Sunday, December 11, 2011

"Salve, o casta e pia dimora"

Speranza

Tradurre l’opera? Basta capirsi…

È straordinario quanto sia radicato nella mentalità della cultura d’oggi il mito della “versione originale”.

Si vorrebbe attingere l’opera d’arte direttamente, nel suo aspetto fisico originario, senza mediazioni.

Donde, in musica, l’antipatia di principio per la traduzione e trascrizione.

E il sospetto verso l’interprete, questa figura a cui le estetiche idealistiche non sono mai riuscite a dare personalità giuridica.

È in base a questa mentalità, per esempio, che ci siamo avvezzati a eseguire
Wagner solo in tedesco e così Schubert e Schumann, e la lirica da camera dei russi in russo, senza avvertire che i testi rispettivi, per coloro che non conoscono quelle lingue, non rimangono affatto quelli “originali”, bensì vengono semplicemente soppressi»: così scriveva Fedele D’Amico nel 1960 in difesa delle “traduzioni ritmiche” nell’opera (e non solo).

Una vera e propria battaglia culturale la sua, che porta con sé questioni ancora oggi fondamentali (almeno per chi non si rassegna al triste sistema dell’opera-museo), di cui le polemiche intorno ai sopratitoli nei teatri lirici
sono un evidente surrogato.

D’altra parte, sottolinea sempre D’Amico (nel 1955), «canto non vuol
dir soltanto note, vuol dir parole, ritmo di suoni verbali e di frasi».

Capire (bene) quello che si canta è o dovrebbe essere presupposto di ogni canora interpretazione.

Sicché «la pratica delle traduzioni obbedisce a esigenze molto ragionevoli.

Fra cui quella di fornire agli esecutori la possibilità di un’espressione naturale e immediata, senza la quale non si dà né arte né canto».

Insomma, riprendendo l’articolo del 1960, non bisogna dimenticare «che l’opera d’arte non è un prodotto materiale, di cui si possa fruire come della penicillina, custodendola pura in una provetta e poi iniettandola nei glutei.

È l’apertura di un processo, che si realizza attraverso un’attività sempre
nuova».

Un processo che coinvolge tanto l’interprete quanto il pubblico, che talora deve intendere il testo parola per parola.

«E questo è il caso» - torna ancora alla carica D’Amico nel 1971 - «del
Pierrot lunaire, in cui le parole quasi fronteggiano la musica, con un loro peso semanticamente
autonomo.

Naturalmente ci si obbietta la faccenda dei valori fonici.

Estromettere dal Pierrot il suono della lingua tedesca pare sacrilego.

Eppure Schönberg stesso ne patrocinò una versione
inglese, e basterebbe».

Certo, la «faccenda dei valori fonici», a partire da quelli accentuativi, è
molto più complessa di quanto non pretenda D’Amico.

Tra le parole e la musica capita che si crei
un rapporto a doppio filo e che alcuni compositori sentano la traduzione, a differenza di
Schönberg, come una violenza fatta alla loro musica.

Si veda per esempio il fastidio di Gounod per la traduzione italiana della celebre cavatina di Faust, apparentemente fedele:

«Salut, demeure chaste et pure»

=

«Salve, o casta e pia dimora».

Secondo lui,

«l’accento espansivo che scoppia
come un razzo su “casta” distrugge tutto il mistero, tutto il pudore della mia armonia».

Le parole
non sono un vestito che la musica può cambiare, senza controindicazioni, alla bisogna.

E non v’è
dubbio che vi siano autori - tipo Debussy e Janácek - la cui attenzione al significante rende anche
la migliore traduzione inevitabilmente traditrice: si tratta però di eccezioni.

Inoltre, sono
innumerevoli le traduzioni ritmiche del passato che hanno reso un pessimo servizio alle opere che
pure hanno reso più accessibili.

E, in ogni caso, «Elle ne m’aime pas» non sarà mai
perfettamente uguale a «Ella giammai m’amò».

Ma se vogliamo un teatro d’opera più credibile,
se non vogliamo dei cantanti cui perdonare perché non sanno quello che cantano, non sarebbe
forse il caso di affiancare a una Walküre in “versione originale” anche qualche Valchiria in una
(buona) traduzione ritmica così da restituire immediatezza e vivacità a uno spettacolo troppo
spesso imbalsamato, se non incomprensibile?

Chi si ricorda che Toscanini dirigeva Wagner in
italiano a New York e che da Giuseppe Borgatti a Nazzareno De Angelis, da Cesira Ferrani alla
Callas esisteva un notevolissimo Wagner “in italiano” (non solo in senso linguistico ma anche
drammaturgico)?

E, per tornare ai nostri tempi, chi ha dimenticato il Barbablù di Offenbach a
Bologna (1994), la cui ottima traduzione di Gioacchino Lanza Tomasi, sposata alla regia di
Lorenzo Mariani e alla direzione musicale di Peter Maag, è riuscita a restituire l’esuberante
irriverenza e il vero senso di un’operetta che è un capolavoro?

Solo se si considera l’opera un
reperto museale intoccabile, sottratto al «processo» di cui parla D’Amico, il problema della
traduzione diventa anacronistico, superato dai tempi.

Tradurre non è (necessariamente) un
compromesso, può essere un’operazione simile alla regia moderna che, quando fatta con
intelligenza, riannoda i fili fra l’hic et nunc del fruitore e la storia dello spettacolo che si fa rivivere.

E
d’altra parte il testo operistico è più facilmente snaturato da una regia radicale (magari
apprezzatissima dalla critica) che da una traduzione (foss’anche modesta).

No comments:

Post a Comment