Luigi Speranza
Nel processo di formazione delle lingue moderne e nazionali dell’Europa, avviene un fatto importante, destinato a decretare la fine del latino o dell’antico germanico e slavo, come lingue vive o parlate, e la nascita delle lingue nazionali al posto del latino, del proto e antico germanico e slavo, stessi.
Tale fenomeno consiste nella frattura tra il popolo che parla come può (perciò possiamo dire: parla in volgare), e la classe dirigente e ecclesiastica che usa il latino in occidente o l’antico slavo ecclesiastico nell’ortodossia orientale.. , per i documenti ufficiali, e la letteratura.
E’ questo il periodo che, a riguardo del processo di trasformazione del latino nelle lingue romanze, va dalla fine dell’Impero Romano o 475 d.C. , a tutto il medioevo :
Il primo dell’Italiano risale all’VIII° secolo
Indovinello Veronese)
Stando così le cose circa i tre gruppi linguistici fondamentali dell’Europa (latino, germanico e slavo…), si può dire che il rimescolamento e la fusione dei popoli a causa delle invasioni barbariche e evoluzioni preesistenti e conseguenti, portò alla nascita di un volgare differente a seconda delle nazioni.
Le lingue neolatine o romanze, si formarono a partire dalla fine del latino come lingua parlata e vedono la preminenza dell’italiano in ambito rinascimentale, del francese nel periodo moderno; le lingue germaniche, si formarono a partire dalla fine del protogermanico come lingua parlata, subirono un assestamento fondamentale a partire dalle conseguenze delle invasioni barbariche (per cui alcune si trasformano da germaniche in lingue romanze : francese dei Franchi e spagnolo dei Goti...) e dell’ascesa del tedesco, a sua volta altra ragione influente sulle altre lingue germaniche; le lingue slave, si formarono a partire dalla fine del protoslavo e dall’ingresso dello slavo ecclesiastico e ascesa preminente del russo.
In questo processo generale di formazione, ciascun gruppo linguistico della triade europea, ha pertanto il suo punto di partenza , sebbene tutti i gruppi siano della famiglia comune delle lingue indoeuropee .
Può dirsi perciò, che tutte queste lingue, nonostante gli innegabili condizionamenti storici di conquistatori e conquistati, sono democratiche, perché sebbene con misura, modalità e tempi diversi, si evolvono ciononostante, recuperando la base della maggioranza orale, popolare-nazionale.
Tuttavia, alcune di queste lingue come l’Italiano , sono per così dire, più democratiche delle altre, perché non sono state mai imposte da leggi, ma solo dalla consuetudine più autorevole. Nel corso di questa evoluzione del volgare, gli Stati spesso sono intervenuti per scegliere come lingua ufficiale un dato dialetto a scapito di altri, ritenuti minoritari o giudicati meno autorevoli.
Ma l’Italiano (l’italiano più del tedesco stesso) come dice Messori sottostante, si afferma mirabilmente senza l’imposizione di nessuna legge, ma solo per naturale autorevolezza letteraria, collettivamente condivisa e ammirata ; d’altronde il tedesco, si è affermato per decisione maggioritaria degli Stati germanici a favore del Sassone aulico scritto, della traduzione biblica di Lutero. Per questo può dirsi a ragione, che la evoluzione linguistica italiana e tedesca, è la più democratica che possa esistere, infatti avviene naturalmente a causa della sola forza della consuetudine o convenzione, e quindi al di fuori di ogni imposizione legale o statale .
E’ perciò una involuzione campanilistica, la recente pretesa della Lega Nord, di recuperare i dialetti in opposizione all’Italiano, anziché recuperarli come una variante interessante e doverosa, del medesimo Italiano .
Infatti per ragioni storiche e capacità linguistiche e letterarie stupefacenti, nessun dialetto della Penisola, per quanto interessante e apprezzabile (per quanto creativo e amabile possa essere), può tuttavia ritenersi a ragione, linguisticamente e culturalmente superiore all’Italiano attuale.
E le ragioni ideologiche o leghiste, su questo punto, non possono prevalere sulla obbiettività storica, in Italia e nemmeno nella Padania-Italia, senza mettere in discussione un aspetto importante della fondamentale identità italiana, cioè l’italiano attuale .
Il guaio dell’età che avanza –parlo per esperienza– è soprattutto la noia. Quella di chi subisce il ciclico ritorno degli stessi dibattiti , degli stessi temi, degli stessi equivoci. E’ naturale: ogni generazione deve ricominciare da capo. Ma, per il povero anziano, è pur sempre tedioso.
Tra i “tormentoni" ricorrenti, ecco di nuovo, in queste settimane, la questione – rinfocolata periodicamente dalla Lega- del rapporto tra lingua nazionale e dialetti locali . Qui, i seguaci di Bossi hanno un grosso, irrisolvibile handicap rispetto a molti movimenti stranieri federalisti o separatisti. In effetti, non vale per l’Italia quanto osservava Ernest Renan: << Una lingua non è che un dialetto che ha trovato uno Stato e un esercito >>. E’ vero per altri grandi idiomi. Il francese imposto da Parigi a occitani, bretoni , normanni, còrsi, alsaziani, lorenesi . Il castigliano imposto da Madrid a catalani, baschi, valenciani, galiziani, aragonesi. L’inglese imposto da Londra a gallesi, scozzesi, irlandesi. Il russo imposto da Mosca a ucraini, bielorussi e altre etnie slave . Il mandarino di Pechino imposto a tutti i cinesi. Due sole, grandi lingue , divenute ufficiali per uno Stato, non sono state imposte a popolazioni in parte riluttanti : il tedesco e l’italiano. Entrambe sono, per dir così , “democratiche“. Per comunicare tra loro, le genti germaniche, prive di unità politica, dopo un lento avvicinamento degli infiniti dialetti, decisero di adottare, almeno per la scrittura, il sassone aulico in cui Lutero tradusse la Bibbia. Quanto all’Italia, anch’essa frammentata, ebbe solo tardivamente uno Stato, ma fu precocemente una “nazione“. A partire dal tardo Quattrocento, chi abitava la Penisola era distinto dagli altri popoli come un “ italiano “. Ma già nel Medio Evo, tra le “nazioni“ riconosciute in Europa - ad esempio, nelle università e nelle corporazioni di mestiere –c’era quella “italiana“. Sta soprattutto nella lingua il motivo di questa identità, malgrado lo spezzettamento politico e le forti differenze di ogni tipo tre le Alpi e lo Ionio.
Ebbene, spesso si dimentica che, se in Italia si parla e si scrive così, ciò è dovuto alla libera scelta degli uomini di governo e, soprattutto, di cultura, di ogni angolo di quello che solo molti secoli dopo sarebbe divenuto uno Stato.
In Italia non ci fu una Capitale dove sedesse un’autorità che imponesse un dialetto locale divenuto lingua ufficiale per le leggi, i tribunali, l’esercito.
Da noi, ancor più che in Germania, l’idioma comune fu una sorta di referendum, fu il frutto di una decisione pragmatica che si impose liberamente: poiché, divenuto sempre più arduo esprimersi in latino, occorreva una koiné italica, i gruppi culturalmente e politicamente dirigenti finirono coll’accordarsi (prima nei fatti, e poi nelle teorie dei dotti) sulla variante di volgare illustrato dalla triade sublime,
-- Dante, De vulgari eloquentia (1302)
-- Petrarca
-- Boccaccio.
Così, fu il dialetto toscano, e in particolare fiorentino, che divenne la lingua franca per gli scambi, la letteratura e poi la cultura in generale.
Lingua “democratica“, dunque, e al contempo “aristocratica“ nel senso che, sino all’unità politica, fu soprattutto scritta da chi sapeva di lettere.
Ci vollero non tanto la scuola obbligatoria quanto prima l’Eiar e poi la Rai, nonché il sonoro nei film, per trasformarlo in un idioma praticato da tutti, o quasi. Sta di fatto che -a differenza di un catalano nei confronti di un castigliano o di un provenzale nei confronti di un parigino o di uno scozzese nei confronti di un londinese – nessuno, di nessuna regione italiana, può accusare uno Stato o un Potere di avergli imposto un idioma che, dalla sua, ha avuto semmai solo la forza della cultura . Firenze nulla fece, se non approfittare del talento dei suoi grandi scrittori. Quanto agli attuali “padani“, pur comprendendo alcune delle loro ragioni, non dimentichino che, tra Ottocento e Novecento, coloro che più fecero per dare una lingua moderna a tutti gli abitanti della penisola, facendoli uscire dai dialetti e dal toscanismo angusto, furono il lombardo Manzoni, il ligure piemontesizzato De Amicis, il saluzzese Pellico, il torinese d’Azeglio, il dalmata Tommaseo, il veneto Fogazzaro, il romagnolo Pascoli, il genovese Mazzini . E che, ancor prima, l’astigiano Alfieri, il subalpino Baretti, i milanesi Verri e Beccaria, molto avevano fatto per radicare la lingua comune. Per tornare all’Ottocento, il parmigiano Verdi, malgrado offerte di francesi, inglesi, tedeschi, rifiutò di musicare libretti che non fossero in italiano; e persino il “federalista“ lombardo Carlo Cattaneo accettò di buon grado la scelta del toscano, in cui scrisse in modo impeccabile, irridendo ai passatismi dialettali. Non irrisione, ma furore, provocavano nel nizzardo Garibaldi coloro che mettevano in discussione l’unità dell’idioma. Morì accanto a lui, all’assedio di Roma, il genovese Mameli, che aveva cantato l’unione di “Fratelli d’Italia“ in tutto, a cominciare dalla lingua. Tutti “padani“ o, almeno, “nordisti“; e tutti contro la babele vernacolare, anche la loro.
“E’ la storia, bellezza!“ , verrebbe da celiare con chi si ostinasse a barricarsi sotto il suo campanile, inveendo contro una lingua che gli sarebbe stata imposta da qualche prepotente forestiero. E’ colpa, o merito, della storia se non esiste non si dice un chimerico “padano“, ma neanche un “lombardo“ (si capiscono, forse, uno di Sondrio e uno di Cremona, uno di Bergamo e uno di Pavia?) e, se altri idiomi di altre regioni italiane, al Centro e al Sud, esistono, ma non sono praticabili come lingue . Ciò non toglie che i dialetti siano una ricchezza: posso dirlo anche perché, se mi è permesso un riferimento personale, mio padre fu tra i più popolari e, credo, dotati, poeti in modenese. Ma è una ricchezza ancor maggiore lo strumento divenuto pian piano comune, in quasi mille anni, ad almeno 60 milioni di persone. Per forza propria, senza bisogno di decreti governativi tutelati dai gendarmi .
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