Grice e Castrucci: l'implicatura conversazionale del guerriero
indo-germanico -- sul conferimento di valore – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Monterosso al Mare). Filosofo italiano. Grice: “Castrucci is
wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia, iscrivendosi quindi
all'Firenze, dove si è formato negli studi filosofico-giuridici e
storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi, laureandosi in
giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore
universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un
breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa
all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra
Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena. I
suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi
rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza
kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del
diritto. Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di
potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di
un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come
acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità:
Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del
Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento
materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di
appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e
comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento
all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata
da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già
rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.
L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare,
seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura,
una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva
concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla
"nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi
particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci,
la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste,
l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori
classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e
Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas,
nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un
mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno suscitato polemiche
alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre col quale si riferiva a figure storiche
naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di
Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere
che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il
mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo
la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri,
ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti
nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex
Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver
semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori
della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e
successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai
aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore,
sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e
paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande
speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver
"dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla
gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in
procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole
del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di
negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla Commissione
disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare sul suo
caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al
licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento
presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per
motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero
decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il
pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la
decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul
conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del
diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la
proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma
giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La
scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria
politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano,
Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione
di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi;
Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi
giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del
'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos
della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi,
Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica,
Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo in
costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in Il
Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica.
Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano,
Giuffrè); Ordine convenzionale e
pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno
nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la decisione” (Milano, Giuffrè);
Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti
intellettuali dello Stato moderno; La forma e la decisione; Convenzione, forma,
potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè).
HOMO ABSCONDITUS L’IDEOLOGIA TRI PARTITA DEGLI INDOEUROPEI
il Cerchio Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA TRIPARTITA
DEGLI INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile degli
studi di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle
anti¬ che civiltà euro-asiatiche. La struttura fondamentale
del pensiero religioso e sociale delle popolazioni uscite dalla comune
radice indoeuro¬ pea. dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in
Sacerdoti. Guerrieri e Contadini che è presente nelle origini di
Roma così come nei miti iranici, germanici e celti, si rivela essere
lo specchio di un'armonia divina, in cui gli stessi dèi sono così
suddivisi, clas¬ sificati e diversamente adorati. È la dimostrazione
di come, nelle ci¬ viltà tradizionali, anche l'aspetto sociale e politico
dipenda radicalmente dalla dimensione mitico-religiosa. e il mondo
del divino diviene l’archetipo che dà forma a tutta la società
degli uomini. DUMÉZIL è una figura fondamentale nel
panorama culturale europeo. Filologo e storico, nel ‘900 ha
riav¬ viato gli studi attorno alla civiltà indoeuropea nelle grandi
civiltà precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la Grecia, le popolazioni
celtiche e germaniche. Ha lasciato una bibliografia sterminata,
solo parzialmente tradotta in italiano, fra cui ricordiamo almeno La
religione ro¬ mana arcaica, Gli Dèi dei Germani, Mito ed Epopea e
Gli Dèi sovrani degli Indoeuropei. HOMO ABSCONDITUS
Dumézil L’ideologia tripartita degli Indoeuropei
Con un saggio introduttivo di RlES il Cerchio Iniziative
editoriali L'idéologie tripartie des Indo-Européens, Bruxelles Sigillo
del re ittita Tarkummuwa, re di Mera. Walters Art Museum,
Baltimora. II Cerchio Srl La riscoperta del pensiero
religioso indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil. Calmette rinvenne i
primi due Li bri dei Veda, u n documento coni p letamente sco nosciuto i
n occidente, e i preziosi manoscritti giunsero nella Biblioteca Reale di
Parigi. Davanti all’Asiatic Society of Bengala, Jones pronuncia un
dotto discorso in cui dimostrò l’esistenza di una lingua comune, madre
del sanscrito e del greco. Eccoci alle soglie della riscoperta del pensiero
indoeuropeo. Il primo dossier indoeuropeo Il XIX secolo
riprese i lavori di questi pionieri e cercò di com¬ piere nuove scoperte
sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti dell’antica mitologia
germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei Germani al
Cristianesimo, gli storici tedeschi tentarono di tornare alle origini
spingendosi nei dominii dell’India e dell’Iran. Particolar¬ mente due
pubblicazioni provocarono grande risonanza: la prima è la celebre opera
di Creuzer Simbolik undMvlhologie
der altea Vòfker , tradotto in francese nel 1825; infine nel 1810 J.J.
Gòrres pubblicò il suo Mythengeschichle der asiatischen Welt, in
cui questo precursore del romanticismo religioso cercò di d imostrare che
i miti dell’India, dell’Iran e della Grecia veicolavano una dottrina
co¬ mune su Dio, l’Anima e l’immortalità. Sulla scia dei loro
maestri i mitografi romantici si lanciarono alla ricerca delle prime idee
religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò questa corrente si occupò
dell’espressione e delle modalità di trasmis¬ sione del messaggio
religioso sin dalle origini dell’umanità. A questa corrente
romantica si oppose la ricerca storica e filolo¬ gica, rappresentata da
Karl Otfried Miiller (1797-1840), da Franz Bopp (1791-1867), da Antoine
de Chézy e da tutta la linea degli specialisti in filologia comparata che
studiarono scientificamente i testi dei Veda e dell’Avesta per
familiarizzarsi col pensiero dell’India e dell’Iran antichi. Tra questi
ricercatori Miiller occupa un posto di primaria importanza. Specializzatosi in
sanscrito, in grammatica comparata ed in filosofia del mito ad Oxford,
istituì una Cattedra divenuta celebre: egli credette che la filologia
comparata fos se la chiave che avrebbe permesso di aprire le porte della storia
delle religioni. Ai suoi occhi la lingua è un testimone autentico del
pensiero. Miiller sostenne che in origine l’uomo ha agito, e per
descrivere i suoi atti inventò il linguaggio. Da allora i miti non sono
altro che la personi¬ ficazione degli oggetti e delle azioni che 1 ’uomo
ha dovuto esprimere e descrivere. Continuando le sue ricerche
in direzione delle origini, Miiller tradusse i Veda, testo in cui credeva
di trovare il primo pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli
antichi Ariani. Così secon¬ do il nostro Autore i poemi vedici sarebbero
la fonte del pensiero reli¬ gioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani.
La gemma tra le ricerche di Miiller è rappresentata dalla pubblicazione
dei Sacred Books of thè Easl (che potè terminare prima della propria
morte, la¬ sciando così agli studiosi occidentali una vera summa dei
libri sacri dell’antica Asia. Il dossier indoeuropeo del XIX secolo
è già abbastanza ricco: scoperta della corrispondenze all’interno del
vocabolario delle lingue indoeuropee; presentimento dell’esistenza di una
cultura arcaica ariana come pure di una civiltà comune alle diverse
popolazioni. Frazer tentò d’intraprendere un vasto studio comparato at¬
torno al mito romano della morte rituale ed al mito nordico del dio
Balder. Tutta la sua opera, The Golden Bough cerca di delineare una sintesi di
questa mitologia, ma le sue conclusio¬ ni sono deludenti.
Dopo una prima esplorazione, condotta secondo il metodo frazeriano,
Dumézil abbandonò questa via della regalità sacra per volgersi verso la
linguistica e la filologia comparata. Le sue guide furono A. Meillet e J.
Vendryes. In un articolo intitolato Les correspondances de vocabulaire
enlre l ’indo-iranien et Titalo-celtique (in «Mémoires de la Société
Linguistique»), Vendryes ha sottoli¬ neato le corrispondenze esistenti
tra parole indo-iraniche da una parte ed italo-celtiche dall’altra. Si
tratta di termini relativi al culto, al sacrificio ed alla religione, c vi sono
anche parole mistiche relative all’effi¬ cacia degli atti sacri, alla
purezza rituale, all’esattezza dei riti, all’of¬ ferta fatta agli dèi,
all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla protezione divina ed
alla santità. Questa scoperta fu molto importante, poiché dimostra
l’esistenza di una comunanza di termini religiosi presso i popoli che in
seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli Italici ed i
Celti. La permanenza di questo vocabolario religioso alle due estremità
del mondo indoeuropeo, in India ed in Iran, nella Gallia ed in Italia, è
un dato molto significativo, benché la scomparsa di questo vocabolario
presso popoli come i Germani e gli Scandinavi non abbia mancato di
incuriosire Vendryes. Riflettendo, egli ha consta¬ tato che questi
termini religiosi si sono mantenuti presso quei popoli clic disponevano
di collegi sacerdotali influenti: i brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi,
il Pontìfex romano. E dunque il sacerdozio a conservare e trasmettere
questo vocabolario grazie ai rituali ed alla liturgia, ai testi sacri ed
alle preghiere. Siamo in presenza di una testimonianza preziosa c di una
fonte importante clic ci conduce ad una conclusione decisiva: il mondo
indoeuropeo arcaico disponeva di concetti religiosi identici clic
veicolava grazie ad un linguaggio comune. 3. La scoperta
dell’eredità indoeuropea Alla luce delle ricerche dì Vendryes, G.
Dumézil ha compreso quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al
termine di vent’anni di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di
penetrare gli arcani del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La
pubblicazio¬ ne de L'idéologie tripartie des Indo-Européens nel 1958 è il
compi¬ mento di una lunga marcia ed il punto di partenza per tutte le
scoperte .successive. L’esame del problema flamen-brahman c dei
flamini maggiori a Roma condusse Dumézil ad una conclusione decisiva:
«/ più antichi Romani, gli Umbri, avevano portato con toro in
Italia la stessa concezione conosciuta dagli Indo-Iranici e su cui noto¬
riamente gli Indiani avevano fondato il loro ordine sociale »' Era
la scoperta e la messa a fuoco di un’eredità indoeuropea, di una
ideologia funzionale e gerarchizzata, alla sommità della quale si trova
la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla forza fisica che
s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa la fecondi-
tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma indispensabile
al loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia di lettura
lo studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la
documenta¬ zione disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui
oggetto c il dato indoeuropeo. Durante il III c II millennio
a.C. delle bande di conquistatori si spostarono verso l’Atlantico, il
Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate erano fatte di diversi dialetti
provenienti da una lingua comune, il che suppone un fondo intellettuale e
morale identico, ed un minimo di ci¬ viltà comune. Popoli senza
scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato pochi documenti. Solo gli
Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II millennio a.C., hanno
adottato una scrittura cuneiforme che consentì loro di conservare degli
archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza del vocabolario religioso
legato all’organizzazione sociale, alle prati¬ che cultuali ed ai
comportamenti religiosi. Parecchi fatti presuppon¬ gono l’esistenza di
una religione che rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo,
una concezione dell’origine, del presente c del futuro. DUMÉZIL,
Mythe et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les épopees
despeuple indo-européens, Gallimard, Paris 1968, p. 15 (Trad. italiana,
Einaudi, Torino 1982 - NdT) Volendo spiegare quest’eredità e la sua
struttura, Dumézil ha elaborato il proprio metodo comparativo, che lui
stesso chiama «gene¬ tico)} 2 . La prima fase del lavoro consiste nel
mettere in evidenza delle corrispondenze precise e sistematiche, che
permettano di tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati
logici ed articolazioni es¬ senziali. Questo schema viene proiettato
nella preistoria, al fine di comprendere la curva dell’evoluzione
religiosa. Possedendo delle corrispondenze precise, sistematiche e
numerose, lo storico delle ci¬ viltà e lo storico delle religioni
procedono per induzione in direzione delle origini. Utilizzando i dati
dell’archeologia, della mitologia, della filologia, della sociologia,
della liturgia e della teologia arcaica, lo storico giunge a comprendere le
grandi linee del pensiero di questi popoli e la loro evoluzione, sino
alle soglie della storia. Grazie a questo lavo¬ ro lungo ed arduo si è
riusciti a stabilire un’archeologia del comporta¬ mento e delle
rappresentazioni. Dumézil non ha preteso di resuscitare la
religione degli Indoeuropei come venne vissuta nei tempi preistorici. Si
è accontentato piuttosto di delineare lo schema concettuale delle società
collegate tra loro nello sviluppo della storia, e si è servito di questi
schemi per giun¬ gere a spiegare i testi ed i fatti che resistevano ad
ogni spiegazione. Nelle civiltà indoeuropee il nostro autore trova
una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono queste i tre varna
dell’India: i brdhmana, sacerdoti incaricati del sacrificio e custodi
della scienza sacra; gli ksatriya, guerrieri incaricati della protezione
del popolo; i vaisya, produttori dei beni materiali, del nutrimento.
Secondo il Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre «caste» sono molto antiche. In
Iran l 'Avesta menziona tre gruppi di uomini: sacerdoti o àQaitrvan;
guer¬ rieri, i radaci.star montatori di carri; gli
agricoltori-allevatori, chiama¬ ti vàstryò.fsuycmt. Una struttura
identica ha lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro discendenti, gli
Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi, la loro
aristocrazia militare ed i loro boairig, gli allevatori DUMÉZIL, L
’heritage des indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris di buoi. L’analisi
delle origini di Roma condotta da Dumézil si è rive¬ lata particolarmente
illuminante. Queste tre funzioni sono attività fondamentali e
indispensabili per la vita normale della comunità. La prima funzione,
quella del sa¬ cro, regola i rapporti degli uomini fra loro e sotto la
garanzia degli dèi, determina il potere del re e traccia i limiti della
scienza, inseparabile dalla manipolazione delle cose sacre. La seconda
funzione, quella re¬ lativa alla forza fisica, interviene nella conquista,
nell’organizzazione della società e nella sua difesa. La terza ricopre un
vasto ambito, quel¬ lo della sussistenza degli uomini e della
conservazione della società: fecondità animale ed umana, nutrimento,
ricchezza e salute. Dumézil ha dimostrato che la società indoeuropea era
governata in profondità grazie ad una mentalità fondata su una struttura
trifunzionale. La teologia si trova al centro del mondo indoeuropeo.
Una delle grandi prove di ciò è la lista degli dèi ariani di Mitanni
trovata su una tavoletta a Bogazkòy, l’antica Hattusa, capitale
dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa tavoletta contiene il
testo di un trattato con¬ cluso nel 1380 a.C. tra il re hittita
Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della
loro alleanza ognuno dei re invo¬ ca i propri dèi: il re di Mitanni
invoca gli dèi considerati i protettori della società ariana:
Mithra-Varuna, India e i Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che
ritroviamo in India ed in Iran. In quest’ultimo paese è la riforma di
Zarathustra e la formulazione delle sei entità divi¬ ne - gli Immortali
Benefici - che illustra in maniera illuminante questa teologia
strutturata su tre piani ed articolata in tre funzioni. Dai
Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto all’Ita¬ lia ove ha
rilevato la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in Umbria ed a
Roma la triade precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus. Questi dati
indicano chiaramente che l’ideologia è correlata ad una teologia delle
tre funzioni. Nell’India vedica ciò comporta un’associazione di tre
coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli dèi Mitra e Varuna, signori
del primo livello, si dividono la sovranità di questo mondo e dell’altro:
Indra, scortato dai Marut, un battaglione di giova¬ ni guerrieri,
proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin sono distributori
di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armen¬ ti; si tratta dunque
di una teologia tripartita. Il documento di Hattusadel 1380 a.C. ci
mostra che questa teo¬ logia è anteriore alla redazione dei Veda e che fa
parte della tradizione ariana arcaica; d’altra parte, la presenza dello
schema trifunzionale nella teologia di Zarathustra ed il suo riflesso
sugli «Arcangeli» raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma
l’attacca¬ mento ad una struttura di pensiero ariano sia presso i
sacerdoti che i popoli dell’Iran antico. La stessa eredità teologica si
rinviene anche in Italia, presso i Celti, i Germani e gli Scandinavi.
Conclusioni E stato necessario tutto il XIX secolo per
costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c stato quello
di aver consa¬ crato un 'intera vita all’interpretazione di questa
documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr
c di James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al
dominio del culto e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del
vocabolario del sa¬ cro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli
italo-ccltici dall’al¬ tra, hanno fornito allo studioso l’idea di
studiare più a fondo i paralleli attorno alle divinità ed ai sacerdoti,
poiché questi popoli sono i soli tra gli indoeuropei ad aver conservato
per molti secoli i loro collegi sacer¬ dotali. Questa nuova
via fu illuminante, poiché ha condotto alla sco¬ perta di un’eredità
indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia dei popoli italici,
celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia ar¬ cheologiche
concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un meto¬ do comparativo
genetico fondato sull’archeologia delle rappresenta¬ zioni c del
comportamento: servendosi dei miti, dei riti, delle tracce
dell’organizzazione sociale, delle vestigia del sacro c del sacerdozio
egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli equilibri costitutivi -
della società e della religione indoeuropea: una teologia trifunzionale
che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi della forza e dei
della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione sociale:
classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori. Mezzo
secolo di ricerche hanno permesso di delineare questa visione nuova del
mondo ariano arcaico, di realizzare una sintesi delle vestigia della
civiltà e della religione indoeuropea e di far indietreg¬ giare di più
d’un millennio i lempora ignota. Julien Ries Università di
Louvaìn-la-Neuve Nelle pagine che seguono non una sola volta si farà
menzione de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle loro migrazioni,
della loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti il metodo
qui im¬ piegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non
interessa molto i problemi qui posti. La «civiltà indoeuropea» che noi
conside¬ reremo è quella dello spirito. Al pari degli Indiani
vedici, come ci vengono presentati dai loro inni, gli Indoeuropei non
furono uomini senza riflessione e senza im¬ maginazione, tutt’altro.
Esattamente da vent’anni ormai la compara¬ zione delle più antiche
tradizioni, dei diversi popoli parlanti lingue in¬ doeuropee, ha rivelato
un fondo considerevole di elementi comuni, elementi non isolati ma
organizzati in strutture complesse delle quali non ci è offerto un
equivalente in altri popoli del mondo antico. L'esposizione, che ci si
appresta a leggere, è consacrata alla più im¬ portante di queste
strutture. L’obiettivo essenziale è quello di guidare lo studente,
tramite una serie di riassunti ordinati e consequenziali, attraverso una
mole di argomenti poco agevoli a causa della loro eterogeneità e del loro
fra¬ zionamento. Nello stesso tempo si vorrebbe fornire ai
lettori già informati una prima e provvisoria sintesi, si vorrebbe dare
non solo un ordine ma una messa a fuoco alla correlazione generale che
solo uno sguardo d’insieme può imporre ai risultati parziali.
Un problema che per anni è stato capitale e in primo piano - pen¬
so al valore trifunzionale delle tre tribù romane primitive - si trova
qui limitato in un secondo livello; al contrario, le numerose
applicazioni ideologiche delle tre funzioni, le cui segnalazioni si
trovano disperse nelle pubblicazioni più svariate, acquisteranno ora, io
spero, potenza grazie ad un parallelismo che farà risaltare il loro
semplice riavvicina¬ mento. Questo doppio disegno non prevederànote
a piè di pagina: si è preferito costruire una sorta di commentario
bibliografico distribuito secondo i paragrafi del libro, indicando i
testi affinché ognuno riepilo¬ ghi o perfezioni a proprio piacimento;
oppure segnando c datando su ogni punto importante i progressi o le
svolte della ricerca; o ancora, rinviando ad altri paragrafi per
segnalare correlazioni che non avreb¬ bero potuto ingombrare
l’esposizione discorsiva iniziale. Non si è tenuto conto che
dell’opera principale dell’autore e di un certo numero di colleghi
francesi e stranieri che, pur senza voler formare una scuola, si dedicano
da più o meno tempo alle stesse mate¬ rie con metodi simili e che si
tengono costantemente in contatto tra loro. Altre visioni sul
pensiero degli indoeuropei, incompatibili con questa, non saranno qui
esaminate, non per disprezzo ma perché le di¬ mensioni del presente libro
sono ristrette e l’intento è costruttivo e non critico.
Tuttavia, nelle note finali si troveranno riferimenti a numerose
discussioni. Il mio caro collega Renard mi ha permesso di
presentare nella collezione Latomus, poco tempo dopo Les Déesses latines
, que¬ sta nuova esposizione in cui il popolo romano non interviene che
prò virili parte. Egli ha così voluto confermare, sensibilmente ai nostri
studi, cd io lo ringrazio, la necessaria alleanza tra studi classici e
indoeuropei, tra metodi filologici e comparativi, che ho sempre invocato
con augurio. Uppsala. Parigi. Le tre funzioni sociali e
cosmiche 1. Le classi sociali in India Uno dei tratti
più sorprendenti delle società indiane post-rgve- diche è la loro
divisione sistematica in quattro «classi», dette in san¬ scrito i quattro
«colori», varna, le prime tre delle quali benché diverse sono pure perché
propriamente arya, mentre la quarta, formala indub¬ biamente dai vinti
della conquista arya, è sottomessa alle altre tre ed è quindi
irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe eterogenea non si
Lralterà qui ulteriormente. I doveri di ognuna delle tre classi
arya servono per definirle: i brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano
la scienza sacra e cele¬ brano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i
guerrieri, proteggono il po¬ polo con la loro forza e con le loro armi;
ai vaisya è affidato l’alle¬ vamento e l’aratura, il commercio e più in
generale la produzione dei beni materiali. Si costituisce
così una società completa e armonica presieduta da un personaggio a
parte, il re, rdjan, generalmente nato e qualitativa¬ mente estratto dal
secondo livello. Questi gruppi funzionali e gerarchizzati sono
conchiusi tutti su loro stessi in base all’ereditarietà, all’endogamia e
a un codice rigoro¬ so d’interdizioni. Sotto questa forma classica non vi
è dubbio che il sistema non sia una creazione propriamente indiana posteriore
alla maggior parte del Riveda-, i nomi delle classi non sono
menzionati chiaramente che nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale,
nel X libro della raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una
tale crea¬ zione non è nata dal nulla, bensì da un irrigidimento di una
dottrina e di una pratica sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso
indiano, V.M. Apte, fece una collezione dimostrativa dei lesti dei primi
nove libri del Riveda (principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come
sin dai tempi della redazione di questi inni la società fosse pensata
composta da sacerdoti, guerrieri e allevatori e che se questi gruppi non
erano an¬ cora designati dai nomi di brdhmunu, di ksatriya o di vaisya
(sostanti¬ vi astratti, nomi di nozioni di cui i nomi di questi uomini
non sono che i derivati) erano già composti in un sistema gerarchico che
definiva di¬ stributivamente i principi delle tre attività. Brc'ihmun (al
neutro) «scienza e utilizzazione delle correlazioni mistiche tra le parti
del rea¬ le visibile o invisibile», kyatrei «potenza», vis «contadinanza»
o «habi¬ tat organizzalo» (la parola c apparentala al latino vTcus e al
greco (w)oùco<;), al plurale visuh «insieme del popolo nel suo
raggruppa¬ mento sociale e locale». È impossibile determinare
in quale misura la pratica si confor¬ masse a questa struttura teorica:
vi era forse una parte più o meno con¬ siderevole della società che
indifferenziata o altrimenti classificata sfuggiva a questa
tripartizione? L’ereditarietà all’interno di ciascuna classe non era
forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale più flessibile
c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente ci è accessibile
solo la teoria. 2. Le classi sociali avestiche Da un
quarto di secolo, confermando le osservazioni di F. Spie- gel, di E.
Benvenisle e di me stesso, abbiamo sostenuto che almeno nella sua forma
ideologica la tripartizione sociale era una concezione già acquisita
prima della divisione degli «Indo-Iranici» in Indiani da una parte ed
Iranici dall’altra. In diversi passaggi VA vesta menziona i
componenti della socie¬ tà come gruppi di uomini o di classi (designate
da una parola che si ri¬ ferisce al colore, pistra): i sacerdoti,
àBuurvan o uBravun (cf. uno dei sacerdoti vedici, Vdtharvan), i
guerrieri, luBciè.star («guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto
del dio guerriero Indra) e gli agri¬ coltori-allevatori,
vàstryó.fsuyant. Un solo passaggio avestico e più notoriamente i
testi palliavi, pongono come quarto termine alla base di questa
gerarchia, gli artigia¬ ni, huiti, altri indizi (come il fatto che
raggruppamenti triplici di nozio¬ ni sono talvolta messi maldestramente
in rapporto con le quattro clas¬ si, cf. SBE, V, p. 357) ci portano a
considerarla una aggiunta a un antico sistema ternario. Nel X
secolo della nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele testimone della
tradizione, racconta come il favoloso re Jamsed (lo Yima Xsaéla dell’A
vesta) istituì gerarchicamente queste classi: se¬ parò inizialmente dal
resto del popolo gli *asravctn «assegnando loro le montagne per
celebrarvi il loro culto, per consacrarsi al servizio di¬ vino e restare
nella luminosa dimora »; gli *artesfar, posti dall’altra parte,
«combattono come dei leoni, brillano alla testa delle armate e delle
province, grazie a loro il trono regale è protetto e la gloria del valore
è mantenuta »; quanto ai *vùstryós, la terza classe, « loro stessi arano,
piantano e raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimpro¬ vera, non sono
servi benché vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo alla
calunnia». A differenza dell’India le società iraniche non hanno
irrigidito questa concezione in un regime castale: esso sembra essere
rimasto un modello, un ideale e un comodo mezzo per analizzare ed
enunciare l’essenzialità dell’argomento sociale. Dal punto di vista della
ideolo¬ gia in cui noi ci poniamo, questo è sufficiente. Un ramo
aberrante della famiglia iranica, molto importante poi¬ ché si è
sviluppato non in Iran ma a nord del Mar Nero, fuori dalla mor¬ sa degli
imperi, iranici o altri, che si sono succeduti nel Vicino Orien¬ te,
testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui costumi insieme a
molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a qualche altro autore
antico - la cui lingua e tradizione si è mantenuta sino ai nostri giorni
grazie a un piccolo popolo del Caucaso centrale, originale e pieno di
vitalità, gli Osseti. Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti
raccontano l’origine della loro nazione: 17
«Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di allora
deserto, si chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di una fi¬
glia del fiume Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre fi¬
gli, Lipoxais (variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais. Quando
erano in vita caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti d’oro:
un carro, un giogo, un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi t/uyòv mi
cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa vista il più anziano si af¬ frettò a
prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise a bruciare. Così si ri¬ tirò e
il secondo si fece avanti ma senza migliore successo. Avendo i primi due
rinunciato all 'oro bruciante, sopraggiunse il terzo e l ’oro si spense.
Lo prese con sé e i suoi due fratelli, davanti a questo segno,
abbandonarono la regalità interamente all'ultimogenito. Da Lipoxa¬ is
sono nati quegli Sciti che sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh-
atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e Traspies (variante: Trapies,
Trapioi) e in ultimo, dal re, quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si
chiamano Skolotoi, dal nome del loro re » Mi sembra certo che
bisogna, al pari di E. Benveniste, rendere yévoq con «tribù». Gli Sciti
contano quattro tribù, una delle quali è la tribù capo. Ma tutte hanno
realmente o idealmente la stessa struttura: è chiaro infatti che questi
quattro oggetti si riferiscono alle tre attività sociali degli Indiani e
degli «Iranici deH’Iran»; il carro e il giogo (E. Benveniste ha
analizzato un composto avestico che associa queste due parti della
meccanica dell’aratura) evocano l’agricoltura; l’ascia era con l’arco
l’arma nazionale degli Sciti; altre tradizioni scitiche conser¬ vate da
Erodoto, come pure l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti,
incoraggiano a vedere nella coppa lo strumento e il simbolo delle of¬
ferte cultuali e delle bevande sacre. La forma ben distinta che
Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla tradizione, conferma questa esegesi
funzionale; egli fa dire agli amba¬ sciatori degli Sciti che cercavano di
convincere Alessandro Magno a non attaccarli: «Sappi che
abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per buoi, un carro, una lancia, una
freccia e una coppa (iugum bovum, aratrum, hasta, sagitta et patera). Ce
ne serviamo con i nostri amici e contro i nostri nemici. Ai nostri amici
doniamo i frutti della terra che ci procu- 18
ra il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli dèi libagioni di vino;
quan¬ to ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con la freccia e da
vicino con la lancia». 4. La famiglia degli eroi Narti
È interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica
della società nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n
frammenti ma in numerose varianti da circa un secolo e che una gran¬ de
impresa folklorica russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistema¬
ticamente raccolto. Gli Osseti sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i
Narti, erano divisi essenzialmente in tre famiglie. «/ Boriatee -
dice una tradizione pubblicata da S. Tuganov nel 1925 - erano ricchi in
armenti; gli Alcegatce erano forti per intelligen¬ za; gli
/Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo e vigore ed erano forti per
i loro uomini». I dettagli del racconto che giustappongono od oppongono
a due a due queste famiglie, soprattutto nella grande collezione degli
anni ’40, confermano pienamente queste definizioni. II
carattere «intellettuale» degli Alaegatae riveste una forma ar¬ caica,
non appaiono che in circostanze uniche ma frequenti: c nella loro casa che
hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui si produco¬ no le
meraviglie di una Coppa magica detta la «Rivelatrice dei Narti».
Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto, è ri¬
marchevole che il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t)
«bravura», che è, con le alterazioni fonetiche previste nelle parlate
sci¬ tiche, la stessa parola del sanscrito ksatrà, nome tecnico, come
abbia¬ mo visto, del fondamento della classe guerriera. I
Boriala; e il principale tra essi, Burafscrnyg, sono costante- mente e
caricaturalmente i ricchi, con tutti i rischi e i difetti della ric¬
chezza e in più, in opposizione ai poco numerosi vExsaertaegkatae, sono
una moltitudine di uomini. 5. Gli Indoeuropei e la tripartizione
sociale Riconosciuta così come retaggio comune indo-iranico,
questa dottrina tripartita della vita sociale è stata il punto di
partenza di un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che ha
portato a due risultati complementari che possono riassumersi in questi
termini: 1) al di fuori degli Indo-Iranici i popoli indoeuropei
conosciuti in età antica o praticavano realmente una divisione di questo
tipo oppure, nelle leg¬ gende in cui spiegano le proprie origini,
ripartivano i loro cosiddetti «componenti» iniziali fra le tre categorie
di questa stessa divisione: 2) nel mondo antico, dal paese dei Seres alle
Colonne d’Èrcole, dalla Li¬ bia e dall’Arabia agli Iper borei,
nessun popolo non indoeuropeo ha esplicitato praticamente o idealmente
una tale struttura o se l’ha fatto è stalo dopo un contatto preciso,
localizzabile c databile, che ha avuto con un popolo indoeuropeo. Ecco
qualche esempio a sostegno di que¬ sta proposizione. Il caso più
completo è quello dei più occidentali tra gli Indoeu¬ ropei, i Celti e
gli Italici, il che non è sorprendente una volta che si c prestata
attenzione (J. Vendryes, 1918) alle numerose corrispondenze che esistono
nel vocabolario della religione, dell’amministrazione e del diritto, tra
le lingue indo-iraniche da una parte e quelle ilalo-celli- che
dall’altra. Se si ordinano i documenti che descrivono lo stato
sociale della Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme ai
testi che ci informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al
cristiane¬ simo, ci appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico
del sanscrito rcij- o del latino réf*-), un tipo di società così
costituita: 1) Al di sopra di tulli c forte oltre ogni limile,
quasi super-nazio¬ nale come la classe dei brahmani, vi c la classe dei
clruicli (*dru-uid), cioè dei sapienti, sacerdoti, giuristi, depositari
della tradizione. 2) Segue poi l’aristocrazia militare, unica
proprietaria del suo¬ lo, \a flciith irlandese (cf. il gallico vlata- c
il tedesco Gewcdt), propria¬ mente la «potenza», esatto equivalente
semantico del sanscrito ksatrà, essenza della funzione guerriera.
3) Infine, gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini liberi (
ciirif.;) che si definiscono solamente come possessori di vacche ( bó).
Non è sicuro ne probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R.
Thurney- scn hanno preferito un’etimologia puramente irlandese) che
questa ul¬ tima parola, aire (genitivo ctirech, plurale airig) che
designa lutti i membri dell’insieme degli uomini liberi (che sono
protetti dalla legge, concorrono all’elezione del re, partecipano alle
assemblee - airecht - e ai grandi banchetti stagionali) sia un derivato
in -k di una parola impa¬ rentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito
city a, àrya\ antico-persiano ariya, avestico airya; osseto Iceg «uomo»,
da *arya-ka-). Ma poco im¬ porta: il quadro tripartito celtico ricopre
esattamente lo schema reale o ideale delle società indo-iraniche. La
Roma storica, benché risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali:
l’opposizione tra patrizi e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è
l’effetto di un’evoluzione precoce e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi
benché rivestila di nomi d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres,
Titienses - e ancora in qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci
suggerisce chiaramente la leggenda delle origini. Secondo la variante più
diffusa, Roma si e costituita da tre elementi etnici: i compagni latini
di Romolo e Remo, gli alleati etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i
nemici sabini di Romolo comandati da Tito Tazio. I primi avrebbero dato
nascita a la TRIBU I -- Ramnes, i secondi alla TRIBU II – i Luceres c i
terzi alla TRIBU III – i Titienses. Ora, la tradizione annalistica colora
costantemente ognuno di questi componenti etnici di tratti funzionali. LA
TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente ricchi di armenti. LA TRIBU
II. Lucumone c la sua banda sono i primi specialisti dell’arte militare
arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I: Romolo è il semi-dio, il
rex-augur beneficiario della promessa iniziale di Jupiter, il creatore <le\Y
urbs e il fondatore istituzionale della respublica. Talvolta la componente
etnisca è eliminala, ma l’analisi «tri-funzionale» non viene meno poiché Romolo
c i suoi Latini accumulano su loro stessi la doppia specificazione di capi
sacri e di guerrieri esemplari ed hanno in loro stessi, come dice Tito
Livio (1,9; 2-4), “deos et virtutem” e non gli mancano temporaneamente
che opes (e le donne) che saranno loro fornite dai Sabini (cf. Floro,
1,1) i Sabini riconciliati che si trasferiscono a Roma c cum generis suis
a vitas opes prò dote socicint. Eliminando così gli’etruschi, il
dio Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico
dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: « La
ricca vicinanza – “viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza –
“inopes” -- e non aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte
del loro sangue – “sanguinis auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho
messo nel tuo cuore, Romolo, una disposizione conforme alla natura di tuo
padre -- “patriam mentem”, cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione,
ciò che domandi, saranno le armi a donartelo – “arma dabunt”. Dionigi di Alicarnasso che segue la
tradizione delle tre razze, ripartisce tra quelli gli stessi tre
vantaggi: le città vicine, sabine o altre, sollecitate da Romolo per
mezzo di matrimoni, rifiutano (II, 30) di unirsi a questi nuovi venuti «
Che non sono da considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese
(taupnpòv Èpyov)». A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e
di depositario dei primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari
di professione come l’etrusco Lucumone di Solone, «Uomo di azione e
illustre in materia di guerra» (xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq).
8. Properzio iv, i, 9-32 Ma è Properzio, nella prima elegia
romana che da a questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre
razze, l’espressione più complete. Nel momento in cui nomina, con Romolo, le
tre tribù primitive mettendo in risalto le loro etimologie tramite le
correlazioni tradizionali coi nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere
i caratteri funzionali distintivi, 1’«essenza», potremmo dire, della
materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i compagni di Remo e di suo fratello (il
nome di Romolo è riservato per coprire la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon
(Lucu- mo); TRIBU III. Tito Tazio. Il testo di Properzio
merita di essere esaminato più da vicino. L’intenzione di Properzio
all’inizio di questa elegia è di opporre (c un luogo comune dell’epoca)
l’umiltà delle origini all’opulenza della Roma d’Ottaviano. Dopo qualche
verso che introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti, presentati
in tre parti ineguali, seguite da una conclusione: -- sul pendio
dove si elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo
focolare, immenso reame. La Curia, il cui splendore copre oggi
un'assemblea di toghe preteste, non conteneva che senatori vestiti di
pelle e dalle anime rustiche. Era la tromba che convoca, per i colloqui,
gli antichi cittadini; cento uomini in un prato, tale era spesso il loro
senato. Nessuna tela ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna
scena che esalasse l'odore solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a
cercare dèi stranieri. La folla trema, attaccata al culto
ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non sono celebrate che
con fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che si fanno
oggi giorno grazie a un cavallo mutilato. Vesta era povera e
trovava il suo piacere in asinelli coronati di Fiori. Delle vacche
scarnite portavano in processione degli oggetti senza
valore. Dei maiali ingrassati bastavano per purificare gli stretti
crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre in sacrificio le
interiora di una pecora. Vestito di pelli, l'agricoltore brandiva delle
correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii, Luperci
scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi
terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo
campo e stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del
generale) da un comandante con un berretto di pelle, LYGMON. E la
ricchezza di TATIUS era essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si
formarono i T1TIES, i RAMNES e i LU CERES, originari di Solonio; è da là che
Romolo Lancia la sua quadriga di cavalli Bianchi. Il percorso di questo
sviluppo è ben chiaro. Cme una favola verso la sua breve morale, tende
verso l’ultimo distico che prima di menzionare il «radunatore» Romolo,
nell’apparato dei suoi trionfi, enumera sotto i loro nomi le tre tribù
riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono da uomini che
sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con la tradizione
erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il Tatius del
verso 30 e i Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai Ramnes
(v. 23, e 31), conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati
simmetricamente alla menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto
di comando di questa società composita (v. 31 e 32) ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al
verso 9, o insieme a lui in frotres al verso 10. In altre parole, prima
di mostrarli trasformati (hinc...) sotto Romolo, nei tre terzi della città
unificata, Properzio comincia col presentare successivamente, sotto i loro
eponimi e nella loro esistenza ancora separata, le tre componenti della
futura Roma, nell’ordine. TRIBU I: Le genti di Remo e di suo fratello.
TRIBU II. L’etrusco Lucumone e – TRIBU III: il sabinoTazio. Si spiega
così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai futuri Ramnes, siano
quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo e praticate già,
nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non è tutto. Non è meno lampante
che le tre successive presentazioni delle future tribù siano caratterizzate
secondo tre funzioni. Dal verso 9 («Remo») al verso 26, Properzio non evoca che
il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (v. 9-14;
semplicità dei «re», di ciò che rappresentava allora il senato e
l’assemblea popolare) e di un CULTO (v. 15-26; mancanza di solennità e di dèi
stranieri; nell 'ordine del calendario mstico - da aprile a febbraio - dei
Parilia, Vestalia, Compitalia e Lupercalia, senza alcuno sfarzo). TRIBU
II: Dal verso 27 al verso 29 (« Lygmon») il poeta evoca le forme
primitive della GUERRA che rimangono elementari («un berretto di pelle»)
anche col primo tecnico militare. TRIBU III: Nel solo verso 30 («
Tatius ») Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA
primitiva. La nettezza delle articolazioni del testo e, in
conseguenza, delle intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto
nel distico 29-30 di Lucumo come generale e di Tazio come ricco
proprietario di armenti, mettono in risalto il fatto che, benché
concepite come componenti etniche, le tre tribù nel pensiero degli eruditi di
epoca d’Ottaviano sono caratterizzate funzionalmente. TRIBU I: I
Ramnes, raggruppati intorno ai «fratelli», dediti soprattutto al governo
e al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri. TRIBU III: Tito Tazio
e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori. Le
divisioni degli Ioni Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi
ateniesi erano stati ini¬ zialmente divisi in quattro tribù definite dal
ruolo nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non
sono molto chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro
funzioni o, come dice Plutar¬ co, nei quattro |3ioi «(tipi di) vite», ma
questi tipi sono molto probabil¬ mente sacerdoti o funzionari religiosi,
guerrieri o «guardiani», agricol¬ tori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1;
cf. Platone, Timeo, 24 A). Plutarco 0 Solone 23), per una falsa
etimologia del nome ordinario ricollegato ai sacerdoti, omette i
sacerdoti e sdoppia agricoltori e pastori. È probabile che le tre
classi della Repubblica ideale di Platone - filosofi che governano,
guerrieri che difendono e il terzo stato che pro¬ duce ricchezza - con
ogni loro armonizzazione morale o filosofica, così prossima talvolta alle
speculazioni indiane, siano state ispirate in parte dalle tradizioni
ioniche, in parte da ciò che si sapeva allora in
GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli insegnamenti dei pi¬ tagorici
che risalgono senza dubbio al remoto passato ellenico o pre¬ ellenico.
10. La tripartizione sociale nel mondo antico A questi schemi
concordanti si è cercata invano una replica in¬ dipendente nella pratica
o nelle tradizioni delle società ugrofinniche o siberiane, presso i
Cinesi o gli Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo- tamia sumerica o
accadica, o nelle vaste zone continentali adiacenti agli Indoeuropei o
penetrate da essi. Ciò che salta agli occhi sono delle organizzazioni
indifferenziate di nomadi in cui ognuno è sia combat¬ tente che pastore;
delle organizzazioni teocratiche di sedentari in cui un re-sacerdote o un
imperatore divino è contrapposto ad una massa spezzettata aH’infinito ma
omogenea nella sua umiltà; oppure ancora delle società in cui lo stregone
non è che uno specialista fra tanti altri senza preminenza, malgrado il
timore che la sua competenza suscita. Niente di tutto questo
ricorda né da vicino né da lontano la strut¬ tura delle tre classi
funzionali gerarchizzate e non vi sono delle eccezioni. Quando un
popolo non indoeuropeo del mondo antico, ad esempio del Vicino Oriente,
sembra conformarsi a questa struttura è perché l’ha acquisita sotto
l’influenza di uno nuovo arrivato vicino a lui, da una di quelle
pericolose bande di Indoeuropei - Luviti, Hittiti, Arya - che nel secondo
millennio si sono arditamente sparse lungo diversi percorsi. E il
caso ad esempio dell’Egitto «castale» in cui i Greci del V secolo
credevano di aver trovato il prototipo, l’origine delle più vec¬ chie
classi funzionali ateniesi che sono state menzionate poco fa. In re¬ altà
questa struttura si è formata sul Nilo grazie al contatto con gli
Indoeuropei, che apparendo in Asia Minore e in Siria nella metà del
secondo millennio prima della nostra èra, rivelarono agli Egiziani il
cavallo e tutti i suoi usi. Solamente dopo questa data il vecchio
impero dei Faraoni si riorganizza per poter sopravvivere, formandosi ciò
che non aveva mai avuto: un’armata permanente e una classe militare. Il
più antico testo «multifunzionale» del tipo di quello che sarà conosciuto
da Erodoto (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione in cui Thaneni si vanta
di aver fat¬ to un vasto censimento per conto dei suo Faraone Thutmosis
IV (J.H. Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth Dynasty,
1906, p. 165): «M uste ring ofthe whole land before his
Majesty making an in- spection ofevery body, knowing thè soldiers,
priests, royal serfs and all thè craftsmen ofthe whole land, all thè
cattle, fo wl and small cattle, by thè military scribe, beloved of his
lord Thaneni » Ora, Thutmosis IV (1415-1405) è giusto il primo
Faraone che abbia mai sposato una principessa arya dei Mitanni, la figlia
di un re dal nome caratteristico di Artatama. Sembra che la
differenziazione di una classe di guerrieri col suo statuto «morale»
particolare, unito ad una sorta di alleanza flessibile a una classe
ugualmente differenziata di sacerdoti, sia stata la novità degli
Indoeuropei e il cavallo e il carro la ragione e il mezzo della loro
espansione. Le iscrizioni geroglifiche e cuneiformi ci hanno trasmesso il
ricordo del terrore che causarono alle vecchie civiltà questi specialisti
della guerra, così arditi e impietosi come quei conquistadores che
tremila anni più tardi nel Nuovo Mon¬ do comparvero ai capi e ai popoli
degli imperi che schiacciarono. Essi li designavano con un nome -
marianni - che in effetti gli Indoeuropei usavano: i mdriya, incuiStig
Wikander seppe riconosce- 26 re nel 1938 i
membri dei «Mcitinerblinde» dello stesso tipo studiato da Otto Hofler
presso i Germani. 11. Teoria e pratica La comparazione
dei più antichi documenti indoiranici, celtici, italici e greci, se da
una parte permette di affermare che gli Indoeuro¬ pei avevano una
concezione della struttura sociale fondata sulla di¬ stinzione e sulla
gerarchizzazione delle tre funzioni, dall’altra parte non può insegnare
grandi cose sulla forma concreta - o sulle diverse forme - in cui si
sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora generalizzare ciò che
è stato detto più sopra a proposito degli Arya ve¬ dici. È
possibile che la società sia stata interamente ed esausti vamen- te
ripartita tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la
distinzione avesse solamente portato a mettere in risalto qualche clan o
qualche famiglia «specializzata», depositaria nell’un caso dei segreti efficaci
del culto, nel secondo delle iniziazioni e delle tecniche guer¬ riere e
nell’ultimo, infine, dei rimedi e delle magie deH’allevamento, mentre il
grosso della società, indifferenziata o meno differenziata, si affidava
alla direzione degli uni o degli altri, secondo le necessità o le
occasioni. Si è infine liberi di immaginare moltissime forme
intermedie, ma queste non saranno che punti di vista dello spirito.
Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la sopravvi¬
venza di formule molto precise: così, nel Rgveda i «33 dèi» riassumo¬ no
una società divina concepita ad immagine della società aryae sono
talvolta scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari;
oppure, a Roma, le 33 comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè 3
per 10) riassumono le 3 tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce- res
e Titienses, completate da 3 àuguri. 12. Le tre funzioni
fondamentali Così, non è il dettaglio autentico e storico
dell’organizzazione sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa di
più il comparatista, ma il principio di classificazione, il tipo di
ideologia che essa ha susci¬ tato, realizzato o formulato, e di cui non
sembra essere più rimasta che un’espressione tra tante altre. Diverse
volte nell’esposizione che si è letta è stata incontrata una parola
importante: quella di funzione, di tre funzioni, e bisogna così intendere
certamente le tre attività fondamentali assicurate da gruppi di uomini -
sacerdoti, guerrieri, produttori - per il sostentamen¬ to e la prosperità
della collettività. Ma il dominio delle «funzioni» non si limita a
questa prospetti¬ va sociale. Alla riflessione filosofica degli
Indoeuropei esse avevano già fornito - come sostantivi astratti, bnihman,
ksutrù, vis, principi delle tre classi nella riflessione filosofica degli
Indiani vedici e posl-vedici - ciò che può essere considerato, secondo il
punto di vista, come un mezzo per esplorare la realtà materiale e morale
o come un mezzo per mettere ordine nel patrimonio delle nozioni ammesse
dalla società. L’inventario di queste applicazioni non
propriamente sociali della struttura trifunzionale, è stato intrapreso e
continuato, dal 1938, da E. Benveniste e da me stesso. Ora, è facile
porre sulla prima e sulla seconda «funzione» un’etichetta che copra tutte
le sfumature: da una parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro
(culto, magia) c degli uo¬ mini tra di loro, sotto lo sguardo c la
garanzia degli dèi (diritto, ammi¬ nistrazione), e così pure il potere
sovrano esercitato dal re o dai suoi delegati in conformità con la
volontà o il favore divino e infine, più ge¬ neralmente, la scienza c
l’intelligenza, allora inseparabili dalla medi¬ tazione e dalla manipolazione
delle cose sacre; dall’altra parte la forza fisica brutale e l’impiego
della forza, uso principalmente ma non uni¬ camente guerriero.
È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza
funzione, che ricopre delle province numerose fra le quali intercorro¬ no
dei legami evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben de¬
finito: fecondità umana, animale e vegetale, ma, nello stesso tempo,
nutrimento e ricchezza, santità e pace (con le gioie c i vantaggi della
pace) e anche voluttà, bellezza c l’importante idea del «gran numero»,
applicata non solo ai beni (abbondanza) ma anche agli uomini che
compongono il corpo sociale (massa). Non sono queste delle defini¬ zioni
a priori ma insegnamenti convergenti di molte applicazioni dell’ideologia
tripartita. Gli indologi hanno familiarità con questo uso
straripante della classificazione tripartita sin dai tempi vedici: per un
impulso che ricorda, nel suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza
classificatoria del pensiero cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo
yin sia coppie di no¬ zioni solidali che antitetiche -1’India ha messo le
tre classi della socie¬ tà, coi loro principi, in rapporto con numerose
triadi di nozioni preesi¬ stenti o create per la circostanza. Queste
armonie, queste correlazioni importanti per l’azione simpatetica a cui
tende il culto, hanno talvolta un senso molto profondo, talvolta
artificiale e altre volte puerile. Così, ad esempio, le tre
«funzioni» sono distributivamente con¬ nesse ai tre guna (propriamente,
«figli») o «qualità» - Bontà, Passione, Oscurità - delle quali la
filosofia sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili formano la trama di
tutto ciò che esiste; o ancora, nei tre stadi superiori dell’universo, le
si vede non meno imperiosamente collegate ai diver¬ si metri e melodie
dei Veda o ai diversi tipi di bestiame o a comandare minuziosamente la
scelta dei diversi tipi di legno con cui saranno fatte le scodelle o i
bastoni. Senza arrivare a questi eccessi di sistematizzazione, la
maggior parte degli altri popoli della famiglia presentano aspetti di
questo ge¬ nere che, ritrovandosi molto simili su diverse altre parti del
globo, hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli Indoeuropei.
Non si potrà presentare in questa sede che qualche inventario.
13. Triadi di calamità f.triadi di delitti Da circa vent’anni
E. Benveniste ha individualo presso gli Ira¬ nici c gli Indiani delle
formule molto simili in cui un dio è pregalo di allontanare, da una
collettività o da un individuo, tre flagelli, ognuno dei quali si
riconnettc a una delle tre funzioni. Per esempio, in una iscrizione
di Pcrscpoli (Persep. d 3) Dario domanda ad Ahuramazdà di proteggere il
suo impero «r/a// ’esercito nemico, dal cattivo anno e dall'inganno»
(quest’ultima parola, drau- ga, nel vocabolario del Gran Re designava
sopralutto la ribellione po¬ litica, il misconoscimento dei suoi diritti
sovrani; ma si riferiva anche al peccalo maggiore delle religioni
iraniche, la menzogna). Parallela¬ mente, al momento delle cerimonie
vcdichc del plenilunio c del novi¬ lunio, una preghiera è dedicala ad
Agni, con delle formule che, diver¬ samente allungate dagli autori dei
vari libri liturgici (per esempio Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm.,
I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo comune: «Conservami dalla
soggezione, conservami dal cattivo sacrifi¬ cio, conservami dal cattivo
nutrimento». L’enunciato indiano è parallelo a quello iranico, con
la riserva che, al primo livello, il re achemenide parla di inganno e il
ritualista vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori
corrisponde ad evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e
dall’altra più for- maliste - delle religioni delle due società.
Mi è stato possibile dimostrare in seguito che i più occidentali
tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui usi sono talvolta così sorprendente¬
mente simili a quelli vedici, utilizzavano la stessa classificazione tri¬
partita delle maggiori calamità. La principale compilazione giuridica
dell’Irlanda, il Senchus Mór, comincia con questa dichiarazione ( Ancient
Laws oflreland, IV 1873, p. 12): « Vi sono tre tempi in cui si produce il
deperimento del mondo: il periodo della morte degli uomini (morte per
epidemia o per carestia, precisa la glossa), la produzione accresciuta di
guerra e la dissoluzione dei contratti verbali». I malanni sono così
ripartiti fra le tre zone della salute o del nutrimento, della forza
violenta e del diritto. I Galli non hanno inserito nei loro libri
giuridici delle tali for¬ mulazioni astratte, ma un testo che parrebbe
essere la trasposizione ro¬ manzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd
a Llevelis è consacrato all’esposizione delle tre «oppressioni»
dell’isola di Bretagna e al modo in cui il re Lludd vi mise fine. Queste
calamità sono: 1) una razza di uomini «saggi» il cui «sa¬ pere» è tale
che essi intendono per tutta l’isola ogni conversazione, fosse anche a
bassa voce, e interferiscono così nel governo e nei rap¬ porti umani; 2)
ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due draghi, il drago
dell’isola e il drago straniero che viene a «battersi» col primo,
cercando di «vincerlo», e le urla del drago dell’isola sono tali da
paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re
ac¬ cumula in uno dei suoi palazzi una «provvista di cibarie e di
vivande», fosse anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte
seguente e porta via tutto il suo paniere. Si osserva ancora una volta
come le tre oppres¬ sioni si sviluppino qui negli ambiti della vita
intellettuale, dell’ammi¬ nistrazione della forza e infine del
nutrimento; in più, considerate in 30 base ai
loro agenti e non in base alle vittime, esse definiscono tre delit¬ ti:
abuso di un sapere magico, aggressione violenta e furto di beni.
Sembra che il più antico diritto romano ugualmente consideras¬ se i
delitti privati come incantesimi maligni ( malum Carmen, occentu- tio),
violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e in furto
{furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla tripartizione
C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,
prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una di¬
stinzione sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in «furto,
violenza fisica e incantesimo» (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha
raffrontato la classificazione avestica dei me¬ dicamenti ( Vidèvdàt ,
VII, 44: medicine del coltello, delle piante e del¬ le formule
d’incantesimo) con l’analisi che fa un inno del Riveda sui poteri medici
degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) «.guaritori di chi è cieco (male
misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e di chi ha una
frattura (violenza)». È lo stesso procedimento che nella III
Pythica di Pindaro il cen¬ tauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire
« le dolorose malattie degli uomini» (versi 40-55: incantesimi, pozioni o
droghe, incisioni) ed è stato sospettato che dietro questi fatti
paralleli si celi l’esistenza di una «dottrina medica» tripartita
ereditata dagli Indoeuropei. Se i vec¬ chi testi germanici non applicano
questo schema classificatorio ai ma¬ lanni, ai delitti o ai rimedi, è
vero che l’utilizzano in altre circostanze: il Canto di Skirnir nell
'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore del dio Freyr costringe,
malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a cedere ai desideri amorosi
del suo maestro. Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il
suo amore con dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente,
minaccia di decapitarla (str. 23-25) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine
al suo terzo ten¬ tativo non gli rimane che minacciarla con gli strumenti
della sua ma¬ gia, bacchette ( gambantein ) c rune (str. 26-37).
15. Elogi tripartiti Quando un poeta indiano vuole fare
brevemente l’elogio totale di un re, passa in rassegna le tre funzioni in
tre parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di
essere chiamato padre dei suoi sudditi « perché assicura loro buona condotta,
li protegge e li nutre». Con delle formule generalmente meno concise,
l’epopea irlan¬ dese procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese
dei Viventi, cioè l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali,
è caratte¬ rizzalo dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti:
«.non vi è né peccato né errore...] vi si mangiano pasti eterni senza
servizio; l'in¬ tesa regna senza lotte ». L’originalità del
paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto è buono e facile, ma
questa idea si analizza e si esprime nel pensiero dell’autore soprattutto
secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbon¬ danza alimentare); la
seconda funzione, di tipo violento, considerata come un male c rifiutata,
mentre le altre due sono sviluppale al massi¬ mo grado (J. POKÒRNY, «Conio’s
abcnteucrliche Fahrt» ZCP XVII, 1928, p. 195). In un a simile
analisi, per fare 1 ’ elogio del re Conchobar, u n lesto del ciclo degli
Ulati dice che sotto il suo regno vi erano «pace e tran¬ quillità, saluti
cordiali», «ghiande, grasso e prodotti del mare», «con¬ trollo, diritto e
buona regalità» (K. MEYER, «Milleil. aus irischen Handschriflen» ZCP,
III, 1901, p. 229): cioè il contrario della guerra, della carestia c
dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i quali il re Dario a
Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo impero. 16. Le
tre funzioni e la «natura delle cose» Si può obiettare talvolta che
queste formule non siano troppo naturali, così troppo ben modellale
sull’uniforme e inevitabile dispo¬ sizione delle cose perché il loro
accumulo e la loro somiglianza provi¬ no un’origine comune c resistenza
di una dottrina caratteristica degli Indoeuropei. Una
riflessione anche elementare sulla condizione umana e sul¬ le risorse
della vita collettiva non dovrebbe forse mettere in evidenza, in ogni
tempo c in ogni luogo, tre necessità, cioè una religione che ga¬ rantisse
un’amministrazione, un diritto c una morale stabile, una forza
protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di produzione, di alimen¬
tazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui pericoli che incontrac
sulle vie che si aprono alla sua azione, non è ancora a una qualche va¬
rietà di questo schema che si riporta? Basta uscire dal mondo indoeuropeo, in
cui queste formule sono così numerose, per constatare che, malgrado il
carattere necessario e universale dei tre bisogni ai quali si
riferiscono, esse non hanno la generalità o la spontaneità chesi suppo¬
ne: al pari della di visione sociale corrispondente, non le si ritrova in al¬
cun testo egizio, sumerico, accadico, fenicio e biblico, né nella
lettera¬ tura dei popoli siberiani, nè presso i pensatori confuciani o
taoisti così inventivi ed esperti di classificazioni. La
ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per una civiltà, sentire
vivamente e soddisfare dei bisogni impellenti è una cosa; por¬ tarli alla
chiarezza della coscienza e riflettere su di essi, farne una struttura
intellettuale e uno schema di pensiero è tutta un’altra. Nel mondo antico
solo gli Indoeuropei hanno fatto questo cammino filo¬ sofico e così si
percepisce nelle speculazioni e nelle produzioni lette¬ rarie di tanti
popoli di questa famiglia, che la spiegazione più econo¬ mica, come per
la divisione sociale propriamente detta, è ammettere che il percorso non
è stato fatto e rifatto indipendentemente in ogni provincia indoeuropea
dopo la dispersione, ma che è anteriore alla di¬ visione ed è opera di
pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i collegi sacerdotali romani
sono in parte i diretti eredi. 17. Meccanismi giuridici
triplici Una delle applicazioni più interessanti ma più delicate è
quella che in riferimento alla concezione indoeuropea chiarifica presso i
di¬ versi popoli (India, Roma, Lacedemoni) i quadri e le regole
giuridi¬ che. Lucien Gerschel, ricordando il diritto romano, ha
dimostrato che questo, così originale nei suoi fondamenti e nel suo
spirito, conserva nelle sue forme un gran numero di procedure in tre
varianti a effetti equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza
prove, come crea¬ zioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno
qualcuna di queste sorprendenti «tripartita» si modella sul sistema delle
tre funzioni qui considerate. Citerò unodei migliori esempi: un
testamento può essere fatto con lo stesso valore sia nell’assemblea
strettamente religiosa dei Comitia Curiata, presieduti dal gran
pontefice; sia sul fronte di una battaglia davanti ai soldati; sia
tramite una vendita fittizia a un «emp- torfamiliae» (Aulo-Gellio, XV,
27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1). Gerschel non pretende che sia
esistito a Roma un «diritto sacerdota¬ le», un «diritto guerriero» e un
«diritto economico», o che i tre tipi di testamento abbiano avuto delle
assisi sociali o degli effetti differenti, non più dei tre tipi di
affrancamento o delle altre tricotomie giuridiche che si possono
interpretare in questo senso. Questo quadro così incredibilmente
frequente, questa triade di possibilità a effetti equivalenti e
l’omologia delle distinzioni che si di¬ stribuiscono, sembrerebbe
attestare, dice Gerschel, che «i creatori del diritto romano hanno da
molto tempo pensato i grandi atti della vita collettiva secondo
l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto volen¬ tieri tre processi,
tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti cia¬ scuno dal
principio (religioso; attualmente o potenzialmente milita¬ re; economico)
di una delle tre funzioni ». 18. Le tre funzioni e la
psicologia La stessa psicologia non sfugge a questo schema. I
sistemi filo¬ sofici indiani dosano nelle anime, come nella società, dei
principi come la legge morale, la passione, l’interesse economico
(dharma, kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua
Repubblica ideale - filosofi governanti, guerrieri, produttori di
ricchezze - delle formule di virtù che distribuiscono e combinano la
Saggezza, il Co¬ raggio e la Temperanza; in un’espressione apparentemente
tradizio¬ nale e legala all’intronizzazione dei Re Supremi di Irlanda, la
mitica regina Medb, depositaria e donatrice della Sovranità, pone come
tripli¬ ce condizione a chiunque vuole diventare suo marito, cioè re, di
«essere senza gelosia, senza paura, senza avarizia» (Tdin Bó Cualnge ed.
Win- disch, 1905, pp. 6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi
brillante- mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo
per eccel¬ lenza, Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la
combinazione di tre principi, l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo
carnale. Si tratta forse di un’applicazione mitica di una credenza
anti¬ chissima; nei trattati rituali domestici dell’India ( Sànkh. G. S,
I, 17, 9; Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia infatti alla donna che vuole
concepire un bambino maschio di rivolgersi a Mitra, a Varuna, agli Asvin
e a Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni o Sùrya, secondo le
va¬ rianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato nel capitolo
seguen¬ te, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che incarnano e
patrocinano la prima, la terza e la seconda funzione. Un’altra via
di sviluppo per il pensiero trifunzionale è stata quella del simbolismo:
tanto i tre gruppi sociali quanto i loro tre princi¬ pi sono stati legati
figurativamente e solidalmente a degli oggetti ma¬ teriali semplici, il
cui raggruppamento li evocava e li rappresentava. Sembra che dai tempi
indoeuropei questa via abbia principalmente portato a due insiemi: una
collezione di oggetti talismani e un venta¬ glio di colori.
Ci si ricordi della leggenda tramite cui gli Sciti, secondo Erodo¬
to, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro caduti dal cielo - carro
e giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o arco) come arma
guerriera, coppa cultuale - hanno dei valori nettamente classificatori
secondo le tre funzioni. Ora, questi oggetti non erano
solamente mitici: erano conserva¬ ti lutti insieme dal re e ogni anno
venivano solennemente portati attra¬ verso le terre scitiche. Anche la
leggenda irlandese attribuisce alla pe¬ nultima razza che avrebbe
occupato l’isola, e che in realtà è costituita dagli antichi dèi della
mitologia (i Tuatha dé Danann, «Le tribù della dea Dana»), un gruppo di
oggetti talismani: il «calderone di Dagda» che conteneva e donava un
nutrimento meraviglioso; due armi terribi¬ li, la lancia di Lug che
rendeva il suo possessore invincibile e la spada di Nuada, al cui colpo
niente sopravviveva; la pietra di Fai infine, sede della sovranità, il
cui grido rivelava quale dei candidati doveva essere scelto come re (V.
HULL«Thefourjewels oftheT.D.D» ZCP, XVIII, 1930, pp. 73-89). Le mitologie
vediche e scandinave collegano allo stesso modo dei gruppi di tre oggetti
caratteristici a degli dèi che ve¬ dremo ben presto e che sono
distribuiti secondo le tre funzioni. 20. Colori simbolici delle
funzioni presso gli Indo-Iranici Quanto ai colori simbolici,
l’importanza e l’antichità sono già segnalate, per il mondo indo-iranico,
dal fatto che i tre (o quattro) gruppi sociali funzionali sono designati
in base alla parola sanscrita varna e alla parola avestica pìstra (cf. il
greco 7touciXoq «screziato», russo pisat' «scrivere»), che con sfumature
diverse designano il colo¬ re. Di fallo è un insegnamento costante
nell’India che brdhmunu, ksatriya, vaisya e sùclru siano rispettivamente
caratterizzati (e le spie¬ gazioni non mancano) dal bianco, il rosso, il
giallo e il nero. 35 Di certo che vi è stata
un’alterazione in seguilo alla creazione delle caste inferiori ed
eterogenee degli sùdra, di un antico sistema di cui rimangono tracce nei
rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G. S. IV, 2, 6) e senza dubbio
anche uno nel Riveda («nero, bianco e rosso è il suo cammino » dice X,
20,9 di Agni, il più triplice e trifunzionale de¬ gli dèi), sistema
formato semplicemente da tre colori senza il giallo e dove vi era il nero
(o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli allevato¬
ri-agricoltori. In effetti anche l’Iran ha mantenuto questa
ripartizione: una tra¬ dizione «mazdeo-zurvanita» che è stata
progressivamente stabilita e interpretata da H. S. Nybcrg (1929), G.
Widengren, S. Wikan- der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955) descrive
nella cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei
guerrieri come rossa o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori
come blu scura. Altri Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V.
Basanoff ha intelli¬ gentemente i nterpretato in questo senso un rituale
hiltita di evocatio in cui i diversi dèi della città nemica assediata
sono pregali di lasciarla e di giungere presso gli assedianti attraverso
tre cammini - il che suppo¬ ne tre diverse categorie di dèi - avvolti uno
in una stoffa bianca, il se¬ condo in una stoffa rossa e il terzo in una
stoffa blu ( Keilischrifturk aus Bof’azkbi, VII, 60; FRIEDERICK, Deralte
Orient, XXV, 2,1925, pp. 22-23). 21. Colori simbolici delle
funzioni presso Celti e Romani Tra i Celti della Gallia e
dellTrlanda il bianco è il colore dei dm- idi e il rosso, nell’epopea
irlandese, è quello dei guerrieri; a Roma un Albogalerus caratterizza il
più sacerdote tra i sacerdoti, il flamen diu- lis, mentre il paludumentum
militare è rosso come il drappo sulla testa del generale o come la trabea
dei cavalieri o dei sacerdoti armati che sono i Salii. Un
sistema completo a tre termini del simbolismo coloralo s’incontra due
volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è quello dei
colori delle fazioni del circo che assunsero grande impor¬ tanza sotto
l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono si¬ curamente
anteriori all’impero c che gli studiosi di antichità romane ricollegano
del resto alle origini stesse di Romolo. 36 Le
speculazioni esplicative di questi antichisti sono molteplici e intrise
di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste, conser¬ vata da
Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà ro¬ mane e
afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica erano
inizialmente tre ( albati , russati, viricles) in rapporto non solo con
le divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparente¬ mente
sostituita a Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovrani¬ tà,
guerra, fecondità), ma anche con le tre tribù primitive dei Ramnes,
Lucercs e Titienses. A proposito di questi ultimi si è ricordalo
più sopra che erano, nella leggenda delle origini, sia componenti etnici
(Latini, Etruschi, Sabini) che funzionali (derivati da uomini sacri c
governanti, da guer¬ rieri professionisti e da ricchi pastori) e che in
un altro passaggio {De magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido interpreta come
paralleli alle tribù funzionali degli Egiziani e degli antichi
Ateniesi. Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi
anti¬ chi e moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade
di colori: quasi lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o
dai suoi confini, o dalle regioni che furono esposte all'influenza degli
Indoeu¬ ropei e alcuni hanno chiaramente un valore classificatorio del
tipo qui considerato. 22. Le scelti- dei tigli di
Feridùn Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle narrazioni
mol¬ to diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone
qual¬ che esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui
ulti¬ mogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi oggetti
d’oro simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a
una tradi¬ zione dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli del
l’eroe che V Ave¬ sta chiama ©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi
persiani Feridùn. Eccola nella traduzione data da M. Molé a un passaggio
dell 'Àyàtkar i JàmcispTk: «Da Frètòn nacquero tre figli;
Salm, Tòz ed Eric erano i loro nomi. Egli li convocò tutti e tre per dire
ad ognuno di essi: «Io sto per dividere il mondo tra di voi, che ciascuno
di voi mi dica ciò che gli sembra bello affinché io glielo doni». Salm
chiese grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei
Kavi (cioè il segno mira¬ coloso che distingue il sovrano scelto da Dio)
la legge e la religione. Frètón disse: «Che a ciascuno di voi giunga ciò
che ha chiesto». Ed egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il
Turkestan e il deserto a Toz e l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a
Eric». Un’interessante variante di Ferdusi giustifica la stessa
divisio¬ ne geografica con un altro criterio, anche se col medesimo
senso. Esposti a titolo di prova a uno stesso pericolo (un dragone
minaccio¬ so), ognuno dei tre fratelli si rivela in accordo con la
propria natura e col proprio «livello funzionale»: Salm fugge, Tòz si
precipita cieca¬ mente all’assalto e Iraj evita il pericolo senza
combattere, con l’intelligenza e il nobile sentimento che ha della
dignità regale della sua famiglia. 23. La scelta del pastore
Paride È un tema simile, presente fra i Greci d’Asia Minore e forse
in¬ fluenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito la materia
del «giudizio di Paride», piacevole racconto dalle pesanti
conseguenze poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza
e il suo valore, Troia finisca per soccombere ai Greci.
Paride, il bel principe pastore, vede giungere presso di sé tre dee
(che simboleggiano le tre funzioni) che gli chiedono un giudizio emi¬
nente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig. Aul, V. 1300- 1307)
ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della propria
attività: Era, « fiera del letto regale del sovrano Zeus », Atena con
l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la
«potenza del desiderio». Secondo un’altra variante (Euripide, Troia¬ ne,
v. 925-931) ogni dea tenta di accattivarsi il giudizio promettendo un
dono: Era promette la sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vit¬ toria
e Afrodite la donna più bella. Paride sceglie male e assegna il
premio ad Afrodite, scelta che causerà ben presto il rapimento
dell’incomparabile Elena e, malgrado dieci anni di combattimento, la fine
di Troia, distrutta da una coalizio¬ ne di uomini e divinità tra le quali
Era ed Atena non saranno le meno accanite. 38 Questo
tipo di racconto ha prosperato sino ai tempi moderni. L. Gerschel ha
studiato delle tradizioni svizzere, tedesche ed austriache raccolte nell
'ultimo secolo, evidentemente indipendenti dalla leggen¬ da greca, che
presentano un giovane uomo che deve scegliere (ma ge¬ neralmente «bene»)
fra tre offerte nettamente funzionali; oppure tre fratelli che si
spartiscono tre doni funzionali dei quali solo uno, quello della «prima
funzione» assicura a chi lo possiede un destino piena¬ mente «buono».
Ecco per esempio la forma originale rigorosamente ricostruita da Gerschel,
delle leggende tedesche sull’origine dello «Jodeln» (Johlen).
«Res, il vaccaro di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre
esseri sovrannaturali in procinto di fare il formaggio: a un certo pun¬
to il latticello è versato in tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo
secchio è verde e nel terzo è bianco. Res apprende che deve scegliere un
secchio e berne il latticello; allora uno dei vaccari fantasmi ag¬
giunge: «Se scegli il rosso sarai talmente forte che nessuno potrà
combattere con te». Il secondo vaccaro disse a sua volta: «Se tu bevi il
latticello di colore verde possiederai molto oro e sarai ricchissimo». Il
terzo infine spiegò: «Bevi il latticello bianco e tu sarai Jodeln mera¬
vigliosamente». Res rifiutò i due primi doni e si decise per il
latticello bianco, diventando un perfetto Jodler ». Gerschel
rileva che questa tecnica vocale ha nelle diverse va¬ rianti un effetto
magico (tutte le bestie vengono incontro allo jodler e. l'accompagnano;
tavole e panche danzano nella sua capanna: le vac¬ che si alzano sulle
loro zampe posteriori e danzano; la vacca più selva¬ tica si addolcisce e
si lascia mungere facilmente, etc.). 24. Talismani di Roma e di
Cartagine Verso la fine delle guerre puniche Roma ha senza dubbio
orga¬ nizzato su un tale tipo di schema la garanzia della sua vittoria
finale: una testa di bue, poi una testa di cavallo (trovate dagli
scavatori di Di- done sul sito in cui si ergeva, con Cartagine, il tempio
della «sua» Giu¬ none) avevano, a detta di loro, garantito alla città
africana l’ opulenza e la gloria militare. Ma in virtù della testa d’uomo
che gli spalatori di Tarquinio avevano un tempo trovato sul Campidoglio,
nel sito del fu- 39 turo tempio di Jupiter O.
M, è Roma che detiene la più alta promessa, quella della sovranità. L.
Gerschel, a cui si deve ancora questa sor¬ prendente interpretazione, ha
ricordato che presso gli Indiani vedici uomo, cavallo e bue sono
teoricamente i tre tipi superiori delle vittime ammesse per il
sacrificio, quelli le cui teste (assieme alle teste delle due vittime
inferiori, montone e capro) devono, almeno in apparenza, essere interrate
nel luogo in cui si vuole elevare l’importante altare del fuoco, in
mancanza del santuario permanente che non esiste i n India. Come ultimo
esempio, riallacciando all’ambito epico la tripar¬ tizione dei flagelli e
dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema di grande estensione
letteraria che è stato diversamente spiegato in India, in Scandinavia, in
Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio o di un uomo, generalmente
(per delle ragioni che analizzeremo nel III capi¬ tolo) un personaggio
della «seconda funzione», un guerriero. Indra, il dio guerriero
dell’India vedica, è un peccatore. Nei Brahmano e nelle epopee la lista
dei suoi errori e dei suoi eccessi è lun¬ ga e varia. Ma il quinto canto
del Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo schema delle tre funzioni: Indra
uccide prima il mostro Tricefalo, morte necessaria poiché il Tricefalo c
un flagello che minaccia il mon¬ do, ma tuttavia morte sacrilega poiché
il Tricefalo ha il rango di brah¬ mano e non vi è crimine peggiore del
brahmanicidio e di conseguenza Indra perde la sua maestà, la sua forza
spirituale, tejas (1-2). Poi, es¬ sendo stato generato il mostro Vrtra
per vendicare il Tricefalo, Indra s’impaurisce e contravvenendo alla
vocazione propria del guerriero conclude con Vrtra un patto infido che
viola, sostituendo alla forza l’inganno; di conseguenza perde il suo
vigore fisico, baia (3-11). Infi¬ ne, tramite un’astuzia vergognosa,
assumendo la forma del marito, adesca una donna onesta in adulterio e
perde così la sua bellezza, rùpa (12-13). L’epopea nordica -
Saxo Grammalicus è l’unico a rintracciarne la storia completa, ma lo fa
secondo fonti perdute in lingua scandinava - conosce un eroe di tipo
molto particolare, Starkadr (Starcatherus), guerriero modello in ogni
punto, servitore fedele e devoto ai re che 1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli
è infatti stato dotato di tre vite successive, cioè di una vita
prolungata sino alla misura di tre vite normali, a condizione che in
ognuna di esse egli commetta una penalità. Ora, il quadro di queste
tre penalità si distribuisce chiaramente secondo le tre funzioni. Essendo
al servizio di un re norvegese l’eroe aiuta criminalmente il dio Othinus
(Ódinn) a uccidere il suo signore in un sacrifìcio umano (VII, V,
1-2). Trovandosi poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosa¬
mente dal campo di battaglia dopo la morte del suo signore abbando¬
nandosi, in quest’unica occasione delle sue tre vite, alla paura panica
(Vili, V). Servendo infine un re danese, assassina il suo signore procu¬
randosi per mediazione centoventi libbre d’oro, cedendo eccezional¬ mente
per qualche ora all’appetito di questa ricchezza di cui fece altro¬ ve,
in atti e discorsi, professione di disprezzo (VII, VI, 14).
Essendosi così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che
cercare la morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili,
Vili). Il carattere e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti
quelle di Eracle. Nelle esposizioni sistematiche che sono fatte -
relativamen¬ te tarde ma non inventate - la vita intera dell’eroe greco
(concepito da Zeus e Alcmene durante tre notti) è scandita da tre
mancanze che han¬ no un effetto grave sull 'essere dell’ eroe e ognuna di
questecomporta il ricorso all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV, 10-38). 1)
Euristeo re di Argo comanda ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha il
diritto in virtù di una promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di
Era: Eracle commette tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito
formale di Zeus e l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di
disubbi¬ dienza agli dèi, Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così
preso dalla demenza ed uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna
penosamente alla ragione, si sottomette e compie così le Dodici Fatiche,
aggravate da altre fatiche (cap. 10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito,
Eracle attira suo figlio Iphitos in un tranello e lo uccide non in duello
ma con l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie 269-280 sottolinea il
carattere for¬ temente antieroico di questo sbaglio). Eracle, punito,
cade in una ma¬ lattia psichica da cui non si libera: viene così
informato dall’oracolo che deve vendersi come schiavo e rimettere ai
figli di Iphitos il prezzo di questa vendetta (cap. 31). 3) Benché infine
legittimamente sposato aDeianira, Eracle cerca di sposare un’altra principessa,
poi ne rapisce una terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva
il terribile di¬ sprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di
Nesso e i terri¬ bili e irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può
liberarsi, dietro un terzo ordine di Apollo, che con la propria apoteosi,
col rogo (cap. 37-38). Oltraggio a Zeus e disobbedienza agli
dèi; morte vile e perfida di un nemico senz’ armi; concupiscenza sessuale
e oblio della propria don¬ na: i tre errori fatali di questa gloriosa
carriera si distribuiscono sulle tre zone funzionali esattamente come i
tre peccali di Indra e con la stessa specificazione (concupiscenza
sessuale) della terza, alterando l’essere stesso dell’eroe. Ma queste
alterazioni, progressive e cumulative nel caso di Indra, sono invece
successive nel caso di Eracle: le prime due possono essere riparate
mentre la terza trascina alla morte. In una tradizione avestica,
senza dubbio ripensala e ri-orientata dallo zoroastrismo, un eroe di
tufi’altro tipo, Yima, è punito per un unico grande peccalo (menzogna o,
più lardi, orgoglio c rivolta contro Dio e usurpazione degli onori
divini) e viene privato in tre tempi dello x' arvnah , di quel segno
visibile e miracoloso della sovranità che Ahu- ra Mazda pone sul capo di
coloro destinati ad essere re. I tre terzi di questo x v arvnah
successivamente sfuggono per collocarsi nei tre per¬ sonaggi
corrispondenti ai tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore, del
guerriero e d c\V intelligente ministro di un sovrano (Dènkart , VII, 1,
25-32-36; molto più soddisfacente dello Yasl XIX, 34-38). 26. Il
problema del re Questo rapido excursus è sufficiente per mostrare
le direzioni e i diversi ambili in cui l’immaginazione dei popoli
indoeuropei ha uti¬ lizzato la struttura tripartita; ancora una volta
dobbiamo ora volgerci, come per le altre applicazioni di questa
struttura, verso i popoli non indoeuropei del mondo antico per ricercare
se intorno a un eroe si è prodotto un tema epico o leggendario, la messa
in scena di una lezione morale o politica, la giustificazione colorita
immaginifica di una prati¬ ca o di uno stato di fatto. Al
momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga- mesh a
Sansone, dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della Cina, dalla
saggezza araba agli apologhi confuciani, nessun personag¬ gio storico o
mitico ha rivestito in alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al
contrario molte figure degli Indoeuropei. È dun¬ que probabile che questa
divisa sia solo indoeuropea e che solo in questa vasta partedel mondo, e
prima della loro dislocazione, gli Indo¬ europei abbiano
intellettualmente scandagliato, meditato e applicato all’analisi e
all’interpretazione della loro esperienza, e infine utilizza¬ to nei
quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità
fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di soddi¬
sfare. Terminando quest’esposizione molto generale vorrei
sottoline¬ are ancora che il riconoscimento di questo fatto così
importante non ci fornisce il mezzo per rappresentare lo stato sociale
effetti voo le istitu¬ zioni (senza dubbio variabili da provincia a
provincia) degli «Indoeu¬ ropei comuni». Noi non possediamo
che un principio, uno dei princìpi e dei quadri essenziali. Una delle
questioni più oscure rimane ad esempio il rapporto fra le tre funzioni e
il «re», del quale ci è assicurala l'esistenza antichissima nella parte
senza dubbio più conservatrice degli Indoeu¬ ropei, cioè presso gli indiani
vedici (/•«/-), i latini (/ <?#-) c i celti (n#-). Questi
rapporti sono diversi sui tre domini c su ognuno vi è stata una
variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così qualche fluttuazio¬ ne
nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c notoria¬ mente
della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla strut¬ tura
trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura
amministrazione del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul
sovrano e i suoi ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governato¬
re) è al contrario il più eminente rappresentante di queste funzioni.
Oppure si presenta una mescolanza variabile di clementi presi dalle
tre funzioni e in special modo dalla seconda, dalla funzione e dal¬ la
classe guerriera da cui solitamente proviene: il nome differenziale dei
guerrieri indiani, ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello di ràjanya,
derivato dalla parola ràjanl Queste difficoltà, insieme ad altre,
potranno essere meglio for¬ mulale, se non risolte, quando avremo
indirizzato lo studio su ciò che fu l’armatura più solida del pensiero di
questa società arcaiche: il siste¬ ma divino, la teologia e i suoi
prolungamenti mitologici ed epici. § 1. V.M. AFTE, «Were castes formulateci in
thè age of thè Rig Veda?», Bull, of thè Decenti College Research
Institute, II, pp. 34-36. Per brahman vedi L. RENOU, «Sur la nolion de
bràhman», JA, CCXXXVII, 1949, pp. 1 -46. Questa interpretazione, facile
da conciliare con i fatti iranici segnalali da W.B. HENNTNG,' «Brahman»,
TPS, 1944, pp. 108-118, rende caduco il senso ammesso nel mio
Flamen-Brahmnti (1935). Il «Brahman» di P. THIE- ME, ZDMG, 102, 1952, non
ha fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato dello studio di
Renou. Circa i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia discussione
con J. GONDA ( Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII, 1950, pp.
255-258 eCXXXIX 1951,pp. 122-127; riprenderò prossimamente la questione
di questi rapporti. Come xsaQra in avestico, ksatrd è ambiguo in vedico e
appartiene per certi impieghi al vocabolario del «primo livello»; ma la
concordanza dell’uso classificatorio del sanscrito ksatriya per designare
l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come nome dell’arcangelo sostituito
nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo livello (vedi qui sotto II § 8) e
infi¬ ne di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini
differenzialmente “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4),
garantisce che fin dai tempi indo-iranici questo termine fosse una designazione
tecnica dell’essenza del secondo livello. § 2. DUMÉZIL, «La
préhistoire indo-iranienne des castes», JA, CCXVI, 1930, pp. 109-130. B
ENVENISTE, «Les classes sociales dans la tradilion ave- stique», JA,
CCXXI, 1932, pp. 117-134; «Les mages dans l’ancien Iran», Pubi, ile la
Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938, pp. 6-13; «Tradilions in-
do-iraniennes su les classes sociales», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-550;
H.S. NYBERG, Die Religione/} cles alteri Iran, 1938, pp. 89-91; DUMÉZIL, JMQ,
pp. 41-68 (= JMQ it. pp. 24-45). § 3. L’interpretazione è stata
progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al § 2,
partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le pre¬ mier homme... I,
1918, pp. 137-140. § 4. JMQ, pp. 55-56 (= JMQ il., p. 35). Sulle
tradizioni degli Osseti vedi il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il
risultato delle grandi inchieste degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije
Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948 (in osseto: Narty kailcliitce ibid.
1946). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo «Klo takie
Narty?»,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak), 1925, p.
373. § 5. Vedi la mia Lezione Inaugurale al Collège de Franco
(1949), pp. 15-19 e BGDSL, 78, 1956, p. 175-178. § 6. JMQ,
pp. 110-123 (=JMQ il. pp. 77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra,
T.G.E. POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, «Ccltic Origins; a Stage
in thè Hnquiry», J. ofthe R. Anthropol. Institute, 78, 1948, pp. 71-79:
« Of greatest interest is thè recognition of a three folci clivision o f
society 44 among thepeoples concerned [Indiani,
Italici, Celti ],providing in thehighest rank a class oflearned and
sacred men, in tlie second warriors, and in thè lo- west thè ordinary
people » etc. Circa il nome di aire apparentato ad aiya, io credo che
bisogna rinunciare all’etimologia che accosta il nome dell’eroe ir¬
landese Eremon al dio indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in
conse¬ guenza sopprimere l’ultimo capitolo del mio Troisième Souverain,
1949. § 7-8. Questa analisi è stata fatta progressivamente in JMQ,
pp. 129-1 54 (= JMQ it., pp. 90-107); NR, pp. 86-127 (= JMQ it. pp.
230-263); JMQ IV, pp. I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode
L'heritage... pp. 127-130 e 190-209. Gli Umbri distinguevano nella
società i rappresentanti delle tre fun¬ zioni: «Ner - et uiro - dans les
sociétés italiques», REL, XXXI, 1953, pp. 183-189. § 8. Delle
obiezioni a questa analisi sono state lungamente esaminate in NR, cap. II
(= JMQ it. pp. 230-262), riassunto in L’heritage... pp. 196-201 e 229-23
1. Ho anche fatto notare che se Ranmes è utilizzato - «superbum
Rhamnetem» -come nomeproprioda Virgilio (Aen., IX. 327) è perdesignare un
re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe essere all’origine del nome
della gens Lucretia, una delle più militari delle leggende dei primi
tempi della Re¬ pubblica (e proprietaria del cognome Tricipitinus, che
senza dubbio allude a un mito del Tricefalo); che il radicale di
Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir., Ili, 1930, pp. 75-80) si trova in
altre parole in rapporti diversi ma convergenti con la fecondità,
l’amore, la voluttà: questo conferma l’orientamento diffe¬ renziale di
ognuna delle tribù verso una delle tre funzioni. Ho infine ricercato
delle allusioni letterarie alle «tre funzioni» e ai loro rappresentanti,
come componenti di Roma o di altre società concepite a sua immagine: JMQ
IV, pp. 121-136; REL, XXIX, 1951, pp. 3 18-329; ma i testi degli storici
e quello di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità
della fusione dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a
questa ma differente, vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ,
pp. 252-253 (=JMQ it., pp. 269-270); in compenso le classi do¬ riche sono
di un altro tipo, malgrado JMQ, pp. 254-257 (soppresso in JMQ it.). Un
recente studio di MARTIN P. NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults, myths,
oracles andpolitics in ancient Greece, 1951, pp. 143-149) presenta delle
difficoltà che esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente pro¬
posto di riconoscere la tripartizione sociale indoeuropea nei testi
micenei: TPS, 1954, pp. 18-53; Acliaeans and Indoeuropeans, an Inaugurai
Lecture, Oxford 1954, pp. 1 -22. Quanto ai «tre stati» della Repubblica
di Platone, vedi JMQ, pp. 257-261 (= JMQ it. pp. 170-171 ): « Se le più
antiche tradizioni degli Ioni conservano il ricordo di una divisione
funzionale quadripartita della so¬ cietà (sacerdoti, guerrieri,
agricoltori, artigiani), la città ideale di Platone non potrebbe forse
essere, nel senso più stretto, una reminiscenza indoeuro¬ pea? Essa è
costituita dalla concatenazione armoniosa di tre funzioni, tò
(pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ XpimOtTlCTTUCÓV
«CUStO- 45 dum genus, uuxiliarii, questuarti»,
come traduce Marsilio Ficino, cioè i filo¬ sofi che governano, i
guerrieri che combattono e il terzo-stato, agricoltori e artigiani
riuniti, che crea la ricchezza. La solidarietà dei primi due gruppi al di
sopra del terzo è fortemente marcata, ma soprattutto l’originalità di ciascuno:
ogni stato agisce conformemente alla sua definizione, oìtceiojtpa/yia,
evita la confusione , 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la Giustizia, fine ultimo della
vita politica, è assicurata. A ognuno degli stati corrisponde infine una
«formula di virtù» particolare: il terzo stato deve essere temperante,
acótppcov; alla temperanza i guerrieri devono aggiungere il coraggio,
àvSpeia; i «guardia¬ ni» saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa
immaginare, per quel po ’ che li si è praticati, i trattati politico-religiosi
dell’India: stessa definizione dei tre stati sociali; stessa solidarietà
dei primi due, ubhe vlrye; stesso anate¬ ma contro la confusione,
varnanàm samkaram,- stessa esortazione ad atte¬ nersi al modo di azione a
cui si appartiene, stessa distribuzione dei doveri e delle virtù dello
stato. I legislatori indiani e la Repubblica si fanno eco: none forse
perché essi recitano la medesima canzone ancestrale?... Che si pensi a
tutte le vie per le quali questa «filosofia indoeuropea» tripartita ha potuto
di¬ scendere fino a Platone: non solo le tradizioni sulle origini degli
Ioni, ma i contatti molteplici con quel conservatore di dottrine, non
ariane, ma anche ariane, che fu l'impero degli Ac he me nidi; l'orfismo,
in cui deiframmenti del¬ la scienza dei sacerdoti traci e frigi si sono
depositati e in cui non mancavano le triadi; il pitagorismo, su cui Henri
Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a non trascurare le componenti
«iperboree»; infine il folklore...» Cf. qui sotto § 18, per le
applicazioni psicologiche della divisione tripartita nell’India e in
Platone. § 10. Cf. i riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano
ma-ra-ya-na\ cunei¬ forme mar-ya-an-nu ; forse come l’ha proposto
Albrighl, dall’accusativo plu¬ rale arya mdrycin + la terminazione
hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN, «New light on thè Maryannu as
chariot-warrior», Jb. f kleinas. Forschung, 1951, pp. 308-324. I libri
fondamentali quelli di S. WtKANDER, Der arische Mannerbund, 1938 e H.
LOMMEL, Der arische Kriegsgott, 1939, da confron¬ tare con O. HÒFLER,
Kultische Geheimbùnde der Germanen, I, 1934. Una delle grosse differenze
tra il «Mannerbund» degli Indiani e quello dei Germa¬ ni consiste nel
fatto che il primo appartiene a Indra (non a Varuna), mentre il secondo a
Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione della «funzione guer¬
riera» presso i Germani (cf. II § 22); vedi MDG, p. 92, n. 1 e più
specificata- mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch., II, 1957, §§
405-412. § 11. Un’interpretazione delle corrispondenze del tipo
«33» fra Roma e l’India vedica è proposta in JMQ IV, pp. 156-170 (= JMQ
it., pp. 389-405), L'heritage..., pp. 213-227.1 «33 dèi» vedici sono
ripartiti frai tre piani del mondo (JMQ IV, pp. 30-33; riassunto in DIE,
pp. 7-9) essi stessi in rapporto con le tre funzioni (JMQ, p. 65 = JMQ
it. pp. 42-43 ). Il carattere indo-iranico dei «33 dèi» è garantito dalla
concezione avestica dei «33 ratu» (spiriti pro- 46
tettori o prototipi delle diverse specie di esseri): JMQIV, pp.
158-159(=JMQ it., pp. 294-395), secondo J. Darmesteter e S.
Wikander. § 12. È nel suo articolo «Traditions indo-iraniennes sur
les classes socia - les», JA, CCXXX, 1938, pp. 529-549, che E. BENVENISTE
ha per la prima volta mostrato, al di fuori dell’India vera e propria in
cui il fatto era ben cono¬ sciuto, che l’ideologia tripartita supera
largamente l’organizzazione sociale che finalmente non appare più se non
come un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro
articolo, per riassumere l’insegnamento di questo («Symbolisme social
dans les cultes gréco-italiques» RHR, CXXXIX, 1945, p. 5): «La elivisione
della societe'i in tre classi, sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un
principio di cui gli Indo-Iranici avevano piena co¬ scienza e che
presentava ai loro occhi l’autorità e la necessità di un fatto na¬
turale. Questa classificazione regge così profondamente l’universo
indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le enunciazioni
esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA, 1938, p. 529
e segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono
fuori dal¬ la sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione
di una totalità con¬ cettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro
tripartito che organizza la società degli uomini. Da parte sua, G.
Dumézil, in una serie di brillanti stu¬ di ha riportato sino alla
comunità indoeuropea l’origine di questa classifica¬ zione, scoprendola
nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale antica e
principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus - nella
reli¬ gione romana». Le posizioni variabili della «tecnica» in rapporto
alla tripar¬ tizione sociale sono esaminate in «Les métiers et les
classes fonclionnelles chez divers peuples indoeuropéens» che sarà
pubblicato quest’anno in Anna- les. Economies, Sociétés,
Civilisations. § 13. BENVENISTE, «Traditions indo-iran. sur les
classes sociales», JA CCXXX, 1938, pp. 543-545; DUMÉZIL, «Triades de
calamités et triades de délits à valeur trifonclionnelle chez divers
peuples indoeuropéens», Ltito- mus, XIV, 1955, pp. 173-185. §
14. BENVENISTE, «La doctrine médical des Indo-Européens», RHR, CXXX,
1945, pp. 5-12; Dumézil, art. cit. al paragrafo precedente, p. 184, n.2. §
15. JMQ, pp. 114-115 (= JMQ it., p. 80) § 17. «Les trois fonctions
et le droit romain selon L. Gerschel», frammenti di una memoria inedita
di L. G., pubblicata in appendice a JMQ IV, pp. 170-176. §
18. Per Platone e l’India vedi JMQ, pp. 259-260 (=JMQ it., pp. 171 -172)
«Dopo aver scoperto la formula tripartita della società, Platone si
volge sull’individuo, sull'«Uno umano» e in questo microcosmo ritrova gli
stessi elementi in una stessa gerarchia, le stesse condizioni di armonia
comandano le medesime virtù. L'uomo giusto, dal punto di vista della
giustizia, non diffe¬ risce in niente dallo Stato giusto; ha in sé
l'equivalente dei saggi, dei guerrie¬ ri, degli uomini ricchi: questi
sono i principi della conoscenza, della flussione e dell ’appetito , xò
à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che effli subordina in
modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i due primi dominino
insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte più
considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze;
poi¬ ché apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi
spirituali che convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo
stesso modo l’India, con l’instabilità delle rappresentazioni e delle
formulazioni che le è propria, compone l’anima o meglio l'involucro
dell’anima, di tre guna al pari della società e dell'universo: queste
qualità, che furono inizialmente luce, crepu¬ scolo e tenebra, sattva,
rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata che per la loro combinazione,
costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta il senso della legge
morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e artha, si
uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro equilibrio
lode¬ vole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta, seguendo uno
schema prettamente indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o
l’ignoran¬ za fonte di errori, che si disputano il nostro effimero
edificio e questa sempli¬ ce enumerazione disegna una terapeutica...» Per
l’Irlanda e la regina Medb vedi JMQ, pp. 115 -116 (= JMQ it., pp. 80-82);
è la stessa Medb che commen¬ ta chiaramente la sua seconda e terza
esigenza: il suo sposo dovrà essere valo¬ roso in guerra e anche generoso
di beni quanto lei; circa la prima si spiega in questi termini; non
bisogna che mio marito sia geloso poiché «non sono mai stata senza un
uomo nell’ombra di un altro » - allusione alle costanti competi¬ zioni
intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella lon¬
tana posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon., espone
magnificamente la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre anime) c
ritro¬ va, v. 259, una formula analoga alle tre esigenze di Medb (ma col
«timore» al primo livello: si metuis, sipraua cupis, si duceris ira;
seruitiipaliere iugum... - Per «Zoroastro tripartito» vedi K. Barr,
«Irans profet som xéXeioq avOptonoq», Festkr. tilL.L. Hammerich, 1952,
pp. 26-36. § 19. Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi JMQ,
cap. VII (soppri¬ mendo le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici (la
Vacca magica per il dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai pcrlndra,
ilearro a tre ruote che ser¬ ve agli Aévin per portare la loro
benevolenza al mondo: p. es. RV, I, 161, 6) e scandinavi (P anello magico
per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle setole d’oro per
Freyr) vedi Tarpeia, IV («Mamurius Veturius»), pp. 205-246. §
20. Nei rituali vedici vi sono tracce di un’antica assegnazione del nero
ai vaiéya: per costruire la sua casa un indiano sceglie un suolo
diversamente co¬ lorato, bianco per un brahmano, rosso per uno ksatrya e
per un vaiéya, giallo secondo certi trattati ( Àsvalàyana G.S., II, 8, 8)
e nero secondo altri ( Gobhila G.S., 7, 7; Khàdira G.S., IV, 2, 12). Per
la tradizione iranica vedi in ultimo luogo ZaEHNER, Zurvan, 1955, pp.
118-125 (testo del Grande Bundahisn c del Denkart, pp. 321-336 e
374-378). Per il rituale hittita vedi BasaNOFF, Euocatio, 1947, pp.
141-150. 48 § 21. DUMÉZIL, Rituels cap. Ili
(«Albati, russati, virides») e IV («Ve- xillum caeruleum»); J. DE VRIES,
«Rood, wit, zwart», Volkskimde, II, 1942, pp. 1-10. §
22. MOLE, «Le partage du monde dans la tradition des Iraniens», JA, CCXL,
1952, pp. 456-458. § 23. DUMÉZIL, «Les trois fonctions dans quelques
traditions grecques» Eventail de l'histoire vivante (= Mèi. L. Febvre ),
I, 1954, pp. 25-32, dove sono studiate in questo senso il «Kroisos-Logos»
di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e del Sileno; L. GERSCHEL,
«Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de légendes
germaniques», RHR, CL, 1956, pp. 55-92, in cui sono esaminati due tipi
imparentati di leggende, una che com¬ porta l’opzione proposta a un
individuo fra tre «offerte funzionali» (es. l’origine di «Jodeln» citata
nel testo) e l’altra che presenta tre fratelli che si spartiscono tre
doni funzionali il cui valore si rivela disuguale a vantaggio del dono
della prima funzione (es. il gruppo di leggende di cui Ch. PRÉVOT
D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842, pp. 268-291 ha pubblicato un buon
esempio). § 24. L. GERSCHEL, «Structures augurales et tripartition
fonctionnelle dans la pensée del’ancienneRome», JP, 1952, pp. 47-77.
L’estrema antichità e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e
pratiche augurali di Roma (la parola augur è indoeuropea) sono state
stabilite in diversi articoli: «L’inscription archaique du Forum et
Cicéron, De divin., Il, 36», RSR, XXXIX-XL ( =Mél. J. Lebreton. I), 1951,
pp. 17-29, prolungata da «Le iuges auspicium et les incongruités du
taureau attelé de Mugdala», NC, V, 1953, pp. 249-266; Rituels..., cap. II
(«Aedes rotunda Vestae»); «Les trois premiè- res regiones caeli de
Martianus Capei la», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M. Niedermamì),
1956, pp. 102-107. Sulla parola augur e la sua preistoria in¬ doeuropea,
vedi «Remarques sur augur, augustus», REL, XXXV, 1957, pp. 126-151.
§ 25. Aspects..., p. 63-101 («Les trois péchésdu guerrier»). Citiamo
anco¬ ra L. GERSCHEL, «Coriolan», Eventail de l’Histoire vivante (=Mél.
L. Feb¬ vre), II, 1954, pp. 33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma,
resiste alle ambasciate dei suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto
il corpo sacerdo¬ tale rivestito delle sue insegne sacre e con gli
strumenti di culto, ma cede alla terza, a quella di tutte le donne di
Roma che portano i loro bambini - la «parte germinativa» di Roma -
condotte dalla sua propria madre e da sua moglie. § 26. Sulla
diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre funzioni, vedi la
mia comunicazione al Vili Congresso Internazionale di Storia delle
Religioni (Roma 1956), «Le rex et les flamines maiores», riassunta negli
Atti..., 1956, pp. 118-120. Sul re germanico nella prospettiva
trifunzionale vedi J. DE VRIES, «Das Kònigtum bei den Germanen»,
Saeculum, VII, 1956, pp. 289-309. 49
Capitolo secondo Le teologie tripartite 1.
Espressione teologica dell’ideologia delle tre funzioni Le teologie
dei diversi popoli indoeuropei non sono essenzial¬ mente degli accumuli
incoerenti di dèi stratificati dai flussi e riflussi fortuiti della
storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente infor¬ mati è facile
riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si definiscono le
une con le altre e che si spartiscono le province del sa¬ cro, secondo il
piano spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi sono stati per
lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal compresi.
Il loro riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo itali¬ co
e mitanno di cui si discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a partire
dal 1945)-èall’origine dei principali progressi dei nostri studi;
all’origine anche di numerose discussioni spesso gradevoli, talvolta
penose, ma generalmente utili, tra il comparatista e lo specialista dei
diversi ambiti. 2. Gli dèi caratteristici delle tre funzioni negli
inni e nei RITUALI VEDICI I sacerdoti dell’India
vedica, in un certo numero di circostanze rituali importanti, associano
(per delle invocazioni, delle offerte o del¬ le enumerazioni
classificatorie) i due sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio
guerriero per eccellenza, lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi sempre
designati al duale con un nome collettivo, i Ncisatya o Asvin, guaritori,
datori di discendenza e di ogni sorta di bene. Talvolta al se¬ condo
livello, evidentemente per analogia col raggruppamento bina¬ rio del
primo e terzo livello, Indra compare associato a un altro dio, spesso
variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu). Abbiamo già visto (I § 18) questo
insieme divino (Mitra-Varuna, i due ASvin, Indra con Agni o Sùrya),
invocati per ottenere la formazione di un feto maschio, obiet¬ tivo più
importante in questi tempi arcaici che non oggi. L’ordine di
numerazione mette gli ASvin al secondo posto, pri¬ ma di Indra poiché si
tratladi una nascita, cioè di un avvenimento che è propriamente del loro
ambilo. Con un’alterazione differente dell’ordi¬ ne che mette più in
evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce la lista dei principali
«dèi in coppia» invocali al momento culminante della spremitura mattutina
del soma (il sacrificio tipico); sono Indra-Vàyu, Mitra-Varuna c i due
ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1, 3-5) ed è lui che comanda il piano di
un certo numero di inni del Rive¬ da ispirati da questo rituale.
Il contesto di questi inni è sovente istruttivo, garantisce e illu¬
stra il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio in I, 139
Indra-Vàyu sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c nella
stessa strofa ( 1), della parola sàrdhas, termine tecnico che designa il
battaglione dei giovani guerrieri divini: la strofa di Mitra-Varuna (2) è
riempita dalla nozione di rtù c dnrta, cioè dell’Ordine cosmico e mo¬
rale e dal suo contrario; gli ASvin (3) sono invece presentati come i si¬
gnori delle due varietà di «vitalità», srlyah e prksah. Nei due
inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualifi¬ cati come nani,
«Mànner, eroi» (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è detto che «con
l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto un’elevata efficienza »;
quanto agli Asvin, « donano gioia a molti» (3, slr. 1). 3.
Lis ti-: ascendenti e discenden ti Più spesso l’ordine canonico sia
ascendente che discendente è rispettato. Ecco inizialmente due casi molto
«puri» in cui Indra è solo al suo livello. 52
Nel rituale arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante alta¬
re del fuoco, al momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono
li¬ mitare l’area, viene fatta un’invocazione alla vacca mitica, Kàmadhuk
(«quella che quando la si munge dona ciò che si desidera»). L’invocazione
contiene la sequenza divina che ci riguarda, nel senso discendente, con
un prolungamento che ne garantisce i valori funzio¬ nali: «Produci come
latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a Indra, ai due Asvin, a
Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra), alle creature, alle
piante!» (cf. Éat. Brdhm., VII, 2, 2, 12). In una tale numerazione
ordinata, al di sopra delle piante, degli animali ed even¬ tualmente
degli uomini non-arya, Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non possono
patrocinare che tre varietà di uomini arya, quelli che corri¬ spondono
rispettivamente e gerarchicamente alle loro tre nature. In un
sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli stessi dèi sono
invocati nell’ordine ascendente con un complimento colletti¬ vo ed
esauriente (Taittir. Sarnh. , II, 3, 10, 1 b): «tu sei il soffio degli
dèi Asvin... tu sei il soffio di Indra... tu sei il soffio di
Mitra-Varuna... tusei il soffio di Tutti gli Dèi!». Con Agni
associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osser¬ va la stessa
sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interes¬ sante ( RV ,
X, 125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine delle strofe):
è il famoso inno panteista, messo nella bocca di un perso¬ naggio che è
senza dubbio Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta come il
supporto e l’essenza comune di tutto ciò che esiste. La prima
strofa è questa: «Io vado con i Rudra, con i Vasu, con gli Àditya e con
Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due Mi¬ tra-Varuna; sono io
che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due Asvin!». È degno di nota
che nelle strofe seguenti, analizzando la pro¬ pria polivalenza o, come
ella dice, i « diversi luoghi » c «soggiorni» in cui «glidèi l’hanno
introdotta » (RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in ri¬ salto, come parti
della sua opera in rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6 =AV str. 4, 3,
5) il nutrimento e la vita, poi la parola «assaporata dagli dèi e dagli
uomini» e il bene che concede ai personaggi sacri (bruh- man, rsi),
infine l’arco «la freccia che uccide il nemico del brahmàn» c il
combattimento. È chiaro che, qualunque sia l’intenzione dottrinale
(si è parlato in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo poema
utilizza nelle sue espressioni il più antico sistema concettuale degli Arya:
con la sua esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la
se¬ quenza Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin
riu¬ nisce i patroni e le espressioni teologiche delle tre
funzioni. 4. Gli dei arya dei Mitanni Talvolta
leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso possibile
comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in di¬ versi testi
dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a un documento
molto importante. È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo
parlante sia il futuro «indiano-vedico», che un dialetto molto vicino a
quelli che si possono chiamare «para-indiani», invece di emigrare verso
Est, verso l’Indo e il Panjab, deviò verso Ovest, presso l’Eufrate e fino
alla Palestina, in¬ correndo in un destino brillante ma effimero e
lasciando sue tracce in molti scritti cuneiformi. Mentrei
loro fratelli orientali, autori degli inni vedici, sfuggono alla storia,
questi, circondali da popoli archivisti e armati di una scrit¬ tura, sono
localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro che hanno
fatto tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino Oriente con le
loro bande di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più sopra,
quelli che i testi babilonesi ed egiziani chiamano marianni. Il
gruppo più interessante di questi «Para-Indiani» è quello che,
inquadrando e dirigendo un popolo di altra origine, ha fondato nella metà
del secondo millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero hurri- ta dei
Mitanni, che per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto trattare
da pari a pari. Nel 1907, a Bogazkòy, negli archivi di un re
hittita, gli scavi hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un
trattato concluso da questo principe, verso il 1380, col suo vicino dei
Mitanni, il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono dall 'Hittita che gli
aveva inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì un’alleanza col suo
benefattore nella debi¬ ta forma. Il testo enumera le
maledizioni celesti in cui egli accetta di in¬ correre se mancherà alla
parola. Secondo l’uso, i due contraenti con¬ vocano come garanti tutti
gli dèi che i loro due imperi riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a
un gran numero di dei sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità
locali o babilonesi, s’incontra una sequen¬ za che è stata immediatamente
identificata dagli indianisti e su cui i fi¬ lologi hanno lungamente
lavorato, esaminando le particolarità grafi¬ che e grammaticali del
testo. Oggi renumerazione si può rendere con sicurezza nel modo
seguente: «Gli dèi Mitra-(V)aruna [variante Uruvcma] in coppia, il
dio Indura [var. Inclar], i due dèi Nàsatyu ...». Per più di
trentanni, senza aver preso in visione i documenti ve¬ dici principali
citati, si sono proposte per questa riunione di dèi delle spiegazioni
strane (W. Schulz, 1916-17) o insufficienti (S. Konow, 1921 ). Il danese
A. Christensen ( 1926) con un’analisi serrata si è avvi¬ cinato alla
verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i Nàsalya non compaiono a
Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come interessali di questa
o quella clausola particolare, ad esempio matri¬ moniale, del trattalo,
ma poiché erano «dèi principali» della società arya. Sfortunatamente egli
ha «pensato» questo stato maggiore solo nel quadro dualista
dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’I¬ ran, reale ma meno
importante nell’India vedica, c l’ha ripartito artifi¬ cialmente,
contrariamente alle indicazioni del testo, in due gruppi, Mitra-Varuna da
una parte e Indra-Nàsatya dall'altra. E solo nel 1940, grazie a un
dossierve dico delle tre funzioni e ai testi vedici che associano gli
stessi dèi presenti nel trattalo di Bogaz¬ kòy, che è apparsa
l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in questi termini nel
1945: «A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che
pa¬ trocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della regalità coi
suoi necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu,
rappre¬ sentanti duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso
piano: a un secondo livello vi è Indura, dio della funzione guerriera e
dell’ari¬ stocrazia militare dei marianni; poi, a un livello ancora inferiore
vi sono i patroni del terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi dèi
insie¬ me e in quest’ordine, il re fa due operazioni precise: vincola con
se stesso tutta la società del suo reame, presentata nella sua forma
rego¬ lare, ed evoca le tre grandi province del destino e della
provvidenza. Questo corrisponde del resto alla stesura delle maledizioni
che accettu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa ampiamente dalla
sua persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità, espulsione e
oblio, odio generale da parte degli dèi ». 5. Connotati degli
dèi caratteristici delle tre funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA
Non sarà inutile, per agevolare il lettore nelle analisi
particolari che seguiranno, precisare ora in qualche parola, nella
prospettiva delle tre funzioni, gli orientamenti e i limiti di questi
diversi dèi che gli ar¬ chivi di Bogazkòy, confermando le formule degli
inni e dei rituali in¬ diani, comprovano essere un raggruppamento
formulare pre-vedico. Ecco come questi valori sono stati riassunti nel
mio piccolo libro Les dieux des Indo-Européens (1952). «Non è
un caso se il primo livello è spesso rappresentato da due dèi: nella
sovranità che questi antichi indiani concepivano vi erano due facce, due
metà antitetiche ma complementari e ugualmente ne¬ cessarie, incarnate e
patrocinate da due «re», Mitra e Varuna. Se dal punto di vista dell'uomo
Varuna è un signore inquietante, terribile, possessore della màyà, cioè
della magia creatrice delle forme, armato di nodi e di reti, che opera
cioè avvinghiameli immediati e irresistibili, Mitra, il cui nome
significa Contratto, e anche Amico, è rassicurante e benevolo, protettore
degli atti e dei rapporti onesti e stabiliti, estraneo alla violenza.
L'uno, Varuna, dice un testo celebre, è l’altro mondo; questo mondo è
invece Mitra. Varuna è più despota, più dio stesso se così si può dire;
Mitra è quasi un sacerdote divino. Più che della prima funzione, Varuna
sembra avere maggiori affinità con la seconda, violenta e guerriera;
Mitra, per la tranquilla prospe¬ rità che dischiude grazie, alla terza.
L'opposizione è così netta che da tempo si sono potuti sottolineare i
tratti quasi demoniaci di Varuna: non è forse l’àsura per eccellenza ? E
nelle forme post-vediche della religione, come già in molte strofe del
Rgveda, gli usura non sono for¬ se dei misteriosi demoni? In Ind(a)ra si
riassumono tutte altre cose: i movimenti, i seni zi, le necessità della
forza brutale che applicate alla battaglia producono vittoria, bottino e
potenza. Questo campione vo¬ race, armato di folgore, uccide i demoni e
salva l’universo, per com¬ piere le sue imprese si inebria di soma che
dona vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e
ardente seguito è formato dai Marut, trasposizione atmosferica del
battaglione dei giovani guerrie¬ ri, màrya. Per lui e per essi si esprime
una morale dell'exploit e dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza
immediata e rigorosa, come alla benevolente moderazione che si riunisce
nel primo livello. Gli dèi canonici dell'ultimo livello, i Ndsatya o
Asvin, non esprimono che una parte del dominio complesso tipico della
terz.a funzione. Sono soprattutto datori di salute, giovinezza e
fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli infermi, degli amanti, dei
figli senza fidanzata o del bestiame sterile. Ma la terza funzione è
molto più di tutto questo, non solo salute e giovinezza ma nutrimento,
abbondanza in uomini e in beni, cioè massa sociale e ricchezza economica,
attaccamento al suolo, a questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che
si esprime in sanscrito con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono
spesso rinforzati al loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono
altri aspetti della terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la
maternità ( Pùsan, Puramdhi, Dravinodà, il «Signore dei Campi», SarusvatT
ed altre dee madri) o ancora, che presiedono al carattere plurale,
collettivo, tota¬ le («Tutti-gli-Dèi», paradossalmente concepiti come una
classe parti¬ colare di dei) espresso dal plurale virali, i clan che
Rgveda Vili, 35 oppone come etichetta della terza funzione ai singolari
neutri bràh- man e ksatrà, caratteristici delle due funzioni
supreme». Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia
artico¬ lata difficile da pensare come formata da un assemblaggio di
pezzi e frammenti: l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni
tipo divi¬ no nel suo orientamento proprio esige la presenza di tutti gli
altri e non si definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che
solo l’antitesi produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e
del suo carattere prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un
passo decisivo nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere
con¬ to di un tratto importante della teologia aveslica da tempo
osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni nella
riforma ZOROASTRIANA Sotto il nome di Zoroastro si è
avuta una profonda riforma che ha notevolmente alteralo il paganesimo
ancestrale, somma di una serie di riforme progressive nello stesso
senso. Tuttavia, considerando il ri¬ sultato storicamente attestato di
questo processo riformatoree il punto di partenza preistorico,
determinabile poiché era sicuramente vicino allo schema vedico e
pre-vedico oggi riconosciuto, certe linee direttri¬ ci del movimento
appaiono immediatamente. Nell’Ave.vra nongàthico, dove è mitigato
l’intransigente mono¬ teismo delle Gùthà e dove, sotto il gran dio Ahura
Mazda - senza dub¬ bio anche lui sublimazione dell’Asura supremo, quello
che l’India chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche di alto
rango che portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy
(MiGra, Indra, Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre
Indra (al pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in
rapporto differen¬ te, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya
- enunciati ancora sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in
cui i Nàsatya se¬ guono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di
una riforma che (operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e
destinata a im¬ porre uniformemente a tutta la società mazdaica la morale
elevata del primo livello purificalo) ha rigettato, anatemizzato,
demonizzato i pa¬ troni divini che tradizionalmente rappresentavano e
giustificavano al¬ tri comportamenti come lo scatenamento guerriero c
l’orgia, meno sanguinante ma certo non meno libera, dei culti della
fecondità. 7. Le Entità zoroastriane Quanto alla nuova
teologia monoteista allo stato puro, quella delle Gùthà, essa riposa, in
un’altra maniera, sullo stesso schema. Il tratto saliente è 1’esistenza
di un gruppo di Entità astratte associate al Gran Dio unico. Queste
Entità non hanno ancora un nome collettivo, ma sono quelle che si vedranno
in seguilo costantemente raggruppate in un ordine fisso, sotto il nome di
Amasa Spanta, gli Immortali Bene¬ fìci (o Efficaci). Si è discusso a
lungo per sapere se nelle Gùthà queste Entità siano già delle creature o
delle emanazioni separate da Dio - una sorta di arcangeli - o
semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo non cambia niente quanto al
problema delle loro origini che qui ci inte¬ ressa. La lingua e lo stile
delle Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità volontaria e raffinata, ma fortunatamente
per orientarsi si dispone di talune considerazioni che non dipendono
dalle incertezze di parola per parola. 1) Il senso e la struttura
grammaticale dei nomi che designano le Entità forniscono qualche
insegnamento. 2) Le strofe che contengo¬ no quasi tutti i nomi di una o
più Entità sono assai numerose per per¬ mettere delle osservazioni
statistiche - frequenza relativa di ogni Enti¬ tà, frequenza delle loro
associazioni diverse - che rivelano dei tratti molto importanti del
sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e lo stile di questi inni
lirici non costringono il poeta a presentare le Enti¬ tà in lista nel
loro ordine razionale, come faranno più tardi i testi rituali in prosa,
tuttavia la tavola delle frequenze di menzione delle Entità, prese
separatamente e in conseguenza delle importanze relative che i poeti le
attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine gerarchico che esse avranno
in seguito sotto il nome di Amaste Spanta: questa gerar¬ chia dunque
esisteva già. 3) Un altro elemento d’interpretazione è for¬ nito dalla
lista degli «elementi materiali» che la tradizione associerà, parola per
parola, alla lista delle Entità, gemellaggio a cui gli inni stes¬ si
fanno allusioni certe e precise. 4) Infine, nell’À vesta non gàthico, ad
ognuna delle Entità è opposto un arcidemone che in molti casi le chia¬
rifica. Il quadro è il seguente: Entità astratte Elementi materiali
arcidemoni opposti PATROCINATI 1) VohuManah bue
(Il Buon Pensiero) 2) Asa (l’Ordine) fuoco 3)
XsaGra (la Potenza) metallo 4) Àrmaiti (il Pensiero terra
Pio) 5) Haurvatà( acque (l’Integrità, la
Salute) 6) AmarstàJ (la piante Non-Morte,
l’Immortalità) 8. Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni,
trasposti nelle ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in
qualunque modo si interpretino le Entità, questo quadro suscita delle
domande: perché questi gli eletti e Il Cattivo Pensiero
Indra Saurva NàqaiOya La Sete
La Fame non altri che sarebbero più facilmente concepibili? Perché,
non dispo¬ nendo che di così poco posto, gli autori del sistema ne hanno
in qual¬ che modo sprecato una alla fine, raddoppiando la Salute
con rimmortalità, che quasi senza eccezioni è nominata insieme ad
essa? Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai tre arcidemoni
che sono antichi dèi funzionali condannati dalla riforma? Un
confronto delle Entità zoroastrianc con la lista vedica e mi¬ tannica
degli dèi funzionali, mostra dove bisogna cercare la soluzione
d’insieme. 1 ) Le ultime due, fra i cui nomi vi è assonanza e che
sono presso a poco inseparabili, ricordano per le nozioni così simili che
esprimo¬ no, per gli elementi materiali associali c per il loro posto
gerarchico, i gemelli Nàsatya, indissociabili, donatori di salute e di
vita, ringiovani- tori dei vecchi, tecnici delle virtù medicali contenute
nelle acque c nel¬ le piante. 2) Prima di queste, la terza
Entità è la Terra in quanto madre, nu¬ trice e modello della padrona di
casa iranica: ricorda così la dea varia¬ bile (Sarasvatl, notoriamente)
che si vede talvolta unita ai Nàsatya nel¬ le enumerazioni vedichc che
segnalano la terza l’unzione. Così il dominio delle tre ultime Entità
zoroastrianc, designate tutte da sostan¬ tivi femminili, mentre quelle
superiori sono nominale da neutri (cf. in vcdico vis, femminile, contro
brahman c ksutriì, neutri), è quello della terza l’unzione. In più, nella
persona di Àrmaili, è a una Entità della ter¬ za funzione che il sistema
oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazio¬ ne (ridotta a un unico
personaggio) delle due divinità canoniche della stessa funzione, i
Nàsatya. 3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè la
stessa pa¬ rola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya
c che lin da Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda
l'unzione, come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta , }>
fornisce diffe¬ renzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il
«metallo» che gli è associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma
dei lesti espliciti lo precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc
a lui opposto, Saurva, porla il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra,
personaggio complesso che non può qui essere esaminato, ma che nella sua
qualità di arciere c di padre dei Marut è vicino a lui nella seconda
funzione. 4) Le due prime Entità, le più frequentemente pregate o
men¬ zionale, le più vicine a Dio c spesso associate, portano dei nomi
signi- 60 ficativi: ASa è la parola avestica
(cf. antico-persiano aria-) che corri¬ sponde al vedico ria, l’Ordine
cosmico, rituale, sociale, morale, patrocinato dagli dei sovrani ma
principalmente (e negli epiteti che gli sono propri) dall’inflessibile e
terribile Varuna. Vohu Manah, il «Buon Pensiero», in una serie di
passaggi gàthici e in tutta la letteratu¬ ra non gàlhica, è presentato,
al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del benevolo e amichevole
Mitra, vicino all’uomo e a «questo mon¬ do», in opposizione a Varuna che
è «l’altro mondo». Yasna XLIV contiene a questo proposito due
strofe rivelatrici, le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e
il nostro scenario più vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto
come fa Rgveda IV, 3,5 tra Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di
cui si parlerà nel capitolo seguente). L’elemento materiale associalo a
Vohu Manah c il bue: ora, fin dall’epoca indo-iranica, si c da tempo
riconosciuto (A. Christensen) che il bue era sotto la protezione
particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia dell’Entità ASa e
dell’arcidemone Indra ricor¬ da che molti inni del Rgveda inscenano delle
tenzoni tra i 1 sovrano Va¬ runa e il guerriero Indra, depositari di due
morali, la cui divergenza sfocia facilmente in un conflitto.
9. Intenzione di questa riforma zoroastriana Altri
particolari dello stesso genere arricchiscono e sfumano il confronto, ma
questi sono sufficienti per fondare la soluzione del pro¬ blema delle
origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente svilup¬ pato nel 1945
nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei Entità dello
zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla li¬ sta degli
dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esatta¬ mente, da
una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cin¬ que dèi
maschi nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella terza
funzione, vicino ai Nàsatya, una dea madre. Perché questa copia¬ tura?
Perché Zoroastro o i riformatori assunti sotto questo nome non hanno
semplicemente e puramente soppresso questi «falsi dèi»? Senza
dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano attaccati a quel¬ la struttura
trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano l’efficacia come mezzo
di analisi c come quadro di riflessione sulla vita; senza dubbio perché
gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro predicazione e
che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi attaccati a questa
forma di pensiero e bisognava dunque fornire un sostituto esatto di ciò
che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché così presentata la
lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici della riforma, come
si è visto, era distruggere la morale particolare dei gruppi di guerrieri
e allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e purificata dalle
funzioni sacerdotali. Elevando, ad esempio, al posto in cui
infieriva sino allora l’au¬ tonomo Indra, l’esemplare figura di una
«Potenza», XSaGra, devota alla santa religione, si portava ai sostenitori
dell’antico sistema un col¬ po più rude della semplice negazione del dio
pagano o della semplice soppressione di questa provincia della teologia.
In un certo senso si può dire che la riforma zoroaslriana, nel riguardo
delle Entità, sia con¬ sistita nella sostituzione di ogni divinità della
lista trifunzionale con una equivalente, che conservava il suo rango ma
che essenzialmente era privata della propria natura e animalo da un nuovo
spirito, dallo spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del Dio unico.
Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli stu¬
diosi al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi,
questa Entità che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili. Si
spiega così come lutti gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il
dio funzionale a partire dal quale ognuno è stato sublimalo, portino
uniformemente a pensare, circa il loro comportamento, al gruppo in¬ diano
dei due primi livelli, agli dèi sovrani, gli Àditya, fra i quali Mitra e
Varuna sono i principali. Questa analogia, che è un fatto
incontestabile e che B. Geiger e K. Barr hanno avuto ragione di mettere
in risalto ampiamente, non ha comunque risolto il problema delle origini
delle Entità: esse non sono gli equivalenti normali e antichi degli dèi
sovrani vedici, ma gli equi¬ valenti degli dèi vedici dei tre livelli,
dei tre livelli energicamente ri¬ portati al tipo unico di una «santità»
esigente: dèi sovrani certo, ma an¬ che, sotto i sovrani, un dio violento
e degli dèi vivificanti che li completano. 10. Gli dèi
indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni CRONOLOGICHE
Questa spiegazione degli Amasa Spanta, immediatamente am¬ messa da
molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli ampiamenti e alcuni li ritroveremo
al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui limitarmi e sottolineare la
principale conseguenza del punto di vista comparativo. Riportando ai
tempi indo-iranici la lista canonica mitannica e vedica degli dèi delle
tre funzioni con la loro gerarchia, ci è precluso ogni ten¬ tativo di
spiegare questa lista e questa gerarchia con avvenimenti sto¬ rici o
della preistoria recente dei tempi vedici. Indra non è, non può più
essere considerato come un «gran dio» che, ad esempio, le condizioni
sociali e morali di un’epoca di conqui¬ sta sarebbero «in procinto» di
sostituire a un più antico «gran dio» Va¬ runa che in seguito avrebbe
sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più vecchio dio
Mitra. Se così fosse, come comprendere che questa situazione,
effime¬ ra per natura, questi rapporti instabili di dèi in crescita e di
dèi che re¬ trocedono si siano fissati e cristallizzati allo stesso
stadio di evoluzio¬ ne, disegnando lo stesso quadro d’insieme (arrestando
per secoli allo stesso massimo il progresso di uno dei termini e allo
stesso minimo la soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani dei
Mitanni, negli inni e nei rituali propriamente vedici e ancora, nel
politeismo iranico che si lascia leggere in filigrana sotto la teologia
di Zoroastro? La «storia» non può essere stata in questo punto tre
volte identi¬ ca, aver avuto degli effetti intellettuali così simili in
queste tre società precocemente separate. La sola
interpretazione plausibile è che egli Indo-Iranici ancora indivisi,
qualunque fosse il loro punto di partenza, erano arrivati ai li¬ miti
delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui i rap¬ porti
di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li ritroviamo
negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppa¬ mento degli
dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di
avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una
sintesi in cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come la
«destra» presuppone e chiama la «sinistra», in breve, presuppone una
struttura di pensiero. Le testimonianze che talvolta si è pensato di
ritrovare, negli inni vedici, di un indietreggiamento di Varuna rispetto
a Indra, si spiegherebbero dunque altrimenti: gli inni in cui questi dèi
si sfidanoe in cui oppongono le loro vanterie, l’inno stesso in cui Indra
si glorifica di aver eliminato Varuna, non sono che messe in scena del¬
la tensione che esiste tra 1’«aspetto Varuna» della funzione sovrana e la
funzione di Indra, e devono esistere affinché la società ne risenta
pienamente i benefici. I miti collegati ai signori divini delle
funzioni devono, almeno in parte, illustrare con chiarezza la divergenza
delle funzioni e devono farlo senza i riguardi e i compromessi che la
pratica sociale impone: è chiaro, ad esempio, che se la sovranità magica
assoluta e la pura forza guerriera fossero portate agli estremi
sfocerebbero in dei conflitti e di fatto in certi momenti della vita
della società a causa di tali conflitti si producono usurpazioni,
anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia dei rapporti tra
Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande maggioranza dei casi
essi collaborano, ma in qualche testo dia¬ logato i poeti sono portati a
questo estremo, che i politici evitano sag¬ giamente e per meglio
definirli, per «vederli» e «farli vedere», li han¬ no opposti come
rivali. Stando così le cose, si tratta di un esercizio retorico
sicuramente antico, poiché come si è visto lo zoroastrismo ha scelto
Indra scomunicato, demonizzato, per farne l’avversario parti- col are di
Asa, cioè dell’Entità in cui, purificato, sopravvive *Varuna. 11.
Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni Questa osservazione
deve essere completata da un’altra inver¬ sa. La definizione funzionale
dei tre livelli divini è statisticamente ri¬ gorosa (la letteratura
vedica è assai abbondante perché la statistica vi possa trovare un
appiglio certo), precisa non solo nei testi dove tali funzioni sono
intenzionalmente classificate o perlomeno raggruppate, ma anchenella
maggior parte dei testi in cui un poeta considerao invo¬ ca gli dèi di un
solo livello senza pensare agli altri. Ma in ogni religio¬ ne le
effusioni della pietà, della speranza e della confidenza talvolta
debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è soprattutto vero
per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei tempi stori¬
camente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni), han¬
no così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere
sotto la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere con¬
cretamente questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi
degli altri. In più, nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è
sicuramente la diversità dei soccorsi che può ricevere e delle porte
mistiche a cui può bussare, ma è anche e soprattutto la solidarietà e la
collaborazione di tutti gli dèi che gli rispondono. Infine,
nelle opere stesse per le quali gli uomini chiamano gli dèi, capita che
la totalità o più parti deH’insiemc funzionale si trovino interpellati da
degli specialisti che gli sono estranei. L’esempio mag¬ giore è quello
della pioggia che gonfia le acque del suolo, che fornisce direttamente o
indirettamente il tipo di ricchezza pastorale e agricola, la salute
stessa, di cui si occupano gli dèi della terza funzione; ma essa c
ottenuta grazie alla battaglia celeste, strappata sotto forma di fiume o
di vacche celesti agli avari demoni della siccità, e questo è il compito,
il gran compito di Indra c dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei
Marut. Congiungere il cielo e la terra e assicurare la
sopravvivenza del mondo è anche l’interesse degli dèi sovrani c
l’operazione tecnica si svolge infine grazie allo specialista
Parjanya. Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a lare sempre
questa giusta c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c comune c
quindi la lode è unitaria c non ci si stupirà che il grande guerriero
Indra sia così spesso celebrato, nel risultalo come nella forma della sua
azione, in quanto donatore di fecondità e di ricchezza. Ma il
lettore preoccupalo di teologia non dovrà mai dimenticare il modo
violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti o per li¬ berare le
acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella cer¬ chia dei
Pfisan o dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così sicuramente
esistita tra gli Indo-Iranici prima della loro divisione, come
l’ideologia tripartita, l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più
antica ancora c deve es¬ sere riportata ai tempi indoeuropei: c allora
legittimo c necessario ri¬ cercare nella teologia degli altri popoli
indoeuropei antichi, c suffi¬ cientemente conosciuti, se delle équipes
analoghe sono attestate dagli usi rituali o da formulari. Questa
ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha immediatamente portalo a risultati
nei domini italici e germanici. Ma allo stesso tempo, in questi domini in
cui gli specialisti, nella loro autonomia, avevano da lungo tempo
costruito delle maestose c dotte spiegazioni di ogni cosa.la nuova
interpretazione ha dovuto rimettere i n questione molti pseu¬ do-fatti,
dimostrando la fragilità di molte pseudo-dimostrazioni, in modo tale che
spesso non è stata considerata la benvenuta. In sintesi, le
opposizioni sono soprattutto nate dal fatto che le «filologie separate»,
sia scandinava che latina, si erano abituate a pen¬ sare cronologicamente
- secondo una cronologia ipotetica e soggettiva - la preistoria, la
«formazione» dei quadri teologici complessi, presen¬ tati dai documenti
antichi, mentre questi quadri, guardati in base alla prospettiva
comparativa che a grandi linee viene qui ricordata, s’interpretano
immediatamente, per l’essenziale, come strutture con¬ cettuali che
esprimono la distinzione e la collaborazione delle tre fun¬ zioni
esplicitate dagli Indoeuropei. 13. Jupiter, Mars, Quirinus e
Juu-,Mart-, VOFION(O)- Le due società italiche di Iguvium e Roma -
l’una umbra e l’altra latina - sulle quali dei testi ben articolati ci
informano, presenta¬ no due varianti di una triade in cui i due primi
termini sono identici: Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a Iguvium; Jupiter, Mars,
Quirinus nella più antica Roma pre-capitolina. Questo parallelismo
incoraggia a non cer¬ care per la triade romana, com’è d’uso, una
spiegazione fondata sul caso, sugli apporti successivi o sui compromessi
di una storia locale: com’è possibile infatti che due serie di
avvenimenti indipendenti pos¬ sano suscitare due gerarchie divine e due
teologie così simili? 14. La triade precapitolina
L’esistenza della triade romana, che si è anche voluto contesta¬ re
ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal fatto che questi dèi sono
rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti da tre sacerdoti senza
omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo sacerdotum: Festo, p.
198, Lindsay) che sono, al di sotto del rex sacro rum, erede ridotto e
sa¬ cerdotale degli antichi re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7
amines maiores, cioè il dialis, il martialist il quirinalis. Questa
triade capito¬ lina, vero fossile nell’epoca storica, respinto
dall’attualità di una tria¬ de differente formata da Jupiter O.M, Juno
Regina e Minerva, è rima¬ sta legata a molti rituali e a rappresentazioni
evidentemente arcaiche. 66 Una volta all’anno,
in una cerimonia la cui fondazione era attri¬ buita a Numa (Tito Livio I,
21, 4), i treflciminesMciiores attraversava¬ no solennemente la città in
uno stesso carro e facevano congiuntamen¬ te un sacrificio alla dea
Fides. I sacerdoti Salii che conservavano tra i dodici ancilici
indiscernibili il talismano caduto dal cielo cui era stata attribuita la
fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et Quirini (Servio, ad
Aen., Vili, 663). Il tragico rituale della devotio, con il quale il
generale romano, per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi
sotterranei contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una
for¬ mula, da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di
certo trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio,
nominava innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater ,
Quirinus, poi Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un
trattato, secondo Po¬ libio (III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano
come testimoni prima Jupiter, poi Mars e infine Quirinus. Il
carattere comune di queste circostanze, in cui la triade preca¬ pitolina
è presentata come tale, è che il corpo sociale di Roma è inte¬ ressato
nel suo insieme e nella sua forma normale: mantenimento del¬ la fides
pubblica, senza cui la coesione sociale è impossibile; protezione
continua o urgente; impegno diplomatico. Il sacrificio a Fides è
particolarmente rivelatore poiché è la sola circostanza conosciuta in cui
i tre flamines maiores agiscono insieme; ma lo fanno in maniera ostentata
e l’unità del carro, l’unità dell’operazione sacra, provano che si tratta
di mettere sotto la garanzia di Fides l’unità delle tre «cose» che
Jupiter, Mars e Quirinus patroci¬ nano distributivamente; tre «cose» la
cui sintesi o aggiustamento sono essenziali per la vita di Roma. Quali
sono queste «cose»? 15. Valore di Jupiter e di Mars nella triade
precapitolina La risposta non necessita di grandi sforzi, sempre
che si preferi¬ sca il sentimento dichiarato dai Romani stessi contro le
ricostruzioni ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli epigoni di W.
Mannhardt o da archeologi poco coscienti dei limiti della loro arte;
sempre che non si dimentichi che questi dèi sono stati associati e
gerarchizzati a Iguvium e a Roma poiché rendevano dei servizi
differenziati e complementari; e infine, a condizione che si attribuisca
un valore particolare, trattandosi di divinità dei tre flamines maìores, a ciò
che insegna l’ufficio di questi sacerdoti. Se si osserva questa regola, e
queste precauzioni, si riconoscerà in primo luogo che Jupiter, e nello
stesso tempo il Dius (nel capitolo seguente si mostrerà il senso di
questa sfumatura), onora¬ to dagli atti del flamen dialis , e dal suo
comportamento pieno di innu¬ merevoli precetti positivi e negativi, è il
dio che dall’alto del cielo pre¬ siede all’ordine e all ’osservazione più
esigente del sacro, garante della vita, della continuità e della potenza
romana. Quanto a Marte, imperturbabilmente docile secondo
l’insegna¬ mento dei migliori testi epigrafici e letterari, si vedrà in
lui il dio com¬ battente di Roma, patrono della forza fisica, di quella
forza che può, al pari del vedico Indra, essere orientata in tre o
quattro circostanze (non di più) dal contadino romano, a profitto dei
suoi buoi che hanno biso¬ gno di essere forti, o dei suoi raccolti che
tanti geni maligni, visibili o invisibili, possono minacciare.
Questa forza è sempre rimasta la forza che dona la vittoria, sin
dai tempi favolosi delle origini e fino al declino dell’impero, nella
schiacciante maggioranza degli impieghi conosciuti. 16.
QuiRINUS Per Quirino, l’unico «invecchiato» fra i tre dèi in epoca
storica, gli eruditi antichi hanno generosamente costruito, su dei
pressapochi- smi etimologici allora correnti, delle teorie
contraddittorie che com¬ plicano il lavoro; ma fortunatamente disponiamo
degli uffici adem¬ piuti dal suo flamen e di molti altri fatti cultuali,
del suo nome e di qualche indicazione oggettiva degli antichi.
Queste diverse fonti informative forniscono un quadro com¬ plesso
ma coerente. I ) Siamo a conoscenza di tre circostanze in cui
officia il flamen quirinalis. Ai Robigalia del 25 aprile sacrifica un
cane in un campo nei pressi di Roma e allontana così (verso le armi da
guerra, aggiunge Ovidio) la ruggine che minaccia le spighe. Ai Consualia
del 21 agosto sacrifica sull’altare sotterraneo di Consus, dio del grano
messo in provvista ( condere ); il 23 dicembre sacrifica sulla «tomba» di
Laren- tia, la cortigiana che incarna in una celebre storia la voluttà,
la ricchez¬ za e la generosità e che ha meritato di ricevere un culto,
legando la sua fortuna a quella del popolo romano. La festa propria di
Quirino, i Quirinatici del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è)
l’ultimo atto dei Fornacalia, cioè delle feste curiali della torrefazione
del grano. Nelle altre due circostanze rituali in cui appare,
Quirino è asso¬ ciato alla dea Ops, cioè all’Abbondanza rurale personificata:
una iscri¬ zione ci insegna che il 23 agosto, ai Volcanalia, Quirino e
Ops figura¬ no tra le divinità onorate senza dubbio contro gli incendi
(C/L I 2 , p. 326). La leggenda che giustifica l’esistenzadei Salii di
Quirino, dimo¬ stra che il voto fondante questo collegio è stato fatto
per la stessa ra¬ gione del voto che istituiva la festa di Ops e di
Saturno. Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier
cultuale del dio, attestano che la sua attività è uniformemente e
unicamente in rap¬ porto con le sementi (tre feste, tra cui la sua), con
le divinità agricole Consus e Ops, con la ricchezza e il sottosuolo.
Nello stesso senso si spiega il fatto che nel 390, all 'avvicinarsi dei
Galli, quando bisognava seppellire gli oggetti sacri di Roma, questo compito
non spettasse al rex o al flamen dialis, primi sacerdoti dello stato,
come ci si sarebbe aspettato, ma al flamen quirinalis. 2) Il
nome di Quirino è sicuramente inseparabile da quello dei Quirites, cioè
dall’insieme dei Romani considerati nelle loro attività civili in
opposizione totale a ciò che essi sono in quanto milites (un aneddoto ben
noto di Cesare lo prova). P. Kretschmer aveva proposto di spiegare
Quirites con curia (volscio couehriu), come «gli uomini riuniti nei loro
quadri sociali», essendo QuTrinus (cf. dominus da domus) il patrono di
questa entità della «massa sociale organizzata» ( *co-uir-io/a -).
L’etimologia, in sé e prsé soddisfacente, è stata resa molto probabile da
V. Pisani ( 1939) e in¬ dipendentemente da E. Benveniste ( 1945), che hanno
dimostrato come il nome dell’omologo di Quirinus nella triade umbra di
«Jupiter, Mars, Vofionus» possa essere il compimento fonetico rigoroso di
un *Le- udh-yo-no «patrono della massa» (cf. il tedesco Leute, latino
liberi, «massa di uomini liberi, bambino di nascita libera» etc.), esatto
paralle¬ lo e sinonimo dal latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono,
al pari della coltivazione del suolo, aspetti considerati dalla terza
funzione. 3) Ma lo stile di questa pace è marcato dall’impronta romana
e contribuisce al sorprendente meccanismo che in qualche secolo ha
conquistato e romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e il mondo antico e
stabilisce il pesante beneficio della pax romana. Per i Romani non si
è mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le armi
erano deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche
mobilitabi¬ li, i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non
erano che l’ exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto
nei suoi quadri: una pace, infine, in cui si pensava molto alla
guerra. È questo regime, questo stato di spirito che Quirino
governa e che esprime eccellentemente un tratto del suo statuto: uno dei
flamines minores, il Portunalis - senza dubbio connesso al dio delle
porte ( por¬ tele ) delle città, prima di essere quello dei porti
(j)ortus ) - ha l’incarico di ungere le «.armidi Quirino» (Festo s
.v.persillum, p. 238, Lindsay), cioè di compiere il gesto di ogni
mobilitazione alle armi: le quali pos¬ sono anche non essere utilizzate,
al momento, ma verso le quali può sopraggiungere improvvisamente
l’esigenza di ricorrervi. Questa ambivalenza Quirites-milites dei
Romani, questa con¬ cezione militare della pax romana , spiegano
sufficientemente come Quirino possa essere stato considerato una varietà
di Marte e come i Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi, abbiano
scelto per tradur¬ re il suo nome quello di un vecchio dio guerriero,
differente da Ares, ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo
contesto su due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un
tempo «assurde», ma alle quali la nuova prospettiva «trifunzionale» ha
con¬ ferito pieno valore (ad Aen. I, 292; VI, 859): «...
Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum saevit) quando è pacifico
(cum tranquillus est), Quirino. A Roma possiede due templi: uno
all’interno della città, in qualità di Quirino, cioè di guardiano e di
dio tranquillo (quasi custodis et tranquilli),' l'altro sul¬ la via
Appia, fuori dalla città, vicino alle porte, in quanto dio guerrie¬ ro o
Gradivus (quasi bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte che
presiede alla pace (qui praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma
mentre il Marte della guerra (belli Mars) aveva il suo tempio fuori Roma
». 17. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti leggendari di
Roma Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli
di¬ scussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti,
basterà a dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade
precapitolina, l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni
termine. Cielo ed essenza stessa della religione come supporto di Roma;
forza fisica e guerra; agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace
vigilante: queste etichette definiscono tre ambiti complementari che
disegnano una struttura sicuramente anteriore a Roma e a Iguvium, dunque
italica, e quindi così vicina alla struttura indo-iranica da dirsi
risalente ai tempi indoeuropei. Non sarà inutile ricordare
qui i valori funzionali di cui appaiono rivestite, nei racconti sulle
origini di Roma, le tre componenti etniche, base leggendaria delle tre
tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi com¬ pagni sono i depositari del
potere sovrano e degli auspici; i suoi alleati etruschi, sotto il comando
di Lucumone, sono gli specialisti dell’arte militare; i suoi nemici, Tito
Tazio e i Sabini, sono provvisti di donne, ricchi in bestiame e in più
detestano la guerra e fanno di tutto per evi¬ tarla. Una variante
frequentemente attestata (l’abbiamo ricordata in I § 7) minimizza la
componente etrusca e concentra le due prime caratte¬ ristiche su Romolo e
i suoi compagni. Sotto questa forma la triade precapitolina si
divide molto ade¬ guatamente tra i due gruppi di avversari e futuri
associati: Romolo è costantemente il protetto di Jupiter (gli auspici
iniziali; Jupiter Fere- trius e Jupiter Stator in battaglia) ma è figlio
di Mars e trova riuniti in sé i favori dei due primi dèi della triade;
Quirino (in questo insieme leggendario soltanto) è considerato come un
dio sabino, il «Marte sa¬ bino» portato in dote da Tito Tazio a Roma
nella riconciliazione fina¬ le, allo stesso modo del nome collettivo dei
«Quirites» (ma questa pse- udo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché
conf orme al carattere dei Sabini della leggenda, portatori della terza
funzione, si spiega col gio¬ co di parole, popolare tra gli eruditi di
Roma, «Quirites-Cures»), Si sa che un’altra forma della leggenda,
incompatibile con que¬ sta, fa di Quirino il nome postumo di Romolo,
riunendo così sul solo fondatore i tre termini della triade divina in
base agli auspici, alla filia¬ zione e all’apoteosi. 18.
Varianti della triade Jupiter, Mars, Quirinus Della leggenda delle
origini, Varrone (De ling. lat., V, 74) e Dionigi di Alicarnasso (II, 50)
ci hanno conservato un aspetto importante: all’epoca della riconciliazione di
Romolo con Tito Tazio e dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella
comunità, ormai completa e in via di sviluppo, ognuno dei due re
istituisce dei culti e mentre Ro¬ molo fonda solo il culto di Jupiter,
Tito Tazio instaura Quirinus e un gran numero di dèi e dee che hanno
rapporto con la vita rurale, la fe¬ condità e il mondo sotterraneo.
Questa tradizione è molto interessante perché sottolinea ciò che è
stato già segnalato a proposito dell’India (II, § 5); la molteplicità de¬
gli aspetti, l’inevitabile frazionamento di questa «terza funzione» che
Tito Tazio incarna, ma soprattutto perché tra gli «dèi di Tito Tazio»
(che non sono certamente sabini ma romani, a dispetto della colorazio¬ ne
etnica della leggenda) molti f igurano in terza posizione, nelle triadi
che non sono altro che varianti della triade canonica «Jupiter, Mars,
Quirinus», come Ops (abbiamo già segnalato i suoi rapporti con Quiri¬ no)
o Flora. 1 tre gruppi di culto della Regia, della «casa del re»,
che corri¬ spondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano
giustap¬ poste nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi
sacri del più alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la
moglie del flamen dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del
sacrarium Marti.?, 3) cul¬ ti del sacrarium Opis Consivae, la dea
dell’abbondanza. Questa collocazione dei tre livelli funzionali
manifestava sensi¬ bilmente che la stessa forma di religione che si
analizzava e che si dis¬ sociava nelle persone dei tre grandi flamines,
creava al contrario una sua sintesi quando passava nelle mani del rex,
quando era il rex che l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma,
nel nome di Ro¬ ma, come gestore delle forze sacre. Quanto
alla triade «Jupiter, Mars, Flora» (rimpiazzata più tardi da Venere)
sembra essere stata lei a patrocinare i tre carri delle corse primitive
(in relazione con le tre tribù funzionali e i tre colori bianco, rosso,
verde; vedi sopra I, § 21 ). Flora meritava due e tre volte questo posto,
per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di lei un
doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a Roma stessa,
senza dubbio più alla massa romana che all’entità politi¬ ca patrocinata
da Quirino. Un’altra variante della triade - «Jupiter, Mars,
Romulus, Re- mus» - presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla
fondazione di Roma: gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica
in¬ do-iranica affidava a due dèi gemelli la rappresentazione e la
protezione del terzo livello. 19. Gli dèi delle tre funzioni in
Scandinavia Nel paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello
stes¬ so tipo, quel la formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente,
come ul¬ timo termine, Njòrdr e Freyr). Anche questa triade, al pari di
quella precapitolina romana, è stata spiegata - in modo molto variabile -
se¬ condo schemi di evoluzione, come il risultato di compromessi e
sin¬ cretismi tra culti successivamente comparsi. Lacritica a
questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che cre¬ dono di basarsi
logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrap¬ pongono arlifi
cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora esse¬ re fatta
poiché l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri. Nel piano
ridotto del presente libro dovremo semplicemente prescin¬ derne ma dichi
arare che da H. Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946, 1953), da E. Wessén
( 1924) a E. A. Philippson (1953), i numerosi ten¬ tativi fatti per
dimostrare che la promozione di *Wof3anaz è cosa re¬ cente (sostituito a
*Tiuz) o che in Scandinavia il più antico «gran dio» è Pórr (sempre che
non sia Freyr), non potevano riuscire a dispetto dell’intelligenza,
dell’erudizione e del talento dei loro autori. Ci limiteremo dunque
ai fatti e quindi all’esistenza stessa della triade in quanto tale. E
questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo di Brema ha vi sto regnare
nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la de¬ scrizione del meccanismo
trifunzionale (Gesta Hammaburgensis eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei
che appare dalle formule di maledi¬ zione come dai poemi eddici o dagli
scaldi (Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga, 56); è lei che si
sprigiona dal racconto della batta¬ glia escatologica ( Vòluspà , 53-56)
in cui ognuno dei tre dèi lotta con¬ tro uno dei maggiori avversari che
soccombe sotto i suoi colpi; è lei che si spartisce i gioielli divini
(Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che rappresenta l’intera mitologia in
cui le altre divinità - salvo la dea Freyja, strettamente associata a
Freyr e Njòrdr e che li completa - sono come comparse che circondano
questi «primi ruoli» e che si definisco¬ no in rapporto ad essi. Ci
si ricorderà che nella leggenda delle sue origini Roma si è ri¬ dotta
spesso a due componenti, benché comprendesse tre tribù che
rappresentavano tre funzioni: il rex-augur Romolo c i suoi compagni,
detentori di cleos et virtutem, la potenza del sacro e i talenti guerrieri,
il dominio di Jupiter e Mars, mentre Tito Tazio e i suoi Sabini
erano quelli che apportavano delle specialità loro connesse, cioè le
donne e le ricchezze, opes. Il quadro scandinavo della
formazione della società divina completa è dello stesso tipo: i
componenti riuniti per una riconcilia¬ zione ed una fusione conseguente a
una guerra terribile, sono due, gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il
capo, mentre Pórr è il più eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece
Njòrdr, FreyreFreyjaipiù eminenti e i soli nominati
individualmente. La distinzione funzionale degli Asi c dei Vani è
chiara e costan¬ te. I Vani, specialmente i due dèi e la dea che ne incarnano
al massimo la tipologia, anche se capita loro di essere o di fare altre
cose, sono in¬ nanzitutto dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di
ricchezze e patroni del piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa,
della fecon¬ dità e della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati
spazialmente ed economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr,
Freyr) o al mare in quanto luogo della navigazione e della pesca
(Njòrdr). A questi tratti dominanti si oppongono quelli dei
principali Asi. Né Ódinn né Pórr certamente si disinteressano delle
ricchezze del su¬ olo, ecc., ma da quando la mitologia scandinava ci è
conosciuta i loro centri sono altrove: l’uno è un mago potente, signore
delle rune, capo della società divina; l’altro è il dio col martello,
nemico dei giganti ai quali peraltro assomiglia (si pensi al suo
«furore»); è il dio tuonante (nel suo stesso nome) che accudisce il
contadino e gli dona la pioggia e anche nel folklore moderno è come un
solloprodollo della sua bellico¬ sità in maniera atmosferica e violenta,
non terrena c progressiva. Il senso da attribuire a questa
distinzione tra Asi e Vani è il pro¬ blema centrale che domina tutte le
interpretazioni delle religioni scan¬ dinave c di quelle germaniche,
anche laddove le spiegazioni cronolo¬ giche c storiche (di storia
immaginaria) affrontano con vivacità le spiegazioni strutturali e
concettuali. I fatti riuniti dall’inizio di questo libro apportano un
grande so¬ stegno agli strutturalisti: il parallelismo delle teologie
indo-iraniche e italiche ci fa precisamente attendere, presso i popoli
imparentati, una teologiaed unamitologiadel tipo presentato dagli
Scandinavi, che op¬ pone per meglio definirli e che ricompone per creare
un insieme vitale: 1 ) delle figure divine che patrocinano ciò che è
sotto il magistero degli Asi, Ódinn e Pórr, l’alta magia e la sovranità
da una parte, e la forza brutale dall’altra; 2) delle figure divine del
tutto differenti che patroci¬ nano ciò che è sotto il magistero dei tre
grandi Vani, la fecondità, la ricchezza, il piacere, la pace, etc.
etc. 21. La guerra degli Asi e dei Vani e la guerra dei
Protoromani e dei Sabine formazione di una società TRIFUNZIONALE
COMPLETA La frattura iniziale, che separa i rappresentanti delle due
prime funzioni e quelli della terza, è un dato indoeuropeo comune: lo
stesso sviluppo mitico (separazione iniziale, guerra e poi indissolubile
unio¬ ne nella struttura tripartita gerarchizzata) si ritrova non solo a
Roma, sul piano umanoenei racconto delle origini dell’Urbe(guerrasabinae
sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi canonici del terzo li¬
vello, gli Asvin, non erano inizialmente degli dèi, ma entrarono nella
società divina come terzo termine al di sotto delle «due forze» (ubhe
virye) solamente in seguito a un conflitto violento conclusosi con una
riconciliazione e un’alleanza. Come si potrà prevedere, i dettagli
di queste leggende sono stati scelti e raggruppati in modo tale da
mettere in rilievo le «funzioni» ri¬ spettive delle diverse componenti
della società e i procedimenti speci¬ fici che queste «funzioni»
attribuiscono ai loro rappresentanti. L’ana¬ lisi comparata della
leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani e Sabini e della
leggenda scandinava sulla «prima guerra nel mondo» degli Asi e dei Vani
(a cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe 21-24 della
Vòluspà), ha rivelato un interessante parallelismo e conferito un senso
sia all’una che all’altra. Ambedue sono formate da un dittico, da
due scene in cui ciascu¬ no dei due campi nemici ha il vantaggio
(vantaggio limitato e provvi¬ sorio poiché è necessario che il conflitto
finisca senza vittoria e con un patto liberamente consentito) ed è
debitore di questo vantaggio alla sua specificità funzionale. Da una parte
i ricchi e voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società (le
donne!) degli Asi, inviando loro la donna chiamata «Ebbrezza dell’Oro»;
dall’altra parte Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto
l’irresistibile effetto magico e di panico. Allo stesso modo
i ricchi Sabini, da una parte, ottengono quasi la vittoria occupando la
posizione-chiave dell’avversario, non col combattimento, ma acquistando
con l’oro Tarpeia (in una variante, grazie all’amore cieco di Tarpeia per
il capo sabino); dall’altra parte Romolo, grazie a un’invocazione a
Jupiter (Stator) ottiene dal dio che l’armata nemica vittoriosa venga
improvvisamente, e senza motivo, invasa dal panico. 22.
Sviluppo della funzione guerriera presso gli antichi Germani
Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi conseguenze che ha
determinato ben presto, e non solamente presso gli Scandinavi ma fra
tutti i Germani, una deformazione della struttura delle tre fun¬ zioni e
della teologia corrispondente. Da nessuna parte, certamente né a
Roma né in India, gli dèi del primo livello, Varuna e Jupiter, si
disinteressavano della guerra: se è vero che non combattono propriamente
come Indra o Marte è anche vero che mettono le loro magie al servizio
della parte che favoriscono e sono loro, in definitiva, che attribuiscono
la vittoria, la quale, se è in effetti conquistata con la Forza,
interessa soprattutto l’Ordine per le sue conseguenze. Non ci
si sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire nelle battaglie, senza
combattere molto, ma gettando sull’armata che ha condannato un panico
paralizzante, il «legame dell’esercito» herfjò- \)urr (cf. i lacci di cui
è armato Varuna). Ma è certo che la parte della «guerra» nella sua
definizione è di gran lunga piu considerevole che nella definizione dei
suoi omologhi vedici o romani: in lui - e anche nell’omologo germanico di
Mitra che esamineremo nel prossimo ca¬ pitolo e che è interpretato da
Tacito come Marte - si constata più di una osmosi, un vero e proprio
ribaltamento e straripamento della guerra nell’ideologia del primo
livello. All’epoca in cui si sono formate le loro epopee, gli «eroi
odinici» - Sigurdr, Helgi e Haraldr Den- te-da-Combattimento - sono prima
di tutto dei guerrieri; e nell’aldilà sono i guerrieri morti, in un’eternità
di giochi e di gioie guerriere, che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll.
In compenso, almeno in certi luo¬ ghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il
combattente solitario, ad averperso il contatto con la guerra (almeno
quella combattuta dagli uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei
suoi duelli atmosferici contro i giganti e i flagelli, la pioggia
benefica per le messi, che ha giustificato e popo¬ lari zzato il suo
culto e che talvolta ha spodestato Freyr dal la parte agri¬ cola della
sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra essere sta¬ ta spinta
all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i quali così Adamo
da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di Uppsala.
«Thor presici et in aere, qui tonitrus et fulmina, ventos ymbre-
sque, serena et fruges gubernat. Alter Woclan, id est furor, bella gerit
hominique ministrai virtutem contro inimicos. Tercius est Fritto (cioè
Freyr), pacem voluptatemque largiens mortalibus... Sipestis etfames
imminet, Thorydolo lybatur, sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae
sunt, Fricconi». Anche se si ammette che la teologia di ognuno di
questi tre dèi di Uppsala fosse più ricca, e più variegata di quanto non
appaia nelle brevi osservazioni di Adamo da Brema (che ha preso Pórr come
dio principale poiché figura nel mezzo, al secondo posto, ed è armalo di
un martello che ha scambiato per uno scettro e perché, tuonante, lo ha
as- similato a Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua
testimonianza: lo scivolamento della guerra nel dominio di «Wodan» e lo
scivolamento inverso di «Thor» al servizio dei contadini sono dei fatti.
Ma se ne comprende l’origine (come su altri punti relativi alla
Scandinavia) e dove lo stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi
restano essen¬ zialmente vicini a quelli dei loro omologhi indiani e
romani. Stato del problema presso i Celti, i Greci e gli Slavi
Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di diverse ra¬
gioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi reli¬
giosi non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strut¬
ture teologiche corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari
quindi dei ragionamenti e di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo
stato di cose è particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in
cui l’informazione è tuttavia molto abbondante: bisogna
rassegnarsi. In Grecia, dove la religione non è essenzialmente
indoeuropea, il raggruppamento delle dee nella leggenda del pastore
Paride resta ad esempio un gioco letterario e non forma evidentemente
un’autentica combinazione religiosa. In Gallia, dove la
classificazione degli dèi riportata da Cesare (e confermata dai testi
irlandesi sui Tuatha Dé Danann) ricorda per molti versi la struttura
delle tre funzioni, quest’analogia con la filiazione, e i ritocchi che
suggerisce, suscitano più problemi invece che risolverli. Quanto al
paganesimo degli Slavi, questi sono così poco conosciuti perché i
tentativi di spiegazione tripartitapossano essere altra cosa che
brillanti ipotesi. Ma la concordanza delle testimonianze sui tre
domini, in¬ do-iranico, italico e germanico, in cui le antiche religioni
sono state de¬ scritte in maniera sistematica dai loro stessi
rappresentanti, è sufficiente a garantire che sin dai tempi indoeuropei
l’ideologia tripartita aveva dato luogo a una teologia della stessa
forma; a un gruppo di divinità ge- rarchizzate che esprimevano i tre
livelli; e ad una «mitologia eziologi¬ ca» che giustificava la differenza
e la collaborazione di queste divinità. 24. Divinità che
sintetizzano le tre funzioni Ci limiteremo a segnalare nella
teologia un altro utilizzo fre¬ quente della struttura tripartita, non
analitico ma sintetico. Vi sono in¬ fatti divinità che sia i saggi che i
fedeli tengono a definire, in opposi¬ zione agli dèi specialisti delle
tre funzioni, come onnivalenti, domiciliate ed efficienti sui tre
livelli. Questo tipo di espressione si è prodotta indipendentemente in
diversi luoghi, per esempio nelle civil¬ tà mediterranee, quando una
divinità patrona o eponima di una città ha assunto un’importanza a
svantaggio di altri dèi o di équipes divine: così, presso gli Ioni di
Atene, dove sembra che una teologia tripartita (Zeus, Athena, Poseidone,
Efesto) concernesse innanzitutto le quattro tribù funzionali (sacerdoti,
guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena che in epoca storica domina
la religione. Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian,
durante le pic¬ cole Panatenee, ella riceveva successivamente degli
omaggi divini in quanto Hygieiu, Polias e Niké, vocaboli che evocano le
funzioni di sa¬ lute, sovranità politica e vittoria. Allo stesso modo,
nello zoroastrismo si è prodotta la tripla titolatura Buone, Forti, Sunte
dei geni tutelari, le FravaSi, che sono in effetti trivalenti.
25. Dee trivalenti Tuttavia, tra queste figure sembra che
bisogni far risalire alla comunità indoeuropea un tipo di dea la cui
trivalenza è così messa in evidenza e che è intenzionalmente congiunta
agli dèi funzionali: que¬ sta dea, che per il suo stesso sesso e per il
suo punto d’inserimento nel¬ le liste è connessa alla terza funzione, è
tuttavia attiva in tutti e tre i li¬ velli e sembra che la sua presenza
nelle liste esprima il teologhema di una multi valenza femminile che
raddoppia la molteplicità degli spe¬ cialisti mascolini.
Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste trifunzio¬
nali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli epi¬
teti di SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono
chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno
dall’altro, sia io (1947) che H. Lommel (1953) abbiamo proposto di
interpretare come un’omologa di SarasvatT e come l’erede della stessa dea
indo-iranica, la più importante delle dee del \'Avestu non-gàthico,
anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e triplice di
Anàhità, fa evidentemente riferimento alle tre funzioni: «l’umida, la
forte, l’immacolata», AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublima¬
zione dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo puro ab¬
bia creato la sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente al
terzo livello (dopo XsaSra, «Potenza» e prima di Haurvatà(-Amar,?là(,
«Salute» e «Immortalità») e benché non in possesso di una tripla tito¬
latura, porta un nome che significa «Pensiero-Pio», aiuta Dio nella sua
lolla contro il Male ed ha come elemento materiale la terra nutrice dif¬
ferenzialmente associata. Nel Lazio, a Lanuvium, Giunone era
onorata sotto il triplice epiteto di Seispes Mater Regina, i due ultimi
epiteti riportano alla teo¬ logia della Giunone romana (Lucina, etc.;
Regina) patrona della fe¬ condità regolata c dea sovrana; ma a Roma la
specificazione guerriera manca, mentre era in evidenza nella figura di
Giunone lanuvia e certa¬ mente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro
Seispet- (rom. sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati,
eie.). Infine, nel mondo germanico, considerando i Germani conti¬
nentali, sembra che una dea unica e polivalente (se non onnivalente),
*Friyyò fosse congiunta ai multipli dèi funzionali di cui abbiamo par¬
lato più sopra; se la specificazione guerriera non è attestata, il poco
che si sa di essa la mostra sovrana (Frea, nelle leggende che spiegano
il nome dei Lombardi) e «Venus» ( *Friyya-dcigaz , «Freitag»),
Presso gli Scandinavi questa multi valenza è esplosa: la dea si è
raddoppiata in Frigg (esito regolare di *Friyyó in nordico), sposa
sovrana del signore magico Ódinn, e in Freyja (nome rifatto su Freyr),
dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa. In Irlanda
un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea epo¬ nima del luogo più
importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani del 1 ’ Ulster
con 1 a piana che la circonda, dovette avere pri miti- vamente questo
carattere sintetico, analizzato in base alle tre funzioni, poiché è
sfociata in tre personaggi, in un «trio di Macha» ordinato nei tempi. Una
Veggente, sposa di un uomo dei primi tempi chiamato Ne- med, «il Sacro»,
che muore per un’emozione profonda in seguito a una visione; poi una
Guerriera-Campionessa che fa del proprio marito il suo generalissimo e
che muore uccisa; infine una Madre che accresce meravigliosamente la
fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e che muore durante
l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possi¬ bile determinare
quali rapporti avesse nella religione con gli dèi ma¬ schi della stessa
funzione. 26. Le teologie tripartite e i loro elementi
Dopo aver preso una visione globale dei sistemi teologici in¬
do-iranici, italici e germanici che esprimono l’ideologia delle tre fun¬
zioni, abbiamo riconosciuto che sono abbastanza paralleli per giustifi¬
carne la spiegazione nei termini di un’eredità indoeuropea comune. Non è
che l’inizio: senza perdere di vista la struttura d’insieme,
l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su ognuno dei tre
termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa in se stessa,
poi quella del la forza e della fecondità e infine, tram ite la
comparazio¬ ne tra i dati indiani, iranici, latini etc., cercare di
determinare come gli Indoeuropei concepivano, suddividevano e
utilizzavano ciascuna di esse. 80 Note ai
paragrafi § 1. Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di
non perdere mai di vi¬ sta e di riconoscere le strutture teologiche di
cui studia i frammenti, vedi prin¬ cipalmente L’heritage..., cap. I
(«Matièrc, objet et moyens de étude») - al quale rimando una volta per
tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II («Structure et
cronologie»), § 2-3. Il riconoscimento del raggruppamento arcaico
«Milra-Varuna Indra e i Nàsatya», l’inventario delle circostanze in cui
appaiono, sono state fatte progressivamente in: JMQ, pp. 59-60 (= JMQ it,
pp. 38-39); NA pp. 41-52; Tarpeia, 1947, pp. 45-56 (dove sono studiati in
dettaglio sei inni del Riveda fondali su questa struttura);
«Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com- me palrons des trois fonclions
cosmiqucs et sociales», Studia Linguistica, II, 1948 pp. 121-129; JMQ IV,
pp. 13 - 35 ( «Les dieux palrons des trois f onctions dans le Rg Veda et
dans le AlharvaVeda»); in queste due ultime esposizioni la divisione
degli dèi in tre gruppi «Aditya, Rudra, Vasu», è interpretata nello stesso
senso (cf. DIE pp.7-9). § 4. La discussione delle spiegazioni
anteriori e l’interpretazione nuova formano il primo capitolo di NA, pp.
15-55 («les dieux Arya de Mitani»), Il carattere indiano degli Arya di
Mitani è reso probabile dalla forma del nume¬ ro «uno» (aika: sanscrito
eka, contro l’iranico comune *aiva ); P.E. DUMONT ha interpretato senza
difficoltà tutti nomi d’uomini conosciuti grazie al vcdi- co (JAOS, 67,
1947, pp: 251-253). In seguilo G. Widengren ha sottolineato in questi
nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di Varuna (nel
trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo parlare
di iranico: Numen, II, 1955, pp. 80-81 e note 167, 170. § 5.
DIE.pp. 11-14. Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c stata
interpretata come rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo Indra
(o Vàyu) e in basso i gemelli Nàsatya in una scena di medicazione mira¬
colosa conosciuta dal Rg Veda : «Dieux cassiles et dieux vediques, à
propos d’un bronze du Lourislan» RHA, 52, 1950, pp. 18-37. Riprenderò
prossima¬ mente il problema a partire da una migliore fotografia (la
scena c le insegne di «Mitra e Varuna» devono essere spiegate altrimenti:
non vi sono degli altari ma un vaso raffigurante una lesta di leone) e
con degli altri documenti sui «gemelli» § 6-9. La spiegazione
degli Amai a Spanta costituisce la materia di NA, cap. II-V; la quarta
Entità, Àrmaiti, che sembrava creare allora difficoltà, è stala spiegata
in seguito in Tarpeia , cap. I (=JMQ il.pp. 305-313). Questa in¬
terpretazione è stata accettala e sviluppata da J. De MENASCE, «Une
legende indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à propos
de Hàrut-Màrut», Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947, pp. 10-18; J.
DUCHE- SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 1948 pp. 47-80; Onnazd et Ah rimati,
1953, p. 23; The Western Response to Zoroaster, 1958 pp. 38-51 (vedi
specialmente pp. 45-46 contro I. Gcrshevilch e W. Lcntz); S. WlKANDER
(vedi sotto, nota 81 al III cap. § 13); J.C.
TAVADIA «From Aryan Mythology to Zoroastrian The- ology,
aReviewofDumézil’sResearches», ZDMG, 103, 1953, pp. 344-353; K. Barr,
Avesta, 1954, pp. 52-59 e 197; G. WlDENGREN , «Stand und Aufga- ben
deriranischenReligionsgeschichte», Numen, I, 1954, pp. 22-26; S. Har-
TMAN in molti articoli specialmente «Ladisposition de l’Avesta»,
Orientatili Suecana, V, 1956, pp. 30-78; e inoltre da altri importanti
iranisti. È stata inve¬ ce rigettata senza discussione da I. Gerschevitch
e W. Lentz e non è menzio¬ nala nei libri di W.B. Henning e R.C.
Zaehner. § 10. Questo tipo di spiegazione è stata estesa alle
Entità già gathiche come SraoSa e ASi (considerale come sublimazioni
degli dèi prezoroastriani equivalenti agli dèi vedici Aryaman e Bhaga):
vedi qui sotto, III, § 8; poi al non gathico Rasnu e alla Fravasi
(considerate come figure purificate corri¬ spondenti a Visnu e ai
Maj'ut): «Visnu et les Marut à travers la réforme zoroa- striennc», JA,
CCXLII, 1953, pp. 1-25; infine a Busyastà (considerata come una demonizzazione
della dea Aurora): Déesses latines et mythes vécliques, 1956, pp.
34-37. § 11. DIE, pp. 22-23. § 12. Gli attacchi più
vivi sono venuti dai latinisti della scuola primitivi- sta; vedi a
proposito di H.J. ROSE, RHR, CXXXIII, 1948, pp. 241-243 e Dé¬ esses
latines..., 1956, pp. 118-123. I germanisti ostili hanno in generale
preferito “ignorare”; tuttavia ho recentemente avuto una gradevole
discus¬ sione - la prima - con K. HELM, BGDSL, 77, 1955, pp. 347- 365;
78, 1956, pp. 173- 180. Un grande numero di «risposte alle obiezioni» si
trovano dis¬ seminate nelle prefazioni, note e appendici dei miei libri.
Le ultime in ordine di tempo che hanno un valore generale sono; «Examen
de criliques réccnles; John Brough, Angelo Brelich», RHR, CLII, 1957, pp.
8-30. § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano
solitamente Vo- fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi.
Perla triade umbra vedi «Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium»,
RP, XXVIII, 1954, pp. 225-234 e «Notes sur le début du riluel d’Iguvium»,
RHR, CXLVII, 1955, pp. 265-267. La triade romana è comparsa proprio a
fornire il titolo comune degli studi sulle tecnologie trifunzionali
indoeuropee, pubblicati dal 1941 al 1948. § 14. L’interpretazione
è stata presentata per la prima volta in un articolo che conteneva in
potenza tutto il lavoro ulteriore: «La préhisloirc des flami- nes
majeurs», RHR, CXVIII, 1938, pp. 188-200. Sono comparsi in seguito JMQ,
cap. II c III, poi lutto NR; riassunto in L'hèritage... pp. 72-101.
§ 15. Contro il «Marte agrario» vedi NR, pp. 38-71 (=JMQ it., pp.
191-217) e Rituels... pp. 78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR., pp. 71-76
(= JMQ it. pp. 218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima,
di tut¬ ti i prima) un «predecessore» né un doppio di Jupiter (dio dei
summit): DIE, pp. 91-102 e«Jupiler-Mars-Quirinus et Janus», RHR,
CXXXVIII, 1951, pp. 209-210; sugli «dèi dei prima» indo-iranici, Tarpeia,
pp. 66-96. 82 § 16. La spiegazione del
complesso Quirino è stata formata in tre tempi: 1) JMQ, pp. 72-77, 84-94,
143-148, 182-187 (=JMQ it„ pp. 49-53, 58-66, 101-104); 2°), NR, pp.
194-221 (=JMQ it., pp. 264-285) e Tarpeia, pp. 176-179; 3°) JMQ, pp.
155-170 (specialmente pp. 167, 169 e n. 2, 170). Vedi anche L. GERSCHEL,
«Saliens de Mars et Saliens de Quirinus», RHR, CXXXVIII, 1950, p.
145-151. Ho sostenuto numerose discussioni, special- mente: «La triade
Jupiter-Mars-Janus?», RHR, CXXXII, 1946, pp. 115-123 (con V. Basanoff);
REL, XXXI 1953, pp. 189-190 (con C. Koch);«A propos de Quirinus», REL,
XXXIII, 1955, pp. 105-108 (con J. Paoli); «Remarques sur les armes des
dieux de troisième fonction», SMSR, XXVIII, 1957, pp. 1-10 (con A.
Brelich). Generalmente ogni nuovo avversario non tiene alcun conto delle
risposte fatte ai precedenti; è ancora il caso di J. BAYET, Histoire
psychotogique et historique de la religìon roinaine, 1958, p. 118 (che
tratta anche della triade romana JMQ senza considerare la triade umbra di
Jupiter Mars Vofionus). Per l’assimilazione di Romolo a Quirino, le
considerazioni nuove riportate qui sotto incoraggiano a dargli un senso
più profondo e una data più antica di quanto non si facesse generalmente
(vedi «La bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication de l’histoire
romaine» Annales, Eco¬ nomie, Sociétés, Civilisations.VU, 1952, pp.
145-154). Sulle etimologie pro¬ poste per Vofionus, vedi RP, XXVIII,
1954, p. 225, n. 4 e p. 226, n. 1; la spiegazione con *leudhyono- sitrova
in Pisani «Mytho-etymologica», Rev. desEtudes Indo-Européennes
(Bucarest), I; 1938, p. 230-233 e in BENVENI- STE, «Symbolisme social
dans les cultes gréco-italiques», RHR, CXXIX, 1945, pp. 7-9.
§ 17. Una questione connessa è quella della realtà o della non realtà di
una componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto
al no¬ stro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti
storici, e in più, una risposta affermativa non genererebbe affatto
l’interpretazione funzionale delle leggende sulle origini, di cui
bisognerebbe solamente ammettere (la qual cosa è ordinaria) che
presentano l’avvenimento «ripensato» in un qua¬ dro ideologico ed epico
preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che que¬ sta
interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la
tesi dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra
diverse difficol¬ tà. In L’heritage .... pp. 179-181, si troverà
riassunta la lunga discussione del capitolo III di NR («Latins et Sabins,
histoire et myhte» non tradotta in JMQ it.: vedi p. 263), condotta
principalmente in funzione della tesi di A. PlGA- NIOL, Essai
surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da
quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho letto molte
affer¬ mazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina
lontana dalla fon¬ dazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto
archeologico che non fosse già stato prima esaminato e che facesse
pendere decisamente la bilan¬ cia; cf. JMQ IV, p. 182 (sugli argomenti
che si sono voluti demandare alla strana disciplina della «geopolitica»)
e RE XXXIII, 1955, pp. 105-107 (su un curioso argomento che J. Paoli ha
creduto di poter ricavare dalla triade um¬ bra). Quanto a me, continuo a
trovare soddisfacente nel suo principio la spie- 83
gazione data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da
T. MOMMSEN, «Die Tatiuslegende», ripreso in Gemmiti. Schr. IV, pp. 22-35.
In una memoria intitolata «Céramiques des premiers siècles de Rome,
VIII-V siècles», manoscritto che si trova analizzato nei Comptes Renclus
de l’Académie des Inscriptions , 1950, p. 287-295, F. Villard si è
pronuncialo per l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo
secolo. § 18. Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi
JMQ, pp. 144-146 (= JMQ it., pp. 101-012) (dove bisogna correggere nella
citazione di Varronc Vedici Ioni in Vedi otti) e La saga de Hadingus,
1953, pp. 109-110. Per la triade «Jupiter, Mars, Ops» vedi «Lcs
cultes de la Regia, les trois fonclions et la triade JMQ», Latomus, XIII,
1954, pp. 129-139. Per la triade «Jupiter, Mars, Flora (o Vcnus)», vedi
Rituels..., p. 54 e p. 60, note 37-40. Per Romolo-Remo come
corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre l’utilizzazione
delle tre funzioni c della triade «JMQ» da parte di Martianus Capella è
stata esaminala in «Remarques sur Ics trois premières re¬ gione s erteli
de Mart. Cap.», Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder- memn) 1956,
pp. 102-107. § 19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue
ricerche a una visione strutturale delle religioni germaniche. Quando è
uscito MDG, 1939, egli av¬ vertì la parentela della mia concezione e
della sua e la complementarietà dei nostri argomenti. Da allora, benché
divisi su qualche dettaglio, siamo d’accordo, credo, su tutte le maggiori
questioni: che ci si riporti alle sue chia¬ re, obiettive c generose
esposizioni del suo Altgermanische Relìgionsge¬ stiti cht e. 2“ cd., I c
II, 1956-1957 c ai suoi articoli: «Dcr heutige Stand der gcrmanischen
Rcligionsforschung», Gemi. - Roman. Monatsschrift , N.F., II, 1951,
pp. 1-11 ; e «L’élat acluel dcséludes sur la rcligion germanique», Dio¬
gene, 18, aprile 1957, pp. 1-16; altri articoli che toccano le questioni qui
trat¬ tale: «La valeur religicuse du mot irmin», Cahiers du Sud, n. 314,
1952, pp. 18-27; «Die Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl», Atta Philol.
Stand., 1952, pp. 172-180; «La loponymiect l’hisloire des
religions»,RHR, CXLVI, 1954, pp. 207-230; «Uber das Wort Jarl und seine
Vcrwandlen», NC, VI, 1954, pp. 461-469. Nell’opera collettiva Deutsche
Philologie ini Aufriss, Miinchen, 1957, la sezione «Die altgermanische
Religion» (col. 2467-2556), redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo
germanico, e specialmente scan¬ dinavo, un’eccellente interpretazione,
originale c ripensata, nel quadro che io ho proposto. E. POLOMÉha
lavorato in questo stesso schema: «L’élymologic du terme germanique
*ansuz, dieu souverain», Études Germuniques, 1953, pp. 36-44 e «La
religion germanique primitive, rcflccl d’une slruclurc socia¬ le», Le
Flamheau, 1954,4, pp. 437-463.1 miei MDG, oggi felicemente esau¬ riti,
hanno sofferto di essere stali pubblicati agli esordi delle ricerche
sulla tripartizione indoeuropea: non era che una prima vista d’insieme e
un pro¬ gramma carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle quali si sono
verificate c altre no; presto pubblicherò una seconda edizione
interamente rimaneggiata. Non ho qui ancora il posto per esaminare la
teologia dei Germani continentali (specialmente Tacito, Germania, 9, in
cui i tre livelli sono chiari: Mercurio c 84
Marte, Ercole, «Iside»): vedi DIE, pp. 23-26. PerÓdinn bisogna
aggiungere l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R.
Otto, 1932): vedi J. De Vries, op. cit., II, § 405. § 21.
Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a quella dei Latini di
Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia, pp. 247-291 (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione
in «giganto- machia» della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8,
1924, e la pre¬ sentazione generale in L’heritane..., pp. 125-142.
§ 23. Perii giudizio di Paride vedi soprai § 23.
PerglidèigallidiCesaree i loro corrispondenti irlandesi nei loro rapporti
(in ogni caso molto alterati) con la tripartizione, vedi MDG, p. 9, NR,
pp. 22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux de la Gaule, 1957, pp. 4, 19-21, 31-33,
94. R. JAKOBSON ha tentato di inter¬ pretare nel quadro delle tre
funzioni il poco che si conosce degli dèi slavi: art. «Slavic Mythology»
in Funk and Wagnalls StandardDictionary pfFolklore, II, 1950, pp.
1025-1028. Sembra che il paganesimo dei Baiti possa essere un giorno
favorevole alla nostra inchiesta. § 24. Sulla tripla titolatura di
Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La guerre dea géants, le mytheavant
l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258. § 25. Su
SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tar¬ peia,
pp. 55-66; H. Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa-
rasvatl-Anàhità c l’ha pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954, pp.
405-413. Per i dati latini, irlandesi e germanici vedi «Iuno, S.M.R.»,
Eranos, LII, 1954, pp. 105-119 e «Le trio des Macha» RHR. L’esplorazione
di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo indoeuropeo implica tre compiti
molto considerevoli, a tult’oggi pro¬ grediti in maniera assai
discontinua. Non è stalo possibile giungere ra¬ pidamente a risultati
sistematici che al primo livello. Se importanti aspetti del secondo e del
terzo sono stati determinati in breve tempo, essi non sono tuttavia che
un insieme strutturalo ancora in fase di ap¬ profondimento. Non si è
potuto dunque fare altro che dare per essi de¬ gli orientamenti generali
e, sopratutto, delle indicazioni sui metodi di lavoro. Varuna
e Mitra, ASa e Vohu Manah Il principio fondamentale intorno a cui
si organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia della prima funzione è
già stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle formule vediche che
sono state confronta¬ te, non si tratta di un dio ma di due, Mitra e
Varuna, che la rappresenta¬ no, ed c ancora questa coppia che presuppone
la coesistenza di due figure, il «Buon Pensiero» e 1’«Ordine», che gli
corrispondono in testa alla lista delle entità sostituite da Zoroastro
agli dèi funzionali. Questa dualità è stata spiegata in molte
maniere dai commenta¬ tori indiani e dalle diverse scuole mitologiche
degli ultimi cento anni. Attualmente è stata fatta luce su ciò che in
parte si può dedurre dai loro stessi nomi: se la parola Veruna,
apparentata o no al greco oùpavóq, wpavoq, resta oscura (la si è
interpretata con radici che significano «coprire», «legare»,
«dichiarare»), al contrario, Mitra è sicuramente, come ha spiegato
Meillet in un celebre articolo (1907), per la sua eti¬ mologia, il
Contratto personificato. Nella grande maggioranza dei casi, tra questi
dèi i cui nomi appaiono spesso al duale doppio, cioè con una forma
grammaticale che esprime il più stretto legame, i poeti non fanno
differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari soli¬ dali del
più grande potere, e quando non nominano che uno dei due, non si fanno
scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attri¬ buti di
questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia della
funzione sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, co¬
stituisce per gli uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo
piano nella credenza e nell’espressione. Ma capita spesso felicemente,
anche nel lirismo degli inni ma soprattutto nei libri rituali, che il
poeta o il liturgista travalichi questo primo piano e voglia distinguere
i due dèi per meglio spiegare o utilizzare la loro solidarietà.
In tale caso le diverse immagini che appaiono sono tutte dello
stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran numero di
coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione definisce due
piani, ogni punto del piano potremmo dire, richiamando sull’altro un
punto omologo; e queste coppie tanto diverse possiedono tuttavia un’aria
di parentela così netta che di ogni nuova coppia assegnata al¬ l’insieme
si può provare a colpo sicuro quale sarà il termine «mitria- co» e quello
«varunjco». Fra le specificazioni così diverse dell’antitesi sarà
difficile estrarne una da cui il resto può essere derivato e senza dubbio
questo tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran senso. Sarà molto
meglio procedere a un breve inventario, osservando e definendo l’antitesi
in rapporto alle principali categorie dell’essere divino (cf. II § 5).
Quanto ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a ciò che è
vicino all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che si
ri- 88 trova nettamente fra le Entità
zoroastriane corrispondenti: cf. II § 8,4°); passando al limile, dei testi
affermano che Mitra è questo mondo mentre Varuna Valtro mondo, come è
certo che ben presto Mitra rappresentò il giorno e Varuna la notte. Mitra
è assimilato alle forme visibili e usuali del soma e del fuoco, mentre
Varuna alle loro forme invisibili e mitiche. Nelle modalità
d'azione, se Mitra è propriamente il «contratto» e stabilisce tra gli
uomini i trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago, signore della
màyà, la magia creatrice delle forme, e in posses¬ so dei «nodi» con cui
«afferra» i colpevoli con una presa irresistibile. Nondimeno essi
si oppongono per il foro carattere : l’ami¬ chevole Mitra è benevolo,
dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna è impietoso, violento, a
volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applica¬ zioni illustrano questo
teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che è cotto a vapore, a
Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il soma
inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò che
è ben sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc.. Tra le
funzioni diverse da quelle che gli sono proprie, Mitra ha più affinità
per la prosperità, la fecondità e la pace, Varuna per la guer¬ ra e la
conquista, tra le province stesse della sovranità, Mitra è piutto¬ sto -
come diceva con qualche anacronismo A. K. Coomaraswamy - il potere
spirituale, mentre Varuna è il potere temporale, in lutti i casi ri¬
spettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd. et pànin.
II, 1956, p. 110) ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente, di
Varuna per l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovra¬ ni
Mitra e Varuna, di diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno
che l’altro. Se gli inni pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò
non avviene perché egli è «in procinto» di prendere un’importanza
maggiore rispetto a un «più vecchio» dio Mitra, ma perché, semplice¬
mente, la specificazione magica e inquietante della sua azione solleci¬
ta all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e chiaro do¬
minio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c
mai conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una
co¬ stante collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora
indo-iranico, ha fornito la chiave per qualche difficoltà o enigma delle
mitologie occidentali. A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e
patriottico, in cui il cosmo e le sue diverse parti richiedono attenzione
e riflessione solo nella misura in cui possono essere utili o nocive all’ Urbe,
non ci si può aspettare di osservare la bipartizione nelle sue generalità. La
lontananza del cielo, l’ordine dell’universo, cose di Varuna, lasciano i
Romani totalmente indifferenti. Ridotta soltanto a qualcuna delle sue
specificazioni, la bipartizione tuttavia sussiste. Se nella Roma storica “dius”,
“dius fidius” -- il dio luminoso e garante della fides, della lealtà e dei
giuramenti -- non è più che un aspetto di Jupiter, è vero che sembra
esservi stata tutt’altra situazione nei primordi. Certo, i due dèi erano
strettamente associati e il nome del primo flamine e più vicino a “dius”
che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che “dius” si accolla,
nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici su cui Roma vive, la
direzione mistica della politica romana, i miracoli salvifici della storia
romana -- come più propriamente caratteristici del suo grande socio. Allo
stesso modo, nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una specificazione
nettamente mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli appartengono,
mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica di “jupiter”,
“summanus”. È probabile che questa teologia complessa abbia
risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso
tempo, della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la
creazione del suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade
«Jupiter O.M, Giunone Regina, Minerva» all’antica triade «Jupiter, Mars,
Quirinus». Lo “jupiter” del Campidoglio sembra essere stato quasi subito
imperialista, fagocitando “dius” e concentrando in sé tutta la sovranità;
ma forse i due piani tradizionali complementari sono ancora segnalati
nella strana doppia titolatura del dio: “ottimo” -- cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè
il più alto, posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono
questi, in rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia
vedica a Mitra e Varuna. ÓdINN E Tyr Ma è nel
mondo germanico che l’analogia indiana è particolar¬ mente illuminante.
Né «Mercurio» (cioè *Wópanaz ) nella Germania 90
di Tacito, né Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino
a loro vi è quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e
interes¬ santi, chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr.
Que¬ sto dio, omonimo del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari
di questi due o del Dius Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso,
è generalmente considerato nei suoi rapporti con *Wópanaz come un
dio «più antico», impallidito di fronte a un nuovo venuto. Benché sia
strano che, a otto o dieci secoli di distanza, Tacito da una parte e i
poeti scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e registrato, proprio
allo stesso stadio, l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro, le
con¬ siderazioni comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale
a questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a
causa dell 'inquietante *'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra,
teori¬ camente pari a Varuna, riceve meno attenzione da parte dei poeti
e come lui Dius Fidius è meno importante di Jupiter: gli uomini
hanno più attenzione per la sovranità magica che per quella
giuridica. La grande originalità del mondo germanico è quella
segnalata da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte.
Essa per¬ viene a delle considerazioni sviluppate nel precedente
capitolo, in cui abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della
funzione guer¬ riera. La stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco
come Snorri lo de¬ finisce (Gylfaginning cap. 25). «Vi è ancora
un Asi che si chiama Tyr. È molto intrepido e co¬ raggioso, ha un grande
potere sulla vittoria in battaglia. Perciò è bene che i guerrieri
valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono più co¬ raggiosi degli altri e
che non hanno paura di niente, si dice prover¬ bialmente che sono figli
di Tyr » Questa «marzializzazione» del sovrano giurista dei
Germani non è senza analogia con quella che a Roma ha fatto di Quirino,
dio ca¬ nonico della terza funzione, patrono dei Romani nella pace e
nelle opere di pace, una varietà di Marte. Nei due casi l’evoluzione
sociale ha reagito sugli dèi: dal giorno in cui - forse con la riforma di
Servio - i Quiriti hanno coinciso coi milites e sono diventati «i militi
in congedo tra due appelli», era naturale che Quirino si volgesse verso
il Mars tranquillus, il Mars qui praeest paci aspettando di
saevire. 91 In altre condizioni, meno formali e
più violente, le società ger¬ maniche antiche hanno esteso all’amministrazione
dei tempi di pace i quadri della guerra e l’hanno riempita dei costumi e
dello spirito guer¬ riero. A Roma 1 ’exercitus urbanus che costituiva
l’assemblea legisla¬ tiva, si riuniva al Campo di Marte ma senza armi.
Che si rileggano, al contrario, i passi coloriti in cui Tacito (Germania
, 11 -13) descrive il Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con le loro
bande, le armi brandite o battute in segno di voto, le forme tutte
militari del prestigio e deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si
formulava il diritto e si regolavano i processi. Qualche secolo più tardi
l’antichità scandinava non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci
si riunisce in armi, si approva alzando la spada o l’ascia o battendo la
spada sullo scudo. Non è dunque sorprendente che il dio al centro di
queste riunioni giuri- dico-gueiTiere, erede del dio giurista
indoeuropeo, rivestisse l’uni¬ forme dei suoi ministri e li accompagnasse
nel loro passaggio, facile e costante, dalla giustizia alla battaglia e
che gli osservatori romani lo avessero considerato come un Marte. Alcune
dediche trovate in Frisia sono rivolte a un Mars Thincsus che compie
l’esatto legame tra lo stato indoeuropeo probabile e il risultato
scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel Tyr di cui è stato notato che il nome
segnala, nella toponimia, gli anti¬ chi luoghi del Ping.
Sembra inoltreche, meno ipocriti di altri popol i, gli antichi Ger¬
mani abbiano così riconosciuto, a parte ogni questione dell’apparalo
guerriero, l’analogia profonda tra la procedura del diritto - con le sue
manovre e le sue astuzie, con le sue ingiustizie senza appello - e il
combattimento armato. Ben utilizzato, il diritto è un mezzo per essere il
più forte e per ottenere vittorie che spesso eliminano l’avversario così
radicalmente come in un duello. Quando si dice che Tyr, in segui¬ to a
un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano destra come pegno di
un’affermazione utile ma falsa, « è divenuto monco e non è chiamato
pacificatore di uomini», non si tratta che della controparte, del
completamento morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in armi,
con intenzioni di potenza (più che di equità) che vede la guerra in ogni
luogo. Queste indicazioni molto generali aiuteranno a
comprendere come un Tiuz-Mars
abbia potuto formarsi a partire da un dio indoeu- 92
ropeo il cui dominio specifico era il diritto e il cui carattere si è
purifi¬ cato e moralizzato, aiutato dalla civilizzazione
progressiva. 5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e
Bhaga vicino a Mitra Ma negli inni del Rgveda il giurista
Mitra e il magico Varuna, benché sembrino dividersi equamente il dominio
della sovranità, non sono isolati. Essi non sono che quelli più
frequentemente nominati dal gruppo degli Àditya, o figli della dea Aditi,
la Non-Legata, cioè la Li¬ bera, l’Indeterminata. La consi derazione dei
nomi e delle funzioni de¬ gli Àditya in tutti i contesti, lo studio delle
frequenze di menzione di ognuno, frequenze dei loro diversi
raggruppamenti parziali e del loro legame con altri dèi, hanno permesso
di interpretare la struttura che di¬ segnano. Non è qui
possibile beninteso riassumere molto brevemente queste analisi e questi
calcoli, i cui dettagli sono stati pubblicati in due tempi, nel 1949 e
nel 1952. Fin dalla letteratura epica è conservato il ricordo che gli
Àditya sono dèi che, come i due principali tra loro, van¬ no a coppie e
in seguito arriveranno sino a dodici. Nel Rgveda sembra che vi sia già
stata un’oscillazione tra un’antica cifra di seie una prima estensione a
otto, per addizione di due dèi eterogenei. Di questi sei, Mitra e
Varuna formano la prima coppia; di ognu¬ na delle altre due coppie è
facile vedere che un termine agisce sul pia¬ no e secondo lo spirito di
Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agi¬ sce sul piano e secondo lo
spirito di Varuna, di modo che è legittimo e comodo chiamare queste
figure complementari «sovrani minori». Ma questa cifra di sei sembra
essere stata estratta, per ragioni di simme¬ tria, da un sistema più
breve di quattro dèi sovrani, in cui il sovrano «vicino agli uomini»
Mitra, aveva solo due assistenti, mentre Varuna rimaneva solitario nelle
sue lontananze. I nomi e le distribuzioni di questi Àditya primitivi
sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2) Varuna. Il principio della stretta
associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra, pro¬ vato dalle statistiche delle
menzioni simultanee, è semplice: ognuno di questi dèi esprime e precisa
lo spirito di Mitra su ognuna delle due province che i nteressano 1 ’
uomo, quelle che il diritto romano ritroverà con un altro orientamento,
più individualista, distinguendo le perso- nae e le res.
93 Sotto Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il
tono e il modo generale d’azione che si conosce (giuridico, benevolo,
regolare, orientato verso l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la
società degli uomini ari a cui deve il suo nome, mentre Bhaga, il cui
nome si¬ gnifica propriamente parte, assicura la distribuzione e il
godimento regolare dei beni degli Arya. 6. Aryaman
Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no politi¬
camente, si riconoscono Arya in opposizione ai barbari, e li protegge non
in quanto individui ma come elementi di un insieme: gli aspetti
principali del suo servizio multiforme sono i tre seguenti: 1 )
Favorisce le principali forme di rapporti materiali o contrat¬ tuali tra
Arya. È il «donatore», protegge il «dono» (il che lo obbliga a
interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme complesso
delle prestazioni che formano l’ospitalità. P. Thieme (Der Frenullinx im
Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto di farne il
centro di ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il resto.
Infatti Aryaman non c meno primariamente interessato ai matri¬ moni: c
pregato come dio delle buone alleanze, scopritore di mariti
(subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un marito per la fanciul¬ la
giovane o una donna per il celibe (A V, VI, 60,1 ). La sua preoccupa¬
zione per i cammini e per la libera circolazione (c àtùrtapanthà, «colui
il cui cammino non può essere interrotto»; RV, X, 64,5) non deve esse¬ re
negata o minimizzata come è stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c P.
Thieme: tutto ciò risalta da un gran numero di strofe di inni e da un
lesto liturgico che lo definisce come il dio che permette al sacrificante
«di andare ove e^li desidera» e di « circolare felicemente » ( Tait-
tir.Samh., II-, 3, 4, 2). 2) La sua cura nei riguardi degli Arya ha
anche un aspetto litur¬ gico: nei tempi antichi è lui che ha munto per la
prima volta la Vacca mitica e di conseguenza, nel corso dei tempi, si
tiene a fianco dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui (RV,
1,139,7, col commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9)
di espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle
libagioni (uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi
dell’aldilà, gli autori degli inni non parlano di un’altra forma di
servizio che è, al contrario, la sola di cui l’epopea con¬ servi un ricordo
molto vivo e che è sicuramente antica. Nell’altro mondo Aryaman presiede
il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui nome chiari¬ sce abbastanza
l’origine: sono infatti una rappresentazione degli ante¬ nati morti, e
Aryaman è il loro re, che prolungano così nel posl-mortem la felice
promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il cammino che porta presso
i Padri, riservato a quelli che durante la propria vita hanno praticato
esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è chiamato
«il cammino di Aryaman » (Mahàbhdrata , XII, 776 etc.). 7.
Bhaga Bhaga si occupa fondamentalmente della ricchezza ed è a
lui che ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge per averne una
par¬ te (RV , VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche che lo
no¬ minano o che impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha
per¬ messo di constatare che questa parte è dotata di qualità richieste
alla metà dell’amministrazione sovrana che spetta a Mitra: essa è
regolare, prevedibile, senza sorprese, giunge a scadenza perlina sorta di
gesta¬ zione (il bambino pronto perla nascita «rut> giunge Usuo
bhd^a»: RV, V, 7, 8); essa è il risultalo di un’attribuzione senza
rivalità, implicante un sistema di distribuzione (verbi; vi-bhaj-,
vi-dhr-, day, cf. il greco Sou|.iov); infine è acquisita e conservata
nella calma, è la retribuzione degli uomini maturi, assennali, seniores,
opposti agli iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11 ; IX, 97, 44). L’altra
varietà della parte, imprevedibile, violenta, «varunica», che si
conquista con la battaglia o con la corsa, è designata da un’altra parola
che sin dai tempi indo-iranici aveva una risonanza combattiva e che ha
giustamente fornito ai teologi vedici il nome del «sovrano minore
varunico» simmetrico di Bhaga, Amsa. 8. Trasposizione zoroastriane
di Aryaman e Bhaga: SraoSa e A$i Abbiamo la certezza che
questa struttura era già indo-iranica: come in Iran la lista degli dèi
canonici delle tre funzioni è stala subli¬ mata dallo zoroastrismo puro
in una lista di Entità che gli corrispondo¬ no termine per termine (vedi
II § 8); così gli dèi sovrani minori asso- 95
ciati a Mitra hanno prodotto due figure complementari non comprese
nella lista canonica delle Entità, ma vicine, le cui statistiche dei
ruoli mostrano l’affinità esclusiva dell’una rispetto all’altra, e di
tutte e due rispetto a Vohu Manah (sostituito di *Mitra); e anche nei
testi in cui questo dio ricompare, in relazione a MiGra, mentre niente lo
lega ad Asa (sostituto di *Varuna). In più, per il loro nome come per la
loro funzione, queste due Entità - Sraosa, VObbedienza e la Disciplina ,
e Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può attendere da un Aryaman
o da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile vedere punto per
punto che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che Aryaman era per
la comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la nazionalità.
1) H. S. Nyberg ha potuto vedere in Sraosa la personificazione
«derfrommen Gemeinde», il termine «genio protettore» sarebbe più esatto
ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è «capo nel mon¬ do
materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale» {Greater
Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria, 1957, XXVI, 45, p. 219) presiede
all’ospitalità come già faceva l’Aryaman vedico (e già indo-iranico; cf.
persiano èrmdn, «ospite», da *airyaman), quando è concessa, si sa,
all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna LVII, 14 e 34). Se
non lo si vede più occupato, specialmente delle alleanze ma¬ trimoniali e
della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la sua azione sociale
sulle anime è precisata: egli è il patrono della grande virtù della vita
in comune, di quella che assicura la coesione, cioè la giusta misura, la
moderazione ( Zdtspram , XXXIV, 44); è anche il me¬ diatore e il garante
del famoso patto concluso tra il Bene e il Male (Vasi XI, 14) e il demone
che gli è personalmente opposto è il terribile Aesma, il Furore,
distruttore della società ( Bundahisn XXXIV, 27). Rimane una
precisa traccia mitica della sostituzione di Sraosa a un dio protettore
degli Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è lui il signore e il re
del paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam vaèjò), quel soggiorno
degli Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli Iranici ( Vidèvdat ,
I, 3). 2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente
amplificato in Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a
sacrificare e cantare gli inni e tutto l’inizio del suo Yast (XI, 1-7),
unicamente consacrato 96 all’elogio della
preghiera e all’ esaltazione della loro potenza, si giusti- fica per
questo ricordo. Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del
supremo combattimento contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote
assistente nel sacrificio in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante
principale (.Bunclcihisn , XXXIV, 29). 3) Infine, come
l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della dimora in cui vanno -
attraverso «il cammino di Aryaman» - i morti che hanno correttamente
praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruo¬ lo decisivo nelle notti
che seguono immediatamente la morte: egli ac¬ compagna e protegge l’anima
del giusto sui sentieri pericolosi che la conducono al tribunale dei suoi
giudici, di cui egli stesso è parte {Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.).
Asi è sempre una «distribuzio¬ ne» come lo era Bhaga ma la nuova
religione, che conferisce più im¬ portanza all’aldilà che al mondo dei
viventi, gli domanda soprattutto di vegliare sulla giusta «retribuzione»
post-mortem degli atti buoni o cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle
Gàthà, c palesemente nei testi post-gathici, pur badando in avvenire al
tesoro dei suoi meriti, non di¬ mentica nella vita terrestre di
arricchire l’uomo pio c di riempire la sua casa di beni. L’analisi
di questa concezione, già indo-iranica, della sovranità che non altera la
grande bipartizione ricoperta dai nomi di Mitra e Va- runa, ma dona
solamente a Mitra due assistenti che l’aiutano a favorire il popolo arya,
illumina una particolarità della religione romana di Ju- pitcr che
sfortunatamente è conosciuta solo nella forma capitolina di questa
religione. Jupiler O.M, in cui si concentra tutta la sovranità, sia
quella «diale» che quella propriamente «gioviana» (vedi sopra § 3), ospitava
in due cappelle del suo tempio due divinità minori, Juvenlas e
Terminus. Una leggenda giustificava la coabilazione singolare di
questi tre dèi facendola risalire alla fondazione del tempio capitolino,
ma questa leggenda (che utilizzava del resto un vecchio tema legalo
al concetto di Juvenlas) non prova evidentemente che l’associ
azione fosse più antica. L’analogia indo-iranica ci incoraggia a
considerarla come preromana. 97 Infatti,
secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju- ventas e
Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli compara¬ bili a quelli
di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice la leggenda
eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la sta¬ bilità sul
suo dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la du¬ rata e Bhaga
la stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da questa
leggenda, le due divinità romane sono molto di più di tutto que¬ sto:
Juventas è la dea protettrice degli «uomini romani» più interes¬ santi
per Roma, gli iuvenes, parte essenziale e germinati va della socie¬ tà;
Terminus garantisce la spartizione regolare dei beni, dei beni sopratutto
immobili, catastali, appezzamenti di terreno, non delle greggi erranti
che presso i nomadi indo-iranici o tra gli indiani vedici costituivano la
ricchezza essenziale. Nel mondo scandinavo un tale schema di sovrani
minori non si è ancora lasciato identificare, al momento. Non è che
intorno a Ódinn non vi fossero degli dèi che, secondo il poco che si sa di
loro, non aves¬ sero avuto l’incarico di esercitare dei frammenti
specializzati della so¬ vranità, ma queste specificazioni e l’analisi
della funzione sovrana che suppongono sono originali e i loro
rappresentanti non hanno omo¬ loghi indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir,
riflessivo e prudente e che secondo la fine della Vòluspó è proiezione
mitica di una sorta di sacerdote; vi è Mimir, consigliere di Ódinn,
ridotto a una testa che ri¬ mane pensante e parlante anche dopo la sua
decapitazione; oppure Bragi patrono della poesia e dell’eloquenza.
Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili e Vé, sicura¬
mente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in scandi¬
navo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma si
conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e tutt’altra
soluzione sarà proposta più avanti. 11. Condizioni dello studio
teologico della seconda e TERZA FUNZIONE I procedimenti
di analisi e di statistica che hanno permesso di dispiegare e di
esplorare la sovranità - nell’India vedica inizialmente e 98
poi progressivamente nell’organizzazione intema della teologia
della prima funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni
inferiori e al momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto.
Senza dub¬ bio questa differenza è propria della natura delle cose; per i
suoi stessi concetti (i nomi dei personaggi divini sono in gran parte
etimologica¬ mente chiari e molti sono delle astrazioni animate) la prima
funzione si prestava facilmente alla riflessione psicologica e non
bisogna di¬ menticare che i primi filosofi, appartenenti al personale di
questa fun¬ zione, erano dei sacerdoti e non potevano evitare di
applicarvi con pre¬ dilezione la loro analisi. La controparte è che nel
Rgveda questa teologia così ben sviluppata non si raddoppia in una
mitologia ricca in proporzione: di Mitra non è quasi «raccontato» niente;
di Varuna si dice molto di più, ma la lista delle scene in cui interviene
è ridotta e in generale si tratta di potenze e qualità degli dèi sovrani
più che della loro storia, del loro tipo d’azione piuttosto che di azioni
precise com¬ piute da loro. Al contrario, la funzione
guerriera e la funzione di fecondità e prosperità si basano in gran parte
su immagini: più che grazie a dichia¬ razioni di principio, è il ricordo
inesauribile delle imprese o dei famosi benefici che provano l’efficacia
di un dio forte o dei buoni dèi tauma¬ turghi. Così queste due province
divine sono più adatte a degli svilup¬ pi mitologici che a una messa a
fuoco teologica; o forse è meglio dire che la dottrina si abbellisce, si
dissimula e si altera sotto il rigoglio dei racconti. Per il
comparatista questa differenza comporta grandi conse¬ guenze. Senza che
questo fatto capitale sia stato ancora pienamente enunciato, il lettore
ha già potuto osservare che è il confronto delle re¬ ligioni vedica e
romana il più adatto a stabilire o suggerire, grazie al conservatorismo
della seconda, dei fatti indoeuropei comuni, mentre la religione
scandinava non interviene che a titolo di conferma dopo che il percorso
comune è già stato riconosciuto e assicurato. Ora, allo stato delle
nostre conoscenze, la religione romana pre¬ senta ancora una teologia ben
costituita: nel raggruppamento «Jupiter Mars, Quirinus» o nel
raggruppamento trasversale di «Jupiter, Juven- tas, Terminus», essa ha
registrato coscientemente delle articolazioni concettuali molto chiare.
Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere che la religione romana non è
più che una teologia: per un processo radicale che caratterizza Roma, i suoi
dèi - e questa volta non solo gli dèi sovrani, ma anche Marte, Quirino,
Ops, eie. - sono stati spogliati di ogni racconto e limitati asceticamente
alle loro essenze, alla loro pro¬ pria funzione. Se dunque (per la
determinazione del quadro generale tripartito e per l’esplorazione dei
primo livello) il confronto di una teo¬ logia vedica facilmente
determinabile, e di una teologia romana im¬ mediatamente conosciuta, ha
permesso i risultali netti coerenti, c sem¬ pre più completi che si sono
appena letti, la stessa cosa non avviene quando si passa ai due livelli
seguenti. India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature della
pro¬ pria natura che mediante delle avventure alle quali Marte e
Quirino non corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione
c per ciò che è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro
sa¬ cerdoti: i documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i princi¬
pali sostegni del comparatista non si combinano più. 12. Mitologia
ed epopea La difficoltà sarebbe probabilmente irriducibile senza un
altro fallo, ancora più importante per i nostri studi, di cui i
precedenti capi¬ toli del presente libro hanno già discretamente fornito
qualche esem¬ pio. Le idee di cui vive una società non danno luogo
solamente a delle speculazioni o a immaginazioni relative agli uomini. La
teologia e la mitologia sono raddoppiate dalle «storie antiche»,
dall’epopea in cui degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei
principi che gli dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da
loro. Certo, ben altri fattori contribuiscono alla formazione
dell’epo¬ pea di un popolo, ma è raro che questa non abbia avuto, in
alcuni dei suoi grandi temi c dei suoi primi moli, un rapporto essenziale
con l’ideologia che dirige le rappresentazioni divine dello stesso
popolo. Per i nostri studi comparativi indoeuropei questa felice
circostanza gioca a nostro favore in due maniere: la seconda è stata da
me ricono¬ sciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta nel 1947 dal
mio col¬ lega svedese Stig Wikander. Da una parte, la più
grande epopea indiana, il Mahàbhcirata, sviluppa le avventure di un
insieme di eroi che corrispondono parola per parola ai grandi dèi delle
tre funzioni della religione vedica e pre¬ vedrà, di modo che l’India
presenta, con questo enorme poema c col Riveda, lina doppia
edizione rispondente, a due differenti bisogni e con sensibili varianti,
alla sua «ideologia in immagini». Dall’ altra par¬ te, se Roma ha perduto
tutta la sua mitologia e ha ridotto i suoi esseri teologici alla loro
scarna essenza, ha conservato al contrario, per costi¬ tuirla in seguito,
la storia meravigliosa e ragionevole delle proprie ori¬ gini, un antico
repertorio di racconti umani, colorati e molteplici, pa¬ ralleli a quelli
che avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le raccolte mitiche
degli dèi. Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in
storia da Roma stessa? Oppure essa prolunga direttamente un’epopea
prero¬ mana e italica, coesistente con una mitologia che Roma avrebbe
per¬ duto senza traslazione e senza compensazione? L’una e l’altra
tesi possono trovare argomenti nel dettaglio dei fatti, ma per il comparati¬
sta questa discussione non incide: in ogni caso, il primo libro di Tito
Livio contiene una materia ideologicamente conforme al sistema de¬ gli
dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla mito¬ logia
dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui dettagli
delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza fun¬ zione è
dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro
comparativo. 13. Il fondo mitico del Mambhjrata secondo S.
Wikander Nell’immenso conllilto dei cugini, che riempie il
Mahàbhdra- ta, i personaggi simpatici c infine vittoriosi sono un gruppo
di cinque fratelli, i Panda va o «figli di Pàndu», che fra i molli tratti
notevoli pre¬ sentano quello di avere in comune una sola sposa per lutti
c cinque, Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi, questo
regime di poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya
ma attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito
per più di un se¬ colo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha
fornito la soluzione soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave
di tutto l’intrigo del poema. In realtà i «figli di Pàndu»
non sono i suoi figli. Sotto il peso di una maledizione che lo condanna a
morte nel momento in cui compirà l’alto sessuale, Pàndu si assicura una
posterità con un procedimento eccezionale. Una delle sue mogli, KuntI, in
seguilo ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un privilegio inaudito:
le era sufficiente in- 101 vocare un dio perché
questo sorgesse immediatamente davanti a lei e le donasse un
figlio. Dietro preghiera di suo marito invoca dunque in successione
di¬ versi dèi dai quali concepisce tre figli. Questi dèi sono Dharma,
«la Legge, la Giustizia» (entità in cui si ritrova il vecchio concetto
del giu¬ rista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.
I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna. Suo
marito la prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie, di
questa fortuna: KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri prende
dalla situazione la parte migliore e chiede che vengano evocati i due
inseparabili ASvin: dagli ASvin concepisce due gemelli, gli ulti¬ mi dei
cinque «figli di Pàndu», Nakula e Sahadeva. Wikander segnalò ben presto
che la lista degli dèi padri - Dharma, Vàyu, Indra e gli ASvin -
riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica degli antichi dèi
dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello (Dharma che
rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre al
secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora
più frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri
doveva, in una certa misura, comandare sia il carattere che le azioni
epiche dei figli, come in effetti accade. Yudhisthira è il re,
mentre gli altri Pàndava sono solamente de¬ gli ausiliari; un re giusto,
virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza specialità o virtù guerriere,
come si conviene a un rappresentante della «metà di Mitra» della
sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti dell’insieme.
Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti servitori
dei loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti, la
grande vir¬ tù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente
le due classi superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve
immediatamente in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza
aberrante ma della trasposizione epica della concezione vedica,
indo-iranica e pri¬ ma ancora indoeuropea, che completa la lista degli
dèi maschi, tra i quali si analizzano e gerarchizzano le tre funzioni,
con una dea unica ma plurivalente, meglio ancora trivalente, come la
vedica Sarasvatl che comprende in se stessa la sintesi delle tre
funzioni. Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai due
gemelli servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125
formulava quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl):
«Sono io che sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che
sosten¬ go i due Asvin», o che ancora si ritrova nella triplice
titolatura (con un’ulteriore specificazione della terza funzione) della
principale dea dell’Iran, «l’Umida, la Forte, l’Immacolata». Questa
scoperta è stala il punto di partenza di un’ esplorazione di tutto il
poema, soprattutto dei primi libri (che precedono la grande battaglia) ed
è stata certamente chiamata a rinnovare i nostri studi: per la sua abbondanza,
la sua coesione e la sua varietà, la trasposizione epica permette,
partendo dal sistema trifunzionale, da ogni funzione e dalle molte
rappresentazioni connesse, uno studio più profondo e più avanzato di
quanto non lo permettesse l’originale mitologico cono¬ sciuto sopralutto
dalle allusioni dei testi lirici. D’altra parte, sin dal suo articolo del
1947, Wikander ha stabilito un punto molto importante: la struttura
mitologica trasposta nel Mahàbhdruta è sotto molti aspetti più arcaica di
quella del Rgveda poiché conserva dei tratti sfumali in questo innario ma
che le analogie iraniche provano come fosse in¬ do-iranica. Per tale
ragione uno dei primi servigi apportati da questo nuovo studio è stato
quello di rivelare nella funzione guerriera una di¬ cotomia che il Rgveda
ha quasi completamente dimenticato a tutto vantaggio di Indra.
Infatti, come è già stato dimostrato da lavori anteriori della scu¬
ola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi prevedici, di due
tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici, BhTma e Arju- na,
rendono possibile un’osservazione dettagliala e certamente una parte dei
caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere restituiti a Vàyu per un
periodo più antico. Questi due tipi sono facilmente defini¬ bili in
qualche parola. L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana
dotato di un vi¬ gore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le
sue braccia, pro¬ lungale talvolta da un’arma che gli è propria: la
clava. Non è bello né brillante, non è molto intelligente c si abbandona
facilmente a disa¬ strosi eccessi di furore cieco. Infine, opera spesso
da solo, fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il protettore designato, per
cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei demoni e dei geni. Al
contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un uomo compiuto e
civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia delle armi perfezionate
(Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno spe¬ cialista delle armi
da lancio); è brillante, intelligente, morale e soprat¬ tutto socievole,
guerriero da battaglia più che cercatore di avventura e generalissimo
naturale dell’armata dei suoi fratelli. Questa distinzione è conosciuta
anche dall’epopea iranica, nel¬ la persona del brutale Kó>rasàspa
armato di mazza e legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo dell’eroe più
seducente come ©raètaona. In Grecia ricorda l’opposizione
tipologica di Ercole e Achille, ma soprattutto permette di dare una
formulazione più precisa, in Scan¬ dinavia, ai rapporti tra Ódinn e Pórr
e più in generale a quelli della pri¬ ma e seconda funzione. E stato
segnalato, nel secondo capitolo, che Ódinn si era annesso una parte
importante della funzione guerriera. Vediamo ora che si tratta
principalmente (senza che la discriminazio¬ ne sia rigorosa: è Pórr che
al pari di Indra rimane il dio tuonante dello sconvolgimento atmosferico)
della parte che presso gli Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra,
mentre la parte di *Vàyu era piuttosto quella di Pórr, il brutale
picchiatore e l’avventuriero delle spedizioni solitarie contro i giganti.
Tuttociò appare ancora più chiaramente se si considerano nell’ epopea gli
eroi che corrispondono a ciascuno di que¬ sti dèi: gli eroi odinici come
Sigurdr, Helgi e Haraldr sono belli, lumi¬ nosi, socievoli, amati e
aristocratici, mentre l’unico «eroe di Pórr» co¬ nosciuto dall’epopea,
Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un gigante ridotto da Pórr a
forma umana, arcigno, brutale, errante e soli¬ tario, vera replica
scandinava di Bhlma o Ercole. 16. Caratterizzazione funzionale dei
Pàndava Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente
consape¬ voli di questa struttura, si sono cimentati nel dare delle
rappresentazio¬ ni differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro
diverse maniere di reagire a una stessa circostanza. Ne citerò solo due.
Nel momento in cui i cinque fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto
esilio che avrà fine solo con la formidabile battaglia in cui otterranno
la loro rivincita, il pio e giusto re Yudhisthira avanza « Velandosi il
volto col suo abito per non rischiare eli bruciare il mondo col suo
sguardo corrucciato». Bhlma «guardale sue enormi braccia» e pensa: «Non
vi è uomo ugua¬ le a me per la forza delle braccia »; egli « mostra le sue
braccia, inor¬ goglito dalla forza delle sue braccia desidera fare contro
i nemici un 'azione pari alla forza delle sue braccia ». Arjuna sparge la
sabbia «raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro
i nemici». Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra:
Nakula, il più bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di
cenere dicen¬ do: « Che io non possa mai trascinare sulla mia strada il
cuore di una donna!» e suo fratello Sahadeva allo stesso modo si imbratta
il viso (II, 2623-2636). All’inizio dei libro IV (23-71 e 226-253),
i cinque fratelli scel¬ gono un mascheramento per soggiornare in
incognito alla corte del re Virata: Yudhisthira, eroe della prima
funzione, si presenta come un brahmano; il brutale Bhlma come un cuoco-macellaio
e un lottatore; Arjuna, coperto di braccialetti e orecchini, come un
maestro di danza; Nakula come un palafreniere esperto nella cura dei
cavalli malati, mentre Sahadeva come un bovaro, informato di lutto ciò
che riguarda la salute e la fecondità delle vacche. Queste
due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono interessanti: se
i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzio¬ ne nella coppia
indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato l’importanza del
criterio qui rivelato. Sempre restando prima di tutto degli abili
medici che ignorano l’agricoltura (il che ci porta a far risalire
indietro di molto questa con¬ cezione), Nakula e Sahadeva si dividono le
due principali province deH’allevamento, riservandosi rispettivamente
l’uno la protezione delle vacche e l’altro quella dei cavalli, che nel
Rgvedu forniscono loro il loro secondo nome collettivo, Aévin, un
derivato di àsva, «ca¬ vallo». Abbiamo così il primo modello
delle formule che si osservano anche altrove a proposito degli omologhi
funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad esempio, entità
zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie all’interno del
genere «sa¬ lubrità», sotto le acque e le piante; così pure, almeno
parzialmente, tra il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la distinzione
nell’uniforme be¬ neficio dell’«arricchimento» si compie secondo le due
fonti della ric¬ chezza, il mare e la terra. Si nota qui
chiaramente come la considerazione dell’epopea metta in risalto dei
tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il travestimento di
Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è arcaico e di un
arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il «danzatore» e i
suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut che si adorna il corpo
di ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da cavi¬ glia che li fanno
apparire come dei ricchi pretendenti. Comune alle più vecchie mitologie c
alla sua trasposizione epica, questo tratto è certa¬ mente da
riconnetlerc all’insieme del «Mànnerbund» indo-iranico. E forse, nello
stesso ordine di idee, la trasposizione epica lascia intrave¬ dere un
aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e che riguarda la morale
particolare di questi gruppi di giovani, quando essa insiste sul
carattere «effeminato» del travestimento scelto da Arjuna. 18.
Pàndu e Varuna Progressivamente sono stale individuate altre
corrispondenze tra l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c
prevedica, sem¬ pre con lo stesso vantaggio che l’epopea, narrazione
ampia e continua, facilita in ogni caso l’analisi che, al contrario, c
infastidita dal lirismo degli inni c dalla loro retorica
dell’allusione. Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia
assente dalla trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore,
inattuale, morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina,
diviene re. Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del
suo figlio maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri
originali e im¬ probabili che i libri liturgici e un inno attribuiscono
anche a Varuna; a uno di questi caratteri deve il suo nome: pàndu
significa «pallido, gial¬ lo chiaro, bianco», e infatti un incidente di
nascita, o meglio, del con¬ cepimento di Pàndu, ha fatto sì che avesse la
pelle insanamente pallida o bianca. Ora, Varuna è rappresentato in certi
rituali come sukla «bian¬ chissimo» e atigaura «eccessivamente bianco».
L’altro aspetto c di più ampia portata: Pàndu c condannalo
all’equivalente dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così in effetti
perirà) se compie l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze
diverse ( AV , IV, 4, 1 : rituale della consacrazione regale) è
presentato come uno divenuto momentaneamente impotente, devirilizzato
(evirazione che si fa a vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il
mito importante del greco Urano castrato dai suoi figli). Il
lavoro insomma è appena cominciato. Sia io che Wikander speriamo di
estrarre da questa riserva importante del materiale abbon¬ dante e
abbastanza chiaro per delucidare molte incertezze e difficoltà che sono
ancora irrisolvibili sul piano degli inni e per fornire alla rico¬
struzione indoeuropea degli elementi privi di ambiguità.L’epopea romana ha
utilizzato in altra maniera l’ideologia delle tre funzioni insieme alle
loro sfumature. Gli eroi che l’incarnano non sono più dei contemporanei,
dei fratelli semplicemente gerarchizzati; essi si succedevano nel tempo e
progressivamente costituiscono Roma. Non si succedono però nell’ordine
canonico ma in un altro or¬ dine: 1) gemelli pastori (terza funzione); 2)
sovrano «gioviano» se¬ mi-dio, creatore ed eccessi vo (pri ma funzione
del tipo di Varuna) e poi sovrano «diale», umano, pio, regolatore (prima
funzione del tipo Mi¬ tra); 3) infine, un re strettamente guerriero
(seconda funzione). In più, il sovrano gioviano non è altro che uno dei
due gemelli sopravvissuto alla coppia ma profondamente trasformato.
Questa doppia singolarità schiude nuove prospettive all’inchiesta
comparativa ma inizialmente considereremo i rappresentanti delle due
prime funzioni che non implicano problemi inediti. 20. Romolo
e Numa e i due aspetti della prima funzione Nella tradizione
annalistica i due fondatori di Roma, Romolo e Numa, formano un’antitesi
abbastanza regolare, sviluppata nello stes¬ so senso di quella di Varuna
eMitra nella letteratura vedica. Ogni cosa si oppone nel loro carattere,
nei loro fondamenti e nella loro storia, ma in un’opposizione senza
ostilità: Numa completa l’opera di Romolo donando all’ ideologia regale
di Roma il suo secondo polo, necessario quanto il primo. Quando nel
VI canto d t\VEneide, negli Inferi, Anchise li pre¬ senta tutti e due in
qualche verso al suo figlio Enea (vv. 777-784 e 808-812), definisce
Romolo come il bellicoso semidio creatore di Roma e, grazie ai suoi
auspici, l’autore della potenza romana e della sua Crescita continua (et
huius, nate, auspiciis illa inclita Roma impe- rium terris, animos
aequabit Olympo)\ poi Numa come il re-sacerdote portatore di oggetti
sacri, sacra ferens, coronato di olivo che fonda Roma donandogli delle
leggi, legibus. Tutto si ordina intorno a questa differenza -
«l’altro mondo e questo qui» - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha
l’iniziativa, equili¬ brano eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo
non fa che decifrare il linguaggio miracoloso di Giove. Si
verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due tipi di sovrani
ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna e Mitra
(vedi III, § 2). Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella
genesi di Roma, Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa metà del
mondo. Ingenuamente Plutarco mette nella bocca del secondo,
quando spiega agli ambasciatori di Roma le motivazioni del rifiuto del
regno, una osservazione molto giusta (Numa, 5,4-5): «Si attribuisce a
Romo¬ lo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire che è
stato nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione
particola¬ re della divinità; io, al contrario, sono di una razza
mortale, sono sta¬ to nutrito e allevato da uomini che voi
conoscete». I loro modi di azione non differiscono di molto e la
differenza si esprime in maniera sorprendente in ciò che si possono
chiamare i loro dèi prediletti. Romolo stabilisce solo due
culti che sono due specificazioni di Jupiter - quel Jupiter che gli ha
donato la promessa degli auspici - Jupi- ter Feretrius e Jupiter Stator
che si accordano nel fatto che Giove è il dio protettore del regnum, ma
relativamente ai combattimenti e alle vittorie; e la seconda vittoria è
dovuta a una prestidigitazione sovrana di Giove, a «un cambiamento di
vista» contro il quale nessuna forza può niente e che capovolge l’ordine
normale e consueto degli avveni¬ menti. Al contrario, tutti gli autori
insistono sulla devozione particola¬ re che Numa rivolge a
Fides. Dionigi di Alicamasso scrive (II, 75): « Non vi è sentimento
più elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato che
nei rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità
Numa, il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides
Publica e istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli
delle altre divi¬ nità». Plutarco {Numa, 16,1) dice similmente che fu il
primo a costrui¬ re un tempio a Fides e insegnò ai Romani il loro più
grande giuramen¬ to, il giuramento di Fides. Si vede bene come questa
distribuzione sia conforme all’essenza delle due divinità sovrane
antitetiche, Varuna e Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei due
dèi si oppone allo stes¬ so modo: Romolo è un violento, descritto dagli
annalisti come un ti¬ ranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con
dei tratti sicura¬ mente antichi: « Vi erano sempre vicino a lui - dice
Plutarco ( Romolo , 26, 3-4) - quei giovani chiamati Celeres a causa
della loro prontezza nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in
pubblico che preceduto dai littori armati di verghe, con le quali
respingevano la folla, cinti di corregge con cui legavano sul posto
quello che lui ordinava di arre¬ stare». A questo sovrano, così
materialmente «legatore» come Varu¬ na, si oppone il buono e calmo Numa,
la cui prima iniziativa una volta di venuto re fu quella di sciogliere il
corpo dei Celeres e come seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Tito
Livio, I, 20) i tre flamines maio- res. Numa è privo di ogni passione,
anche di quelle sti mate dai barbari, come la violenza e l’ambizione
(Plut. Numa, 3, 6). Di conseguenza, le affinità dell’uno sono tutte
per la funzione guerriera, quelle dell’altro per la funzione di
prosperità. Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei tre
trionfi, prescrive ai Romani: rem militarem colant (Tito Livio, I, 16,
7). Numa si assegna il compito di disabituare i Romani alla
guerra (PI ut. Numa, 8, 14) e la pace non è rotta in alcun momento del
suo re¬ gno (ibidem, 20, 6); offre un buon accordo ai Fidenates che
compiono razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo
una va¬ riante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle
forme che im¬ pediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso,
II, 72; Plu¬ tarco, Numa, 12, 4). Distribuisce ai cittadini
indigenti i territori occupati da Romolo «per sottrarli alla miseria,
causa quasi necessaria della perversità, e per spingere verso l ’ag
ricoltura lo spirito del popolo, che domando la terra si addolcirà»-,
divide tutto il territorio in vici, con ispettori e com¬ missari che lui
stesso controlla « giudicando i costumi dei cittadini in base al lavoro,
premiando con onori e poteri coloro che si distinguono perla loro
attività, biasimando i pigri e correggendo le loro negligen¬ ze» (Plut.
ibid. 16,3-7). Limitiamo a ciò la comparazione che potrebbe comunque
proseguire dettagliatamente, poiché è evidente che gli an¬ nalisti si
sono ingegnati a spingere in ogni direzione l’opposizione tra i due re,
l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse ucciso da que¬ sti)
senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis, sepolto
piamente dai senatori, antenato di numerose genti. Delle pretese
gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno potuto introdurre più
di un dettaglio e in di verse epoche in queste «vite parallele inverse» e
sicuramente in quella di Numa. Ma è chiaro che queste stesse
innovazioni si sono uniformate a un dato tradizionale, la cui intenzione
era di illustrare due tipi di re, due modelli di sovranità, quelli stessi
conosciuti dall’India sotto i nomi di Varuna e Mitra. 21.
Tullo Ostilio e la funzione guerriera Dopo la funzione sovrana la
funzione guerriera, dopo Romolo e Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise
presenta ad Enea ( En . VI, 815) come colui «che riporterà alle armi, in
arme, i cittadini divenuti casa¬ linghi e disabituati ai trionfi». Arma,
come auspicia e sacra per i suoi predecessori, segnala qui l’essenza del
suo carattere e della sua opera: militaris rei institutor dirà Orosio e
prima di lui Floro: «La regalità gli fu conferita in base al suo
coraggio: è lui che ha fondato tutto il siste¬ ma militare e l'arte della
guerra; di conseguenza dopo aver esercitato in maniera sorprendente la
iuventas romana osò provocare gli Alba¬ ni». 22.1 miti di Indra
e la leggenda di Tullo Ostilio È in questo caso che il confronto
tra l’epopea romana e la mito¬ logia ha dato ( 1956) i risultati più
inattesi e ha permesso di ampliare lo studio dettagliato della funzione
guerriera indoeuropea, il cui solo confronto della teologia esplicita non
lasciava intravedere che i mag¬ giori aspetti: nelle loro «lezioni» ma
anche nelle loro affabulazioni, i due episodi solidali che costituiscono
la «storia» di Tulio - la vittoria del terzo Orazio sui treCuriazi e il
castigo di Mezio Fufezio che salva¬ no Roma del pericolo che correva il
suo nascente imperium, uno per la subordinazione di Alba, l’altro per la
sua distruzione - rispecchiano da vicino i due principali miti di Indra
che la tradizione epica presenta spesso come conseguenti e solidali, cioè
la vittoria di Indra e di Trita sul Tricefalo e la morte di Namuci. Non è
possibile qui che mettere in un quadro schematico le omologie, pregando
il lettore interessato di riportarsi al libro in cui gli argomenti e le
conseguenze sono lunga¬ mente esposti. A, a) (India).
Nell’ambito della loro rivalità generale coi demo¬ ni, gli dèi sono
minacciati dall’imbattibile mostro a tre teste che è tut¬ tavia il
«figlio dell’amico » (nel Riveda) o il cugino germano degli dèi (nei
Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e cappellano degli dèi:
Indra (nel Rgveda) spinge Trita «il terzo» dei tre fratelli Àptya, a
uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide, salvando gli dèi. Ma
quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di un brahmano, com¬
porta un’impurità che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che la liqui¬
dano ritualmente. Da allora gli Àptya sono specializzati nell’eli¬
minazione delle diverse impurità e in particolare, in ogni sacrificio, di
quella che comporla l’inevitabile messa a morte della vittima. b)
(Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e Alba si disputano
Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli Orazi e i tre
gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella degli Orazi e
che, anche nella versione seguita da Dionigi di Alicar- nasso, sono
cugini germani degli Orazi). Nel combattimento ben presto non
rimane che un Orazio, ma questo «terzo» uccide i suoi tre avversari dando
Vimperium a Roma. Nella versione di Dionigi questa morte dei cugini
rischia di produrre un’impurità, ma una nota del casista la evita: poiché
i Curiazi hanno accettato per primi l’idea del combattimento, la
responsabilità cade su di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal sangue famigliare
è ripartita subito, trasferita, su un episodio che non ha paralleli nel
racconto indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha maledetto
per la morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare
quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio:
la data di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle
campagne militari (calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni
riguardavano (da là la leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a
Roma, macchiati dalle inevitabili morti della battaglia. B,
a) (India). Il demone Namuci dopo leprime ostilità conclude un patto di
amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo «né di giorno né di
notte, né col secco né con l'umido ». Un giorno, approfit¬ tando a
tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è stato messo dal
padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi at¬ tributi:
forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso gli dèi
canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli ren¬ dono
la sua forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola data pur
violandola: egli non deve che assalire Namuci all’alba (quando non è né
giorno né notte) e con della schiuma (che non è né secca né umida). Indra
sorprende così Namuci che non sospetta c lo decapita in maniera bizzarra,
«burrificando» la sua testa nella schiuma. b) (Roma). Dopo la
disfatta dei tre Curiazi, il capo degli Albani, Mezio Fufezio, si pone in
Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù della convenzione. Ma
segretamente tradisce il suo alleato e durante la bat¬ taglia contro i
Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scopren¬ do il fianco
dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti alla divinità
della terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché al corrente
del tradimento di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e convoca al
pretorio, per felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là sorprende
Mezio, lo fa afferrare e lo condanna a una pena unica nella storia di
Roma, lo squartamento. 23. Rapporti della funzione guerriera con le
altre due Attraverso questi miti e queste leggende è tutta una
filosofia della necessità, dell’impeto cdei rischi della funzione
guerriera, che si esprime, come pure una concezione coerente dei rapporti
di questa l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio;
e con l’aspetto «Mitra-Fides» della prima che tuttavia non rispetta
affatto e che non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei
pericoli, come potrebbe mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi
questa azione disarmandola di fronte ai pericoli? Anche i rapporti di
Indra e Tulio Ostilio con l’aspetto «Varuna-Jupiler» della funzione
sovrana non procedono senza scontri: abbiamo già ricordato gli inni
vedici in cui Indra sfida Varuna, vantandosi di sconfiggere
la sua potenza (e gli Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo oppongono
Ódinn e Pórr in un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a Roma uno
scandalo vi¬ vente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la
ten ibile vendet¬ ta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende
contro questo re troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo
tempo. Un’epidemia colpisce le sue truppe da lui obbligate tuttavia
a continuare la guerra, sino al giorno in cui egli stesso contrae una
lunga malattia; dice allora Tito Livio (I, 31,6-8): «lui, che
fino a questi tempi aveva creduto che niente è meno degno di un re che
applicare il proprio spirito alle cose sacre, improv¬ visamente si
abbandonò a tutte le superstizioni, grandi e piccole, e propagò anche fra
il popolo delle vane pratiche... Si dice che il re stes¬ so consultando i
libri di Numa vi trovò la ricetta di certi sacrifìci se¬ greti in onore
di Jupiter Elicius. Egli si appartò per celebrarli. Ma sia all’inizio che
nel corso della cerimonia commise un errore rituale, di modo che, invece
di veder comparire una figura divina, irritò Jupiter con un'evocazione
mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui e la sua casa»
Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il
grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è per¬ ché
egli è un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che
più interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era
l’unica a onora¬ re, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei
tempi delle sue origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella
persona di Romolo e Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re,
che abbia¬ mo visto opposto a Numa nella seconda ed ultima parte della
sua car¬ riera, e il Romolo prima di Roma, il Remo cumfratre Quirinus.
Questa differenza risalta in effetti a proposito della stessa fondazione,
nella disputa degli auspici e nella morte d i Remo: Romolo cessa allora
di es¬ sere «uno dei due gemelli», il socio fedele e senza contesa di suo
fra- 113 tello, per diventare il re
prestigioso, creatore, terribile, tirannico e isti¬ tutore di quegli
uomini che portano davanti a lui delle corde, pronte a «legare» nel senso
letterale del termine, al pari del suo omologo del pantheon vedico,
Varuna, armato di lacci. La corrispondenza tipologica dei gemelli
dell’epopea romana e degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la
lista trifunzionale indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da
Alba, e alla fondazio¬ ne dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori
allevati da un pastore, vivono una vita esemplare da pastori messa in
risalto solo da un gusto marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In
questa definizione pastorale l’evoluzione della proto-civilizzazione
romana (scomparsa del carro da guerra) ha eliminato la «parte del
cavallo» (in evidenza nella parola ASvin), non rimane quindi che la «parte
del bue e del montone», per si¬ tuare maggiormente Romolo e Remo
nell’economia rurale. I Nàsatya, come si ricorderà, sono
inizialmente tenuti a distanza dagli dèi perché troppo «mescolati agli
uomini» ( Éat. Brùhm ., IV, 1,5, 14, etc.) e nella letteratura posteriore
saranno considerati come degli dèi Sfldra, dèi di ciò che vi è di più
basso e fuori-casta, in rapporto alla società ordinata. Così
vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi è in essi niente
di «sovrano», nessun rispetto per 1 ’ ordine. Devoti ai più umili,
disprezzano gli intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del re
(Plutarco, Romolo, 6, 7). Il gruppo che li seguirà nella loro rivolta
sarà un gruppo di pastori (Tito Livio, 1, 5, 7) o un’assemblea di indi¬
genti o schiavi (Plutarco, Romolo , 7, 2) prefiguranti l’eterogenea po¬
polazione dell’Asilo ( ibidem , 9, 5). Sono raddrizzatori di torti:
come i Nàsatya passano il loro tem¬ po a riparare le ingiustizie degli
uomini o della sorte. Essendo sempli¬ cemente degli dèi i Nàsatya
compiono le loro liberazioni, restaurazio¬ ni e guarigioni per mezzo di
miracoli, mentre Romolo e Remo non possono ricorrere che a mezzi umani
per proteggere i loro amici contro i briganti, ristabilire nei loro
diritti i pastori di Numitore maltrattati da quelli di Amulio e,
finalmente, punire Amulio. Uno dei più celebri ser¬ vigi dei Nàsatya,
origine della loro fortuna divina, è stato quello di aver ringiovanito il
vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa di Romolo e Remo, origine
della fortuna del primo, fu allo stesso modo quella di aver riabilitato il
loro vecchio nonno che era stato privato del¬ la regalità di Alba.
I due Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono in¬
sieme ma tuttavia un testo segnala una grave disuguaglianza che ricor¬ da
quella dei Dioscuri greci: uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è fi¬
glio di un uomo. La disuguaglianza dei gemelli romani è differente ma
considerevole: uguali per nascita, uno solo di essi proseguirà la sua
carriera diventando un dio - il dio canonico della terza funzione, Quiri¬
no -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i soli onori abi¬
tuali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro {Fasti, II
395-6): « ut quam sunt similes! At quamformosus uterque! Plus tamen ex
illis iste vigoris habet ...» Certe azioni estranee ai Nàsatya -
mal conosciute come tutta la loro mitologia - sembrano ricordare dei
tratti della leggenda di Romo¬ lo e Remo, talvolta solo con una
inversione (protettori e non protetti) che testimonia come essi siano
degli dèi e i gemelli romani degli uomi¬ ni. Uno dei servigi frequenti
dei Nàsatya è di fare cessare la sterilità delle donne e delle femmine;
ora, Romolo e Remo sono i primi capi dei Luperci, un compito dei quali è
di rendere madri le donne romane con la flagellazione (una leggenda
eziologica, che pone l’origine di questo rito dopo la fondazione di Roma
c il ratto delle Sabine, dice che è stato destinato inizialmente a far
cessare una sterilità generale). In tutto il Rgveda il lupo è un
essere mal visto, è il nemico; l’unica eccezione si trova nel ciclo dei
Nàsatya: un giovane uomo ave¬ va sgozzato cento c un montoni per nutrire
una lupa e per punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera
della lupa i gemelli divi¬ ni resero la vista allo sfortunato. Nella
storia di Romolo e Remo, c solo in essa a Roma, non è più in quanto
nutrita ma come nutrice che la lupa occupa il posto eminente che ben si
conosce. Nei riti e nelle leggende dei Luperci (Ovidio, Fasti, II,
361-379), nel racconto sulla giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco,
Romolo, 6, 8) le corse giocano un ruolo considerevole; ugualmente le
corse in carro ncl4 mitologia degli ASvin. Un aspetto sfortunatamente
oscuro della festa rustica di Palcs (il «cavallo mutilato», curtus
equos), come pure il concetto stesso del¬ la dea «Pales», così
strettamente legato a Romolo e Remo e alla fonda¬ zione di Roma,
ricordano la leggenda in cui i Nàsatya rimettono in for- ze
la giumenta detta «Pula del w.f» (vis, principio della terza funzione e
anche «clan») che durante una corsa si era spezzata le gambe. Questo
confronto sommario è sufficiente a stabilire che, nella loro carriera
«preromana», Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai Nàsatya
come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corri¬ spondono a
Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo muore verrà deificato sotto
il nome del dio canonico della terza funzione, Quirino, ritornando quindi
al suo valore primigenio e, sia dello di sfuggita, questa notevole
convergenza spinge a rivedere l’idea gene¬ ralmente ammessa che
l’assimilazione di Romolo a Quirino sia secon¬ daria e tardiva.
25. La terza funzione, fondamento delle altre due Riguardo
l’ordine di apparizione delle tre funzioni nell’epopea delle origini
romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello stesso Romolo da «Nàsatya»
in «Varuna», queste non sono senza paralleli c rivelano un aspetto della
struttura trifunzionale che ancora non abbiamo avuto occasione di
segnalare. Vediamo qui come una conferma del fatto cer¬ to che, se è vero
che la terza funzione è la più umile, nondimeno essa è il fondamento e la
condizione della altre due. Come vivrebbero maghi e guerrieri se i
pastori-agricoltori non li sostenessero? Nella leggenda iranica, Yima al
pari di Romolo diviene un re prestigioso e eccessivo sfidando Ahura Mazda
- dopo essere stato differenzialmente, nella primaparte della sua vita,
un buon «eroe della terza funzione» dai ric¬ chi pascoli, sotto cui la
malattia c la morte non affliggevano ne l’uomo né la bestia né le piante
( Yust , XIX, 30-34). Nell’epopea osscla (vedi sopra I § 4), i due
gemelli /Exsaert e /Exsaertacg, dei quali il secondo uc¬ cide il primo in
un eccesso di gelosia, genera poi la famiglia degli i£xsaertaegkalae (la
famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono usciti se¬ condo certe
varianti dalla razza di «Bora», cioè dai Boratae (una fami¬ glia di
ricchi). È la stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani
sulla stessa area sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi
corrispondenti alle tre funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli
dèi, un fuoco che difen¬ de contro i demoni e un fuoco padrone della
casa; ora, quest’ultimo presenta i caratteri di un «fuoco vatéya» che è
il fuoco fondamentale acceso per primo e che serve per accendere gli
altri. 26. Sviluppo della ricerca Il lettore è
stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui sono classificati i
risultati ma, per la teologia e la mitologia di ognuna delle tre
funzioni, e notoriamente della seconda e della terza, lo si è l'at¬ to
penetrare nel campo degli stessi scavi in cui il comparatista si batte
ancora con la sua materia. Il lavoro continua, con le sue procedure or¬
dinarie che non sono solo ritrovamenti nuovi ma anche delle correzio¬ ni,
delle reinterpretazioni dei dettagli alla luce dell’insieme meglio
compreso e generalmente delle riflessioni critiche sui bilanci anterio¬
ri. Prima di prendere congedo la guida deve ricordare che, per impor¬
tante o centrale che sia l’ideologia delle tre funzioni, essa è ben lungi
dal costituire tutta l’eredità indoeuropea comune che l’analisi compa¬
rativa può intravedere o ricostruire. Un gran numero di altri cantieri
più o meno indipendenti sono aperti : sugli «dèi iniziali», sulla dea Au¬
rora e su qualche altro, sulla mitologia delle crisi del sole, sulle
varietà del sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti
fondamentali del pensiero religioso, la comparazione, e specialmente la
comparazione dei fatti indo-iranici e romani, ha già permesso c
permetterà di ricono¬ scere delle coincidenze che è difficile attribuire
al caso. Note ai paragrafi § 2. La struttura bipolare
della sovranità è l’argomento di MV; il capitolo III di NA studia i fatti
iranici (Vohu Manah c Asa). A proposito di questi ulti¬ mi la critica di
W. LENTZ, «Yasna 2<f», Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz.., 1954, p.
963, non regge; non più dei poeti del Riveda per Mitra e Varuna, quelli
delle Gàthà avevano la preoccupazione, in tutte le circostanze o in molte
circostan¬ ze, di caratterizzare differenzialmente Vohu Manah c Asa;
questo è vero per lo Yasna 28 in cui ogni strofa nomina
contemporaneamente le due Entità esattamente come RV, V, 69, in cui ogni
strofa nomina simultaneamente i due dèi senza cercare di distinguerli.
Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The f>reai Vohu Manah and thè
Apostle ofGod, 1945. Per Mi9ra e Ahura Mazda nella nuova prospettiva vedi
MV, cap. V, § v (da correggere dopo WlDEN¬ GREN, Numen, I, 1954, p. 46,
n. 148); J. DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre , 1948, pp. 87-93; da S.
WlKANDER, Orientalia Suecana, I, 1952, pp. 66-68 (sul Mesoromazdés di
Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon F
oceano, f ortemente marcata da H. LUDERS, Varuna , I ( Varuna linci die
Was- ser), 1951, sarà esaminata ulteriormente i n un quadro
comparativo. § 3. MV, cap. IV. § 4. MV, cap. VII: si
hanno ora le esposizioni di J. DE VRIES, Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, 1957,
§§ 409-412 e di W. BETZ (vedi sopra, nota a II, §§ 19-20) «Die altgerm.
Religion», col. 2485-2498. § 5. Le troisième souverain, essai sur
le_ clieu indo-ircuiien Aryaman, 1949; DIE, pp. 40-59. Su Aditi, madre
degli Aditya, in quanto «madre e fi¬ glia» di uno di essi, vedi Déesses
latines et mythes védique , 1956, cap. III. Ri¬ fiutando e caricaturando
in ZDMG, 117, 1957, pp. 96-104 la rettifica che avevo proposto alla sua
interpretazione (1938) di ari (non importa quale «Fremdling», ma già con
una nota di nazionalità, l’insieme o un membro del mondo arya - alleato o
avversario), P. THIEME compie il tour de force di di¬ scutere senza
menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto naturale di questa
rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo sintetico, intuitivo,
etc. No: il mio studio su Aryaman procede per una analisi completa e
detta¬ gliata dei testi vedici in cui è menzionato. Esaminerò
successivamente questa curiosa risposta nel JA e spero che P. Thieme
userà più fair play nello studio che sta preparando, mi dicono, su
«Mithra e Aryaman», (vedi l’Appendice). § 6. DIE, pp. 50-51,
riassumendo Le troisième souverain. § 7. DIE, pp. 51-52. Sugli
Àditya Daksa e Amsa, ihid., pp. 55-58. § 8. DIE, pp. 59-67; K.
Barr, Àvesta, 1954, pp. 184-185, 193, 215. § 9. DIE, pp.68-75. Per
Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro nel mondo celtico: come
Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favo¬ re di Jupiter
O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio, così
l'irlandese Mac Oc («il Giovane Figlio»), antico dio protettore della
gio¬ ventù, si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda
e si fa concedere «un giorno e una notte », poi arguendo che il giorno e
la notte fanno la totalità del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro
del luogo («Jeunessc, éternité, aube», Annales d’histoire économique et
sociale , 1928, pp. 289-301. § 10. DIE, pp. 76-77.
§ 11. Vedi la prefazione di Aspects... § 12-24.1 servigi che
bisogna richiedere alla pseudo-storia delle origini romane comparata con
la mitologia indiana o scandinava, sono stati ben pre¬ sto riconosciuti:
JMQ, cap. V; Horace et les Curiaces, 1942, pp. 65-70; Ser- vius et la
Fortune , 1943, pp. 112-119; riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in
«Mythes romains», Revue de Paris, die. 1951, pp. 105-118. Sull’epoca in
cui I’affabulazione definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza
dubbio tra il 350 e il 280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono
inseriti), vedi L’héritage..., p. 181, n. 49. § 13.
L’interpretazione dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S.
WlKANDER in un suo articolo fondamentale, «Pandava-sagan och
Mahàbhàratas myliska fòrutsattningar», Religion neh Bibel, VI, 1947 pp.
27-39, in gran parte tradotto e commentato nel niio JMQ IV, pp. 37-85;
cf. WlKANDER, «Sur le fonds commun indo-iranien des épopées de la Perse
et de l’Inde», NC, VII, 1950, pp. 310-329. Nel dominio germanico un caso
paralle¬ lo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di Njordr) è
stato studialo in La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I, V-VIII), du
mythe au roman, 1953. Mentre il presente libro era in stampa, in
Orientalia Sue vana, sotto il ti¬ tolo «Nakula e Sahadeva». WlKANDER
faceva considerevolmente avanzare l’analisi dei gemelli epici e divini
(vedi sotto § 24). § 14. Su Vàyu-Indra, vedi «Pàndava sagan...»,
pp. 33-36; è il risultalo dei lavori diH.S. NYBERG, Die Reli gioiteti des
altea Iran, 1938, pp. 75, 300, 317; di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini
alten Iran, 1938, pp. 188-215; di S. WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV
ha riconosciuto il dio indo-iranico * Vayu nel nome generico dei
«giganti» (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse- ti, weijug (da
*Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, VI, 1956, pp. 450-457, che io
ho commentato in «Noms mythiqucs indo-iraniens dans le folklore des
Osses», JA, CCXLIV, 1957, pp. 349-352. § 15. Aspects..., pp. 9, 70,
80. § 16. JMQ IV, p. 56. § 17. «Pàndava-sagan...», p.
36; JMQ IV, pp. 59+60, 67-68. § 18. Pandu come trasposizione di
Vanina, vedi JMQ, IV, pp. 77-80. La trasposizione di un mito vedico
(duello di Indra c del Sole, la ruota del carro del Sole «infossata») è
stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna, fratello uterino e
nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli dèi delle tre
funzioni: «Karna et Ics Pàndava», Orientalia Suecana, III ( =Do- num
natal. H.S. Nyberg), 1954, pp. 60-66. Una trasposizione (dei passi di
Visnu al servizio di Indra) è segnalata in «Les pas de Krsna et l’exploit
d’Arjuna», Orientalia Suecana, V, 1956, pp. 183-188; e altri due (i
sovrani minori Aryaman e Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una
conferen¬ za fatta all’Università di Copenhagen nel nov. 1956, pubblicala
quest’anno nell’ Inclo-1 ninian Journal («La transposilion des dieux
souverains dans le Mahàbhàrata»), Il personaggio di Bhlsma sarà
ulteriormente studiato nella stessa prospettiva. § 19. Le
leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due croi che
ricordano, per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio cieco monco
della mitologia scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi
sono Orazio Coclite («il Ciclope») c Muzio Scevola («il Mancino»), i due
salvatori di Roma nella guerra contro Porsenna; la comparazione è stata
sviluppata in MV cap. IX e ripresa diverse volle, specialmente ne
L’heritage..., pp. 159-169 c Loki, 1948, pp. 91-97. Sui primi redi Roma
vedi il riassunto degli studi anteriori in L’heritage..., pp. 143-159; un
notevole «ritocco» parallelo al «ritocco» zoroastriano degli dèi
trasporti in Entità della tradizione romana nel De Republica di Cicerone,
è stato studiato in «Les archanges de Zoroastrc et Ics rois romains de
Ciceron», JP, XLIII, 1950, pp. 449-463. 119 §
20. Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane..., pp. 146-154.
§21. Horate et les Curiaces, 1943, pp. 79-88; L ’héritage..., pp.
154-156. § 22. Aspetta ..., pp. 15-61: «La geste deTullus Hostilius
et les mythes de Indra»; cf. pp. 3-14 dello stesso libro, studio
dell’Indra vedico come «solita¬ rio» a dispetto dei suoi associati ( ekci
-) e come «autonomo» (sva-). La biblio¬ grafia degli studi comparativi
sullasecondafunzioneèdatain DIE, pp. 38-39 e completala in Aspetta..., p.
1. § 24. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli
Nàsa- tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, «Harlekintracht...»,
Orientalia Sueca- na , II, 1953, pp. 96-97; Aspetta..., pp. 20-21. Non ho
ancora pubblicato su questa interpretazione dei gemelli romani il libro
preparato nel 1951-1952; è comparso solo un frammento: «Le turtus equos
de la fète de Pales et la muti- lationde lajument ViSpala», Ercinos, LIV
(=G. Bjiirck meni. Saturni), 1956, pp. 232-245. Altre corrispondenze tra
dèi ed eroi gemelli dei diversi popoli indoeuropei sono state segnalale
in La saga de Hadinf>us, 1953, pp. 114-130, 151-154.1 Dioscuri greci
sono solo parzialmente comparabili. Sembra che altri aspetti della terza
funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e del commercio; piacere)
abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma, Anco Marzio,
successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III («Jactanlior Ancus») e
la discussione con J. Bayet in JMQ IV, pp. 185-186 (dove impor¬ tanti
questioni di metodo sono toccate). § 26. DIVINITÀ: sugli «dèi
iniziali», vedi «De Janus à Vesta», Tarpeia, pp. 31-113 (=JMQ it., pp.
287-353), DIE, pp. 84-105; in Rituels..., pp. 33-39, sono state rilevate
delle concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di Vi- vasvat; in
Déesses latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno
chiarificaio e giustificaio le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas;
vedi anche RENOU, Études védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les
Hymnes à l'Aurore du Riveda, pp. 1-104, specialmente pp. 8-9,10, 65),
della silenziosa Diva Angerona, dea degli angusti dies del solstizio
d’inverno (cf. Atri opero¬ sa con la preghiera silenziosa nella crisi del
sole), della Fortuna Primigenia prenestina, madre e figlia di Jupiter
(cf. Aditi, madre e figlia del sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti).
RITUALI in «Suouetaurilia», Tarpeia, pp. 115-158 (= JMQ it., pp. 355-388)
si è stabilito lo stretto parallelismo di que¬ sto sacrifico triplice,
offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di un loro, di
un montone c di un capro a Indra «Buon Protettore»); in Rituels in-
doeuropéeus à Rome (oltre a qui sopra, I, § 21), i Fordicidia sono stali
resi chiari, nei dettagli dei riti, dal sacrificio vedico della «Vacca
dagli otto pie¬ di»; l’opposizione del santuario rotondo di Vesta c di
templi quadrati, orien¬ tali, è stala riavvicinata all’opposizione tra il
fuoco rotondo (di riserva e di accensione, «fuoco del padrone di casa»,
attaccalo alla terra) e il fuoco qua¬ drato (che dirige verso gli dèi le
offerte degli uomini) sull’ara sacrificale ve- dica; i rapporti rituali
degli equidi, c in special modo del cavallo, con ciascuno dei tre livelli
funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a Roma che
nell’India vedica; in «Quacstiunculac indo-italicac, 1-3» (da pub¬
blicarsi in REL, XXXVI, 1958) il tulmen inane fabae della fumigazione dei
120 Parilia, i pisciculi vivi gettati nel fuoco
durante i Volcanalia e la prescrizione bigarum victricum clexterior del
Cavallo di Ottobre sono chiarificati dai dati vedici. SACERDOZIO (oltre a
qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ): «Meretrices et virgines
dans quelques légendes politiquesde Rome et des pe- uples celtiques»,
Ogcnn, VI, 1954, pp. 3-8; «Remarques sur le ius feriale », REL, XXXIV,
1956, pp. 93-111; REL, XXXV, 1957, pp. 126-151, contiene uno studio su
augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: «A propos de latin ius». RHR,
CXXXIV, 1947-48, pp. 95-112; «Ordre, fantasie, changemente dan les pensées
archaiques de l’Inde et de Rome, à propos de latin mos», REL, XXXII,
1954, pp. 139-160; in «Maiestas elgravitas, de quelques diffé- rences
entre les Romains et les Austronésiens», RP, XXVI, 1952, pp. 7-28 e
XXVIII, 1954, pp. 9-18; queste sono invece due nozioni prettamente romane
che sono state analizzate contro la scuola primitivista; su gratus, gratin
emi¬ nentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V, Vili,
70,5), vedi L.R. PALMER, «The Concept of Social Obligation in
Indo-European», Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. M. Niedennann), 1956, pp.
258-269. E. BENVENI- STE ha delucidato comparativamente un gran numero di
nozioni religiose e sociali, vedi in special modo «Symbolisme social dans
les cultes gré- co-italiques» RHR, CXXIX, 1945, pp. 5-16 (vedi una conferma
di un dato importante nel mio Rituels...)', «Don et échange dans le
vocabulaire in- do-éuropéen», L'Année Sociologique, 1951, pp. 7-20 e
«Formes et sens de pvaopai», Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (=
Festschr. A. Debrun¬ ner), 1954, pp. 13-18. Storia
degli Studi e bibliografìa Dopo lo scacco del saggio intelligente
ma prematuro fatto dalla scuola di Adalbert Kuhn (1812-1881) c di
Friederich Max Miiller ( 1823-1900) teso a ricostruire la mitologia
comune degli Indoeuropei, l’impresa fu per un certo tempo dichiarata
illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di Wilhelm Mannhardt
(1831-1880), gli studi si spostaro¬ no sui rituali e le credenze
agricole, popolari, di un tipo abbastanza uniforme per tutta l’Europa e
ci si applicò a ridurvi, senza pretendere di stabilire filiazioni né
parentele particolari, un gran numero di culti e miti delle diverse
religioni e in special modo quelle dei popoli classici. Da un’altra
parte, per effetto della crescente settorializzazione delle specialità,
gli studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, ger¬ manico,
etc., rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono per
spiegare la genesi e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle
ipotesi che presero sovente per dati di fatto e che non si accordavano
che per un punto: la riduzione a poche cose, per non dire a niente,
dell’eredità conservata dal passato comune indoeuropeo. Rari autori
continuavano a parlare di «religione indoeuropea» come ad esempio A.
CARNOY, Les Indoeuropéens (1921) p. 154-240. Tuttavia nel secondo
quarto di questo secolo si produssero delle reazioni. In Germania bisogna
citare prima di tutto: H. GUNTERT, Der Arische Weltkonig und Heiland
(1923); R. OTTO, Gotlheit und Got- theilen derArier (1932); F. CORNELIUS,
Indogermanische Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che
prosegue brillantemente, degli articoli c dei libri di F.R.
Schroder. A partire dal 1924 e nel corso di dodici anni io stesso
ho fatto un primo sforzo di revisione della «mitologia comparata», ma con
dei 123 mezzi filologici insufficienti e
rimanendo prigioniero, per la spiega¬ zione, delle concezioni
mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le crime des
Lemniennes 1924 e qualche articolo di cui non vi sono grandi cose da
ritenere; il Leproblème des Centaures, 1929 e Flamen-Brahman, 1935, i cui
frammenti rimangono utilizzabi¬ li). Non è che a partire dal 1938 che,
inizialmente solo e poi, dopo il 1945, raggiunto e spesso superato da
altri ricercatori, spero di essere riuscito a delineare dei tratti
importanti della struttura dell’eredità in¬ doeuropea comune, in una
coscienza più chiara delle condizioni c dei mezzi deH’inchiesta.
Quest’inchiesta non si riporta ad alcun sistema preconcetto di
spiegazione, ma utilizza gli insegnamenti della socio¬ logia e
dell’etnografia, come pure il ricorso all’analisi linguistica dei
concetti. Essa ha due postulati: ammette che tutto il sistema
teologico e mitologico significa qualcosa, aiuta la società che lo
pratica a com¬ prendersi, ad accettarsi, ad essere fiera del suo passato,
confidante nel presente e nell’avvenire; ammette anche che la comunità di
lingua, presso gli Indoeuropei, implica una misura sostanziale
dell’ideologia comune alla quale deve essere possibile accedere grazie a
una varietà adeguata del metodo comparativo. Una circostanza,
sulla quale un articolo di J. Vcndryes aveva at¬ tirato l’attenzione sin
dal 1918, ha dato il via all 'inizio di molte ricer¬ che: il vocabolario religioso
degli Indo-Iranici da una palle c quello dei Celti e degli Italioti
dall’altra presentano un gran numero di con¬ cordanze precise e che sono
loro proprie. Un articolo-programma del 1938 «La préhistoire des flamines
majeurs», RHR, CVIII, pp. 1 88-200 ha dimostrato che questa
parentela prossima non si riduce al vocabolario ma si estende alla
struttura della religione. E dal 1938, in ogni tipo di materia, è in
effetti la comparazione dei dati vedici o in¬ do-iranici e dei dati
romani che ha fornito i primi risultati precisi sui quali è stato
possibile fondare delle comparazione più vaste. Così illuminati, i
fatti germanici (benché il vocabolario religio¬ so sia interamente
differente) si sono ben presto rivelati anch’essi no¬ tevolmente fedeli
al passato indoeuropeo. Benché conformandosi ai grandi quadri
indoeuropei, il domi¬ nio celtico pone ancora, in seguito allo stato
della documentazione, un gran numero di problemi irrisolti. La Grecia -
per effetto senza dubbio 124 del «miracolo
greco» e anche perché le più antiche civiltà del Mare Egeo hanno troppo
fortemente segnato gli invasori venuti dal Nord - contribuisce poco allo
studio comparativo: anche i tratti più conside¬ revoli dell’eredità sono
stati profondamente modificati. Quanto agli altri popoli del mondo
indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli Slavi, non si è ancora
riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali lavori in cui è stata
progressivamente analizzata l’ideologia tripartita degli Indoeuropei che
il presente libro espone sono i seguenti': Mythes etdieuxdes
Gennains, essaid’interprétation compara¬ tive 1939 (citato MDG)
Mitra-Vurunu, essai sur deux représentations indoeuropéen- nes de
la souveraineté 1940, II ed. 1948 (citato MV) Jupiter Mars
Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne de la société et sur Ics
origines de Rome, 1941 (citato JMQ) Naissance de Rome (=JMQ II) 1944
(citato NR) Naissance d'Archanges, essai sur la formation de la
théologie zoroastrienne (=JMQ III), 1945 (citato NA) Jupiter
Mars Quirinus IV, 1948 (citato JMQ IV) L ’heritage indoeuropèe !? à
Rome, introduction aux séries «JMQ» et «Mythes Romains», 1949
Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman, 1949 Les dieux
des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE) Rituels Indoeuropéens à Rome,
1954 Aspects de lafonction guerrière chez les Indoeuropéens,
1956 Déesses latine set mythes védiques. Coll. Latomus, XXV, 1956
Una traduzione italiana di una versione migliorata in diverse
parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia (1947) e di JMQ IV, è
stata pubbl icata nel 1955 a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars
Quiri- I Attualmente sto preparando un rimaneggiamento unitario di
JMQ. NR. NA ehc sarà pubblicalo, come questi tre libri, presso Gallimard.
Aspettando, l’edizione italiana dei primi due Corniscc un’idea delle
correzioni giudicale necessarie: le parli che non sono state tradotte
sono da eliminare. 125 ìtus (citato JMQ it.) 2
. Delle questioni di metodo, che io qui non affron¬ to, si trovano
discusse nelle prefazioni della maggior parte di questi li¬ bri e, più
sistematicamente, nel primo capitolo de L’heritage ... («Materia, oggetto
e metodi di studio»). 2 AUre abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL
= Beitrage zur Geschichte der Deutschen Sprache und Literatur: FFC =
Folklore Fellows Communications; J A = Journal Asiati que; JAOS = Journal
of thè American Orientai Society; JP = Journal de Psichologie: NC = la
Nouvelle Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines; RHA = Revtte Hittite et Asianique;
RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV = Riveda; RP = Revtte de
Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse; SBE = Sacred Books of
thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle Religioni ; TPS =
Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir Celti
sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen
Gesellschafl. 126 Appendice
Aryaman e Paul Thieme Mentre correggo le seconde bozze di questo
libro (maggio 1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra
(nota al cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue
speranze che esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti
dell’articolo del JA, concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato
nello stesso paragrafo e vi aggiungo (III) qualche riflessione
provvisoria su Mitra and Aryaman. Per non creare confusione lascio alle
note di I e II i nu¬ meri che avranno nel JA. Abbreviazioni: F. = P.
Thieme, Der Frem- dling im Rig Feda, 1938; S = il mio Troisième
Sauveraine, 1949; Z = P. Thieme, Ari, «Fremder», ZDMG, 117, 1957. pp.
96-104. I Ma è soprattutto nei confronti del dio
vedico, e prima ancora in¬ do-iranico, Aryaman, che il saggio di Thieme
rivela la sua debolezza. In virtù dell’ipotesi {ari = «lo straniero»,
qualunque sia) c del senso che ne risulta per aryó («l’ospitale»),
Aryaman non può essere che il «dio dell’ospitalità)). È così?
E ancora, sarebbe necessario che negli inni o nei rituali questa
definizione si verificasse sul suo centro, intendo dire, in occasione del
ricevimento di un ospite designato come tale. Ora, non soltanto non vi è
un testo rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e quello di
127 Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia,
Aryaman non è né invo¬ cato né menzionato ritualmente all’arrivo di un
visitatore. Non biso¬ gna concludere un’assenza dal silenzio: è tuttavia
curioso, se il concet¬ to di ospitalità è stato sentito tanto importante
da essere personificato in uno dei due dèi sovrani, e nel più
considerevole dopo Varuna e Mi¬ tra, che questa origine non abbia avuto
nessuna occasione per espri¬ mersi chiaramente. Mitra, il contratto
personificato, è certo come dio molto più del contratto, ma si trovano
dei testi in cui questo legame è manifestato e sottolineato con delle
parole senza ambiguità. Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo
corrispondente avesti- co Airyaman, intervengono in circostanze che,
salvo violenza, sono irriducibili all’ospitalità. Ne ricorderò solo
due. Prima di Thieme molti vedisti avevano notato, con delle
con¬ clusioni talvolta eccessive o errate, i rapporti tra Aryaman e il
matri¬ monio. 1 testi allegati sono abbastanza numerosi". Per
piegarli alla sua tesi, Thieme è stato indotto a far loro subire dei
trattamenti poco racco¬ mandabili. In tutto il dossier vedico vi sono dei
documenti più chiari e più netti, altri più oscuri o più indeterminati.
Il metodo ordinario è d’informarsi all’inizio sui primi e con questi
chiarificare o precisare in seguito i secondi. Per il caso di Aryaman si
ha, chiara e netta in A V, 1, 60, la formula destinata a procurare un
coniuge, la descrizione che fa di Aryaman la prima strofa:
tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah asyci icchcinn
agruvai pettini utd jàyàm ajànuye «Ecco arrivare Aryaman con i
riccioli sciolti, cercando per questa fanciulla un marito e una moglie
per chi non è sposato». Non meno esplicito vi è in/l V, XIV, 1,
inno rituale del matrimo¬ nio, la strofa 17 che riguarda la giovane
donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum pativédanam
urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti
sono riuniti in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, II 2 ,1927, pp.
74-76, seguiti da un'interpretazione di Aryaman come «Feier», sicuramente
errata. «Noi sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle buone alleanze,
il trovatore dei mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti libero da
qui (= dalla tua casa di ragazza), non da laggiù (= dalla casa
coniugale)». V icino a questi testi ve ne sono altri che riguardano
ancora siala «ricerca della sposa» che diversi episodi precisi del
rituale delle noz¬ ze, nei quali Aryaman interviene sempre, ma associato
ad altri dèi e di conseguenza con un ruolo non immediatamente
identificabile. Ciò che in questi casi incerti può orientare
l’interpretazione è evidente¬ mente la descrizione e la definizione che
su di lui hanno dato i testi espliciti del dossier: egli cerca da ambedue
le parti gli elementi delle coppie coniugali e fa delle buone alleanze
matrimoniali. Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda
cate¬ goria di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e
per tradurli inserendo tra parentesi, a favore della loro
indeterminazione, la sua concezione di Aryaman («die Gastlichkeit», «der
Gott der Ga- stlichkeit», «der Gott gastlicher Aufnahme») e in seguito,
in dieci ri¬ ghe che conclude allusivamente, pretende che ciò che dice
sui testi meno determinati permetta-infine! - di ridurre alla loro «vera»
porta¬ ta questi testi la cui precisione lo imbarazza 13 :
«Von hier aus wirdes nun erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1,
14.1.17, Mp. 1.5.7, die H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu- chungdes
Verhàltnisses zwischen Aryaman und E he gestellt hat, in ih- rer wahren
Bedeutungen zu wùrdigen. Als einer der Genien des Hau- shalts, der auch
bei der Eheschliessung mitwirkt, wird Aryaman als «Gattenfìnder» (A V.
14, 1.17) und Ehevermittler (A V. 6.60.1) schlechthin in Zauberspriichen
genannt, die anscheinend durch die Erwàhnung eines so vornehmen Gottes,
der im R Vin der Gesellschaft des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt,
wirken wollten.» Al di fuori dello stesso procedimento che consiste
nel masche¬ rare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima
frase è ten¬ denzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene
al rituale del matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono
sicuramente 12 F„ §§ 118-124; S. pp. 73-79. 13 F„ §
124. adatti a chiarire la funzione del dio che essi mobilitano.
Pretendere che Aryaman non vi figuri in qual ità, ma semplicemente perché
è un « gran nome» della mitologia, è una spiegazione che generalizzata
permette¬ rebbe all’esegeta di sopprimere in ogni maniera le
testimonianze im¬ barazzanti. Infine, la definizione di Aryaman come
«einer derGenien des Haushalts», è stata utilizzata, pefitio principii,
usando la libertà fornita dai testi meno determinati. Bisogna aggiungere
che alcuni di questi testi resistono al senso che si vuole loro dare. Quando
Aryaman ad esempio è pregato, ancora in un inno di matrimonio, «di
ungere (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia» (o «affinché ella
non in¬ vecchi»)' 4 , Thieme, ricordando che «in ogni paese del
mezzogiorno» 15 il bagno di ospitalità comporta un’unzione d’olio,
traduce intrepida¬ mente: «Mòge Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme)
[Dich= die Braut ] inir der Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht
altseist ( = inJugendschònheitglànzest)». Le giustificazioni di questa
traduzione sono leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale
d’ospitalità e il dativo d’intenzione àjarasàya è volto in un senso
inattendibile; come si può mai dire alla giovane sposa: « Che il dio dell
'ospitalità ti unga con olio affinché tu non abbia l'aria invecchiata »? Viceversa
se si vede in Aryaman il protettore del rapporto che si forma, è
naturale che egli sia pregato di garantire alla sposa lunga vita o
vigorosa vec¬ chiaia. E non è tutto. Thieme assimila
costantemente l’ospitalità e il matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite
e quella che riceve la fi¬ danzata. Ora, le due cose sono differenti: a
dispetto del riferimento a Mrs. Stevenson 16 , l’atto della donna che
entra in casa di suo marito per rimanervi, può identificarsi, nei riti,
con l’atto del visitatore che dopo essere entrato straniero se ne andrà,
benché incaricato del dovere di contraccambiare, ma sempre straniero?
L’accoglienza fatta alla futura madre può forse essere più ospitale,
nello spirito e nei riti, delle ceri- 14 RV, X, 85, 43:
a nati prajath janayatu prujàpatir àjarasàya sùm anaktv
aryamù... Geldner: «Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis
zurhohcn Alicr soli nns Arya¬ man verschinelzcn». 15
Nell'India vedica? 16 F., p. 125, n. 1. 130
monie che in seguito legalizzeranno il neonato come membro
della stessa famiglia? Se bisognasse avvicinare ad altre cose questa
proce¬ dura sui generis del matrimonio, non si dovrebbe pensare
piuttosto all’adozione che all’ospitalità? Le nostre parole
«accoglienza, Aufnahme», creano un’ambi¬ guità che senza dubbio un
Indiano, non più di un Romano, non rischia¬ va di sentire vivamente. Io
resisto particolarmente all’interpretazione datadaThiemead AV,
14,1,39-sempre riguardo il rituale nuziale 17 : aryamnó agnini
pàryetu pùsan [var. ksiprdm] prdtiksante svasuro devaras cu.
«Sie umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o
Pùsan'*, es sehen entgegen Schwàher und Schwager.» Sono certamente
meno ben informato di Thieme sui rituali ve¬ dici: quando un ospite
entrava in una casa gli si faceva fare anche que¬ sta circumambulazione
del focolare, che trova il suo esatto corrispon¬ dente, come molti altri
tratti, nel matrimonio romano (dove ha valore di rito d’incorporazione) e
non nell’ospitalità romana? Se è così m ’ inchino. Altrimenti, messa in
luce dai testi precisi sul ruolo di Arya- 17 F„ § 122.
18 Piuttosto, secondo la variante «schnell». In S., p. 78, vi è una
cantonata nella tra¬ duzione che dopo dieci anni non so ancora se la devo
attribuire a un’ inavvertenza del mio manoscritto o delle mie correzioni
delle bozze: ,f vósuro devàsra.ica è reso con «i suoceri e i cognati»
invece de «i7 suocero c i cognati» il plurale della secon¬ da parola
avendo determinato meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale
della prima. Questo testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire
dopo la giovane sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel
matrimonio Aryaman si interessa a ben di piti che l'unione tra due
esseri: l’intera famiglia è interessata da questo nuovo membro che le
procura un’alleanza con un’altra famiglia (cf. Aryaman qualificato
suhandhù, alla strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119 di S. ho
commesso una svista più umiliante ma senza conseguenze per i miei pro¬ positi,
considerando svasurah di RV, X, 28, 1 come padre della moglie (possibile
nel sanscrito classico ma non nel vedico) emettendo la strofa in bocca al
marito. E l’inverso. La moglie parla e si sorprende che il padre di suo
marito non sia venuto al festino preparalo, mentre vi.ivo... anyó arlh
«ogni altro ari, tutto il resto dell'insieme ari » (e non facendo sparire
la parola essenziale «altro», « jederunde- re, niimlichjeder ari»,
Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di questo testo, per i rapporti
di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente a condizione che si
rimpiazzi «genero» con «nuora» (e co.si « prendere moglie» con « prendere
mari¬ to » e «ha scelto la jigliadel suocero» con «è stato scelto dai
figli del suocero»). man nel matrimonio, l’espressione «fuoco di Aryaman»
per designare eccezionalmente qui il focolare intorno al quale si forma
il legame mi sembrerebbe fare semplicemente riferimento a questo ruolo.
Sono queste le principali ragioni per le quali non mi è possibile dedurre
il ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla definizione che
esige l’ipotesi di Thieme. L’Airyaman avestico è invocato (
Yasna 54, 1) per sostenere «gli uomini e le donne di Zoroaslro» e il Buon
Pensiero; è detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni
resistenza, vincitore dei nemici (ibid. , 2); la preghiera che è invocata
dopo di lui è onnipotente e guari¬ trice (Yast III, 5); Aryaman stesso è
l’eroe di una scena mitica in cui questa preoccupazione di guarigione è
al primo posto: quando Angra Mainyu creò, contro la creazione di Ahura
Mazda, le 99.999 malattie, il gran dio dopo uno scacco subito da ManGra
Spanta (la «Formula Efficace»: l’agente della maggiore delle tre forme di
medicina) si av¬ vicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di
quella che doveva divenire in seguito una delle purificazioni rituali del
mazdeismo 19 . Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità?
Thieme non tenta la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è
un’innovazione, un uso fuori dal dominio di un dio sentito come
importante: «Man hai also von Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der
AV von A/yaman», dice lui facendo allusione alla fine del § 124 che ho
cita¬ to 20 Temo che questa sia una maniera troppo rapida per eliminare
un elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene per altri aspetti
di Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio,
strumento utile di comunicazione sociale 21 : ci si riferisca all’analisi
del mio Troi- sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far
capire che Aryaman è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità.
Infatti nell’ ospitalità senza dubbio, ma anche nella conclusione dei
matrimo¬ ni, l’Aryaman vedico patrocina i rapporti sociali all’interno di
un gruppo di uomini in cui bisogna che non solo l’ospitalità ma anche
il matrimonio siano possibili. 19 F. § 126-128; S„
81-83. 20 V. qui sopra n. 13. 21 S., p. 141-149. Per il
trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F., vedi S., p.
137-139. 132 L’Airyaman iranico protegge in una
maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di uomini e donne della
«buona società», definita dopo la riforma zoroastriana solamente in base
alla religione e non alla nazionalità. Bisogna dunque che il
concetto di arya - nel nome di Aryaman sia altra cosa rispetto a quello
detto da Thieme: minore in estensione, poiché il matrimonio non è
possibile con alcun ospite, ma più ricco in comprensione, poiché oltre
all’ospitalità comporta altre forme di lega¬ mi e in special modo
l’attitudine a contrarre il matrimonio. Si è così costretti a introdurre
in questo arya-e quindi in ari, un valore di nazio¬ nalità.
II Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in
S p. 113-127] (Icariano», collettivamente o genericamente), rende
conto di tutti i derivati e si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi
ai quali si adattava il valore generale («der Fremde, der Fremdling») di
Thieme, rende inoltre conto di un testo che resisteva a quest’ultimo. Il
dossier di ari contiene in effetti almeno un testo che direttamente
impone una traduzione limitata e mi sorprende che Thieme non l’abbia
riconside¬ rato nella difesa che mi oppone. Questo è RV, IX, 79, 3:
uta svàsyd ardtyd arir hi sa utdnydsyd ardtyd vrko hi
sah La costruzione e il senso sono limpidi:
«[Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari.
[Proteggici] dalla nocività aliena: poiché è il lupo.» Questi
versi simmetrici presentano, distribuiti in due rapporti equivalenti,
quattro termini, tre dei quali sono conosciuti e forniscono di
conseguenza un’eccellente equazione per determinare l’incognita, ari : vi
è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò che è proprio,
imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro, este¬ riore,
straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka designa l’uomo
che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comporta¬ mento è
selvatico. Così ariè. precisato negativamente come un tipo di nemico
distinto da questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al di fuori
del gruppo i cui membri sono degli svà\ positivamente ari è definito come
intemo a questo gruppo. La traduzione e il commentario fatto da Thieme a
questo passaggio devono essere citati per intero 12 : «/ Schutze]
vor eigener, voranderer (i.e. vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was
die arati ist) istjaderFremdling (der den Frieden be- droht), sie istja
der Wolf... ». Ich habe in der Ubersetzung vonab au/Nachahmung der
Spre- izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja sehr wohl
nurstili- stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in
Abrede stel- len, dass wir zu sagen hdtten: «vor eigener arati- sie ist
ja ein Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor
an- derer drdti-sie istja ein Wolf». La prima
interpretazione, quella che l’autore preferisce poiché sopprime le
difficoltà, fa una violenza inammissibile all’ordine e al rapporto delle
parole: mantiene come tale una delle due opposizioni equivalenti ma
sopprime l’altra volgendola in solidarietà; riducear/e vrka a un’unità
(non essendo vrka che un rinforzo del «cattivo» ari) di cui svà e anyà
sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali diritti. La seconda
interpretazione orienta l'opposizione tra svà e anyà in un senso che non
è il suo: svà non si applica a ciò che è presso me temporalmente e
accidentalmente senza essere a me, ma segna un le¬ game permanente ed
essenziale con me. In più, questa traduzione sup¬ pone, dalla parte
àeW'ari nemico, un comportamento speciale, quello dell’ospite che una
volta ricevuto in casa si comporta male e « minaccia la pace » come dice
Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma questi rischi si
realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del RV vi fa allusione:
sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di una preghiera e che, in
questa preghiera, fossero messi sullo stesso 32 P. 27, già II,
1956, p. 109. Se, come io penso, ari ha già il valore etnico («ariano»),
si concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella
di¬ rezione «élite», «capo», etc. 134
piano, in contrapposizione, i rischi costanti che fa correre il vrka
bar¬ baro e brigante. Questo testo è dunque decisivo contro
il senso troppo esteso di ari e impone un senso ristretto. Nei suoi
Etudes védiques et pàninéen- nes. III (1957), L. Renou mi sembra abbia
ben riassunto l’insegna¬ mento del testo nella formula: «.vrka il nemico
straniero, ari il nemico interno». Questo delimita ari, sia il buono che
il cattivo: amico, ospite, sposabile, correligionario, rivale, nemico,
Vari porta alla considera¬ zione di chi lo menziona, la nota svà, che
esclude la nota anyà n . Ili Mitra and Aryaman è in
gran parte un pamphlet contro di me: fornisco perfino il titolo di un
capitolo. Mi limiterò qui ad alcune os¬ servazioni che faranno vedere a
quale livello si situa il dibattito. Prima di entrare nella
materia, e per togliere ogni credito ai miei argomenti, Thieme incomincia
a dimostrare, secondo tre punti, che io commetto molteplici e grossolani
errori di grammatica utilizzando gli inni vedici. Lo credo volentieri, ma
vediamo che cosa mi rimprovera (pp. 12-16): a) Io
tratto dei duali come dei plurali. Si tratta di due testi in cui si
incontra la sequenza, del resto frequente, dei tre principali dèi sovra¬
ni, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a causa di un verbo o un aggettivo
che sono appunto al duale, Thieme vuole fondere Mitra e Aryaman in un
solo personaggio mitico che chiama «Freund, Gasljreund» (nel 1938) e che
ora preferisce chiamare «The contract (God Contract) which is hospitality
(God Hospitality )». È nel riconoscere questo mo¬ stro, di cui non vi
sono altre tracce nella letteratura vedica, che mi sono rifiutato, nel
1949 (S., pp. 42-47). Non ho cambiato parere: è inverosi- 33
Questa definizione di art come sva basterebbe (vi sono altre ragioni) per fare
scar¬ tare il paragone etimologico con diana (l'opposto di svà) che è
stato portato in ap¬ poggio alla tesi di Thieme da F. Spechi, «Zur
Bedeutung des Ariernamens», KZ, 68, 1941, pp. 42-52. D’altra parte, il
fatto che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya
lùrusah, «il vincitore dell'un lontano e vicino» dimostra che lo svà di
IX, 79, 3 non deve essere compreso in un senso stretto né senza dub¬ bio
locale. Il concetto di nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia
con¬ dizione: Vari per «un» ariano è sia svà che para.
135 mile che in questi due soli passaggi la triade ceda il
posto a una coppia «Varuna e Varyamàn Mitra» o a «Varuna e il mitra
Aryaman». Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna
mitrdryaman vdrsistham ksatrdm àsiithe, «o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi
avete ot¬ tenuto la più alta sovranità». Perché si dice che il verbo è al
duale? Il poeta vuole sottolineare la stretta affinità di Mitra e Aryaman
(che è fondamentale come spesso ho detto) nei confronti di Varuna, di
modo che si debba tradurre «o Varuna, o Mitra e Aryaman»? Non lo so,
ma la soluzione meno accettabile è di fondere in un solo essere Mitra
e Aryaman, poiché la strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente
i tre dèi al nominativo e questa volta con due aggettivi e due verbi
che sono correttamente al plurale. Noto che K. Geldner comprende
come me: «ihr habt die hòchste Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A
rya- man» - i tre vocativi essendo esattamente paralleli, come Thieme
mi rimprovera di avere detto. L'altro testo è RV, Vili, 26,
11 : vaiyasvdsya srutam narotó me asya vedathah/sajósasd varuna mitrò
aryamd. La prima parte non è ambigua: «Ascoltate, o voi due eroi (= gli
Asvin) [la parola] di Vai- yasva e conoscete questa [parola] mia». La
seconda è meno chiara, un aggettivo al duale (sajósusà, «in accordo»)
precede i tre nomi di¬ vini. Geldner risolve la difficoltà
attaccando l’aggettivo non a ciò che segue, ma come attributo a ciò che
precede, ai due Asvin: « Horet aufden Vyasvasohn, ihrHerren, und seid
meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und mit euch) Varuna Mitra Aryaman».
Non so se ha ragione o se si può trovare una giustificazione più sottile,
ma come lui penso che gli dèi dell’ultimo verso, qui come altrove, siano
ire. b) Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta di RV, III,
54, 18, aryamd no dditir yajmydsah, «Aryaman, Aditi [sono] degni (plurale
e non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare ad Aryaman,
ad Aditi». Thieme consentirà forse a credere che ho consultato la
tradu¬ zione di Geldner: «.Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert», con
la nota corrispondente: « Den Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an
die iibriffen Àditya ’sdenkt». Ma ciò che più m’interessava perii mio
argo¬ mento (S., p. 68) è che in questo lesto della «terza funzione» (la
fine della strofa domanda abbondanza di bestiame e di bambini), il gruppo
degli dèi sovrani distacca, in qualche modo come i suoi soli
delegati espliciti, la loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme
non ho preso la precauzione di ripetere in termini di grammatica una
precisa¬ zione che ogni vedista conosce. Il mio commento si è limitato a
dire: «Sembrerebbe che ancora qui sia l’iniziativa di Aryaman che
orienta l'azione collettiva degli Àditya verso questa grazia speciale».
Non è abbastanza chiaro? c) Tratto un singolare come un
duale. Si tratta del lapsus segna¬ lato più sopra (n. 18) che, in A V,
XIV, 1, 39 (S, p. 78, 1.8 e 11 ) mi ha fatto scrivere e non mi ha fatto
correggere «i suoceri» invece del «suo¬ cero», come traduzione di
svdsurah. Thieme finge di credere che io abbia pensato ai «due suoceri».
Mi reputa così ignorante da poter cre¬ dere che io abbia preso un
nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o, per un nominativo duale? La
stessa parola, sotto la stessa forma non è forse correttamente tradotta
la seconda volta che la si incontra (S, v. 1 19)? La spiegazione
che mi parrebbe più plausibile è che, essendo poco leggibile il mio
manoscritto, il compositore abbia congetturato i «suoceri» secondo i
«cognati» che seguono immediatamente, o che meccanicamente abbia messo
allo stesso numero queste due parole così analoghe [pères e frères nel
testo. N.d.T.]. Può anche darsi che il lapsus risalga al mio manoscritto.
Mi dispiace molto ad ogni modo che nella sovrabbondanza di correzioni che
ho dovuto fare sulle bozze quello mi sia scappato e che l’errore mi sia
saltato agli occhi solamente qualche mese dopo la pubblicazione. È in
maniera sleale che Thieme orchestra questo scandalo in due pagine e anche
il mio errore su svdsurah, suocero dell’unica moglie e non del marito.
Nondimeno Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il mio
argomento la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V,
XIV, 1,39 e quella del suocero {della moglie) opposti al «resto dell’ari»
in X, 28, 1 conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è
stato mostrato qui sopra a n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel
matrimo¬ nio, non si interessa solamente ai giovani sposi, ma ai parenti
per l’alleanza che la loro unione stabilisce e l’altro indica (cosa
ammessa da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze matrimoniali si
com¬ piono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida
«all’in¬ terpretazione errata!» per mascherare il gioco di prestigio
altrimenti grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi
che stabilisco- 137 no il vero ruolo di Aryaman
nel matrimonio (vedi sopra 1 )'. Il libro è in seguito infiorito di notae
censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste ed utili e ne terrò conto,
senza che nessuna cambi niente alle figure e ai rapporti degli dèi. Molte
sono, bisogna dirlo, un puro bluff poiché Thieme denuncia come
antigrammaticale, errata o sprovvista di sen¬ so, una traduzione
possibile ma che non ha il suo favore 2 , caricaturan¬ do le mie
esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere un motivo di
risentimento in più 4 , etc. etc. 1 L’obiettivo di questo triplo
assalto grammaticale si scopre a pagina 17: «IJ'eel il my duty to warn
especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè me¬ riti of
Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation oflhe
Jacts oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal only his
"expla- naiions" need be discussed». Non ho questa pretesa.
Domando solo senza grandi speranze che latinisti o indologi, di St.
Andrews o di Yale, che vogliano discuter¬ mi lo facciano lealmente.
2 P.es.,pp. 10-12;/?V, I, 141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV, X,
89,9; ctc. p. 67, in RV VII, 82, 5, Thieme rende correttamente duvasyatil
Ha sicuramente ragione, ad ogni modo, a rimproverarmi la riga di S., p.
40 («Mitra offre dei sacrifici a Va¬ nirla), in cui ho esagerato la
frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La religion védique, III, p.
138: «In un passaggio in cui né Mitra né Varuna sono del resto
esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al secondo come il
sacer¬ dote al dio che onora»): duvasyati significa sempl icementc
«rendere gli onori do¬ vuti»; bisogna correggere in que.slo senso Les
dieux des Indoeuropéens, p. 42, 1.27: in RV, VII, 82, 5, Mitra non è come
un sacerdote di Varuna. 3 P. cs. pe>. 19-20, ciò che ho detto
dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra- Varuna', 1948, pp.
79-83, non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho
semplicemente utilizzato i progressi che, dal suo articolo del 1907, i
sociologi hanno fatto compiere alla teoria del contratto presso i popoli
semi-civilizzati. Allo stesso modo, p. 82, la mia concezione dei rapporti
tra i diversi dèi sovrani si è de¬ formata: che si confronti il capitolo
II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia dei nomi divini (Varuna,
Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo quando è evidente
(Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset mythes
védiques, 1956, p. 117): qualunque sia quella di Varuna (e non credo mol¬
to a quella adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente,
l’insieme del suo comportamento e il suo rapporto con le altre figure
divine: un dio non c prigioniero del suo nome. 4 P. es., p.
74, n. 54, Thieme segnala una contraddizione in S., tra la pagina 63 e
136, a proposito della sua traduzione di salpati: si verificherà
facilmente che essa non esiste. P. 76, n. 54, è con Panini che sono messo
così futilmente in contraddizione. P. 86, n. 60, sono accusato per due
parole di «mislranslations, wich might have been avoided by looking up
thè PW or any other good dictionary » ; Thieme vorrà rifarsi a A.B.
Keith, HOS XVIII, p. 167-168, di cui ho adottato la traduzione (e vi sono
ragioni per preferire questa interpretazione a quella di Thieme). P. 9;
Thieme non tiene conto della differenza d’intenzione tra Mitra-Varuna e
Le Troisième Souverain. A dispetto del suo titolo in¬ diano il primo
libro non tratta un soggetto indiano 1 ; si propone di di¬ mostrare che presso
gli altri popoli indoeuropei, a Roma e fra i Germa¬ ni in special modo,
esistevano delle coppie di dèi o di eroi della prima funzione la cui
articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne ha scoperto per Mitra e
Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano con una campionatura
abbondante. Non avevo dunqueintenzione di stabi¬ lire «gli insegnamenti
degli inni stessi» e dei Bràhmana - che altri (dopo Bergaigne e H.
Glintert) avevano sufficientemente stabilito. In Le Troisième Souverain,
al contrario, con Aryaman abbordavo un pro¬ blema specificatamente
indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovu¬ to riprendere tutti i
testi, discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da scrivere sul mio
libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di essere e di
rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei soggetti, a
dei bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della materia hanno
corrisposto dei procedimenti differenti. Quanto alle tesi stesse di
Thieme, le esaminerò nella Revue de l'Histoire des Religions e mi
sforzerò di rispondere con un’argomen¬ tazione serena a questa scherma da
gladiatore. Enumererò gli apporti positivi poiché ve ne sono. E
dimostrerò come sotto le apparenze del rigore filologico Thieme
misconosca costantemente le prospettive, ignori i dati statistici più
evidenti e distrugga i rapporti più probabili e sulla via così sgombra si
avanzi con una sovrana fantasia verso le pagi¬ ne sorprendenti che
terminano il suo libro. In attesa, a coloro che sarebbero
impressionati da questo mec¬ canismo, non posso che consigliare di
rileggere, circa i grandi Àditya, l’ammirevole esposizione di Abel
Bergaigne, certamente vecchia su molti punti, ma attenta sia al dettaglio
dei testi che alle strutture del pensiero, onesta e intelligente.
I J.C. Tavadia si era inizialmente sbaglialo ma fece in seguito I a più
leale riparazione. L’editoria
italiana ha accolto con favori e fortune alterne l’opera di un autore
tanto discusso, controverso e innovativo, quale fu Georges Dumézil,
persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non di rado
pungente ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano che
l’inchiesta scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre
che ai colleghi che accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore
nostrano troverà di piacevo¬ le lettura la traduzione della intervista
francese: Un banchetto dì immortalità. Conversazioni con Didier Eribon ,
Guanda, Milano 1992. Spetta alle Einaudi l’esordio di Georges
Dumézil nel panorama edito¬ riale del nostro dopoguerra, all’intemo di
quella “collana viola” che non sen¬ za travaglio di intelletti e di
coscienze (si legga il carteggio C. Pavese - E. de Martino, La collana
viola. Lettere Bollati Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha
contribuito a diffondere autori importanti come C.G. Jung, K. Kerény,L.
Frobenius, G. van derLeeuw, M. Eliade. Il libro Ju- piter, Mars,
Quirinus, Torino 1955, è una traduzione di parti dell’originale, più
capitoli di altri volumi come Naissance de Rome, Naissance d'Archanges, e
Jupiter, Mars, Quirinus IV, 1948. Il catalogo della Ei¬ naudi ritornerà
solo tardivamente, nel decennio degli ’80, a rioccuparsi di Dumézil,
traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata, 1982 (= Mythe et epopee f)
e Gli dei sovrani degli Indoeuropei, 1986. Spetta alla Adelphi
(Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti, a cominciare dalla
raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli Eroi. Leggende
sui Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della Bompiani, Milano
1976), fino a Gli dèi dei Germani, 1974; Matrimoni Indo¬ europei, 1984;
Le sortì del guerriero. Aspetti della funzione guerriera presso gli
Indoeuropei, 1990 (una prima traduzione di questo libro, condotta sulla
precedente edizione di Hetir etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi
della Rosemberg& Sellier: Ventura e sventura del guerriero,Tonno
1974). E infi¬ ne bisogna ricordare anche «...Il monaco nero in grigio
dentro Varennes», 141 1987 che è però un
divertissement enigmistico-letterario sulle profezie di
Nostradamus. Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è arricchito di
due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come La religione
romana arca¬ ica, 1977 eStorie degli Sciti, 1980; mentre II Melangolo
(Genova) ha tradotto due volumi quali Idee romane, 1987 e Feste romane,
1989. Recentemente le edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto La saga
di Hadingus. Dal mito al romanzo. Fra le poche opere italiane su questo
autore ricordiamo Rivière, Dumézil
egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per una
bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil cf. la rivista Futuro
presente 2/1993 diretta da Alessandro Campi (numero monografico “Georges
Dumézil e l’eredità indo-europea”): oltre a un dibatti¬ to su Dumézil in
base alle aree storico-geografiche consuete nella sua ricerca (Roma,
Indo-Iranici, Caucaso, Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle
persistenze del modello trifunzionale nella società medioeva¬ le -
suddivisione in oratores, bellatores, laboralores - e la traduzione di un
ar¬ ticolo di Dumézil in risposta alle critiche di una versione francese
di un saggio di Ginzburg (“Mitologia germanica e Nazismo”, apparso su
Quaderni Storici, ristampato in Id., Miti, emblemi, spie, Einaudi,
Torino) su un argomento, le presunte simpatie per la cultura nazista, già
affrontato da A. Momigliano, Rivista storica italiana. Sulle implicazioni
politiche e razzistiche degli studi indoeuropei cf. A. Piras,
“Georges-Dumézil e iproblemi dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni di Ava/lon
e “Indoeuropeistica e cultura europea”, in L 'Europa di fronte
all'Occidente, Il Cerchio, Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni
sociali, religiose, economi¬ che, amministrative, giuridiche, delle
diverse culture parlanti idiomi indoeu¬ ropei, cf. E. Benveniste, //
vocabolario delle istituzioni indoeuropee, I-II, Ei¬ naudi, Torino 1979
(e più edizioni); si veda anche E. Campanile, “Antichità indoeuropee”, in
A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le lingue indoeu¬ ropee, Il
Mulino, Bologna 1993, pp. 19-43 e J. Ries (a c. di), L 'uomo indoeu¬
ropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano 1991. Un argomento
dibattuto da decenni come la nozione di “lingua poe¬ tica indoeuropea”
(che consente di rintracciare nelle diverse letterature - Edda, Beomtlf,
poemi omerici. Veda, Avesta - elementi di una fraseologia co¬ mune ed
ereditaria) è stato di recente affrontato in un libro eccellente di G.
Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries
La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo L’opera magistrale
di Dumézil. Le tre funzioni sociali e
cosmiche. Le teologie tripartite. Le diverse funzioni nella teologia,
nella mitologia e nell 'epopea Storia degli Studi. Aryaman e
Paul Thieme Bibliografia italiana di Dumézil. Emanuele Castrucci. Castrucci.
Keywords: sul conferimento di valore, il
guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza pragmatica,
l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel, prammatica.; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Castrucci” – The Swimming-Pool Library.
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