Thursday, May 24, 2012
Edipodia operistica
Spearnza
I quattro atti di Fleg e Enescu coprono l’intera vita di Edipo, dalla nascita alla morte-trasfigurazione in
Colono.
In questa estensione sembra di riconoscere a prima vista una tendenza ricorrente nelle
rivisitazioni sofoclee del Novecento, quella a svolgere in una diacronia continua la struttura peculiare
dell’Edipo re, che da un momento critico del presente - la peste in Tebe - risale al passato oscuro che lo
motiva, e capovolge l’identità del re-indagatore in quella di colpevole, parricida e incestuoso.
Così negli ultimissimi anni del secolo precedente i drammi di Joséphin Péladan e Hugo von
Hofmannsthal, entrambi intitolati Edipo e la Sfinge, rappresentano nel tempo drammatico il doppio
crimine dell’eroe (e Hofmannsthal concepisce una trilogia, poi ridotta a dittico con la sua traduzione di
Edipo re); in tempi più vicini a Enescu, all’incirca lo stesso respiro ha La machine infernale di
Cocteau (1932), mentre "OEdipe ou le crépuscule des dieux" di Henri Ghéon (1938) si spinge indietro,
addirittura fino alle nozze di Laio e Giocasta, e in avanti, fino a un ritorno del vecchio Edipo nella Tebe
dilaniata dalla guerra tra i suoi figli. E ancora, il film di Pasolini Edipo re va dall’adolescenza del figlio della fortuna’ all’accecamento, inquadrando la vicenda tra gli estremi della nascita e della acificazione, che sono entrambi collocati nel mondo contemporaneo. E tuttavia il libretto di Fleg, pur condividendo la strutturazione e in sostanza la drammaturgia di questo gruppo di testi, non ne condivide la funzione semantica, che per tutti loro è orientata a leggere più da vicino, per così dire, nella formazione
dell’esperienza idiosincratica di Edipo. Uccidere il padre e sposare la madre erano in Sofocle fatti, non
emozioni.
Il parricidio rievocato da una narrazione turbata sì, ma solo dalla paura che lo sconosciuto
ucciso in una rissa banale possa essere il re Laio, e di conseguenza che l’uccisore messo al bando da
Edipo possa essere Edipo medesimo.
L’incesto occultato da una solidarietà coniugale che all’eros
concede, come sempre nella cultura sessuofobica del quinto secolo attico, il meno possibile - e qui
nulla.
Questa loro scarnificazione è nell’Edipo re il presupposto della luminosa innocenza dell’eroe,
cioè del suo essere privo di complicità col suo destino, ovvero, come dice Vernant, ‘senza complesso’.
Complicità o complesso che al contrario i moderni cercano nell’attualizzazione dei contatti proibiti - in
voci misteriose che colpevolizzano in maniera segreta l’uccisione del vecchio al trivio, o vedono
nell’unione tra l’adolescente e la donna matura un incesto simbolico a fare da preannuncio di quello
reale.
Come se quel padre o quella madre denunciassero di esserlo in un senso metafisico e universale,
che Edipo dunque potrebbe e dovrebbe cogliere, e colpevolmente ignora.
Non è questa ma esattamente quella opposta la strategia significativa di Enescu, che ribadisce nel modo
più solenne l’innocenza di Edipo, ispirandosi - nella già peculiare utilizzazione dell’Edipo a Colono -
all’apologia pronunciata dal protagonista (vv. 960-1002) contro Creonte che cerca di strumentalizzare i
suoi crimini involontari per chiudergli lo spazio di Colono, la patria nuova e ultima (in Sofocle questa
apologia si saldava a quella precedentemente svolta ai vv. 265-274 e 520-548 davanti al Coro, in un
poderoso e compatto edificio ideologico, il fondamento di quella che nella cultura occidentale si
chiama la morale delle intenzioni):
Je n’ai rien fait.
Ai-je une part aux crimes ourdis par le Destin
quand je n’étais pas né?
Fut-il un seul moment, dans ma vie de victime,
où je n’aie combattu les dieux qui m’ont mené?
Ai-je pas fui Corinthe pour l’amour de mon père,
le respect de ma mère?
Savais-je qu’assailli dans un carrefour
j’assassinai mon père en défendant mes jours?
Et quand je tuais la Sphinge aux secrets immenses
pour sauver de la mort des Thébains nombreux,
savais-je qu’ils préparaient pour ma récompense
un lit incestueux?
Non, je ne savais pas, je ne savais pas.
Mais tu, tu sais, Créon, en criant mes maux,
que tu souilles Jocaste au-delà du tombeau.
Et vous, Thébains, quand vous me chassiez,
vous connaissiez celui que vous chassiez.
Vous connaissiez votre sauveur, votre père.
Parricide! C’est vous les parricides!
Moi, je suis innocent, innocent, innocent!
Ma volonté jamais ne fut avec mes crimes!
J’ai vaincu le destin! J’ai vaincu le destin!
Viene da Sofocle il perentorio incipit «Je n’ai rien fait» con cui Edipo corregge Creonte all’identico
modo che in Sofocle correggeva al v. 538 il Coro; come pure l’accento messo sul fatto paradossale di
essere incolpato di qualcosa deciso prima della sua nascita (vv. 969-973); e ancora l’insistenza sulla
legittima difesa che ha guidato la sua mano contro Laio, e che deve essere riconosciuta previa a ogni
questione morale (vv. 992-996), e la violenta ritorsione contro Creonte la cui colpa - la diffamazione di
vivi e morti - è compiuta invece in piena coscienza (vv. 985-987).
È invece tratto originale e coerentemente innovativo la parte positiva dell’apologia dove si passa dallo
stato di vittima a quello di vincitore, in interiore homine, del destino: in questo senso e a questo fine
Edipo rivendica la sua fuga da Corinto, lontano dai genitori cui credeva di dover riferire gli orrori
oracolari.
In questo senso e a questo fine, Fleg ha anche usato, per così dire, l’"Edipo a Colono" contro
l’"Edipo re", anticipando al suo terzo atto il conflitto sociale che si concreta nella cacciata di Edipo da
Tebe, per cui già allora il protagonista accusa i Tebani di ingratitudine.
Nella prima delle due tragedie
sofoclee, invece, Edipo chiedeva a Creonte, senza ottenerlo, quell’esilio che nella seconda dichiara
invece di aver avuto quando non lo chiedeva più.
In questo Edipo dunque la consapevolezza dell’innocenza non viene meno neppure al momento
dell’accecamento, e permette che nella sua soggettività non si offuschi mai il ruolo sociale di sauveur
de la ville e di padre della patria – quello che al termine del suo percorso gli consente, come abbiamo
visto, di ribaltare, con asprezza lucente, l’accusa vulgata: «Parricide! C’est vous les parricides».
Una frase che fa davvero pensare: nel primo verso dell’Edipo re Edipo si rivolge ai suoi sudditi
chiamandoli tekna, ‘figli miei’: la metafora della paternità socio-politica, destinata a una lunga fortuna,
a fondare in particolare il modello settecentesco della monarchia illuminata, definisce la sollecitudine
benevola e lungimirante del suo governo. La scoperta del suo passato spoglia Edipo di questo ruolo in
nome dell’esecuzione letterale del mandato divino (che chiedeva la morte o l’esilio del colpevole e che
pure Creonte, come ho ricordato, esita ad applicare), ma anche in nome di una equivalenza simbolica
per cui – bloccandosi e pervertendosi attraverso il parricidio e l’incesto la successione generazionale,
cioè la paternità biologica - si perverte parallelamente il suo analogo sociale.
Questo parallelismo che Sofocle e il suo Edipo accettano, Fleg e il suo Edipo lo respingono,
proclamando dunque il primato dell’affettività e dell’appartenenza socio-culturale su quella biologica.
Conosco poche affermazioni altrettanto elevate dell’umanesimo.
Coerentemente con questo assunto, constatiamo che in effetti l’allargamento dell’ambito
rappresentativo non corrisponde affatto a una rappresentazione, e tanto meno a un’analisi, del
parricidio e dell’incesto. Il parricidio si limita, nel secondo quadro del secondo atto, a una scena
vertiginosa, il cui ritmo, teatralmente parlando, è segnato dal vento e dalla tempesta che infuriano, e in
cui non spiccano, ma piuttosto si perdono, amalgamandosi all’ambiente, pochissime parole: quelle di
Laio sono segnate da violenza arrogante, da tautologico dominio («Arrière, esclave! Arrière»); dal
canto suo Edipo ha solo un’imprecazione: «Par l’enfer!». Più conta che nel momento in cui Edipo sta
adempiendo il dettato oracolare, una didascalia sottolinei che la sua clava è «levée contre le destin».
L’apparente paradosso è quasi la visualizzazione del conflitto fra intenzione e azione, giacché sul padre
ignoto Edipo non fa altro che sfogare la rabbia che si era diffusamente espressa nel pezzo monologico
precedente, dove Edipo, che sta fuggendo dal parricidio e dall’incesto, ha appena subito la tentazione
dolcissima di tornare a Corinto, nella casa dei suoi presunti genitori, e poi tanto più ferocemente l’ha
respinta, avvertendovi il pericolo di una trappola degli dei; a questo è seguito un aspro desiderio di
morte, e una triplice maledizione: agli dei indifferenti, alla vita nel suo alternarsi fisiologico di notte e giorno, e per ultimo al «Destin qui m’enchaîne au soleil!».
Quanto al matrimonio con Giocasta, è qui
davvero «un dono per aver salvato la città», come viene definito nell’Edipo a Colono vv. 539-541:
quando nell’ultimo quadro del secondo atto si sparge la notizia della vittoria sulla Sfinge, è la notizia
stessa che evoca, direi materializza, la collettività rinata alla gioia, che si articola in due cori, si allarga, spalanca le porte cittadine chiuse dalla paura, si esalta nell’incoronazione del trionfatore, e culmina infine nel grido dell’imeneo: ma Giocasta, «Jocaste aux bras blancs» emerge dalla collettività solo
quando sta per cadere il sipario: au moment où les mains de Jocaste et d’OEdipe vont se toucher, le
rideau tombe rapidement.
È il momento in cui, nel film di Pasolini, emerge dalla volontà politica quella dei due sposi, ‘subitanea
e quasi impudica’: ma tutti i testi che ho citato prima valorizzano questa situazione, dove su Giocasta
premono le urgenze della maternità e il loro labirintico incrocio col richiamo amoroso.
* * *
Alla luce di quanto ci dicono, sulla strategia complessiva dei significati, l’espressione e il silenzio più
significativi, veniamo a considerare un po’ più da vicino la struttura dell’opera. Il primo atto, o prologo,
rappresenta innanzitutto, con larga lentezza cerimoniale, i festeggiamenti per la nascita di Edipo.
Guidate dalla voce di un gran sacerdote, le parti della collettività, le donne mature e le vergini, i
guerrieri e i pastori, cantano la loro gioia. Questa sezione, in prevalenza corale, risponde evidentemente
a esigenze operistiche e spettacolari, ma contemporaneamente con la sua affettuosa ossessione
evidenzia il tema della nascita come antonomastica innocenza.
Ancora all’interno della dimensione celebrativa, tuttavia, l’ironia tragica investe sicuramente
l’invocazione che viene fatta ai regali antenati perché benedicano l’ultimo nato; ma quando Laio e
Giocasta vengono invitati a dare al loro bambino un nome che prefiguri le speranze riposte nel suo
futuro, Tiresia, che pure fin dall’inizio era in scena «sans un geste et sans un sourire», «comme le
fantôme vivant du Destin», produce una lacerazione nella rassicurante continuità della cerimonia
rimproverando a Laio di aver mancato all’ordine del dio che, apparendogli tre volte in sogno, lo aveva
ammonito a non generare figli. Il finale dell’atto, dove gli eventi precipitano con un altrettanto vistoso
mutamento di ritmo, culmina nel breve e silenzioso gesto di Laio che comporta la condanna a morte del
bambino, e nell’angoscia impotente, sua e di Giocasta. Tratti ambientali apparentano la situazione a
quella del dramma di Ghéon dove Laio e Giocasta, gelati alla loro festa di nozze dalla profezia del
parricidio e dell’incesto, promettono una castità che non sapranno mantenere.
Il secondo atto è una struttura vasta e complessa, articolata in tre quadri.
Nel primo di essi, vediamo il
giovane Edipo, che il responso di Apollo isola infelicemente dalla socialità gioiosa della sua Corinto.
Lo
confida a Merope, la madre adottiva alla quale, salvato dal pastore di Laio, è stato a suo tempo
consegnato, chiedendole di giurare che è davvero sua madre, diversamente da quello che gli ha
rinfacciato un ubriaco. Merope spergiura, e dal suo giuramento («Alors nul misérable au monde plus
misérable que ton fils!») Edipo trae conferma della sua necessità di fuggire. In tal modo il librettista ha
abilmente risolto un nodo del testo sofocleo: nell’Edipo re infatti, Edipo ha consultato l’oracolo per
appurare la sua nascita (mentre nell’opera di Enescu l’occasione è semplicemente una cerimonia
festiva); ma quando il dio, senza rispondere su questo, gli ha profetizzato parricidio e incesto, l’Edipo
di Sofocle ‘dimentica’ a sua volta la domanda, pensando solo a precipitarsi lontano da quelli che a quel
punto identifica senz’altro per i suoi genitori. È stato detto da parte della critica psicanalitica che questa
dimenticanza indicherebbe la volontà inconscia di commettere ciò che proprio a Corinto Edipo sarebbe
stato sicuro di non commettere: naturalmente non è così, e la dimenticanza del protagonista indica
piuttosto la commovente spontaneità dell’orrore, che fagocita ogni altro pensiero; il razionalismo di
Fleg provvede comunque a rendere la spergiura Merope responsabile della falsa certezza del suo figlio
adottivo, e la trasforma in strumento del destino.
Come falso scopo dell’incesto, Merope è investita
unicamente dall’orrore, non dall’adorazione tormentosa che nel primo atto di Oedipus und die Sphinx
di Hofmannstahl traccia le coordinate essenziali dell’edipismo fisiologico - dell’ingombro cioè che
l’immagine materna costituisce nella crescita affettiva del giovane maschio; con lo splendido dramma
di Hofmannstahl, tuttavia, il nostro ha in comune un dato essenziale, ancora una volta diversamente
usato: è la relazione che viene istituita tra l’oracolo e il sogno, e che in Hofmannstahl sottrae alla voce
esterna dell’oracolo parricidio e incesto per rapportarli al fantasma inconscio, che si apre la via della
comunicazione attraverso il linguaggio onirico: in quello che viene chiamato il Lebenstraum Edipo
uccide un uomo sconosciuto «e il mio cuore era ebbro del piacere della collera», e si unisce a una
donna sconosciuta, «e nelle sue braccia mi sentivo come fossi un dio»: che siano rispettivamente suo
padre e sua madre, viene ‘spiegato’, non profetizzato, dall’oracolo, che con questa operazione gli rivela
la sua natura.
Nell’opera di Enescu la sequenza è l’opposta.
Edipo ha già ricevuto il responso e «j’ai refusé de croire
à ma destinée», ma il dio gli manda il sogno, manifestazione non della natura umana ma del proprio
soverchiante volere, come aveva fatto con Laio; stavolta il sogno è l’ossimoro che potremmo chiamare
coazione al desiderio, e che Fleg puntualmente registra come tale:
Mais l’implacable dieu
veut qu’en dépit de moi
je veuille ce qu’il veut.
Pur così definito, il sogno ha l’eloquenza esemplare dell’edipismo, trasgressivo stavolta, in quanto vi si
presentano unificate le due relazioni proibite che erano divise in Hofmannstahl:
--->
En rêve, Polybos devient mon adversaire,
et mon poignard jaloux fouille son coeur ouvert...
et mes bras, que le sang paternel enveloppe,
étreignent dans la nuit l’image de Merope!
Viene in mente un "locus classicus" di questo triangolo, sia pure indebolito e reso dicibile fuori del sogno
(anche se come provocazione) dal fatto che la donna amata non è la madre carnale, ma è pur sempre
l’intangibile proprietà sessuale del padre: il "Don Carlo" di Verdi:
Eh bien donc, frappez votre père!
Venez, de son meurtre souillé,
Traîner à l’autel votre mère!
Comunque sia, l’espropriazione onirica della volontà è controbattuta da Edipo con la forte decisione,
espressa in chiusura del primo quadro, di «vaincre le Destin plus puissant que le Dieux».
Abbiamo già visto prima come questa decisione conduca, nel secondo quadro, al parricidio, e possiamo
quindi passare al terzo quadro, dove l’uccisione della Sfinge assume un ruolo ideologicamente
primario. Edipo entra in scena cantando una tristissima canzone che varia elegantemente i vv. 1224-
1227 dell’Edipo a Colono, dove si esprime la pessimistica considerazione della vita umana che la
tradizione assegna al Sileno:
Heureux celui qui meurt
au jour qu’il est né;
trois fois heureux
celui qu’il meurt
avant qu’il soit né.
Avvertito del rischio di svegliare la Sfinge, la chiama invece, con provocazione diretta: un gesto che
ricorda abbastanza da vicino il Sigfrido di Wagner davanti alla caverna di Fafner.
La Sfinge, che porta
il nome di Echidna, ed è la figlia del Destino, canta appunto il potere del Destino, glossando il «plus
puissant que le Dieux» di Edipo con una cupa visione della storia sacra, dove i progenitori di Zeus sono
caduti dal loro trono celeste, e la stessa sorte toccherà al medesimo Zeus.
L’enigma che Edipo è chiamato a risolvere suona dunque così:
Et maintenant réponds,
OEdipe, si tu l’oses:
dans l’immense univers,
petit par le Destin,
réponds, nomme quelqu’un
ou nomme quelque chose,
qui soit plus grand que le Destin!
Edipo risponde à pleine voix
L’homme! L’homme!
L’homme est plus fort que le Destin!
Ancora una volta tocchiamo un punto nevralgico nella concezione novecentesca di Edipo, giacché
l’indovinello tradizionale (qual’è l’animale che alla mattina ha quattro piedi, a mezzogiorno due e alla
sera tre?) viene emblematicamente definito ‘troppo stupido’ nella Machine infernale di Cocteau, e in
Péladan veniva conservato solo come momento transitorio di un dialogo incentrato invece
sull’agnizione di Edipo come il predestinato al parricidio e all’incesto: e la sola agnizione, senza più
enigmi, occupa i testi - in questo singolarmente paralleli – di Hofmannstahl e di Pasolini.
Come in loro,
anche in Enescu la dimensione conoscitiva è superata di slancio dalla dimensione metafisica, giacché
quella della Sfinge non è una domanda ma un adynaton celebrativo della forza che impersona, e quella
di Edipo non è una risposta, ma è il prevalere di un’inflessibile volontà, una trascrizione linguistica
dello scontro e della vittoria. In tal senso ciò a cui è veramente vicina la scelta di Fleg ed Enescu è il
quasi coevo OEdipe di André Gide dove viene svalutato l’indovinello, ma non la soluzione, che rimane
la stessa e che il suo Edipo avrebbe dato a ‘qualunque’ domanda, affermando il principio che l’uomo è
la soluzione di tutti gli enigmi, come per Protagora era la misura di tutte le cose, a fondamento
dell’individualismo creativo e trasgressivo:
J’ai compris, moi seul j’ai compris, que le seul mot de passe, pour n’être pas dévoré par le sphinx,
c’est: l’Homme. Sans doute fallait-il un peu de courage pour le dire, ce mot. Mais je le tenais prêt dès
avant d’avoir entendu l’énigme; et ma force est que je n’admettais pas d’autre réponse, à quelle que
pût être la question. Car, comprenez bien, mes petits, que chacun de nous, adolescent, rencontre, au
début de sa course, un monstre qui dresse devant lui telle énigme qui nous puisse empêcher d’avancer.
Et, bien qu’à chacun de nous, mes enfants, ce sphinx particulier pose une question différente,
persuadez-vous qu’une seule et même réponse unique, c’est: l’Homme; et que cet homme unique, pour
un chacun de nous, c’est: Soi.
Blanchot e Robbe-Grillet, in citazioni occasionali, forniranno la medesima generalizzazione; ma come
essa arriva a trionfare, portando Edipo all’incoronazione e all’incesto, è una scelta veramente peculiare
della nostra opera: accade infatti che al sentir vantare l’uomo come più forte del destino, la Sfinge è
presa da un riso irrefrenabile e, risemantizzando la metafora, muore dal ridere.
Muore dal ridere, ma muore; nella sua vicenda si compie un circolo logico, che suona: è ridicolo
pensare di essere più forti del destino, ma il ridicolo è più forte del destino. In maniera più diffusa e
didattica la Sfinge di Enescu scioglie essa stessa il circolo facendone un’ambiguità, un’alternativa
ancora aperta:
L’avenir te dira si la Sphinge en mourant
pleure de sa défaite, ou rit de sa victoire.
Ma di quale futuro propriamente si tratta? In realtà questo distico ha il ruolo di una scansione
drammaturgica: dei due atti che restano, il terzo, ispirato all’Edipo re, rappresenterà la vittoria - dunque
provvisoria - del Destino; il quarto, ispirato all’Edipo a Colono, la vittoria - dunque definitiva -
dell’uomo.
Torna dunque la scena, dopo il primo atto nella reggia di Tebe, e la drammaturgia si dispone
antifrasticamente rispetto al primo atto: non solo perché le esequie dei morti di peste prendono il posto
dei festeggiamenti per la nascita, ma soprattutto perché il ritmo dell’azione assume, a confronto con la
staticità di allora, una velocità vertiginosa, frutto di un taglio funzionale del testo sofocleo, che non si
limita a riassorbire, avendola rappresentata direttamente, l’evocazione che nell’Edipo re si fa del
passato, ma toglie al percorso conoscitivo ogni soluzione di continuità, ogni presunta ridondanza, ogni
respiro. In questa successione abbiamo all’inizio la richiesta di aiuto che i sudditi fanno ‘à ta divinité’,
staccandosi dalla pietas ortodossa di Sofocle (v. 31) con una divergenza che non stupisce nell’iperumanistico
Fleg, e curiosamente anticipa un fraintendimento della medesima situazione da parte di
Vernant. Poi giunge Creonte che assieme al mandato del Dio (cercare l’assassino di Laio) comunica
il prossimo arrivo, anticipato rispetto a Sofocle, non solo di Tiresia, ma anche del pastore che fu
testimone oculare della morte di Laio. Lo scontro di Edipo con Tiresia, che dapprima non vuole
parlare, ma, accusato da Edipo, ritorce contro di lui l’accusa, è ripreso da Sofocle con intensa
attenzione e precisione, mentre il successivo scontro con Creonte, che anche qui Edipo considera
beneficiario e mandante degli intrighi di Tiresia, è fulmineamente contratto lasciando spazio
all’intervento pacificatore di Giocasta: come in Sofocle esso innesta l’immersione infelice nel passato,
attraverso la menzione che Giocasta fa del luogo della morte di Laio. Ma al loro dialogo, che culmina
nell’agghiacciante osservazione di Giocasta sulla somiglianza fisica tra Laio ed Edipo (in Sofocle, il v.
743), Fleg vuole peraltro già presente anche il pastore-testimone, e dunque l’autocoscienza che ruota
attorno alla grande frase «Zeus! Que veux-tu faire de moi?» (traduzione del v. 738 di Sofocle) può
sfociare direttamente nella scoperta della verità non appena giunge il messaggero corinzio, che qui
avevamo conosciuto al servizio di Edipo nel secondo atto, e che porta il nome senecano di Forbante
(peraltro, Seneca lo assegnava al pastore tebano!).
Qui Polibo, il padre adottivo di Edipo, non è morto,
ma solo vecchio e stanco, e desideroso del ritorno di Edipo: una variante presente in un testo di poco
anteriore al libretto di Fleg, l’OEdipe roi de Thèbes di Saint-Georges de Bouhélier. Ma lo sviluppo
dell’azione non è molto diverso, giacché anche qui Forbante rassicura Edipo nel suo persistente
timore del parricidio e dell’incesto raccontandogli la sua storia infantile; e il pastore tebano, cui è
conservata la doppia funzione sofoclea di salvatore del figlio e testimone della morte del padre,
conduce Edipo alla spaventosa verità. Nella conclusione della loro sticomitia (vv. 1167-1170), che è il
capolavoro di questa forma teatrale greca, Fleg conserva e innova con uguale nitidezza:
LE BERGER
(a mi-vois, péniblement)
Il était né... au... palais de Laios...
OEDIPE
Esclave?
(la voix sifflante)
Ou fils de roi?
LE BERGER
(avec désespoir)
Hélas!
Voici la chose terrible à dire!
OEDIPE
(la voix tonnante)
Et terrible à entendre!
Je veux l’entendre pourtant!
«Fils de roi» elimina con spietatezza l’ultimo livello interlocutorio dell’Edipo di Sofocle, che diceva
enghenes ti (‘in qualche modo un congiunto del re’), «Je veux» avoca alla volontà sovrana quello che
nell’originale era l’omaggio alla necessità, akusteon (‘sentirla bisogna’). Nella parte che segue,
l’atteggiamento eroico e intransigente con cui Edipo rifiuta l’espulsione da Tebe viene occasionalmente
inquinato da reminiscenze dell’Edipo re che a questo punto hanno valore unicamente letterario, e non
più costruttivo della personalità teatrale, in quanto riguardano il bisogno di morte del personaggio
greco e le sue forme sostitutive, che oltre all’accecamento comprendono appunto l’isolamento dal
consorzio sociale («cachez-moi, Thébains, ôtezmoi de vos yeux!», cfr. in Sofocle i vv. 1340-1346,
1409-1412). Ancora più strana suona, nel contesto uniformemente sofocleo, un’improvvisa citazione
senecana: «Je suis allé remercier ma mère des enfants qu’elle m’a donnés» riprende infatti con ogni
evidenza l’apostrofe a se stesso gratare matri liberis auctam domum (Oedipus 881); un sarcasmo
paradossale lontano da questo Edipo come in genere lo è tutta la costruzione del personaggio senecano,
cui la categoria della colpevolezza incombe fin dall’inizio della tragedia. Mentre l’apostrofe al Citerone
e il lamento sul futuro delle figlie riprendono ancora da vicino il testo dell’Edipo re (rispettivamente i
vv. 1391-1408 e 1480-1502), il finale dell’atto è obbligatoriamente diverso, dovendo assicurare la
transizione alla ripresa dell’Edipo a Colono. Vediamo dunque Antigone scegliere di seguire il padre, e
soprattutto ascoltiamo, nell’indignazione di Edipo contro i Tebani che lo scacciano, il benigno presagio
del futuro: «le Destin vaincu lui rendra la lumière». Presagio che si compirà nel quarto atto, ancora
all’insegna della tematica sofoclea, giacché la frase «Moi que l’on conduisait, je conduis à mon tour»,
discende dal racconto del messo, Edipo a Colono 1588-1589: «nessuno dei suoi cari lo guidava, anzi
era lui la guida di noi tutti».
Questo è dunque il segnale oggettivo della vittoria sul destino, correlato alla certezza soggettiva che ho
avuto occasione di ricordare prima. La struttura dell’ultima tragedia sofoclea è ripercorsa nell’atto
finale del libretto attraverso una condensazione fulminea: il faticoso distacco di Edipo da Tebe qui si
esaurisce nella visita di Creonte e del suo tentativo di rapire Antigone; il ricatto supplichevole, che in
Sofocle tien dietro a quello violento nella persona di Polinice, qui invece è personificato nei Tebani che
accompagnano Creonte, ma esitano ad associarsi alla sua aggressione, e implorano il perdono di Edipo.
Anche il percorso dell’integrazione di Edipo nella comunità ateniese è enormemente semplificato: non
c’è più traccia dello scandalo con cui viene accolta l’entrata di Edipo nel terreno sacro, né dell’orrore
che i Coloniati provano, al primo impatto, per il parricida incestuoso; parimenti è drasticamente ridotta
l’azione benefica di Teseo, che si limita a frustrare il piano di Creonte; ma non a caso, la vera e piena
sconfitta di Creonte avviene immediatamente dopo, nelle parole dell’apologia che ho riportato
all’inizio. Questo Edipo, vincitore del destino, non ha bisogno di protettori, e per quanto lo chiamino le
Eumenidi - il cui passaggio da Erinni a Bienveillantes è chiaramente parallelo al mutamento
dell’atteggiamento divino verso di lui - non sarebbe inesatto definirlo il deus ex machina della sua
propria vicenda. (G. Paduano).
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