Thursday, May 24, 2012

"L'Edipo" -- Enescu

Speranza Enescu fu grande violinista, eccellente pianista, direttore d’orchestra, direttore d’opera, violoncellista discreto, fondatore entusiasta e membro d’insiemi cameristici, organizzatore e persino didatta insigne. Le sue molte attitudini musicali misero in ombra le doti per la composizione, a cui George Enescu (1881- 1955) teneva in modo particolare. Divenne il ‘musicista nazionale rumeno’, seppure trapiantato in Francia, quasi un padre separato della musica rumena. Ma era noto al grande pubblico soprattutto come virtuoso di violino. L’Occidente gli rapì la ‘u’ finale del cognome, che divenne Enesco. A Parigi ebbe molti onori, ma vi morì povero e malato. Sofferse da anziano di una forma grave di scogliosi che non gli permetteva né di suonare né di dirigere. Nel secondo dopoguerra non rivide più il paese natale ormai stalinizzato. In sua assenza la Romania socialista lo acclamò in contumacia ‘artista popolare’ per la sua fiducia nel folclore locale: proprio lui che era stato ‘musicista di corte della famiglia reale rumena’, con una dizione che suona un po’ anacronistica nel Novecento. Lo stile musicale di Enescu è - oltre che nutrito di folclore - alla confluenza delle tradizioni germaniche e francesi. Il rifiuto di appartenere a una scuola compositiva o a un raggruppamento che lo rendesse catalogabile fu d’ostacolo alla sua diffusione. La sua solitudine stilistica si tradusse per gli ascoltatori in uno ‘spaesamento’, che ben rendeva la sua stessa condizione di dépaysé. Colpa anche della sua curiosità, della sua ingordigia musicale e in parte del suo eclettismo. Ogni volta che ascoltiamo un brano di Enescu non sappiamo cosa ci aspetta: classicismo brahmsiano, barocchismo neobachiano, folclore rumeno, sperimentalismo contrappuntistico, tono da salotto, sonorità zigane, quarti di tono, tinte impressionistiche. La sua strana vita di bambino-prodigio viziato che amava principalmente comporre - e si era unito al violino in un saggio ‘matrimonio d’interesse’ - è narrata nelle memorie, trasmesse dalla radio francese ed edite nel volumetto Contrepoint dans le miroir. Ne viene fuori un uomo d’altri tempi, un autoironico nonno con ben altro sentire rispetto alle tinte aggressive della modernità cui siamo abituati. La sua invalidante emotività cardiaca era un segno di una tensione e di un’umanità ricca e complessa. Una cosa è certa: tra i molti modi in cui la musica del Novecento ha detto addio al Romanticismo, c’è anche quello del nostro interessante e trascurato musicista. George Enescu nacque il 19 agosto 1881 a Liveni-Virnav, nel dipartimento di Dorohoï della Moldavia, la regione all’estremo limite est della Romania, ai confini con l’Ukraina. Le terre di quel villaggio erano allora semi-deserte, quasi da tempi preistorici, fra le pianure fertili e le montagne vulcaniche dei Carpazi. I flauti lontani dei pastori furono le sue prime impressioni musicali in una società dove non esistevano radio né grammofoni. I genitori non erano musicisti, ma proprietari terrieri abbastanza agiati. Una famiglia molto religiosa: entrambi i nonni erano stati pastori protestanti. George ebbe il destino ‘mahleriano’ di avere un numero impressionante di fratelli morti. Su otto, solo egli sopravvisse alla difterite e ad altre malattie infantili. La vigilanza ossessiva per l’unico figlio rimasto fece di lui un bambino ipersensibile, capriccioso e con un’infanzia senza amici. A quattro anni George inizia a suonare il violino a orecchio. Compone spontaneamente già a sette e lo fa regolarmente appena gli viene messo a disposizione un pianoforte. S’interessava alle danze popolari eseguite nel villaggio. Fu un ingegnere di Dorohoï a insegnargli a leggere la musica. Da quel momento scrive la sua, senza regole, ma con passione. Il suo primo maestro di violino, Caudella, già allievo di Vieuxtemps, consiglia i genitori di farlo studiare all’estero. E la madre amorosa e tenera - persin ‘troppo’, commenta il futuro autore dell’OEdipe - lo porta con sé a Vienna nel 1888. Le impressioni infantili resteranno sempre indelebili nella memoria del futuro musicista. Molti anni dopo, Enescu ribadirà le prerogative del folclore rumeno, molto diverso da quello zigano, e più ricco; anche se i suoi ritmi si presentano spesso simmetrici e non hanno i metri quinari e settenari della tradizione balcanica. Tornerà spesso nei suoi lavori la malinconia tutta particolare della doïna, tipico canto rumeno. Ma anche ombre delle melodie della Tracia con quarti di tono, o lo stile del ‘parlandorubato’ del canto popolare. Nel folclore Enescu percepiva la storia: il canto rumeno è uno dei repertori in cui, per l’isolamento sociale, permangono ancora tracce dell’eredità greca e bizantina, addirittura a livello di eterofonia mediata dalla liturgia arcaica. Molti saranno in lui i particolari della scrittura tratti dalla musica popolare: alternare la terza maggiore a quella minore negli stessi accordi, le estese sezioni all’unisono. Anche se, a onor del vero, il futuro autore sceglierà la citazione diretta dei canti solo in una piccola parte delle sue opere. Al Conservatorio di Vienna viene ammesso alla classe di violino di Sigismund Bachrich. A otto anni non ancora compiuti si presenta per la prima volta in pubblico a un concerto di beneficenza al bagni di Slanic-Moldova. Dopo i due anni preparatori, entra ai corsi superiori del Conservatorio, studiando il violino con Joseph Hellmesberger. Per l’armonia e la composizione il maestro è Robert Fuchs. Con Hellmesberger, appartenente da tre generazioni a una famiglia di musicisti che era stata in contatto persino con Beethoven, nacque presto un sodalizio artistico: suoneranno per anni insieme. Nella Vienna fine secolo, ancora dominata da un certo italianismo musicale, non era ancora giunto il ‘wagneriano’ Mahler come direttore dell’Opera di Corte; e Brahms, al culmine della sua carriera, era guardato con soggezione e timore. Il giovanissimo Enescu aveva grande simpatia per le tentazioni zigane di Brahms, che, in mancanza di un folclore rumeno più autentico, gli ricordavano comunque la sua terra. La fama di bambino prodigio si diffonde sui giornali viennesi dopo una sua pubblica esecuzione della Fantasia di Vieuxtemps a soli dieci anni. Nel 1893 termina gli studi al Conservatorio di Vienna, che gli concede una medaglia d’argento. Per completare con un adeguato perfezionamento gli studi di violino, su consiglio dello stesso ambiente musicale austriaco, nel 1894 si trasferisce con la famiglia a Parigi, ove viene ammesso nella classe del celebre didatta belga Martin-Pierre-Joseph Marsick. Nel Conservatoire, diretto dal teorico Dubois, studia per un anno composizione con Jules Massenet, che Enescu ricorda come un uomo spiritoso ed espansivo. E quando questi lascia l’insegnamento, lo sostituisce nel 1896 Gabriel Fauré, artista taciturno, ma dall’aura ispirata molto contagiosa per i devoti allievi. Diviene amico del pianista Alfred Cortot, di quattro anni più vecchio, che lo prendeva in giro per la sua precocità compositiva. Tra i suoi compagni del corso di composizione vi sono Maurice Ravel, il musicista Florent Schmitt, il teorico Charles Koechlin, il critico Émile Vuillermoz. Nel 1897 Enescu si esibisce per la prima volta nella Salle Pleyel in un programma da camera; l’anno dopo l’orchestra dei Concertis-Colonne esegue il Poème roumain op. 1, accolto con favore dal pubblico e dalla critica. Piacciono del musicista adolescente il tono ecclesiastico, le nenie pastorali, il patriottismo. Altre opere di questi anni sono scolastiche, ma costruite con grandiosità. La Sonata per violoncello e pianoforte n. 1 op. 26 (1898), che l’autore suonerà nel 1907 con Pablo Casals, mostra il suo amore per Bach, per il contrappunto e per il classicismo viennese alla Brahms. La complessa Sonata per violino e pianoforte n. 2 op. 6 (1899) ha invece l’influenza di Fauré, oltre che di Schumann e di Brahms. La suona naturalmente lui stesso in pubblico, accompagnato al pianoforte da Alfred Cortot; mentre l’anno dopo l’affida al celebre violinista-rivale Jacques Thibaud, sedendo lui al pianoforte. Nelle memorie osserva che in quegli anni Brahms era considerato a Parigi un artista di secondo piano, mentre lui lo amava e, come violinista, sarà tra i diffusori del Violinkonzert. Completa presto una Seconda rapsodia rumena, l’op. 11. Nel 1902 fonda a Parigi un trio con Alfredo Casella al pianoforte e Louis Fournier al violoncello. E qualche anno dopo, nel 1904, anima il Quartetto Enesco con Fournier, Henri Casadesus e Fritz Schneider. A Bucarest nasce il mito della gloria musicale rumena affermatasi in Francia. Lui continua a suonare e a scrivere. Fra le opere più amate dall’autore, l’Ottetto op. 7 per quattro violini, due viole e due violoncelli, nel quale si sente un ‘Berlioz cameristico’. Dedica allo stimatissimo Saint-Saëns la Prima Suite per orchestra op. 9 (1903), d’ispirazione anche folcloristica. A quest’opera è legata la battuta malevola di un detrattore: «Caro, dà una moneta allo zingaro!». L’opera guarda anche alla musica del passato, delle corti principesche. Enescu non teme l’enfasi, la fisicità del suono, la sua sensualità, né un’armonia romantica piena. Si sente un polifonista e, a differenza della tendenza statica dell’impressionismo (siamo all’epoca della prima rappresentazione di Pelléas et Mélisande di Debussy) coglie nella musica il movimento e l’azione. Mira alla forma debordante, al lirismo appassionato. Non gli interessa scrivere per i piccoli editori alla ricerca di melodie facili adatte al gusto delle ragazze sentimentali. Per comporre quel che gli pare, e non quanto chiede il mercato, è costretto a mantenersi suonando il violino. E come interprete non diviene un ‘usignolo meccanico’ come Sarasate, o un ‘usignolo autentico’ come Thibaud, non ha il fuoco di Ysaÿe o l’equilibrio di Kreisler, ma il suo violinismo schietto e ben pensato incanta. Lui non se ne cura e scrive: «Una parola di simpatia per una delle mie opere mi fa più piacere del linguaggio ditirambico sulla mia arte d’esecutore». Enescu narra di non aver mai avuto una particolare predisposizione per gli strumenti, ma di aver ottenuto buoni risultati grazie allo studio. E aggiunge che la carriera del virtuoso non è per nulla invidiabile per il lavoro forzato che prevede. Preferiva, o meglio, trovava più comodo dirigere. E adorava fare musica da camera. Era contrario al feticismo della filologia. Aveva avuto un violino Stradivari, con un brutto suono. Si era trovato meglio con un Guarnieri, ma prediligeva un semplice strumento di liuteria moderna. Accusato scherzosamente dagli amici di ‘bulimia musicale’, quest’uomo con le dita e la mente sempre piene di musica aveva sviluppato una memoria musicale d’eccezione. Aveva la rara capacità di comporre e ritoccare ‘a mente’, e scrivere sulla carta pentagrammata solo alla fine della ‘stesura mentale’, quando la composizione era perfettamente delineata in ogni particolare nella memoria. Nel catalogo, vi sono alcuni raggruppamenti: per esempio le opp. 11, 22, 24, 26, che comprendono ognuna due opere dello stesso genere e con lo stesso organico, magari scritte a molti anni di distanza. Negli anni delle grandi sinfonie di Skrjabin e di Mahler, dopo i velleitari esperimenti sinfonici giovanili, vuole anche lui cimentarsi nella grande forma. A Casella dedica al Prima Sinfonia op. 13, completata nel 1905 e diretta a Parigi l’anno successivo ai Concerts-Colonne. Opera ricca di ombre wagneriane e dagli sviluppi macchinosi, guarda a Frank e a Paul Dukas, del quale adorava l’opera Ariane et Barbe-bleue. Nel 1908 ai Concerts-Lamoureux viene eseguita un’altra pagina ambiziosa, la Sinfonia concertante per violoncello e orchestra op. 8. Sarà un caso, ma subito dopo la morte della madre (1909) inizia a lavorare a quella che diverrà l’opera della vita: l’OEdipe. Quasi come compensazione del lutto, si rafforza ulteriormente il legame con il paese natale. Cerca di trascorrere molto tempo in patria, mettendo al servizio della società rumena la sua notorietà. Nel corso della carriera, egli avrà sempre un occhio di riguardo, come interprete, per i musicisti rumeni. Tra i compositori che eseguiva: Stan Golestan, Mihail Jora, Eduard Caudella, Alexis Catargi. E se la Romania ha offerto al mondo musicale molti musicisti e grandi interpreti lo si deve anche alla tradizione molto incrementata nel Novecento da Enescu. Si pensi che nel 1914 diresse a Bucarest la prima esecuzione della Nona di Beethoven, mai eseguita prima in Romania. Nel 1915 il Ministero della pubblica istruzione lo nominò membro della commissione incaricata di studiare le modalità della fondazione di un’opera rumena. Quell’anno Enescu dona trentamila lei al Comitato dell’Ateneo Rumeno per la costruzione di un organo. Fu un caposcuola sempre sollecito. Nell’impressionante numero di concerti eseguiti anche nelle sedi meno prestigiose della Romania, fa conoscere anche le opere di Debussy Fauré, Busoni. E non era solo un patriota. Gli piaceva in genere l’idea di celebrare, aiutare, promuovere. Se si festeggiava lo scultore Auguste Rodin, lui partecipava con il suo violino. Nel 1922, in ricordo del suo insegnante, scrisse un Hommage a Gabriel Fauré per pianoforte. Per non dire dei suoi meriti didattici. Tra le esecuzioni storiche, si ricorda la prima assoluta del Trio di Ravel nel 1915, con Casella al pianoforte e il violoncellista Feuillard. Enescu, pur prodigo di buone parole per tutti, non mostrò mai una spiccata simpatia per la musica di Ravel. Considerava Debussy un genio e Ravel un semplice talento. Però del vecchio compagno di Conservatorio terrà ancora a battesimo nel 1927 la Sonata per violino e pianoforte, accompagnato dall’autore. Tra le pagine degli anni della Prima guerra mondiale c’è la Suite n. 2 op. 20 (1915), in cui il gusto moderno è ancora lontano: colorismo sinfonico, amore per l’eufonia e un barocco sinfonizzato e ammorbidito dallo spessore orchestrale. Nel 1918, dopo una Seconda op. 17 (1913), termina la grandiosa Terza sinfonia op. 21 per grande orchestra, organo, piano e coro, diretta a Parigi nel 1921. Alla fine della guerra avrebbe sognato di ritirarsi in Romania a comporre, ma le crisi economiche lo obbligano a restare ancora in Occidente. Il padre muore nel 1919. Nel 1921 inaugura l’Opera Rumena, dirigendovi il Lohengrin di Wagner, antico amore. Lui intanto attende al completamento e alla strumentazione del suo OEdipe. Nel giro di pochi anni si è fatto un musicista sempre più complesso: il Quartetto op. 22 n. 1 (1920) elabora una mole di dettagli e di difficoltà strumentali; e vi si ascoltano anche le eterofonie del folclore rumeno. Nel 1923 intraprende la prima tournée negli Stati Uniti, ove viene accettato anche come compositore, oltre che come interprete. Nel 1924 suona, accompagnato al pianoforte dall’autore, la prima esecuzione assoluta della Seconda Sonata per violino e pianoforte di Bela Bartók. L’incontro con il collega ungherese, che riusciva a coniugare la più radicale ricerca linguistica con la più assoluta adesione allo spirito del folclore musicale, deve essere stata un’esperienza forte, perché la sua Sonata n. 3 op. 25 per violino e pianoforte ‘nel carattere popolare rumeno’ (1926) rappresenta un grande passo verso la modernità. Opera esotica e umbratile, è pagina parecchio complicata nella multiformità espressiva. Enescu l’aveva corredata di infinite sfumature per dare l’impressione di un’improvvisazione. Tre gli stili distintivi: quarti di tono, eterofonie di materiali sovrapposti con leggero ritardo temporale, oscillazione maggiore-minore. L’ideale bartókiano del folclore reinventato diviene la sublimazione del modo di suonare incantatorio, esibizionistico e ammiccante dei violinisti folcloristici delle terre orientali, con le civetterie dei leggeri portamenti e gli accompagnamenti di un piano che imita a tratti un cimbalom. Dal 1928 dà lezioni di violino al suo più celebre e amato allievo, Yehudi Menuhin, che resterà affezionato al suo maestro per la vita. Dalla loro amicizia artistica nasceranno esibizioni e registrazioni realizzate insieme. Oltre a Menuhin ebbe tra i suoi allievi Arthur Grumiaux, Christian Ferras, Ida Haendel e Uto Ughi bambino. Formerà inoltre i membri del Quartetto Amadeus. E l’America, che crede nel musicista, organizza nel 1930 un corso di composizione da lui tenuto all’Università di Harvard. Persino Toscanini dirige nel 1932 la Prima rapsodia rumena op. 11 a New York. E arriva finalmente l’opera. La storia del disinteresse del mondo musicale per l’"Edipo" è abbastanza semplice e mesta. Dopo la prima esecuzione trionfale all’Opéra di Parigi il 13 marzo 1936, con l’intellighenzia festante e la critica altamente elogiativa, e dopo una ripresa l’anno dopo, scomparve per vent’anni dalle scene della capitale francese che l’aveva battezzata, senza essere ripresa neppure altrove. La realtà della sua resurrezione è tutta postuma, e la si sta ancora scrivendo con l’esecuzione a Cagliari. In quegli anni Enescu prese sotto la sua protezione un dotatissimo bambino rumeno di cui era stato padrino di battesimo: il futuro pianista Dinu Lipatti, destinato a una morte prematura nel 1950. Così come Lipatti diviene interprete delle sue opere, Enescu suona quelle di Lipatti, anche lui interpretecompositore. Per esempio a New York dirige nel 1938 Ivresse, brano sinfonico di Lipatti. Pagina accattivante di questi anni è la Terza suite per orchestra detta Suite villageoise op. 27 (1938), dedicata all’Orchestra sinfonica di New York. I titoli dei movimenti ne fanno una specie di delicato poema sinfonico, che descrive una giornata nella campagna rumena, con giochi di bambini, chiaro di luna, danze, il passo degli uccelli migratori, le campane al vespro. Una trasfigurazione della campagna, un idillio, una pace dello spirito nella natura. Per certi aspetti è opera prossima allo stile italiano di Respighi o di Malipiero. Sempre impegnato in Romania, Enescu dirige nel 1937 il ciclo completo delle Sinfonie di Beethoven a Bucarest, e nel 1941 suona il ciclo completo dei Quartetti con un gruppo di grandi esecutori rumeni. Nel 1942 il re Carlo II lo nomina senatore. Vi torna nel 1945, per dirigere la Sinfonia di Leningrado di ˘ Sostakovic e suonare nel 1946 la prima rumena del Concerto per violino e orchestra di Chacaturjan. Ma la Romania sovietizzata non fa per lui e non torna più in patria. Però anche nelle pagine tarde il suo cuore è là: molto etnica la Ouverture da concerto op. 32 (1949) con campanelli, nenie popolari e scatenamento zingaresco. Un Quartetto, il n. 2 op. 22 (1954), completa la coppia a trentun’anni di distanza dal precedente: opera dell’estrema maturità di cui esistono varie versioni. Lascia purtroppo incompiuto il poema sinfonico per coro e orchestra Vox maris op. 31, in cui intendeva riprendere la tematica della lotta contro il male già affrontata nell’OEdipe. Finisce però la Sinfonia da camera per dodici strumenti solisti op. 33, del 1954. Dopo la sua morte, avvenuta a Parigi nella notte tra il 3 e il 4 maggio 1955, la sua fama in patria continua a crescere. Nel 1958 - anno della prima esecuzione in Romania dell’OEdipe - viene istituito un festival internazionale a lui intitolato. La gloria postuma è sancita dall’apertura di tre musei dedicati alla sua opera musicale: a Bucarest, a Liveni e a Dorohoï. Ma la ricognizione della sua figura e della sua opera, per ora in Occidente è avvenuta solo nell’acquisizione della musicologia, che gli ha dedicato saggi e studi come la biografia inglese di Noel Malcom, che ha persino ricostruito la problematica e privata vicenda amorosa con la bella signora Marie Cantacuzino, sposata da Enescu solo dopo la morte del marito di lei. La ricognizione vera, quella del pubblico che lo ascolta nei concerti, non è ancora arrivata, e per diverse opere è un vero peccato. (F. Pulcini)

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