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Wednesday, November 20, 2024

 . Dedicando una lunga nota in tre parti, benche incompiuta, all’opera di Manna, e dopo aver Dappoichenon potendosi dalla sensazione trar niente che avesse forza d’obbligazione, e vice versa la ragione scorgendo nel fatto della liberta una superiorita di principio che proced dalla  stessa  personalita  umana, puo scorgervi il dovere assluto di mantenere la dignita della persona sulla materia, e della liberta sulla fatalita. Sicche, da questo lato  risguardata, l’Economia potrebbe esser considerata come una derivazione della morale nelle sue piu minute conseguenze. Cfr. 

Monday, November 18, 2024

GRICE ITALO A/Z D DU

 

Grice e Duni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della costume, o sia, sistema di dritto [sic] universal – il diritto romano universalizzabile – scuola di Matera – filosofia materese – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo materese. Filosofo basilicatese. Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Grice: “I like Duni; but of course he errs, as Kant does – for how can a ‘sitte’ a mere costume, become ‘universal’ – yet that’s the oxymoronic title of his tract, ‘scienza dei costume, ovvero, diritto universale’. Figlio di Francesco, maestro di cappella della cattedrale di Matera, e fratello dei compositori Egidio Romualdo ed Antonio, nell'ambiente familiare impara la musica scrivendo anche alcune composizioni da gravicembalo, pur se non seguì le orme dei fratelli maggiori in campo musicale, e fu avviato agli studi religiosi nel Seminario della città di Matera. Si laurea in Napoli. Torna a Matera dove aveva già intrapreso la pratica di avvocato presso la Regia Udienza e dove, chiamato da Lanfranchi, fu insegnante presso il Seminario; lo stesso Palazzo del Seminario divenne in seguito sede del Liceo Classico di Matera, che fu a lui intitolato. Dopo la morte del padre, lascia Matera trasferendosi dapprima a Napoli e successivamente a Roma.  Presso l'Università degli Studi La Sapienza fu docente di diritto canonico e di diritto civile, e pubblica un Commentarius in cui esponeva la dottrina giuridica del codicillo, con una dedica a Benedetto XIV che in seguito lo sostenne nella sua nomina alla cattedra universitaria; a Roma entrò in contatto con le opere di Vico, del quale divenne un convinto sostenitore. Eleggendo Vico a suo maestro, si propose di realizzare un programma di diritto universale come fonte di tutte le leggi e costumi umani. Partendo dalla sua formazione cattolica, crede in Dio creatore del mondo e suo legislatore, e non distinse l'etica e la giurisprudenza considerandole integrative in quanto tendenti allo stesso fine, cioè a dare il senso della vita, e quindi facenti parte entrambe della filosofia. Nacque così il “Saggio sulla giurisprudenza universale”; sua opera fondamentale, dedicato al promotore della politica riformatrice del Regno meridionale, il ministro Tanucci. Il “Saggio” indica esclusivamente nel vero il principio unitario delle conoscenze umane, a cui ricondurre anche la fondazione delle scienze morali. Il bene o vero morale (Cicerone e buono), che differisce dal vero metafisico perché comporta anche l'elezione volontaria del vero conosciuto, si esprime come onestà e come giustizia. La morale propone l'honestum, cioè il bene secondo coscienza, e opera dall'interno, invece il diritto indica la via per andare al giusto, regolando i rapporti tra gli individui o soggetti e quindi la vita sociale. Successivamente al Saggio, scrisse un'opera sul rapporto tra filosofia e filologia nell'ambito della storia di Roma, ed in seguito una Risposta ai dubbi proposti da Finetti in cui polemizzava contro Finetti difendendo la memoria del Vico. Pubblica a Napoli la “Scienza del costume o Sia sistema del diritto universale”, dedicata a Antonelli, in cui prosegue l'opera iniziata con il Saggio. Opere: “De veteri ac novo iure codicillorum commentaries; “Saggio sulla giurisprudenza universale”; “Origine e progressi del cittadino e del governo civile di Roma”;  “Scienza del costume o sia sistema del diritto universale”.   LA A falſa comune opinione adotta ta co me un'affioma dai Politici, che le So cieti Civili naſcono colla forma di Governo Monarchico, diede occaſione non meno agli antichi, che moderni Scrittori della Storias Romana di formare di queſta Nazione tutt ' altra idea di quella, che fu realmente. I vo caboli di Re e di Regno appreſi nel ſenſo di quei tempi, in cui viſſero gli Storici, quando già fioriva in Roma la Monarchia, gli traſportarono a credere, che il Governo cominciaſſe fin dal tempo di Romolo colla, forma Monarchica. Taluni peraltro convinti da’ fatti contrari della Storia furono obbligati a confeflare che ne' primi tempi di Roma quantunque regnaffe la Monarchia, pure.que Ita non poteſſe dirá alſoluta ma che folle accom accompagnata, e mifta di Ariſtocrazia, ' é, Democrazia; ' e che in conſeguenza i Patrizi inſieme co ' Plebej rappreſentaſsero qualche dritto nel Governo, di cui peraltro la ſomma foſse preſso de' Re. L'Idea adunque che tam luni Scrittori fecero del Governo di Roma fin dal fuo nafcere, fu di conſiderare Romolo co'ſuoi Succeſsori o per veri Monarchi; o per Monarchi, che aveſsero comunicato parte dell'amminiſtrazione ai due Ceti di Patrizi, e Plebej, riputando i Patrizi e Senatori, come Ceto di Cittadini illuſtri ricchi e favj, im piegati dai Re nelle cariche più gelofe del lo Stato, ed i Plebej per Ceto anche di Cit tadini ma ignoranti e vili, che ſerviſsero per le faccende ruſtiche, e per la guerra; e che aveſsero qualche parte anche ne' pubblici affari. Venne, come diſi, tal falfa opinione fo ſtenuta da quel comune errore, che tutte le Società Civili non poſsano altrimenti comin ciare, fe non con la forma Monarchica, non fapendo eſli immaginare con qual altra for ma di Governo poſsa mai unirli, e comporli  B un > 7 un Ceto di famiglie a convivere tra loro, ed a formare un corpo. Imperciocchè, dico no efli, non è poſſibile di concepire il prin cipio di tal unione, ſenzachè qualcuno di eſſi, o per violenza, o per fraudolente ambizione induca gli altri alla di lui foggezione e Si gnoria; tantoppiù che non ſi faprebbe in al tra maniera immaginare, come i Padri di fa miglia, i quali prima di entrare in Società Ci vile, facendo ſenza dubbio la figura di Mo narchi nella propria famiglia, pofsano ſenza il mezzo della violenza, o dell'inganno, ab bandonare la propria Signoria col foggettarfi al Governo Civile. Su queſta mal fondata, opinione incontrandoſi nel fatto della Nazio ne Romana, in cui intefero parlare di Re, e di Regno nel ſenſo appreſo di Monarca, e Monarchia non dubitarono punto di defi nire il Governo fotto Romolo, e Tuoi fuccef fori per Monarchico. Ma poichè i fatti ſteſſi della Storia realmente non s'uniformano all ' Idea di una perfetta Monarchia, furono co ftretti ad ainiettere una Mon: irchia mitta di Ariſtocrazia inſieme, e Democrazia. Tutte Tutte le ragioni politiche, che ſogliono ads durſi dagli Scrittori nel pretendere, che le So cietà Civili non poſſano altrimenti nafcere che colla forma Monarchica, fono a mio giu dizio tanto lontane dal dimoſtrarla, che anzi provano tutto il contrario, cioè, che la unione de' Padri di famiglia, nel comporre la Società Civile, debba neceſsariamente pro durre forma di Governo Ariſtocratico, e non Monarchico; poichè fe effi non fanno im maginare, come tali particolari Monarchi di famiglia poſsano ſoggettarſi alla pubblica, Podeſtà ſenza frode o violenza di qualcuno di loro, io al contrario non ſo concepire,.come tal violenza o frode d' un ſolo por fa eſser valevole ad obbligare un Ceto in tiero di Padri di famiglia avvezzi a ſignoreg. giare in caſa propria per ſoggettarſi al Mo narca, Qualunque voglia figurarfi la frode o la violenza d'un folo, egli è chiaro che tali mezzi non faprebbero indurgli a foffrire di buon animo un totale cambiamento di con dizione, quanto, lo è il paſsare da quella, in cui trovavanli di Signori aſsoluti, a queſta di B 2 fud E fudditi, trattandoſi di cambiare condizione in tieramente oppofta; ed ognun fa, quanto rin.: creſce al Signore il paſſare di fatto dallo ſta to di comandare a quello di ubbidire. Che ſe mi diceffero, che ciò nafce dalla violenza, cui non ſi può reſiſtere, io gli riſpondo, che nei naſcimenti delle Repubbliche la for za d'un ſolo non è, ne può eſſere parago nabile alle forze unite di tanti Padri di fa miglia, quanti converranno ä formare la So cietà. Sicchè tanto è fupporre, che la forza d'un folo baſti per opprimere gli altri, quan to è dire, che molti non fiano in grado di vincere la violenza d' un folo; ciò che o non è affatto poſſibile, o almeno lo potrà eſſere in qualche caſo troppo raro, e ſtravagante; ma la ſtravaganza e la rarità non può in durre un ſiſtema generale. Quindi il preten dere, che le Società Civili debbano necella riamente cominciare colla forma di Governo Monarchico, è lo ſteſso, che fupporre la violenza, o la frode d' un folo maiſempre ſuperiore alla forza, ed alla deſtrezza di mol ti; e ciò non baſta, perchè biſognerebbe an che > 1 che ſupporre, che al numero di molti non fc gli preſenti mai occaſione favorevole per re fiftere, e liberarſi dall' uſurpato potere di un ſolo; cioche realmente s’oppone ad ogni no ftra immaginazione. Se poi vorranno fingere, che dopo la violenza, o frode uſata dal Mo narca per ſoggettare gli altri, poffa ſeguire il compiacimento degli ſteſſi ſoggetti, forſe perché il Monarca ſia dotato di virtù tali, che baſtino ad innamorargli, oltreché une tal ſupporto non ſi può ammettere general, mente, incontra il maſſimo oſtacolo di non poterſi concepire, come gli Uomini avvezzi a dominare poſſano cosi preſto invogliarſi della condizione oppofta di ubbidire per qualunque ammirazione di virtù nella perſona del Moia. narca. Ma poi non è poſſibile il concepire nel Monarca virtù degna di ammirazione preſo co loro, che naturalmente, non fanno ſpogliarli di fatto del proprio carattere di dominare, ſenzaché entrino almeno a parte della pub blica amminiſtrazione; fe pure non vogliamo fingerli per Uomini affatto ftolidi ed alieni dalla maſſima delle Umane paſſioni. Qui Qui potrei co ' monumenti pervenutici de gli antichiſsimi Popoli dimoſtrare col fatto l? inſuffiſtenza di un tal ſentimento dei Politici col riconoſcere nelle origini delle Nazioni tutt altra forma di Governo, che la Monar chica; e che laddove eſli ſuppongono, che la Monarchia ſia ſtata la prima a forgere nel le Società Civili, fi troverà maiſempre l'ulti tima a venire dopo l' Ariſtocrazia, e Demo- ' crazia; perché la naturalezza delle Umane vicende è tale, che i Padri di Famiglia nel formare la Società Civile dovendo decadere da quella podeſtà afloluta, che eſercitavano in Caſa, cercheranno di cedere il meno che ſia poſſibile dell'antica Signoria; poichè l'Uo mo per natura non fa mutarſi di fatto da, uno ſtato ad un altro direttamente oppoſto al primo, e perciò quando trovali nella contin genza di dover paſſare da una condizione ſuperiore all' inferiore, procura ſempre di paſſarci per gradi, e non di ſalto. Quin di è, che fe vogliamo ragionare a ſeconda, dell'idee Umane, dobbiam dire, che tali Pa dri di famiglia qualora li vedranno obbligati dalla dalla neceſſitii di laſciare la Monarchia del ta loro famiglia, ſebbene converranno vo lentieri in Società Civile per trovare mag gior ſicurezza coll'erezione della poteſtà pub blica compoſta di forze unite, e per confi gliare ai vantaggi, e comodi della vita; pu Te non ſi diſporranno mai a cedere dell'anti ca poteſta, fe non quanto biſogna per reg gerſi il Corpo Civile, e quanto meno liane poflibile di quella dominazione, che lafciano. Or la forma di governo, che dovranno fce gliere, farà certamente l'Aristocratica, come quella, in cui fi cede il meno dell'anticas Signoria, formandoſi una Podeſtà pubblica che riſiede nondimeno preſſo gli iteſi mem bri, che la compongono, e nel tempo ſtello col Governo Ariſtocratico ſieguono a ſignorega giare ſul Volgo, e ſulla Plebe, che ſi ricovera ſotto la loro protezione. Che ſe poi vorremo fare un' efatto giudizio, come coll' andar del tempo dall'una forma di Governo ſi fuol para ſare all'altra, poſſiamo qul accennare breve. mente, che ſtabilitaſi la Societ: Civile nella ſua origine colla forma Ariſtocratica, che dee ellere 1 B 4 priva d'ogni dritto Civile i Indi l'oppreſſo eſsere la prima a naſcere, gli Ottimati na turalmente faranno traſportati dall’amor pro prio ad opprimere, e tirannizzare il Volgo, o ſia la Plebe, che ricoverandoſi ſotto la lo ro protezione, per ſoſtentare la vita, rimane Volgo creſciuto in numero, maſſime col mez zo della procreazione, pel deſiderio iſpiratoci dalla Natura di fottrarci dall' altrui tirannia, cogli ammutinamenti e ſedizioni cerca di li berarſene; e quindi avviene, che dall' Ari ftocrazia ſi paſſa alla Democrazia. Finalmente il Popolo tutto reſo partecipe del Governo, naturalmente ſi divide in fazioni, le quali agi tandoſi continuamente tra loro, non trovano altro ſcampo per ſalvarſi dalle guerre Civili, che di ricoverarſi ſotto la Monarchia. E que Ito ſembra il corſo ordinario e naturale delle Origini e de' progreſſi delle Nazioni tutte uniforme altresì alle memorie pervenuteci del le antichiſſime Nazioni. Ma per non partirci dal noſtro argomento, ci conviene di fermarci ſull' eſame del Go verno Civile di Roma. E ſulla prima fa duo po po di ſviluppare dalle tante incoerenze, che troviamo nella Storia, quella prima forma di Governo, che venne iſtituita ſotto Romolo nel naſcimento della Città Romána. Dicia ino adunque, che la prima forma diGover no iſtituita fin dal tempo di Romolo tanto è lungi, che fofle ftata Monarchica, o miſta di Monarchia, che anzi ſi riconoſce chiaramen te Ariſtocratica delle più feverè, che mai li poſſa immaginare, come realmente lo furono le Nazioni tutte nei loro forgimenti. E pri mieramente l'efferſi attribuita a Romolo, e ſuoi Re fucceffori la Monarchia, nacque fo vratutto, come diſli, dalla falſa intelligen-. za della voce Rex, col di cui nome vennero chianati tutti quei, che da ROMOLO fino al la creazione de' DUE CONSOLI ANNALI hanno la cura di presedere, e far da Capi del Senato regnante. La voce “rex” nei tempi, in cui gli Storici, come LIVIO e Dionisio compilarono la STORIA ROMANA, e certamente appresa in SENSO DI “mon-arca”, come temps, in cui fioriva. la monarchia e con un tal supposto non ſapendo neppur eſi immagina. re re altra forma di Governo nel naſcimento della Città Roinana, andarono a credere, che o in tutto, o in parte regnaſſe la Monarchia. Ma ſe vogliamo inveſtigare la vera originaria fignificazione della voce Rex, troveremo, ch'ella viene da reggere, e ſoſtenere, e che propriamente dinotava un Capo e Dace del la Repubblica, e non un Monarca di pode Atà aſſoluta. La ſtella eſpreſſione di rex tro viamo uſurpata in tutte le altre Nazioni, di cui ci è pervenuta la Storia; ma il Governo del le niedeſime non ſi può attribuire a Monar chia ſenza ſmentire i fatti medefimi, dai quali ſcorgeſi, che tali Re altro realmente non era no, che Capi, e Duci delle Repubbliche: per che inſieme colla perſona del Re troviamo i Senati, da cui definivanfi gli affari pubblici dello Stato. Soleaſi per altro diſtinguere l' incombenza dei Re in pace ed in Città da quella, che rappreſentavaſi in guerra; poi che qualora erano in piegati a far da Capita ni Generali a comandare l'eſercito, ſpiega vano certamente una podeſtà affoluta, come quella, ch'è troppo necelaria nel Capitan Gen Generale per lo buon regolamento delle fac cende militari. Trattaſi in guerra di porre in eſecuzione all'iſtante le opere militari, le qua li non ſoffrono dilazione, e richieggono la più rigoroſa ſegretezza per forprendere l'ini mico, ed in conſeguenza i Re in guerra per natura dell'impiego medeſimo ſpiegavano po teſtà aſſoluta, perchè non giova di eſercitarſi colla dipendenza dal volere degli altri, è maf fimamente de' Cittadini, come lontani e che non poſſono eſſer preſenti alle diſpoſizioni mi Jitari, e perciò non ci dee far maraviglia, fe per conſigliare al pubblico bene fafi co ſtumato di concedere al Re, quando coman da in guerra, una poteſtà indipendente e Monarchica. Ma di qualunque carattere ftata foſſe lae poteftà dei Re in guerra, non dobbiamo con fonderla colla podeſtà da effi loro praticata in pace e nel Governo Civile dello Stato. In fatti Tacito narrando i coſtumi degli antichi Germani ci fa ſapere che prello tali antis chi Popoli ſi diſtinguevano i Re propriamen te 1 te detti nel ſenſo di reggere la Repubblica dai Capitani Generali; poichè i primi fi eleg gevano dal Ceto degli Ottimati e. Signori, ed i ſecondi fi ſceglievano tra quei, che li erano reſi celebri pel valore, ' I Re, dices egli, ſi eleggono dal Ceto de' Mobili, e per Capitani Generali ſi ſcelgono i più celebri nel valore; Ma i Re non rappreſentano pode fà libera ed illimitata (a ); quanto a dire che la qualità di Re preflo gli antichiſſimi Germani non produceva poteſtà fuprema, e Monarchica, tuttoche Tacito gli aveſſe at tribuito il nome di Rex. Dionisio parlando degli antichi Re della Grecia fcrive, che i Re delle antiche Greche Nazioni, preffo di cui il Principato era ereditario, o pure elettivo, governavano col conſiglio degli Ottimati, come lo atteſtano Omero, e gli antichiſſimi Poeti. Nè quei tali antichi Re eſercitavano il Prin cipato con poteſtà aſſoluta, come veggiamo a tempi (a ) Tacit. de moribus Germanorum 9. VII. Reges ex nobilitate, duces ex virtute fumunt. Nec Regi bus infinita, aut libera poteftas. DI ROMA. 29 tempi noftri (a ). La voce Rex adunque nell' originaria ſignificazione Latina dinotava une Capo di qualunque Ceto, o di Repubblica, e non un Monarca z e queſto Capo qualora veniva deſtinato a comandare in guerra; al lora fpiegava la poteſtà aſſoluta; Ma nei tem pi poſteriori, quando le Nazioni pervennero allo ſtato di Monarchia fi ritenne la ſteffa voce “rex”, che paſsò a SIGNIFICARE il Monarca, quan to a dire, che il nome di Rex attribuito a ROMOLO, ed agli altri Re successori, non può eſſere un argomento per definire il Governo Monarchico nel naſcimento della Città Romana. Parliamo ora ad esaminare i fatti narratici dagli storici, dai quali unicamente dipende lo ſchiarimento di queſto articolo. Dioniſio, il quale a differenza degli altri s'impegna a de (a ) Dioniſio Antiq. Rom. lib. 2. Graecanici Reges çerte, qui haereditarium Principatum fumerent, quolve Populus fibi ipfe praeficeret, confilium habebant ex OPTIMATIBVS ut Homerus, & antiquitlimi quique Poetarum teftantur.. neque (ut fit in noſtro feculo ) veteres illi Reges ex ſui tantum animi fententia poo feſtatem exercebant. deſcriverci minutamente l'origine del Govere no Civile ſotto ROMOLO, febbene non ſeppe, formare un' eſatto e coſtante giudizio della forma del Governo, pure ci ſomminiſtra ba. ftanti lumi, onde poſſiamno ſcovrire il vero. E ſulla prima introduce un allocuzione fatta da. Romolo ai ſuoi Compagni ſul propoſito di doverſi ſtabilire una forma di Governo che foſſe più utile, e più atta per tener lon tana la Città dalle fedizioni Civili, e per di fenderla dagl' inſulti dei Popoli eſteri. E qui ci rappreſenta Romolo per Uomo ben iltrutto ed erudito delle Nazioni Greche, e delle Barbare, delle forme del loro Governo della difficoltà nello ſcegliere la migliore; indi gli conſiglia a riflettere maturamente l' affare, affinchè poteſſero riſolvere, se piutto fto voleano ubbidire a un ſolo, o pure a pochi, moſtrandoſi pronto e pieno di moderazione a ſeguire il loro volere. Dopo una ſpe cio Dioniſio antiq. Rom. lQuum autem diffi çilis fit earum (vitae uempe rationum ) electio, juf lit ciofa allocuzione i compagni di Romolo te. nendo conſiglio tra loro, non dubitarono di preſcegliere la forma del Goveno Regio in perſona dello ſteſſo Romolo, non ſolamente perchè l' aveano ſperimentata la migliore per quanto l'aveano inteſo approvare dai loro Maggiori, ma perchè giudicavano, che con una tal forma di Governo ſi otteneffero i due maſimi vantaggi, cioè la libertà propria, e · l' impero preſſo degli altri (a). Da un tal racconto ognun vede, che Dio. nilio fit eos re per otium conſiderata dicere, NUM UNI RECTORI, AN PAUCIS PARERE MALINT. Etenim, inquit, quamcumque Reipublicae formain in ftitueritis, ad eam recipiendam paratus fum, nec principatu me indignum cxiſtimans, nec detrcaans imperata facere. (a) Dioniſio loc.cit.Illi, communicato inter fe con filio, reſponderunt in hunc moduin: nobis nova Reid publicae forma non eft opus; nec a majoribus proba tam, & per manus traditam mutabimus, fed & pri fcorum conlilium fequimur, quos non ſine inſigni prů. dentia illam Reipublicae formam inſtituiſſe credimus, & praefenti fortuna contenti ſumus; cur enim illam in. cuſemus, quum fub Regibus contingerint nobis bona, quae apud homines habentur praecipua, LIBERTAS ET IMPERIUM IN ALIOS Haec eft noftra de Republica fententia &c. niſio compoſe tali narrazioni piuttoſto allas maniera, com'egli avrebbe penſato di fare, che con quella, che Romolo realmente ufaf ſe preſſo i lnoi compagni'. E tralaſciando di riflettere le tante improprietà di ſimile allo cuzione, in cui ci propone Romolo per Uo mo iſtrutto delle Barbare, e delle Greche Na zioni, anzi delle varie forme del loro Gover no; quando al contrario, come dimoſtraremo a fuo luogo, i Romani per molti ſecoli fu rono affatto ſconoſciuti ed ignoti, mallime alle Greche Nazioni, ci giova quì di notare quell'eſpreſſione, che il Governo Regio po tea loro conſervare il pregio della libertà, il quale certamente non ſi può ottenere colla Mo narchia preſa nel ſuo vero fenfo di podeſa d' un ſolo aſſoluta, ed arbitraria; poiché an che ſul ſuppoſto d'un Monarca dotato della più retta politica ę ſaviezza, e di coſtumi i più ſublimi ed innocenți, il Popolo non può godere altro pregio di libertà, ſe non quello, che deriva dalla rettitudine dell'animno dalla ſaviezza del Monarca medeſimo; mais non ſi può pretendere ſotto la Monarchia di 1 DI ROMA. godere il dritto e la libertà di reſiſtere, ed oppora al di lui ſentimento e comando; poiché la forma Monarchica, come tale, racchiude la fuprema poteſtà preſſo di una folo; e tutto il reſto del popolo potrà fo lamente eſercitare quell'autorità, che pia ce rà al Monarca di comunicargli; ficchè ſi conſidera allora ' tale autorità come dipen dente e ſoggetta maiſempre al voler del Monarca e non libera del popolo, che l' eſercita per comando del Principe. Ed ecco che Dioniſio leffo finora ci propone il Gover no Regio non già in ſenſo di Monarchia, ma di Capo e Duce d ' un ceto d' Uomi ni, che intendono d'eſser membri del Go verno medeſimo, per eſſere anch'eſſi a par te della libertà di comandare. Siegue indi Dioniſio a narrare la diviſione del Popolo in Tribù, e Curie, inſieme colla egual partizione de' campi, e de' terreni tralle Curie; e poi paſſando alla diviſione de' Ceti fatta in Padri e Plebe, nel riferire il carat tere che i Patrizi doveano rappreſentare nella Repubblica, chiaramente ci atteſta, Tomo II. С che che ai Patrizi apparteneva la cura dei Sacri, l'eſercizio de' Magiftrati, l'amministrazione della Giuſtizia, ed il Governo della Repubblica unitamente con ROMOLO. Ę poco dopo narran do l'erezione del Senato dal Ceto de? Patrizj replica lo ſteſſo, cioè, che Romolo avendo ri dotto le coſe in buon ordine, immediatamen-: te creò dal Ceto de' Patrizj i Senatori, i quar. li doveſſero ſeco lui amminiſtrare la Repubbli. E queſta ' erezione di Senato l'affomi glia alle Repubbliche delle antiche Nazioni Greche ſulla teſtimonianza di Omero, e di altri Poeti Greci, che fanno menzione di fimi li Senati regnanti, cui preſedeva il Re, il qua le per altro facea da Capo e Duce, in ma niera $ Dionifo loc. cit. Romulus porro poftquam difcre vit potiores ab inferioribus, mox legibus latis praefcri plit, quid utriſque faciendum effet: ut Patricii facra curarent, Magiſtratus gererent, jus redderent,SECUM REMPUBLICAM ADMINISTRARENT. Dioniſio loc. cit. Ceterum Romulus poftquam haec in decentem ordinem redegit, confeftim decrevit Se fatores creare, ut ellent, QUIBUS CUM ADMINI STRARET REMPUBLICAM. DI ' ROMA. 35 niera però, che il Governo della Repubblica riſedelle prello il Senato compoſto degli Ot timati, come per l'appunto furono i patrizi di Roma. Indi riferiſce le particolari in combenze attribuite a Romolo, come Capo del Senato, cioè, che prello di lui eſſer do veſſe la principal cura dei Sacrifizj e del le coſe Sacre: che doveſſe aver cura delle Leggi e de' Coſtumi Patri; che ſi riſerbaf ſe il giudizio per gli delitti più gravi, e de' minori ne giudicaſſero i Senatori; che foſſe di ſua incombenza di convocare il Senato ed il Popolo tutto, colla prerogativa di dover eſſere il primo a profferire il ſuo ſentimento, ma che le determinazioni del Senato dovef ſero dipendere dalla pluralità dei fuffragi; e finalmente, che poteſſe ſpiegare Poteſtà aſſo luta in guerra, Paſſando poi a ſpiegare, C 2 qua Dioniſio it. Graecanici Reges certe > qui hereditarium Principatum fumerent, quoſve populus fibi ipfe praeficeret, conlilium habebant ex Optimatibus, ut Homerus & antiquiſſimi quique Poetarum teſtantur &c. Dioniſio loc.cit. His conſtitutis, honorcs, & potefta tes in fingulos Ordines diſtribuit. Regi quidem eximia mune DEL GOVERNO CIVILE quale eller doveſſe l'autorità del Senato, fcri ve, che gli affari del Governo ſi doveſſero dal Re proporre al Senato, preſo di cui non di meno doveſſe riſedere la potefta fuprema di decidere col mezzo della pluralità dei ſuf fragj, ſoggiungnendo inoltre, che un tal fix ſtema di Governo folle ftato appreſo dalla Repubblica dei Lacedemoni, (fempre col falfo fuppofto, che Romolo in tali tempi aveſſe avuto cognizione de' Papoli della Gre cia ) in cui i Re non erano Monarchi, nè Die {potici del Governo, ma ſemplici Capi del Senato il quale fpiegava la fuprema pote ftate munera fuerunt haec: Primum, ut Sacrificiorum, & re liquorum Sacrorum penes eum eflet principatus, per quem çumque gereretur quidquid ad placandos Deos attinet; deinde uit legum ac conſuetudinum Patriarum haberet cuſtodiam, omniſque Juris, quod vel natura di&ar, vel pacta & tabula fanciunt curam ageret; utque de graviſſimis delictis ipſe decerneret, leviora permitteret Senatoribus, providendo interim, ne quid in judiciis pece caretur; utque Senatum cogeret, Populum in concio nem vocaret, primus fententiam diceret, quod pluçi bus placuiſſet, ratum haberet. Haec Regi attribuit mu nia, & practerea fummum in bello Imperium, (be neppur ftà nell'amminiſtrazione della Repubblica. Da tutto queſto racconto di Dioniſio non v'è chi pofſa negare, che Romolo non eb l'ombra, della poteſtà Monarchica; poichè colla coſtituzione del Senato la poteità ſuprema riſedeva preſſo il Senato medeſimo, e preſſo gli Ottimati; e che tutto quello, che fu attribuito alla perſona del Re, conſiſte va nel fare da Capo del Senato Regnante col la ſemplice prerogativa di poter proporre gli affari, e di eſſere il primo tra i Senatori 2 profferire il ſuo fentimento; ma che la poteſtà di determinargli riſedeſſe preſſo il Ceto dei Senatori, in maniera che le determinazioni ſi coſtituivano colla pluralità de' Suffragj, a cui il Re medeſimo dovea foggiacere; ciocchè non ſolamente eſclude ogni idea di Monarchia, ma C3 ci Dioniſio loc. cit. Senatui vero dignitatem ac po teſtatem hanc addidit, ut is s de quibus à Rege ad ipſum referretur, de his decerneret, & ferret calculum, ita ut ſemper obtineret plurium ſententia. Id quoque a Laconica Republica defumtuin eſt; Lacedaemonio, rum cnim Reges non erant fui arbitrii, ut, quidquid vellent, facerent; fed penes Senatum erat tocà publi cæ adminiftrationis poteftas.  ro ci manifeſta chiaramente una perfetta Ariſto crazia compoſta di Senatori, i quali furono eletti dal Ceto nobile de’patrizj. Egli è ve che il re di Roma ſpiegava la poteſtà aſſoluta ſoltanto in guerra; ma queſta, come dicemmo, non toglie, nè s’ oppone alla for ma del Governo mero Ariſtocratico, perchè in tutte le Ariſtocrazie troviamo tal poteſtà ſuprema nella perſona del Capitan Generale, per la ragione di non poterſi altrimenti eſer citare con felice effetto il comando del Du ce dell' Eſercito: E qui giova d' oſſervare, che ſebbene nelle Ariſtocrazie il Capitan Generale faccia ufo di poteſtat aſſoluta in guer ra; pure la dichiarazione della guerra, e tut to ciò, che appartiene al ſiſtema generale di eſercitarla, dipende dal volere dello ſteſſo Se nato regnante, quatito a dire, che tutta live poteſtà ſuprema del Capitan Generale ſi ridu ce ad eſeguire gli ſteſſi ordini del Senato éd a riſolvere all'iſtante da ſe medeſimo ciò che non ſoffre dilazione, e l'attendere l'ora colo del Senato ſarebbe inutile e dannoſo Del rimanente la forma del Governo ſi diſtin gue ITgue non già dall'uſo della poteſtă, che ſi eſercita in guerra, ma dalla ragione delle pubbliche determinazioni, le quali, qualora dipendono dall' arbitrio di quei pochi, che compongono il Senato, ci manifeſtano chiara mente l'Ariſtocrazia, e non la Monarchia, anzi neppure un miſto dell'una è dell'altra; perchè la coſtituzione d'un Capo del Senato, ſempreche tutte le pubbliche determinazioni ſono riſerbate alla pluralità de' Suffragj dei Senatori s non ſi può aſcrivere, che ad un più ordinato regolamento del Senato mede ſimo, come avviene in tutti i Ceti di per fone, in cui vi ſia un Capo, il quale ſembra effer neceſſario, affinchè ſia meglio regolato il Corpo intiero di quei, che lo compongo ño; ma non già che la coſtituzione del Capo vaglia à mutare o alterare in minima parte il fiftemå del Ceto medeſimo. So bene, che anche nelle Monarchie fogliono eſſervi i Se nati, maſlime de Grandi dello Stato ma cali Senati ſono di gran lunga diverſi da quello, che fu ſtabilito in Roma forto Romolo; poi chè il Monarca talvolta ſuole commettere a C4 quals  0 qualche Geto di Perſoné la deliberazione de gli affari, o pubblici, o privati; ma tali de liberazioni non oltrepaſſano i confini d'un mero configlio, ſicchè rimane maiſempre al Monarca la facoltà di approvare, di repu diare la deliberazione; quanto a dire, che la determinazione dipende maiſempre dall' arbitrario fuo volere e non dai ſentimenti dei ſuoi Conſiglieri; ragion, per cui nelle Mo narchie ſi trovano talvolta ſtabiliti tali Ceti di perſone, che ſogliono aver nome di Con ſiglieri del Monarca. All'incontro il Senato di Roma era compoſto di perſone, di cui ognu na ſpiegava uguale autorità a quella di Ro molo per le pubbliche determinazioni, e queſta tal ſorta di Senato Regnante è quel la propriamente, che coſtituiſce la vera forma di Governo Ariſtocratico. Quindi pof ſiamo francamente affermare, che dove re gna la Poteſtà fuprema nel Senato, ivi non vi può eſſere neppur l'ombra della Monar chia, ed al contrario dove regna la Monar chia, ivi non può eſſervi Senato di poteftà ſuprema; perchè l'una e l'altra forma di governo come verno non ſi diſtinguono in altro, ſe non che nella Monarchia la poteſtà fuprema riſiede in un folo, e nell' Ariſtocrazia in molti. Ma per eſſer meglio convinti d'una tal ve rità, ci conviene di eſaminare con maggior diſtinzione quel Capo di Poteítà, che riguar da lo ſtabilimento delle Leggi, il quale più d'ogni altro fa diſtinguere la Monarchia dal? Ariſtocrazia, ſecondo che venga eſercitata da un ſolo, o da molti, è che ſecondo il ſenti mento di tutti i Politici ſi conſidera la maſſima nell' amminiſtrazione dello Stato. In fatti tra tutte le pubbliche deliberazioni la più ſpecioſa ed importante è certamen te quella, che diceſi poteſtà Legislativa; poi chè lo ſtabilimento delle Leggi, come quel lo, che più d'ogni altro riguarda l'intereſſe e la pubblica tranquillità, è il punto più ge lofo, che poſſa eſſervi nel regolamento del le Società Civili, e come tale ci manifeſta, e ci fa diſtinguere ad un tratto la Monarchia dall'Ariſtocrazia. La ragione ſi è, perchè pre ſcriver la Legge allo Stato altro non è, che obbligare e ſoggettare tutti i particolari mes  membri del Corpo Civile alla cieca obbedien za di ciò, che la Legge comanda; e perciò ñon li può riconoſcere poteſtà più ſublime di quella di poter comandare la Legge. Or fen za biſogno di ſoggettarci ſu tale articolo ai ſentimenti degli Storici; qualora ci riuſciſſe di dimoſtrare, che la Poteſtà Legislativa di fat. to riſedeva non nella perſona di Romolo, ma preſſo l'Ordine del Senato regnante, non ci rimarrà luogo da dubitare, che l'iſtituzio ne del Governo folle di forma mera Ariſto craticào É qul fa d’uopò di ricorrere alla narrazio ñê del Giureconfulto Pomponio nella Legge feconda de Origine juris į ove impreſe con particolari cura à trattare dell'origine delle Leggi Romane · Ci fa egli ſapere, che ſul principio il Popolo Romano ſi regolava ſenzos leggi certe e determinate; ma che tutto ſi go Bernava col mezzo della dutorità del Re (a). A tal (a ) de Orig. Juris: Et quidem initio Ci vitatis noftrae Populus fine lege cerca, fine jure certo pri A tal narrazione di Pomponio gl' Interpreti del Dritto Civile, valutando aſſai più la di lui Autorità, che quella di Dioniſio li dettero a credere che realmente il Governo iſtituito fotto Romolo folle itato Monarchico, poichè (dicono eſli ) ſe ne primi principi della fonda zione di Roma al dir di Pomponio non v'era no leggi ſtabilite, e determinate, ma tutto li regolava collº autorità del Re, ne liegues neceſſariamente, che la forma del Governo cominciare dalla Monarchia. Ma io non sò, come tali Interpreti poſſano formare da quelle parole di Pomponio un tal giudizio, quando dall' altre, che ſeguono, li dimoſtra il con trario. Indi (fiegue Pomponio ) eſſendoſi ing qualche maniera ingrandita la città, dicéſi, che lo ſtesſo Romolo aveſſe diviſo il Popolo in trenta parti, chiumate CURIE a motivo, che allo primum agere inſtituit, omniaque manu Regis guber nabantur. NellePandette Fiorentine leggefi MAŇU A REGIBVS GVBERNABANTVR ma de ciocchè fregue, e dall' eller direito il diſcorſo di Pomponio alla perfona di Romolo, dee fi piuttosto abbracciare la lezio ne volgata, omniaque manu Regis gubernabantur. allora Spediva gli affari della Repubblica coi ſentimenti, e colle determinazioni delle medeſime Curie; ed in tal maniera promulgò egli alcune leggi dette CVRIATE, come fecero altresì i Re ſuoi successori. Or fe folle vero, che Romolo cominciaſſe a governare la Città colla fornia Monarchica, dovrebbe eſſer falſo, che lo ſteſso Romolo indi ſtabiliſſe la Repubbli ca degli Ottimati, con attribuire al Senato l' Autorità ſuprema di diſporre degli affari pub blici per mezzo della pluralità de' Suffragi. Nè vale il ſupporre, che Romolo regolaſſe, la Città coi ſentimenti delle CURIE di puro conſiglio, quafi che ſi riſerbaffe l'arbitra rio volere di ſeguire, o di ripudiare tali fen timenti. Imperciocchè lo ſtello Pomponio chia ramente s'eſprime, che gli affari ſi determi navano per Sententias partium earum, che in buon (a ) Poftea au&a ad aliquem modum Civitate ipfum Romulum traditur, Populum in triginta partes divififfe, quas partes Curias appellavit, propterea quod tunc Reipublicae curam per Sententias partium caruni expediebat; & ita leges quaſdam & ipfe Curiatas ad Populum tulit. Tulerunt & fequentes Reges. buon latino non poſſono ſignificar Configlio; ed oltracciò le Leggi ſi chiamarono Curiato non per altra ragione, fe non perchè le de terminazioni venivano preſcritte co' ſentimens ti delle ſteſse Curie, e non dall' arbitrario vo lere di Romolo. Egli è vero, che tali Leggi coll'andar del tempo furono anche dette Regie a cagion che ſi proponevano dai Re ne' Comizj Curiaci; ma poichè tutti gli Storici con vengono nell'affermare, che gli affari li de terminavano dalSenato a relazione degli ftelli Re, come Capi di quella adunanza, non ci dee far maraviglia, ſe le Leggi ſi foſſero dette anche Regie; perchè venivano propoſte dal Capo del Senato, cui ſi dette il nome di Re. Dunque fe vogliamo credere più a Pompó nio, che a Dioniſio, pure ſiamo obbligati coll'autorità dello ſteſſo Pomponio di ammet tere ne' tempi di Romolo l'Aristocrazia, u non la Monarchia; perché altrimenti non ſi potrebbero comporre le prime colle ſeguen ti parole del Giureconſulto. All'incontro egli farebbe coſa ridicola il ſupporre, che pri ma di ſtabilirſi le leggi certę, Romolo governaſse da Monarca, e che poi iſtituiſſe l' Ariſtocrazia; e quando anche potefle'aver luogo una tal fuppoſizione, non dobbiamo at tenerci a quel che foſſe ſeguito, prima che ſi dalle una certa forma al Goveșno, la quale non fi dee ripetere, fe non dal tempo, in cui la Città preſe i ſuoi certi regolamenti. Ма,per meglio chiarirci di tal verità, con „ viene di riflettere, che quella eſpreſione di Pomponio, cioè, che fu i principi della cit tà non v'erano leggi certe, ma che tutto ve niva regolato coll'autorità di Romola, non può ſignificare forma di governo monarchico, come è itata appreſa dagl' Interpreti. E qut fa d 'uopó d'inveſtigare la vera ſignifi çazione di quelle parole, Omniaque manu Regis gubernabantur. La voce Manus, è vero, che per traslato • ſtata anche appreſa da' Latini in ſenſo di poteftà (a); pure non hanno 1  I Latini quandą apprefero la voce Manus in senſo di POTESTA', s' avvalſero di quelle locuzioni IN MANU ESSE, HABERE, IN MANUM CON VE DI ROMA, 47 hanno mai detto gubernare manu in ſenſo di governarc, colla poteſtà; nè mai trovaremg gubernare, o regere, o altre fimili parole in ſieme colla voce manu, per ſignificare poteſta nel governo, Molto meno può adattarſi alla voce manus la ſignificazione di arbitrio, o la diſpotiſmo, come piacque ad altri Inter preti; perché un tal difpotiſmo altro non è, che poteft fuprema, ed indipendente; ma comunque ſi apprenda tal poteſtà, ſiamo pur troppo ſicuri, che nel linguaggio latino quel gubernare many non ſi può apprendere in ſen ſo di poteft. In queſta eſpreſſione adunque di Pomponio la voce manus deeſi riferire a tutt'altra intelligenza, che a quella di po teſtà; e poichè tal voce è ſtata anche appre fa dai Latini in ſenſo di forza, e di valore di corpo, o d'animo, come la troviamo in tan te locuzioni (a), non poſſiamo fpiegare il detto VENIRE > DARE, MANU MITTERE fimili. (a) Nel fenſo di FORZA, VALORE, E CO RAGGIO i Latini han detto MANUS MILITARIS, MA detto di Pomponio, ſe non nel ſenſo d ' ef ferli in quelle prime origini della Città re golati gli affari colla forza, col valore, e col la guida di Romolo, come quegli, che tra quelle poche perſone, che ſi unirono ſeco lui nella fondazione della Città, facea la fi gura di Capo e Duce. E queſta intelligen za ci fa intendere altresì tutto il compleſſo del racconto di Pomponio; poichè, dic'egli, che ne' principi il Popolo vilfe ſenza legge certa, fine lege serta, fine jure certo; perché prima di ſtabilirſi moltitudine cale di abitanti, che formafle un corpo abile a comporre una Società Civile, non v'era biſogno di formare leggi e regolamenti pubblici, ma tutto re golavaſi con quei medeſimi coſtumi, fecon do i quali erano ſtati educati quegli ſteſli, che unironſi con Romolo; e perciò dice Pomponio, che ſi vivea ſenza Leggi certe, perché MANUS ARMATA, MANUM CONSERERE, IN JICERE, INFERRE MANUM ALICUI REI IMPONERE, MANU DOCERE, e fimili. E noz Italiani abbiamo ritenuta l'eſpreſione di MANO RE GIA per hgnificare la forza legittima dello Stato di pronta, e spedita eſecuzione. D'L ROMA.perchè allora la Legge era la voce mede ſima del Capo dell'unione, il quale poteva occorrere ad ogni diſordine. Ma quando poi crebbe la moltitudine degli Abitanti, allora biſognava di ſtabilire le Leggi, non poten doli regolare un Corpo Civile colla fola voce parlante del Duce. In fatti le Leggi certe e ſtabilite altro non ſono, che voci mute di chi governa; e ſiccome per regolare i pic coli Corpi può baltare la voce parlante di chi gli regge, cosi moltiplicataſi l'unione degli abitanti, e pervenuta al grado di formarli un Corpo conſiderabile richiede neceſariamente lo ſtabilimento di Leggi certe, le quali pre ſtino l'uffizio della voce medelima di quel Ceto, preſso di cui riſiede la pubblica pote ftà. Ciò ſuppoſto, fino a tanto che Roina ven ne abitata da piccol numero di perſone, la vo çe parlante di Romolo baſtava per regolare gli affari; ma moltiplicatoſi il numero, fi do vette venire alle determinazioni delle Leggi certe, non potendoſi altrimenti ſoſtenere un Corpo Civile. Ma prima di ſtabilirfi tali Leg gi non poſſiamo ſupporre, che Romolo co D man mandaffe coll'arbitrario fuo volere; perchè lo Steffo Po mponio ci aficura, che quando ci fu biſogno di stabilire le Leggi certe, furono queſte determinate colla pluralità de' fuffragi delle Curie, o ſia del Senato; e poichè non è poſſibile l'immaginare, che il Governo per coså breve tempo dipendeſse dal voler del Mo barca, e che immediatamente poi paffalle nella poteſtà Ariſtocratica, perciò dobbiams conchiudere coll' autorità dello ſteſſo Pompo nio, che fin dal principio la Città fu eretta colla forma del Governo Arittocratico. Ne G può conoſcere altra divertità tra quel tempo, in cui fi vivea ſenza Leggi certe, e quell' altro, che venne immediatamente, in cui furo no ftabilite le Leggi, fe non che in quello la poteſtà degl’ottimati ſpiegavafi colla voce parlante di Romolo, manu Regis, laddove in quefto il Senato fpiegava la sua potestà colla voce muta delle ſtabilite Leggi; ma l' uno e l' altro tempo riconobbe la medeſima forma, Aristocratica; Quindi è ancora, che quelle locuzioni di Pomponio ſine Lege certa, fine's jure certo, non si poſſono apprendere, come fecea fecero alcuni Interpreti, quaſiché il regola mento in quel tenipo folle vario ed inco ftante, perché non ſi può fingere ſocietà d’uomini, che vivano ſotto un yario fiftema di Regolamento, ma ſi debbono riferire a quella intelligenza, che meritano, cioè che tutto veniva preſcritto a voce ſecondo le opportu nità delle contingenze, che ſpiegavali col mezzo di Romolo loro Capo; perché non v ' era biſogno ancora di ſtabilirſi leggi certe, come figui poi colla moltiplicazione degli abitanti, Siegue Pomponio a narrare, che eſéndoli diviſo il Popolo in trenta Curie, coi di cui ſentimenti li determinavano gli affari, allo ra cominciaffero a ſtabilirli le. Leggi cere te, che furono perciò dette Curiate, come fecero altresi i Re fuoi fucceffori: Et ita le ges quafdam cuo ipſe Curiatas ad Populam tri lit, tulerunt eam fequcntes Reges: 1 qut gł Interpreţi del Dritto Romano per ſoſtenere la fognata Monarchia di Romolo caddero in tun'al tro equivoco nell'apprendere l'eſpreſſione di Pomponio di ferre legem ad populum in fente D2 d'ef d'eſſerſi comandate le leggi da Romolo, e dai Re fuoi fucceffori. E febbene una tale interpretazione ſi oppone direttamente a cioc. chè lo ſteſſo Pomponio riferiſce nelle parole antecedenti, cioè che il governo della Re pubblica ſi amminiſtrava per mezzo de' fen timenti delle Curie: propterea quod tuma Reipublicæ curam per ſententias earum partium expediebat; pure abbagliati da quel guberna bantur manu Regis, ſi videro obbligati a rico noſcere nella perſona di Romolo e degli al tri Re la poteſtà fuprema di comandare le leggi. Siminaginarono dunque, che lo ſta bilimento delle Curie non toglieva al Re la poteſtà Monarchica, poichè febbene il Sena to interveniva nelle deliberazioni dello Stato, pure i ſentimenti delle Curie ſi debbono ri ferire piuttoſto a ragion di conſiglio, e che in conſeguenza la poteſtà di comandare le Leggi riſedeſſe preſſo di Romolo, e ſuoi Re ſucceſſori. Or (dicono eſli) ſe la poteſtà di co mandare le Leggi, al dir di Pomponio, fpie gavaſi dal Re, ne ſiegue, che la forma del Governo debbafi attribuire anzi a Monarchia, che, che ad Ariſtocrazia. Ma io non só intendere con qual fondamento poſſano afcrivere l'e ſpreſſione latina di ferre legem ad populum al fenſo di comandare, e preſcrivere la legge, quando al contrario egli è coſa notiſlima pref fo i Latini, che il ferre legem nella ſua vera intelligenza ſignifica ſemplicemente il propor re la legge per determinarji, o ripudiarſi, e non il preſcriverla, e comandarla; anzichè qualora dagli Scrittori Latini al ferre legem fi aggiligne ad populum, ad plebem, e ſimili, non v'è eſempio, che foſſe ſtata mai tal lo cuzione appreſa in ſenſo di comandare la leg ge al Popolo, alla Plebe, ma ſempre nel ſen ſo di proporla, per determinarſi dal ceto del popolo o della plebe. E quando la lega ge propoſta veniva coi fuffragi ſtabilita v preſcritta, allora diceaſi lex juſſa, condita; ſic chè altro era il ferre, altro il jubere legem; il ferre fignificava proporre, ed il jubere pro D 3 pria (a ) Vedi Briſſonio de Formulis. il quale traſcrive i laoghi degli Scrittori Latini ſu sale articolo priamente dinotava la determinazione, o sia le juffione della legge. Tra gli altri Scrittori Latini ſono innumerabili i luoghi di Livio, in cui cgli îi avvale dell' eſpreſsione di ferre legem, o pure rogationem, nel ſuo vero ſenſo di propar re, e non già di comandare, e ſoprattutto quando riferiſce le pretenſioni de' Tribuni del la Plebe, in cui fa uſo della voce ferre ine fenſo ſempre di proporre o promuovere, e lis mili, e non mai di preſcrivere, o comandare, perchè i Tribuoi della Plebe non aveano altra facoltà, fe non quella di promuovere, e di eſporre le petizioni del Ceto plebeo, e non già di comandarle. Ma per eller convinti di queſto vero ſenſo ſecondo l'originaria fua fi gnificazione baſta un luogo folo di LIVIO (si veda), in eui eſpreſamente ſi addita la differenza tra "! ferre, e jubere legem. Racconta egli, che pell'anna 372. il Senato ordinà, che ſi fosſe pro poſto al Ceto plebeo la deliberazione d' intimark la guerra a' Popoli di Veletri. I Patrizi co nofcendo d' eſſerſi laſciata più volte impunitra la ribellione de' cittadini di Veletri, decreta rono, che al più preſto che fosſe poſſibile, ſi pro poneffc  SS ponefe,al Ceto plebeo l'affare d' intimarye loro la guerra, e che propoftafi una tal delibera zione tutte le Tribù conſentirono a coman dare', e determinare una tal guerra. E qui Livio eſpreſſamente fi avvale della voce fer re, quando parla di proporſi l'affare al Ceto plebeo, e della voce jubere, quando riferiſce la juffione della guerra ſeguita coi fuifragj di tutte le Tribù (a ). Egli è vero, che l' eſpreſ Gone di ferre legem é ſtata poi dai Latini tra ſportata anche a fignificare la promulgazione della legge in quelle locuzioni Lata lex eft, e limili; ma neppure "la trovaremo uſurpata in queſto ſenſo, quando ci ſi aggiugne ad Populum, ad plebem c. perchè allora ritie ne l' originaria ſignificazione di proporre, e non di promulgare (.b). Comunque però fi D4 ap LIVIO.  Id Patres rati contemptu accidere, quod Veliternis Civibus ſuis tamdiu impuni ' ta dete &tio effet, decreverunt, ut primo quoque rem pore ad populum FERRETUR de bello cis indicen do...... Tum, ut bellum JUBERENT, latum ad Populum eft; & nequidquam diffuadentibus Tribu nis Plebis, omnes Tribus bellum JUSSERUNT. Tum ut bellum juberent, LATUM AD PO PULUM EST. Livio loc. cit. apprenda, o in ſenſo di proporre, o di pro mulgare, egli è fuor di dubbio, che non mai può ſignificare juffione è determinazione della legge. Ciò ſuppoſto, per ritornare ora a Pomponio, ognun vede, che le di lui parole: Et ito leges quaſdam & ipfe Curiatas ad populum tue lit; tulerunt ex Sequentes Reges non pofſono apprenderli nel ſenſo, che Romolo, e gli altri Re aveſſero preſcritte le leggi Curiate ſe non vogliamo tacciare il Giureconſulto per ignorante del linguaggio latino, ma quel tu lit ad populum deeſi riferire a quella facoltis che riſedeva ſoltanto preſso la perſona del Re, di proporre gli affari pubblici in Senato, ed in conſeguenza le leggi, la di cui juffio ne nondimeno dipendeva dal fuffragio delle Curie medesime per fententias earum partium, e non dall'arbitrario volere del Re; e le leg gi fi diſſero Curiate non per altra ragione, ſe non perché vennero preſcritte, e comandate dalle Curie, e non dal volere del Re, quan tunque egli come. Capo del Senato, e come riconoſciuto per lo più abile e favio trai Senapa " DI ROM A 57 Senatori godeſſe la facoltà di proporre cioc chè gli ſembrava più eſpediente per l'ottimo regolamento dello Stato; ma' una tal prero gativa fu fpiegata' altresì dopo il diſcaccia-, mento de'Re dai Conſoli, dai Tribuni mili tari di poteſtà Confolare, dai Ditcatori, e da altre Magiſtrature di ſublime autorità, le quali tutte proponevano al Senato, alla Plebe, al Popolo tutto, le determinazioni degli affari pub blici, e maſſime delle leggi; niuno però fin è ſognato finora di aſcrivere la forma del Governo ſotto i consoli a Monarchia, perchè la ragione di Capo d'un Popolo senza carattere di potestà assoluta non può produrre monarchia, fe non vogliamo confondere ! idea del governo monarchico coll'aristocratico e democratico. winno Conchiudiamo adunque. Gli Scrittori chepiù degli altri ci narrano con qualche diſtinzione la forma del Governo tenuta ſotto Romolo, fo no Dioniſio, e Pomponio. Il primo ci de fcrive chiaramente la coſtituzione del Senato, dal di cui arbitrio dipendevano le determina zioni degli affari e l'intiero regolamento dello dello Stato, ciocchè eſclude di fatto ogniom bra diMonarchia in perfona di ROMOLO. Il fecondo non ſolamente non fi oppone a quan to riferiſce Dioniſio, anziché ce lo conferma più chiaramente, prima col riferirci, che nel naſcimento della Città non v'erano leggi cer te e preſcritte, ma che tutto regolavaſi col conſiglio e guida di Romolo, ed indi cot narrarci, che creſciuta in qualche maniera la moltitudine degli abitanti, fu neceffario di venirli allo ſtabilimento delle leggi certe. Quali leggi inſieme col reſto de' pubblici af fari, eſſendoſi diviſo il Popolo in trenta Cu rie, furono preſcritte col fuffragio delle me defime; ragion, per cui fi diſsero leggi Cum riate; e che finalmente la prerogativa di Rom molo, come Capo del Senato, fi riduceaus alfa - facoltà di proporre predo il Ceto de Se natori ciocchè gli ſembrava opportuno per determinarli gli affari dal Senato medeſimo per ſententias carum partium. In fomma, che Je leggi col reſto delle pubbliche determinazia -ai fi ſtabilivano colla juſsione delle Curie, o fia del Senato, non si può negare per l'alt torita DI ROM A.torità di Pomponio, di Dioniſio, di Livio, e di tutti gli Storici, i quali concordemente combinano ſu tale articolo. Il determinarli gli affari per ſententias delle ſteſſe. Curie e de Senatori, in buon latino non può fignifica re pareri confultivi, ma juſsione per mezzo della pluralità de* fuffragi. Quel tulit leges ad populum attribuito a Romolo, ed ai Re fuc celori, altro non contiene, che la facoltà del Re nel proporle, e non già nel comandarle, e prefcriverle. Dunque dai detti degli ſteffi Storici siamo convinţi, che la forma del Gom verno iſtituita fatto Romolo non ebbe nep pur l'ombra dellaMonarchia, perché doves vi è Senato, preffo di cui rilieda la poteftà. ſuprema di decidere gli affari dello Stato, ivi non vi può regnare il Monarca. E per ultimo troviamo nella Storia Civile di Romaun fatto incontraſtabile, che di ſya natura ci dimoſtra, quanto foffe lontano dalla Monarchia il Governo Civile iſtituito foto Romolo. Egli è troppo noto il dritto di Pa tria poteſtà, che eſercitavaſi in Caſa dal Citta dino Romano ſulla ſua famiglia ſenza limiti, @fen. 3 e fenza la minima dipendenza dal re, o dal Senato. Non intendā io qui di quella potefta patria praticataſi nei tempi poſteriori, e maf fime fotto gl’Imperatori, ma di quell'affolu to Impero Paterno eſercitato fin dalla fonda zione di Roma, e che dai Decemviri fu tra-. ſcritto nelle xir. Tavole, come riferiſce Dio-, niſio (a ). Era certamente la Patria poteſtà di quel tempo fornita d'un aſſoluta dominazio ne ſulla ſua famiglia, finanche verſo i pro prj. Figli, fovra di cui il ' Padre eſercitava dritti di vera Monarchia, com'era l'effer di ſpotico della vita, e della morte loro (b), eltre dell'arbitraria facoltà di poterli vende re, in manierachè dopo la terza vendita i Fi gli di liberavano dal diſpotiſmo Paterno. Or queſto dritto Patrio, che con vera efpref fione Antiq. Rom. lib. 2. Sull' autorità di Dioniſio gl' Interpreti del dritco Romano compoſero quel capo di legge delle mit. Tavole con quelle parole: ENDO LIBERIS JUSTIS VITAE NECIS VENUM, DANDIQUE POTE STAS EI ESTO. SI PATER FILIVM TER VENVM DUIT, FILIUS A PATRE LIBER ESTO: altro capa delle? fione da Valerio Massimo e da Quintiliano venne detto Patria Majeſtas, fu eſerci tato dai Romani non ſolamente dal teropo della promulgazione delle XII. Tavole, ma fin da’ pri ra, delle xir. Tavole riferito da Ulpiano. E Dionifio loc. cit: Romanorum autem legislator (inc tende di ROMOLO) omuem ur breviter dicam, pour teſtatem patri dedit in filium, idque toto vitae tem pore, five in carcerem eum detrudere; five fla gris caedere, five vinctum ablegare ad ruſtica ope five necare libeat, etiamli filius tractet Rempue. blicam, etiamfi Magiftratus gefferit maximos, etiamſi fudii erga Rempublicam laudem fit promeritus. Jux ta hanc certe legem illuſtres viri pro roftris favente plebe concionantes in Senatus invidiam, fruenteſque aura populari, detracti e ſuggeſto, abducti ſunt apa tribus, poenas daturi ex ipforum fententia; quos, duin per forum ducerentur, nemo adftantium eripere poterat, non Conſul, non Tribunus, non ipſa turba, cui tuin adulabantur, licet omnem poteſtatem ſua minorem exi ftimans. Taceo, quot viri fortes necati Gnt. a patri bus &c.... Nec contentus hanc poteſtatem parentibus dediffe Legislator Romanus, permifit etiam vendere fi lium.. Majorem largitus poteſtatem patri in filium, quam hero in mancipiuin; lervus eniin ſemel venditus, deinde libertatem adeptus, in poſterum fui juris eſt; fi lius vero a patre venditus, fi liber fieret, rurſum fub ра tris poteftatem redigebatur; iterum quoque venunda tus, & liberaçus, fervus patris crat tertiam demum yendiționem eximebatur e patris po teſtare & c.  (b ) Declamat. 378., ut ante? poſt primi tempi di Roma, poichè Ulpiano afferma d'ellerli introdotto moribus, cioè, non per legge ſcritta, ma per antichillimo coftu me Patrio; Dioniſio (6) lo riferiſce ad una legge di Romolo; e Papiniano (c) l' attri buiſce ad una legge Regia. Ma Ulpiino a mio giudizio l'indovina meglio di tutti, coll' affermare d'eſerli tal dritto di Patrią poteſtå ricevuto per coſtume; e la ragione ſi è, perchè una tal poteſtà diſpotica del Padre di famiglia dobbiamo fupporla nata inſieme col la coſtituzione delle Famiglic medefime, e prima che quefte conveniſſero a formare So cietà Civile, ſicchè troyandofi tal coſtuine già introdotto nello Stato di famiglie, natu ralmente fu conſervato e ritenuto dalle Fa miglie, che convennero con Romolo nella fon dazione di Roma. In fatti tal coſtume trovali quaſi uniforme in tutte le Nazioni ne'loro for gimenti per le chiare teſtimonianze degli an tichi (a) L. 8. de his, qui ſunt fui, vel alieni juris. (b ) Loc. cit. (c ) Collar. leg. Mofaic. tit. 4. ). 8. 3 tichi Scrittori (a ). E ſebbene Triboniano (b ) credette, che folle queſto dritto proprio de' Romani, pure s'inganno, forſe dall' avere of fervato, che ne’tempi, in cui i Romani eſer citarono queſto dritto con aſſoluta poteſtà, e. nel maſſimo ſuo rigore, l'altre Nazioni l'avea. no già raddolcito con ridurlo a limiti più be. nigni ed umani, come avvenne altresì presso gli itefli Romani, mallime fotto gl'Im peradori, nella di cui età la poteità Patria decadde in buona parte dall'antico fuo ri gore. Comunque sia, quanto al preſente ar gomento çi baſta di potere afficu are colla tea ftimonianza di tanti Scrittori, che il Diſpo tilmo Patrio fu eſercitato da'Romani fin dai primi tempi di Romolo. Qui cade in acconcio di riflettere ciocche gli Storici ci narrano dell'accuſa d'Orazio per aver ucciſa la Sorella in atto, che ritornava trion LIZIO Nicomache. Cesare, de bell. Gill. Plutarco in Lucullo Giustiniane Novella Inf. trionfante per la vittoria contro i curiazi. Dionisio fembrami', che racconti il fatto al ſai meglio di LIVIO (si veda), allorchè cinarra l'accuſa, e'l giudizio d'Orazio, in cui non fa men zioné né del Giudizio de' Duum viri, nè dell' appellazione propoſta da Orazio al Popolo, che ſono le due circoſtanze che fi leggo no in Livio; ma ſemplicemente ci rac conta, che füll'accuſa propoſta da taluni con tro Orazio al Re Tullo, il Padre di Orazio, oltre di aver dichiarato di non meritare fuo Figlio la minima pena, pretendeva, che un tal giudizio apparteneſſe privativamente alla di lui cognizione, tractandoſi d'un fatto acca duto tra i ſuoi figli, e che in confeguen za per dritto di poteſtà Patria dovea egli ef fere il giudice di queſta Cauſa. Ma il Re per una parte credeva anch'egli di doverli af fólann Dionis. Antiquit. Romanarum. Pater contra patrocinabatur filio, acculans filiam, & negans eam dicendam cædem, fed poenam verius, poftulabatque fibi de fuis malis permitçi Judicium ut qui ambo rum effet Pater. 2 • Í folvere ORAZIO (si veda)  io benemerenza della vittoria ed in conſiderazione dell'inſulto di parole fat to dalla Sorella al Fratello in tempo, che aſpettava dà lei piùcche da ogni altro lode, ed applauſo per un'opera egregia preſtata alla Pa tria; è molto più à cagione, che il Padre preſſo di cui rifedevå fecondo i coſtumi di que' tempi l'indipendente poteſtà di giudica re ſulle perſone de propri Figli fi era dichia rato d'averlo già adoluto. Dall'altra parte il Re temeva il tumulto Popolare eccitato dagli emuli, ed inimici d'ORAZIO. Tra tali dubbiezze pensò di prendere l'eſpediente di rimettere la cognizione della Caufa al Popo lo, il quale confermò il giudizio Paterno con affolvere l' accufato Orazio. Un tale rac conto è molto più verifimile di quel; che ci narra Livio fúl giudizio de ' Duumviri, e dell' appellazione propoſta da Orazio al Popolo; poichè in que' tempi l'Impero Paterno eras Tomo 11. E nel Dionis. Praeſertim patrc quoque ipſum abfolvente, quem potiſſimum Filiae ultorem jus * natura fecerar: nel ſuo miglior vigore; nè il Re fenza of fendere le leggi del Patrio Impero potea to gliere il giudizio di queſta Cauſa dallauto gnizione del proprio Padre, e tasferirlo ai Duumviri, e molto meno in ſimili Cauſe era permello al Popolo di prenderne cognizio ne in pegiudizio del dritto Paterno. Ma la contingenza straordinaria d ' eſſerſi mella, la Città in rivolta per queſto fatto, produſela neceflità di ſedarſi il tumulto coll’eſpedien te politico di rimettere l'affare al giudizio del Popolo, e l' Impero privato del Padre dovette cedere alla ragione della pubblica tranquillità. E quindi intendiamo ancora la ragione, per cui Dioniſio riferiſce, che que Ita fu la prima volta, in cui il Popolo preſe cognizione d ' un giudizio Capitale (a), non gia perchè prima di queſto tempo non aveſſe mai il Senato giudicato di delitti capitali, come Pion. lor. cit. Populus autem Romanus tum pri mum capitalis judicii potestatem nactus, comprobavit Patris sententiam Juvenemque abſolvit a cac dis crimine, come ſe prima non foſſero mai accadute con tingenze fimili o fe al Senato, che gode vala ſuprema poteſtà del Governo folle mancata fino allora quella di poter giudica re di delitti Capitali; Ma l'eſſere ſtata que. fta la prima volta, in cui eſercitoſli dal Po polo il dritto di giudicare d ' un delitto capitale, deeſi riferire al fatto particolare, di cui ſi trattava, cioè alla poteſtà di giudicare d'un Figlio di Famiglia contro il ricevuto ca ſtume dell'impero paterno, a cui privativa mente ne apparteneva la cognizione. Or per tornare al noſtro propoſito diciamo, che fe que? Scrittori, i quali s'immaginarono, che Romolo infieme coi Re ſucceſſori fpiegaro no carattere di Poteſtà Monarchica, aveſsero fat to oſſervazione ſull'Impero Patrio, e familia re praticato da ’ Romani fin dalla fondazione della città, ſi ſarebbero accorti dell' impof ſibilità di poterſi unire inſieme Monarchia, Civile prello del Re, e Monarchia familiare preſſo i privati cittadini; poichè chi dice Monarchia familiare prello de' privati Citta dini cfclude ogni ombra di Monarchia preſſo E 2 il ma dello il Re; e la ragione ſi è, perchè fe i Padri di famiglia ſenza la minima dipendenza non folamente del Capo del Senato fteſſo Senato regnante erano gli aſſoluti Mo narchi dell'intiera loro famiglia, ſia de ' figli, fia dei fervi, e famoli, come mai poſſiamo figurarci, che tali Monarchi familiari foſſero nel tempo ſteſſo ſoggetti alla Monarchia Ci vile? Chiamaſi Monarchia Civile quello fta TO, in cui tutto l'intero corpo civile in tutte le ſue faccende pubbliche e private trovali ſoggetto all'autorità fuprema d'un folo che comanda. Or chi non vede la manifeſta diſſonanza e contradizione nel ſupporre il Ceto 'de' Cittadini fornito di po* teftà ſuprema, ed indipendente nella fua fa miglia, é foggetto nel tenipo Ateſo al Mo narca? E come mai poſſono fingerfi unite in ſieme poteſtà fuprema, e foggezzione? In tutte le Società Civili, ove regna la Monar chia, non trovaremo mai poteftà familiare in dipendente dal Monarca, perchè l'una eſclu de direttamente l'altra. In fatti tali poteft:s private in perſona de' Cittadini non pollonio altri 3 1 1 1 altrimenti eſercitarſi, fe non in quelle società civili, che ſiano governate colla formas Ariſtocratica perchè tal forma di Gover no ſolamente può comportare diviſioni di po teſtà pubblica, e privata; pubblica preſso il Ceto degli Ottimati e privata preſo le perſone particolari degli ſteſſi rappreſentan ti della Repubblica, i quali ſpiegano la po teſtà pubblica, quando uniti inſieme com pongono l'autorità regnante, e la privata, quando ſeparatamente regolano gli affari para ticolari delle loro famiglie: Or quanto tal diviſione di poteftà pubblica, e privata è comportabile call' Ariſtocrazia, altrettanto fi oppone direttamente alla Monarchia veggiamo colla ſperienza, la quale coſtan temente ci atteſta, che la Monarchia non mai ammette un tale impero paterno nelle famiglie, come in fatti avvenne preſſo i Ro mani in tempo, che la Repubblica cadde nella poteſtà aſſoluta del monarca. Ne poſliamo figurarci, che la poteſtà fa niliare de’Romani foſſe ſtata in qualche ma niera ſubordinata alla poteſtà pubblica; pero E 3 chè 9 come / E ché ſono troppo chiare le teſtimonianze de gli Storici, come abbiam veduto, dalle quali Siamo a ſacurati, che l'Impero Paterno de' Romani in que' tempi avea carattere di po teſtà aſſoluta; ed indipendente; e quando al tro mancaffe il dritto vite e necis, e di vendere i propri figli ci dimoſtra chiaramen te, che non potea eſſere un dritto ſubordina to; poichè i dritti ſubordinati, e dipendenti riconoſcono neceffariamente certi confini, ol tre de' quali non lice di eſercitarli; ma qualo ra ſi tratta di dritto ſulla vita, ch' ċ l'ulti mo termine di ogni poteſtà aſſoluta ſi poſſa uſare ſulle perſone, ceſsa ogni ſoſpetto di ſubordinazione; ed oltracciò colle chiare teſtimonianze degli Storici ſiamo convinti, che l'impero paterno di fatto è esercitato da’Romani senza la minima dipendenza del la poteſtà pubblica. Dunque non abbiam cam po da fuggire da quel dilemma, cioè, che o fi dee ammettere per punto di Storia certa, che quei Padri di famiglia eſercitavano poteſtà fuprema in caſa, e non poſſiamo fingere poteſtà Monarchica Civile; o fe vogliamo nega negare tal poteſtà familiare ai Padri di fami glia, allora ci ſi chiude affatto la ſtrada di fapere la Storia Civile di Roma; perchè fe voglianio mettere in dubbio i punti di Storia confermatici concordemente da tutti gli Scrittori, non ſiamo più in grado di dar fe de a tutto il reſto. Grice: “Unfortunately, Duni, being the elitist he is, spends more time on the monarchy than the republic, and focuses on the concept of ‘citizen.’Ricerca Imperativo categorico concetto della filosofia kantiana L'imperativo categorico è il principio centrale nella filosofia morale di Kant, così come dell'etica deontologica moderna, altrimenti chiamata legge morale.   Immanuel Kant Introdotto nella Fondazione della metafisica dei costumi, potrebbe essere definito come lo standard della razionalità da cui tutte le esigenze morali derivano. Secondo Kant, gl’esseri umani occupano uno speciale posto nella creazione, nella quale la moralità può essere definita come somma ultima dei comandamenti della ragione, o imperativi, da cui ciascun uomo deriva tutte le altre obbligazioni e i doveri. Egli definì un imperativo come una proposizione che dichiara una certa azione (o anche un'omissione) essere necessaria. Mentre la massima è un principiosoggettivo, l'imperativo categorico è invece un principio oggettivo; l'intenzione è poi il fondamento intrinseco della massima. L'etica di Kant si riferisce a massime e ciò a cui attribuisce grande importanza è l'intenzione.  Un imperativo ipotetico costringe all'azione in determinate circostanze: se io desidero dissetarmi devo assolutamente bere qualcosa.  Un imperativo categorico, d'altro canto, denota un'assoluta e incondizionata richiesta: un "devi" incondizionato, che dichiara la sua autorità in qualsiasi circostanza, entrambi necessari e giustificati come un fine in sé stesso. È meglio nota nella sua prima formulazione:  "agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale"ma esistono altre due formulazioni dello stesso imperativo categorico:  "agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo." e  "La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata auto-legislatrice e solo a questo patto sottostà alla legge."[3] Kant espresse estrema insoddisfazione per la cosiddetta filosofia popolare dei suoi tempi, credendo che non avesse potuto mai superare il livello degli imperativi ipotetici: una persona utilitarista direbbe che l'omicidio è sbagliato perché non massimizza il bene per il maggior numero di persone, ma questo è irrilevante per coloro i quali sono interessati solo nel massimizzare risultati positivi solo per sé stessi. Conseguentemente Kant argomentò che i sistemi di morale ipotetici non possono convincere all'azione morale o essere visti come base per giudizi morali verso altri, perché gli imperativi sui quali si basano si rifanno troppo pesantemente a considerazioni soggettive. Egli presentò un sistema di morale deontologica basata sulle richieste degli imperativi categorici come alternativa.  Natura del concetto. Dal punto di vista di Kant un atto morale è un atto che sarebbe giusto per qualsiasi tipo di persona, in circostanze simili a quelle nelle quali un agente si trova nel momento di eseguirlo. La facoltà che ci permette di prendere decisioni morali è chiamata ragion pratica pura, che è in contrasto con la ragion pura (la capacità di conoscere) e la semplice ragion pratica (che ci permette di interagire con il mondo dell'esperienza).  La guida alle azioni determinate dall'imperativo ipotetico ha un uso strumentale: ci dice cosa sia meglio raggiungere per i nostri obiettivi. Non ci dice, in ogni caso, niente circa i fini che dovremmo scegliere. Kant, viceversa, considera il giusto essere antecedente al buono come importanza assoluta; infatti sostiene che il buono raggiunto ha una irrilevanza morale.  La giusta moralità non può essere determinata con riferimento a niente di empirico o sensuale; si può determinare solo a priori, con ragion pratica pura. La ragione, separata dall'esperienza empirica, può determinare il principio secondo il quale tutti gli obiettivi possono essere determinati come morali. È questo principio fondamentale della ragione morale che è conosciuto come imperativo categorico.  La ragion pratica pura, nel determinarlo, determina cosa sarebbe necessario intraprendere senza riferimenti ai fattori contingenti empirici. Questo è il senso in cui la meta etica di Kant è oggettivista piuttosto che soggettivista. Le questioni morali sono determinate indipendentemente dal riferimento al particolare soggetto che viene loro posto.  È per il suo essere determinata dalla ragion pratica pura, piuttosto che dal particolare empirico o dai fattori sensoriali, che la moralità è universalmente valida. Questa morale universale è considerata come un aspetto distintivo della filosofia morale kantiana e ha avuto un grosso impatto sociale sui concetti politicie legali dei diritti umani e dell'uguaglianza sociale.  Libertà ed autonomiaModifica Kant vide l'individuo umano come un essere razionale autocosciente con una scelta di libertà impura. La facoltà di desiderare in base a concetti, nella misura in cui il motivo determinante della sua azione va individuato in lei stessa e non in un oggetto, si chiama facoltà di fare o di non fare a piacimento. In quanto legata alla coscienza della capacità della sua azione in vista della produzione dell'oggetto, essa si chiama arbitrio, mentre se è priva di questo legame, il suo atto si chiama aspirazione. La facoltà di desiderare, il cui motivo determinante interno, quindi anche il gradimento, è da cercare nella ragione del soggetto, si chiama volontà. La volontà è quindi la facoltà di desiderare considerata non tanto (come l'arbitrio) in rapporto all'azione, quanto piuttosto in rapporto al motivo determinante dell'arbitrio in vista dell'azione. Inoltre non ha di per sé in verità alcun motivo determinante, ma, in quanto può determinare l'arbitrio, la volontà è piuttosto la ragione pratica stessa. Nell'ambito della volontà può rientrare l'arbitrio, ma anche la semplice aspirazione, in quanto la ragione può determinare la facoltà di desiderare in generale. L'arbitrio che può essere determinato dalla ragione pura, si chiama libero arbitrio. Quello che si lascia determinare soltanto dall'inclinazione (impulso sensibile, stimulus), sarebbe arbitrio animale (arbitrium brutum). Al contrario l'arbitrio umano è tale da venire sì sollecitato dall'impulso, ma non determinato, e non è dunque puro di per sé (prima di acquisire la prerogativa della ragione), ma può essere determinato ad agire dalla volontà pura.  Immanuel Kant,  Die Metaphysik der Sitten, Metafisica dei costumi, tr. it. cur. di Petrone, Milano, Bompiani)   Per poter considerare una volontà "libera", dobbiamo intenderla capace di influenzare il potere causale senza essere essa stessa causata a fare ciò. Ma l'idea dell'essere di un libero arbitrio "senza legge", vale a dire un volere che agisce senza alcuna struttura causale, è incomprensibile. Dunque, un libero arbitrio dovrebbe agire sotto leggi che esso dà a sé stesso. Sebbene Kant ammise che non vi potesse essere alcun esempio concepibile di esempio di libero arbitrio, perché un qualunque esempio ci mostrerebbe solo come una volontà come ci appare — come soggetto alle leggi naturali — in ogni caso argomentò contro il determinismo. Propose che il determinismo fosse inconsistente dal punto di vista logico: il determinista afferma che A ha causato B, e B ha causato C, che A è la vera causa di C.  Applicato al caso della volontà umana, un determinista potrebbe discettare sul fatto che la volontà non ha un potere causale perché qualcos'altro ha causato la volontà di agire come ha fatto. Ma tale argomentazione semplicemente assume cosa si era prefigurato di dimostrare; che la volontà umana non è parte della catena causale.  In secondo luogo Kant sottolinea che il libero arbitrio è intrinsecamente inconoscibile. Poiché dunque anche una persona libera non potrebbe avere la conoscenza della propria libertà, non possiamo usare le nostre sconfitte per trovare una prova del fatto che la libertà esiste o l'assenza di essa. Il mondo osservabile non potrebbe mai contenere un esempio di libertà perché non mostrerebbe mai una 'volontà' come appare a "se stessa", ma solo una 'volontà' che è soggetta alle leggi naturali imposte su di essa. Ma alla nostra coscienza appariamo come liberi: dunque trasse le conclusioni che per l'idea della libertà trascendentale questa sarebbe, libertà come presupposto della domanda "cosa sarebbe necessario che io faccia?".  Questo è ciò che ci dà base sufficiente per definire la responsabilità morale: il razionale e il potere dell'auto-realizzazione dell'individuo, che egli chiama "autonomia morale": «la proprietà che la volontà ha di essere una legge per essa stessa».  Buona volontà, dovere e l'imperativo categoricoModifica Dacché considerazioni dei dettagli fisici dell'azione sono necessariamente legati alle preferenze soggettive di una persona, e potrebbero essere attivate senza l'azione del volere razionale, Kant concluse che le conseguenze che ci si attendeva di un atto sono esse stesse neutrali moralmente, e quindi irrilevanti alle delibere morali. L'unica base oggettiva per un valore morale dovrebbe essere la razionalità della buona volontà, espressa in riconoscimento del dovere morale.  Il dovere è la necessità di agire in rispetto della legge dettata dall'imperativo categorico. Poiché il suo valore morale non scaturisce dalle conseguenze di un atto, la sorgente della sua moralità dovrebbe essere semmai la massima sotto la quale l'atto è eseguito, senza rispettare tutti gli aspetti o le facoltà del desiderio. Un atto può dunque avere un contenuto morale se, e solo se, è eseguito con riguardo verso il senso di dovere morale; non è sufficiente che l'atto sia consistente con il dovere, deve essere intrapreso in nome dell'adempimento del dovere.  NoteModifica ^ Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, Torino, UTET, Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET, Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, traduzione di Pietro Chiodi, UTET, Orlando L. Carpi, Il problema del rapporto fra virtù e felicità nella filosofia morale di Immanuel Kant, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, Etica Imperativo ipotetico  Imperativo categorico, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Imperativo categorico, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Portale Filosofia: accedi alle voci di Filosofia. Critica della ragion pratica testo filosofico di Immanuel Kant  Imperativo ipotetico termine  Fondazione della metafisica dei costume. Emanuele Duni. Duni. Keywords: costume, o sia sistema di dritto [sic] universale,  diritto universale – diritto filosofico -- Vico, filologia, Roma, universalita – Cicerone e buono. Cicerone e onesto – Cicerone dice la verita, il diritto romano universalisabile --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Duni” – The Swimming-Pool Library. Duni.

 

Grice e Duso: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale di Romolo e compagnia – scuola di Treviso – filosofia trevisese – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo trevisese. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “While Duso is right that Hegel makes constitution and freedom analytically connected, the Romans didn’t! -- Grice: “My favourite Duso is his study of Hegel on freedom and the constitution – but Duso, who could have drawn from ‘diritto romano’ doesn’t!” Studioso dei concetti della politica moderna e riconosciuto per i suoi interventi su Althusius e sul giusnaturalismo. Studia a Padova. Si laurea con “Hegel interprete di Platone” (cf. “L’influenza di Hegel su Platone”). Assistente di Storia della filosofia e Professore di Storia della logica. Insegna a Padova. Dirige un Gruppo di ricerca sui concetti politici. È stato membro della redazione delle riviste "Il Centauro" e Laboratorio politico. Membro della Direzione della rivista "Filosofia politica", membro fondatore dell'associazione "Centro di ricerca sul lessico politico europeo", insieme a Roberto Esposito, Alessandro Biral, Adone Brandalise, Nicola Matteucci e altri. Fonda con alcuni colleghi il Centro Inter-Universitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo (CIRLPGE), con sede presso l'Istituto suor Orsola Benincasa a Napoli, di cui è Direttore. Ha tenuto corsi di Storia della Filosofia politica, di Filosofia politica e di Analisi dei Linguaggi e dei Concetti Politici a Padova. In occasione della sua ultima lezione "ufficiale", gli allievi del gruppo di ricerca padovano sui concetti politici hanno edito in suo onore il volume "Concordia discors”.  Il 27 maggio  l'Universidad Nacional de San Martín gli conferisce la laurea honoris causa per il suo lavoro accademico in quanto "costituisce un fondamento teorico indispensabile per comprendere l'attualità" -- è tra i principali fautori italiani di una riflessione sui concetti del politico, che si inserisce nel solco della Begriffsgeschichte tedesca di Brunner, Conze, Koselleck. Nei confronti di quest'ultima il gruppo padovano coordinato da D. ha elaborato una originale linea di ricerca caratterizzata in modo duplice dalla filosofia: in primo luogo in quanto i concetti che si affermano e si diffondono con la Rivoluzione francese sono esamila loro genesi, che avviene nell'ambito delle dottrine del ‘contratto’sociale e dei sistemi di ‘diritto’ naturale; ma soprattutto perché filosofico è il movimento di pensiero di chi pratica una storia concettuale consistente nell'interrogare e mettere in questione (nel senso dell'elenchos socratico) il concetto (‘diritto’, ‘ius’, ‘uguaglianza’, ‘libertà’ ‘potere’ ‘democrazia’) che sono in genere ritenuti ovvii sia nel dibattito intellettuale, sia nella lotta politica. La storia concettuale consiste in questo modo nel comprendere la genesi, la logica e le aporie dei fondamentali concetti politici. "Storia dei concetti" (Begriffsgeschichte) compare per la prima volta nelle “Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte” diHegel. Stanti le caratteristiche di quel testo, non si sa se ‘Begriffsgeschichte’ sia di conio hegeliano, o non piuttosto frutto di interpolazione. Esso allude ad una delle tre modalità storiografiche discusse da Hegel, ed in particolare alla "storia interpretativa" (“reflektierte Geschichte”), che indirizza la storia generale o storia del mondo o storia universale (“Weltgeschichte”) alla filosofia, da un punto di vista universale. Quest'uso della “Begriffsgeschichte” resta senza seguito. La tradizione storico-concettuale evolve invece, tra il XVIII secolo ed il XIX, nell'alveo della lessicografia filosofica.   Nella riflessione di Duso, la filosofia politica da una parte coincide con il lavoro critico della storia concettuale, e dall'altra tende, sulla base delle aporie emerse, a trovare linee di orientamento per un nuovo pensiero della politica. In tal modo viene messa in questione la modalità generalmente accettata di pensare la politica, che ha la sua radice nello sviluppo teorico che va dalla nascita della sovranità sulla base del concetto di ‘libertà’ ai concetti fondamentali delle nostre costituzioni democratiche, in particolare ‘sovranità del popolo’ e ‘rappresentanza politica’. Il lavoro critico sul concetto ha perciò una sua ricaduta nella messa in questione del dispositivo formale sia della ‘democrazia rappresentativa’ che della ‘democrazia diretta’, e nel tentativo di pensare la politica mediante nuove categorie.  Altre opere: “Hegel e Platone, Padova; Contraddizione e dialettica nella formazione in Fichte, Argalìa, Urbino; Weber: razionalità e politica Arsenale, Venezia; La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt Arsenale, Venezia; Il contratto nella politica (Il Mulino, Bologna); Filosofia politica e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss e Hannah Arendt” (FrancoAngeli, Milano); “Il potere. Per la storia della filosofia politica modernaCarocci, Roma (disponibile su cirlpge); “La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica” (Laterza, Roma-Bari (Polimetrica, Monza  (disponibile su cirlpge); “La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel (ed. con G. Rametta), Milano, FrancoAngeli); “La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, Franco Angeli Milano, cirlpge)(Duncker & Humblot, Berlin, 2006 (disponibile su cirlpge); “Oltre la democrazia. Un itinerario attraverso i classici” (Carocci, Roma); Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell'Europa (ed. con S. Chignola), FrancoAngeli, Milano, Polimetrica, Monza;  Ripensare la costituzione. La questione della pluralità, (ed. con M. Bertolissi e Antonino Scalone), Polimetrica, Monza, (disponibile su cirlpge) Storia dei concetti e filosofia politica, (con Sandro Chignola), FrancoAngeli, Milano; Come pensare il federalismo? Nuove categorie e trasformazioni costituzionali (ed. con A. Scalone), Polimetrica, Monza  (disponibile su cirlpge). Santander, Il concetto di ‘libertà’ e costituzione repubblicana nella filosofia politica di Kant, Polimetrica, Monza,  (disponibile su cirlpge) Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», (centropgm.unifi) Libertà e costituzione in Hegel” (FrancoAngeli, Milano,  Parti o partiti? Sul partito politico nella democrazia rappresentativa, in «Filosofia politica» cirlpge); “Buon governo e agire politico dei governati: un nuovo modo di pensare la democrazia? (A proposito di Rosanvallon, Le bon gouvernement), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», centropgm.unifi.  libri scaricabili gratuitamente in formato dal sito del Centro Interuniversitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo. Nello stesso sito sono disponibili inoltre altri saggi dello stesso autore.  Carl Schmitt Georg Wilhelm Friedrich Hegel Johann Gottlieb Fichte Roberto Esposito Alessandro Biral Adone Brandalise Gianfranco Miglio. CIRLPGE: Sito Ufficiale.  Wikipedia Ricerca Romolo primo leggendario Re di Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Romolo (disambigua). Romolo Brogi, Carlo - n. 8226 - Certosa di Pavia - Medaglione sullo zoccolo della facciata.jpg Romolo e suo fratello Remo da un fregio del XV secolo, Certosa di Pavia. 1° Re di Roma In carica753 a.C.[1] - 717 a.C.[2] Predecessorecarica creata  SuccessoreNuma Pompilio[3][4] NascitaAlba Longa, 24 marzo del 771 a.C. MorteRoma, il 5[5] o il 7 luglio del 716 a.C.[2] Casa realedi Alba Longa DinastiaRe latino-sabini Padre Marte MadreRea Silvia ConsorteErsilia[8] Figli Prima e Avilio Romolo (in latino: Romulus, in greco antico: Ῥωμύλος, Rōmýlos; Alba Longa, 24 marzo 771 a.C.[1] – Roma, 5[5] o 7 luglio 716 a.C.[2]), gemello di Remo, è il nome della figura leggendaria a cui la tradizione annalisticaattribuiva la fondazione di Roma e delle sue principali istituzioni politiche, nonché il ruolo di primo re della città e l'origine del toponimo. La sua storicità è oggetto di dibattito da parte degli studiosi dall'inizio del XIX secolo, così come l'inizio della tradizione letteraria sulla sua figura.  Di origini latine-Sabine, figlio - a seguito di un rapporto estorto con la forza - del dio Marte e di Rea Silvia,[7]figlia di Numitore, re di Alba Longa,[1] secondo la tradizione fondò Roma tracciandone il confine sacro,[7] il pomerio, il 21 aprile 753 a.C..[10] In tale occasione uccise il fratello gemello Remo, reo di aver varcato in armi il sacro confine [10]: tale fratricidio è stato sovente evocato come segno violento della necessaria unicità del potere regale. Una volta costruita la città sul colle Palatino, egli invitò criminali, schiavi fuggiti, esiliati e altri reietti a unirsi a lui con la promessa del diritto d'asilo. Così facendo Romolo popolò cinque dei sette colli di Roma, rapendo poi le donne ai vicini Sabini della città di Cures, così da dare delle mogli ai suoi uomini. Ciò provocò una guerra tra i due popoli, che alla fine si risolse con una pace con i Sabini che poterono insediarsi sul vicino colle del Quirinale con il loro re, Tito Tazio, che condivise con Romolo il potere per cinque anni. Romolo divise il popolo tra coloro che potevano combattere e coloro che non potevano farlo. Scelse 100 tra i più nobili cittadini per formare il Senato, tanto che i loro discendenti andranno a costituire l'élite nobiliare della Repubblica. Romolo istituì anche i comizi curiati, a cui spettava il compito di ratificare, tra le altre cose, le leggi. Romolo condusse, quindi, diverse guerre di conquista. A lui risale la divisione della popolazione patrizia nelle 3 tribù di Tities, Ramnes e Luceres - a loro volta suddivise in dieci curie ciascuna - le quali dovevano in caso di pericolo fornire all'esercito romano un contingente militare costituito da cento fanti e dieci cavalieri, per un totale complessivo di 3 000 fanti e 300 cavalieri. Dopo aver regnato per poco più di 37 anni, Romolo, secondo la leggenda, fu rapito in cielo durante una tempesta. Secondo i suoi stessi desideri, una volta morto fu divinizzato nella figura di Quirino, dio sabino venerato sul Quirinale. Leggenda Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Romolo e Remo. Origini familiariModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Enea, Alba Longa, Rea Silvia e Marte (divinità). Secondo la leggenda Romolo e Remo erano figli di Marte e di Rea Silvia, sacerdotessa vestale figlia del re di Alba Longa, Numitore, diretto discendente di Enea.[4] Romolo era quindi per parte materna di stirpe reale albana. Plutarco racconta che un certo Lucio Taruzio, matematico, astrologo ed amico di Marco Terenzio Varrone (l'autore del De lingua Latina), aveva calcolato il giorno esatto in cui i due gemelli furono concepiti (24 giugno del 772 a.C.) e nacquero (24 marzo del 771 a.C.).[1][16]  Dopo la fuga da Troia, Enea giunge nel Lazio e viene accolto dal re Latino, che gli fa conoscere sua figlia Lavinia. Enea se ne innamora, ma la fanciulla era già promessa a Turno, re dei Rutuli.[4] Il padre di Lavinia ascolta le intenzioni di Enea ma temendo una vendetta da parte di Turno si oppone ai suoi desideri. La disputa per la mano della fanciulla diventa una guerra, a cui partecipano le varie popolazioni italiche, compresi Etruschi e Volsci; Enea si allea con le popolazioni di origine greca stanziate nella città di Pallante sul Palatino, regno dell'arcade Evandro e di suo figlio Pallante. La guerra è molto sanguinosa (subito muore Pallante ucciso da Turno), e per evitare ulteriori vittime si decide che la sfida fra Enea e Turno dovrà risolversi in un combattimento tra i due "comandanti" e pretendenti. Enea ha il sopravvento, sposa Lavinia e fonda la città di Lavinium (l'odierna Pratica di Mare).[4]Ben diversa la versione di Livio nei capitoli 1 e 2 del I libro della sua "Ab Urbe Condita" (il titolo è traducibile dal latino con "dalla Fondazione di Roma"). I Troiani nel loro peregrinare arrivano nell'agro Laurente e dopo uno scontro Enea addiviene a un patto d'alleanza con il re Latino e ne sposa la figlia, Lavinia, e fonda la città di Lavinio dal nome della moglie. Dal loro matrimonio nasce Ascanio.[4] Turno, re dei Rutuli, a cui era stata promessa in sposa Lavinia, dichiara guerra ai Latini, come si chiamano le genti del luogo dopo il patto. I Latini hanno la meglio ma Enea muore combattendo.  Infanzia ed adolescenzaModifica  Romolo e Remo allattati dalla Lupa dipinto di Rubens, ca.1616, Roma, Musei capitolini  La lupa, Romolo e Remo, nella monetazione romana del II secolo a.C.. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lupercale. Dopo trent'anni, Ascanio (detto anche Iulo) fonda una nuova città, Alba Longa,[18] sulla quale regnano i suoi discendenti. Molto tempo dopo il figlio e legittimo erede del re Proca di Alba Longa, Numitore, viene spodestato dal fratello Amulio,[18] che ne costringe la figlia Rea Silvia a diventare vestale e a fare quindi voto di castità.[4][19] Tuttavia il dio Marte s'invaghisce della fanciulla e la rende madre di due gemelli, Romolo e Remo.[20] Il re Amulio ordina l'uccisione dei gemelli, ma il servo incaricato di eseguire l'assassinio non ne trova il coraggio e li abbandona alla corrente del fiume Tevere. La cesta nella quale i gemelli sono stati adagiati si arena sulla riva, presso la palude del Velabro tra Palatino e Campidoglio in un luogo chiamato Cermalus,[22] dove si trovava il fico ruminale.[6] Qui i due vengono trovati e allevati da una lupa (probabilmente una prostituta, all'epoca chiamata anche lupa, di cui si ritrova oggi traccia nella parola lupanare) e da un picchio (animale sacro per i Latini) che li protegge, entrambi animali sacri ad Ares.[23] Li trova poi il pastore Faustolo (porcaro di Amulio) che insieme alla moglie Acca Larenzia li cresce come suoi figli. Una volta divenuti adulti e conosciuta la propria origine, Romolo e Remo fanno ritorno ad Alba Longa, uccidono Amulio e rimettono sul trono il nonno Numitore. Fondazione di RomaModifica  Roma attorno all'anno della sua fondazione, nel 753 a.C. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Fondazione di Roma, Roma quadrata, Roma antica e Septimontium. Romolo e Remo, non volendo abitare ad Alba Longa senza potervi regnare almeno fino a quando fosse stato in vita il nonno materno, ottengono il permesso di andare a fondare una nuova città, nel luogo dove erano cresciuti. Romolo vuole chiamarla Roma ed edificarla sul Palatino, mentre Remo la vuole battezzare Remoria e fondarla sull'Aventino. È lo stesso Livio che riferisce le due più accreditate versioni dei fatti:  «Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli auspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo.[27] Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato,[28] i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium , il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura.» In questo modo Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore.»  (Livio, cit., I, 7 , Garzanti 1990, trad. di G. Reverdito) Regno (753 - 716 a.C.)Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Rex (Roma antica) e Lex regia. Plutarco narra che una volta seppellito il fratello Remo, morto nello scontro che precedette la fondazione della città, Romolo fece venire dall'Etruria esperti di leggi e testi sacri che gli spiegassero ogni aspetto del rituale da attuare. Fu scavata una fossa circolare attorno al Comizio e deposte offerte votive per ottenere il favore degli Dei. Romolo però aveva bisogno di più abitanti per popolare la nuova città, e così accolse pastori latini ed etruschi, alcuni anche d'oltre mare, Frigi affluiti sotto la guida del suo avo Enea, oltre ad Arcadi arrivati sotto quella di Evandro. Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì. (Strabone, Geografia) Ogni abitante portò una piccola zolla di terreno e la gettò, mischiata alle altre, nella fossa chiamata mundus, che costituiva proprio il centro della città. Fu poi tracciato il solco primigenius tutto intorno alla città, i cui confini ne rappresentavano il pomerium, racchiuso all'interno delle mura "sacre. Quindi Romolo chiese al popolo quale forma di governo volesse per la città appena fondata, e questo rispose che avrebbe accettato Romolo come proprio re. Ma Romolo accettò la nomina solo dopo aver preso gli auspici favorevoli del volere degli dei, che si manifestò con un lampo che balenò da sinistra verso destra. Dal ratto delle Sabine alle guerre di conquista nel Latium vetus Lo stesso argomento in dettaglio: Storia delle campagne dell'esercito romano in età regia e Latium vetus. Romolo, divenuto unico re di Roma, decise per prima cosa di fortificare la nuova città, offrendo sacrifici agli dèi secondo il rito albano e dei Greci in onore di Ercole, così com'erano stati istituiti da Evandro; successivamente dotò la città del suo primo sistema di leggi e si circondò di 12 littori. Con il tempo Roma andò ingrandendosi, tanto da apparire secondo Livio "così potente da poter rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni". Erano le donne che scarseggiavano.Questa grandezza era destinata a durare una sola generazione se i Romani non avessero trovato sufficienti mogli con cui procreare nuovi figli per la città, nonostante Romolo avesse proibito di esporre tutti i figli maschi e la prima tra le figlie, tranne che fossero nati con delle malformazioni. Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza con questi popoli e favorire l'unione di nuovi matrimoni. All'ambasceria non fu dato ascolto da parte di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo, dall'altra temevano per loro stessi e per i loro successori, ché in mezzo a loro potesse crescere un simile potere.»  (Livio, Ab Urbe condita libri)  L'intercessione delle Sabine, olio su tela di Jacques-Louis David, 1795-1798, Parigi, Musée du Louvre. La gioventù romana non la prese di buon grado, tanto che la soluzione che andò prospettandosi fu quella di usare la forza. Romolo, infatti, decise di dissimulare il proprio risentimento e di allestire dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre, che chiama Consualia (secondo Floro erano dei ludi equestri) e che si celebravano ancora al tempo di Strabone.[4] Quindi ordinò ai suoi di invitare allo spettacolo i popoli vicini: dai Ceninensi, agli Antemnati, Crustumini e Sabini, questi ultimi stanziati sul vicino colle Quirinale. L'obiettivo era quello di compiere un gigantesco rapimento delle loro donne proprio nel mezzo dello spettacolo. Arrivò moltissima gente, con figli e consorti, anche per il desiderio di vedere la città nuova. Quando arrivò il momento stabilito dello spettacolo e tutti erano concentrati sui giochi, come stabilito, scoppiò un tumulto ed i giovani romani si misero a correre per rapire le ragazze. Molte cadevano nelle mani del primo che incontravano. Quelle più belle erano destinate ai senatori più importanti. Livio, Ab Urbe condita libri) Terminato lo spettacolo i genitori delle fanciulle scapparono, accusando i Romani di aver violato il patto di ospitalità. Romolo riuscì a placare gli animi delle fanciulle e, con l'andare del tempo, sembra che l'ira delle ragazze andò affievolendosi grazie alle attenzioni ed alla passione con cui i Romani le trattarono nei giorni successivi. Anche Romolo trovò moglie tra queste fanciulle, il cui nome era Ersilia. Da lei il fondatore della città, ebbe una figlia, di nome Prima ed un figlio, di nome Avilio.Tutto ciò diede origine ad una serie di guerre successive. Dei popoli che avevano subito l'affronto furono i soli Ceninensi ad invadere i territori romani, ma furono battuti dalle schiere ordinate dei Romani. Il comandante nemico, un certo Acrone fu ucciso in duello dallo stesso Romolo, che ne spogliò il cadavere e offrì gli spolia opima a Giove Feretrio, fondando sul Campidoglio il primo tempio romano. Eliminato il comandante nemico, Romolo si diresse contro la loro città che cadde al primo assalto, trasferendone, poi, la cittadinanza a Roma e conferendole pari diritti a quelli dei Romani. Gli stessi Fasti trionfali celebrano per l'anno 752/751 a.C.: «Romolo, figlio di Marte, re, trionfò sul popolo dei Ceninensi, calende di marzo. (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di RomaFasti Triumphales : Roman Triumphs.) Tale evento era, invece, avvenuto secondo Plutarco, basandosi su quanto raccontato a sua volta da Fabio Pittore, solo tre mesi dopo la fondazione di Roma (nel luglio del 753 a.C.). Dopo la vittoria sui Ceninensi fu la volta degli Antemnati. La loro città fu presa d'assalto ed occupata, portando Romolo a celebrare una seconda ovatio. Ancora i Fasti trionfali ricordano sempre per l'anno 752/751 a.C.: Romolo, figlio di Marte, re, trionfò per la seconda volta sugli abitanti di Antemnae(Antemnates).»  (Fasti trionfali, 2 anni dalla fondazione di RomaFasti Triumphales : Roman Triumphs.) Rimaneva solo la città dei Crustumini, la cui resistenza durò ancora meno dei loro alleati. Portate a termine le operazioni militari, il nuovo re di Roma dispose che venissero inviati nei nuovi territori conquistati alcuni coloni, i quali andarono a popolare soprattutto la città di Crustumerium, che, rispetto alle altre, possedeva terreni più fertili. Contemporaneamente molte persone dei popoli sottomessi, in particolar modo i genitori ed i parenti delle donne rapite, vennero a stabilirsi a Roma. Il Latium vetus con le città elencate in questo capitolo di Caenina, Antemnae, Crustumerium, Medullia, Fidenae e Veio. L'ultimo attacco portato a Roma fu quello dei Sabini del Quirinale, nel corso del quale si racconta della vergine vestale, Tarpeia, figlia del comandante della rocca Spurio Tarpeio, la quale fu corrotta con dell'oro (i bracciali che vedeva rilucere alle braccia dei Sabini) da Tito Tazio e fece entrare nella cittadella fortificata sul Campidoglio un drappello di armati con l'inganno. L'occupazione dei Sabini della rocca, portò i due eserciti a schierarsi ai piedi dei due colli (Palatino e Campidoglio), dove più tardi sarebbe sorto il Foro romano, mentre i capi di entrambi gli schieramenti incitavano i propri soldati alla lotta: Mezio Curzio per i Sabini e Ostio Ostilio per i Romani. Quest'ultimo cadde nel corso della battaglia che poco dopo si scatenò, costringendo le schiere romane a ripiegare presso la vecchia porta del Palatino. Romolo, invocando Giove e promettendo allo stesso in caso di vittoria un tempio a lui dedicato (nel Foro romano), si lanciò nel mezzo della battaglia riuscendo a contrattaccare e ad avere la meglio sulle schiere nemiche. Fu in questo momento che le donne sabine, che erano state rapite in precedenza dai Romani, si lanciarono in mezzo alla battaglia per dividere i contendenti e placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti [i Romani] e dall'altra i padri [i Sabini]. Li pregavano di non commettere un crimine orribile, macchiandosi del sangue di un suocero o di un genero e di evitare di macchiarsi di parricidio verso i figli che avrebbero partorito, figli per gli uni e nipoti per altri. Livio, Ab Urbe condita libri) Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall'altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un Dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli... e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo. Plutarco, Vita di Romolo) Con questo gesto entrambi gli schieramenti si fermarono e decisero di collaborare, stipulando un trattato di pace, varando l'unione tra i due popoli con comunanza di potere e cittadinanza, associando i due regni (quello di Romolo e Tito Tazio), lasciando che la città dove ora era trasferito tutto il potere decisionale continuasse a chiamarsi Roma, anche se tutti i Romani furono chiamati Curiti (in ricordo della patria natia di Tito Tazio, che era Cures) per venire incontro ai Sabini. Contemporaneamente il vicino lago nei pressi dell'attuale Foro romano, fu chiamato in ricordo di quella battaglia e del comandante sabino scampato alla morte (Mezio Curzio), Lacus Curtius, mentre il luogo in cui si conclusero gli accordi tra le due popolazioni, fu chiamato Comitium, che deriva da comire per esprimere l'azione di incontrarsi. Qualche anno dopo Tazio fu ucciso a Lavinium e Romolo, che non reagì al fatto con alcuna azione militare, rimase unico regnante della città.Successivamente Romolo riuscì prima a conquistare Medullia, poi a battere Fidenae installandovi 2.500 coloni, a farsi amici ed alleati i prisci Latini, a battere gli abitanti di Cameria (sedici anni dopo la fondazione) ed infine sconfiggere la potente città etrusca di Veio, sottraendole i territori dei Septem pagi (ad ovest dell'isola Tiberina) e delle Saline, in cambio di una tregua della durata di cento anni. Questa fu l'ultima guerra combattuta da Romolo. Istituzioni Romolo, uccisore di Acrone, porta le sue spoglie al tempio di Giove dipinto d’Ingres. Lo stesso argomento in dettaglio: Lex regia, Senato romano, Gentes originarie, Tribù (storia romana) ed Esercito romano. Al regno di Romolo si attribuiscono i primi ordinamenti romani. Sembra, infatti, che per prima cosa organizzò l'esercito, sulla base della popolazione adatta alle armi. Successivamente istituì un'assemblea, formata da 100 Patres, mentre i loro discendenti furono chiamati patrizi, a cui diede il nome nella sua globalità di Senato (Senatus da senex per la loro anzianità). A lui si attribuisce l'istituzione del diritto di asilo, a quanti erano stati banditi o fuggivano dalle città vicine; la circostanza si può ricollegare all'esigenza di popolare la città. Gli si attribuisce anche il fenomeno del patronato dei patrizi nei confronti dei plebei che gli facevano da garanti e protettori in cambio di favori conosciuto anche con il termine clientela. Livio racconta che in seguito alla pace stipulata con i Sabini di Tazio (con il quale regna in assoluta armonia, fino a quando quest'ultimo non è assassinato a Lavinio cinque anni dopo l'inizio del loro regno congiunto), essendo raddoppiata la popolazione, non solo sibieletti altri 100 Patres tra i Sabini, e raddoppiati gli effettivi dell'esercito (ora composto da 6 000 fanti e 600 cavalieri), ma divise anche l'intero popolo in tre tribù: i Ramnes, i Titiesed i Luceres, a loro volta suddivisi in dieci curie ciascuna, attribuendo ad esse i nomi di trenta donne. Plutarco racconta che i due re, Romolo e Tazio, non tennero un consiglio comune tra loro, ma ognuno deliberava prima separatamente con i propri 100 Patres, e poi si radunavano tutti insieme in uno stesso luogo per deliberare. Plutarco racconta che Romolo, inorgoglitosi dei successi conseguiti contro tutte le popolazioni limitrofe alla città di Roma, con grande arroganza abbandonò la precedente tendenza democratica, per sposare un modello di monarchia assoluta, opprimente ed intollerabile. Egli indossava un mantello purpureo e una toga bordata di porpora, dava udienza su di un trono, attorniato da alcuni giovani, chiamati celeres (una forma di guardia del corpo reale da lui creata), ed era preceduto da alcuni littori, che respingevano la folla con dei bastoni a difesa del rex. In effetti si tratterebbe di un'istituzione già presente nelle città etrusche, dalla quali fu probabilmente ripresa ed introdotta in Roma in epoca storica.  Si racconta, inoltre, che, quando il nonno Numitore morì, a Romolo spettasse il governo della città di Alba Longa, ma egli preferì affidarne l'amministrazione al popolo, attraverso un suo magistrato che eleggeva annualmente, e così insegnò anche ai cittadini più potenti di Roma a desiderare di vivere in una città senza un rex, autonoma. Infatti a Roma, da quando Romolo aveva mutato il suo atteggiamento da democratico a dispotico, i cosiddetti patrizi, pur partecipando alla vita pubblica, portavano solo un "titolo" onorifico ed un prestigio apparente, riunendosi in Senato più per abitudine che per esprimere un parere. Di fatto tutti si limitavano ad obbedire agli ordini di Romolo, avendo un unico privilegio: quello di essere informati per primi sulle decisioni de re, rispetto alla moltitudine. Plutarco aggiunge che Romolo coprì di ridicolo il Senato, distribuendo personalmente ai soldati la terra conquistata in guerra e restituendo gli ostaggi ai Veienti, senza aver preventivamente consultato ed ottenuto l'assenso da parte dei senatori. Prime forme di diritto privato romano Lo stesso argomento in dettaglio: Diritto romano. A Romolo si fa tradizionalmente risalire l'introduzione della proprietà terriera privata a Roma, con l'atto, legato alla fondazione della città, di attribuire ad ogni gens un heredium di terra, che sarebbe poi passato in proprietà agli eredi. Romolo stabilì anche una legge secondo la quale una moglie non potesse lasciare il marito. Al contrario la donna poteva essere ripudiata se tentava di avvelenare i figli, di sostituire le chiavi di casa o in caso di adulterio. Nel caso in cui fosse stata ripudiata per altri motivi, il marito era tenuto a versarle una quota del suo patrimonio e ad offrirne una seconda al tempio di Demetra. Chi ripudiava la propria moglie era, infine, tenuto a sacrificare agli dei Inferi.Curioso che Romolo non stabilì alcuna pena contro i parricidi, ma definì parricidio tutte le forme di omicidio, come se il parricidio fosse un delitto impossibile da compiersi. Festività e riti sacri Lo stesso argomento in dettaglio: Religione romana, Festività romane e Mitologia romana. Sabini e Romani, una volta uniti sotto Tazio e Romolo, parteciparono alle rispettive feste e riti sacri, senza eliminare nessuno di quelli che ciascun popolo aveva fino a quel momento celebrato singolarmente. Al contrario ne istituirono di nuovi, come i Matronalia, i Carmentalia ed i Lupercali.Romolo decise di accogliere i rituali dedicati ad Ercole, unico tra i riti non romani da lui accettati,e sempre a lui (o al suo successore, Numa Pompilio) è inoltre attribuita l'istituzione del culto del fuoco, con la creazione delle vergini sacre a sua custodia, chiamate Vestali.Calendario romuleo Lostesso argomento in dettaglio: Calendario romano. La tradizione afferma che Romolo avrebbe istituito per primo il Calendario romano (un calendario lunare con inizio alla luna piena di marzo, costituito da 10 mesi - 6 mesi di 30 giorni e 4 mesi di 31 giorni, per un totale di 304 giorni; i restanti 61 giorni di inverno non venivano assegnati ad alcun mese). Va altresì segnalato che altri storici come Eutropio, sostengono possa essere stato il suo successore Numa Pompilio. Questo fu un argomento molto dibattuto dagli storici del tempo (da Livio a Dionigi d'Alicarnasso o Plutarco) poiché alcuni di loro affermavano trattarsi di un calendario piuttosto disordinato, dove i mesi variavano da 20 giorni a 35 giorni.  Morte, sepoltura e deificazioneModifica Dopo trentotto anni di regno, secondo la tradizione (all'età di cinquantaquattro anni), Romolo venne assunto in cielo durante una tempesta ed un'eclissi, avvolto da una nube, mentre passava in rassegna l'esercito e parlava alle truppe vicino alla Palus Caprae in Campo Marzio. L'improvvisa scomparsa del loro fondatore fece sì che i Romani lo proclamassero dio (con il nome di Quirino, in onore del quale fu edificato un tempio sul colle, chiamato in seguito Quirinale), figlio di un dio (Marte), re e pater (padre) di Roma. Ancora ai tempi di Plutarco si celebravano molti riti nel giorno della sua scomparsa, avvenuta secondo tradizione il 5 o il 7 luglio del 716 a.C.  Sembra anche che, per dare maggiore credibilità all'accaduto, la tradizione racconta che riapparve al suo vecchio compagno albano Proculo Giulio, il più antico personaggio noto appartenente alla gens Iulia. Stamattina o Quiriti, verso l'alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell'arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane. LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) L'evidente somiglianza delle tradizioni, ha indotto alcuni storici a ritenere che questo racconto abbia ispirato quello relativo alla risurrezione di Gesù. Nella probabile realtà storica, invece, il primo re di Roma sarebbe morto assassinato dai Patres durante una seduta del consiglio regio al Volcanal (ovvero il tempio di Efesto nel Foro romano). Si racconta infatti che, a causa delle continue limitazioni che aveva posto al Senato, organo divenuto più che altro di facciata ad una forma di monarchia sempre più "assoluta", soprattutto dopo la morte di Tito Tazio, caddero sui suoi membri sospetti e calunnie. Il suo corpo sarebbe stato poi simbolicamente smembrato dai senatori, "a causa del suo carattere troppo duro" e le sue parti (divise tra gli stessi membri del Senato) sepolte nelle varie aree componenti il territorio della città.  Dietro la leggenda: la realtà storico-archeologicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Populi albensese Gentes originarie. La reale esistenza di Romolo è stata lungamente discussa, ma secondo lo storico Theodor Mommsen sarebbe comprovata dalla presenza tra le gentes originarie di Roma (di cui parla Livio) della gens Romilia, nota da iscrizioni, che è stata identificata con il clan familiare dei discendenti di Romolo, e che diede anche il proprio nome ad una delle più antiche Tribù territoriali. Se ne ha conferma da una glossa di Festo (la 331 nell'epitome di Paolo Diacono, edita da Lindsay), che riporta appunto l'esistenza di una tribù Romulia. Altri autori ritengono sia una creazione artificiale, fantasiosa quella di Romolo, pur riconoscendo nella stessa figura "leggendaria" la sintesi di elementi topografici, politici e religiosi realmente accaduti, a partire dalla tribù dei Romili oltre alla figura di Remo, identificabile con l'antico centro di Remuria nei pressi della Roma quadrata(sull'Aventino). Secondo il linguista Carlo de Simone, i nomi di Roma e Romolo sarebbero collegati ed entrambi deriverebbero da un termine ricostruito in ruma, al quale la tradizione romana assegnava il significato di "mammella". Il termine sarebbe di origine etrusca, perché non ne è stato trovato l'etimo indo-europeo (e l'unica lingua non-indoeuropea della zona è appunto l'etrusco. Il termine entra come prestito nel latino arcaico e avrebbe dato origine al toponimo Ruma (più tardi Roma) e ad un prenome Rume (in latino divenuto Romus), dal quale sarebbe derivato il gentilizio etrusco Rumelena, divenuto in latino Romilius. Il Villar, invece, sostiene che il nome Romafosse, molto probabilmente, il nome preindoeuropeo del Tevere trasferito alla città che esso bagnava, come accadeva frequentemente a quel tempo. Secondo altre ipotesi (sempre più smentite dalle campagne archeologiche), i più antichi dei re di Roma sarebbero figure principalmente simboliche (in particolare sembrano complementari i primi due, Romolo e Numa Pompilio, che avrebbero introdotto le massime istituzioni politico-militari e religiose dello stato).  La reale esistenza della figura di Romolo come effettivo fondatore, primo legislatore e re-sacerdote, è stata rivalutata dall'archeologo Andrea Carandini, sulla base di moderni scavi condotti alle pendici del Palatino, che avrebbero portato al rinvenimento dell'area corrispondente alla vera Regia di Romolo, nonché dell'antico tracciato del pomerio. Ivi sono stati rinvenuti reperti fittili, resti di una palizzata e di un muro in tufo (derubricato come «muro di Romolo») databili con certezza, circostanza che darebbe conferma anche dell'esattezza cronologica delle fonti storiografiche latine sull'epoca della fondazione di Roma e della consistenza del suo rito di fondazione. Inoltre, sulla base di una fonte letteraria, la scoperta del sito del lapis niger  fu associata all'ipotesi di un possibile sito della tomba di Romolo o di un arcaico luogo di culto a lui dedicato. A possibile conferma di quanto sopra, nella zona sottostante alla scalinata di accesso alla Curia è stato rinvenuto un cenotafio ipogeo databile al VI secolo a.c. dedicato al suo culto, contenente un sarcofago della lunghezza di circa m 1,50, che alcuni studiosi hanno ipotizzato possa essere stata la sua tomba, mentre altri hanno escluso tale possibilità. Va osservato tuttavia che la lunghezza del sarcofago, (corrispondente in modo abbastanza preciso alla statura media degli uomini di quell'epoca) farebbe pensare ad una funzione di inumazione di un corpo integro, non delle sue parti. Antenati Genitori Nonni Bisnonni Dio Giove Dio Saturno Dea Opi Dio Marte Dea Giunone Dio Saturno Dea Opi Romolo Numitore Proca Rea Silvia Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Strabone, Geografia,  Plutarco, Vita di Romolo, Livio, Ab Urbe condita libri, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Livio, Ab Urbe condita libri, Marcone, Livio, Ab Urbe condita libri,  Plutarco, Vita di Romolo, Strabone, Geografia, Livio, Ab Urbe condita libri, Plutarco, Vita di Romolo Livio, Ab Urbe condita libri, Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo. Sia Livio (Ab Urbe condita libri), sia Ovidio (I Fasti) narrano di una migrazione dalla città greca di Argo, guidata da Evandro ^ a b Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Varrone, De lingua latina, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Ab Urbe condita libri, Livio, Ab Urbe condita libri, Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 1.10. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Livio, Ab Urbe condita libri, Plutarco, Vita di Romolo, AE Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Dionigi di Alicarnasso, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Livio, Ab Urbe condita libri, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Livio, Ab Urbe condita libri, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Carandini, Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Plutarco, Vite parallele, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Varrone, De re rustica, Plutarco, Vita di Romolo, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Plutarco, Vita di Romolo, Livio, Plutarco, Vita di Romolo, Dionigi di Alicarnasso, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita. Plutarco, Vita di Romolo. O è ucciso. Appiano di Alessandria, Storia romana (Appiano), Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Floro, Epitoma de Livio bellorum omnium annorum DCC, Plutarco, Vita di Romolo, Livio, Ab Urbe condita libri, Plutarco, Vita di Romolo; Guerri, Antistoria degli italiani, Milano, Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane, Plutarco, Vita di Romolo, Paul. Fest.: Romulia tribus dicta, quod ex eo agro censebantur, quem Romulus ceperat ex Veientibus. Plutarco, Vita di Romolo, Piganiol, Simone. "Considerazioni sul nome di Romolo". In Carandini, Carafa (cur.), "Palatium e Sacra via" I. Bollettino di Archeologia, Gentilizio Rumelna attestato dall'iscrizione sull'architrave della tomba 35 della Necropoli del Crocifisso del Tufo, a Orvieto. Iscrizione: Mi Velthurus Rumelnas. 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Credibility and desirability modalities are not Fregeian senses! ‘may’ is aequi-vocal. In Latin it is more obvious, since there is only ‘possum’ for ‘I may’. ‘Can’ is of course a solecism!” Giuseppe Duso. Bepi Duso. Keywords: Plato-Hegel, Aristotle-Kant – Plathegel, Ariskant – zoon politikon – contratto sociale – democrazia – repubblica – il primo contrattualista cita Aristotele – Contratto nel diritto romano – aporia della rappresentazione – concetto di politica, concetto di soveranita – concetto di potere – io posso – concetto di liberta – la filosofia politica italiana – l’influenza di Fichte nell’idealismo rivoluzionario del risorgimento --. Regime di governo – storia del concetto – aporia del concetto --  Welsh philosopher Geoffrey Russell Grice, modalita, verbo modale, verbo servile, verbo aussiliare, puo, posso, possiamo. Modalita aletica o doxastica (posso passarti la sale) e deontica (puoi ma non puoi – you can but you may not --. Contract, pact, compact. Foundations of morality – contract in ethics, meta-ethics, politics, meta-politics.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Duso: zoon politikon” – The Swimming-Pool Library. Duso.