Sunday, August 28, 2011

Emanuele Filiberto e la Liguria

Luigi Speranza

Dall’alleanza tra Emanuele Filiberto e Andrea D’Oria in avanti, un comune destino politico avvicina la famiglia piemontese alla regione.

La storia unisce i Savoia alla Liguria

La comunanza di interessi si esprimeva nella guerra contro la minaccia islamica che incombeva sull’Europa.

Con l’andare del tempo la casata dei re sabaudi arrivò ad imparentarsi con quella dell’ammiraglio

Alessandro Massobrio

Davvero esiste una insuperabile inimicizia tra genovesi e Savoia, tra gente di mare delle due riviere e discendenti della dinastia che pretende - come si diceva con qualche magniloquenza in un passato ancora prossimo - di aver fatto l'Italia?

A giudicare dall'ultima sortita della

ex famiglia reale nella nostra

città, tra un assordante concerto

per fischietti e pernacchi,

eseguito da una nutrita pattuglia di indipendentisti liguri,

sembrerebbe proprio di sì.



Ma basta appena risalire, di qualche secolo, le rapide del gran fiume della storia, per imbattersi in eventi che invece si presterebbero ad una interpretazione esattamente contraria.

Come, ad esempio, la singolare coincidenza che vide, l'uno accanto all'altro, uniti dalla medesima militanza politica e dalla medesima volontà di far grande la loro patria, il fondatore della potenza territoriale piemontese con il fondatore della potenza navale ligure.

Intendo riferirmi ad Emanuele Filiberto e Andrea D'Oria.

Il vincitore di San Quintino ed il vincitore di Lepanto.

Ci imbattiamo nel primo di questi misteriosi geroglifici scolpiti nella dura scorza del tempo intorno al 12 agosto del 1529. È una calda e già quasi barocca giornata di mezza estate quella che vede la rinascita del Sacro Romano Impero per opera e volontà di Carlo V d'Asburgo.

Sconfitto il suo rivale transalpino, Carlo si appresta ad essere insignito del diadema di imperatore dei romani da papa Clemente VII. Si tratta di una cerimonia sfarzosa quanto cristianamente ortodossa, visto che la potenza umana, per quanto smisurata e vicina a realizzare l'antico sogno dantesco di un solo gregge sotto ad un solo pastore, non sconfina comunque nella autorefenzialità napoleonica. Quella dell'autocrate che calca con le sue stesse mani sul proprio capo la corona che nessuno può pretendere di contendergli. Neppure Dio stesso.

Nel caso dell'incoronazione di Carlo, le cose stanno addirittura agli antipodi. Il grande sovrano, che si è battuto per la difesa del cattolicesimo e che vent'anni più tardi si batterà con eguale vigore per rimarginare con il concilio di Trento la profonda ferita inferta dal protestantesimo all'unità della Chiesa, riconosce nella maestà pontificia e quindi in Cristo stesso, di cui il papa si professa vicario, la fonte di quel potere, che trascende sempre chi lo detiene.

A Bologna, in altri termini, in quel 12 agosto 1529, il Sacro Impero, voluto dal carolingio, primo e piissimo imperatore dei Romani, riacquista senso e autenticità. Si tratta di una strepitosa rivincita della Tradizione sulla modernità laica ed agnostica, che pretende di essere legge e governo a se stessa. Ma in quel 12 agosto 1529, si verifica un altro evento di portata certamente minore, ma capace di esercitare una suggestione forse ancora maggiore. Alla presenza di Carlo d'Asburgo le strade di Emanuele Filiberto e Andrea D'Oria finalmente si incrociano.

I due condottieri, certo, giungono all'appuntamento della storia in momenti molto diversi della vita. Il genovese è un vegliardo che già ha doppiato con le proprie galee i 70anni di età. Genova, sotto la sua mano potente, è uscita dall'età anarchica del dogato annuale. La costituzione aristocratica impostale dal D'Oria non le assicura soltanto una salda amministrazione interna, ma apre ai suoi banchieri la quasi inesauribile fonte dell'oro americano. Che permetterà alla Repubblica - nel corso di un lungo secolo, il siglo de los genoveses, appunto - di fornire ai re di Castiglia il denaro sufficiente per armare i propri tercios, nel corso della più lunga guerra di religione dell'età moderna. Quella che non a caso gli storici chiamano Guerra dei Trent'anni e che vedrà gli Asburgo di oriente ed occidente contrapporsi a luterani, islamici nonché a quei cattolici -come i sudditi del «cristianissimo» re di Francia - che non hanno esitazione, quando la ragion politica lo richiede, ad unire i propri gigli con la mezzaluna di Allah.

Da parte sua, il giovane Emanuele Filiberto, si presenta sul palcoscenico della storia sotto paludamenti quanto mai dimessi. Egli è il nuovo duca di Savoia, discendente diretto di quel Carlo II il Buono, che ha legato al proprio discendente una eredità quanto mai gravosa.

La sovranità, tanto difficilmente conquistata dai predecessori di Emanuele Filiberto, rischia di essere vanificata dall'incessante passaggio di truppe francesi, alle quali il diritto della forza consente di fare delle vallate piemontesi cosa propria.

Emanuele Filiberto è, all'inizio di questa sua esistenza parallela, soltanto un ragazzo quattordicenne. Ma è tanto grande l'amore che nutre per la sua terra, che egli concepisce come la testa di maglio dell'intera nazione italiana, che già dimostra di possedere una chiara visione delle vicende politiche italiane ed europee. Egli porrà dunque il suo braccio al servizio dell'Impero, ma solo nella misura in cui questo impegno militare sarà in grado di consentirgli, in un futuro quanto mai prossimo, di rivendicare la completa indipendenza del Piemonte e dell'Italia intera.

Intanto c'è da sottolineare un nuovo incontro o - per usare le parole dello storico Mauro Navone, cui siano debitori di questa illuminata rilettura degli eventi del nostro comune passato - «una nuova tappa di questa reciproca fascinazione» tra il settantenne creatore della potenza genovese sui mari e questo principe quattordicenne, che muove appena i passi sul palcoscenico della grande politica.

È il 1541 e le forze imperiali sono nuovamente chiamate a raccolta intorno a Carlo. Un nuovo pericolo minaccia la cristianità. O meglio, il pericolo è quello di sempre, anche se questa volta l'ombra della scimitarra islamica si fa tanto lunga da lambire quasi il cuore dell'Europa cristiana. I pirati turco-barbareschi, che hanno fissato la propria base operativa in Algeri, sono tornati a gettare il terrore sulle coste della cristianità.

Un nome soprattutto aspira a divenire lo spauracchio di pacifici mercanti e pescatori. Ed è quello del Barbarossa. Ma il Barbarossa così come i predoni che ne imitano le gesta sono, in fondo, per molti versi paragonabili a quei gabbiani che volano incontro ai naviganti e alla cui vista questi ultimi presumono non lontana la terra alla volta della quale stanno navigando.

In realtà, la terra o meglio quell'autentico continente di navi e galee che si muove alla conquista dell'intero Occidente e la cui deriva verrà arrestata solo dalla vittoria di Lepanto, è così vicina che già - per chi ha vista acuta e mente sgombra - si profila all'orizzonte. Per ora tuttavia i gabbiani, con le loro stridule grida e il battito d'ali scomposto, ne celano la presenza.

Questo non significa comunque che il potere imperiale non intenda correre ai ripari. Carlo tiene corte bandita nel palazzo doriano di Fassolo e puntualmente Emanuele Filiberto, questo quattordicenne dalla dura cervice, che non a caso riceverà poi dai posteri il soprannome di duca Testadiferro, si presenta davanti al suo imperatore. Ancora una volta, non certamente il caso ma la volontà di una storia i cui caratteri sono chiarissimi solo a chi possiede l'umiltà di fermarsi a meditarli vuole che accanto a lui, nelle vesti di ospite e padrone di casa,compaia anche Andrea.

A Fassolo, gravi decisioni vengono prese dall'esercito cristiano. Intanto per far argine all'ondata islamica e venire in qualche modo in aiuto di Venezia, che dal 1499, era impegnata da sola nell'Adriatico a fronteggiare, isola per isola, l'alta marea della mezzaluna, l'imperatore allestisce un esercito il cui obiettivo non è tanto Costantinopoli, la capitale del sultano Selim, quanto Tunisi, la grande città nordafricana, che funge da arnia per le infinite vespe, che periodicamente ronzano, arroventando l'aria della cristianità.

Una nuova crociata, dunque, dopo quella di circa due secoli prima, nella quale Luigi IX, il santo re di Francia, aveva perso la propria vita. Una crociata di difesa e di contenimento, visto e considerato che l'immenso impero ottomano rischia da un momento all'altro di traboccare dai propri confini, investendo l'intero bacino del Mediterraneo. Ma anche in questo caso la tenerissima età di Emanuele Filiberto gioca a suo sfavore. Il duca di Savoia è invitato a crescere, maturare, divenire adulto e responsabile, prima di proporsi per simili imprese.

Ed infatti trascorrono appena pochi anni che questo nuovo Galaad, che sembra uscire dalle pagine di qualche romanzo del ciclo arturiano, è chiamato a mostrare il suo valore. È il 1543 e le forze turche, che si sono alleate in nome di una spregiudicata real politik con quelle del re di Francia Luigi XII, minacciano da vicino Nizza. La città rivierasca, che è lo sbocco al mare della dinastia sabauda, rischia seriamente di essere assediata e saccheggiata. Tardano, infatti, a giungere gli aiuti promessi. Gli assedianti penetrano addirittura all'interno delle mura. I pochi difensori si rifugiano dietro i merli della cittadella e da lì continuano una resistenza che sembra soltanto figlia della pura ostinazione.

Ma così non è. Così non è perché, ancora una volta, la strana alleanza tra un giovinetto quattordicenne ed un vecchio lupo di mare sortisce frutti insperati. Emanuele Filiberto, non appena informato dell'occupazione e del saccheggio di Nizza, con quella rapidità di decisione che distingue i grandi condottieri dai comuni generali, chiede immediato aiuto ad Andrea D'Oria ed aiuto immediato egli ottiene.

La flotta privata del condottiero genovese imbarca un buon contingente di fanteria imperiale, quegli uomini dei tercios bassi e dalle gambe arcuate, ma imbattibili nel corpo a corpo. Una riproposizione dei legionari di Cesare e Mario, razza indistruttibile quanto infaticabile, poco piacevole forse ad essere vista dal punto di vista estetico quanto efficacissima se utilizzata al momento e sul terreno giusto.

Ed Emanuele Filiberto, sotto questo aspetto, sa davvero il fatto suo. Invece di investire direttamente Nizza, offrendosi tra l'altro alle imboscate di cui i turco-francesi hanno disseminato il suo cammino, il giovane principe ritiene opportuno allontanare la minaccia dall'intero Piemonte, lasciando al pugno di indomiti nizzardi che difendono la cittadella, il compito di opporsi ancora agli assalitori.

La contro-offensiva spagnola prende così le mosse dal Ponente ligure, dove ben presto i reggimenti francesi sono costretti a ripiegare, mentre la flotta turca, comandata come sempre dal Barbarossa, ritiene più igienico abbandonare le acque di Marsiglia, per far vela alla volta della rada di Villefranche.

Privati del supporto marittimo, anche «l'invincibile armata» turco - francese diventa vincibilissima. Tanto più che i nizzardi non si sono, nel frattempo, piegati neppure di un grado. La resistenza nella cittadella di Nizza, seppure tra grandissime sofferenze, continua senza cedimenti. E presto tanta resistenza sarà premiata.

Presto, anzi, prestissimo, visto che la lunga guerra tra impero asburgico e regno di Francia sta volgendo al termine. Siamo infatti all'inizio dell'ultima fase delle decennale guerra tra Francia e Spagna per la conquista dell'intera Europa. O meglio, per il trionfo del cattolicesimo e della fede romana sulle forze disgregatrici della modernità. Le forze di quel protestantesimo che non esitano ad allearsi con il nascente nazionalismo francese e con le velleità egemoniche dell'impero ottomano.

È il 1557, il duca Testa di Ferro, a cui Carlo V ha affidato l'intera armata spagnola del nord, sorprende le truppe francesi del connestabile di Montmorency, infliggendo loro una memorabile sconfitta. È la vittoria di un'arma - la fanteria - sino allora disprezzata e sminuita dagli strateghi di scuola feudale, legati ancora al culto del guerriero a cavallo e delle cariche travolgenti, ma è anche il sorgere di un grande astro militare. Di uno stratega dal colpo d'occhio sicuro ed infallibile, che sarebbe stato assunto a proprio modello da un altro grande di casa Savoia. Quel Principe Eugenio, cui sarebbe ancora una volta toccato, un secolo più tardi, volgere in fuga le insegne della mezzaluna dai vicini Balcani.

Poco sarebbe durato il governo del giovane principe. Emanuele Filiberto sarebbe infatti morto a Torino nel 1580. Ma la tacita alleanza con la famiglia D'Oria era destinata a durare nel tempo. Se è vero, come è vero - e le cronache in questo periodo non sono davvero avare di particolari - che Emanuele Filiberto, omonimo del duca Testa di Ferro è figlio di Marina Doria Ricolfi.

CONDOTTIERO Emanuele Filiberto di Savoia



[ Indietro ]

[ Precedente ] [ Successiva ] - Leggi l'intero dibattito su «L'identità ligure»

No comments:

Post a Comment