personalità prosperano, ma noi percepiamo soprattutto la pres- 

sione e la minaccia a cui siamo esposti. Contemporaneamente 

sentiamo però ancora il potente appello che la nostra epoca 

rivolge alla personalità. Intorno a noi si è accumulato un vec- 

chio vivente, un vecchio irrigidito, un vecchio distrutto — un 

mondo insieme di vita e di ruderi, oggi scosso più fortemente 

che mai dalle tempeste distruttrici e purificatrici del nuovo. 

Qui l’individuo deve scegliere e distinguere, secondo la propria 

coscienza e il proprio impulso, ciò che vuol affermare, ciò che 

vuol lasciar andare, ciò che vuol riprendere di nuovo. Egli può 

farlo solamente se si conserva libero dalla coercizione gravosa 

del passato, ma in profonda compartecipazione con tutti i valo- 

ri vitali del passato. Pensare al tempo stesso in modo moderno 

e storicamente è, in una situazione del genere, non soltanto 

possibile ma necessario. Soltanto così all'impeto dall'esterno è 

possibile opporre la più possente — ma nello stesso tempo sem- 

pre elastica. — forza interna, e conservare il nerbo vitale della 

personalità, l’auto-determinazione interiore. Mai è stata più im- 

pellente l’esortazione rivolta ad essa: « diventa libera, diventa 

te stessal ». 



Possiamo adesso trarre le conseguenze per l'odierno insegna- 

mento della storia. S'intende che qui non parlo soltanto dell’in- 

segnamento della storia in senso stretto, ma di tutte le discipli- 



FRIEDRICH MEINECKE 917 



ne che tramandano un contenuto storico, delle lingue antiche 

e moderne così come dell’insegnamento della religione. Esse 

costituiscono un’unità in cui un elemento deve integrare l’altro 

e in tutti quanti devono essere presenti le stesse idee direttrici. 

In primo piano si colloca il desiderio che l’insegnante di disci- 

pline storiche abbia egli stesso l'impulso alla personalità. Fin 

dall’inizio il mondo storico può diventare vivo ai nostri occhi 

soltanto attraverso la mediazione di una personalità estranea, 

che sta con esso in un rapporto immediato. A ciò si collega 

l’ulteriore desiderio che questo rapporto immediato con le fon- 

ti del passato, a cui l'insegnante di storia si è accostato durante 

i suoi studi, non lo abbandoni durante la sua professione peda- 

gogica. Non già che pretenda dall’insegnante di storia un lavo- 

ro produttivo di ricerca, per quanto questo sia benvenuto quan- 

do deriva dall’impulso del talento. Ma desidero che l’insegnan- 

te di storia si faccia un diletto personale non soltanto del legge- 

re, ma anche del gustare le fonti del passato in cui si rispec- 

chiano in modo particolarmente individuale lo spirito e la situa- 

zione propri di un'epoca. Un’influenza particolarmente fecon- 

da mostrano qui le opere dei pensatori dominanti dei secoli 

precedenti. La cultura storica si rafforza fino a diventare forma- 

zione della personalità per colui che, durante tutta la sua vita, 

non può fare a meno di Platone e di Agostino, di Lutero, 

Machiavelli e Montaigne, di Federico il Grande e Rousseau, 

dei grandi idealisti tedeschi e di Bismarck. In una lettura siffat- 

ta, derivante sempre da una scelta guidata dal bisogno più inti- 

mo, ripongo maggior valore che nell’attenzione che l’insegnan- 

te di storia dedica alla letteratura specialistica e alle controver- 

sie scientifiche. Egli non potrà mai evidentemente sottrarsi del 

tutto a quest'ultime; ma per conservarsi interiormente fresco, 

per poter riempire l'insegnamento con fermenti di vita persona- 

le, non esiste miglior mezzo della familiarità con i grandi. 

L'allievo ben dotato sa distinguere con precisione l'insegnante 

colto da quello che è soltanto ben informato. Se nell’insegnan- 

te l'impulso ad arricchirsi interiormente con la materia che 

tratta, ad acquistare nell’umanità storica la propria umanità, 

non diventa visibile attraverso tutto il suo sapere, l’effetto del- 

l'insegnamento della storia per il destarsi della personalità futu- 

ra dell’allievo può ridursi a niente. 



918 FRIEDRICH MEINECRE 



Ai fini della formazione della personalità non mi aspetto 

nulla da una preparazione intenzionale e sistematica all’insegna- 

mento della storia. Ciò significherebbe voler ottenere frutti dal- 

l’oggi al domani attraverso un’irradiazione violenta. Si diventa 

una personalità mediante la vita, non già mediante la scuola; 

attraverso il lavoro su di sé, non attraverso l’influenza da parte 

di altri. L'insegnamento può soltanto gettare i primi semi in 

un terreno di cui egli stesso non conosce affatto le possibilità 

di sviluppo, le capacità e i bisogni. Ma egli dev'essere pieno di 

questa intenzione magnanima del seminatore della parabola, e 

quando il suo cuore è pieno del valore delle personalità stori- 

che, può anche esprimersi in parole. Egli sa bene che nulla 

prende l’animo dell’allievo quanto lo spettacolo dei grandi uo- 

mini e degli eroi che lottano con se stessi e con la loro epoca. 

Il senso storico dell’individuale si avvinghia in generale all’in- 

tuizione della loro peculiarità. Nel complesso l’insegnamento 

della storia rappresenterà più ciò che vi è di concluso e di 

compiuto nelle personalità storiche, e non potrà evitare una 

certa stilizzazione. La psiche non ancora sviluppata dell’allievo 

richiede anche una tale raffigurazione semplice e monumenta- 

le. Ai gradi superiori dell’insegnamento l'insegnante può an- 

che osare di fargli gettare uno sguardo sui problemi del diveni- 

re, delle antitesi insolute, dello Sturm und Drang: gliene offri- 

ranno l’occasione gli anni dello sviluppo di Lutero, di Federico 

il Grande, di Bismarck. Ma nel complesso alcune parole signifi- 

cative, che il maestro lascia cadere, possono spesso trasportare lo 

spirito dell’allievo in uno stato di vibrazione più forte di quan- 

to non possa una psicologia portata avanti con minuzia. Ciò 

vale in modo particolare anche per la trattazione delle grandi 

poesie classiche nell’insegnamento del tedesco e delle lingue 

straniere. Esse sono piene di problemi della personalità; ma 

tutti sappiamo anche quanto si pecca di pedantesca prolissità 

nell’affrontare la materia, e quanto spesso l’allievo non soltan- 

to non viene introdotto alle fonti di vita personale che ne scatu- 

riscono, ma ne viene distolto con spavento. E non lo si tormen- 

ti con componimenti su conflitti psicologici per la cui valutazio- 

ne egli dispone soltanto di mezzi primitivil Un'unica parola 

accortamente allusiva dell’insegnante, che lo induca a riflettere 

in maniera autonoma, lo aiuta qui molto di più della riprodu- 



FRIEDRICH MEINECKE 919 



zione maldestra di interi processi di pensiero che l’insegnante 

cerca di inculcargli. Soprattutto, però, si inciti l’allievo alla 

lettura personale e lo si incoraggi a fondare comunità di lettu- 

ra con amici e compagni. Questi tentativi costituiscono spesso 

il primo moto della personalità dell’allievo, il suo incontro più 

peculiare con il mondo storico. 


All’insegnante di storia è affidata una professione particola- 

rissima, che richiede al tempo stesso piena dedizione e rigoro- 

sa sobrietà. Egli sta come nessun altro immediatamente in mez- 

zo tra il mondo storico e le personalità del futuro. Spesso si 

domanderà, guardando i suoi scolari negli occhi: quale vita 

storica avvenire dorme dentro di voi? Soltanto questa doman- 

da può suscitare ritegno e rispetto, in modo da non fare violen- 

za alle radici di ciò che può dispiegarsi unicamente secondo la 

propria legge. Lo stesso timore contenuto si confà anche di 

fronte al mondo storico e ai suoi miracoli. Individuum est ineffa- 

bile. Soltanto la venerazione e l’amore possono saldare il lega- 

me spirituale tra le personalità del passato e quelle del futuro. 



RELAZIONI CAUSALI E VALORI NELLA STORIA * 



Nell’odierno stadio di sviluppo delle scienze storiche credia- 

mo di poter percepire due grandi tendenze che non operano 

però isolatamente, ma ognuna delle quali reca con sé, in misu- 

ra maggiore o minore, anche elementi dell’altra tendenza. Nes- 

suna di queste tendenze può essere perseguita in modo unilate- 

rale: per ottenere il suo fine, ognuna ha bisogno dell'altra. 

Ciò che per l’una appare come fine, per l’altra costituisce una 

via, una guida verso il fine. Una tendenza vuol indagare rela- 

zioni causali; l’altra vuol comprendere e rappresentare valori. 

Non è possibile una ricerca di relazioni causali nella storia 

senza far riferimento ai valori, ma neppure è possibile una 

comprensione dei valori senza un'indagine sulla loro origine 

causale. 


Che cosa sono le relazioni causali? che cosa sono i valori? 


Noi ci poniamo, a torto o a ragione, dal punto di vista 

dell’osservazione storica immediata, e distinguiamo tre differen- 

ti tipi di causalità: quella meccanica, quella biologica e quella 

etico-spirituale. La causalità meccanica poggia su un’equivalen- 

za completa di causa ed effetto (causa aequat effectum); la 



® Kausalititen und Werte in der Geschichte, in «Historische Zeitschrift », 

CXXXVII, 1927-28, pp. 1-27, poi raccolto in Staa und Persònlichkeit, Berlin, E. $. 

Mittler und Sohn, 1933, pp. 28-53, c in Schaffender Spiegel (Studien zur deutschen 

Geschichtsschreibune und Geschichtsauffassung), Stuttgart, K. F. Kochler Verlag, 1948, 

pp. 56-93, infine in Werke, vol. IV: Zur Theorie und Philosophie der Geschichte (a 

cura di E. Kesscl), Stuttgart, K.F, Kochler Verlag, 1959, pp. 61-89 (traduzione di 

Sandro Barbera e Pietro Rossi). 



FRIEDRICH MEINECKE 921 



causalità biologica lascia apparentemente che l’effetto oltrepas- 

si la causa, mediante il pieno dispiegamento dei germi della 

vita a esseri viventi forniti di una propria struttura, di una 

propria conformità a uno scopo e di una propria legalità; ma 

soltanto la causalità etico-spirituale spezza la connessione causa- 

le puramente meccanica, rappresentando impulsi spontanei del- 

la personalità, diretti a determinati scopi, che non possono esse- 

re spiegabili né in termini meccanicistici né in termini biologi- 

ci, che influenzano l’agire umano e incidono quindi anche sul- 

la connessione causale di tipo meccanico — la quale tuttavia, 

d’altra parte, si presenta di nuovo al nostro pensiero come onni- 

potente e continua, escludendo ogni frattura. Miracolo su mira- 

colo. Infatti, nella sua profondità ultima, ognuno dei tre tipi di 

causalità rimane enigmatico. Il nostro pensiero viene così po- 

sto di fronte a contraddizioni che non può risolvere o che può 

risolvere soltanto in modo illusorio e apparente. Nella vita stori- 

ca, ognuno dei tre tipi di causalità si impone, in modo indimo- 

strabile, come operante agli occhi del ricercatore impregiudica- 

to. Egli ha continuamente a che fare con tutti e tre i tipi di 

causalità. Se indaga le cause della povertà e della ricchezza dei 

popoli, delle vittorie e delle sconfitte nelle battaglie, egli incon- 

trerà e dovrà indagare una serie di cause operanti in modo 

puramente meccanico, e comprensibili in quanto tali. La sua 

attenzione aumenterà allorché nei fenomeni studiati sembra 

compiersi un processo interno di crescita, allorché ai suoi occhi 

si manifestano determinate forme e figure di vita della comuni- 

tà umana che si dispiegano, si organizzano, fioriscono in pie- 

no e poi di nuovo decadono secondo un proprio processo di 

crescita. Ogni esistenza umana, ogni fenomeno della vita stori- 

ca gli appare, in definitiva, determinato morfologicamente — 

ma non soltanto determinato morfologicamente: infatti al di 

là di quelle relazioni causali meccaniche, operanti spesso in 

maniera accidentale, intervengono anche le azioni spontanee 

degli uomini, le quali possono quindi interrompere, stornare, 

rafforzare o indebolire l’accadere morfologico, conferendo così 

alla vita storica quel carattere intricato e singolare che si fa 

beffa di tutti i tentativi di spiegarla secondo leggi prive di 

eccezioni. Su di essa si imprimono perciò successivamente tre 

diversi sigilli: a ogni lettera, a ogni immagine che uno di essi 



922 FRIEDRICH MEINECKE 



imprime, si sovrappone quella degli altri. Soltanto il dilettante 

crede di poter distinguere tra loro in modo agevole e non sog- 

getto a obiezioni questi scritti e queste immagini. Più sempli- 

ci e chiare, meno discutibili possono essere le impressioni del 

primo sigillo, ossia della causalità meccanica. Ma quando si 

tratta di distinguere il secondo e il terzo, è fin troppo facile 

incorrere nell’errore di leggerne soltanto uno e di trascurare 

l’altro. La più antica concezione della storia, fino all’Illumini- 

smo, vide in essa prevalentemente l'impronta di decisioni e 

azioni individuali e cercò quindi — in quanto era una trattazio- 

ne cosiddetta « pragmatica » della storia — di ordinare razional- 

mente la confusione di queste azioni con il filo rosso di scopi 

razionali o irrazionali dell'agire. La moderna concezione della 

storia, che ha scoperto le relazioni causali e le formazioni so- 

vra-individuali della vita storica, poteva nuovamente inclinare 

— se applicata in maniera dilettantesca e sbrigativa — a sotto- 

valutare l’influenza autonoma dell’individuo e a considerarlo 

soltanto come organo di grandi potenze e forze collettive della 

vita che si potevano rappresentare come più o meno viventi, co- 

me sorte e operanti in modo prevalentemente meccanico oppu- 

re prevalentemente organico. Il positivismo inclinava a una con- 

cezione piuttosto, anche se non certo esclusivamente, meccani- 

ca delle forze collettive; la tendenza più moderna, orientata 

invece verso l’elemento organico — che ha raggiunto il suo 

culmine con Spengler — presumeva di spiegare tutti i fenome- 

ni storici particolari in base alle differenti leggi biologiche di 

formazione delle grandi culture. La trattazione scientifica del- 

la storia, che procede da Ranke, rinunciava invece a qualsiasi 

spiegazione causale univoca e generale, e di conseguenza doveva 

sopportare il rimprovero di fare a meno della scientificità vera e 

propria; ma così vedeva in modo più fresco e immediato l’in- 

treccio delle tre impronte della causalità meccanica, della causa- 

lità biologica e della causalità individuale-personale. Anch’essa 

non poteva rinunciare al tentativo di distinguerle tra loro e di 

mostrare la prevalenza dell’azione ora dell’una ora dell’altra; 

ma aveva un timore naturale di opprimere e di risolvere l’una 

nell'altra. Nella spiegazione dei singoli fenomeni e nella loro 

disposizione i in grandi serie e formazioni essa si lasciò guidare 

più da un istinto indefinibile che da un atteggiamento consape- 



FRIEDRICH MEINECKE 923 



vole, assunto in linea di principio. Essa considerava l’intuizio- 

ne artistica e la raffigurazione artistico-intuitiva dell’accadere 

non soltanto come un ornamento bello, ma in ogni caso super- 

fluo, della sostanza della storia — indagata secondo un procedi- 

mento puramente causale — ma come uno strumento di lavo- 

ro essenziale e indispensabile di fronte all’intreccio delle tre 

impronte — intreccio che si può sciogliere solo in parte, mai 

del tutto. 


La scienza assume qui dunque come strumento l’arte. Essa 

vuol completare la conoscenza con mezzi che si pongono al di 

fuori della sfera del conoscere vero e proprio. In altre parole, 

essa non rimane pura scienza che vuol spiegare soltanto causal- 

mente, ma si trasforma in qualcosa d’altro. Perciò il rimprove- 

ro di non-scientificità che il positivismo muove alla scienza sto- 

rica condotta nello spirito di Ranke non è, dal punto di vista 

formale, del tutto ingiusto. Ma questa non- “scientificità può giu- 

stificarsi in base al fatto che proprio la matura delle cose, e in 

certa misura la complicata situazione delle fonti storiche nel 

suo complesso, spinge verso tale procedimento, che ogni tentati- 

vo di padroneggiare il materiale storico con mezzi conoscitivi 

esclusivamente causali conduce, se portato avanti con radicale 

immodestia, a violentare la materia, a cancellare un’impronta 

causale con un’altra, mentre se viene intrapreso con una mode- 

stia rispettosa deve ben presto arrestarsi, perplesso, di fronte 

alla Ayle della realtà. Soltanto una via non più puramente scien- 

tifica, cioè non più puramente causale, ci conduce d’un sol 

tratto nelle sue profondità; e anche se non può certo dischiuder- 

cela completamente può tuttavia darci, attraverso un’intuizio 

ne vivente, un senso partecipante di essa. Alla scienza è più 

utile ricorrere a uno strumento sopra-scientifico dove lo stru- 

mento scientifico vien meno, anziché applicare questo anche 

dove una sua applicazione conduce necessariamente a falsi risul- 

tal. 


Ma il diritto di applicare strumenti sopra-scientifici nelle 

scienze storiche può essere fondato ancora più profondamente 

che attraverso la semplice indicazione dell’intreccio, non padro- 

neggiabile in altro modo, delle tre impronte causali. Se queste 

scienze volessero rimanere pure, cioè scienze che spiegano in 

modo esclusivamente causale, sarebbero costrette a considerare 



924 FRIEDRICH MEINECKE 



come proprio campo di ricerca e a rivolgersi, almeno in linea 

di principio, alla totalità dell’accadere umano. È noto che non 

lo fanno; esse scelgono invece da questa massa enorme e ster- 

minata soltanto una parte assai piccola, quella che si ritiene 

essere essenziale, e giustamente ritengono un’oziosa micrologia 

occuparsi di processi umani inessenziali. Ma che cosa significa 

qui essenziale? soltanto ciò che è casualmente essenziale? sol- 

tanto ciò che ha influenzato in modo particolarmente incisivo 

e potente i destini degli uomini e dei popoli? A volte lo si 

intende così, e si ritiene che soltanto ciò che è diventato partico- 

larmente « efficace » meriti l’attenzione dello storico. Ma — di- 

ce con ragione Rickert — «l'efficacia non può mai fornire da 

sola il criterio di ciò che è storicamente essenziale » ®. Da un 

punto di vista puramente causale, le condizioni e i bisogni 

della vita di carattere fisico — suolo e sole, fame e amore — 

sono i fattori « più efficaci » dell’accadere umano; mentre lo 

storico — almeno lo storico non materialista — li considera di 

regola soltanto come un ovvio presupposto causale di quei pro- 

cessi che propriamente lo interessano, e li ritiene degni di atten- 

zione soltanto laddove essi incidono in misura particolare e 

non comune. 


Dal punto di vista causale sono pure particolarmente « effica- 

ci», accanto a questi fattori originari della vita umana, anche 

le grandi decisioni nelle lotte di potenza dei popoli e degli 

stati, alle quali da sempre — fin dalla storiografia più primiti- 

va — è andata l’attenzione degli storici, e perciò anche l’intero 

ambito delle istituzioni dello stato e della società, che a ragio- 

ne attrae l'interesse comune di tutte le tendenze della moderna 

ricerca storica, di quella positivistica come di quella idealistica, 

della storia della cultura come della storia politica. Ma se qui 

si suole porre in rilievo in quanto «essenziale » ciò che è «ef- 

ficace », mettendo da parte come inessenziali altre masse di 

processi umani, di regola si combinano due diverse accezioni 

del termine « efficace ». Da un lato con esso si intende ciò che 

a suo tempo ha esercitato effetti causali sulla vita dell'umanità 

— e qui si rimane nell’ambito della pura ricerca di relazioni 



a. H. Ricgerr, Kulturiwvissenschaft und Naturwissenschaft, Tubin- 

gen, 1899, p. 97. 



FRIEDRICH MEINECKE 925 



causali. Ma con esso si intende anche ciò che agisce in modo 

durevole e che anche oggi opera su di noi che viviamo. E 

questa specie di influenza su di noi ha un significato insieme 

causale e sovra-causale ®. Ha un significato causale in quanto i 

grandi e potenti avvenimenti del passato — per esempio la 

fondazione dell'Impero romano — determinano ancora causal- 

mente, attraverso mille influenze secondarie, la nostra esisten- 

za odierna; ha un significato sovra-causale in quanto la catena 

delle relazioni causali non ci interessa da un punto di vista 

puramente scientifico, ma perché ne vogliamo trarre un vantag- 

gio particolare per la nostra propria vita. Questo vantaggio 

può essere soltanto di tipo pratico, tale da renderci atti a incide- 

re con maggiore efficacia nella vita attiva, oppure può consiste- 

re in una pura contemplazione, libera da scopi pratici immedia- 

ti; ma in entrambi i casi si tratta di valori, di valori vitali che 

vogliamo ricavare dalla storia; in entrambi i casi essa ci forni- 

sce — dovremo ritornarci sopra con maggiore precisione più 

avanti — contenuto, insegnamento e guida per la nostra vita. 

E questo bisogno è quello che ci spinge in fondo da sempre, 

ma in modo particolarmente forte nell'epoca moderna — accan- 

to e dietro al puro impulso conoscitivo rivolto alle relazioni 

causali — verso la storia. Soltanto a questo punto comprendia- 

mo del tutto che la ricerca delle relazioni causali, in quanto 

tenta di svelare l'intreccio delle tre impronte — in fondo diret- 



a. « Storico — dice Eduard Meyer nella Geschichte des Altertums, 

vol. 1-1, 3* ed. 1910, p. 188 — è quel processo del passato la cui efficacia 

non si esaurisce nel momento della sua comparsa, ma che agisce ancora 

in modo riconoscibile in periodo successivo, producendovi nuovi pro 

cessi ». In questo passo decisivo si fa purtroppo riferimento soltanto all’ele- 

mento causale, e non all'elemento di valore, nella determinazione con- 

cettuale di ciò che è « storico ». Tuttavia un paio di pagine dopo viene 

menzionato anche il « valore interno », cioè la maggiore formazione di 

una specificità individuale, come criterio di selezione di ciò che è storico. 

Si tratta di una discrepanza interna che è caratteristica dello stato del 

pensiero che domina la scienza specialistica. Si scorge sì l’intreccio di 

causalità e di valore presente nell'interesse storico, ma non lo si affronta 

in modo intrinseco soggiacendo così, dove si fornisce la definizione prin- 

cipale, a una pura idea di causalità. Per una critica a Meyer si veda 

anche H. Ricgert, Probleme der Geschichtsphilosophie, Heidelberg, 3? ed. 



1924, P. 59. 



926 FRIEDRICH MEINECKE 



ta dal più personale impulso vitale — oltrepassa la ricchezza 

degli strumenti conoscitivi puramente causali e cerca di avvici- 

narsi allo stesso modo dell’artista, con l’intuizione e la raffigura- 

zione vivente, ai fenomeni storici. È il suo valore per noi e per 

la nostra propria vita che cerchiamo di conquistare per questa 

strada. 


Il bisogno teoretico di conoscenza causale e il bisogno di 

valori vitali si sono sviluppati in modo strettamente, anzi inse- 

parabilmente connesso, nell'interesse storico. Forse che il biso- 

gno teoretico non è già in sé anche il bisogno di un valore 

vitale, del valore di verità? Certamente, ogni scienza deve servi- 

re in modo coerente e rigoroso, senza lasciarsi disturbare da 

intenti pratici collaterali, alla ricerca della verità, delle vere 

relazioni causali. Ma per noi servitori della scienza la nostra 

vita non sarebbe una vita completa se non fosse riempita da 

questa pura aspirazione alla verità. Per questo motivo noi l’ac- 

cresciamo e l’approfondiamo, e la nostra teoria si trasforma in 

prassi vivente e in formazione della vita. La tendenza pratica 

non può introdursi troppo presto in essa, e influenzare la ricer- 

ca di relazioni causali. Prima la via delle relazioni causali de- 

V’essere percorsa con sicurezza fino all’ultimo punto raggiungi- 

bile, e solamente allora si può, anzi si deve ricorrere a quei 

mezzi sovra-causali per soddisfare il bisogno di valori vitali 

che opera dal profondo. 


Che l’« essenziale » nella storia comprenda però non soltan- 

to relazioni causali, ma anche valori vitali, può essere illustra- 

to con un esempio ipotetico. Poniamo il caso che si scopra 

l'opera di un autore sconosciuto del passato, di grande forza e 

profondità spirituale ma rimasta completamente ignota agli stes- 

si contemporanei e quindi completamente priva di influenza 

causale sul suo tempo: la dichiareremo perciò storicamente ines- 

senziale e inefficace? Essa potrebbe agire nel modo più forte 

su di roi e comincerebbe quindi ad agire ora causalmente tra 

di noi, ma soltanto perché rappresenta per noi un valore vita- 

le. Questo è perciò l'elemento primario per il nostro interesse, 

e si realizza in noi — né potrebbe avvenire altrimenti — attra- 

verso la causalità. Ma il nostro interesse storico non è diretto 

qui alla ricerca di questa causalità, bensì alla comprensione e 

alla rianimazione di un grande valore spirituale del passato. 



FRIEDRICH MEINECKE 927 



Questa comprensione deve naturalmente applicare ancora stru- 

menti causali e tentare di mediare l’origine storico-temporale 

dell’opera in questione; ma la ricerca causale è qui soltanto un 

mezzo diretto allo scopo del pieno ripristino di un valore spiri- 

tuale. 


Un fanatico della causalità potrebbe obiettare che si può e 

si deve certo indagare quell’opera rimasta causalmente ineffica- 

ce nella sua epoca, ma per il fatto che essa vale come effetto di 

relazioni causali, e riporta alla luce forze impulsive di quell’e- 

poca finora ignote, le quali soltanto potevano produrre una 

tale opera. Ma queste relazioni causali — si risponderà subito 

— non ci interesserebbero affatto se qui non fosse appunto 

presente un grande valore, che ci avvince di per sé arricchendo 

così la nostra vita. 


No: sotto ogni ricerca di relazioni causali sta, mediatamen- 

te o immediatamente, la ricerca di valori, la ricerca di quella 

che si chiama cultura nel senso più alto — irruzioni e manife- 

stazioni dello spirituale all’interno della connessione causale della 

natura. La terza delle tre impronte del corso storico è quella 

che produce questi valori. La piccola selezione di ciò che consi- 

deriamo degno di indagine nella sterminata massa dell’accade- 

re si compie — come ha mostrato Rickert — in conformità 

alla relazione che questo accadere ha avuto con i grandi valori 

culturali. Egli ci insegna che lo storico indaga soltanto fatti in 

relazione a valori; e aggiunge che lo storico deve soltanto inda- 

garli e rappresentarli, non già valutarli, se vuol rimanere entro 

i limiti della sua scienza. La seconda tesi scaturisce dalla preoc- 

cupazione per la conservazione del carattere scientifico della 

ricerca storica, dalla preoccupazione verso la penetrazione di 

tendenze soggettive. Ma è possibile rispettare tale prescrizio- 

ne? Essa è irrealizzabile *. Già soltanto la selezione di fatti in 



a. H. Ricgerr (Probleme der Geschichtsphilosophie cit., p. 67) am- 

mette sì l’« inseparabilità psicologica del valutare dalla designazione 

di valore », ma vuol separare il valutare dall’essenza /ogica della storia. 

Ora, ciò che è psicologicamente inseparabile dall’attività dello storico 

dev'essere riconosciuto anche dal logico — per quanto egli possa sepa- 

rarlo con i suoi strumenti — come psichicamente connesso con tale 

attività in modo essenziale. E il valutare non è una funzione accessoria 

superflua nell'attività dello storico. Io concedo a Rickert che «lo storico 



928 FRIEDRICH MEINECKE 



riferimento a valori non è possibile senza una valutazione. Lo 

sarebbe solamente se i valori a cui i fatti si riferiscono consistes- 

sero — come ritiene Rickert — in categorie tanto generali 

quanto lo sono la religione, lo stato, il diritto. Ma lo storico 

non sceglie il suo materiale soltanto secondo queste categorie 

generali, ma anche in base all'interesse vivente per il loro conte- 

nuto concreto. Egli lo concepisce come più o meno fornito di 

valore, cioè lo valuta. La rappresentazione e l'illustrazione di 

fatti culturalmente importanti non è affatto possibile senza la 

più viva sensibilità per i valori che in essi si manifestano. Per 



può astenersi da ogni giudizio valutativo sui suoi oggetti », ma una 

siffatta storiografia, libera da valutazioni, o è soltanto raccolta di mate- 

riale e lavoro preparatorio per la vera e propria storiografia oppure, se 

ha la pretesa di essere storiografia, appare del tutto insulsa — a meno 

che il temperamento dell'autore non la colori e la renda viva di nuovo 

con valutazioni non arbitrarie, come avviene per esempio nelle stra- 

ordinarie ricerche ed esposizioni storiche di Max Weber. — Anche Hein- 

rich Maier (Das geschichiliche Erkennen, Gòttingen, 1914, p. 34) ritiene, 

pur discostandosi fortemente da Rickert, che « cadere in giudizi di valore 

non è affare della storia »; ma spiega contemporaneamente che vietare 

giudizi di valore allo storico pieno di temperamento è soltanto noiosa 

pedanteria. Egli distingue cioè tra una posizione propriamente storica, la 

quale esclude i giudizi di valore, e un'altra posizione di fronte alla 

storia, anch'essa legittima, di carattere etico-estetica e quindi valutativa. 

Deve lo storico assolvere contemporaneamente entrambi i compiti nello 

spazio della stessa opera, anche se il primo — il compito propriamente 

storico — esclude il secondo? Ciò è impossibile e ibrido, una specie di 

doppia morale professionale che rompe l’intima connessione psichica pre- 

sente nell'attività dello storico. Una logica della storia che voglia raggiun- 

gere il suo fine deve partire da questa, deve analizzare lo storico reale, 

vivente, non lo storico costruito logicamene — ed egli di regola si com- 

porta, anche se non lo vuole, in maniera valutativa. Chi sta dentro la 

prassi ininterrotta della storiografia percepisce questo elemento in modo 

completamente differente dal filosofo — G. von Below (Die deutsche 

Geschichtschreibung von den Befreiungskriegen bis zu unseren Tagen: 

Geschichtschreibung und Geschichtsauffassung, Miinchen und Berlin, 

2 ed. 1924, p. 116) scrive: « una connessione di fatti non può essere 

effettuata senza giudizi di valore ». Quest'affermazione si spinge forse 

troppo in là. Certe connessioni causali di tipo semplice possono essere 

effettuate anche senza giudizi di valore; quelle di tipo più complesso — 

per esempio la constatazione delle cause della Riforma, della Rivoluzione 

francese e, ora, del crollo del 1918 — vengono sempre determinate insieme 

da giudizi di valore. 



FRIEDRICH MEINECKE 929 



quanto lo storico possa, almeno formalmente, anche sospende- 

re il proprio giudizio di valore su di essi, questo è tuttavia 

presente tra le righe, e in quanto tale influenza il lettore. 

Sovente esso agisce quindi — particolarmente in Ranke — in 

modo più profondo e incisivo di quanto non accadrebbe se 

fosse rivestito della forma di una censura immediata, ed è per- 

ciò da raccomandare come espediente. Il giudizio di valore sol- 

tanto implicito dello storico stimola l’attività valutativa pro- 

pria del lettore in maniera più forte di quello apertamente 

dispiegato. Nella misura in cui si presentano in apparenza sol- 

tanto relazioni causali, tanto più immediatamente e creativa- 

mente lampeggia in esse l'elemento di valore, la manifestazio- 

ne di una potenza spirituale all’interno della connessione causa- 

le. Ma spesso il giudizio diretto di valore non dev'essere evita- 

to, per recare a piena chiarezza il valore di ciò che è accaduto. 

Avviene qui come in quelle forme di culto divino in cui il 

silenzio sacro e la parola del sacerdote si alternano nella venera- 

zione del divino. E la ricerca storica è precisamente culto del 

divino, preso nel senso più ampio. Si vuole vedere confermato 

nel mondo, attraverso la sua rivelazione, ciò che si percepisce 

per sé come fine spirituale della vita. Si vuol diventare consape- 

voli della forza e della continuità della corrente spirituale del- 

la vita, che per l'individuo sfocia sempre in lui stesso; si vuol 

trovare la via per cui l'uomo è venuto, per indovinare quella 

che percorrerà. Si vuol venerare le potenze che consentono di 

innalzare la nostra esistenza dal vincolo naturale alla libertà 

dell’elemento spirituale. In qualsiasi modo si rappresenti la divi- 

nità, si vuol cercarla nella storia. 


Anche il ricercatore che fa valere soltanto la connessione 

causale spogliata del carattere divino, e che nella storia cerca 

quindi soltanto relazioni causali, è spinto — come abbiamo 

chiarito — dal bisogno di un valore superiore e comprensivo, 

anche se si tratta soltanto del valore della verità in sé. Certa- 

mente anche lo scienziato naturale è spinto dal valore della 

verità, e può tuttavia lavorare libero da tutti gli altri valori. 

Ma delle tre funzioni del «distinguere, scegliere e giudica- 

re »', che costituiscono il compito specifico dell’umanità, egli 



1. Allusione a una coppia di versi di Goetne, Das Gòtiliche, vv. 39-40. 



59. STORICISMO TEDESCO. 



930 FRIEDRICH MEINECKE 



deve esercitare nel suo ambito di lavoro soltanto quella del 

distinguere. Lo studioso della cultura deve invece esercitarle 

tutte e tre, perché i processi che indaga scaturiscono dalla natu- 

ra umana nel suo complesso, si sono costituiti in virtù di un 

« distinguere, scegliere e giudicare » e sono comprensibili soltan- 

to attraverso le medesime operazioni. Se lo scienziato naturale 

può lavorare libero da valori, lo studioso della cultura deve 

lavorare vincolato ai valori, anche quando vuol trattarla secon- 

do il metodo dello scienziato naturale — e perfino al semplice 

raccoglitore di materiale ciò viene risparmiato di rado. 

Diventa ora chiaro che nella storiografia possono esserci 

due tendenze principali: la prima è attratta dalle relazioni 

causali, anche se non può mai spogliarsi dei valori e quasi mai 

dei propri valori; la seconda si sente attratta dai valori, pur 

senza potersi sottrarre alle relazioni causali. Ognuna di esse 

presenta dunque una duplice polarità, e in entrambe sono possi- 

bili e presenti sfumature e transizioni, mescolanze diverse dei 

due elementi. La distinzione delle due tendenze è risultata più 

chiara soltanto quando la storia cominciò a venir esercitata se- 

condo metodi rigorosamente scientifici, e si approfondirono le 

questioni riguardanti l’essenza della storia e i compiti dello 

storiografo. La più antica storiografia politica mescolava, nar- 

rando gli eventi in forma epica, valori ingenuamente sentiti e 

relazioni causali®. La storia illuministica voleva porre in luce i 



a, Il punto di vista valutativo come criterio di selezione del materiale 

storico fa la sua comparsa in modo significativo in Machiavelli. Nella pre- 

fazione alle /storie fiorentine egli biasima i suoi predecessori Leonardo 

Bruni? e Poggio Bracciolini* per aver narrato soltanto la storia esterna, 

e non la storia interna, della città di Firenze, con tutte le sue lotte 

movimentate: « Né considerarono come le azioni che hanno in sé gran- 

dezza, come hanno quelle de’ governi e degli stati, comunche elle si 

trattino, qualunque fine abbino, pare sempre portino agli uomini più 

onore che biasimo ». 



2. Leonardo Bruni (1370-1444), uomo politico c umanista italiano, fu dal 1417 

fino alla morte cancelliere della Repubblica fiorentina; traduttore di Platone c di Ari- 

stotele, autore degli Episcolarum libri VIII, del De studtis et litteris e del trattato di 

ctica Isagogicon moralis disciplinae, nonché di duc importanti opere storiche, gli 

Historiarum florentini populi libri XII e il Commentarius rerum suo tempore gestarum. 


3. Poggio Bracciolini (1380-1459), uomo politico e umanista italiano, fu dap- 

prima segretario apostolico e in seguito, dal 1453 al 1458, cancelliere della Repubblica 



FRIEDRICH MEINECKE 931 



valori della cultura progressiva dell'Illuminismo come l’unico 

oggetto veramente degno della storiografia, ma non fu in gra- 

do di penetrare con essi lo spessore dell’accadere politico — 

che pure non osò mettere da parte — e in tal modo accostò i 

due elementi in maniera disorganica. La storia politica di ten- 

denza voleva e vuole proprio porre in luce dei valori, cioè i valo- 

ri dei suoi ideali politici, ma dev'essere completamente esclusa 

dalla nostra considerazione perché il concetto di valore storico, 

nel senso in cui lo intendiamo, non abbraccia soltanto i nostri 

propri ideali politici o apolitici, ma ogni forte manifestazione 

di vita propriamente spirituale, e quindi anche gli ideali dell’av- 

versario. Wilhelm von Humboldt è stato forse il primo a richie- 

dere una storiografia del genere, rivolta a tutti i valori spiritua- 

li dell'umanità — questo sono infatti le sue /deen — e fondata 

sull’indagine di tutte le relazioni causali conoscibili. Ranke ha 

realizzato questa storiografia riunendo tra loro organicamente, 

in maniera ideale, la ricerca delle relazioni causali e la rappre- 

sentazione dei valori, in ultima analisi cercando quindi Dio 

nella storia; cosicché lo si può far rientrare in quella tendenza 

che, nel suo fondamento ultimo e decisivo, si lascia attrarre 

dai valori. Il positivismo del tardo Ottocento scatenò la controf- 

fensiva e pretese una trattazione avalutativa e puramente causa- 

le della storia: esso riuscì soltanto sporadicamente a farla pene- 

trare in pieno nel lavoro della storiografia scientifica, tuttavia 

rafforzò in essa la tendenza a porre in primo piano la ricerca 

delle relazioni causali. Ne conseguì una ricerca sterminata e 

specializzata del particolare, che è in auge ancor oggi. Nei 

fatti indagati causalmente lampeggiavano sì nuovi valori scono- 

sciuti del passato, ma la loro indagine fu eccessivamente mecca- 

nizzata dall’inevitabile divisione del lavoro, e la loro massa 

diventò troppo grande per poter essere padroneggiata e gusta- 

ta spiritualmente. Ne derivò quindi — e ne deriva ancor oggi 

— un contraccolpo che spinge a più forti e appassionate sensa- 

zioni di valore, la tendenza alla raccolta e al vaglio dei valori, 

al rifiuto dei valori minori, all’accentuazione (e anche alla so- 



fiorentina; infaticabile scopritore di codici, autore di scritti filosofici come il De gva- 

ritia (1428-1429), il De varietate fortunae (1431-1448), i! De nobilitate (1440), il De 

infelicitate principum (1440), il De miseria humanae conditionis (1455), redasse gli 

Historiarum florentini populi libri VII. 



932 FRIEDRICH MEINECKE 



pravvalutazione) dei valori culturalmente superiori. Ciò consente, 

in linea di principio, la fondazione mediante una solida indagine 

di relazioni causali, ma qua e là, nella prassi degli storici più 

giovani, si comincia a trascurarla in modo preoccupante. La 

sintesi è la parola d’ordine con cui dall’angusto lavoro dell’inda- 

gine causale si aspira ai grandi valori dominanti della vita e 

del passato. Si mettono in moto sensazioni soggettivistiche e 

mistiche le quali premono, senza la strada faticosa della ricer- 

ca del particolare, verso la riunificazione immediata con l’ani- 

ma del passato. Si vuol trarre da essa — come ci si esprime 

volentieri — soltanto l’« eterno» e l’« atemporale », lasciando- 

ne cadere i presupposti storico-temporali. Si costruisce senza 

molta induzione, in base ad alcune vestigia impressionanti del- 

la tradizione e con l’aggiunta esorbitante dei propri ideali, e 

poi si abbraccia l’immagine fantastica che ci si è creati da sé. 

Quest’aspirazione agli alti e supremi valori culturali contrasse- 

gna in modo peculiare la scuola dei cosiddetti « georgiani », 

cioè i seguaci di Stefan George* — anche perché essa si pone 

pretese rigorose, rimanendo nelle sue opere migliori intatta da- 

gli errori di un modo di lavoro negligente e attingendo varie 

volte un'alta perfezione formale, ma con una tendenza all’ecces- 

siva raffinatezza e all’assottigliamento dell’atmosfera spiritua- 

le, in cui si dissolvono le rozze relazioni causali terrene. 


Il lavoro di ricerca della corporazione vera e propria degli 

storici è ancora relativamente poco toccata da queste tendenze, 

ma chi conosce i bisogni della giovane generazione sa che qui 

spesso si agita, in modo prepotente, qualcosa di esse. È la 

costellazione spirituale complessiva della nostra epoca che ha 

prodotto queste tendenze — la reazione di ciò che si può chia- 

mare anima contro la minacciosa meccanizzazione civilizzatri- 

ce della vita e contro gli sterminati poteri delle masse, che si 

sono manifestati nella guerra mondiale e durante il crollo. Es- 

si si gonfieranno presumibilmente in misura ancora più forte, 

diventando un fattore importante nel futuro delle scienze stori- 



4. Stefan George (1863-1933), pocta lirico tedesco, autore di numerosi volumi di 

versi come gli Hymnen (1890), Algabal (1892), Das Jahr der Scele (1897), Der Teppichk 

des Lebens und die Lieder von Traum und Tod (1899), Der siebente Ring (1907), Stern 

des Bundes (1913), Das neue Reich (1928), raccolse intorno a sé un cenacolo letterario 

che prese il nome di George-Kreis e in seguito di George-Bund. 



FRIEDRICH MEINECKE 933 



che. E dato che anche i miei tentativi si muovono in questa 

direzione, posso ben parlarne in base alla mia propria esperien- 

za, poiché avverto personalmente la loro grande necessità inter- 

na al pari dei loro pericoli. Da un lato calcificazione corporati- 

va, dall’altra imbarbarimento soggettivistico, sono i due scogli 

su cui potrebbe frantumarsi la nostra scienza nel corso della 

prossima generazione. La bussola può essere sempre e soltanto 

questa: nessuna causalità senza valori, nessun valore senza rela- 

zioni causali. Senza una robusta fame di valori l’indagine del- 

le relazioni causali si trasforma, anche se condotta con tecnica 

virtuosistica, in mestiere triviale. Senza il piacere immediato 

della realtà concreta e delle sue connessioni causali, rozze o 

raffinate, la rappresentazione di valori ideali perde il suo terre- 

no naturale, diventando vuota e arbitraria. L'equilibrio tra le 

due tendenze non si realizzerà — stando così le cose — in 

modo ideale com'era possibile in Ranke, perché la problematici- 

tà della situazione moderna e del pensiero moderno ha distrut- 

to le armonie in cui egli viveva interiormente ed esteriormen- 

te. Oggi sembra che solamente una certa unilateralità possa 

proteggere l’uomo spirituale dallo sconcertante predominio del- 

l'ambiente. Ma l’aspirazione all’armonia deve restare operante 

e potrebbe estinguersi soltanto con la decadenza o il crollo 

completo della nostra cultura. 



II 



Quando Rickert ha aperto il cammino con la sua teoria dei 

valori culturali e ha collocato questo concetto al centro della 

dottrina della storia, Alfred Dove ha parlato con diffidenza e 

sospetto della sua « anguillesca elusività » ®. Un diretto scolaro 

di Ranke qual egli era, abituato a porre l'intuizione al di 

sopra della comprensione concettuale, e che per giunta viveva 

e si muoveva familiarmente tra i valori culturali, non aveva 

bisogno di un nome per ciò che già recava in sé. Ma il pensie- 

ro concettuale segue da vicino il pensiero intuitivo e non può 



a. A. Dove, Ausgewàhlte Aufsitze und Briefe (a cura di F. Meinecke 

ce O. Damman), Miinchen, 1925, vol. II, p. 279. 



934 FRIEDRICH MEINECRE 



rinunciare al tentativo di delimitare in modo più preciso ciò 

che ci stava dapprima davanti agli occhi soltanto in modo intui- 

tivo e vivente. Se — come in questo caso — di chi pensa 

piuttosto in modo intuitivo si deve dire che non raggiunge il 

suo scopo e che rende non già più chiaro, ma più confuso 

l'oggetto di cui si tratta, ci si può sì scusare della povertà 

dello strumento linguistico che costringe anzitutto all’uso di 

una parola equivoca, ma si deve anche tentare di sanare l’indi- 

stinzione del nuovo concetto con più precise determinazioni 

particolari. Tentiamone alcune. Come spesso avviene, una nuo- 

va parola d'ordine, nata dalla vita e all’inizio assai cangiante, 

non sviluppa una fecondità inaspettata, in quanto induce piutto- 

sto a unificare in connessioni determinate i fenomeni particola- 

ri che erano dispersi. Chiarimento e delimitazione, nella misu- 

ra in cui sono possibili, seguono sempre soltanto gradualmen- 

te. Umanità, umanesimo, nazionalità, nazionalismo, storici- 

smo, individualismo e così via non sono che parole d’ordine e 

concetti familiari, equivoci e sfuggenti ma tuttavia fecondi, in- 

dispensabili, che si chiariscono e si approfondiscono a poco a 

poco, anche se mai in modo definitivo, attraverso l’uso. 


Determinare l’essenza dei valori è l'impegno scottante della 

filosofia moderna. Lo storico tenterà di imparare da essa, ma 

non per questo può e deve rinunciare a formare in base alle 

sue esperienze più proprie la sua immagine dell’essenza dei 

valori, che dal punto di vista del filosofo apparirà molto som- 

maria, equivoca e perciò lacunosa, ma che proprio perché crea- 

ta dalla prassi della ricerca storica possiede forse una maggiore 

sicurezza di istinto rispetto a quella che nasce da sforzi di 

carattere più logico-astratto. 


Con Troeltsch noi distinguiamo i valori inferiori della vita, 

puramente animali — che lo storico può prendere in considera- 

zione soltanto sotto forma di relazioni causali — dai valori 

superiori della vita, dai valori spirituali o culturali * che costitui- 



a. Non posso condividere picnamente le distinzioni di H. Rickert (Le- 

bensiwerte und Kulturwerte, « Logos », II, 1911-12, pp. 131-66, e Philoso- 

phie des Lebens, Tiibingen, 1920, p. 156 sgg.), secondo cui non esistereb- 

bero in fondo valori che siano soltanto valori vitali, e i valori culturali 

sarebbero più o meno distanti o anche opposti alla vita — per quanto 



FRIEDRICH MEINECRE 935 



scono la sfera d'interesse propria dello storico, e la cui compren- 

sione è il suo fine supremo. Con il termine «spirito» non 

intendiamo semplicemente l’elemento psichico bensì — secon- 

do il significato antico — la vita psichica altamente sviluppata, 

ossia appunto ciò che « distingue, sceglie e giudica », producen- 

do in tal modo cultura. La cultura è pertanto rivelazione e 

irruzione di un elemento spirituale all’interno dell’universale 

connessione causale. Tra la vita culturale e la vita naturale 

dell’uomo sta un campo intermedio che partecipa di entrambe, 

che designiamo con il termine (oggi sempre più impiegato in 

questo senso) di civiltà e che distinguiamo dalla cultura superio- 

re, spirituale in senso pieno — mentre un uso linguistico più 

vago, ma anche molto più diffuso, confonde tra loro i due 

concetti *. La civiltà si innalza al di sopra della mera natura, 

la quale viene trasformata dall’intelletto spinto dalla volontà 

vitale e rivolto all’utile. In essa rientra anzitutto l’intero ambi- 

to delle scoperte tecniche. Come scoperte, come realizzazioni 

di una mente spiritualmente produttiva e originale, sono an- 

che opere di cultura. Ma esse possono venir spiegate anche 

biologicamente, in base a ciò che si chiama « adattamento ». 

L’atto stesso delle scoperte ha quindi un aspetto biologico e un 

aspetto culturale. Una volta compiute, applicate ed estese, esse 

minacciano, se non le sorregge una vita spirituale autonoma, 

di sprofondare di nuovo nell’elemento meramente naturale — 

e infatti una tecnica applicata si trova anche presso gli anima- 

li. Ho cercato di illustrare questo campo intermedio dell’utilita- 

rio con un esempio, quello della ragion di stato. Lo storico 

dovrà avere continuamente a che fare con esso, non soltanto 

perché la parte di gran lunga maggiore delle relazioni causali 



mi senta vicino, anche nel contenuto, alla sua concezione dell'essenza 

della cultura. In fondo, qui ci separa più la terminologia che non una 

differenza sostanziale. 


a. Si dovrebbe una buona volta indagare l'origine e la storia delle 

distinzione tra cultura e civiltà. A quanto mi risulta, essa è stata espressa 

per la prima volta da Kant nella sua /dee 2u ciner allgemeinen Geschichte 

in weltbitrgerlicher Absicht. Nella settima tesi si legge: « L'idea di mo- 

ralità rientra ancora nella cultura; ma l’uso di questa idea, che riguarda 

soltanto ciò che è conforme al costume nell'amore dell'onore e nella cor- 

rettezza esteriore, costituisce semplicemente la civiltà ». 



936 FRIEDRICH MEINECKE 



che deve indagare appartiene a questo ambito, ma anche per- 

ché i processi in esso presenti possono diventare, in virtù di un 

incremento spesso non percettibile, opere di cultura. Se ciò che 

è soltanto utile deve diventare bello e buono, l’anima deve 

vibrare — non abbiamo davvero altro termine; altrimenti esso 

rimane appunto prestazione intellettuale senz'anima e senza spi- 

rito, mera civiltà e non cultura. La cultura compare soltanto 

dove l’uomo intraprende la lotta con la natura impegnandovi 

tutta la sua interiorità, non soltanto la volontà e l’intellet- 

to, dove agisce valutando nel senso più alto, ossia dove crea o 

cerca qualcosa di buono o di bello in quanto tale, oppure cerca 

il vero in quanto tale*. Tutto quanto l’uomo compie valutan- 

do in tal senso, è fornito di valore anche per lo storico”, e gli 

offre conferma della continuità e fecondità dell’elemento spiri- 

tuale nella storia, gli indica la via che il suo dispiegarsi ha 

preso fino a lui. Ma per poterlo comprendere completamente, 

lo storico deve — come abbiamo detto — indagare l’intero 

campo in cui si radicano processi causali che in gran parte non 

hanno nulla a che fare con la cultura. All’interno della sua 

rappresentazione — se questa procede onestamente — ciò che 

è legato ai valori e fornito di valore risplenderà quindi soltan- 

to qua e là, al pari che nella vita, come una gemma rara tra 

ciò che cresce. 


Ma quanto sono rari in confronto alla massa di processi 

umani in generale, altrettanto incomparabilmente numerosi so- 

no all’interno della storia queste realizzazioni e questi valori 



a. Pongo qui a fondamento l'antica tripartizione dei beni ideali, anche 

se essa non esaurisce il loro ambito e il loro contenuto. Ma essa può venir 

utilizzata a scopo di abbreviazione. 


b. Identifico quindi realizzazione culturale e valore culturale. I valori 

culturali non soltanto « aderiscono » — come ritiene Rickert — alle realtà 

storiche senza essere essi stessi realtà, ma costituiscono un fattore inte- 

grante delle realtà storiche, poiché queste possono venire alla luce soltanto 

in virtù della cooperazione della causalità etico-spirituale, realizzatrice di 

valori, con la causalità meccanica e biologica. Si veda anche la critica che 

E. TroeLTscH ha rivolto (in Der Historismus und seine Probleme, Tibin- 

gen, 1922, p. 153) alla dottrina rickertiana della mera «aderenza » dei 

valori culturali ai fenomeni storici reali. La questione se al di là della 

realtà storica esista un sistema di valori oggettivi, è un problema metafi- 

sico che lo storico deve lasciare al filosofo. 



FRIEDRICH MEINECKE 937 



culturali. Ogni anima umana individuale è infatti in grado di 

produrre valori culturali — si tratti anche soltanto dei valori 

del semplice adempimento del dovere a causa del bene. Secon- 

do quali princìpi si compie qui la selezione dello storico? Anzi- 

tutto, certamente, secondo il principio dell’efficacia causale. 

Tutte le realizzazioni culturali che hanno influenzato con mag- 

gior forza e permanenza la conservazione e l'ulteriore svilup- 

po della cultura sono degne d’indagine e di rappresentazione. 

Il confine tra ciò che è importante e ciò che non è importante 

risulta quindi fluido, e dipende dalla sensibilità e dalla posizio- 

ne dello storico. Dipende dalla posizione perché, a seconda che 

si riferisca a formazioni storiche più limitate o più comprensi- 

ve, egli deve vagliare in modo diverso il materiale dei fatti: 

ad esempio, per l’esposizione della storia di una città assumerà 

come importanti fatti che su un piano superiore, come in una 

storia nazionale, devono essere senz’altro ritenuti non importan- 

ti*. Altrettanto fluida e dipendente dalla sensibilità è l’applica- 

zione del secondo criterio di selezione delle realizzazioni cultu- 

rali, del quale abbiamo già parlato prima in un altro contesto: 

quello del valore culturale proprio dei fenomeni storici. Mai e 

poi mai le grandi realizzazioni culturali e le manifestazioni di 

un elemento spirituale possono essere valutate esclusivamente 

in base al grado della loro influenza causale sul progresso del- 

la cultura. Esse poggiano — del tutto indipendentemente dal 

fatto che abbiano influito o no sulla loro epoca — anche su se 

stesse, e sono di per sé degne di indagine, di rappresentazione 

e di venerazione. Di esse vale ciò che il poeta dice dell’antica 

lampada, che non ha più nessuna utilità ma che lo incanta: 

« ma ciò che è bello, sembra felice in se stesso » 5. Questo è il 

punto che le abituali intuizioni degli storici su ciò che è degno 

di indagine non sono ancora giunte a decidere. Ho spesso di- 

scusso con Troeltsch in merito alla « sopravvalutazione delle re- 



a. Heinrich Mater ha richiamato l'attenzione, in modo molto istruttivo, 

su questa specie di procedimento cartografico: si veda Das geschichiliche 

Erkennen cit., p. 33. 



s. Eduard Mòrire, nella lirica Auf cine Lampe, in Werke in drei Binden, 

Miinchen, 1951, vol. I, p. 82, v. 10. 



938 FRIEDRICH MEINECRE 



lazioni causali » che ancor oggi domina la scelta del materia- 

le* 


Si sopravvalutano le relazioni causali particolarmente quan- 

do si disconosce il momento individuale dell’origine dei valori 

culturali e si trascurano quindi quelle relazioni causali che sca- 

turiscono dalla spontaneità dell’agire etico-spirituale personale 

e che non sono perciò così facili da inserire nella connessione 

causale come le relazioni causali di natura meccanica e biologi- 

ca. I valori culturali nascono sempre soltanto dall’irruzione di 

una forza spirituale specifica entro le serie causali meccanica- 

mente o biologicamente determinate. Ogni elemento spiritua- 

le, ogni valore culturale è specifico, individuale, insostituibile 

da altri. Chi gusta l’individuale in esso presente proverà anche 

subito il senso del suo valore e lo apprezzerà quindi non soltan- 

to come un elemento importante della catena causale, ma an- 

che di per se stesso. Certamente c’è pure un’individualità indif- 

ferente e libera da valori — ogni oggetto ne ha una. Individua- 

lità storiche sono però soltanto quei fenomeni che hanno in sé 

qualche tendenza al bene, al bello o al vero, e che perciò diven- 

tano per noi fornite di significato e di valore. Esse lo diventa- 

no tanto più quanto più fortemente questa tendenza si aggiun- 

ge, nobilitandola, alla mera tendenza all'affermazione della vi- 

ta e all’auto-affermazione delle formazioni umane. 


La comprensione più profonda dell’individualità, sia della 

personalità singola sia delle formazioni umane sovra-personali, 

fu la grande acquisizione realizzata in Germania dall’ideali- 

smo e dal Romanticismo, e che creò lo storicismo moderno. 

Soltanto in virtù di questa comprensione anche l’idea di svilup- 



a. Tale era anche il pensiero di Alfred Dove. Alludo alla sua bella 

lettera a Rickert del 2 gennaio 1899 (in Ausgewahlte Aufsitze und Briefe 

cit., vol. II, p. 208). Lo storico — in essa si dice — dedica alla vita passata 

«un interesse- che è del tutto indipendente dalla questione relativa alla 

misura in cui ha preparato la nostra vita presente. E perché vuol far 

questo? La relazione che essa ha con noi è presente anche senza una causa- 

lità del genere: se appena la vita passata che si prende in considerazione 

è in sé significativa, essa desta il nostro sentimento di partecipazione, 

in quanto fornita di valore dal punto di vista umano in generale. Noi non 

ci poniamo in relazione con il passato in modo meramente causale, anzi 

saltiamo l’intero spazio causale intermedio in virtù della semplice sim- 

patia ». 



FRIEDRICH MEINECKE 939 



po — che a torto viene spesso considerata criterio principale 

dello storicismo moderno, ma che è troppo versatile ed equivo- 

ca per poterlo essere — trovò il suo retto cammino *. Lo svilup- 

po del feto umano è uno sviluppo biologico, non uno sviluppo 

storico. Uno sviluppo storico ha luogo soltanto dove compare 

il fattore spontaneo dell’uomo che agisce in base a valori e che 

produce quindi qualcosa di specifico e di singolare. Perciò l’in- 

dividualità storica si « sviluppa» e ciò che si sviluppa storica- 

mente sono sempre soltanto individualità, le quali si manifesta- 

no nello sviluppo *. Anche la storia universale intesa per esem- 

pio nel senso rankiano — che possiamo ancor sempre difende- 

re, con alcune correzioni e riserve — è soltanto un'unica gran- 

de individualità, piena di innumerevoli individualità grandi e 

piccole. Tutti i valori culturali di questa storia sono al tempo 

stesso individualità storiche, fino all’individualità suprema del- 

la storia universale, e quindi pienamente comprensibili sempre 

soltanto in connessioni storico-universali. 


Tutto nella vita lotta per avere forma e figura, e viene 

sospinto da leggi di formazione. Questa conoscenza morfologi- 

ca — che per quanto riguarda la storia è stata sostenuta nel 

modo estremo e più unilaterale da Spengler — domina sempre 

più il pensiero moderno. Storicamente fornite di valore diventa- 

no però soltanto quelle forme e figure della vita umana che 



a. H. Ricgert ha potuto distinguere ben sette diversi tipi di sviluppo! 

Cfr. Die Grenzen der naturwissenschlichen Begriffsbildung, Tùbingen, 

1896-1902, cap. V, $ 5. — Contro la sopravvalutazione dell'idea di sviluppo 

si rivolge anche la lettera sopra citata di Alfred Dove a Rickert, ma con 

una motivazione che non posso condividere. Egli scrive: « dall’indivi- 

duale all’individuale non c'è sviluppo ». Qui si dimentica che ogni indi- 

vidualità è inserita in un’individualità di grado superiore, e che lo sviluppo 

che ha luogo entro questa individualità superiore collega tra di loro, con 

filo spirituale, anche le individualità più concrete che si sviluppano sepa- 

ratamente le une dalla altre. Così esiste di fatto, per esempio, uno sviluppo 

dall’individuo Lutero all'individuo Kant, ossia lo sviluppo che si è compiu- 

to nel mondo dello spirito tedesco-protestante. In merito al modo di 

vedere la storia proprio di Dove, si vedano le mie osservazioni nella 

« Historische Zeitschrift », CXVI, 1916, p. 83. 


b. « Gli sviluppi storici non sono altro che individualità storiche con- 

cepite nel loro divenire e nel loro crescere » (H. Ricxert, Probleme der 

Geschichtsphilosophie cit., p. 47). 



940 FRIEDRICH MEINECKE 



servono non soltanto alla sua necessità vitale, ma anche a un 

qualsiasi ideale e a valori etico-spirituali. Non appena dalla 

forma traspare qualcosa di individuale-spirituale, essa desta l’in- 

teresse dello storico; altrimenti rimane circoscritta alla sfera 

biologica della semplice affermazione della vita, e lo storico 

può considerarla soltanto da un punto di vista causale, per 

spiegare altri valori e non come valore in sé. 


Però, almeno per l’occhio umano, la sfera biologica e la 

sfera dei valori etico-spirituali non sono tra loro separate chiara- 

mente e univocamente, ma spesso si sovrappongono in modo 

impercettibile. È quanto abbiamo mostrato — mi riferisco di 

nuovo al mio libro sulla Idee der Staatsrison — a proposito 

del campo intermedio dell’utilitario. Questa impossibilità di de- 

terminare confini netti tra le due sfere è propriamente ciò che 

ha prodotto tutte le differenze presenti nel moderno pensiero 

relativo alle scienze dello spirito. Ognuno può infatti interpreta- 

re e tracciare in modo diverso questi confini, riconoscerli o 

non riconoscerli. Questa è la questione più tormentosa che per- 

seguita lo storico. Troppo spesso egli deve lottare con l’incertez- 

Za se questo o quell’elemento che egli indaga debba essere spie- 

gato in base alla mera necessità vitale e naturale, oppure facen- 

do anche ricorso a fattori etico-spirituali, a fattori di valore. 

Le necessità vitali e naturali, le relazioni causali di tipo biologi- 

co, attraversano da capo a piedi anche colui che agisce in base 

a valori e lo minacciano di intorbidare i valori, di far passare 

valori apparenti per valori autentici. La cosa più inquietante è 

che spesso un vincolo causale strettissimo unisce tra loro le due 

sfere, che spesso valori culturali grandi e benefici hanno un’ori- 

gine comune e sporca, vengono su faticosamente dalla notte e 

dalla profondità — cosicché sembra, in certo senso, che Dio 

abbia bisogno del diavolo per realizzarsi. Se poi si è d'accordo 

nel credere — di nuovo nel senso goethiano — all’unità della 

natura-dio, una luce più confortante cade anche su queste con- 

nessioni. Dove i processi naturali della vita umana non entra- 

no in contraddizione con i precetti dell'etica, e quindi non 

diventano peccato, essi possono apparire come lo sfondo natura- 

le indispensabile, gentilmente alimentante, per la produzione 

delle più splendide fioriture. Anche Goethe ha ben sfogato la 



FRIEDRICH MEINECKE 94I 



sua sensibilità nella sua arte così elevata — poco importa se ciò 

sia avvenuto con o senza peccato. 


È caratteristico il fatto che proprio in tale questione anche 

la ricerca storica che è abitualmente più rivolta alle relazioni 

causali dimentichi la causalità operante sui valori, cioè ignori 

o nasconda le grandi acquisizioni della cultura rispetto alla 

sua origine spesso spaventosa e disgustosa. Soltanto pochi stori- 

ci hanno l’acuta sensibilità posseduta da Burckhardt quando 

scoprì i presupposti politici e sociali della cultura del Rinasci- 

mento in tutto il loro orrore, rimanendo egli stesso turbato da 

questa connessione demoniaca. Soltanto allora si cominciano a 

registrare con una certa equanimità i successi della politica di 

potenza che hanno trasformato e rifecondato la vita culturale, 

e a considerarne i presupposti e gli effetti collaterali più machia- 

vellici come una conditio sine qua non. E in apparenza essi lo 

sono anche — ma con ciò va perduto il sentimento della tragici- 

tà della storia. 


La cultura che si fonda sulla spontaneità, sulla causalità la 

quale produce valori etico-spirituali ed è quindi di nuovo stret- 

tamente connessa alle relazioni causali di tipo biologico e mec- 

canico — questo è l’enigma che lo storico non può risolvere. 

Cultura e natura — possiamo anche dire Dio e natura — costi- 

tuiscono sì un’unità, ma un’unità scissa in sé. Dio si solleva al 

di sopra della natura con lamenti e gemiti, e carico di peccati; 

e perciò si trova ogni momento in pericolo di ricadere nella 

natura. Questa è l’ultima parola per colui che osserva le cose 

spregiudicatamente e onestamente — ma non può essere l’ulti- 

ma parola in generale. Soltanto una fede che è però diventata 

sempre più generale nel suo contenuto e che deve lottare in 

permanenza col dubbio può offrire il conforto che esista una 

soluzione trascendente del problema — per noi insolubile — 

della vita e della cultura. Ma noi abbiamo perduto la fiducia 

che qualche filosofo abbia fornito o possa ancora fornire que- 

sta soluzione trascendente. 


Il valore di verità dei sistemi filosofici e delle ideologie è 

quindi dubbio; indubbio rimane invece il loro valore culturale. 

Le formazioni ideali dei grandi pensatori sono quasi le più 

alte vette dello spirito in mezzo alla natura che lo sorregge, 

quasi sempre le realizzazioni supreme del misero essere uma- 



942 FRIEDRICH MEINECKE 



no, assetato di verità e sempre errante: soltanto l’opera della 

grande religiosità e l’opera d’arte stanno più in alto di esse. 


Se si riflette su quanto si è detto, ne risultano due specie di 

valori culturali. Gli uni vengono intenzionalmente elaborati in 

uno sforzo già prima diretto a tale scopo: formazioni ideali di 

tipo religioso e filosofico, politico e sociale, opere d’arte, scien- 

za. Gli altri fioriscono mediatamente, e non secondo un inten- 

to precedente, dalle necessità della vita concreta, indirizzata in 

senso pratico. Con i primi l’uomo cerca il cammino più diret- 

to e rapido dalla natura alla cultura; con i secondi rimane sul 

terreno della natura, ma con lo sguardo rivolto alle alte vette 

dei valori che lo guidano. Soddisfacendo le necessità della vita, 

egli cerca alla fine di soddisfarle in modo che si realizzino 

contemporaneamente i valori del vero o del bene o del bello. 

Vale quindi a questo proposito quanto ha detto Aristotele a 

proposito dello stato: è stato costituito per poter vivere, ma 

esiste per vivere bene. Ed è in primo luogo nello stato che la 

natura diventa in questo modo, capovolgendosi, cultura. Nel 

lavoro immediato o mediato entro la cultura sorgono così ovun- 

que degli esseri spirituali, individualità storiche, delle quali lo 

storico indaga contemporaneamente l’origine e l’efficacia causa- 

le al pari del valore. La soggettività, che è ora connessa a tutti 

i valori, viene posta almeno in secondo piano per il fatto che 

si apprezza in primo luogo il valore del fenomeno che essa 

reca in sé, come rivelazione specifica e insostituibile di vita 

spirituale *. Occorre inoltre trasferirsi nell'anima stessa di chi 

agisce per poterne osservare l’opera e la realizzazione culturale 

in base ai presupposti che gli sono propri, e in ultima analisi 

per rianimare con l'intuizione artistica la sua vita passata — il 

che non è possibile senza la trasfusione del proprio sangue 

vitale. Solamente un senso aperto con amore e tolleranza a 

tutto quanto è umano raggiungerà quindi quel grado di ogget- 



a. In ciò consiste anche la protezione contro la pericosa tendenza dei 

moderni « sintetici » a considerare il fenomeno individuale soltanto come 

elemento e rappresentante dello sviluppo universale, vale a dire — nella 

prassi — soltanto come punto di incrocio di tanti « ismi » astratti. In tal 

modo si arriva nuovamente a una pericolosa vicinanza con il positivismo, 

che pure si crede di aver superato. Nella più recente storia della letteratura 

e dell’arte questa tendenza spadroneggia ormai in modo inquietante. 



FRIEDRICH MEINECKE 943 



tività che è possibile. Qui si inserisce allora anche la teoria 

della relatività dei valori, che Troeltsch ha formulato ?. « Relati- 

vità dei valori non vuol dire relativismo, anarchia, caso o arbi- 

trio, bensì designa l’intreccio sempre mobile e creativo, e perciò 

mai determinabile atemporalmente e universalmente, di ciò 

che esiste di fatto e di ciò che dev'essere ». Ciò significa che la 

relatività dei valori non è altro che l’individualità in senso stori- 

co, l’orma, in sé fornita di valore, di un assoluto ignoto — 

poiché esso varrà per la fede come il fondamento creativo di 

tutti i valori — in ciò che è relativo e legato alla natura tempo- 

rale. 


Dal valore proprio delle individualità storiche si deve logica- 

mente distinguere il valore che esse hanno per noi e per la 

nostra vita. Nella determinazione di questo valore deve natural- 

mente agire con forza maggiore il bisogno soggettivo. Trarre 

dalia storia un insegnamento, un modello e un’esortazione rien- 

tra quindi tra i motivi ineliminabili che hanno da sempre con- 

dotto alla storiografia. Di qui i pericoli più gravi che minaccia- 

no il suo carattere scientifico: la distorsione tendenziosa, l’idea- 

lizzazione o la deformazione. Un senso storico purificato, che 

riconosca la legittimità sia del carattere scientifico sia di quello 

sopra-scientifico della storiografia, concederà che noi vogliamo 

imparare dalla storia anche per la nostra vita. Già lo studio 

delle relazioni causali offre insegnamenti pratici in gran quanti- 

tà. Tutte le cause generali e ricorrenti in modo tipico, che 

operano nella storia, possono ripetersi anche nel presente ed 

essere quindi considerate in base alle esperienze compiute nel 

passato ®. Ciò che nel corso storico è individuale, inimitabile, 



a. Cfr. Der Historismus und seine Probleme cit., p. 211. În questo 

contesto rinunciamo ad approfondire quelli che si chiamano i pericoli 

dello storicismo, cioè gli effetti relativizzanti del pensiero storico nei ri- 

guardi di tutti i valori, e ci limitiamo a quest'unica osservazione: che sol- 

tanto anime deboli e di poca fede possono scoraggiarsi e fallire sotto il 

peso di questo storicismo relativizzante. La fede in un assoluto ignoto non 

può venir scossa da esso. Ma la pretesa che questo assoluto ignoto si sveli, 

in modo da poter essere toccato con mano, è un residuo di rappresentazione 

antropomorfica della divinità. 


b. Hegel ha sì negato che popoli e governi abbiano mai appreso qual- 

cosa dalla storia e abbiano agito secondo gli insegnamenti che se ne pote- 

vano trarre. Ma è più giusto dire che di rado essi hanno imparato ciò che 



944 FRIEDRICH MEINECKE 



insostituibile, non sopporta invece una tale applicazione prati- 

ca. Può però diventare contenuto spirituale, modello ideale per 

coloro che possiedono un’individualità affine e rispondente, e 

contribuire in tal modo alla loro più profonda e più ricca for- 

mazione. Epoche e generazioni intere possono anche nutrirsi 

dei valori culturali di un determinato passato, ad esse particolar- 

mente affine. Le culture tarde di regola hanno bisogno di soste- 

gni siffatti. Ma sempre incombe allora il pericolo di una man- 

canza di autonomia da epigoni, il pericolo di soccombere inte- 

riormente agli spiriti del passato. Al contrario, uno spirito for- 

te come Max Weber poteva motivare il suo disegno immagi- 

nario di indagare la storia in modo avalutativo con uno scopo 

altamente carico di valori: «voglio vedere fino a qual punto 

posso resistere » ®. L'insegnamento più raffinato e più alto che 

la storia ci dà è però quello che scaturisce senza essere cercato 

— come lo abbiamo descritto sopra — dalla pura valutazione 

delle individualità storiche in sé. Il suo valore proprio è allo- 

ra ciò che diventa valido anche per noi. Esso non consiste in 

altro che nella conferma dell’infinita forza creativa dello spiri- 

to, la quale non ci garantisce certamente un processo rettili 

neo, bensì — all’interno dei limiti della natura — un’eterna 

rinascita di individualità storiche fornite di valore. In quanto 

queste individualità sono tutte causalmente connesse tra loro e 



l'osservatore desidererebbe che avessero imparato. Bene o male, Bismarck 

lo ha riconosciuto: « Per me la storia è servita anzitutto a imparare da 

essa qualcosa. Anche se gli avvenimenti non si ripetono, si ripetono tuttavia 

le situazioni e i caratteri, in base al cui spettacolo e al cui studio si può 

stimolare e formare il proprio spirito » (Gesprich mit Memminger, 1890, 

in Die gesammelten Werke, Berlin, vol. IX, 3° ed. 1926, p. 90). 


a. Marianne Weser, Max Weber. Ein Lebensbild, Tibingen, 1921, 

p. 690. 


b. A questo proposito si veda l'acuta osservazione di G. von BeLOw, 

Deutsche Geschichtsschreibung cit., p. 113, nota. — Non posso quindi 

considerare, con Troeltsch, la « comprensione del presente sempre come 

il fine ultimo di ogni ricerca storica » (cfr. Die Bedeutung des Protestan- 

tismus fiir die Entstchung der modernen Welt, Minchen, 1911, p. 6). 

Essa è certo un fine assai giustificato e necessario, ma non è né l’unico 

né il più alto. Ho spesso polemizzato con Troeltsch su questo punto; e 

anche nel suo Historismus (p. 696) egli mi rimprovera la « tendenza a 

evadere verso una contemplazione oggettiva e pura ». 



FRIEDRICH MEINECKE 945 



formano nel loro insieme la grande individualità complessiva 

della storia universale, anche l’individualità storica della nazio- 

ne, dello stato, della società, della chiesa ecc. — entro le quali 

viviamo storicamente e alle quali cooperiamo — diventa co- 

sciente del proprio radicarsi nel processo complessivo. Proprio 

questa consapevolezza può, a sua volta, sviluppare le più robu- 

ste forze etiche. La tradizione, che per conto proprio e inconsa- 

pevolmente — si potrebbe dire naturalmente — opera come 

legame tra le generazioni, come custode dei valori culturali 

acquisiti, soltanto ora si spiritualizza veramente, diventando va- 

lore culturale in senso pieno: 



« E così il vivente acquista 

di passo in passo nuova forza »°. 



Da quanto abbiamo detto risulta che la storia non è al- 

tro che storia della cultura, dove cultura significa produzio- 

ne di valori spirituali di volta in volta specifici, ossia di in- 

dividualità storiche. La polemica tra gli orientamenti storio- 

grafici della storia politica e della storia della cultura ha 

potuto aver luogo soltanto perché da entrambe le parti non 

si era chiarito il rapporto tra relazioni causali e valori nel- 

la storia. La storiografia politica vedeva nello stato il fat- 

tore centrale della vita storica — e, dal punto di vista causa- 

le, con pieno diritto, perché le influenze causali più forti an- 

che sulla vita culturale provengono sempre dallo stato. E in 

quanto ogni comunicazione di valori culturali ha bisogno della 

più ampia fondazione causale, già per questo motivo anche lo 

stato dovrà rimanere sempre al centro della ricerca storica. Ma 

esso è anche il valore culturale più alto possibile? Una certa 

inclinazione a elevarlo a valore supremo era presente fin da 

Hegel, anche se trovò sempre un limite nel giusto sentimento 

che, come valore, la religione gli è superiore. Lo stato non può 

essere quindi il valore supremo, perché è vincolato in modo 

più forte di quasi tutte le altre individualità storiche a necessi- 

tà naturali, biologiche, che gli impediscono di spiritualizzarsi 

e di eticizzarsi completamente. La religione nelle sue forme 

più pure e l’arte nelle sue realizzazioni più alte costituiscono i 



6. GorrHE, Zur Logenfeier des 3. September 1825, Zuwischengang, vv. 17-18. 



60. STORICISMO TEDESCO. 



946 FRIEDRICH MEINECKE 



valori culturali supremi. Solamente dietro di esse la filosofia e 

la scienza possono reclamare la loro posizione. Ma — ci si 

chiederà immediatamente — la vita attiva e produttiva dell’uo- 

mo non viene con ciò sminuita nel suo valore a profitto delle 

attività meramente contemplative e spirituali dell’uomo? Forse 

che la fuga dalla vita, la quale è sempre in qualche misura 

connessa con queste, deve porsi più in alto della formazione 

della vita? 


La risposta a tale interrogativo non può essere semplicemen- 

te un sì o un no. Si manifesta qui il peculiare incrociarsi dei 

valori. Se si chiede in quali sfere l’uomo può maggiormente 

innalzarsi al di sopra della natura, occorre indubbiamente indi- 

care le sfere della religione, dell’arte, della filosofia e della 

scienza. La vita produttiva lega l’uomo più fortemente alla 

natura: i valori culturali che l'uomo produce in essa recano su 

di sé più polvere terrena, sono più torbidi e impuri di quelli 

delle sfere contemplative che rifuggono dal mondo. Il compito 

di produrli non è soltanto più difficile, ma è anche più pressan- 

te e inevitabile che quello di portare alla luce i valori culturali 

delle sfere puramente spirituali. Il compito stesso di creare il 

valore culturale della religione acquista la sua piena urgenza e 

inevitabilità se essa non rimane auto-godimento mistico del divi- 

no, ma penetra nella vita produttiva e ne diventa fermento. 

Analogamente, dagli altri valori culturali elaborati in modo 

contemplativo — cioè l’arte, la filosofia, la scienza — si preten- 

de a buon diritto che essi fecondino non immediatamente, ma 

mediatamente, la vita produttiva. Tutti i valori culturali supre- 

mi sono tenuti a servire questa vita. Possiamo anche dire che 

la vita produttiva non crea certamente di per sé i valori cultura- 

li supremi, ma che il compito primo e più urgente è di creare 

in essa valori culturali. La vita contemplativa forma soltanto 

immagini della vita, non la vita stessa. Per questo motivo essa 

può creare qualcosa di più spirituale e di più perfetto di quan- 

to non possa fare la vita produttiva. Queste immagini devono 

e possono servire come guida alla vita produttiva nella sua 

lotta per i valori culturali. Lo storico deve quindi rivolgere la 

massima attenzione a questo problema: fino a qual punto e in 

quale grado la vita connessa alle necessità naturali venga in tal 

modo trasformata e mutata in cultura. 



FRIEDRICH MEINECKE 947 



Attraverso queste considerazioni l’importanza centrale del- 

la storiografia politica all’interno delle scienze storiche risulta 

fondata più profondamente — riteniamo — che non mediante 

gli argomenti finora addotti a tale scopo. Essa ha a che fare 

con valori culturali più imperfetti che non la storia della reli- 

gione, dell’arte ecc. Ma non invidia certamente a queste la 

fortuna di muoversi sulle vette dell'umanità. Indagando lo sta- 

to, il fattore causalmente più efficace della vita storica, e al 

tempo stesso cercando i valori che questo è in grado di produr- 

re, essa deve sempre guardare contemporaneamente alle profon- 

dità e alle vette della vita, e per farlo è costretta a porsi penso- 

sa nel centro della vita stessa. Essa è la più prossima alla vita 

tra le scienze storiche. Si può discutere — in base al concetto 

che si ha della vita storica — se la storia economica o la storia 

sociale non siano ancora più vicine alla vita. Per vita storica 

noi intendiamo però l’intreccio di natura e cultura; quanto più 

accanita è quindi la loro lotta fecondatrice, tanto più è presen- 

te la vita storica. Noi vediamo questo dualismo agire, nella 

sua forma più intensa, nello stato. Esso non lo conduce ai 

supremi trionfi della cultura, ma allo spettacolo più memorabi- 

le e più commovente della sua lotta con la natura. Spiritualizza- 

re ed eticizzare lo stato in cui si vive, anche se si sa che non ci 

si può riuscire del tutto, costituisce — insieme all’esigenza di 

elevare spiritualmente ed eticamente la propria personalità — 

la più alta delle pretese che si possano porre all’agire etico; 

perché lo stato costituisce la comunità di vita più influente e 

comprensiva e perché l’uomo che aspira alla perfezione può 

respirare liberamente soltanto in uno stato che aspiri anch'esso 

alla perfezione. E proprio l’elemento problematico, l'elemento 

di insicurezza e di precarietà presente nei valori culturali dello 

stato è ciò che attira con forza magnetica lo storico politico, 

per lo più in modo a lui stesso inconsapevole, verso i grandi 

uomini di stato della storia universale, nei quali il conflitto tra 

natura e cultura diventa grandioso. 


C'è poi ancora un campo intermedio tra la storia politica, 

che rappresenta la lotta per i valori culturali nella vita statale, 

e la storia dei valori culturali creati contemplativamente: il 

campo delle idee politiche. Qui vita attiva e vita contemplativa 

si fondono. Dalle necessità della vita politica attiva scaturisco- 



948 FRIEDRICH MEINECKE 



no gli impulsi diretti a formare immagini di questa vita nelle 

quali si mescolano tra loro realtà e ideale. Secondo il desiderio 

di chi le forma, esse devono reagire sulla vita immediatamente 

— e non soltanto mediatamente, come accade per le immagini 

formate dall’arte e dalla scienza. Quando vi riescono, esse di- 

ventano preludi di processi storici reali e sono già per questo 

motivo degne di essere indagate, in quanto rappresentano rela- 

zioni causali importanti. Con quanto zelo si è andati alla ricer- 

ca degli inizi dell'idea di sovranità popolare e dell’ideale sociali- 

stal Ma esse derivano il loro valore culturale peculiare dal 

fatto di rappresentare tentativi — rettilinei e ardui come quelli 

compiuti dagli uomini dediti alla vita contemplativa — di ele- 

varsi al di sopra di ciò che è meramente naturale e di spiritua- 

lizzare lo stato, almeno nel desiderio. Esse devono perciò venir 

considerate, rivissute e rappresentate di per sé, nel loro specifi 

co valore individuale, e non solamente nella loro efficacia causa- 

le, con tanto sangue vitale quanto sarebbe necessario per infon- 

derlo di nuovo in loro. Altri possono essere presi in misura 

più forte da altri tratti della vita storica concreta; io sono sem- 

pre stato profondamente commosso dallo spettacolo delle idee 

individuali che — nell’urto delle rozze forze terrene della vita 

statale — si destano e lottano per sottrarsi alla loro pressione. 

Anche queste idee sono ancor più vincolate all’elemento terre- 

no, più fortemente intrecciate con le realtà effettive che non 

le formazioni spirituali della pura vita contemplativa. Per questo 

motivo, a contatto con esse si diventa più consapevoli dell’indi- 

spensabile terreno della realtà naturale, senza il quale non è 

possibile nessuna formazione culturale, neppure la più alta. 

Esse riuniscono l’odore della terra e il profumo dello spirito. 

È quanto fanno anche gli stati concreti quando si elevano — 

come ci ha insegnato Ranke — a esseri spirituali forniti di 

realtà. Dove poi cresca il valore culturale più alto — se nello 

stato stesso oppure nell’idea del pensatore che lo percorre, se 

nella città-stato greca o nell’ideale platonico dello stato che da 

quella è sorto — sarebbe pedantesco volerlo decidere ogni vol- 

ta. Talvolta è senza dubbio lo stato, altre volte è invece l’idea 

politica che ne è scaturita, accettandolo o negandolo, a rappre- 

sentare la realizzazione spirituale più alta; in molti altri casi, 

come nell’esempio indicato, ci si asterrà dal giudizio di valore. 



FRIEDRICH MEINECKE 949 



La disposizione dei valori culturali in un ordine progressivo 

può essere in genere effettuato soltanto in modo sommario: lo 

esige il loro carattere individuale, che si fa gioco di un criterio 

generale univoco. In quanto tutti i valori culturali vengono 

concepiti come individualità, ci si accorge sommariamente che 

in essi è presente una misura maggiore o minore di potenza 

spirituale o di vincolo naturale, senza però poterlo valutare 

con precisione. Bastano già a impedirlo quelle impenetrabili 

zone intermedie tra natura e cultura. Individuum est ineffabi- 

le. Il fascino infinito del mondo storico consiste appunto nel 

fatto che esso produce, in modo insieme misterioso e manife- 

sto, sempre muove entità spirituali, senza tuttavia ordinarle in 

una serie progressiva con una successione ascendente. Infatti 

ogni epoca, come insegnava Ranke, è in rapporto immediato 

con Dio. 


Vogliamo chiudere con le parole che egli fa seguire in que- 

sta frase, poiché — esattamente intese — esse dicono la stessa 

cosa che abbiamo cercato di illustrare in polemica con un’opi- 

nione ampiamente diffusa nella corporazione degli storici: «# 

loro valore non sta affatto in ciò che da esse scaturisce, ma 

nella loro stessa esistenza, nel loro proprio io »*. 



a. Ùber die Epochen der neueren Geschichte (a cura di A. Dove), 

Leipzig, 1888, p. 5. 



STORIA E PRESENTE * 



Storia e presente costituiscono un’unità, che viene concepita 

dallo storico come fornita di una duplice polarità. Un polo 

definisce la rigorosa concentrazione ascetica sulla conoscenza 

del passato umano, con tutti gli strumenti di comprensione 

storica e di ricerca critica, la quale può condurre fino all’ascesi 

entusiastica che Ranke ha espresso con la frase, molto spesso 

richiamata, che egli voleva dissolvere il proprio io per poter 

vedere le cose nella loro purezza. L’altro polo — cioè la sfera 

in cui lo storico vive — definisce al contrario la rinnovata 

consapevolezza di questo io, non però del proprio piccolo io 

egoistico, ma dell'io nutrito dal passato, riempito e allargato 

dai grandi compiti del presente. La scienza storica è perciò 

sempre, al tempo stesso, scienza e più che scienza. Abbiamo 

imparato più volte — e ciò rientra nei caratteri fondamentali 

della moderna impostazione delle scienze dello spirito — a 

guardare al di là delle ristrette delimitazioni concettuali con 

cui dobbiamo sempre orientarci in via preliminare. In ogni 

formazione storica — si chiami essa scienza o stato, arte o 

religione, Germania o Occidente — c’è una forza motrice che 

spinge oltre i confini che sembrano esserle imposti nella realtà. 

Si potrebbe quasi dire che ogni essere storico desidera essere 

qualcosa di diverso da ciò che realmente è. Questa è la dinami- 



* Geschichte, Staat und Gegenwart, in « Logos », XXII, 1933, pp. 161-170, poi 

raccolto in forma mutata e col titolo Geschichte ind Gegenwart nel volume Vom 

geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte, Leipzig, Kochler und Ameland, 

1939, pp. 7-22, c infine in Werke, vol. IV: Zur Thcorie und Philosophie der Geschichte, 

Stuttgart, K.F. Kochler Verlag, 1959, pp. 90-91 (traduzione di Sandro Barbera e 

Pictro Rossi). 



FRIEDRICH MEINECKE 9SI 



ca della vita storica, per cui avviene che le cose della storia 

trapassano tutte le une nelle altre, cosicché noi vediamo sussiste- 

re tra di esse zone più o meno larghe di confine anziché linee 

nette di separazione, e il singolo fenomeno storico può spesso 

apparire tanto contradditorio in sé, e tuttavia quanto mai pie- 

no di vita. È ciò che chiamiamo coincidentia oppositorum, e 

su cui fondiamo, a partire da Ranke e da Hegel, la moderna 

immagine della storia. Essa è molto più complicata, molto più 

difficile da intendere che non l’immagine che del passato si 

erano fatte tutte le generazioni precedenti e che ancora oggi 

sta dinanzi al pensiero inesperto quando questo tratta di uomi- 

ni, tendenze, situazioni e idee come di entità circoscritte e facil- 

mente calcolabili. Dobbiamo quindi avere ben chiaro che esiste 

un pensiero storico, una forma di trattazione delle realizzazio- 

ni della cultura umana che devia dall’abitudine ingenua e quoti- 

diana di considerare le cose nella loro cosalità e come qualcosa 

di immutabile anziché di fluido, cioè fuse tra loro e determina- 

te da innumerevoli relazioni enigmatiche. Si può qui ricordare 

il rivolgimento avvenuto nel moderno pensiero naturalistico: 

quanto più la materia diventava oggetto di un’indagine affina- 

ta, tanto più si risolveva in funzioni e in relazioni enigmati- 

che. Il rivolgimento avvenuto nel pensiero storico, che ci ha 

condotto da una visione meccanica a una visione dinamica del- 

le cose, ha avuto luogo molto prima dell’analogo rivolgimento 

nel pensiero naturalistico — cioè oltre un secolo e mezzo fa, 

all’epoca dello Sturm und Drang, dello scoppio della Rivoluzio- 

ne francese. Di quell’epoca Goethe ha così riferito, più tardi, 

in Dichtung und Wahrheit: «Un sentimento che prevaleva 

violentemente in me, e che non poteva esprimersi in modo 

abbastanza meraviglioso, era la sensazione dell’unità di passato 

e presente»! Qui abbiamo l’inizio del processo di fusione 

nel pensiero, la coincidentia oppositorum, l'influenza dinamica 

dell'elemento storico sul presente e viceversa. All’inizio si tratta- 

va soltanto del sentimento, della sensazione dell’uomo geniale, 

non ancora di un principio che trasformasse tutta l’immagine 

del mondo. Del resto questa trasformazione è avvenuta soltan- 

to gradualmente, allargandosi da cerchie ristrette a cerchie più 



1. GoerHt, Dichtung und Wakrheit, libro XIV. 



952 FRIEDRICH MEINECRE 



ampie, ed è ancora ben lontana dal termine dei suoi effetti. 

Ma di fronte a tutte le altre trasformazioni della vita — di 

tipo politico, sociale, economico e tecnico — che abbiamo vissu- 

to dall'epoca della Rivoluzione francese, questo nuovo modo 

di pensare dello storicismo dinamico ricorda il raffinato moti- 

vo melodico di una sinfonia gigantesca, che spesso può scompa- 

rire nel tumulto degli ottoni e dei tamburi ma che, riproposto 

da un nobile violino, penetra nell'intimità del cuore. Non c’è 

più nulla di saldo e di concluso in sé, tutto è divenire. « Chi sa 

dove si va? si ricorda appena da dove si è venuti » — per riferir- 

ci ancora a Dichtung und Wahrheit e alle sue parole conclusi- 

ve?: tale è la parola d’ordine che da allora risuona nel mondo. 


Si rimane sempre scossi da capo quando si riflette profonda- 

mente su questo mutamento e sulle sue conseguenze. Qui vo- 

glio parlare soltanto delle conseguenze che toccano il rapporto 

tra storia e presente. 


Mi riferisco ancora una volta alla frase di Goethe, secondo 

cui nella sua sensazione passato e presente confluivano in un'u- 

nità. Goethe aggiungeva che questa intuizione aveva introdot- 

to nel presente qualcosa di spettrale. Essa è stata benefica per 

la sua poesia. In altre parole, egli ne presagiva la meravigliosa 

forza vivificatrice. Ma agli altri — aggiungeva — sarebbe ap- 

parsa, nel momento in cui si esprimeva immediatamente zella 

vita, strana, inspiegabile, fors’anche sgradevole. Qui Goethe 

ha di nuovo avvertito, con geniale presentimento — anche se 

coglieva soltanto un aspetto del nuovo potente problema — il 

carattere a doppio taglio degli effetti del nuovo sentimento del- 

la vita e della storia. Questo nuovo storicismo dinamico, che 

superava i limiti interni frapposti tra passato e presente e rove- 

sciava entrambi, con tutti i loro contenuti, nell’eterno crogiolo 

di un divenire, di un’influenza e di una conversione reciproca, 

ci ha dischiuso i mondi incantati di una nuova comprensione 

storica per tutto ciò che reca sembiante umano; ma ha anche 

scosso in lungo e in largo, non tutto di un tratto ma gradual- 

mente, il saldo terreno di determinati ideali assoluti su cui 

l'umanità aveva creduto fin allora di poggiare. Basterà ricorda- 

re — per accennare soltanto all’elemento più importante — 



2. GoetHE, Dichtung und Wahrheit, libro XX. 



FRIEDRICH MEINECKE 953 



quanto difficile è diventata la posizione del Cristianesimo rivela- 

to dopo che la critica storica ha scoperto il divenire delle reli- 

gioni, le loro influenze reciproche e le molteplici forme di 

transizione delle religioni orientali della redenzione. Se poi ci 

si rende conto del modo in cui tutto questo prolunga i suoi 

effetti fino ai problemi religiosi del presente e quanto oscuro 

sia il futuro religioso che ci sta dinanzi, allora può ben riassalir- 

ci quella sensazione di spettrale che Goethe aveva provato al 

primissimo balenare della nuova visione della storia. Lo storici- 

smo ha suscitato un relativismo che viene a considerare ogni 

singola formazione storica, ogni istituzione, ogni idea e ogni 

ideologia soltanto come un momento transitorio nell’infinito 

corso del divenire. Tutte le cose hanno perciò solamente valore 

relativo. Come può prosperare la fede salda e la fiducia in 

colui che crea di tendere a qualcosa di fornito di valore in sé? 

La parola d’ordine dovrebbe essere simile a quella degli uomi- 

ni di affari in epoca di inflazione: «rimanerne fuori! ». 


Ciò può condurre a effetti che dissolvono e minano in mo- 

do pericoloso: infatti può un giorno scaturirne uno scetticismo 

sfiduciato e stanco, un dubitare del senso di questo eterno dive- 

nire e passare, dal momento che il senso di ogni formazione 

storica particolare viene immediatamente posto in questione 

dal senso — che appare altrettanto giustificato — delle forma- 

zioni in lotta con essa; tanto più se, come abbiamo già detto, 

queste diverse formazioni che si succedono l’una all’altra non 

si distinguono tra loro in modo preciso e determinato, ma tra- 

passano l’una nell’altra. Può inoltre scaturirne un opportuni- 

smo svelto e privo di princìpi, che non conosce nessun saldo 

vincolo superiore, e acchiappa perciò veloce la preda dell’atti- 

mo soddisfacendo l’interesse momentaneo. 


Non già che intenda ricondurre tutti i fenomeni sgradevoli 

della nostra vita alla causa ideologica dello snervante modo di 

pensare relativistico. Questo modo di pensare è anzi connesso 

causalmente, a sua volta, con tutte le altre trasformazioni, in 

gran parte assai elementari e materiali, della nostra esistenza. 

Esso rientra però nel motivo melodico di quel potente processo 

che minaccia di sradicare gli uomini e di farne mere funzioni 

nella dinamica complessiva della vita storica. 


Ma l’uomo non vuole lasciarsi sradicare, non vuole diventa- 



954 FRIEDRICH MEINECKE 



re una mera funzione, vuol rimanere un individuo di per sé, an- 

che se sa che la sua individualità è sempre intrecciata con tutto 

ciò che è sovra-individuale. Egli non è soddisfatto neppure del 

punto di vista secondo cui ogni cosa agisce sull’altra e trapassa 

in essa, ma vuole « distinguere, scegliere e giudicare ». Alla co- 

noscenza eraclitea che « tutto scorre » deve immediatamente su- 

bentrare l’esigenza di Archimede: « dammi un punto di appog- 

gio ». Ma in tal caso anche i compiti per i quali lavora, anche 

le idee per cui combatte devono acquistare di nuovo qualcosa 

di stabile. 


Possiede lo storicismo — questa è la grande questione — e 

il particolare tipo di relativismo da esso prodotto la forza di 

guarire da solo le ferite che ha inferto? Soltanto chi abbia 

avuto realmente una volta nella sua piena profondità origina- 

ria — come in passato Goethe — quella sensazione meraviglio- 

sa dell'unità di passato e presente, risponderà senza esitare di 

sì prima ancora di aver disposto tutti gli argomenti in un ordi- 

ne logico. Ciò che ci rende interiormente più ricchi, che ci 

porta a un contatto vitale immediato con gli uomini e i tesori 

del passato, che ci insegna a comprendere — o per lo meno a 

scorgere — attraverso il ritmo dell’eterno divenire e trasformar- 

si le profondità dei destini degli uomini e dei popoli, non può 

recare in sé soltanto una forza distruttiva, ma deve anche posse- 

dere una forza costruttiva. Ma come si dovrà definire questa 

forza costruttiva? com'è possibile — per dirla in modo sempli- 

ce e rozzo — mostrare l'utilità della storia e del pensiero stori- 

co per il presente? 


Non voglio importunare il lettore con le consuete trivia- 

li verità o mezze verità con le quali si cerca di solito di 

dimostrare l’utilità della storia per la vita produttiva. Nel- 

la situazione spirituale odierna si deve cercare di assumere 

un punto di vista più elevato. Non si deve mai perdere di vista 

il fatto che nello storicismo, il quale relativizza ogni cosa, è cer- 

tamente presente un veleno corrosivo, il cui effetto può essere 

eliminato solo mediante altri forti ingredienti. E non si deve 

neppure dimenticare che nei centocinquant’anni durante i qua- 

li il pensiero storico è fiorito nella cultura tedesca gli effetti di 

quel veleno non sono stati riscontrati, e sono stati tenuti indie- 

tro dagli effetti positivi e creativi del pensiero storico-genetico. 



FRIEDRICH MEINECRE 955 



Esso diventò un’arma anzitutto per i creatori dello stato nazio- 

nale tedesco. Da Dahlmann® e da Droysen fino a Treitschke, 

furono gli storici politici a preparargli il cammino, e Bismarck 

era pieno di intuizioni storiche che ricordano la saggezza di 

Ranke. Per Ranke come per Hegel e per Droysen la storia 

rappresentava il corso del divenire che tutto muove, trasforma 

e forma in modo nuovo. Come sono essi riusciti — dobbiamo 

chiederci — a far fronte, nonostante tutto, ad esso e a non 

naufragarvi dentro, ma piuttosto a trarne forze positive e co- 

struttive? Dobbiamo perciò formulare la questione in termini 

ancor più generali: dove si può cercare, in generale, l'antidoto 

al veleno del relativismo? 


Vi sono stati tre diversi modi di coprire la prospettiva relati- 

vistica del puro divenire e fluire delle cose mediante principi 

che tendano all’assoluto, cioè mediante valori che possano resi- 

stere alla transitorietà temporale e fecondare così più profonda- 

mente la vita produttiva. Prendiamoli sommariamente in esa- 

me e chiediamoci quindi se, e in quale misura, possiamo ancor 

oggi adottarli. 


Il primo modo è quello romantico, la fuga nel passato. Si 

trasfigura e si idealizza un determinato momento di esso, lo si 

trasforma per quanto è possibile in un’età dell’oro, lo si pone 

in contrasto con l’oscuro presente; e nel caso che non ci distol- 

ga da questo trasognati o mal contenti, si può agevolmente 

acquisire da un grande passato anche impulsi creativi per il 

proprio tempo. Allorché il barone von Stein‘ diede quell’ordi- 

namento cittadino che fece epoca e concepì la grande idea, 

rivolta verso il futuro, dello stato nazionale tedesco, a tale im- 

presa cooperarono i ricordi romantici della libertà municipale 



3. Friedrich Christoph Dahlmann (1785-1860), storico e uomo politico tedesco, 

autore della Quellenkunde der dentschen Geschichte (1830), delia Politik, auf den 

Grund und das Mass der gegebenen Zustinde zuriickgefiihrt (1835), della Geschichte 

von Dinemark (1840-1843), della Geschichte der englischen Revolution (1844), della 

Geschichte der franzòsischen Revolution (1845) e di altri scritti, appartiene alla storio- 

grafia liberale del primo Ottocento. Fece parte dell'assemblea nazionale di Franco- 

forte, cd ebbe gran parte nell'elaborazione del progetto di costituzione tedesca nel 1848. 


4. Heinrich Friedrich Karl barone von Stein (1757-1831), uomo politico tedesco, 

diede un contributo decisivo alla riforma dello stato prussiano prima nel 1807-1808 e 

poi nel 1813-14, dopo la sconfitta di Napolcone; sostenne la necessità dell'unione 

nazionale tedesca su base prussiana. Meineckc sì riferisce qui alla riforma municipale 

del novembre 1808, che concedeva l'autonomia locale alle città della Prussia. 



956 FRIEDRICH MEINECKE 



delle antiche città tedesche della potenza imperiale del Medioe- 

vo. L'intero mondo conservatore vive spiritualmente, in misu- 

ra non piccola, di valori del passato idealizzati. In generale, a 

un popolo pervenuto alla coscienza di se stesso è indispensabile 

un frammento di culto del passato e degli antenati. Comprende- 

re la storia del proprio popolo non soltanto con visione storica, 

ma anche con l’animo, è un processo salutare e profondamente 

giustificato. La mancanza di pietà verso il proprio passato è 

innaturale e dannosa. Ma pietà senza critica non dovrebbe esi- 

stere, allo stesso modo in cui non dovrebbe esistere critica sen- 

za pietà. 


Rispondo così alla questione se sia possibile sottrarsi agli 

effetti sgretolanti del relativismo con la fuga romantica nel 

passato, dicendo che in ogni caso la vita dell’uomo moderno è 

povera e triste senza qualcosa del senso romantico della storia, 

in generale del Romanticismo. Ma non appena si sviluppa in 

modo eccessivo, esso ostacola la vita anziché promuoverla. Pas- 

sato e presente non confluiscono più in unità: il passato uccide 

allora il presente. E se ci interroghiamo soltanto sul valore 

conoscitivo del senso romantico della storia, anche in questo 

caso dovremo dire che tale elemento ci dischiude profondità 

del passato che non sarebbero accessibili alla mera conoscenza 

causale. Ma non appena un qualsiasi momento del passato vie- 

ne elevato a norma e a criterio di valore dell’intero processo 

storico e del presente in particolare, sorge un dogma arbitrario 

che crolla immediatamente sotto la critica corrosiva del re- 

lativismo. 


Cerchiamo dunque ancora il punto saldo che ci permetta di 

far fronte al relativismo. Si può anche procedere al contrario 

del Romanticismo e cercare il valore non già nel passato bensì 

nel futuro, cercarvi cioè il fine della storia, che deve dare un 

senso al corso — altrimenti privo di significato — del divenire. 

Emerge qui una quantità di volti di filosofi della storia, tutti 

tesi a riconoscere nella storia un progresso reale verso un idea- 

le determinato e assoluto. Alcuni credono che questo ideale sia 

raggiungibile e conduca a uno stato duraturo di perfezione 

dell'umanità, mentre altri si accontentano di avvicinarsi a que- 

sto fine in un’approssimazione infinita. Ma nell’uno come nel- 

l’altro caso è stato questo ottimismo del progresso ad agire 



FRIEDRICH MEINECKE 957 



potentemente nei secoli xvi e xix, diventando la bandiera 

dell’umanità in marcia. Molte sarebbero le cose da dire a que- 

sto proposito; ma qui mi limito a quest’unica domanda: abbia- 

mo oggi ancora questa fede nell’ascesa continua dell’umanità 

verso gradi superiori? Possiamo possederla ancora? A molti di 

noi il coraggio qui viene meno di colpo, e all'orizzonte si 

levano le ombre della moderna problematica culturale. In Ger- 

mania abbiamo sentito parlare, nel periodo successivo alla guer- 

ra, del tramonto dell’Occidente. Ritengo queste profezie di de- 

cadenza altrettanto precarie e soggettive quanto le prognosi di 

ascesa. Una volta colto il loro sfondo psicologicamente soggetti- 

vo e legato a uno stato d’animo, scompare anche il loro fasci- 

no. E di nuovo siamo di fronte alla corrente infinita del diveni- 

re e del trasmutare storico. «Chi sa dove si va? non ci si 

ricorda neppure da dove sì è venuti ». 


Questa corrente del divenire, che tutto relativizza e tut- 

to dissolve nel suo movimento, relativizza appunto anche i 

due tentativi compiuti dall’aspirazione umana a padroneg- 

giarlo spiritualmente, cioè il Romanticismo rivolto al passa- 

to e l’ottimismo del progresso. È loro caratteristica — ed è 

pure la loro debolezza — di immergersi essi stessi nella corren- 

te, per nuotare sia contro di essa sia insieme ad essa. Ciò è 

possibile, e non dev’essere respinto senza appello; si può ben pro- 

cedere in avanti, praticamente, di un pezzetto. Ma la corrente 

ha la meglio sul nuotatore. In altri termini, entrambe queste 

visioni della storia procedono in direzione orizzontale e soccom- 

bono perciò alla corrente del divenire, che si muove orizzontal- 

mente. Ma si può considerare la questione anche in senso verti- 

cale e tentare di costruire un solido ponte al di sopra della 

corrente? Non si può forse guardare la corrente dall’alto di 

questo ponte e scorgere ciò che c'è di saldo e di sicuro nel 

mutamento? 


Non vedo nessun’altra via. Ed essa è stata percorsa da pro- 

fondi pensatori. Proprio in Goethe si trovano le indicazioni 

più precise in tal senso, e Ranke l’ha imboccata, dopo essersi 

immerso nella vita storica ancor più profondamente di quel 

che era stato possibile a Goethe. L'ha poi di nuovo ritrovata, 

con i più moderni strumenti filosofici, Ernst Troeltsch, e nella 



958 FRIEDRICH MEINECKE 



medesima direzione si lavora oggi da parecchie parti. Per accen- 

nare la direzione in cui dev'essere trovata la soluzione del no- 

stro problema voglio qui mettere a confronto due espressioni, 

l’una di Goethe e l’altra di Ranke. Nella tarda poesia di Goe- 

the che egli stesso chiama Vermdchtnis e che comincia con le 

parole « Nulla può mai distruggersi, annullarsi », si dice: 



«Ed il passato è allora duraturo, 

il futuro previve nel presente, 

l'attimo è eternità » 5. 



Anche qui si esprime di nuovo il senso universale della 

storia proprio di Goethe, che percepiva l’unità di passato e 

presente. Ma l’elemento di spettralità è scomparso e nella pie- 

na coscienza della corrente infinita del divenire, che unisce tra 

loro passato e futuro, un’idea di eternità prevale sull’infinito 

meramente temporale; e non si tratta di un’idea di eternità 

soltanto trascendente e speculativa, bensì di un’idea radicata 

nel cuore della realtà e dell’esperienza vissuta. L'attimo è 

eternità. 


Veniamo ora alla famosa frase di Ranke: «ogni epoca è in 

rapporto immediato con Dio ». 


Anche questa frase ci sottrae alla mera corrente del diveni- 

re e ci spinge a cercare ciò che nella storia è affine a Dio 

nell’attimo — nell’impulso all’eccelso di volta in volta presente 

nel singolo uomo, nei singoli popoli e stati in ogni loro epoca 

e momento. Verticalmente, non già orizzontalmente, la vita 

storica tende a quell’altezza di cui è capace. In ogni epoca, in 

ogni formazione individuale della storia si muovono forze spiri- 

tuali che aspirano a elevarsi al di sopra dell’ottusa natura e del 

mero egoismo, verso un mondo superiore. Il loro volo si com- 

pie più in alto o più in basso, ma ciò che esse realizzano è 

ogni volta qualcosa di interamente individuale, distinto da tut- 

te le realizzazioni precedenti e successive della storia; ed esse 

raggiungono tale scopo anche quando esteriormente falliscono. 

Il loro valore consiste nella loro stessa esistenza e azione, indi- 

pendentemente dal loro successo temporale — si tratti pure di 



S. GorrHe, Verméchtnis, vv. 28-30 (trad. it. di F. Amoroso). 



FRIEDRICH MEINECKE 959 



un andare a fondo con la bandiera che sventola. In ultima 

analisi opera qui la convinzione che, almeno per noi, l’elemen- 

to spirituale non è qualcosa di universalmente valido nel sen- 

so delle verità matematiche, ma si concreta sempre e soltan- 

to in individualità. Questa prospettiva ci spinge a cercare e 

a creare l’eterno nell’attimo, nella costellazione individuale del- 

la vita. 


Possono certamente sorgere dubbi se sia giusto fare dell’ele- 

mento più fuggevole, l’attimo, il portatore dei valori dell’eterni- 

tà. Ma proprio questa paradossalità ci libera dalla pressione 

paralizzante della transitorietà, dando a ogni momento e a 

ogni formazione ricca di spirito della corrente del divenire stori- 

co la sua particolare dignità e il suo valore peculiare e svilup- 

pando un impulso etico più profondo della nostalgia di un 

passato più bello o della speranza di un regno millenario. In 

qualsiasi modo pensiamo la divinità, sia che ce la rappresentia- 

mo in forma personale o in forma impersonale, sia che osiamo 

cancellarne la parola stessa e parlare soltanto di valori supremi 

— in ogni attimo ognuno può sentirsi in rapporto immediato 

con tali valori, e quanto più fortemente si sente in rapporto, 

tanto più sicuramente troverà la sua strada e tanto più gioiosa- 

mente compirà il dovere che l’attimo gli impone. 


Egli può infatti abbandonarsi a una stella che lo protegge 

infallibilmente dallo sviamento di una visione della vita pura- 

mente relativizzante — vale a dire, per usare le parole di 

Dilthey, alla « mirabile facoltà presente in noi che chiamiamo 

coscienza »: e la coscienza è, per dirla con Fichte, «il raggio 

con cui proveniamo dall’infinito ». Ma qui noi ne parliamo in 

una prospettiva di teoria della storia, poiché una concezione 

storica priva di un saldo fondamento etico diventa gioco di 

onde. Nella voce della coscienza tutto quanto è fluido e relati- 

vo diventa, d’un sol tratto, saldo e assoluto nella sua forma. 

« Soltanto la propria coscienza — è detto nell’Historik di Droy- 

sen — è per ognuno l’assolutamente certo, è per lui la sua 

verità e il centro del suo mondo ». Il contenuto di ciò ch’essa 

dice al singolo uomo dovrà essere, sotto vari punti di vista, 



6. J.G. Droysen, Historik - Vorlesungen liber Enzyklopidie und Methodologie 

der Geschichte (a cura di R. Hiibner), Miinchen und Berlin, 1937, p. 178. 



960 FRIEDRICH MEINECKE 



individuale e temporalmente condizionato. Ma ogni esame con- 

dotto su di sé mostra che la coscienza traccia ogni volta limiti 

esatti nei confronti della mera soggettività, dell’arbitrio e di 

tentatori ancora peggiori. Per bocca della coscienza parlano 

agli individui anche le potenze storiche superiori — il popolo, 

la patria, lo stato, la religione e così via — e accanto a ciò 

che esse dicono c'è di nuovo, nonostante l’essenza individuale 

di tali potenze, quel mirabile carattere assoluto e vincolante 

che protegge anche la vita comunitaria dal rischio di precipita- 

re nell’anarchia del volere individuale. Se si arriva poi a conflit- 

ti di coscienza tra il volere individuale e il volere delle forme 

superiori di comunità, la coscienza è ancora l’unica istanza che 

decide interiormente in proposito e che deve quindi porre fon- 

damentalmente il bene comune al di sopra del bene dell’indivi- 

duo. Così la coscienza è il potente mezzo connettivo della socie- 

tà umana, e al tempo stesso l’autentica sorgente metafisica pre- 

sente nell'uomo. Nella coscienza l’individualità si fonde con 

l'assoluto, e l'elemento storico con il presente. E così mediante 

la coscienza è dato all’attimo quel contenuto di eternità, di cui 

abbiamo parlato. Tutti i valori di eternità della storia scaturisco- 

no, in ultima analisi, dalle decisioni della coscienza degli uomi- 

ni che agiscono. 


Il senso della storia nella totalità dell'universo ci è ignoto. 

La coscienza, in quanto costituisce l’elemento più affine a Dio 

presente in noi, ci mostra per così dire soltanto un’orlatura 

dorata al cui interno esso deve risiedere. Da questo senso assolu- 

to della storia distinguiamo il senso che può avere per noi. 

Esso non si esaurirà nel soddisfacimento del nostro bisogno 

causale, ma culminerà nell’accogliere e nel rivivere in noi, com- 

prendendola, la rivelazione dell'elemento affine a Dio che è 

presente nell’umanità. Qualcosa di questo vive — come abbia- 

mo chiarito parlando del fatto della coscienza — in innumere- 

voli anime, in lotta continua con tutto ciò che le trascina verso 

il basso e che spesso può sembrare preponderante. Anche nelle 

formazioni individuali che cerchiamo di comprendere storica- 

mente scegliendole dalla pienezza della vita complessiva, ciò 

che è affine a Dio — cioè la cultura nel senso più alto — 

equivarrà in una prospettiva spaziale a una sottile vena d’oro 

in mezzo a masse di minerale, mentre dal punto di vista tempo- 



FRIEDRICH MEINECKE 961 



rale rappresenterà spesso soltanto degli attimi fuggevolissimi 

della storia universale. Ma nella misura in cui abbiamo guarda- 

to verticalmente verso l’alto, abbiamo anche potuto dare all’atti- 

mo storico e alla sua individualità un contenuto di eternità. 


«Chi sa dove si va?» — diciamo di nuovo pensando a 

tutti gli abissi della storia; e tuttavia non ci è consentito di 

spaventarci. 



61*. STORICISMO TEDESCO. 



INDICI 



61. STORICISMO TEDESCO. 



INDICE DEI NOMI 





Abramo, 696. 


Abramowski G., 552. 


Acton }.E.E.D., 874. 


Adler M., 349, 431. 


Adriano, imperatore romano, 745. 


Agostino (S.), 25, 140, 798, 917. 


Alberca I. E., 802, 803. 


Albert H., 552. 


Alcibiade, ‘748. 


Alembert (Le Rond d") J.-B., 215, 

246. 


Alessandro Magno, 148, 213, 404, 

748, 753. 


Alfero G.A., 256. 


Alighieri D., 233, 729, 752. 


Amenemhet III, faraone d’Egitto, 

746. 


Amoroso F., 263, 958. 


Anassagora, 250, 253. 


Annibale, 753. 


Antigono Dosone, 778. 


Antipatro, 778. 


Antoni C., 75. 


Antonio, 785, 789. 


Apelt E. F., 252. 


Appio Claudio, 783. 


Archimede, 752, 954. 


Archita, 752. 


Ario, 148. 


Aristippo, 248. 


Aristonico, 778. 


Aristotele, 149, 202, 214, 250, 253» 

258, 260, 274, 281, 282, 320, 436, 

698, 733, 734, 777, 863, 942. 


Arminio, 179, 184. 



Aron R., 9, 75, 553. 

Attalo III, re di Pergamo, 778. 



Augusto, imperatore romano, 753; 

792. 



Averroé, 214, 251. 





Babeuf F.-N., 644. 


Bach J.S., 195, 196, 232, 753, 766. 


Bacone F., 110, 113, 315, 698. 


Bacone R., 733. 


Baer (von) K.E., 359. 


Baltzer A., 723. 


Balzac (de) H., 234. 


Banfi A., 431. 


Barbera S., 76, 91, 213, 271, 313, 

341, 433, 725, 755» 804, 843, 857, 

889, 920, 950. 


Barnes H.E., 431. 


Baron H., 8or. 


Bastian A., 427. 


Baur F.C., 149. 


Bauer I., 432. 


Baumgarten E., 549, 887. 


Bayle P., 251. 


Beck R.N., 76. 


Beetham D., 554. 


Beethoven (van) L., 232, 525, 727. 


Below (von) G., 348, 389, 887, 928, 

944. 


Bendix R., 551-553. 


Beonio-Brocchieri V., 722. 


Bergmann ]J., 295. 


Bergson H., 54, 250, 255, 336. 


Bernardo (S.), 148. 



966 INDICE DEI NOMI 



Bernheim E., 348. 


Bernstein E., 44-46. 


Bernwald (S.), 745. 


Bianco F., 89. 


Biemel W., 86. 


Bienfait W., 550. 


Bischoff D., 87. 


Bismarck (von) O., 60-62, 140, 146, 

209, 521, 749, 760, 763, 780, 874, 

883, 884, 906, 914, 917, 918, 955. 


Blicher (von) G.L., 732. 


Blossio, 778. 


Bodenstein W., 802. 


Boeckl A., 79, 113. 


Bohmer (von) J.S.F., 193, 196. 


Bollnow O. F., 85, 87. 


Bossuet J.-B., 25. 


Bouquet A. C., 877. 


Boyen (von) H., 61, 887. 


Bracciolini P., 930. 


Brachmann W., 802. 


Brands M. C., 75. 


Bratuschek E., 113. 


Brentano F., 295. 


Brentano L., 541. 


Bruni L., 930. 


Bruno G., 231, 251, 256-259, 394; 

411, 412, 729. 


Bruun H. H., 554. 


Biichner L., 246, 247. 


Buckle H.T., 110, 347, 357. 


Budda, 752, 776. 


Buffon (Leclere de) G.-L., 216. 


Burckhardt J., 66, 142, 358, 467, 

886, 887, 941, 944. 


Byron (Gordon, lord) G., 751. 





Calabrò G., 88. 

Calvino G., 608. 

Cantimori D., 548. 

Cantoni R., 431. 

Caracciolo A., 803. 

Carlo Magno, 745. 



Carlyle T., 139, 255, 388, 690, 843, 

877, 895. 


Carmer (von) J. H. C., 156. 


Carneade, 245. 


Cassirer E., 861. 


Catone il Censore, 773. 


Catone, Uticense, 786. 


Catulo, Quinto Lutazio, 785. 


Cavalli L., 553. 


Cervantes (Saavedra de) M., 194. 


Cesare, Gaio Giulio, 179, 209, 752, 

762, 765, 775» 778, 783-785. 


Chabod F., 888. 


Chamberlein J., 775. 


Chretien de ‘Troyes, 750. 


Cicerone, Marco Tullio, 250, 778, 

783, 784, 786. 


Classen P., 887. 


Cleante, 778. 


Cleomene III, re di Sparta, 778. 


Cleone, 1768. 


Cohen H., 16, 


Collingwood R.G., 12, 722. 


Comenio (Komensky) J. A., 113. 


Comte A., 16, 20, 26, 27, 36, 106, 

113, 114, 181, 246, 381, 391, 392, 

879. 


Condillac (Bonnot de) E., 215, 287. 


Constant B., 617. 


Copernico N., 108, 412, 726. 


Corneille P., 234. 


Coser L.A., 431. 


Crasso, Marco Licinio, 784-786. 


Cristo, 752, 798. 


Croce B., 11, 12, 71. 


Clippers C., 87. 


Curione, Gaio Scribonio, 785. 


Curtius E. R., 876. 


Curtius L., 722. 


Cusano N., 261, 


Cuvier G.-L.-C., 128. 





Dahlmann F. C., 955. 

Damman O., 933. 



INDICE DEI NOMI 



Dante v. Alighieri. 


Darwin C., 358, 392, 743. 


Degener A., 87. 


Dehio L., 887, 888. 


Delbriick H.G.L., 887. 


Democrito, 243, 249. 


Descartes R., 95, 231, 272, 295; 317» 

727, 752 


Destutt de Tracy A.-L.-C., 215, 

287. 


Dewey J., 13. 


Diaz De Cerio Ruiz F., 88, 89. 


Dieterich A., 878. 


Dilthey W., rr, 13, 15-23, 30-36, 

40, 41, 43, 45, 48-52, 55, 59, 60, 

63, 64, 68, 72, 74, 76, 79-83, 85, 

86, 93, 96-98, 102, 150, 209, 215, 

244, 252, 268, 336, 350, 410, 542, 

627, 719, 887, 959. 


Dilthey Misch C., 79. 


Diwald H., 88. 


Dove A., 396, 403, 866, 887, 933, 

938, 939, 949. 


Drescher H. G., 802. 


Driesch H., 872. 


Dronbenger Î., 553. 


Droysen J. G., 61, 348, 358, 

887, 955, 959. 


Du Bois-Reymond E., 97, 98, 101- 

103. 


Diirer A., 740. 


Durkheim E., 431. 



883, 





Edoardo VII, re d'Inghilterra, 767. 


Ehrenfels (von) C., 862. 


Einstein A., 877, 878. 


Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 

901. 


Engels F., 27, 44. 


Engisch K., 552. 


Epicuro, 249. 


Eraclito, 220, 236, 242, 256, 257, 

259, 260, 719, 748. 


Erasmo di Rotterdam, 900. 



967 



Erodoto, 171. 


Erxleben W., 87. 

Eucken R.C., 420. 

Euclide, 750. 


Euripide, 662, 751. 

Eusebio di Cesarea, 148, 





Fabian W., 431. 


Falk J.D., 731. 


Faraday M., 735. 


Fauconnet A., 722. 


Faust A., 338. 


Febvre L., 723. 


Federici F., 338, 339. 


Federico II il Grande, re di Prus- 

sia, 83, 85, 156, 180, 189, 749, 

762, 793, 903-905, 917, 918. 


Federico II di Svevia, 189, 214, 902, 



903. 


Federico Guglielmo I, re di Prus- 

sia, 761, 763. 


Federico Guglielmo IV, re di Prus- 

sia, 901. 


Ferrarotti F., 552. 


Feuerbach L., 246, 247, 250. 


Fichte J. G., 62, 165, 204, 240, 251, 

252, 258, 342, 343: 405; 414, 415, 

597, 879, 891, 903, 959. 


Filippo II, re di Spagna, 748. 


Filippo II di Macedonia, 753. 


Fischer K., 14, 79, 267, 341. 


Flaminio, Caio, 773. 


Flaminio, Tito Quinto, 775. 


Fleischmann E., 552. 


Forster F. W., 703. 


Fortini F., 626, 711, 914. 


Francesco (S.) d'Assisi, 520. 


Frank E., 722. 


Frank H., 851. 


Freidank, 189. 


Freisberg D., 802. 


Freund ]., 552. 


Fries J.F., 251, 252, 295. 


Friescheisen-Kohler M., 213, 431. 



968 INDICE DEI NOMI 



Frost W., 431. 


Fulling E., 802. 


Fustel de Coulanges N.-D., 845, 

849, 850, 855. 





Gabinio Aulo, 785. 


Galilei G., 315, 698, 735, 752. 


Gassen K., 430, 432. 


Gauhe E., 723. 


Gauss C. F., 752. 


Gelzer M., 775, 783, 786. 


George S., 932. 


Gerone, 748. 


Gerth H.H., 554. 


Gerth H.I., 554. 


Gibbon E., 150. 


Giddens A., 553. 


Gierke (von) O., 27. 


Giobbe, 233. 


Giolitti A., 76, 548, 683. 


Giordano G., 465. 


Giotto, 232. 


Giovanni (S.) Crisostomo, 148. 


Giuliano l’Apostata, 148. 


Giusso L., 87, 723. 


Giustiniano I, imperatore romano, 

746, 769. 


Gladstone W.E., 780. 


Glock C.T., 87. 


Goedeckenmeyer A., 270. 


Goethe W., 53, 54, 63, 64, 72, 97, 

220, 233, 234, 256, 257, 259, 263, 

326-328, 429, 514, 524, 626, 685, 

693, 711, 719, 727-731, 734, 738, 

740-743, 745» 748, 750, 751, 760, 

814-816, 837, 838, 866, 872, 876, 

885, 887, 889, 893, 898, 903, 905, 

908, 914, 929, 940, 945 951-954; 



957, 958. 

Goetz W., 888. 



Goldfriedrich J., 872. 

Gooch G.P., 874, 877. 

Gorsen P., 88, 432. 

Grab H.]J., 550. 



Gramsci A., 10. 


Groethuysen B., 85, 86. 


Guglielmo II, imperatore di Ger- 

mania, 61. 


Guicciardini F., 148, 150, 171. 


Gurvitch G., 338. 





Haeckel E. H., 101, 103. 


Hindel G.F., 196, 232. 


Haring T.L., 722. 


Harnack (von) A., 610, 798. 


Hartmann (von) E., 337, 862. 


Hauter K., 430. 


Hebbel C.F., 738. 


Heberle R., 431. 


Hegel G. W. F., 12, 16, 19, 25, 41, 

43, 44, 51, 53, 72, 80, 83, 115, 148, 

149, 154-158, 164, 181, 204, 207, 

210, 220, 240, 251, 256, 258, 259, 

272, 317, 342, 357» 414, 415, 420, 

421, 738, 807, 822, 837, 838, 845, 

872, 879, 891, 943, 945, 951, 955- 


Heidegger M., 74, 337. 


Heimsoeth H., 270, 863. 


Hellmann S., 549 


Helmholtz (von) H., 14, 358, 441, 

688, 691, 728, 822. 


Hennig ]., 87. 


Henrich D., S51. 


Herbart J. F., 204, 251, 252, 279, 

292. 


Herder J.G., 72, 87, 172, 216, 256, 

257, 743, 816, 837, 838, 808. 


Herring H., 553, 803. 


Herrmann U., 86, 89. 


Herzberg E., 156. 


Herzfeld H., 887. 


Heyde E., 862. 


Hildebrand (von) D., 35, 862. 


Hinrichs C., 887. 


Hintze O., 802. 


Hitler A., 66. 


Hobbes T., 27, 243, 247. 


Hodges H.A., 87, 88. 



INDICE DEI NOMI 



Hofer W. 887, 888. 


Holbach {Dietrich d’) P-H., 243. 


Holborn H., 87. 


Hòélderlin J.C.F., 233. 


Holldack H. 888. 


Hibner R., 959. 


Hufnagel G., 553. 


Humboldt (von) W., 62, 756, 858, 

866, 868, 872, 808, 905, 907, 931. 


Hume D., 215, 216, 246, 843. 


Hiinermann P., 88. 


Hungar K., 553. 


Husserl E., 32-34. 


Hutten (von) U., 900. 



Ibsen H., 234. 


Iggers G.G., 75, 76. 

Imaz E., 87. 


Imelmann ]., 875. 

Innocenzo III, papa, 760. 

Ippia, 215. 


Iside, 747. 





Jackson A., 773. 


Jacobi F.H., 102, 250, 251, 252, 

258. 


Jaffé E., 542, 556. 


Jakowenko B., 270. 


James W., 255, 336. 


Jankélévitch V., 430. 


Janoska-Bendl J., 552. 


Jaspers K., 13, 74, 336, 550. 


Jhering (von) R., 112. 


Joél K., 722. 





Kaesler D., 554. 

Kant I., 15, 17, 98, 102, 179, 189, 

190, 202, 210, 216, 231, 250, 25I, 



969 



253, 258, 261, 268, 269, 273, 276, 

278, 279, 287, 288, 290-292, 298, 

314, 316, 321, 331, 341, 342, 349 

411-415, 419, 435» 436, 452, 461, 

491-493, 499, 529, 530, 619, 713, 

727, 733» 734; 837, 865, 875, 876, 

879, 891, 903, 935, 939- 


Kantorowicz G., 430. 


Karsten A., Ss1. 


Kasch W.F., 802. 


Katsube K., 87. 


Kaufmann E., 876. 


Kautsky K., 846. 


Kepler J., 315. 


Kessel E., 887, 8809, 920. 


Kidd B., 854. 


Kierkegaard S., 872, 873. 


Kingsley C. 843. 


Klein E.F., 156. 


Kluback W., 88. 


Knapp G.E. 44o. 


Knevels W., 431. 


Knies K., 35. 


Kohler W., 802. 


Koktanek A.M., 722, 723. 


Kon 1. S., 75. 


Kénig R., 549. 


Kornhardt H., 722. 


Kotowski G., 887. 


Krakauer S., 431. 


Krausser P., 88. 





Lachmann L.M., 553. 


Lagarde (de) P. A. 393, 797. 


Lamarck (Monet de) J.-B.-P.-A., 

216. 


Lamprecht K., 347, 348, 358, 887. 


Landmann M., 430. 


Landshut S., 550. 


Lange F. A., 861. 


Landgrebe L., 86. 


Laplace P.-S., 98, 752. 


Lask E., 342, 862, 865. 


Lazarsfeld P., 552. 



970 INDICE DEI NOMI 



Lazarus M., 427. 


Lee D.E., 76. 


Lefèvre W., 553. 


Lehmann M., 358, 887. 


Leibniz G. W., 52, 83, 85, 189, 190, 

251, 257, 331; 743. 


Lenin V.I., 768 


Lennert R., 551. 


Leonardo da Vinci, 698, 699. 


Lessing G. E., 25, 80, 191, 193, 196, 

216, 802, 803, 816, 837, 838. 


Lessing T., 862. 


Liebert A., 87. 


Liebeschitz, H., 432. 


Liebmann O., 14. 


Liebrich H., 802. 


Liefmann R., 668, 670. 


Lindner T., 346. 


Lincoln A., 780. 


Lipps T., 36. 


Litt T., 871. 


Littré M-P.-E., 114. 


Locke J., 318. 


Loewenstein K., 552. 


Loose G., 431. 


Lotze H., 79, 102, 267, 295, 359; 

862, 865. 


Lòwith K., 550. 


Loyola (de) I., 900. 


Lucrezio, Tito Caro, 249. 


Lukîcs G., 10, 13, 73-75, 427, 713. 


Luigi XIV, re di Francia, 512. 


Lutero M., 190, 899, 917, 918, 939. 





Macaulay T.B., 150. 


Machiavelli N., 70, 148, 171, 769, 

902, 903, 917, 930. 


Magris C., 76. 


Maier H., 928, 937. 


Maine de Biran (Gonthier) M,F. 

P., 250, 255. 


Malebranche N., 865. 


Mamelet A., 431. 


Mandelbaum M., 75, 76. 



Mannheim K., 74. 


Marbod, 184. 


Marini G., 88, 80. 


Mario, Gaio, 461, 773. 


Marx - Li 573» 615, 776, 777: 779» 

793, 8 


Wo (0 der) F.A.L., 900. 


Masur G., 87, 88. 


Maurenbrecher M.H., 846. 


Maurice J. F. D., 843. 


Maxwell J. C., 359. 


Mayer ].P., 551, 691. 


Medicus F., 405. 


Meinecke F., 11, 60, 61, 63, 67-69, 

71-73, 858, 873-876, 883-885, 887, 

888, 900, 909, 933, 955. 


Meinong A., 862 


Melantone F., 189. 


Mendelssohn M., 102, 250. 


Menger C., 35, 542. 


Merleau-Ponty M., 551. 


Messer A., 722. 


Mettler A., 550. 


Metzger E., 722. 


Meyer C.F., 900. 


Meyer E., 209, 348, 777, 783, 925. 


Michelangelo Buonarroti, 232. 


Mill J.S., 16, 39, 92, 93, 114, 349, 

646, 706. 


Miller S.M., 553. 


Miller-Rostowska A., 339. 


Mills T.M., 431. 


Milone, Tito Annio, 784. 


Mirabeau (Riqueti, de) H.-G. V., 



514. 


Misch G., 85-87. 


Mitra, 747. 


Mitzman A., 553. 


Mohl (von) R., 113, 115. 


Moleschott J., 246, 247. 


Moltke (von) H.C. B., 763. 


Mommsen T., 112, 427, 461, 54I, 

628. 


Mommsen W., 551, 552, 554. 


Montaigne (Eyquem dc) M., 917. 


Montesquieu (de Secondat de la 

Brède) C.-L., 215, 811. 



INDICE DEI NOMI 971 



Mori M., 76. 


Mòrike E., 937. 


Moser J., 72, 172, 196. 

Mo Ti (Mo Tze), 776. 

Mozart W.A., 746, 766. 

Mihlmann W.E., 552. 

Mulert H., 79. 


Miiller G., 723. 


Miiller H., 62, 431. 

Miiller-Freienfels R., 871. 

Miller-Vollmer K., 88. 

Miinsterberg H., 36, 350, 862, 865. 





Naegele K.D., 431. 


Napoleone I Bonaparte, 514, 617, 

748, 749, 756, 762, 788, 955. 


Natorp P., 16. 


Naumann F., 844, 887. 


Naville A., 346. 


Neander J.A.W., 148. 


Negri A., 88, 888. 


Newton I., 15, 349, 727, 735- 


Niebuhr B.G., 128, 149, 169, 204, 

844. 


Nietzsche F., 53, 63, 66, 336, 411, 

429, 514, 700, 719, 7720, 726, 752, 

879, 910, QII, 9I4. 


Nitzsch K.W., 844. 


Nohl H., 85. 


Northcliffe (Harmsworth, visconte 

di) A.C.W., 788, 792. 


Novalis (von Hardenberg F.L.), 

62, 187, 858. 



10) 



Oberlaender K., 432. 

Obershall A., 552. 


Odino, 816, 


Oken L., 115. 

Oldenmegyer E., 552. 

Omero, 149, 234, 726, 733. 



Oppenheimer H., 550. 


Orazio, Quinto Flacco, 748, 901. 

Ottavio, Marco Cecina, 773. 

Owen R., 751. 





Paci E., 339. 


Palestrina (da) G.P., 731. 


Palmer R.E., 88. 


Palyi M., 549. 


Paolo (S.), 242, 512. 


Paolo Emilio, 785. 


Papirio Carbone, 786. 


Parmenide, 256, 727. 


Parsons T., 551, 552. 


Pascal B., 93, 140. 


Passerin d’Entrèves A., 802. 


Paul H., 346. 


Pauly A., 778. 


Pericle, 752, 768, 90I, 902. 


Petrarca F., 750. 


Pfaff C.M., 193. 


Pfister B., 550, 552. 


Phlipon (M.me Roland) J.-M., 783. 


Pick G., 862. 


Pilato, Ponzio, 760. 


Pistone S., 888. 


Pitagora, 752. 


Pitt W., 760. 


Platone, 148, 149, 242, 250, 258, 

260, 274, 280, 327, 457, 647, 692, 

697, 727, 748, 751; 752, 756, 776, 

777, 863, 917. 


Plenge J., 682. 


Plotino, 729, 752. 


Pòhlmann (von) R., 786. 


Polibio, 148, 171, 172. 


Policleto, 753. 


Polignoto, 753. 


Pompeo, 209, 765, 778, 784, 785. 


Popper K., 9. 


Prades J. A., 552. 


Protagora, 244, 245, 247, 248. 


Pucciarelli E., 87. 


Pufendorf (von) S., 190. 



972 



Radbruch G., 639. 


Radowitz (von) J.M., 873. 


Raffaello, 214, 748. 


Ramming G., 339. 


Rand C.G., 76. 


Randone E., 76. 


Ranke (von) L., 19, 20, 62, 72, 79, 

140, 148, 150, 204, 357, 358, 359 

389, 390, 395, 396, 403, 404, 406, 

408, 416, 417, 450, 688, 729, 858, 

866, 873, 876, 879, 885-887, 910, 

922, 923, 929, 931, 948-951, 955, 



957, 958. 

Renthe-Fink (von) L., 88. 



Redeker M., 79, 86. 


Reinold A. M., 888. 


Reist B. A., 802. 


Rembrandt (Harmenszoon van 

Rijn, detto), 727, 737, 740, 753» 

901. 


Rceuter H., 873. 


Rhodes C.J., 785. 


Ricardo D., 35. 


Rickert H., 14-19, 23-25, 36, 37, 39 

43, 45, 49, 56, 58, 59, 68, 270, 335, 

336, 338, 342, 346, 349, 350, 358, 

403, 405, 542, 556, 651, 799, 862, 

865, 924, 925; 927, 928, 933; 934, 

936, 938, 939. 


Riehl A., 335, 411. 


Ritter K., 79, 109, 110. 


Ritter P., 85. 


Ritschl A., 41, 148, 797. 


Robespierre M., 438, 439, 760, 768, 


Rodi F., 88. 


Rogers R. E., 553. 


Rohan (cardinale di) L. R.E., 774. 


Roland, M.me, vedi Phlipon. 


Roscher W. G.F., 35, 573. 

Rosemberg A., 775. 


Rosenthal E., 432. 


Rossi P., 75, 76, 91, 121, 201, 213, 

271, 313, 341, 433, 548, 551, 552, 



INDICE DEI NOMI 



555, 627, 725, 755, 804, 843, 857, 

889, 920, 950. 


Rosso C., 270, 339. 


Roth G., 553. 


Rothacker E., 76, 875. 


Rousseau J.-J., 776, 777, 779. 898, 

917. 


Ruge A., 270. 


Runciman W.G., 554. 


Rutilio Rufo, 787. 





Sallustio, Gaio Crispo, 778. 


Salomon A., 551. 


Sanchez Azcona ]., 552. 


Sartre J.-P., 13. 


Savigny (von) F. K., 20, 62. 


Schaaf J. J., 551, 802. 


Schifer D., 703. 


Schiffle A., 115. 


Schaidnagl B., 86. 


Scheler M., 862, 865. 


Schelling F., 115, 139, 251, 252, 

256, 258, 259, 261, 317, 342, 738, 



79: 


Schelting (von) A., 550, 551. 


Scheschics B. W., 270, 339. 


Schiaparelli G. V., 834. 


Schiel I., 93. 


Schiller F., 233, 234, 254, 255, 411, 

752, 814, 879, 887, 903. 


Schlegel F., 62. 


Schleiermacher F., 43, 83, 112, 113, 

115, 149, 251, 256, 258, 259, 261, 

807, 822, 837, 838, 866, 887. 


Schlippe (von) G., 803. 


Schlosser F. C., 610 


Schlosser J. G., 195. 


Schluchter W., 553. 


Schlunke O., 338. 


Schmalenbach H., 865, 872. 


Schmidt G., 75. 


Schmoller (von) G., 28, 541, 630, 

631, 641, 643, 644, 887. 


Schnitger M., 542. 



INDICE DEI NOMI 



Schopenhauer A., 53, 231, 256, 258, 

259, 261, 273, 342; 408, 421, 429, 

730, 872. 


Schréter M., 722, 723. 


Schiitz A., 550. 


Schwartz E., 722. 


Schweitzer A., 551. 


Scott W., 729, 730. 


Sceberg E., 888. 


Seidel H., 339. 


Semler J.S., 193, 196. 


Senofonte, 256. 


Servio Tullio, 780. 


Sfero, 778. 


Shaftesbury (Cooper, conte di) A. 

A., 256, 257, 259. 


Shakespeare W., 163, 194, 233, 789, 



901. 


Shih Huang Ti, 753, 778. 


Sigwart C., 168, 295. 


Silla, Lucio Cornelio, 760, 784, 787. 


Simmel G., 11, 15, 17, 18, 22, 28- 

30, 36, 48, 49, 53-55, 59, 63, 74, 

336, 346, 427-432, 457, 556, 659, 

847, 871. 


Sismondi (Simonde de) J.-C.-L., 

877. 


Smith A., 35. 


Socrate, 250, 251, 698. 


Sofocle, 740, 748, 901. 


Sombart W., 27, 28, 542, 556, 852. 


Spencer H., 27, 106, 114, 879. 


Spener Ph.J., 699. 


Spengler O., 63-66, 68, 336, 719-722, 

767, 793, 878, 887, 922. 


Spiegelberg W., 722. 


Spinoza B., 231, 251, 252, 256-259; 

261, 317, 864. 


Spranger E., 627, 862, 865, 872. 


Spykman N. ]J., 431. 


Srbik (von) H. R., 75. 


Ssu-Ma Ch'ien, 778. 


Ssu-Ma T'An, 786. 


Stammer O., 552. 


Stamler R., 46, 47, 593. 


Steding C., 550. 


Stein A., 86. 



973 



Stein (von) C., 524. 

Stein (von) L., 115. 

Stein (barone von) H.F.K., 358, 



955. 

Steinbach (von) E., 525. 

Steinhoff M., 431. 

Steinthal H., 427. 

Stendhal (Beyle H.), 234, 737. 

Stenzel J., 87. 

Sterling R. W., 888. 

Stocker A., 844. 

Streisand ]., 552. 

Strich W., 862. 

Strzelewicz W., 550. 

Stuart Hughes H., 75, 723. 

Sturm J., 902. 

Stutz E., 723. 

Susman M., 430, 431. 

Suter J.-F., 88. 

Svarez K.G., 156. 

Swammerdam ]., 699. 

Sybel (von) H., 61, 357, 438, 883, 

887. 





Tacito, Cornelio, 179, 184, 185. 


Taine H., 347, 357. 


Talleyrand-Perigord C.-M., 765. 


Telemaco, 769. 


Tellegen E., 553. 


Temistocle, 748. 


Tenbruck F.H., 551. 


Teodoro di Studion, 770. 


Tertulliano, Quinto Settimio Flo- 

rente, 148. 


Tessitore F., 76, 888. 


Thomasius C., 189, 190, 193, 196. 


Thutmosi, 726. 


Tiberio, imperatore romano, 748. 


Tiberio Gracco, 778. 


Tiziano Vecellio, 746. 


Tolomeo, 785. 


Tolstoj L., 696, 697, 700, 711. 


Tommaso (S.) d'Aquino, 94, 606. 


Tònnies F., 26, 27, 30, 347, 359 



974 INDICE DEI NOMI 



Trebazio, Gaio Testa, 784. 


Treitsche (von) H., 31, 61, 70, 357, 

427, 628, 703, 887, 955. 


Trendelenburg A., 79, 80. 


Troeltsch E., 11, 41-47, 52, 59, 63, 

67, 68, 70, 73, 797-803, 844, 846, 

849, 852, 884, 885, 887, 934, 936, 

943, 944, 957. 


Tucidide, 148, 150, 171. 


Tung Chung-Shu, 778. 


Tuttle H. N., 89. 



Unland J. L., 685. 





Varo, Quintilio, 179. 


Vermeil E., 802. 


Verre, Gaio, 785, 786. 


Vico G., 25. 


Vischer F. T., 625. 


Vittoria, regina d’Inghilterra, 767. 


Volkelt J., 862. 


Voltaire (Arouet J.-M.), 215, 251, 

Brr. 





Wagner A., 541. 


Wagner R., 232, 233, 731, 750-752. 

Waismann A., 88, 723, 802. 

Wallenstein (von) A. W.E., 752. 

Wallis W. D., 849. 


Walter A., 550. 


Warnkònig L. A., 113. 


Watteau ].-A., 514, 746. 


Weber Marianne, 549, 554, 944. 



Weber M., 11, 13, 28, 31, 35-40, 

45-49, 55-60, 62-64, 67, 73; 74, 76, 

336, 427, 541-549, 554, 556, 593; 

610, 646, 647, 673, 682, 713; 798, 

799, 844, 884, 928. 


Wegener W., 552. 


Weierstrass K.T.W., 692. 


Weingartner R.H., 432. 


Weinreich M., 551. 


Weismann A., 358, 854. 


Wellhausen J., 770. 


Weniger E., 85, 86. 


Weyembergh M., 554. 


Wiederholt K., 270, 862. 


Winckelhaus M., 803. 


Winckelmann J.J., 172, 196, 216, 

30ò, 549, 551, 552, 554, 555, 627, 



ch 


Windelband W., 15-17, 19-23, 25, 

43, 45» 49, 56, 59, 60, 81, 267, 

268, 270, 271, 335; 341; 342, 346, 

542, 556, 665, 666, 674, 675. 


Wissowa G., 778. 


Wolf E., 550. 


Wolf F. A., 149. 


Wolff C., 189-191, 193, 231, 277. 


Wolff K. H., 431. 


Wélflin (von) H., 663. 


Wolfson P.J., 888. 


Wundt W., 15, 36, 350. 



Yorck von Wartenburg P., 79. 





Zedlitz (von) K. A., 156. 

Zeller E. 427. 

Zenone di Cizio, 776, 793. 



INDICE DELLE TAVOLE 



Wilhelm Dilthey intorno al 1908... . . . . pp. 160 

Georg Simmel nel 1901... L00432 

Max Weber intorno al 1916. . . . . . .. » 560 

Max Weber nel 1919... . 0.0.0...» 688 



Friedrich Meinecke intorno al 1935. . . . . . » 896 



INDICE DEL VOLUME 



Introduzione . 



Nota bibliografica . 



WILHELM DILTHEY . 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



Scienze dello spirito e scienza della natura . 


La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito 


Il mondo storico . 


I tipi di intuizione del mende e la io daberazione nei 

sistemi metafisici 



WILHELM WINDELBAND . 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



Che cos'è la filosofia? (Concetto e storia della filosofia) . 

Storia e scienza della natura 

HEINRICH RICKERT . 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



La filosofia della storia . 



GEORG SIMMEL 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



I presupposti psicologici della ricerca storica . 

Il problema della sociologia 

L'essenza del comprendere storico . 



978 INDICE DEL VOLUME 



MAX WEBER 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



L’« oggettività » conoscitiva della scienza sociale e della 

politica sociale . : - 


Il significato della « ivalutaiinià » delle scienze viag 

che ed economiche . 


La scienza come professione 



OSWALD SPENGLER 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



Il problema della storia universale: fisiognomica e siste- 

matica . . 

Filosofia della solnica: 



ERNST TROELTSCH 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



Cristianesimo e storia della religione 

Religione, economia e società . 

Storia e dottrina dei valori . 



FRIEDRICH MEINECKE 



Nota biografica . 

Nota bibliografica 



Personalità e mondo storico 

Relazioni causali e valori nella storia 

Storia e presente .