Sunday, November 23, 2014

Notti attiche di Gellio


Speranza

Le "Notti attiche" s'iscrivono alla perfezione nel quadro della età antoniniana canonizzato a suo tempo in grandi e generosi affreschi di storia imperiale (da Sir Edward Gibbon sullo scorcio del Settecento fino a Michael Rostovzev nel 1926).

Meno bene esse si attagliano alle visioni disincantate e problematiche della storiografia odierna, per esempio alla vigorosa sintesi di Santo Mazzarino.

Men che meno convengono all'etichetta di «age of anxiety» stampata sul secolo degli Antonini da un programmatico indagatore dell'inquietudine umana come Eric R. Dodds.

L'opera di Gellio presuppone, e in parte precisamente rappresenta, una società civile scevra da drammi esistenziali, e in essa, come un gheriglio ben protetto dal guscio, una società culturale soddisfatta di sé, affrancata dai quotidiani negotia come dalle grandi irrequietezze dello spirito, o comunque capace in ogni momento di affrancarsene.

Incline a ridurre ogni problema a misura di grammatica e di retorica, a coltivare, nel chiuso dei circoli e delle conventicole, scaramucce polemiche da iniziati, a tenere sarcasticamente le distanze dal volgo degl'indotti e specialmente dalle proterve ambizioni dei semidotti.

Tutto ciò in un mondo pacifico, in città ricche e felici, con la sapienza al potere.

Naturalmente il quadro non corrisponde alla realtà, come sempre poliedrica.

Né a quella della storia totale né a quella circoscritta del milieu culturale.

È dunque un quadro sbagliato.

Ma non perciò falso.

Solo parziale, limitativo.

Non esaurisce la realtà del «secolo senza poesia» ma ne fa scorgere una soltanto delle molte facce.

Non necessariamente la più oleografica e superficiale.

Bisognerà decidersi ad ammettere che anche la mediocrità abbia un suo concreto e autentico spessore.

Così accade che anche il modesto talento di Aulo Gellio abbia potuto fruttificare un'opera di straordinaria importanza storica.

Si è detto che Gellio non era un professionista della cultura.

L'immagine che egli lascia di sé nei tratti autobiografici della sua opera, e in primo luogo nella prefazione, è quella di un uomo perennemente ingolfato tra i libri, impegnato a trarne schede d'ogni sorta, e partecipe spettatore di conversari eruditi la cui sostanza egli riverserà poi nei propri taccuini.

Ma poiché la sua attività scrittoria, egli dice (praef. 23), occupa il tempo di "otium" che gli residua a tuenda re familiari procurandoque cultu liberorum, si è dedotta la figura di un benestante molto preso dall'amministrazione dei suoi beni e dal ménage familiare, un personaggio per il quale la cultura rappresentava non più che un «violon d'Ingres».

Può esserci del vero.

Ma la frase citata si riferisce in realtà al futuro di un Gellio che ha già composto i venti libri delle "Notti attiche", al Gellio verosimilmente già anziano che fa i conti con gli anni che gli restano, quantuli quomque fuerint, e non può più permettersi di delegare i doveri del pater familias.

I suoi anni verdi figurano certamente in altro modo, molto simili a quelli d'uno studioso a tempo pieno, che anche nell'adempimento di un dovere civico (in questo campo rientra la temporanea esperienza di giudice) porta lo scrupolo d'una lettura filologica dei testi giuridici.

Se la qualifica di dilettante è pur sempre quella che meglio conviene alla personalità scientifica di Gellio, essa tuttavia non può e non deve mortificare il senso di una vita culturalmente operosa come poche altre.

Ma poco importa seguire le tracce fin troppo evanescenti della biografia.

Gellio è sostanzialmente un anonimo, la cui persona non ha lasciato orma di sé tra i suoi contemporanei.

Il tanto riverito Frontone lo nomina una volta (se di lui si tratta) in una lettera, e non gradevolmente.

Poche e avare menzioni nei secoli successivi, e già la tarda latinità ne sconcia il nome nella forma con cui lo consegnerà al medioevo: "Agellius".

Ma intanto la sua opera circola e vive come "res nullius", ovvero come patrimonio di tutti, perché ciascuno vi trova il suo bene, non solo i saccheggiatori professionali o impudenti come Nonio e Macrobio.

Davvero un " litterarum penus" (praef. 2), una inesauribile «dispensa».

Tale ghiotta prerogativa viene alle "Notti attiche" sì dall'avida e pedantesca curiosità del loro autore (riflesso in chiave meramente erudita di quella "curiositas" che è parametro caratterizzante del secolo e che per esempio guida con forme e spiriti e obiettivi ben più intriganti il contemporaneo Apuleio, tutt'altra tempra d'intellettuale), ma anche dalla struttura dell'opera, in cui la casualità e l'occasionalità erette a metodo convergono a realizzare una satura dello scibile di larga e immediata fruibilità, quale non si era mai riscontrata in quel «genere» della miscellanea erudita in cui lo stesso Gellio con orgogliosa modestia s'iscrive (praef. 5-10).

Certo la smisurata varietà degli argomenti toccati dale "Notti attiche" non lascia fuori nessun campo del sapere.

Dalla grammatica e dalla filologia testuale alla storia e alla filosofia, dalla matematica e dall'astrologia al giure e al folclore, dall'arte allo sport, dalla mantica all'enigmistica, dalla gastronomia alla medicina, dalle scienze naturali alla musica alla religione alla geografia, e via elencando con altre possibili e più spicciole categorie, un ventaglio enciclopedico di aspetto più che leonardesco.

Gellio, ovviamente, non è un Leonardo da Vinci, neanche un Plinio il Vecchio.

Gellio è solo l'onnivoro "reporter" di un universo libresco.

Commentarii egli definisce i suoi capitoli, con un termine che richiama nel suo stesso etimo (-men-, la radice di memini) la pratica degli hypomnémata, cioè degli «appunti», dei taccuini memoriali che, nati dalle esigenze della vita pratica, già l'età pre-alessandrina aveva sviluppato come preciso strumento letterario, poi divenuto tipico della letteratura miscellanea.

Altri soggetti più piacevoli si possono trovare — per questo scopo: che anche i miei figlioli abbiano a disposizione diversivi di questo genere una volta che la loro mente, godendo un po' di tregua dalle occupazioni, abbia potuto trovare distensione e conforto. 

Per la disposizione degli argomenti abbiamo adottato il criterio della casualità, quello stesso che avevamo seguito nel raccoglierli.

Via via che prendevo in mano un libro, greco o latino che fosse, o ascoltavo cosa che valesse la pena ricordare, io ne prendevo nota così come veniva, alla rinfusa, seguendo il mio gusto e senza badare alla natura del materiale; poi lo mettevo da parte a sussidio della mia memoria, come una dispensa di cibi culturali.

Così, se mai mi fosse venuto bisogno d'una nozione o d'una parola e lì per lì mi fosse sfuggita di mente, anche in mancanza dei libri da cui l'avevo desunta ci sarebbe stato facile pescarla e tirarla fuori.

Si è dunque realizzata anche in questi taccuini quella medesima eterogeneità di contenuto che caratterizzò le schede originarie, ricavate alla svelta, senz'ordine e senza regola, da svariate audizioni e letture.

E poiché abbiamo cominciato a redigere questi capitoli, quasi per divertimento, nelle lunghe notti invernali trascorse, come dicevo, nel territorio della regione attica, così li abbiamo intitolati alle Notti attiche, evitando di imitare la piacevolezza di quei titoli che altri autori dell'una e dell'altra lingua generalmente adottano in questo genere di opere.

Costoro, per avere ricercato cognizioni disparate, promiscue e insomma farraginose, conformemente a questo concetto usarono grande ricercatezza anche nei titoli'.

Chi li intestò alle Muse, chi alle Selve.

U no titolò "Il peplo", un altro "Il corno di Amaltea", un altro ancora "I favi".

O ppure I pascoli o Taccuino di lettura o Letture di testi antichi o Fiori o Reperti.

Ci sono anche titoli come Lampade o Tappeti, oppure Silloge universale o Elicona, Problemi, Manuali, Spadini.

Altri titoli: Memoriali, Nozioni pratiche, Accessori, Didascalici, per non dire di Storia naturale, Storia varia, e ancora Prato e Frutta mista e Luoghi.

Numerosi gli Zibaldoni, e non mancano le opere designate come Epistole morali o come Questioni epistolari o Questioni miscellanee o con altre denominazioni ancora, quanto mai vivaci, che denunciano una studiata ricerca dell'effetto.

Noi invece, nella consapevolezza dei nostri limiti, abbiamo intitolato "Notti attiche", senza studio né cura, molto alla buona, con riferimento al luogo e al tempo delle nostre veglie invernali.

Perfino nel decoro del titolo cediamo il passo agli altri, così come l'abbiamo ceduto nella cura e nell'eleganza dello scrivere.

Come un tale fu redarguito, aspramente e scherzosamente insieme, dal filosofo Arcesilao per il suo voluttuoso edonismo e la mollezza dello sguardo e del corpo.

Racconta Plutarco che il filosofo Arcesilao sferzò, con dure parole un riccone eccessivamente dedito ai piaceri e tuttavia in fama di persona immacolata e aliena da impudicizie.

Notandone egli la voce fessa, la capigliatura studiosamente acconciata, lo sguardo provocante e carico di seduzione e voluttà, ebbe a dire

«Non fa differenza con che organi si è cinedi: di dietro o davanti».

Virtù e poteri del numero sette, osservati in molti fenomeni naturali.

Ampia dissertazione in merito nelle "Ebdomadi" di Marco Varrone.

Marco Varrone, nel primo dei libri intitolati "Le ebdòmadi", ovvero "Sulle immagini", espone le molte e varie virtù e poteri del numero sette, detto in greco "hebdomás".

Questo numero — Varrone dice — forma in cielo i due s ettentrioni, maggiore e minore, nonché le vergilie, dette 'Pleiadi' dai Greci.

Il numero settte forma inoltre le stelle che alcuni chiamano 'erranti', Publio Nigidio 'vagabonde'».

Varrone dice poi che sette sono anche i cerchi nel cielo intorno alla lunghezza dell'asse.

Di essi i due più piccoli che toccano le estremità dell'asse dice che si chiamano «poli» ma per la loro piccolezza non sono compresi nella sfera cosiddetta «armillare».

Neanche allo zodiaco è estraneo il numero sette: si ha il solstizio estivo nel settimo segno a partire dall'invernale, e si ha il solstizio invernale nel settimo a partire dall'estivo; ancora sette segni separano equinozio da equinozio.

Sette poi sono anche i giorni — nota sempre Varrone — durante i quali gli alcioni fanno il nido sull'acqua nella stagione invernale.

Varrone scrive inoltre che il corso della luna si compie in quattro volte sette giorni interi.

Infatti al ventottesimo giorno la luna ritorna nel medesimo punto da cui è partita, e come fonte di questa teoria allega Aristide di Samo.

A questo proposito fa osservare non solo che sono quattro volte sette, cioè ventotto, i giorni del ciclo lunare, ma che il numero sette se, partito dall'uno, somma tutti i numeri che percorre nella sua progressione verso se stesso, e infine aggiunge se stesso, fa il totale di ventotto, quanti sono i giorni del ciclo lunare.

Dice poi che la virtù di questo numero raggiunge e riguarda anche la nascita umana.

Il seme genitale, una volta immesso nell'utero della donna, nei primi sette giorni s'agglomera e si coagula e diventa idoneo a ricevere figura.

Poi nella quarta settimana, prendono forma ciò che è destinato a essere il sesso maschile, la testa, la spina dorsale; e di norma al compimento della settima settimana, cioè al quarantanovesimo giorno, l'intera persona nell'utero è compiuta.

Varrone riferisce un'altra virtù constatata in questo numero.

Prima del settimo mese non può nascere felicemente e secondo natura né un maschio né una femmina, e chi è dentro l'utero nei termini regolari nasce 273 giorni dopo il concepimento, all'inizio della quarantesima settimana.

Anche i momenti pericolosi per la vita e i beni degli uomini («climaterici» nel linguaggio dei Caldei), egli afferma che i più gravi càpitano ogni sette anni.

Oltre a ciò, dice che la misura massima nella crescita del corpo umano è di sette piedi, e ciò riteniamo che sia più esatto della leggenda accolta da quel raccontatore di favole che è Erodoto, nel primo libro delle Storie: che il corpo disseppellito di Oreste risultò lungo sette cùbiti, vale a dire dodici piedi e un quarto.

A meno che, come pensava Omero, i corpi degli uomini antichi siano stati di proporzioni gigantesche e ora, col mondo, per così dire, in fase ormai di senescenza, uomini e cose rimpiccioliscano. [12] Anche i denti — afferma - spuntano nei primi sette mesi, e sette per ciascuna delle due arcate; cadono a sette anni, e i molari nascono generalmente quando gli anni sono due volte sette. [13]

Anche le vene degli uomini, o meglio le arterie, egli osserva, secondo i medici musicisti sono ritmate dal numero sette: essi parlano di «accordo di quarta», che si realizza nel rapporto di quattro a tre. [14] Varrone ritiene che anche le fasi acute delle malattie si sviluppino con maggiore gravità nei giorni determinati dal numero sette: e particolarmente risultano «critici», come dicono i medici, i giorni che compiono la prima settimana, la seconda e la terza. [15] A sottolineare la virtù e i poteri di tale numero egli cita anche il fatto che chi ha deciso di morire d'inedia arriva a morire proprio il settimo giorno.

Questo ha scritto Varrone con molta accuratezza sul numero sette.

Però, nel medesimo luogo, egli accumula anche delle osservazioni insignificanti.

Per esempio, che sono sette le meraviglie del mondo, sette gli antichi sapienti, sette i giri di pista tradizionali nei giochi del circo, sette i duci scelti per l'assedio di Tebe.

Aggiunge poi che anche lui personalmente era entrato nel dodicesimo settennio di vita e fino a quel giorno aveva scritto settanta volte sette libri: un bel numero dei quali, con la proscrizione subita e il saccheggio delle sue biblioteche, non erano più accessibili.


Gustosa interpretazione della parola "persona" e origine di questo termine secondo Gavio Basso.

Gustosa davvero, e dotta, l'interpretazione della parola persona «maschera da teatro», data da Gavio Basso nei libri da lui composti "Sull'origine dei nomi".

Gavio Basso congettura che la parola "persona" derivi dal verbo, "per-sonare", «risuonare».

Gavio Basso dice:

Testa e volto, coperti da ogni lato dall'involucro della maschera e accessibili solo per l'unica via — non instabile né dispersiva — che consente l'emissione della voce, raccolgono e costringono la voce dirigendola verso un unico sbocco e così rendono il suono più squillante e armonioso.

Quell'indumento del volto, dunque, fa diventare la voce chiara e risonante: perciò è detto persona, con allungamento della vocale o provocato dalla forma della parola».


Incredibile storia di un delfino innamorato d'un ragazzo.

Delfini lascivi e innamorati se ne incontrano non solo nelle vecchie storie ma anche in testimonianze recenti.

Sia al tempo dell'imperatore Ottaviano (Cesare Agosto) nel mare di Pozzuoli, come racconta Apione, sia qualche secolo prima vicino a Naupatto, come riferisce Teofrasto, si ebbe documentata notizia di delfini in preda a violento amore.

E non si trattava di amore per i loro simili.

Essi ardevano di passione straordinaria e umana per ragazzi di belle forme che avevano avuto modo di ammirare sulle barche o sulla battigia del mare.

Cito qui il testo dell'erudito Apione, dal quinto libro delle sue "Cose d'Egitto", in cui egli riferisce di un delfino innamorato e di un ragazzo non riluttante.

La loro intimità, i giochi, il delfino che fa da cavalcatura al ragazzo.

Di tutto ciò Apione adduce la testimonianza oculare, sua personale e di molti altri.

«Io poi ho visto di persona, nei paraggi di Dicearchìa, un delfino morbosamente affezionato a un ragazzo di nome Giacinto.

Al richiamo di lui agitava la coda e dava ali al suo spirito, ripiegava in dentro le pinne guardandosi così dal pungere minimamente il corpicino amato, e lo portava a spasso, a guisa di cavallo, fino a distanza di duecento stadi.

Roma e l'Italia intera affluivano allo spettacolo di un pesce suddito d'Afrodite».

Apione aggiunge poi un fatto non meno straordinario.

«In seguito questo medesimo ragazzo amato dal delfino s'ammalò e morì.

 L'innamorato seguitava a giungere a nuoto alla solita spiaggia ma non c'era da nessuna parte il ragazzo che soleva aspettare il suo arrivo sull'orlo dell'acqua: e la nostalgia lo distrusse; e morì.

Giacque sul lido, fu trovato da gente che sapeva.

Lo seppellirono nella tomba del suo ragazzo».


Chi fu il primo a distribuire pubblicamente libri in lettura.

Quanti erano i libri a disposizione del pubblico nelle "biblioteche" di Atene prima del disastro persiano.

Fu il tiranno Pisistrato, si dice, il primo a organizzare in Atene la distribuzione pubblica, per la lettura, di libri attinenti alle arti liberali.

Successivamente gli Ateniesi stessi provvidero ad aumentarli con molto impegno e molta cura.

Ma poi Serse s'impadronì della città di Atene, la bruciò risparmiando solo la rocca, e tutta quella massa di libri la portò via e la trasferì in Persia.

Molto tempo dopo il re Seleuco, soprannominato Nicanore, fece riportare ad Atene tutti quanti quei libri.

In seguito un forte numero di libri fu acquistato o prodotto in Egitto dai re Tolomei: circa 700.000 volumi.

Ma tutti finirono incendiati durante la prima guerra di Alessandria, nel saccheggio della città.

Non volontariamente né a bella posta ma per un fatto accidentale, a opera delle milizie ausiliarie.

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