Grice e Caracciolo – il colloquio –
filosofia italiana – Luigi Speranza (San Pietro di Morubio). Filosofo
italiano. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and
stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living
philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to
translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have
concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino
verso il linguaggio: il dire originario” –“.
Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ –
my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!”
cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della
convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the
otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice
by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or
paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con
il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno
dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio,
“Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi,
Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione
crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith
e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e
importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla
dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure
mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra
pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo
svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce
(Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero
nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio",
Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi
filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e
come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione
ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica,
Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo
dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il
nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza
del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della
religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione
antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della
trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri
del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die
Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg
Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und
einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La
parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e
tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e
metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà
sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema.
Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della
povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e
il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino
verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest
living philosopher”. Martin Heidegger In
cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine:
222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio.
Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto
l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo
nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma
ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma
ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro
parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il
parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per
natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e
dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende
affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella
del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo
quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla,
è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa
significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve
cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è
pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta
per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa
della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la
soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita
piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo”
colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che
cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già
detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce
in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di
Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò
che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che
grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e
troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il
passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama”
la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel
senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di
cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra
breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è
l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della
neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che
si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li
porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali
alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e
i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose
trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e
trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e
terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi
lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro
essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel
mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro
durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il
mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i
termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la
loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse
generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro
di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo
stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano,
per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama
i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose
condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta
in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla
nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso
dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta
dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”,
il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo
molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è
l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza
l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta
della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si
oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena
entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo
meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’
stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante
non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”,
questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che
questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la
religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero
essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento:
come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente,
però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli
enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e
rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi
vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda
lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose
quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose
si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è
sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che
non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco:
esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le
cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza.
Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa
ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la
loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo 3 potrebbe
essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da
alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il
mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla
nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le
cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure
però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà
che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente,
compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si
costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione
della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla
quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità
della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che
differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser
mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un
verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione
posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo
sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una
relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero
presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è
comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento
negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa
che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga
come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto
misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio
di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta
generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel
nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la
dif-ferenza. A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente
a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà
ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De
Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo
chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale
soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni
possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella
“quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente)
portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel
modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono
della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del
linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di
umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante”
significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui
è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e
il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti
quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per
Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto
dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a
se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del
linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del
linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in
quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare
dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”,
solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete,
i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare
dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo
ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo
farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare
mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più
elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il
parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento
è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione
che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo
suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la
condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come
“differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo
esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a
“difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in
francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando
la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è esattamente
lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a, è uguale,
non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è esattamente
questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla parola di
essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere qualcosa,
lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure, dal segno
di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che questa
barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella che
compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal
significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il
trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né
nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non
compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè
perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla
qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e
mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro,
l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto
del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono
minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto
conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino
verso il linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo
determina, non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare
l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente
di volta in volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che
l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così
notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza
improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È
niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa,
chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il
quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla
semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati
in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado
dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili,
perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio
è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può accadere
certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non
avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa
ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a
parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e
tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una
riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio
necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende
sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare
non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno
scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente
oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua
costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene:
si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica.
Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non
portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la
presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e
alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di
fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di
controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel
prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che
qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello
che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle
prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo
non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in
ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice,
ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel
linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le
cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione
perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in
Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette,
mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione
esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico
esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non
esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di
porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per
Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non
necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo,
sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè
la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che
l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo.
Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano,
dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito
dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non
averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi
interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio
“che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso
utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è
sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare
autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che
sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita
a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto
dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose
molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante
perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le
cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere,
lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger. 7 20
maggio 2015 Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da
qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che
viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici)
giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale
super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona
come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti
la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice
strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica
e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia
di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o
sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia
Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte,
meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e
splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno
giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito
di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio,
questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è
mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della
tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido
il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le
parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario,
lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa
è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel
senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel
cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere
quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità
cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato
all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica
ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se
la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno
sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il
suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo
dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma
sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose
perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che
se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla.
Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che
riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti
appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das
Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato
diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del
discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che
segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo
“così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non
indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve
immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola
e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si
esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il
poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del
rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola
a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto
diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe
allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”,
l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma
dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in
futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia”
significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente
dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha
evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci
incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come
8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli
abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la
parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola
“Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice
“Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa”
“rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco
“sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un
Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al
suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui
rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si
sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa
ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte
a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che
io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge
no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato
destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a
quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che
solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella
cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta
rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è
propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come
una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione,
seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa,
questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola
dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la
parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in
modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte
del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia
bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre
commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole
che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo
quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua
fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita
delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando
di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già,
da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto
consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui
meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la
poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del
poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge
però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora
gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di
lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza
del 9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda
primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli
animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei
così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una
domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve
esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già
non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci
deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui,
come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la
parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò
che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita
ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra
parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in
quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa
(qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del
rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io
che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è
un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il
passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo,
il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al
riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si
occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle
scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός”
“attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella
scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al
contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo
fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche,
che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus
degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà
di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la
vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”.
L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono
trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche
Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza
e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino.
Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo
e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete
che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel
progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a
questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra
nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo
riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la poesia di Stefan George
perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o
sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia
Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare
consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno
giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che
la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta
chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della
parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe
garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla
parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale
dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche
cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento: sarebbe
il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del
significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro
elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche
cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza.
“Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa,
prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa
trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. //
Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra
il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere
e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e
sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più
sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza
pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel
rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non
“si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal
linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta
parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in
questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché
appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza
del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene
così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé,
con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale
comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza
del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la
parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel
rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri
termini sta dicendo che il linguaggio non dice se 11 stesso, si trattiene
dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse
parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si
trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che
l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e
cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il
linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla
di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda
nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è
proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla
continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con
Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è
qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi,
ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a
questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che
è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così
suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il
rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché
è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la
parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la
questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come
diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra
i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi
di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa
all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è
il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo
anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile
essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto
ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma
porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e
tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così
dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la
parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel
momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo.
Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in
rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa
come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la
parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice
che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate
bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire
che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la
parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la
parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e
questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della
metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo
spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il
senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle
più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente –
trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”,
l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta
questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione
ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo,
trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui
qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a
qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti
ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è
in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo
ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza,
potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe,
dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla
metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo
elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato
da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo
punto non c’è la possibilità di bloccare un significato 12 ovviamente, ma
questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio
continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere
quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo,
di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il
linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la metafisica
illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per cui non
hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita dalla
metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla metafisica,
e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per
la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se
c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica
la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si
trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi
non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola
che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e
fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un tesoro non
conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il pensiero?
Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la parola
autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha essere. Il
nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone un pensiero
così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle parole, esse sono.
Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi, basta solo per
far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di “cose” stampate,
certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la parola grazie alla
quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in grado né di captarla
né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la parola? dove il dire?
Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande
aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece noi abbiamo cognizione
delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola allora la cosa è. Ma
qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è” è anch’esso una cosa
sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi non troviamo mai
questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la situazione è la stessa
che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose che sono più di quanto
non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non è, nel senso
dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè come ente,
qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come lo è per
esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente un’altra
cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare
frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del
linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per
sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla
che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è”
nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti)
l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito
di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che
“la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la
parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno
l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il
rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il
dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente,
qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il
pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato,
pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in
modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco
può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si
offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso
incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la
parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non
solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella
sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello
che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es
ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt
Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è
qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che
dà la parola? 13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica
del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non
è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel
“es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò
stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in
molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren”
“ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra
riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola”
ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war,
soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là
dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state
fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti
al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere
pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che
noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che
propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la
determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse
il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la
rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella
parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che
non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma
comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma
sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è
trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio
della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte
insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la
parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale
incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a
dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si
sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i
versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone
cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che
non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola
come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione
che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità
tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che
l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice
della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre
raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo
solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto
nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché
la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica
nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo
(in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre
esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in
grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a
crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché
non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto
parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di
interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”,
sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è
primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad
essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina
il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e
nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia
dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della
scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente
poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere
ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco
l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande):
(Ripete di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna
cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una
frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa,
farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la
parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola
per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per
essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono
conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha
detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono
conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde
alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di
Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti
per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si
accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso
sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che
parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la
risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta
giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita
nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio
come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole
tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi
sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume
così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così
facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i
“nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi,
perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo
modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma
anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che
rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole
che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i
nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli
deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso
potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme,
che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle
cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che
poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a
quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano
la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto
quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si
trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello
deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No,
altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che
manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della
parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente:
(cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo
prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola
presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa
sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che
consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta
dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce
la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente,
quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo
brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca,
perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro
che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua,
che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo
al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio
finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è
un’altra parola, non è qualcosa che da fuori 15 dovrebbe garantire che
sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la
cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai
giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la
vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto
di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola,
alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene
concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene
concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In
cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla
dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio
quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come
parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima,
le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das
Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario,
velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò
che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè
esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo
abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul
linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come
“energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”,
espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di
tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa
fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare
esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il
linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso
metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se
volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo
pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa
parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in
questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare
rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a
quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola,
mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose,
l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti,
presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che
sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che
queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri”
(questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in
un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come
sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è
precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e
in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è
detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza
fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e
può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco?
Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già
costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far
che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio
come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die
Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti
i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini
soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in
questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare
che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne
riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine
volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a
ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò
(ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per
Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di
parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di
noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto,
che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è
presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario
il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra
una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo
essere presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è
così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il
quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che
sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere
presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di
quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e
troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi
di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è
necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non
obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi
tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di
conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni
mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente
ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio
la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più
remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera
“Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di
tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con
una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo
“Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è
proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua
vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se
stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come
sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è
il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per
mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il
linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di
mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di
essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che
sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare
il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene
dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del
linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla
chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo
punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli
che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a
un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il
linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di
noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto
che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio
bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso
secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia
rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale
siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a
portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati
ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto,
rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il
logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è
ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno
della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa,
e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere
cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un
dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος,
nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste
cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger
quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui
direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio
come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la
filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la
differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono
considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni,
possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo
testo di Martin Heidegger. The uttered speech of private life is fluctuating
and variable. In every period it varies according to the age, class,
education, and habits of the speaker. His social experience, traditions
and general background, his ordinary tastes and pursuits, his
intellectual and moral cultivation are all reflected in each man’s
conversation. These factors determine and modify a man’s mode of speech
in innumerable ways. They may affect his pronunciation, the speed of his
utterance, his choice of vocabulary, the shade of meaning he attaches to
particular words, or turns of phrase, the character of such similes and
metaphors as occur in his speech, his word order and the structure of his
sentences. But the individual speaker is also affected by the
character of those to whom he speaks. He adjusts himself in a hundred
subtle ways to the age, status, and mental attitude of the company in
which he finds himself. His own state of mind, and the mode of its
expression are unconsciously modified by and attuned to the varying
degree of intimacy, agreement, and community of experience in which he
may stand with his companions of the moment. Thus an
accomplished man of the world, in reality, speaks not one but many
slightly different idioms, and passes easily and instinc- tively, often
perhaps unknown to himself, from one to another, according to the
exigence of circumstances. The man who does not possess, to some extent
at least, this power of adjustment, is of necessity a stranger in eveuy
company but that of one particular type. No man who is not a fool will
consider it proper to address a bevy of Bishops in precisely the same way
as would be perfectly natural and suitable among a party of fox-hunting
country gentlemen. A learned man, accustomed to choose his own
topics of conversation and dilate upon them at leisure in his College
common room where he can count upon the civil forbearance of other people
like himself, would be thought a tedious bore, and a dull one at that, if
he carried his pompous verbiage into the Officers’ Mess of a smart
regiment. 'A meere scholler is but a woefull creature says Sir Edmund
Verney, in a letter in which he discusses a proposal that his son should
be sent to Leyden, and observes concerning this— ‘ 'tis too private for a
youth of his yeares that must see company at convenient times, and studdy
men as well as bookes, or else his bearing may make him rather ridiculous
then esteemed ^ There is naturally a large body of colloquial
expression which is common to all classes, scholars, sportsmen, officers,
clerics, and the rest, but each class and interest has its own special
way of expressing itself, which is more or less foreign to those outside
it. The average colloquial speech of any age is at best a compromise
between a variety of different jargons, each evolved in and current among
the members of a particular section of the community, and each, within
certain social limits, affects and is affected by the others. Most men belong
by their ciicumstanccs or inclinations to several speech-communities, and
have little difficulty in maintaining Ihhmsclvcs creditably in all of
these. The wider the social opportunities and experience of the
individual, and the keener his lin- guistic instinct, the more readily
does he adapt himself to the company in which he finds himself, and the
more easily docs he fall into line with its accepted traditions of speech
and bc aiing. But if so much variety in the details of
colloquial usage exists in a single age, with such well-marked
differences between the conventions of each, how much greater will be the
gulf which separates the types of familiar conversation in different
ages. Do we realize that if we could, by the workings of some Time
Machine, be suddenly transported back into the seventeenth century, most
of us would find it extremely difficult to carry on, even among the kind
of people most nearly corresponding with those with whom we are
habitually associated in our present age, the simplest kind of decent
social intercourse? Even if the pronunciation of the sixteenth century
offered no difficulty, almost every other element which goes to make up
the medium of communication with our fellows would do so. We
should not know how to greet or take leave of those we met, how to
express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay a
compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We should be
at a loss how to begin and end the simplest note, whether to an intimate
friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold a footman,
commend a child, express in appropriate terms admiration for a woman’s
beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate every
moment how to address the person we were talking to, and should be
embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as — look here,
old man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon
; I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most
amusing ; you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and
meaningless expressions with which most men fill out their sentences. Our
innocent impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so
on, would be nipped in the bud for want of words to express them. How
should we say, on the spur of the moment — what a pretty girl 1 ; what an
amusing play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ;
that's a perfectly rotten book ; I hate the way she dresses ; look here,
Sir, you had better lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if
I'll do that ; I’m very much obliged to you. I'm sure ? It is
very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these and a
thousand others when we read them in the pages of Congreve and his
contemporaries, but it is equally certain that the right expressions
would not rise naturally to our lips as we required them, were we
suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk. The
fact is that we should feel thoroughly at sea in such company, and should
soon discover that we had to learn a new language of polite society. In
illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to be
content, either with the account of conversations given in letters, or
with such other passages from letters of the period as appear to be
nearest to the speech of everyday life. The following
passages are from the Shillingford Letters, to which reference is
repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are extracted from
the accounts given by the stout and genial Mayor of Exeter, in letters to
his friends, of his conversations with the Chancellor during his visit to
London. Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer
but suddenly changes to the first person— in describing the actual
meeting, again returning for a moment to the impersonal phrase.
Jolm Shillingford* ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447)
tberafter the mayer came to West- minster sone apon ix. atte belle, and
ther mette w* my lorde Chanceller atte brode dore a litell fro the steire
fote comyng fro the Sterrechamber, y yn the courte and by the dore
knellyng and salutyng hym yn the moste godely wyse that y cowde and
recommended yn to his gode and gracious lordship my feloship and all the
comminalte, his awne peeple and bedmen of the Cite of Exceter. He seyde
to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the tyme “Right well come
Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by the honde, and so went
forth to his barge and w* hym grete presse, lordis and other, &c. and
yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w* wham he was at
right grete pryvy communication. And therfor y, mayer, drowe me apart,
and mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther toke my leve of
hym, seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon youre gode
lordship and youre better leyser at another tyme He seyde to me ayen,
“Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w* the Chief
Justyse and what that ever he will y woll be all redy”. And thus departed.
A little later : — * Nerthelez y awayted my tyme and put me yn
presse and went right to my lorde Chaunccller and seide, “My lorde y am
come at your coinmaundc- ment, but y se youre grete bysynesse is suchc
that ye may not attencle ”, He seide “Noo, by his trauthe and that y
myght right well se”. Y scide “Yee, and that y was sory and hadde pyty of
his grete vexacion”. He seide “ Mayer, y moste to morun ride by tyme to
the Kyng, and come ayen this wyke : ye most awayte apon my comyng, and
then y wol speke the justise and attende for yow ” &c. — p. 7.
* He seyde “ Come the morun Monedey ” (the Chancellor was speaking
on Sunday) . . . “the love of God ” Y seyde the tyme was to shorte, and
prayed hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of t)he grete malice and venym
that they have spatte to me yn theire answeris as hit appercth yn a copy
that y sende to yow of. My lorde seide, “ Alagge alagge, why wolde they
do so ? y woll sey right sbarpely to ham therfor and y nogh
Margery Brews* The following brief extracts from the letters
of Margery Brews, the affianced wife of Jolm Fasten (junior) are like a
ray of sunlight in the dreary wilderness of business and litigation,
which are the chief subjects of correspondence between the Pa&tons.
Even this Iove*letter is not wholly free from the taint, but the girl's
gentle affection for her lover is the prevailing note* * Yf
that ye cowde be content with that good and my por persone I wold be the
meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke not your selffe soe
satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I hafe ujtidyrstonde be
youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that ye take no such labur
iippon yowe, as to come more for that matter, but let it passe, and never
more to be spokyn of, as I may be your trewe lover and bedewoman during
my lyfe .’ — Pas ton Letters^ hi, A few years later Mrs. Fasten writes to her
'trewe and Iovyng volentyne ' : ' My mother in lawe thynketh longe
she here no word from you. She is in goode heaie, blissed be God, and al
yowr babees also. I marvel I here no word from you, weche greveth me ful
evele. I sent you a letter be Basiour sone of Norwiche, wher of I have no
word.’ To this the young wife adds the touching postscript : — ' Sir I pray
yow if ye tary longe at London that it wii plese to sende for me, for I
thynke longe sen I lay in your armes.’ — Paston Letie?-Sj iii, p. 293
(1482). Sir Thomas More. No figure in the eaily part
of Henry VIII’s reign is more distin- guished and at the same time more
engaging than that of Sir Thomas More* A few typical records of his
conversation, as preserved by his devoted biographer and son-in-law
Roper, are chosen to illustrate the English of this time. The context is
given so that the extracts may appear in Roper's own setting.
'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his
servaunte) liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^
liberally to rayle against his ould Master, waxed so discontented
therwith, that he hastily came to him, and tould him what he had hard:
"and were I Sir” (quoth he) " in such favour and authoritie
with my Prince as you are, such men surely should not be suffered so
villanously and falsly to misreport and slander me. Wherefore 1 would
wish you to call them before you, and to there shame, for there lewde
malice to punnish them.” Who smilinge upon him sayde, " Watter
Baylie, would you have me punnish them by whome 1 reccave more benefit!
then by you all that be my frendes ? Let them a Gods name speakc as
lewdly as they list of me, and shoote never soe many airowcs at me, so
long as they do not hitt me, what am I the worse? But if the should once
hitt me, then would it a little trouble me : howbeit, I trust, by Gods
helpe, (here shall none of them all be able to touch me. I have more
cause, Water Bayly (I assure thee) to pittie them, then to be angrie with
them.” Such frutfiill communication had he often tymes with his familiar
frendes. Soe on a tyme walking a long the Thames syde with me at Chelsey,
in talkinge of other thinges he sayd to me, " Now, would to God,
Sonne Roger, upon condition three things are well estab- lished in
Christendome, I were put in a sacke, and here presently cast into the
Thames.” " What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should
move you $0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they
be” quoth he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth
I, “ I faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where
as the most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at
universal peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this
present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well
settled in an uniformity. The third, that where the Kinges matter of his
marriage is now come into question, it were to the glory of God and
quietnesse of all parties brought to a good conclusion : ’’ where by, as
I could gather, he judged, that otherwise it would be a disturbance to a
great part of Christ endome/ ‘ When Sir Thomas Moore had continued
a good while in the Tower, my Ladye his wife obtayned license to see him,
who at her first comminge like a simple woman, and somewhat worldlie too,
with this manner of salutations bluntly saluted him, ‘‘What the good
yeai'e, Moore” quoth shee, I marvell that you, that have beene
allwayes hitherimto taken for soe wise a man, will now soe playe the
foole to lye here in this close filthie prison, and be content to be
shutt upp amonge myse and rattes, when you might be abroad at your
libertie, and with the favour and good will both of the King and his
Councell, if you would but doe as all the Bushopps and best learned of
this Realme have done. And seeing you have at Chelsey a right fayre
house, your librarie, your books, your gallerie, your garden, your
orchards, and all other necessaries soe handsomely about you, where you
might, in the companie of me your wife, your children, and houshould be
merrie, I muse what a Gods name you meane here still thus fondlye to
tarry.’' After he had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice,
tell me, tell me one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not
this house as nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her accustomed
fashion, not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie, Tille valle ”
“How say you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus, bone Deusy man,
will this geare never be left?” quoth shee. “Well then Alice, if it be
soe, it is verie well. For I see noe great cause whie I should soe much
joye of my gaie house, or of any thinge belonginge thereunto, when, if I
should but seaven yeares lye buried under ground, and then arise, and
come thither againe, I should not fayle to finde some Iherin that would
bidd me gett out of the doores, and tell me that weare none of myne. What
cause have I then to like such an house as would soe soone forgett his
master?” Soe her perswasions moved him but a little.* The last days
of this good man on earth, and some of his sayings just before his death,
are told with great simplicity by Roper. We cannot forbear to quote the
affecting passage which tells of Sir Thomas More’s last parting from his
daughter, the writer’s wife. ‘When Sir Tho. Moore came from
Westminster to the Towreward againe, his daughter my wife, desireous to
see her father, whome shee thought shee should never see in this world
after, and alsoe to have his finall blessinge, gave attendaunce aboutes
the Towre wharfe, where shee knewe he should passe by, eVe he could enter
into the Towre. There tarriinge for his coininge home, as soone as shee
sawe him, after his blessinges on her knees reverentlie receaved, shoe
hastinge towards, without consideration and care of her selfe, pressinge
in amongest the midst of the thronge and the Companie of the Guard, that
with Hollbards and Billes weare round about him, hastily ranne to him,
and then openlye in the sight of all them embraced and tooke him about
the necke, and kissed him, whoe well likeing her most daughterlye love
and affection towards him, gave her his fatherlie blessinge, and manye
goodlie words of comfort besides, from whome after shee was departed,
shee not satisfied with the former sight of her deare father, havinge
respecte neither to her self, nor to the presse of the people and
multitude that were about him, suddenlye turned backe againe, and rann to
him as before, tqoke him about the necke, and divers tymes togeather most
lovinglay kissed him, and at last with a full heavie harte was fayne to
departe from him; the behouldinge whereof was to manye of them that
were present thereat soe lamentablcj that it made them for very
sorrow to mourne and weepe.’ In his last letter to his ' dearely
beloved daughter, written with a Cole Sir Thomas More refers to this
incident :' And I never liked your manners better, then when you kissed
me last. For* I like when daughterlie Love, and deare Charitie hath noe
leasure to looke to worldlie Curtesie Next morning ‘ Sir
Thomas even, and the Utas of St. Peeter in the yeare of our Lord God,
earlie in the morninge, came to him Sir Thomas Pope, his singular trend,
on messedge from the Kinge and his Councell, that hee should before nyne
of the clocke in the same morninge suffer death, and that therefore
fourthwith he should prepare himselfe thereto. Pope sayth he, for
your good tydinges I most hartily thankyou. I have beene allwayes^
bounden much to the Kinges Highnes for the benehtts and honors which he hath
still from tyme to tyme most bounti- fully heaped upon mee, and yete more
bounden I ame to his Grace for putting me into this place, where I have
had convenient tyme and space to have remembraunce of my end, and soe
helpe me God most of all Pope, am I bound to his Highnes, that it pleased
him so shortlie to ridd me of the miseries of this wretched world. And
therefore will I not fayle most earnestlye to praye for his Grace both
here, and alsoe in another world, .And I beseech you, good Pope, to be a meane
unto his Highnes, that my daughter Margarette may be present at my
buriall.’’ “ The King is well contented allreadie*' (quoth M^’ Pope)
‘‘that your Wife, Children and other frendes shall have free libertie to
be present thereat “O how much be- hoiilden” then said Sir Thomas Moore
“am I to his Grace, that unto my poore buriall vouchsafeth to have so
gratious Consideration.*’ Wherewithal! Pope takeinge his leave of
him could not refrayne from weepinge, which Sir Tho. Moore perceavinge,
comforted him in this wise, “ Quiete yourselfe good M^ Pope, and be not
discomforted. For I trust that we shall once in heaven see each other
full merily, where we shall bee sure to live and love togeather in
joyfull blisse eternally.Wolsey. The Ij/e of Wolsey, by George
Cavendish, a faithful and devoted servant of the Cardinal, who was with
him on his death-bed, gives a wonderfully interesting picture of this
remarkable man, in affluence and in adversity, and records a number of
conversations which have a convincing air of verisimilitude. The following
specimens are taken from the Kelmscott Press edition of 1893, which
follows the spelling of the author's MS. in the British Museum.
‘ After ther departyng^ my lord came to the sayd howsse of Eston to
his lodgyng, where he had to supper with hyme dyvers of his frends of the
court. And syttyng at supper, in came to hyme Doctor Stephyns, the
secretary, late ambassitor unto Rome ; but to what entent he came I know
not ; howbeit my lord toke it that he came bothe to dissembell a
certeyn obedyence and love towards hyme, or ells to espie hys behaviour,
and to here his commynycacion at supper. Not withstandyng my lord bade
hyme well come, and commaundyd hyme to sytt down at the table to
supper; with whome my lord had thys commynycacion with hyme under
thys maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye be-welcome home owt
of Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he, I came home
allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn ever sence?
Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than have ye hunted
and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he, and so I have, I
thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have ye? quod my lord. I
have some syr quod he. And thus in huntyng, and in lyke disports, ,
passed they all ther commynycacion at supper. And after supper my lord
and he talked secretly together until it was mydnyght or they departed.’
Than all thyng beyng ordered as it is before reherced, my lord prepared
hyme to depart by water. ^ And before his departyng he com- maundyd Syr
William Gascoyne, his treasorer, to se these thyngs byfore remembred,
delyverd safely to the kyng at his repayer. That don, the seyd Syr
William seyd unto my lord. Syr I ame sorry for your grace, for I
understand ye shall goo strayt way to the tower. Ys this the good comfort
and councell, quod my lord, that ye can geve your mayster in adversitie?
Yt hathe byn allwayes your naturall inclynacion to be very light of
credytt, and mych more lighter in reporting of false newes, I wold ye
shold knowe, Syr William, and all other suche blasphemers, that it is
nothyng more false than that, for I never, thanks be to god, deserved by
no wayes to come there under any arrest, allthoughe it hathe pleased the
kyng to take my howse redy furnysshed for his pleasyr at this tyme. I
wold all the world knewe, and so I confesse to have no thyng, other
riches, honour, or dignyty, that hathe not growen of hyme and by hyme ;
therefore it is my verie dewtie to surrender the same to hyme agayn as
his very owen, with al my hart, or ells I ware and onkynd servaunt.
Therefore goo your wayes, and geve good attendaunce unto your charge,
that no thyng be embeselled.’ ‘And the next day we removed to Sheffeld Parke,
where therle of Shrews- bury lay within the loge, and all the way
thetherward the people cried and lamented, as they dyd in all places as
we rode byfore. And whan we came in to the parke of Sheffeld, nyghe to
the logge, my lord of Shrewesbury, with my lady his wyfe, a trayn of
gentillwomen, and all my lords gentilmen, and yomen,
standyng without the gatts of the logge to attend my lords commy ng,
to receyve hyme with myche honor ; whome therle embraced, sayeng these
words. My lord quod he, your grace is most hartely welcome unto me, and
glade to se you in my poore loge ; the whiche I have often desired ; and
myche more gladder if you had come after another sort. Ah, my gentill
lord of Shrewesbury quod my lord, I hartely thanke you ; and allthoughe I
have no cause to rejoyce, yet as a sorowe full hart may joye, I rejoyce
my chaunce, which is so good to come into the hands and custody of so
noble a persone, whose approved honor and wysdome hathe byn allwayes
right well knowen to all nobell estats. And Sir, howe soever my ongentill
accusers hathe used ther accusations agenst me, yet I assure you, and so
byfore your lordshipe and all the world do I protest, that my demeanor
and procedyngs hathe byn just and loyall towards my soverayn and liege lord
; of whose behaviour and doyngs your lordshipe hathe had good experyence
; and evyn accordyng to my trowthe and faythfulnes, so I bescche god
helpe me in this my calamytie. I dought nothyng of your Irouthe, quod
therle, tlierfore my lorde I beseche you be of good chere and feare not,
for I have receyved letters from the kyng of his owen hand in your favour
and entertaynyng the whiche you shall se. Sir, I ame nothyng sory but
that I have not wherwith worthely to receyve you, and to entertayn you accordyng
to your honour and my good wyll ; but suche as I have ye are most hartely
welcome therto, desiryng you to accept my good wyll accordyngly, for I
wol not receyve you as a prisoner, but as my good lord, and the kyngs
trewe faythfull subjecte ; and here is my wyfe come to salute you. Whome
my lord kyst barehedyd, and all hir gentilwomen ; and toke my lords
servaunts by the hands, as well gentilmen and yomen as other. Then these
two lords went arme in arme into the logge, conductyng my lord into a
fayer chamber at thend of a goodly gallery within a newe tower, and here
my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue between Wolsey
and his friends, just before his death : * Uppon Monday in
the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought viii of the clocke,
the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights burnyng uppon the
cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to his end. He
perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side, asked who was there.
Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to me. Very well Sir, if I
myght se your grace well. What is it of the clocke ? quod he to me.
Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the mornyng.
Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers times
eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the last,
it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal loose
your mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of this
world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs
to have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with
you. And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all
: for whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche better.
And even with these words he began to drawe his speche at lengthe and his
tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled hyme ;
than we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and sent for
the Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede and
mynestred unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and caused
also the gard to stand by, bothe to here hyme talk byfore his deathe, and
also to here wytnes of the same ; and incontinent the clocke strake viii,
at whiche tyme he gave uppe the gost, and thus departed he this present
lyfe.’Latimer. The Sermons of Bp. Latimer present good examples^ of
colloquial oratory, and the style is but little removed from the
colloquial style of the period. The following are from the Sermon of the
Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough. It
is no mete office for them. It is not semyng for their state. Thus came
up lordyng loiterers. Thus crept in vnprechinge prelates, and so haue
they longe continued. ‘ For how many vnlearned prelates haue we now
at this day ? And no maruel. For if ye plough men yat now be, were made
lordes they woulde cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of
theyr labour and fall to lordyng outright, and let the plough stand. And
then bothe ploughes nor walkyng nothyng shoulde be in the common weale
but honger. For euer sence the Prelates were made Loordes and nobles, the
ploughe standeth, there is no worke done, the people starue.
‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr
pre- lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and
with theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by
tne lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone .
. ^^‘But^iiowe for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I
coulde gesse what myghte be sayed for excusynge of them : They are so
troubeled wyth Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m
courte^ ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions,
burdened with ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that
maketh his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their
gaye manoures and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr
Lordeshyppes : that they canne not attende it. They are other wyse
occupyed, some in the kynges matters, some are ambassadoures, some of the
pryuie counsell, some to furnyslie the courte, some are Lordes of the
Parliamente, some are presidentes, and some comptroleres of myntes. Well,
well. Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr
callyng? Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the
myntes ? Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ?
Is this hys charge ? I woulde here aske one question : I would fayne
knowe who comp- trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he
comptrolleth the mynte ? If the Apostles mighte not ieaue the office of
preaching to be deacons, shall one Ieaue it for myntyng ? ’
Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the
hearers, and stirring them to laughter ’ in which are enumerated ' What
are the kindes of sporting, or mouing to laughter'. The subject is
illustrated by various ' pleasant ' stories, which if few of them would
now make us laugh, are at least couched in a very easy and colloquial
style and enlivened by scraps of actual conversation. The most
amusing element in the whole chapter is the attitude of the writer to the
subject, and the combination of seriousness and scurrility with which it
is handled. ' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane
that maketh us mery ... is the fondnes, the filthines, the deformitie,
and all such euill be- hauiour as we see to be in other? ... Now when we
would abashe a man for some words that he hath spoken, and can take none
aduauntage of his person, or making of his bodie, we either doubt him at
the first, and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els
we confute wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we
extenuate and diminish his doings by some pretie meanes, or els we cast
the like in his dish, and with some other devise, dash hym out of
countenance : or last of all, we laugh him to scorne out right, and
sometimes speake almost neuer a word, but only in continuaunce, shewe our
selues pleasaunt’. — ^p. 136. ‘ A frend of mine, and a good
fellowe, more honest then wealthie, yea and more pleasant then thriftie,
liauing need of a nagge for his iourney that he had in hande, and being
in the countrey, minded to go to Parlnaie faire in Lincolnshire, not
farre from the place where he then laie, and meeting by the way one of
his acquaintaunce, told him his arrande, and asked him how horses went at
the Faire. The other aunswered merely and saidc, some trot sir, and some
amble, as farre as I can see. If their paces be altered, I praye you tell
me at our next meeting. And so rid away as fast as his horse could cary
him, without saying any word more, whereat he then being alone, fel a
laughing hartely to him self, and looked after a good while, vntil the
other was out of sight.’ — p. 140. 'A Gentleman hauing heard a
Sermon at Panics, and being come home, was asked what the preacher said.
The Gentleman answered he would first heare what his man could saie, who
then waited vpon him, with his hatte and cloake, and calling his man to
him, sayd, nowe sir, whate haue you brought from the Sermon. Forsothe
good Maister, sayd the seruaunt your cloake and your hatte- A honest true
dealing seruaunt out of doubt, piaine as a packsadclle, bauing a better
soule to God, though his witte was simple, then those haue, that vnder
the colour of hearing, giuc them selues to priuie picking, and so bring
other mens purses home in their bosomes, in the steade of other mens
Sermons.’— pp. 14X-2. These two stories are intended to illustrate
the point that ' We shall delite the hearers, when they looke for one
ansvvere, and we make them a cleane contrary, as though we would not seeme
to vnderstand what they would haue ^Churlish aunsweres like
the hearers sometimes very well. When the father was cast in judgement,
the Sonne seeing him weepe : why weepe you Father? (quoth he) To whom his
Father aunswered. ^What? Shall I sing I pray thee seeing by Lawe I am
condemned to "dye. Socrates likewise bieing^ mooued of his wife,
because he should dye an innocent and guiltlesse in the Law: Why for
shame woman (quoth he) wilt thou haue me to dye giltic and deseruing.
When one had falne into a ditch, an other pitying his fall, asked him and
saied : Alas how got you into that pit ? Why Gods mother, quoth the
other, doest thou aske me how I got in, nay tell me rather in the
mischiefe, how I shall get out.’ The nearest approach to the
colloquial style in Bacon is to be found in the Apophthegms, in which are
scraps of conversation. A few may be quoted, if only on account of the
author. ‘ Master Mason of Trinity College, sent his pupil to an
other of the fellows, to borrow a book of him, who told him, I am loth to
lend my books out of my chamber, but if it please thy tutor to come and
read upon it in my chamber, he shall as long as he will.” It was winter,
and some days after the same fellow sent to M^‘ Mason to borrow his
bellows ; but M^’ Mason said to his pupil, ‘‘ I am loth to lend my
bellows out of my chamber, but if thy tutor would come and blow the fire
in my chamber, he shall as long as he will.” —ApophtJi. There were
fishermen drawing the river at Chelsea: M^* Bacon came thither by chance
in the afternoon, and offered to buy their draught : they were willing.
He askcvl them what they would take ? They asked thirty shillings. M^
Bacon offered them ten. They refused it. Why then said M^* Bacon, I will
be only a looker on. They drew and catched nothing. Saith M^ Bacon, Are
not you mad fellows now, that might have had an angel in your purse, to
have made merry withal, and to have warmed you thoroughly, and now you
must go home with nothing. Ay but, saith the fishermen, we had hope then
to make a better gain of it. Saith M^’ Bacon, ‘‘ Well my master, then I
will tell you, hope is a good breakfast, but it is a bad supper.” — p,
136. Otway^s Comedies have all the coarseness and raciness of
dialogue of the latter half of the seventeenth century, and a pretty vein
of genuine comicality. They are packed with the familiar slang and
colloquialisms of the period. A few passages from Friendship in Fashion
illustrate at once the speech and the manners of the day.
Enter Lady SQUEAMISH at the Door, Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady
Cousin ! —Faith Madam you see I am at it. Malagene, The
Devil’s wit, I think ; we could no sooner talk of wh — but she must come
in, with a pox to her. Madam, your Ladyship’s most humble Servant.
Ldy Squ. Oh, odious ! insufferable ! who would have thought Cousin,
you would have serv’d me so— fough, how he stinks of wine, I can smell
him hither. — How have you the Patience to hear the Noise of Fiddles,
and spend your time in nasty drinking ? Sir Noble, Hum ! ’tis
a good Creature : Lovely Lady, thou shalt take thy Glass. Ldy
Sgu, Uh gud ; murder 1 I had rather you had offered me a toad. B
b Sir N, Then Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s
Pelion upon Ossa. [Drinks and breaks the Ldy Squ, Lord, dear
Malagene what ’s that ? MaL A certain Place Madam, in Greece, much
talk’t of by the Ancients ; the noble Gentleman is well read.
Ldy Squ. 'Nay he’s an ingenious Person I’ll assure you. Sir
N. Now Lady bright, I am wholly thy Slave: Give me thy Hand, I’ll go
straight and begin my Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign me
the private Honour of thy Lip. Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I
hate you now ! for shame be not so rude : I swear you are quite spoiled.
Get you gone you good-natur’d Toad you. [Exetmti\ Malagene,
. . . I’m a very good Mimick ; I can act Punchinello, Scara- mouchir,
Harlequin, Prince Prettyman or anything. 1 can act the rumbling of a
Wheel -barrow. Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow !
MaL Ay, the rumbling of a Wheel-barrow, so I say — Nay more than
that, I can act a Sow and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of
Mutton a roasting : I can act a fly in a Honey-pot, Truman,
That indeed must be the Effect of very curious Observation. MaL No,
hang it, I never make it my business to observe anything, that is
Mechanicke. But all this I do, you shall see me if you will : But here
comes her Ladyship and Sir Noble. Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman,
rescue me. Nay Sir Noble for Heav’n’s sake. Sir N, I tell
thee Lady, I must embrace thee : Sir, do you know me ! I am Sir Noble
Clumsey : I am a Rogue of an Estate, and I live— Do you want any money ?
I have fifty pounds. VaL Nay good Sir Noble, none of your
Generosity we beseech you. The Lady, the Lady, Sir Noble. Sir
N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take ft, there it is. — Hang
Money, my Father was an Alderman. MaL ’Tis pity good Guineas should
be spoil’d, Sir Noble, by your leave. [Picks up the Guineasl\
Sir N. But, Sir, you will not keep my Money ? MaL Oh, hang
Money, Sir, your Father was an Alderman. Sir N, Well, get thee gone
for an Arch-Wag — I do but sham all this while i — ^but by Dad he ’s pure
Company. Lady, once more I say be civil, and come kiss me. VaL Well
done Sir Noble, to her, never spare. Ldy Squ, I may be even with
you tho for all this, Valentine : Nay dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll
swear he’ll put me into Fits. Sir N, No, but let me salute the Hem
of thy Garment, Wilt thou marry me? [LTneels.] MaL Faith
Madam do, let me make the Match. Ldy Squ, Let me die Malagene, you
are a strange Man, and Fll swear have a great deal of Wit. Lord, why
don’t you write ? MaL Write? I thank your Ladyship for that with
all my Heart. No I have a Finger in a Lampoon or so sometimes, that ’s
all. Truman, But he can act. Ldy Squ, I’ll swear, and
so he does better than any one upon our Theatres; I have seen him. Oh the
English Comedians are nothing, not comparable to the French or Italian:
Besides we want Poets. SirN, Poets! Why I am a Poet; I have written
three Acts of a Play, and have nam’d it already. ’Tis to be a
Tragedy. Ldy Squ. Oh Cousin, if you undertake to write a Tragedy,
take my Counsel : Be sure to say soft melting tender things in it that may
be moving, and make your Lady’s Characters virtuous whatever you
do. Sir N. Moving I Why, I can never read it myself but it makes me
laugh : well, ’tis the pretty’st Plot, and so full of Waggery.
Ldy Sgti, Oh ridiculous I Mai But Knight, the Title ; Knight,
the Title. Sir N, Why let me see ; ’tis to be called The Merry
Conceits of Love ; or the Life and Death of the Emperor Charles the
Fifth, with the Humours of his Dog Boabdillo. Mai PI a, ha,
ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t you let us see you act a little
something of Harlequin? I’ll swear you do it so naturally, it makes me
think Fm at the Louvre or Whitehall all the time. [Mai acis.] O Lord,
don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make me burst. Was there ever
any- thing so pleasant ? Trwn, Was ever anything so affected
and ridiculous ? Her whole Life sure is a continued Scene of
Impertinence. What a damn’d Creature is a decay’d Woman, with all the
exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet none of the Charms ! [Mai
s^peaks in PunchinelMs voicei\ Ldy Squ, O Lord, that, that ; that
is a Pleasure intolerable. Well, let me die if I can hold out any
longer. A Comparison between the Stages, wiih an Examen of the
Generous Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between ^ Two
Gentlemen’, Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the plays
of the day and others of an earlier date. The style is that of easy and
natural familiar con- versation, with little or no artificiality, and
incidentally, the tract throws light upon contemporary manners and social
habits. The following examples are designed to illustrate the colloquial
handling of indifferent topics, and the small-talk of the early
eighteenth century, as well as the treatment of the immediate subject of
the essay. Sullen. They may talk of the Country and what they will,
but the Park for my money. Ramble. In its proper Season I
grant you, when the Mall is pav’d with lac’d shoes ; when the Air is
perfum’d with the rosie Breath of so many fine Ladies ; when from one end
to the other the Sight is entertain’d with nothing but Beauty, and the
whole Prospect looks like an Opera. Sull And when is it out of
Season Ramble ? Ram. When the Beauties desert it ; when the absence
of this charming Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is
to me no more than a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country
Garden with a pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.
Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and
the Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the
Masters in Town can’t divert you. Ram. I love everything as
Nature and the Nature of Pleasure has con- triv’d it ; I love the
Town in Winter, because then the Country looks aged and deform’d ;
and I hate the Town in Summer, because then the Country is in its Glory,
and looks like a Mistress just drest out for enjoyment. Sull Very
well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress. Ram. I
distinguish ’em by that comparison because I love nothing well enough to
be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change my
Abode with my Inclination, Sull I differ from you for the very
Reason you give for your change ; the Town is evermore the same to me ;
and tho* the Season makes it look after another manner, yet still it has
a Face to please me one way or other, and both Winter and Summer make it
agreeable, —pp. 1-3* B b 2 Here is a conversation
during dinner at the ' Blew Posts \ Critik, What have you order’d
? Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ;
d’ee like it ? Crit, I like, anything in the World that will
indure Cutting : Prithee Cook make haste or expect I shall Storm thy
Kitchin. SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping
Garrison in Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy
Company. CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou
mightst under- stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our
Places • . . the blessed hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to,
Graces are out of Fashion. Ramb. I wish the Charming Madam Subligny
were here. CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d
down to the Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter,
some Wine . , . or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an
Ostrich, the Bones of these great Fish are no more to him than the Bones
of an Anchovy ; they melt upon his Tongue like marrow Puddings.
Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here
’s one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . .
. , Ramb. But Critick, how did you like the Play last Night ?
Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to
break his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his
knife in ’t, it runs away from him as if it were still alive, and was
afraid of the Hook : Put the Lamb this way. SulL The Rogue
quarrels with the Fish, and yet you cou’d eat up the whole Pond ; the
late Whale at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar- badge, wou’d
ha’ been but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ? does that
feel your knife? Crit. A little more substantial, and not much :
Well, I shou’d certainly be starv’d if I were to feed with the French, I
hate their thin slops, their Pot- tages, Frigaces, and Ragous, where a
Man may bury his Hand in the Sauce, and dine upon Steam : No, no, commend
me to King Jemmy’s English Surloin, in whose gentle Flesh a Man may plunge
a Case-knife to the tip of the Handle, and then draw out a Slice that
will surfeit half a Score Yeoman of the Guard. Some Wine ye Dog . . .
there . , . now I have slain the Giant ; and now to your Question . . .
what was it you askt me ? Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some
Tarts and Cheese ? Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like
a faint After-kiss, when a Man is sated with better Sport ; there ’s no
more Nourishment in ’em, than in the paring of an Apple. Here Waiter take
away. . . . Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’ ,
. Ramb. Here Waiter — send to the Booksellers in Pell mell for the
Generous Conqueror and make haste . . , you say you know the Author
Critick. Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of
good Extraction, and for ought I know, of good Sense. Ramb.
Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that a Man that
can write a Play, must be a Man of good Sense. Crit That is not
always a consequence, I have known many a singing Master have a worse
voice than a Parish Clerk, and I know two dancing Masters at this time,
that are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit up a Man of War
for the West Indies, and perhaps not know his Compas : Or a great
Trpelier, with Heylin, that writ the Geography of the whole World, may,
like him, not know the way from the next Village to his own House.
Ramb. Your Comparisons are remote M*^ Critick. Cfit. Not so
remote as some successful Authors are from good sense ; Wit and Sense are
no more the same than Wit and Humour; nay there is even in Wit an
uncertain Mode, a variable Fashion, that is as unstable as the Fashion of
our Cloaths : This may be proved by their Works who writ a hundred Years
ago, compar’d with some of the modern ; Sir Philip Sidney, Don, Overbury,
nay Ben himself took singular delight in playing with their Words : Sir
Philip is everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by the
example of so great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now
that kind of Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low
for the Stage, nay even for ordinary Converse ; so that when we find a
Man who still loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as
who is more remarkable than Capt. Swan. Ramb. Nay, your
Quibble does well now a Days, your best Comedies tast of ’em ; the Old
Batchelor is rank. Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen
Betty’s Ruff and Fardin- gale are not more exploded ; But Sense
Gentlemen, is and will be the same to the World’s end. SulL
And Nonsense is infinite, for England never had such a Stock and such
Variety. Ramb. Yet I have heard the Poets that flourish’d in the
last Reign but two, complain of the same Calamity, and before that Reign
the thing was the same : All Ages have produced Murmurers ; and in the
best of times you shall hear the Trades-man cry — Alas Neighbour ! sad
Times, very hard Times .. , not a Penny of Money stirring . . . Trade is
quite dead, and nothing but War . . . War and Taxes . . . when to my
knowledge the gluttonous Rogue shall drink his two Bottles at Dinner, and
his Wife have half a Score of rich Suits, a purse of Gold for the
Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and Silver Lace on her under
Petticoats. Sail, Nay certainly, this that Ramble now speaks of is
a great Truth; those hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’
our Nation never had such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too
little for their voracious Appetites : As I live — says he, I can’t
afford this Silk one Penny cheaper — d’ee mind the Rogues Equivocation ?
as I live — ^that is, he lives like a Gen- tleman — but let him live like
a Tradesman and be hang’d ; let him wear a Frock, and his Wife a blew
Apron. Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. —
pp. 76-9. The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^
devoid of all the lighter touches, is typical of the age that was
beginning, the age of reaction against the levities and negligences in
speech and conduct of the seventeenth and early eighteenth
centuries. The following conversation of rather an agitated
character, between a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa
Ifarlozue{i*j4S): * • * • My mother came up to me. I love, she was
pleased to say, to come into this appartment.— No emotions child I No
flutters ! — Am I not your mother F—Am I not your fond, your indulgent
mother P-— Do not discompose me by discomposixig Do not occasion me
uneasiness, when I would glveyau nothing but pleasure. Come my
dear, we will go into your closet. . . . PI ear me out and then speak ;
for I was going to expostulate. You are no stranger to the end of M^
Solmes’s visits — O Madam! — Hear me out; and then speak. — He is not
indeed everything I wish him to be : but he is a man of probity and has
no vices — No vices Madam ! — Hear me out child. — You have not behaved
much amiss to him : we have seen with pleasur *. that you have not — O
Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘ fently, —A young
creature of your virtuous and pious turn, she was pleased ! say, cannot
surely love a predicate ; you love your brother too well, to wish p see
any one who had like to have killed him, and who threatened youri incles
and defies us all You have had your own way six or seven times : v|? |
w^nt to secure you against a man so vile. Tell me (I have a right to
know) whether you prefer this man to all others ? — Yet God forbid that I
should know you do ; for such a declaration would make us all miserable.
Yet tell me, a.re your affections engaged to this man ? I
know what the inference would be if I had said they were not You hesitate
— You answer me not — You cannot answer me — Rising — Nevermore will I
look upon you with an eye of favour — O Madam, Madam ! Kill me not with
your displeasure — I would not, I need not, hesitate one moment, did I
not dread the inference, if I answer you as you wish. — Yet be that
inference what it will, your threatened displeasure will make me speak. And
I declare to you, that I know not my own heart if it be not absolutely
free. And pray, let me ask my dearest Mamma, in what has my conduct been
faulty, that like a giddy creature, I must be forced to marr^r, to save
me from— from what ? Let me beseech you Madam to be the Guardian of my
reputation \ Let not your Clarissa be precipitated into a stale she
wishes not to enter into with any man ! And this upon a supposition that
otherwise she shall marry herself, and disgrace her whole family.
When then, Clary [passing over the force of my plea] if your heart be
free — O my beloved Mamma, let the usual generosity of your dear heart
operate in my favour.^ Urge not upon me the inference that made me
hesitate. I won’t be interrupted, Clary — You have seen in my
behaviour to you, on this occasion, a truly maternal tenderness ; you
have observed that I have undertaken the task with some reluctance,
because the man is not everything ; and because I know you carry your
notions of perfection in a man too high. — Dearest Madam, this one time
excuse me ! Is there then any danger that I should be guilty of an
imprudent thing for the man’s sake you hint at ? Again interrupted! Am I
to be questioned, and argued with? You know this won’t do somewhere else.
You know it won’t. What reason then, ungenerous girl, can you have for
arguing with me thus, but because you think from my indulgence to you you
may ? What can I say ? What can I do ? What must that cause be that
will not bear being argued upon ? Again ! Clary Harlowe
— Dearest Madam forgive me : it was always my pride and my pleasure
to obey you. But look upon that man — see but the disagreeableness of
his person — Now, Clary, do I see whose pei'son you have in your eye ! —
Now is M^’ Solmes, I see, but coinparatively disagreeable ; disagreeable
only as an« other man has a much more specious person. But,
Madam, are not his manners equally so 1 — Is not his person the true
representation of his mind ? — That other man is not, shall not be, anything
to me, release me from this one man, whom my heart, unbidden, resists.
Condition thus with your father. Will he bear, do you think, to be
thus dialogued with? Have I not conjured you, as you value my peace —
What is it that / do not give up ?*~-This very task, because I
apprehended you would not be easily persuaded, is a task indeed upon me.
And will you give up nothing ? Have you not refused as many as have been
offered to you ? If you would not have us guess for whom, comply ; for
comply you must, or be looked upon as in a state of defiance with your
whole family. And saying thus she arose, and went from me.’
Miss AusteiL. The following examples of Miss Austen’s
dialogue are not selected because they are the most sparkling
conversations in her works, but rather because they appear to be typical
of the way of speech of the period, and further they illustrate Miss
Austeff s incomparable art. The first passage is ixomEmma^ which was
written between i8ii and 3^5 i8i6. Mr. Woodhouse and his
daughter have just received an invitation to dine with the Coles,
enriched tradespeople who had settled in the neighbourhood. Emma's view
of them was that they were ' very respect- able in their way, but they
ought to be taught that it was not for them to arrange the times on which
the superior families would visit them On the present occasion, however,
‘ she was not absolutely w^ithout inclina- tion for the party. The Coles
expressed themselves so properly — there was so much real attention in
the manner of it — so much consideration for her father/ Emma having
decided in her own mind to accept the invitation — some of her intimate
friends were going — it remained to explain to her father, the ailing and
fussy Mr. Woodhouse, that he would be left alone without his daughter s
company for the evening, as it was out of the question that he should
accompany her. ‘ He was soon pretty well resigned.’ ‘ I am
not fond of dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is Emma.
Late hours do not agree with us. I am sorry and Cole should have done it.
I think it would be much better if they would come in one afternoon next
summer and take their tea with us ; take us in their afternoon walk,
which they might do, as our hours are so reasonable, and yet get home
without being out in the damp of the evening. The dews of a summer
evening are what I would not expose anybody to. However as they are so
very desirous to have dear Emma dine with them, and as you will both be
there [this refers to his friend Weston and his wife], and Knightley too,
to take care of her I cannot wish to prevent it, provided the weather be
what it ought, neither damp, nor cold, nor windy.” Then turning to Weston
with a look of gentle reproach — “Ah, Miss Taylor, if you had not
married, you would have staled at home with me.” “ Well, Sir ”,
cried Weston, as I took Miss Taylor away, it is incumbent upon me to
supply her place, if I can ; and I will step to M^’® Goddard in a moment
if you wish it.” . . . With this treatment M^ Woodhouse was soon composed
enough for talking as usual. “ He should be happy to see M^*® Goddard. He
had a great regard for Goddard; and Emma should write a line and invite
her. James could take the note. But first there must be an answer written
to M’^® Cole.” “ You will make my excuses, my dear, as civilly as
possible. You will say that I am quite an invalid, and go nowhere, and
therefore must decline their obliging invitation ; beginning with my
comj^limentsy of course. But you will do everything right. I need not
tell you what is to be done. We must remember to let James know that the
carriage will be wanted on Tuesday. I shall have no fears for you with
him. We have never been there above once since the new approach was made
; but still I have no doubt that James will take you very safely ; and
when you gel there you must tell him at what time you would have him come
for you again ; and you had better name an early hour. You will not like
staying late. You will get tired when tea is over.” “ But you would
not wish me to come away before I am tired, papa ? ” Oh no my love
; but you will soon be tired. There will be a great many people talking
at once. You will not like the noise.” “But my dear Sir,” cried M^’
Weston, “if Emma comes away early, it will be breaking up the
party.” “ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The
sooner every party breaks up the better.” “ But you do not
consider how it may appear to the Coles. Emma’s going away directly after
tea might be giving offense. They are good-natured people, and think
little of their own claims ; but still they must feel that anybody’s
hurrying away is no great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be
more thought of than any other personas in the room. You would not wish
to disappoint and mortify the Coles, I am sure, sir; friendly, good sort
of people as ever lived, and who have been your neighbours these /en years.”
‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much obliged to
you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving them any
pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole never
touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he is
bilious — M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of
giving them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure
rather than run any risk of hurting and Cole you would stay a little
longer than you might wish. You will not regard being tired. You will be
perfectly safe, you know, among your friends.” Oh 5^es, papa.
I have no fears at all for myself ; and I should have no scruples of
staying as late as Weston, but on your account. I am only afraid of your
silting up for me. I am not afraid of your not being ex- ceedingly
comfortable with Goddard. ^ She loves piquet, you know ; but when she is
gone home I am afraid you will be sitting up by youiself, instead of
going to bed at your usual time ; and the idea of that would entirely
destroy my comfort. You must promise me not to sit up.” * The next
example is in a very different vein. It is from Sense and Sensibility
(chap, xxi) and records the mode of conversation of the Miss Steeles.
These two ladies are among Miss Austen's vulgar characters, and their
speech lacks the restraint and decorum which her better-bred personages
invariably exhibit. While the Miss Steeles’ con- versation is in sharp
contrast with that of the Miss Dashwoods, with whom they are here
engaged, both in substance and manner, it evidently passed muster among
many of the associates of the latter, especially with their cousin Sir
John Middleton, in whose house, as relations of his wife's, the Miss
Steeles are staying. Apart from the vulgarity of thought, the diction
appears low when compared with that of most of Miss Austen's characters.
As a matter of fact it is largely the way of speech of the better society
of an earlier age, which has come down in the world, and survives among a
pretentious provincial bourgeoisie. ‘ ‘^What a sweet woman Lady
Middleton is” said Lucy Steele . . . '‘And Sir John too ” cried the elder
sistei', “ what a charming man he is ! ” . . . And what a charming
little family they have ! I never saw such fine children in my life. I
declare I quite doat upon them already, and indeed I am always
destractedly fond of children.” "I should guess so” said Elinor with
a smile “from what I witnessed this morning.” “I have a notion”
said Lucy, “you think the little Middletons rather too much indulged ;
perhaps they may be the outside of enough ; but it is natural in Lady
Middleton; and for my part I love to see children full of life and
spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet” “I confess
” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I never think of tame
and quiet children with any abhorrence.” * “ And how do you like
Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss Steele) I suppose you were very
sorry to leave Sussex.” In some suiyrise at the familiarity of this
question, or at least in the manner in which it was spoken, Elinor
replied that she was. “Norland is a prodigious beautiful place, is
not it?” added Miss Steele, “We have heard Sir John admire it
excessively,” said Lucy, who seemed to think some apology necessary for
the freedom of her sister. “ I think MISS LUCY STEELE
B11 every one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the
place; though it is not to be supposed that any one can estimate its
beauties as we do." “ And had you many smart beaux there ? I
suppose you have not so many in this part of the world ; for my part I
think they are a vast addition always." “ But why should
you think " said Lucy, looking ashamec^ of her sister, “that there
are not as many genteel young men in Devonshire as Sussex." “
Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend to say that there an’t. Fm sure
there ’s a vast many smart beaux in Exeter ; but you know, how could I
tell what smart beaux there might be about Norland? and I was only afraid
the Miss Dashwoods might find it dull at Barton ; if they had not so many
as they used to have. But perhaps you young ladies may not care about
beaux, and had as lief be without them as with them. For my part, I think
they are vastly agreeable, provided they dress smart and behave civil.
But I can’t bear to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at
Exeter, a pro- digious smart young man, quite a beau, clerk to Simpson,
you know, and yet if you do but meet him of a morning, he is not fit to
be seen. I sup- pose your brother was quite a beau, Miss Dashwood, before
he married, as he was so rich ? " “ Upon my word,"
replied Elinor, “I cannot tell you, for I do not per- fectly comprehend
the meaning of the word. But this I can say, that if he ever was a beau
before he married, he is one still, for there is not the smallest
alteration in him." “ Oh ! dear 1 one never thinks of married
men’s being beaux — they have something else to do."
“Lord! Anne", cried her sister, “you can talk of nothing but beaux;
— you will make Miss Dashwood believe you think of nothing
else."’ It is not surprising that ‘ “ this specimen of the
Miss Steeles’" was enough. The vulgar freedom and folly of the
eldest left her no recommendation and as Elinor was not blinded by the beauty,
or the shrewd look of the youngest, to her want of real elegance and
artlessness, she left the house without any wish of knowing them
better Greetings and Farewells. Only the slightest
indication can be given of the various modes of greet- ing and bidding
farewell These seem to have been very numerous, and less stereotyped in
the fifteenth and sixteenth centuries than at present. It is not easy to
be sure how soon the formulas which we now employ, or their ancestral
forms, came into current use. The same form often serves both at meeting
and parting. In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that
"after evynsonge, Angnes Ball com to me to my closett and dad me
good evyn \ In the account, quoted above, p. 362, given by Shillingford
of his meetings with the Chancellor, about 1447, he speaks of
"saluting hym yn the moste godely wyse that y coude ' but does not
tell us the form he used. The Chancellor, however, replies "
Welcome^ ij times, and the tyme Right met come Mayer'% and helde the
Mayer a grete while faste by the honde I In the sixteenth
century a great deal of ceremonial embracing and kissing was in vogue.
Wolsey and the King of France, according to Cavendish, rode forward to
meet each other, and they embraced each other on horseback. Cavendish
himself when he visits the castle of the Lord of Cr^pin, a great
nobleman, in order to prepare a lodging for the Cardinal, is met by this
great personage, who ^ at his first coming embraced me, saying I was
right heartily welcome'. Henry VIII was wont to walk with Sir Thomas
More, ' with his arm about his neck \ The actual formula used in greeting
and leave-taking is too often un- recorded. When the French Embassy
departs from England, whom Wolsey has sb splendidly entertained,
Cavendish says — ' My lord, after humble commendations had to the French
King bade them adieu'. The Earl of Shrewsbury greets the Cardinal thus —
‘ My Lord, your Grace is most heartily welcome unto me', and Wolsey
replies ‘Ah my gentle Lord of Shrewsbury, I heartily thank you '.
It is not until the appearance of plays that we find the actual forms
of greeting recorded with frequency. In Roister Doister, there are a
fair number: — God heepe thee worshipful Master Roister Doister; Welcome
my good wenche ; God you saue and see Nourse ; and the reply to this —
Welcome friend Merrygreeke; Good flight Roger old farewell Roger
old knaue ; well mef^ I bid you right welcome, A very favourite greeting
is God he with you, God continue your Lordship is a form of
farewell in Chapman's Monsieur D'Olive, and God-den ‘ good evening occurs
in Middleton's Chaste Maid in Cheapside. Sir Walter Whorehoimd in the
same play makes use of the formula ‘ I embrace your acquaintance Sir \ to
which the reply is vows your service Str\ Massinger's New Way to
pay old Debts contains various formulas of greeting. I ain still your
creature^ says Allworth to his step-mother Lady A. on taking leave ; of
two old domestics he takes leave with ‘ rny service to both \ and they
reply ‘ ours waits on you In reply to the simple Farewell Tom, of a
friend, All worth answers ^ All joy stay with you \ Sir Giles Overreach
greets Lord Lovel with ‘ Good day to My Lord ' ; and the prototype of the
modern how are you is seen in Lady Allworth's ‘ Hoiv dost thou Marrall P
' A graceful greeting in this play is ‘ Fou are happily
encountered'. The later seventeenth-century comedies exhibit the
characteristic urbanity of the age in their formulas of greeting and
leave-taking. ‘ A happy day to you Madam is Victoria's morning
compliment to Mrs. Goodvile in Otway's Friendship in Fashion, and that
lady replies— ‘ Dear Cousin, your humble servant'. Sir Wilfull Witwoud in
Congreve's Way of the World, says ‘ Save you Gentleman and Lady ' on
entering a room. His younger brother, on meeting him, greets him with ‘
Four servant Brother", and the knight replies ‘ servant! Why yours
Sir, Four servant again ; "s heart, and your Friend and Servant to
that \ Tm everlastingly your humble servant, deuce take me Madam, says
Mr. Brisk to Lady Froth, in the Double Dealer. Your servant
is a very usual formula at this period, on joining or leaving company. In
Vanbrugh's Journey to London, Colonel Courtly on entering is greeted by
Lady Headpiece — Colonel your servant; her daughter Miss Betty varies it
with^ — Four servant Colonel, and the visitor replies to both — Ladies,
your most ohedienL Mr. Trim, the formal coxcomb in ShadwelFs Bury
Fair, parts thus from his friends — Sir, I kiss your hands ; Mr, Wildish—
-S’/r your most humble servant; Trim — Oldwii I am your most faithful
servant; Mr. Oldwit — Four servant sweet il/'* Trim, Four servant,
madam good morrow to you, is Lady Arabella's greeting to Lady Headpiece,
who replies — to you Madam (Vanbrugh's Journey to London). The early
eighteenth century appears not to differ materially from the preceding in
its usage. Lord Formal in Fielding's Love in Several Masques, says Ladies
your most humble servafit, and Sir Apish in the same play — Four
Ladyships everlasting creature^ Epistolary Formulas.
The writing of letters, both familiar and formal, is such an
inevitable part of everyday life, that it seems legitimate to include
here some examples of the various methods of beginning and ending private
letters from the early fifteenth century onwards. A proper and
exhaustive treatment of the subject would demand a rather elaborate
classification, according to the rank and status of both the writer and
the recipient, and the relation in which they stood to each other —
whether master and servant, or dependant, friend, subject, child, spouse,
and so on. In the comparatively few examples here given, out of many
thousands, nothing is attempted beyond a chronological arrangement The
status and relationship of the parties is, however, given as far as
possible. We note that the formula employed is frequently a conventional
and more or less fixed phrase which recurs, with slight variants, again
and again. At other times the opening and closing phrases are of a more
personal and individual character. 1418. Archbp* Chichele to
Hen. V, Signs simply: your preest and bede- man. — Ellis, i. i. 5.
142 5. IVilL Fasten to . Right worthy and worshepfull Sir. I recom-
maunde me to you, &c. Ends : Almyghty God have you in his governaunce.
Your frend unknowen. — Past. Letters, i. 19-20. 1440. Agnes to
Will. Fasten. Inscribed: To my worshepful housbond W. Paston be this
letter takyn. Dere housbond I reccommaunde me to yow. Ends : The Holy
Trinite have you in governaunce. — P. L. i. 38-9. 1442-5. Dtike of
Buckingham to Lord Beau 7 nont, Ryght worshipful and with all my herte
right enterly beloved brother, I recomaunde me to you, thenking right
hastili your good brotherhode for your gode and gentill letters. I
beseche the blissid Trinite preserve you in honor and prosperite. Your
trewe and feithfull broder H. Bukingham. — P. L- i. 61-2. 1443.
Margaret to John Paston. Ryth worchipful husbon, I reccomande me to yow
desyryng her tel y to her of your wilfar. Almyth God have you in his
kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. — P. L. i. 48-9. 1444.
James Gresham to Will. Fasten. Please it your good Lordship to wete,
&c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday next to fore the Fest.
By your laiost symple servaunt — P. L. i, 50. 1444, Duchess of
Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and entirely wel- bclovcd we grete
you wel hertily as we kan , . . and siche agrement as, &c. ... we
shall duely performe yt with the myght of Jesu who haff you in his
blissed keping. — P. L. i. 57, 1444. Sir R. Ckamberlayn to Agn.
Paston. Ryght worchepful cosyn, I comand me to you. And I beseche almyty
God kepe you. Your Cosyn Sir Roger Chamberlain. 1445. Agnes
to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I grete you wel. Be your Modre Angnes
Paston.— i, 58, 59. 380 COLLOQUIAL IDIOM 1449,
Marg, to John Paston. Wretyn at Norwych in hast, Be your gronyng
Wyfr.-~i. 76“7- 1449. Same to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte
this tyme* Your Mar- karyte Paston. — i. 42-3. 1449. John
Paston, Ends : Be ^owre pore Broder* 1449. E Its. ^ Clare to J,
Paston, No raore I wrighte to 50 w at this tyme, but Holy Cost have 50W
in kepyng. Wretyn in haste on Scynt Peterys day be candel lyght, Be your
Cosyn E. C. — P. L. i. 89-90. 1450. Duke of Suffolk to his son. My
dear and only welbeloved sone. Your trewe and lovynge fader Suffolk. — P.
L. i. 12 1-2. 1450, IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille
may recomaunde me to mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast
at London. — P.L. i. 126. 1450. y. Gresham to ^ my Mats ter
Whyte Esguyer\ After due recomen- dacion I recomaund me to yow.
1450. J, Paston to above, James Gresham, I pray you labour for the,
&c. — i. 145* 1450. Justice Yelverton to Sir J, Fastolf,
By your old Servaunt William Yelverton Justice. — P, L. i. 166.
1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you well and send you Godys
blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret hast, Be your moder A.
Paston. — P. L. i. 259. 1454. J, Paston to Earl of Oxford* Youre
servaunte to his powr John Paston. — P. L. i. 276, 1454. Lord
Scales to J, Paston, Our Lord have you in governaunce. Your frend The
Lord Scales. — P. L. i. 289. 1454, Thomas Howes to J, Paston, I
pray God kepe yow. Wiyt at Castr hastly ij day of September, Your owne T.
Howes. — P. L. i. 301. 1454. The same. Your chapleyn and bedeman
Thomas Howes.— *i. 31 8. 1455. /• PoLstolf to Duke of Norfolk,
Writen at my pore place of Castre, Your humble man and servaunt. — P. L.
i. 324. 1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J, Patton, And Jesu
preserve you, J. Bysshopp of Lincoln. — P.L. i. 350. 1456.
Archbp, Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you
everlastingly in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your
feith- full and trew Th, Cant. — P. L. i. 382. 1456 (Nephew
to uncle). H, Fylinglay to Sir J, Fastolf Ryght wor- shipful unkell and
my ryght good master, I recomniaund me to yow wyth all my servys. And
Sir, my brother Paston and I have, &c. . . . Your nevew and servaunt
— P. L. i. 397. 1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I
wryte unto you at this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J.
J.— P, L. i. 429. 1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to
Agn, Paston, Right worshipful and my most entierly belovde moder, in the
most lowly maner I recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu
for his grete mercy save yow. By your humble daughter. — P. L. i,
434-5. 1469. Chancellor and University of Oxford to Sir John Say,
Ryght wor- shipful our trusty and entierly welbeloued, after harty
commendacyon. . . . Ends : yo’-' trew and harty louers The Chancelir and
Thuniversite of Oxon- ford. — Ellis. 1477. John Paston to Ms
mother* Your sone and humbyll servaunt P. — P. L. iii. 176.
1481-4. Edm, Paston to Ms mother, umble son and servant. — P.
L. iii, 280. 1482. J, Paston to Ms mother. Your sone and trwest
servaunt — P. h* iii. 290. 1482. Margery Paston to her
hushaftd. No more to you at this tyme, Be your servaunt and bede woman.—
iii. 293, 1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I cummaund
me to yow. . . . I shall content you at your metyng with me, Yower lover
J. Nor- folk.— iii. 320, 1485. Eliz, Browne to J. Paston.
Your loving awnte E. B. 1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght
welbeloved we grete you well. . , . Suffolk, yor frende. — iii.
324-5. 1490. Bp* of Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit
wortchipful sire, and myne especial and of long tyme apprevyd, trusty and
feythful frende, I in myne hertyeste wyse recommaunde me un to you. . . ,
Scribyllyd in the moste haste, at my castel or manoir of Aucland the
xxvij of Januay. Your own trewe luffer and frende John Duresme. — iii.
363. 1490. Lumen H ary son to Sir f Past on. Onerabyll and well be
lov^^'d Knythe, I commend me on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr
wyffe. . , . No mor than God be wyth 50W, L. H. at ^ouyr
comawndment. 1503. Q. Margaret of Scotland to her father Hen. VII.
My moste dere iorde and fader in the most humble wyse that I can thynke I
recommaunde me unto your Grace besechyng you off your dayly blessyngys. .
. . Wrytyn wyt the hand of your humble douter Margaret. — Ellis i. i.
43. Hen. VI J to his Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my
most enterely wilbeloved Lady and Moder . . . with the hande of youre
most humble and lovynge sone. — Ellis, i. i. 43-5. Margaret
to Hen. VI 1 . My oune suet and most deare kynge and all my worldly joy,
yn as humble manner as y can thynke I recommand me to your Grace ... by
your feythful and trewe bedewoman, and humble modyr Mar- garet R, —
Ellis, i. I. 46. 1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt
excellent, richt hie and mithy Prince, our derrist and best belovit
Brothir. . . . Your louyn systar Margaret. — Ellis, i. i. 65. (The Queen
evidently employed a Scottish Secre- tary.) 1515. Margaret to
Wolsey. Yours Margaret R. — Ellis, i. i. 131. 1515. Thos. Lord
Howard, Lord Admiral, to Wolsey. My owne gode Master Awlmosner. . . .
Scrybeled in gret hast in the Mary Rose at Plymouth half o^' after xj at
night . . . y^ own Thomas Howard. c. 1515. West Bp. of Ely to
Wolsey. Myne especiall good Lorde in my most humble wise I recommaund me
to your Grace besechyng you to con- tynue my gode Lorde, and I schall
euer be as I am bounden your dayly bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman
N 1 . Elien. c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost
honorable Grace to understand. ... At your Graces commaundement, Willm.
Cantuar. — Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own Willm.
Cantuar. Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety mooste
lowly remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble bedisman
John Lincoln.— Ellis, iii. l. 248. Cath, of Aragon to
Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c. —Ellis, i, 2. 19,
• . . Your lovyng mother Katherine the Queue. Archibald, E. of
Angus. Addresses letter to Wolsey : To my lord Car- dinallis grace of
Ingland. — Ellis, iii. i. 291. 1521. Bp. Tunstal to Wolsey.
Addresses letter :— to the most reverend fader in God and his most
singler good Lorde Cardinal. — Ellis, iii. i* 273. Ends a letter :
By your Gracys most humble bedeman Cuthbert TunstalL —Ellis, iii. I. 332
- 1515 or 1521. Duke of Buckingham to Wolsey, Yorys to my power
E. Bukyngham. Gccvin Douglas, Bp. of Dunkeld, to Wolsey. ZgI
chaplan wy^ his lawfull seruyse Gavin bischop of Dunkeld.— Ellis, iii. i.
294- Zo^ humble servytor and Chaplein of Dunkeld.— Ellis, iii. i. 296.
Zo^ humble seruytor and dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis, iii. i.
303- Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)* Ends : Your
assurjd lover and bedysman T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6. Again :
Wryttyn hastely at Asher with the rude and shackyng hand of your dayly
bedysman and assuryd frende T. Car^^® Ebor. 1532. T/ios,
AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^' assured to his litell Thomas Audeley
Gustos Sigiili. Edw. E, of Hertford {afterwards Lord Protector).
Thus I comit you to God hoo send yo^‘ lordshep as well to far as I would
mi selfe . . . w^ the hand of yo^ lordshepis assured E. Hertford.
Hen. VI 11 to Catherine Parr. No more to you at thys tyme swethart
both for lacke off tyme and gret occupation off bysynes, savyng we pray
you in our name our harte blessyngs to all our chyldren, and
recommendations to our cousin Marget and the rest off the laddis and
gentyll women and to our Consell alsoo. Wryttyn with the hand off your
lovyng howsbande Henry R. — Ellis, i. 2. 130. Princess Mary
to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell I commende me to you. —
Ellis, i. 2. 24, Prince Edward to Catherine Parr. Most honorable
and entirely beloued mother. . . . Your Grace, whom God have ever in his
most blessed keping. Your louing sonne, E. Prince. — Ellis, i. 2. 13
1. 1547. Henry Radclyf E. of Sussex, to his wife. Madame with
most lovyng and hertie commendations. — Ellis, i. 2. 137.
Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar to
com- maundement Elizabeth. — Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most
humble sistar Elizabeth. — Ellis, i. 1. 148. Princess
Elizabeth to Lord Protector. Your assured frende to my litel power
Elizabeth. — Ellis, i. 2. 158. Edward VI to Lord Protector
Somerset. Derest Uncle. . . • Your good neuew Edward. — Ellis, ii. i.
148. Q.Mary to Lord Admiral Seymour. Your assured frende to my
power Marye. — Ellis, i. 2. 153. Princess Elizabeth to Q.
Mary (on being ordered to the Tower). Your Highnes most faithful subjec
that hath bine from the begining and wyl be to my ende, Elizabeth.
(Transcr. of 1732). — Ellis, ii. 2. 257. 1553, Princess Elizabeth
to the Lords of the Council. Your verye lovinge frende, Elizabeth- —
Ellis, ii. 2. 213. 1554, Henry Darnley to Q. Mary of England. Your
Maiesties moste bounden and obedient subjecte and servant Henry
Darnley. Queen Dowager to Lord Admiral Seymour. By her ys and
schalbe your humble true and lovyng wyffe duryng her lyf Kateryn the
Quenc. — Ellis, i. 2. 152. Q. Mary to Marquis of Winchester,
Your Mystresse assured Marye the Queue. -—Ellis, ii. 2. 252.
Sir John Grey of Pyrgo to Sir William Cecil. It is a great while me
thinkethe, Cowsine Cecill, since I sent unto you. ... By your lovyng
cousin and assured frynd John Grey. — Ellis, ii, 2. 73-4; Good cowsyne
Cecil!. . , . By yo^ lovyng Cousine and assured pouer frynd dowring lyfe
John Grey. — Ellis, ii. 2. 276. Lady Catherine Grey, Cmmtess
of Hertford, to Sir W, Cecil. Good cosyne Cecill . . . Your assured frend
and cosyne to my small power Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 278 ;
Your poore cousyne and assured frend to my small power Katheryne
Hartford. — Ellis, ii. 2. 287. 1564. Sir W. Cecil to Sir Thos.
Smith. Your assured for ever W. Cecill. — Ellis, ii. 2. 295 ; Yours
assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297 ; Your assured to command W, Cecill
— Ellis, ii. 2, 300. 1 566. Duchess of Somerset to Sir W. Cecil.
Good M^ Secretary, yf I have let you alone all thys whyle I pray you to
thynke yt was to tary for my L, of Leycesters assistans. ... I can nomore
. . , and so do leave you to God Yo’^ assured lovyng frynd Anne
Somerset,— Ellis, ii. 288. Christopher Jonson, Master of Winchester^ to
Sir W, CeciL Right honourable my duetie with all humblenesse consydered.
. . . Your honoures most due to commando, Christopher Jonson. — Ellis,
ii. 2. 313. 1569. Lacfy Stanhope to Sir W, CeciL Right honorable,
my humble dewtie premised. . . . Your honors most humblie bound Anne
Stanhope. — Ellis, il 2. 324. _ ^ ^ ^ , 1574. Sir Philip
Sidney to the E. of Leicester, Righte Honorable and my singular good
Lorde and Uncle. . . . Your L. most obedi. . . , Philip Sidney. —Works,
p. 345. 1576. Sir Philip Sidney to Sir Francis Walsingham, Righte
Honorable ... I most humbly recommende my selfe unto yow, and leaue yow
to the Eternals most happy protection, . , . Yours humbly at
commawndement Philipp Sidney. 1578. Sir Philip Sidney to
Edward Molineux^ Esq. (Secretary to Sir H. Sidney), Molineux, Few words
are best My letters to my father have come to the eyes of some. Neither
can I condemn any but you. . . . (The writer assures M. that if he reads
any letter of his to his father ^ without his commandment or my consent,
I will thrust my dagger into you. And trust to it, for I speak it in
earnest’. . . .) In the meantime farewell. From court this last of May 1
578, By me Philip Sidney.— p. 328. 1580. Sir Philip Sidney to his
brother Robert. My dear Brother . . . God bless you sweet boy and
accomplish the joyful hope I conceive of you. , . . Lord I how I have
babbled : once again farewell dearest brother. Your most loving and
careful brother Philip Sidney. 1582. Thomas Watson ^ To the frendly
Reader^ (in Passionate Centurie of Love). Courteous Reader , . . and so,
for breuitie sake (I) aprubtlie make and end ; committing the to God, and
my worke to thy fauour. Thine as thou art his, Thomas Watson.
Anne of Denmark to James L Sir ... So kissing your handes I remain
she that will ever love Yow best, Anna R. — Ellis, i. 3. 97. c.
1585. Sir Philip to Walsingham. Sir , . . your louing cosin and frend. In
several letters to Walsingham Sidney signs *your humble Son’. ^
1586. Wm. Webbe to Ma. (= ^ Master ’) Edward Sulyard Esquire (Dedi-
catory Epistle to the Discourse of English Poetrie). May it please you
Syr, thys once more to beare with my rudenes, &c. ... I rest, Your
worshippes faithfull Seruant W. W. 1593. Edward Alleyn to his
wife. My good sweete mouse . . . and so swett mouse farwell. — Mem. of
Edw. Alleyn, L 36; my good sweetharte and loving mouse . . . thyn ever
and no bodies else by god of heaven. — ibid. 1596, Thos., Lord
Buckhurst, afterwards Earl of Dorset^ to Sir Robert CeciL Sir . . . Your
very lo: frend T. Buckhurst. 1 597, Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I
humblie thanke yow for your letter . , . S^ I pray love vs in your
element and wee will love and honor yow in ours and every wher. And
remayne to be comanded by yow for evermore W Ralegh. 1602.
Same to same. Good Secretary. . . . Thus I rest, your very loving and
assured frend T, Buckhurst,— Works, xxxiv-xi. 1603. Same to same.
My very good Lord. . ♦ . So I rest as you know, Ever yours T.
Buckurst 1605, Same to same. ... I pray God for your health and for
mine own and so rest Ever yours ... 1607. Same to the
University of Oxford. Your very loving friend and Chancellor T. Dorset—
xlvi. cr. 1608. Sir Menry Wotton to Henry Prince of Wales. Youre
zealous pooie servant H. W. — Ellis, i. 3* loo. Q. Anne of
Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of Buc- kingham). My kind
Dog. # • . So wishing you all happiness Anna R. Ellis, i. 3,
ICO. Charles Duke of York to Prince Heniy. Most loving Brother I
long to see you, . . . Your H. most loving brother and obedient servant,
Charles. — Ellis, i. 3. 96. 1612. Prince Charles to James L Your
most humble and most obedient sone and servant Charles. — Ellis, i.
3. 102. Same to Viljiers. Steenie, There is none that knowes me so
well as your- self. . , . Your treu and constant loving frend Charles P.
— Ellis, i. 3. 104. King Jaynes to Buckingham or to Prince Charles,
My onlie sweete and deare chylde I pray thee haiste thee home to thy
deare dade by sunne setting at the furthest. — Ellis, i. 3. 120.
Sa 7 ne to Buckingham, My Steenie. . . . Your clear dade, gosseppe
and stewarde. — Ellis, i. 3, 159. Same to both. Sweet Boyes.
. . . God blesse you both my sweete babes, and sende you a safe and
happie returne, James R. — Ellis, i. 3 121. Prmce Charles a?id
Buckingham to James, Y’our Majesties most humble and obedient sone and
servant Charles, and your humble slave and doge Steenie.—Ellis, i. 3.
122. 1623. Buckingham to James. Dere Dad, Gossope and Steward. . .
• Your Majestyes most humble slave and doge Steenie. — Ellis, i, 3.
146-7. 1623. Lord Herbert to James, Your Sacred Majesties most
obedient, most loyal, and most affectionate subjecte and servant, E.
Herbert The letters of Sir John Suckling (Works, ii, Reeves &
Turner) are mostly undated, but one to Davenant has the date 1629, and
another to Sir Henry Vane that of 1632. The general style is
more modern in tone than those of any of the letters so far referred to.
(See on Suckling’s style, pp. 152-3.) The beginnings and endings, too,
closely resemble and are sometimes identical with those of our own
time. To Davenant, Vane, and several other persons of both sexes,
Suckling signs simply — ^ Your humble servant J. S.’, or 'J. Suckling’.
At least two, to a lady, end * Your humblest servant The letter to
Davenant begins ‘WilL; that to Vane — ‘Right Honorable’. Several
letters begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble friend
another ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful
letters, to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My
clear Dear ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin
begins ‘ Honest Charles The habit of rounding off the
concluding sentence of a letter so that the valedictory formula and the
writer’s name form an organic part of it, a habit very common in the
eighteenth century — in Miss Burney, for instance — is found in
Suckling’s letters. For example : ‘ I am still the humble servant
of my Lord that 1 was, and when I cease to be so, I must cease to
be John Suckling’; ‘yet could never think myself unfortunate, while I can
write myself Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and should you leave that
lodging, more wretched than Montferrat needs must be your humble servant
J. S.’, and so on. The longwindedness and prolixity wiiich
generally distinguish the openings and closings of letters of the
fifteenth and the greater part of the sixteenth century, begin to
disappear before the end of the latter period. Suckling is as neat and
concise as the letter-writers of the eighteenth century. ‘Madam, your
most humble and faithful servant' might serve for Dr. Johnson. Most
of our modern formulas were in use before the end of the first half of
the seventeenth century, though some of the older phrases still survive.
But we no longer find " I commend me unto your good master- ship,
beseeching the Blessed Trinity to have you in his governance and
such-like lengthy introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see
pp. 163-4) is very instructive, as it covers the period from 1634 to
1675, by which latter date letters have practically reached their modern
form. Dr. Basire writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee,
'Deare Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend
J. B.', 'Thy faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your
assured frend and loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J.
B.' When Miss Corbet has become his wife, he constantly writes to her in
his exile which lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our
present purpose possess great human and historical interest. These
letters generally begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he
signs himself ' Your very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your
faithful husband', ' My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till
death ' Meanewhile assure your selfe of the constant love of— My dearest
— ^Your loyall husband The lady to whom these affectionate letters
were addressed, bore with wonderful patience and cheerfulness the
anxieties and sufferings incident upon a state bordering on absolute want
caused by her husband's depriva- tion of his living under the
Commonwealth, his prolonged absence, together with the cares of a family
of young children, and very indifferent health. She was a woman of great
piety, and in her letters ‘ many a holy text around she strews ' in reply
to the religious soliloquies of her husband. Her letters all begin ' My
dearest ’, and they often begin and close with pious exclamations and
phrases — 'Yours as much as euer in the Lord, No, more thene euer ' ; '
My dearest, I shall not faile to looke thos plases in the criptur, and
pray for you as becometh your obedient wife and serunt in the Lord F. B.
’ ; another letter is headed ' Jesu 1 and ends — ' I pray God send vs all
a happy meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.' Many of the
letters are headed with the Sacred Name. Others of Mrs. Basire's letters
end — 'Farwall my dearest, I ham yours faithful for euer'; 'I euer remine
Yours faithfuil in the Lord'; 'So with my dayly prayers to God for you, I
desire to remene your faithfuil loveing and obedient wif '.
It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends
of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate
the usage of the latter part of the seventeenth century. These
letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip- tions
such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire, Prebendary of
the Cathedral Church in Durham. To be recommended to the Postmaster of
Darneton' (p. 213, dated 1662). This letter, from Prebendary Wrench
of Durham, begins ' Sir and ends — ' Sir, Your faithfuil and unfeigned
humble Servant R. W.' In the same year the Bishop of St. David's
begins a letter to Dr. Basire — ' Sir and ends — ' Sir, youre uerie
sincere friend and seruant, Wil. St, David's p. 219, The
Doctor's son begins — ' Reverend Sir, and most loving Father ' and ends
with the same formula, adding — ' Your very obedient Son, P. B ^ p. 221. To his Bishop (of Durham) Dr. Basire
begins 'Right Rev. Father in God, and my very good Lord ending ' I am
still, My L<i, Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac Basire’. In 1666
the Bishop of Carlisle, Dr. Rainbow, evidently an old friend of Dr. B/s,
begins 'Good Mr. Archdeacon and ends ' I commend you and yours to God’s
grace and remaine,'Your very faithfull frend Edw, Carlioi’, p. 254.
In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^ Archdeacon ’ and ends ' In
the interim I shall not be wanting at this distance to doe all I can, who
am, Sir, Your very loving ffriend and servant TJo. Duresme', p. 273. Dr.
Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My Reverend Friend’, and ends ‘Your
prayers are desired for, Sir, Your affectionate friend and Seruant, Tho.
Barlow’, p. 302 (1673). Dr. Basire begins a letter to this gentleman — ‘
Rev. Sir and my Dear Friend ’ . . , ending ' I remain, Reverend Sir, Your
affectionate frend, and faithful servant To his son Isaac, he writes in
1664 — 'Beloved Son’, ending — ‘So prays your very lovinge and painfull
Father, Isaac Basire ’. Having now brought our examples of the
various types of epistolary formulas down to within measurable distance
of our own practice, we must leave this branch of our subject. Space
forbids us to examine and illus- trate here the letters of the eighteenth
century, but this is the less necessary as these are very generally
accessible. The letters of that age, formal or intimate, but always so
courteous in their formulas, are known to most readers. Some allusion has
already been made (pp. 20-1) to the tinge of ceremoniousness in address,
even among friends, which survives far into the eighteenth century, and
may *be seen in the letters of Lady Mary Montagu, of Gray, and Horace
Walpole, while as late as the end of the century we find in the letters
of Cowper, unsurpassed perhaps among this kind of literature for grace
and charm, that combination of stateliness with intimacy which has now
long passed away. Exclamations, Expletives, Oaths, &e.
Under these heads comes a wide range of expressions, from such as
are mere exclamations with little or no meaning for him who utters or for
him who hears them, or words and phrases added, by way of emphasis, to an
assertion, to others of a more formidable character which are
deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or rage,
with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age like
ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of the
mildest and most meaningless kind, to express temporary annoyance,
disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded utterances of a
former age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations which to those
who used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word ’ do to us,
would now, if they were revived appear almost like rather blasphemous
irreve- rence. It must be recognized, however, that swearing, from its
mildest to its most outrageous forms, has its own fashions. These vary
from age to age and from class to class. In every age there are expressions
which are permissible among well-bred people, and others which are not.
In certain circles an expression may be regarded with dislike, not so much
because of any intrinsic wickedness attributed to it, as merely because
it is vulgar. Thus there are many sections of society at the present time
where such an expression as ‘ O Crikey * is not in use. No one would now
pretend that in its present form, whatever may underlie it, this
exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons would regard it
with disfavour as being merely rather silly and distinctly vulgar. It is
not a gentleman’s expression. On the other hand, ^ Good Heavens \ or ^
Good Gracious \ while equally innocuous in meaning and intention, would
pass muster perhaps, except among those who object, as many do, to
anything more forcible than ‘ dear me \ Human nature, even when
most restrained, seems occasionally to require some meaningless phrase to
relieve its sudden emotions, and the more devoid of all association with
the cause of the emotion the better will the exclamation serve its
purpose. Thus some find solace in such a formula as ‘ O liitle haiC which
has the advantage of being neither particularly funny nor of overstepping
the limits of the nicest decorum, unless indeed these be passed by the
mere act of expressing any emotion at all. It is really quite beside the
mark to point out that utterances of this kind are senseless. It is of
the very essence of such outbursts — the mere bubbles on the fountain of
feeling — ^that they are quite unrelated to any definite situation. There
is a certain adjective, most offensive to polite ears, which plays
apparently the chief r 61 e in the vocabulary of large sections of the
community. It seems to argue a certain poverty of linguistic resource
when we find that this word is used by the same speakers both to mean
absolutely nothing — being placed before every noun, and often
adverbially before all adjectives — and also to mean a great deal —
everything indeed that is unpleasant in the highest degree. It is rather
a curious fact that the word in question while always impos- sible,
except perhaps when used as it were in inverted commas, in such a way
that the speaker dissociates himself from all responsibility for, or
proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily
intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an
absolutely meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns
in a sen- tence, and worse than if it were used deliberately, with a
settled and full intent. There is something very terrible in an oath torn
from its proper home and suddenly implanted in the wrong social
atmosphere. In these circumstances the alien form is endowed by the
hearers with mysterious and uncanny meanings ; it chills the blood and
raises gooseflesh. We do not propose here to penetrate into the
sombre history of blasphemy proper, nor to exhibit the development
through the last few centuries of the ever-changing fashions of
profanity. At every period there has been, as Chaucer knew —
a companye Of yonge folk, that haunteden folye,
As ryot, hasard, stewes and tavemes, Wher-as with harpes,
lutes and gitemes, ^ They daunce and pleye at dees both day and
night, And ete also and drinken over hit might, Thurgh
which they doon the devel sacrifyse Within the develes tempel in cursed
wyse, By superfiuitee abhominable; c c 2
Hir othes been so grete and so dampnable^ That it is grisly
for to here hem swere ; Our blissed lordes body they to-tere;
Hem though te Jewes rent him noght y-nough. We are concerned,
for the most part, with the milder sort of expres- sions which serve to
decorate discourse, without symbolizing any strong feeling on the part of
those who utter them. Some of the expletives which in former ages were
used upon the slightest occasion, would certainly appear unnecessarily
forcible for mere exclamations at the present day, and the fact that such
expressions were formerly used so lightly, and with no blasphemous
intention, shows how frequent must have been their employment for
familiarity to have robbed them of all meaning. So saintly a
person as Sir Thomas More was accustomed, according to the reports given
of his conversation by his son-in-law, to make use of such formulas as a
Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good faith, xxviii, but
compared with some of the other personages mentioned in his Life, he is
very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk, ‘his singular deare
friend*, coming to dine with Sir Thomas on one occasion, ‘ fortuned to
find him at Church singinge in the quiere with a surplas on his backe ;
to whome after service, as the(y) went home togither arme in arme, the
duke said, “ God body, God body, My lord Chauncellor, a parish Clark, a
parish Clarke ! ” ' On another occasion the same Duke said to him ^
By the Masse, Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for
Gode's body, Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the
conversation in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that
the good gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such
exclama- tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille
vallc ' ; ^ Bone deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name
you meane here thus fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More,
the Lord Chief Justice swears by St, Julian — ‘ that was ever his oath p.
li. ‘ Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year
! ' are both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry,
which means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in
the sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses
it, according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is
con- stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry
companions. By sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious
potsiick, kocks nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable
by the passion of God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and
further such exclama- tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I
shall so God me saue, I make God a vow (also written avow), would Christ
I had, &c. Meaning- less imprecations like the Devil take me, a
mischiefe take his token and him and thee too are sprinkled about the
dialogue of this play. The later plays of the great period offer a mine
of material of this kind, but only a few can be mentioned here. What a
Devil (instead of the Devil), what a pox, hfr lady, bounds, d blood, Gods
body, by the mass, a plague on thee, are among the expressions in the
First Part of Henry IV, In the Second Part Mr. Justice Shallow swears by
cock and pie. By the side of these are mild formulas such as Tm a Jew
else^ Tm a rogue if I drink today. In Chapman’s comedies there is a
rich sprinkling both of the slighter forms of exclamatory phrases, as
well as of the more serious kind. Of the former we may note j/ faitk^ Ur
lord^ Ur lady, by the Lord, How the divell (instead of how a devil), all
in A Humorous Day's Mirth ; He he sworne, All Fooles; of the latter kind
of expression Gods precious soles., H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my
life, Mons. D'Olive ; Gods my passion, H. D. M. ; swounds, zwoundes,
Gentleman Usher. Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight,
'sdeath, and a fore- shadowing of the form of asseveration so common in
the later seventeenth century in the phrase — ‘ If I know the mystery . .
. may I perish ii. 2, It is to the dramatists of the later
seventeenth and early eighteenth century that the curious inquirer will
go for expletives and exclamatory expressions of the greatest variety.
Otway, Congreve, and Vanbrugh appear to excel all their predecessors and
contemporaries in the fertility of their invention in this respect. It is
indeed probable that while some of the sayings of Mr. Caper, my Lady
Squeamish, my Lady Plyant, my Lord Foppington, and others of their
kidney, are the creations of the writers who call these ' strange pleasant
creatures ' into existence, many others were actually current coin among
the fops and fine ladies of the period. Even if many phrases used by
these characters are artificial con- coctions of the dramatists they
nevertheless are in keeping with, and express the spirit and manners of
the age. If Mr. Galsworthy or Mr. Bernard Shaw were to invent
corresponding slang at the present day, it would be very different from
that of the so-called Restoration Dramatists. The bulk of the following
selection of expletives and oaths is taken from the plays of Otway,
Congreve, Wycherley, Mrs. Aphra Behn, Vanbrugh, and Farquhar. A few occur
in Shadwell, and many more are common to all writers of comedies. These
are undoubtedly genuine current expressions some of which survive. Among
the more racy and amusing are : — Ld me die : ‘ Let me die your
Ladyship obliges me beyond expression* (Mr. Saunter in Otway's Friendship
in Fashion) ; ^ Let me die, you have a great deal of wit' (Lady Froth,
Congreve's Double Dealer); also much used by Melantha, an affected lady
in Dryden's Marriage \ la Mode. . . 1 Ld me perish — ‘
I'm your humble servant let me perish ' (Brisk, Double Dealer) ;
also used by Wycherley, Love in a Wood. ^le (Vanbrugh's
Relapse), Death and eternal iartures Sir, I vow the packet's (=
pocket) too high (Lord Foppington), Burn me if I do
(Farquhar, Way to win him). Mai me, ^ rat my packet handkerchief
(Lord Foppington). Never Never stir if it did not' (Caper, Otway,
Friendship in Love) ; * Thou shalt enjoy me always, dear, dear
friend, never stir '• BU take my death you're handsomer ' (Mrs.
Millamont, Congreve, Way of the World). , Bm a Person
(Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington ; very
frequent). Split my wmdpipe — Lord Foppington gives his brother his
blessing, on finding that the latter has married by a trick the lady he
had designed for himself— 'You have married a woman beautiful in her
person, charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her
inclina- tions, and of a nice marality split my windpipe As I
hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair), Tm a
Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy). By the
Universe (Wycherley, Country Wife). I swear and declare (Lady
Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant, Double Dealer) ; I do protest
and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s Sir Patient Fancy) ; I protest
I swoon at ceremony (Lady Fancyfull, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess
ingenuously a very discreet young man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient
Fancy). Gads my hfe (Lady Plyant). O Crimine (Lady
Plyant). O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).
Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three weeks
after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair). ril lay my Life he
deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar, Beaux' Strategem).
By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor). the
universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife). Gadzooks
(Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul Plyant,
Double Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey to London) ;
Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ; ^sheart (Sir
Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud (Mrs. Fantast,
Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^- zoz (Sir Credulous
Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir Petulant Fancy); 'D's diggers
Sir (a groom in Sir Petulant Fancy); ^sheart (Sir Wilf. Witwoud,
Congreve, Way of the World); odsheart (Sir Noble Clumsey, Otway,
Friendship in Fashion); Adsheart (fkx Jos, Wittol, Congreve, Old
Bachelor) ; Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer). By the side of marry,
frequent in the sixteenth and seventeenth centuries, the curious
expression Marry come up my dirty cousin occurs in Swift's Polite
Conversations (said by the young lady), and again in Fielding's Tom Jones
— said by the lady's maid Mrs. Honor. With this compare marry gep above,
which probably stands for ' go up Such expressions as Lard are
frequent in the seventeenth-century comedies, and the very
modern-sounding as sure as a gun is said by Sir Paul Plyant in the Double
Dealer. The comedies of Dryden contain but few of the more or less
mild, and fashionable, semi-bantering exclamatory expressions which
enliven the pages of many of his contemporaries ; he sticks on the whole
to the more permanent oaths — 'sdeath, ^sblood, &c. It must be
allowed that the dialogue of Dry den's comedies is inferior to that of
Otway or Congreve in brilliancy and natural ease, and that it probably
does not reflect the familiar colloquial English of the period so
faithfully as the conversation in the works of these writers. Dryden
himself says, in the Defense of the Essay of Dramatic Poesy, ' I know I
am not so fitted by Nature to write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour
which is required to it. My Conversation is slow and dull, my Humour
Saturnine and reserv’d : In sliortj I am none of those who endeavour to
break all Jests in Com- pmy, or make Repartees It may be
noted that the frequent use — almost in ever;^ sentence — of such phrases
as A/ me perish, hum me, and other meaningless interjec- tions of this
order, is attributed by the dramatists only to the most frivolous fops
and the most affected women of fashion. The more serious characters, so
far as such exist in the later seventeenth-century comedies, aie addicted
rather to the weightier and more sober sort of swearing. It is perhaps
unnecessary to pursue this subject beyond the* first third of the eighteenth
century. Farquhar has many of the manner- isms of his slightly older
contemporaries, and some stronger expressions, e. g. ‘ There was a
neighbour's daughter I had a woundy kindness for Truman, in Twin Rivals ;
but Fielding in his numerous comedies has but few of the objurgatory
catchwords of the earlier generation. Swearing, both of the lighter kind
as well as of the deliberately profane variety, appears to have
diminished in intensity, apart from the stage country squire, suc h
as Squire Badger in Don Quixote, who says ^ShodUkins and ecod, and Squire
Western, whose artless profanity is notorious. Ladies in these plays, and
in Swift's Polite Conversations, still say lard, O Ltid, and la, and
mercy, ^shuhs, God bless my eyesight, but the rich variety of expression
which we find in Lady Squeamish and her friends has vanished. Some few of
the old mouth-filling oaths, such as zounds, ^sdeath, and so on, still
linger in Goldsmith and Sheridan, but the number of these available for a
gentleman was very limited by the end of the century. From the beginning
of the nineteenth century it would seem that nearly all the old oaths
died out in good society, as having come to be considered, from
unfamiliarity, either too profane or else too devoid of content to serve
any purpose. It seems to be the case that the serious oaths survive
longest, or at any rate die hardest, while each age produces its own
ephemersil formulas of mere light expletive and asseveration.
Hyperbole ; Compliments ; Approval ; Disapproval ; Abuse, Very
characteristic of a particular age is the language of hyperbole and
exaggeration as found in phrases expressive on the one hand of
compliments, pleasure, approval, amusement, and so on, and of disgust,
dislike, anger, and kindred emotions, on the other. Incidentally, the
study of the different modes of expressing such feelings as these leads
us also to observe the varying fashion in intensives, corresponding to
the present-day awfully, frightfully, and the rest, and in exaggeration
generally, especially in paying compliments. The following
illustrations are chiefly drawn from the seventeenth century, which
offers a considerable wealth of material. It is wonderful what a
variety of expressions have been in use, more or less transitorily, at
different periods, as intensives, meaning no more than i>iry, very
much, &c. Rarely in Chapman^s Gentleman Usher — ^How did you like me
aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord, that, that is a pleasure intolerahU \
Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ; ‘Let me die if that was
not extravaganily pleasant vtry amusing), ibid. ; ^ I vow he himself
sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love dancing immoderately \
ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce take me if your
Ladyship has not the art of surprising the most naturally in the world —
I hope you'll make me happy in communicating the Poem Brisk in Congreve's
Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour, I aSvSure you Careless, I
don't know anything in the World I would refuse to a Person so
meritorious — You’ll pardon my want of expression', Lady Plyant in Double
Dealer; to which Careless replies — ‘O your “Xadyship is abounding in all
Excellence^ particularly that of Phrase ; My Lady Froth is very well in
her Accomplishments — But it is when my Lady Plyant is not thought of— if
that can ever be ' ; Lady Plyant : — ‘O you overcome me — That is so
excessive' ; Brisk, asked to write notes to Lady Froth's Poems, cries ‘
With all my Heart and Soul, and proud of the vast Honour let me perish ‘
I swear Careless you are very alluring^ and say so many fine Things, and
nothing is so moving as a fine Thing. . , . Well, sure if I escape your
Importunities, I shall value myself as long as I live, I swear ; Lady
Plyant. The following bit of dialogue between Lady Froth and Mr. Brisk
illustrates the fashionable mode of bandying exaggerated, but i*ather
hollow compliments. ‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last degree —
Brisk was ever anything so well bred as My Lord ? Brisk — Never anything
but your Ladyship let me perish. Ldy F, O prettily turned again ; let me
die but you have a great deal of Wit. Mellefont don^t you think Brisk has
a World of Wit ? MeUefont — O yes Madam. Brisk — O dear Madam — Ldy F» An
mfinite deal! Brisk, O Heaven Madam. ■'Ldy F. More Wit — than Body.
Brisk — Pm everlastingly your humble Servant^ deuce take me Madam.
Lady Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay herself
a pretty compliment in lamenting the ravages of her beauty and the con-
sequent pretended annoyance to herself — ‘ To confess the truth to you,
Fm so everlastingly fatigued with the addresses of unfortunate gentlemen
that were it not for the extravagancy of the example, I should e'en tear
out these wicked eyes with my own fingers, to make both myself and
mankind easy Swift's Polite Conversations consist of a wonderful
string of slang words, phrases, and clicMs^ all of which we may suppose
to have been current in the conversation of the more frivolous part of
Society in the early eighteenth century. The word pure is used for very —
‘ this almond pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the sense of
excellent^ as in ‘ by Dad he's pure Company \ Sir Noble Clumsey's
summing-up of the 'Arch- Wag' Malagene. To divert in the characteristic
sense of ‘amuse', and instead of this — ‘ Well ladies and gentlemen, you
are pleased to divert yourselves'. Lady Wentworth in 1706 speaks of her
‘munckey' as ‘ full of devertin tricks and twenty years earlier Cary
Stewkley (Verney), taxed by her brother with a propensity for gambling,
writes ‘ whot dus becom a gentilwoman as plays only for divariion I hope
I know The idiomatic use of obliging is shown in the Polite
Conversations, by Lady Smart, who remarks, in answer to rather excessive
praise of her house — ‘ My lord, your lordship is always very obliging '
; in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene you are a
very obliging person \ Extreme amusement, and approval of the
persons who provoke it, are frequently expressed with considerable
exaggeration of phrase. Some instances are quoted above, but a few more
may be added^. ‘ A you mad slave you, you are a ticUing Acior\ says
Vincentio to Pogio in Chapman’s Gentleman Usher. Mr. Oldwit,
in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the buffoonery of Sir
Humphrey : — ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the death of me ; 1
shall break a vein if I keep you company, you arch Wag you, . . . Well
Sir Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT Wit and Wag. I must
forswear thy Company, thou'lt kill me elsei' The arch wag asks ' What is
the World worth without Wit and Waggery and Mirth ? and describing some
prank he had played before an admiring friend, remarks — Mf you’d seen
his Lordship laugh! I thought my Lord would have killed himself. He
desired me at last to forbear ; he was not able to endure it! 'Why what a
notable Wag^s this" is said sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir
Patient Fancy. The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s
Friendship in Love illustrate the modes of expressing an appreciation of
' Waggery In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his
religion (1688), Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he
intends to write — ^you 'll half kill yourselves with laughing at the
conceit and again ' I protest Ml’ Crites you are enough to make anybody
split with laugh- ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation declares
— 'Well, I swear you'll make one die with laughing The language
of abuse, disparagement, contempt, and disapproval, whether real or in
the nature of banter, is equally characteristic. The following is
uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile in Otway’s Friendship in
Love, to the njusicians who are entertaining the company — ' Hold, hold,
what insufferable rascals are these ? Why you scurvy thrashing scraping
mongrels, ye make a worse noise than crampt hedgehogs. ’Sdeath ye dogs,
can’t you play more as a gentleman sings ? ’ The
seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the art of
backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant picture of
an absent friend — 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in the Double
Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always chewing the
cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her cough ’ pro-
tests Cynthia ; Lady Froth : — ' Then that t’other great strapping Lady—
I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so exorbitantly ’
; Brisk : — ' I know whom you mean — But deuce take me I can't hit of
her Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with a
trowel’ Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't you
apprehend me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee — ^you
under- stand me — somewhat heavy, a little shallow or so Lady
Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval— '0 Filthy M**
Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop . Nauseous and filthy
are favourite words in this period, but are often used so as to convey
little or no specific meaning, or in a tone of rather affectionate banter.
^ He ’s one of those nauseous offerers at wit Wycherley’s Country Wife ;
^ A man must endeavour to look wholesome ’ says Lord Foppington in
Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a figure in the side box,
the ladies should be compelled to turn their eyes upon the Play ’ ; again
the same nobleman remarks ‘ While I was but a Knight I was a very
nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor — I shall never be
reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the verb, to
express a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate walking
; 'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the World). In
the Old Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom she is Th In^e,
cries out, at the suggestion of such a possibility — ‘ Filthy Fellow I
... Oh I love your hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the same
play Lucy the maid calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’ during
an exchange of civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe done
jesting ’ says Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner kisses
her. ‘Out upon you for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the Polite
Conversations, in reply to the graceful banter of Neverout. Toad is
a term of endearment among these ladies ; ‘ I love to torment the
confounded toad' says Lady Fidget, speaking of Mr. Horner for whom she
has a very pronounced weakness. ‘ Get you gone you good- natur’d toad you
' is Lady Squeamish's reply to the rather outre compli- ments of Sir
Noble. Plague (Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in
Polite Con- versations. Lord Sparkish complains to his host — ‘ My Lord,
this venison is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my
hand with your plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes,
with satisfaction, that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so
teizing ; you plague a body so ! can't you keep your filthy hands to
yourself? ' is a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.
Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild
disapproval — ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely,
but let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a
certain degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ;
again, she says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange
pleasant creature We have an example above of exorbitantly in
the sense of ‘out- rageously', and the adjective is also used in the same
sense — ^‘Most exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury
Fair, upon her husband's outburst against her airs and graces. We may
close this series of illustrations, which might be extended almost
indefinitely, with two from the Verney Memoirs, which contain idiomatic
uses that have long since disappeared. Susan Verney, wishing to say that
her sister's husband is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore
peg has married a very humersome cros boy as ever I see' (Mem. ii. 361,
1:647). Edmund Verney, Sir Ralph's heir, having had a quarrel with a
neigh* bouring squire concerning boundaries and rights of way, describes
him as ‘very malicious and stomachfull' (Mem. iv. 3:77, 1682). The phrase
‘as ever I see' is common in the Verney letters, and also in the Went-
worth Papers. Preciosity, &c. We close this chapter with
some examples of seventeenth-century preciosity and euphemism. The most
characteristic specimens of this kind of affected speech are put by the
writers into the mopths of female characters, and of these we select
Shadwell's Lady Fantast and her daughter (Bury Fair), Otway's Lady
Squeamish, Congreve's Lady Wishfort, and Vanbrugh's Lady Fancyful in the
Provok'd Wife. Some of the sayings of a few minor characters may be added
; the waiting- maids of these characters are nearly as elegant, and only
less absurd than their mistresses. Luce, Lady Fantast's
woman, summons the latter's stepdaughter as follows : — ^ Madam, my Lady
Madam Fantast, having attir'd herself in her morning habiliments, is
ambitious of the honour of your Ladyship's Company to survey the Fair ' ;
and she thus announces to her mistress the coming of Mrs. Gertrude the
stepdaughter : — ‘ Madame, M^s Gatty ' will kiss your Ladyship's hands
here incontinently '. The ladies Fan- tast, highly respectable as they
are in conduct, are as arrant, pretentious, and affected minxes as can be
found, in manner and speech, given to interlarding their conversation
with sham French, and still more dubious Latin. Says the daughter — ‘To
all that which the World calls Wit and Breeding, I have always had a
natural Tendency, a penchen^ derived, as the learned say, ex traduce,
from your Ladyship : besides the great Prevalence of your Ladyship's most
shining Example has perpetually stimulated me, to the sacrificing all my
Endeavours towards the attaining of those inestimable Jewels ; than
which, nothing in the Universe can be so much a mon gre, as the French
say. And for Beauty, Madam, the stock I am enrich'd with, comes by
Emanation from your Ladyship, who has been long held a Paragon of
Perfection : most Charmanf, most Tuant! ‘Ah my dear Child' replies the
old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been, and yet I am not quite gone .
When Gertrude her stepsister, an attractive and sensible girl, comes in
Mrs. Fantast greets her with ‘ Sweet Madam Gatty, I have some minutes
impatiently expected your Arrival, that I might do myself the Great
Honour to kiss your hands and enjoy the Favour of your Company into the
Fair ; which I see out of my Window, begins to fill apace.'
To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly, ‘ I got ready
as soon as e'er I could, and am now come to wait on you ', but old
Lady Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will you never
attain to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more polite way
of Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I come to wait
on you! You should have said; I assure you Madam the Honour is all
on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the sweet
Society of so excellent a Person. This is Breeding/ ‘Breeding!' exclaims
Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And with this judgement,
we may leave My Lady Fantast. We pass next to Lady Squeamish, who
is rather ironically described by Goodvile as ‘the most exact Observer of
Decorums and Decency alive Her manner of greeting the ladies on entering,
along with her cousin Sir Noble Clumsey, if it has the polish, has also
the insincerity of her age—' Dear Madam Goodvile, ten thousand Happinesses
wait on you ! Fair Madam Victoria, sweet charming Camilla, which way
shall I express my Service to you ? — Cousin your honour, your honour to
the Ladies. — Sir Noble : — Ladies as low as Knee can bend, or Head can
bow, I salute you all : And Gallants, I am your most humble, most
obliged, and most devoted Servant/ The character of this
charming lady, as well as her taste in language, is well exhibited in the
following dialogue between her and Victoria. ^ Oh my dear Victoria
! the most unlock’d for Happiness ! the pleasantest Wlc^ent ! the
strangest Discovery ! the very thought of it were enough to cure
Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and Valentine, ha, ha, ha,
Viet, Dear Madam, what is ’t so transports you ? Ldy Sqti,
Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me, hold me, or I shall
die with laughter — ha, ha, ha, Camilla and Valentine, Valentine and
Camilla, ha, ha, ha — 0 dear, my Heart’s broke. Viet, Good Madam
refrain your Mirth a little, and let me know the Story, that I may have a
share in it. Ldy Squ, An Assignation, an Assignation tonight in the
lower Garden ; — by strong good Fortune I overheard it all just now — but
to think of the pleasant Consequences that will happen, drives me into an
Excess of Joy beyond all sufferance. Viet, Madame in all
probability the pleasantest Consequence is like to be theirs, if any body’s
; and I cannot guess how it should touch your Ladyship in the
least. Ldy Squ, O Lord, how can you be so dull ? Why, at the very
Hour and Place appointed will I greet Valentine in Camilla’s stead,
before she can be there herself ; then when she comes, expose her Infamy
to the World, till I have thorowly revenged my self for all the base
Injuries her Lover has done me. Viet But Madam, can you
endure to be so malicious ? Ldy Squ, That, that ’s the dear
Pleasure of the thing ; for I vow I’d sooner die ten thousand Deaths, if
I thought I should hazard the least Temptation to the prejudice of my
Honour. Viet, But why should your Ladyship run into the mouth of
Danger? Who knows what scurvy lurking Devil may stand in readiness, and
seize your Virtue before you are aware of him ? Ldy Squ,
Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation: I durst trust
myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers: Besides, that
ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal Aversion, more odious
to me than foul weather on a May-day, or ill smell in a Morning. ... No,
were I inclined to entertain Addresses, I assure you I need not want for
Servants ; for I swear I am so perplexed with Billet-Doux^ every day, I
know not which way to turn myself: Besides there’s no Fidelity, no Honour
in Mankind. O dear Victoria I whatever you do, never let Love come near
your Heart : Tho really 1 think true Love is the greatest Pleasure in the
World.’ And so we let Lady Squeamish go her ways for a brazen jilt,
and an affected, humoursome baggage. If any one wishes to know whither
her ways led her, let him read the play. Only one more
example of foppish refinement of speech from this play — the remarks of
the whimsical Mr. Caper to Sir Noble Clumsey, who coming in drunk, takes
him for a dandng-master — ^ I thought you had known me’ says he, rather
ruefully, but adds, brightening— 'I doubt you may be a little overtaken. Faith,
dear Heart, Fm glad to see you so merry I ’ The character of
Lady Wishfort in the Way of the World is perhaps one of the best that Congreve
has drawn; her conversation in spite of the deliberate affectation ir^
phrase is vivid and racy, and for all its preciosity has a naturalness
which puts it among the triumphs of Con- greve’s art. He contrives to
bring out to the full the absurdity of the lady’s mannerisms, in feeling
and expression, to combine these with vigour and ease of diction, and to
give to the whole that polish of which he is the unquestioned master in
his own age and for long after. The position of Lady Wishfort is that
of an elderly lady of great ouii ward propriety of conduct, and a
steadfast observer of decorum, in sjl^ch no less than in manners. Her
equanimity is considerably upset by the news that an elderly knight has
fallen in love with her portrait, and wishes to press his suit with the
original. The pretended knight is really a valet in disguise, and the
whole intrigue has been planned, for reasons into which we need not enter
here, by a rascally nephew of Lady Wishfort’s. This, however, is not
discovered until the lover has had an interview with the sighing fair.
The first extract reveals the lady discussing the coming visit with
Foible her maid (who is in the plot). ‘ I shall never recompose my
Features to receive Sir Rowland with any Oeconomy of Face Fm absolutely
decayed. Look, F oible. Foible, Your Ladyship has frown’d a little
too rashly, indeed Madam. There are some Cracks discernible in the white
Varnish. Ldy W, Let me see the Glass— Cracks say’st thou ? Why I am
arrantly flead (e. g. flayed) — I look like an old peel’d Wall. Thou must
repair me Foible before Sir Rowland comes, or I shall never keep up to my
picture. F, I warrant you, Madam ; a little Art once made your
picture like you ; and now a little of the same Art must make you like
your Picture. Your Picture must sit for you, Madam. Ldy W,
But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ? Or will he not fail
when he does come? Will he be importunate, Foible, and push? For if he
should not be importunate ... I shall never break Decorums — I
shall die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O no, I can never
advance. ... I shall swoon if he should expect Advances. No, I hope Sir
Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the Necessity of breaking
her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t give him Despair— But a
little Disdain is not amiss ; a little Scorn is 2X\mm%,--Foible.--h
little Scorn becomes your Ladyship . — Ldy IV. Yes, but Tendeimess
becomes me best— A Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort
of a — Ha Foible !— A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My
Neice affects it but she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my
Toilet be remov’d— I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he
handsom ? Don’t answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be
taken by Sm- prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man.—
TV. —Is he ! O then he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save
Decorums if Sir Rowland importunes. I have a mortal Terror at the
Apprehension of offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man.
Let my things be remov’d good Foible*’ The next passage
reveals the lady ready dressed, and expectant of Sir Rowlands
arrival. — ‘Well, and how do I look Foible! — Z; Most killing well,
Madam. Ldy IV, Well, and how shall I receive him ? In what Figure shall I
give 39S colloquial IDIOM his Heart the first
Impression ? There is a great deal in the first Impression, Shall I sit?
— No, I won’t sit — I’ll walk— ay I’ll walk from the door upon his
Entrance; and then turn full upon him — No, that will be too sudden. I’ll
lie, ay Ell lie down — I’ll receive him in my little Dressing-Room. There
*s a Couch — Yes, yes, I’ll give the first Impression on a Couch — I
won’t lie neither, but loll, and lean upon one Elbow; with one Foot a
little dangling off, jogging in ^ thoughtful Way — Yes— Yes — and then as
soon as he appears, start, ay, start and be surpris’d, and rise to meet
him in a pretty Disorder — Yes — O, nothing is more alluring than a Levee
from a Couch in some Con- fusion— It shews the Foot to Advantage, and
furnishes with Blushes and recomposing Airs beyond Comparison. Hark !
there ’s a Coach.’ .^t it is when theure du Berger draws near, as
she supposes, that Lady Wishfort rises to the subiimest heights of
expression : — ‘Well, Sir Rowland, you have the Way, — you are no
Novice in the Labyrinth of Love— You have the Clue — But as I’m a Person,
Sir Rowland, you must not attribute my yielding to any sinister Appetite,
or Indigestion of Widow- hood ; nor impute my Complacency to any Lethar^
of Continence — I hope you don’t think me prone to any iteration of
Nuptials — If you do, I protest I must recede — or think that I have made
a Prostitution of Decorums, but in the Vehemence of Compassion, or to
save the Life of a Person of so much Importance — Or else you wrong my
Condescension — If you think the least Scruple of Carnality was an
Ingredient, or that — Here Foible enters and announces that the
Dancers are ready, and thus puts an end to the scene at its supreme
moment of beauty — and absurdity. Even Congreve could not remain at that
level any longer. It is worth while to record that in this play, a
maid, well called Mincings announces — ‘ Mem, I am come to acquaint your
Laship that Dinner is impatient The hostess invites her guests to go into
dinner with the phrase — ‘ Gentlemen, will you walk ? ' This
chapter and book cannot better conclude than with a typical piece of
seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's
leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the
subject for himself. The passage is from the Provok’d Wife :
— ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble servant, I must take my
leave. Lady Brute. What, going already madam ? Ldy F. I
must beg you’ll excuse me this once ; for really 1 have eighteen visits
this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one step out of the room.
Ldy B. Indeed I’ll wait upon you down. Ldy F. No, sweet Lady
Brute, you know I swoon at ceremony. Ldy B, Pray give me leave —
Ldy F. You know I won’t — I^dy B. — You know I must. — Ldy F. — Indeed
you shan’t — Indeed I will — Indeed you shan’t — Ldy B. — ^Indeed I
will. Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed, indeed, indeed, you
shan’t’ [Exit running. They follow.\ Alberto
Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.
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