Thursday, May 24, 2012

Edipodia

Speranza Nel suo libro autobiografico Contrepoint dans le miroir, (stampato a Milano nel 1982 per conto dell’Editrice Nagard, Roma, in occasione del centenario della nascita del compositore), Enescu afferma: "il mio dramma, la mia avventura sono racchiusi in tre sillabe che Sofocle rese famose: Edipo". L’impatto con la tragedia greca avvenne nel 1910 quando il musicista vide recitare alla Comédie Française il grande attore Mounet-Sully nell’Edipo-Re. Enescu confessa: Mounet non era più giovane - ma che uomo!… la sua voce sonora e flessibile gettava le frasi come se fosse stato del canto e i versi come se si fosse trattato di una melodia… Al momento in cui Edipo si cava gli occhi, Mounet-Sully compiva un miracolo. Il suo viso, di solito così bello, diventava poco a poco orribile, quasi bestiale. Non parlo del sangue che sgocciolava sulle sue guance, ma degli stessi tratti che il dolore deformava. Si aveva l’impressione d’un muso di leone attizzato dalla forca del domatore. Per quanto riguarda il grido che prorompeva da questa maschera folgorata, l’ho notato nella mia partitura, con note intenzionalmente sbagliate. Queste note impossibili da cantare, Pernet, il primo interprete del ruolo di Edipo, ebbe il coraggio di impararle e il talento di urlarle. Quest’urlo estremo Enescu l’ha ‘notato’ effettivamente, stilizzandolo ovviamente e inserendolo nel contesto musicale del penultimo dei quattro atti di cui consta la sua ‘tragedia lirica’. Il libretto di questa tragedia gli era stato approntato dal grecista e scrittore "Edmond Fleg" (pseudonimo di Edmond Fleigenheimer). A differenza dell’opera-oratorio di Cocteau-Stravinskij, la tragedia lirica di Enescu sul libretto di Fleg abbraccia l’intero arco della vicenda di Edipo. I primi due atti riguardano la sua vita dalla nascita all’incoronazione a re di Tebe. Il quarto e il quinto sono derivati rispettivamente dall’Edipo re e dall’Edipo a Colono di Sofocle. La scena che riflette l’impatto scatenante dell’opera ne segna pure il culmine. Il compositore parla di «notes intentionellement fausses» e di «notes inchantables». Note che possono apparire ‘false’ se considerate nella prospettiva della tradizionale grammatica accademica, ma che sono giustissime, anzi necessarie per realizzare musicalmente gli assunti emotivi ed immaginifici della trama scenica. Per quanto riguarda le note ‘impossibili da cantare’, effettivamente Enescu non le fa ‘cantare’. Yna donna grida l’orrore per il suicidio di Giocasta. Edipo urla il suo dolore ‘portando’, anzi facendo precipitare la sua voce lungo tutto il registro dall’acuto estremo fino al basso indistinto, divaricando in modo davvero espressionista un intervallo di nona minore. Gridi e urla sono notati però su precise altezze, secondo le modalità dello ‘Sprechgesang’, del ‘canto parlato’ che Schönberg andava attuando, proprio tra il 1910 e il 1912, nei Gurrelieder e nel Pierrot lunaire. Espressionisticamente tesa e accesa è pure la struttura armonica di questo passo. Intorno a un inchiodato quadricordo di settima diminuita (do diesis-mi-sol-si bemolle) vi ruotano le altre otto note del totale cromatico. Osservando le successioni melodiche nelle battute che si riferiscono all’accorrere della donna che grida il suo raccapriccio e in quelle che avvolgono l’eterna notte alla quale si condanna Edipo, si può costatare la costante presenza di seconde minori (ed anche di quarti di tono in corrispondenza della parola ‘tuée’) precedute e/o seguite da intervalli più grandi. Sono queste le cellule generatrici dell’intera opera. Nel suo citato testo autobiografico Enescu indica «tre temi che animano il Preludio e che costituiscono praticamente tutto il dramma: il tema di Giocasta, il motivo del parricidio e le quattro note che suggeriscono il duello verbale tra Edipo e la Sfinge». La figura formata da queste quattro note è di particolare importanza. Pur profilandosi per la prima volta nei bassi della settima battuta del Preludio e pur essendo individuabile in tutto il successivo svolgersi della vicenda sonora, si precisa nella sua esplicita funzione di motivo conduttore della Sfinge nel terzo quadro dell’atto II, quando la Sfinge si rivolge a Edipo che sta per sfidarla: «Ti attendevo». Come si vede, nei due esempi citati la seconda minore centrale è preceduta da una quinta perfetta e seguita da un tritono (quarta aumentata) che riproduce la nota iniziale della figura. Il tema di Giocasta (es. 4 dall’allargando in poi) s’avvia dalla sesta mi-do, seguita dalla seconda minore do-si e dalla quinta si-mi. Il motivo del parricidio ("motivo di Laio") viene esposto per due volte nella parte bassa dell’animato (nello stesso es. 4). Esso risulta dal capovolgimento della seconda minore do diesis-si diesis in una settima maggiore intervallata dalla seconda aumentata la-si diesis. Altri motivi e altre varianti dei motivi citati finora risulteranno da aumentazioni, diminuzioni, permutazioni e capovolgimenti verticali e orizzontali degli intervalli formati dalle quattro note della Sfinge che in tal modo assumono il ruolo del vero motivo originario e unificante di tutta la grandiosa architettura dell’opera. Così il motivo di Edipo col quale i contrabbassi aprono il Preludio (Prologo) dell’atto I suonando in modo ‘espressivo e mesto’ (es. 2) presenta la seconda solfa diesis associata alla seconda aumentata (terza) fa diesis-mi bemolle. Quando il coro prorompe nell’esclamazione dell’orrore per la predizione di Tiresia del futuro incesto, il conclusivo intervallo di tritono si allarga di un’intera ottava. Nei momenti in cui serve una minore tensione espressiva la seconda minore centrale si dilata in una più distesa seconda maggiore. Così, con qualche permutazione, diventa il motivo dolcemente consolatorio di Antigone. Preceduto e seguito da una quarta, lo stesso intervallo di seconda maggiore ingenera il tema di Tebe. Inserito in un contesto modale frigio dà vita ad una forma analoga dello stesso motivo che si riscontra nel Coro corinzio all’inizio del I quadro dell’atto II. Il Coro tebano presenta virtuali assonanze col II Inno delfico. Quello corinzio somiglia ad alcuni tratti degli Inni al Sole e alla Nemesi di Mesomede di Creta. Il passo in cui Edipo, prima di affrontare la Sfinge, canta una specie di nenia dell’infelicità umana, spezzando la seconda minore in quarti di tono, potrebbe essere riportato al primo stasimo dell’Oreste di Euripide, in cui echeggia ugualmente il tragico destino dell’uomo: «La grande felicità per i mortali non è stabile. Un demone con travagli tremendi la sommerge… nei flutti voraci e rovinosi». Nelle sue dichiarazioni autobiografiche Enescu afferma di aver evitato il ricorso agli antichi modi greci i quali tuttavia permeano tutto il tessuto sonoro del suo Edipo. Come hanno rilevato giustamente i musicologi romeni i quali hanno dedicato a quest’opera studi approfonditi (tra questi vanno ricordati O. M.Cosma, Pascal Bentoiu e Myriam Marbé), sia le strutture modali che quelli quartitonali che caratterizzano la musica di Enescu trovano le loro sorgenti nel folklore romeno ed anche nelle musiche liturgiche bizantine. Particolarmente l’uso dei quarti di tono che Enescu fa in totale indipendenza da Busoni e da Hába, può essere riportato a modi bizantini come il Nisabur. Oltre al passo del III quadro dell’atto I al quale ci siamo riferiti, quarti e tre quarti di tono si ritrovano, sobriamente usati, anche in altri tratti di massima tensione dell’opera. La cui partitura abbonda pure di quei modi octotonici (cioè di otto note diverse) che Olivier Messiaen doveva teorizzare negli anni Quaranta. Vi si possono individuare anche molti passi non riferibili a modi eptatonici maggiori, minori o greco-ecclesiastici, ma che potrebbero trovare qualche riscontro nell’elenco ipotetico di 113 scale diverse che Busoni aveva annunciato nel suo Saggio di una nuova estetica della musica del 1906, che Enescu probabilmente non conosceva quando cominciò ad abbozzare l’Edipo. Circostanze legate allo scoppio della prima guerra mondiale ritardarono l’approntamento del libretto e fecero sì che egli poté terminare la composizione solo nel 1922 e completarne l’orchestrazione soltanto nel 1931. Nel frattempo il compositore diresse in concerto, nel 1924 a Parigi e nel 1925 a Cleveland, dei frammenti della partitura dell’atto I che aveva terminato e specificamente la grande Danza dei Tebani che festeggiano la nascita di Edipo. La festosa cerimonia viene interrotta dalla terribile profezia di Tiresia che suscita l’orrore generale (vedi l’es. 5) e induce Laio ad affidare il neonato ad un pastore perché lo faccia morire nelle gole del Citerone. Un Allegretto amabile introduce in modo ‘dolce e pensieroso’ il I quadro dell’atto II: un invisibile Coro di cortigiani del re di Corinto Polibo (che ha adottato Edipo, ma che costui ritiene essere suo padre carnale) e un messaggero dello stesso re, cercano di distogliere Edipo dalle sue cupe meditazioni. Lo stesso fa poi la regina Merope. A lei Edipo confessa, in un drammatico duetto, d’aver avuto a Delfi, da parte dello stesso Apollo, la rivelazione del destino che lo condannava ad uccidere suo padre ed a sposare sua madre. Il tutto detto con le stesse frasi pronunciate da Tiresia nell’atto I (vedi l’es. 5). Siccome Edipo crede che Polibo e Merope siano i suoi genitori, li deve fuggire. Pensa di andare in un esilio perpetuo per vincere il Destino. Il II Quadro dell’atto II è quello che vede la prima vittoria del Destino: al fatidico trivio Edipo, provocato e senza averne l’intenzione, uccide Laio. In Tempo furioso e con impeto strepitoso l’orchestra si scatena in una violenta tempesta di suoni che centrifugano in drammatici, abissali vortici, i temi di Edipo, di Laio, del Destino. Un pastore che aveva iniziato la scena con ‘un pianto disperato’ del suo flauto, resta impietrito. Nel susseguente III quadro dell’atto II riprendono a roteare dei bassi ostinati: questa volta però lentamente, misteriosamente: è il fatale motivo della Sfinge, ‘figlia del Destino’, che pone una domanda, letale per chi non sa rispondere... il librettista di Enescu introduce una prima modifica al dettato sofocleo. La risposta sarà la stessa: «l’Uomo!». La domanda però non è: «chi comincia col camminare su quattro gambe, prosegue su due e finisce su tre?», ma «chi o che cosa è più grande del Destino?». Di quel Destino che «governa le bestie, la polvere e gli astri» e al quale «sono incatenati persino gli Dei»; che «dopo Urano e Crono farà sprofondare nella notte il grande Zeus». Il grande Arioso della Sfinge, intessuto di caleidoscopiche varianti del suo tema, costituisce uno dei momenti di maggior fascino dell’opera. Interrotta dalla trionfante risposta di Edipo, termina con la liquidazione della stessa Sfinge. Nelle ‘convulsioni dell’agonia’, la soccombente irride il suo vincitore. Tra riso e singhiozzi, ‘improvvisamente, con voce bianca, forte e metallica’, canta ‘parlando’: «il futuro dirà se la Sfinge, morendo, piange la sua sconfitta, o ride per la sua vittoria ». In realtà, Edipo ha sconfitto la Sfinge, ma non ancora suo padre, il Destino. Intanto, Tebe, liberata, canterà il trionfo di Edipo, lo incoronerà Re e gli darà in sposa Giocasta, di cui egli ignora d’essere figlio. Questa scena dell’Incoronazione, come quella folgorante del Boris di Musorgskij, vede i cori e l’orchestra lanciati in immense armonie, in scintillanti accordi che si alternano in moti pendolari a mo’ di luminose campane. Di ‘campane sciolte’. «Sciolto»: così indica Enescu sulle ultime otto misure. Non poche ombre armoniche e timbriche ne velano però a tratti la lucentezza sonora: il Destino non è vinto. Resta in agguato. L’atto III riassume la vicenda di Edipo re. Partendo da una trasposizione, vieppiù grave e scura, del motivo di Edipo che aveva iniziato l’opera, la vicenda sonora si configura come un accidentato crescendo che culmina nell’autoaccecamento di Edipo (vedi l’es. 1). Per salvare la Città dalla peste, la deve lasciare per sempre. La deve liberare dall’impurità dei suoi involontari crimini, ora svelati. L’atto IV riassume l’intero Edipo a Colono di Sofocle. La cui conclusione viene però portata in una luce diversa. Una luce di redenzione cristiana. Edipo è stato vinto dal Destino. Ma è innocente, perché ha fatto di tutto per evitare di commettere i crimini ai quali è stato costretto da una suprema forza negativa. È un martire. Ad Atene, dove regna Teseo, egli troverà il suo ‘eterno riposo’. Dopo aver dovuto affrontare un’ultima insidia dal nemico-zio-cognato Creonte, Edipo proclama la sua innocenza; in una grande Aria, dichiara d’aver vinto il Destino. Apollo, pentito, invia le Eumenidi per l’azione redentrice. Edipo riacquista la vista e con Teseo s’avvia alla eterna dimora dove riposerà il suo corpo santificato. La musica di questo atto (che funge da Epilogo) porta alla graduale trasfigurazione tutti i principali temi dell’opera che si conclude con un lentissimo, tranquillissimo, dolcissimo rintocco a distanza di seconda maggiore, di accordi e di conglomerati sonori, dissonanti sulla carta, ma orchestrati in modo da risultare all’orecchio più dolci di ogni consonanza. (R. Vlad).

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