Monday, April 8, 2024

GRICE E CATALFAMO: L'IMPLICATURA CONVERSAZIONALE DELLA METAFISICA DELLA LIBERTA -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA

 

 

Grice e Catalfamo: l'implicatura conversazionale della metafisica della libertà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’! Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della corrente del "personalismo storico o critico".  Si laurea in Pedagogia e in Scienze Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di Pedagogia all'Messina.  Il suo pensiero si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi", fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico, concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie", " il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come «storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel mondo".  Catalfamo è stato fondatore e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta; fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al 1988.  È stato anche Prorettore dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato intitolato un Istituto Comprensivo.  Altre opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa, Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente, Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M. Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento (in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS, Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella, Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento, Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Di qui ap-  punto si può anticipatamente scorgere, che le dif-  ficoltà più profonde incluse nel concetto di liberta,  si potranno risolvere coll’ idealismo in sè preso,  tanto poco quanto con qualunque altro sistema  parziale. L’ idealismo invero porge, della libertà,  da un lato il concetto più generale, dall’altro  quello meramente formale. Ma il concetto reale ’e  vivente è, che essa consista in una facoltà del  bene e del male.   Questo è il punto della difficoltà più grave, che,  in tutta la dottrina della libertà, è stata da lungo  tempo avvertita, e che tocca, non solo questo o  quel sistema, bensì, più o meno, tutti 1 : nel modo  più spiccato di cerio il concetto dell’immanenza;  poiché, o si ammette un male reale, e allora è  inevitabile collocare il male nell’ infinita sostanza o  nell’ originario volere stesso, con che si distrugge  interamente il concetto di un essere perfettissimo;  o bisogna negare in qualche maniera la realtà del  male, e con ciò svanisce insieme il concetto reale  di libertà. Non minore è l’intoppo, anche se inten-  diamo nel modo più esteso la relazione tra Dio e  gli esseri mondani; poiché, dato pure che essa  venga limitata al cosiddetto concursus, o a quella  necessaria cooperazione di Dio all’ agire delle crea-  ture, che dev’ esser accettata grazie alla essenziale  dipendenza loro da Dio, anche se vuoisi del resto  affermare la libertà: in tal caso però Dio apparirà  innegabilmente come cooperatore del male, giac-  ché il permetterlo in un essere in tutto e per tutto  dipendente non vai meglio che il contribuire a  produrlo; o anche qui, in un modo o nell’altro,  dovrà esser negata la realtà del male. La propo-  sizione, che tutto il positivo della creatura venga  da Dio, anche in questo sistema dev’essere affer-  mata. Ora, se si ammette che nel male vi sia al-    II sig. Fed. Schlegel ha il merito di aver fatto valere  questa difficoltà specialmente contro il panteismo nel suo  scritto sugl’ Indiani e in parecchi luoghi; ma è a deplorare  soltanto che quest’ acuto erudito non abbia creduto oppor-  tuno comunicare la sua propria veduta sull’ origine del  male c sul suo rapporto col bene. cunchè di positivo, anche questo positivo deriverà  da Dio. Qui si potrà opporre: il positivo del male,  in quanto positivo, è bene. Con ciò il male non  viene a sparire, benché non venga neppure spie-  gato Infatti, se ciò che nel male sussiste' è bene,  donde mai nasce ciò, in cui questo sussistente è,  la base, che forma propriamente il male? Tutta  diversa da quest’affermazione (sebbene spesso,  anche di recente, confusa con la prima) è 1’ altra,  che nel male, in ogni caso, non vi sia nulla di  positivo, o, per usare un’espressione diversa, che  esso non esista affatto ( neppure con e in un altro  elemento positivo), ma che tutte le azioni siano  più o meno positive, e che la differenza tra loro  consista in un semplice plus o minus di perfezione,  con che non si stabilisce alcuna opposizione, e  però il male svanisce interamente. Sarebbe questa  la seconda possibile ipotesi in rapporto alla propo-  sizione, che tutto il positivo scaturisca da Dio.  Allora la forza, che si mostra nel male, sarebbe  sì, al paragone, più imperfetta di quella che appare  nel bene, ma, considerata in sé, o fuori del para-  gone, sarebbe una perfezione pur sempre, la quale  dunque, come ogni altra, dev’ esser derivata da  Dio. Ciò che noi in tal caso chiamiamo un male,  è solo il minor grado di perfezione, il quale però  solo per il nostro bisogno di comparazione appare  come difetto, mentre nella natura non è punto. Che  questa sia la vera opinione di Spinoza, non è  possibile negare. Qualcuno potrebbe tentare di  sfuggire a quel dilemma, rispondendo: che il  positivo derivante da Dio sarebbe la libertà, la  quale è in se stessa indifferente verso il male e  il bene. Ma, se egli concepisce questa indifferenza,  non in modo puramente negativo, bensì come una    1 Nel testo: « Seietide. »    vivente e positiva facoltà di determinarsi al bene  e al male, non si vede come da Dio, che vien  considerato come pura bontà, possa mai seguire  una facoltà di eleggere il male. È evidente da ciò,  per dirla di passaggio, che, se la libertà è real-  mente quel che in conformità di questo concetto  deve essere (ed è immancabilmente), non si può  essa giustificare con la già tentata derivazione  della libertà da Dio; poiché, se la libertà è un  potere di far il male, essa dovrà avere una radice  indipendente da Dio. Così incalzati, si può esser  tentati di gettarsi in braccio al dualismo. Ma questo  sistema, se dev’ esser concepito effettivamente come  la dottrina di due principii opposti e tra loro indi-  pendenti, non è se non un sistema del suicidio e  dello sconforto della ragione. Se poi il principio  cattivo è pensato come dipendente in un certo  senso dal buono, tutta la difficoltà della deriva-  zione del male dal bene è certo concentrata in  un solo essere, ma viene così ad essere accresciuta  anziché diminuita. Anche supponendo che questo  secondo essere fu dapprincipio creato buono e per  propria colpa si staccò dall'essere originario, resta  sempre inesplicabile in tutti i sistemi, che si son  avuti finora, la prima facoltà di un atto di ribel-  lione a Dio. Perciò, anche se noi finiamo col  sopprimere, non solamente l’identità, ma ogni le-  game degli esseri mondani con Dio, considerando  la loro esistenza attuale e quella del mondo con  essa come un allontanamento da Dio, la diffi-  coltà è solo spostata di un punto, ma non tolta.  Infatti, per potere scaturire da Dio, essi dovevano  già esistere in un certo modo, e non si potrebbe  menomamente opporre al panteismo la dottrina  dell’emanazione, presupponendo essa un’originaria  esistenza delle cose in Dio e quindi naturalmente  il panteismo. A spiegare quell’ allontanamento, si  potrebbe solo addurre quanto segue. O esso è    involontario da parte delle cose, ma non da parte  di Dio: e allora, siccome esse da Dio furono get-  tate nello stato d’ infelicità e di malizia, Dio è  1’ autore di un tale stato. O è involontario da ambe  le parti, cagionato forse da esuberanza dell’ essere,  come alcuni affermano: rappresentazione insoste-  nibile affatto. O è volontario da parte delle cose,  uno svellersi da Dio, dunque la conseguenza di  una colpa, alla quale segue una sempre pivi pro-  fonda caduta: e allora questa prima colpa è già  per se stessa il male, e non dà alcuna spiega-  zione dell’ origine di esso. Senza un tale espe-  diente poi, che, se spiega il male nel mondo,  estingue viceversa, e interamente, il bene, e invece  del panteismo introduce un pandenionismo, sva-  nisce precisamente nel sistema dell’ emanazione  ogni proprio contrasto di bene e male; il Primo,  si perde per infiniti gradi intermedii, mediante un  graduale attenuarsi, in ciò che non ha più alcuna  parvenza di bene, suppergiù allo stesso modo in  cui Plotino, 1 con sottigliezza bensì, ma senza  lasciar appagati, descrive il transito del bene ori-  ginario nella materia e nel male. Invero, da un  costante processo di subordinazione e di allonta-  namento, vien fuori un Ultimo, di là dal quale il  divenire è impossibile, e questo appunto (ciò che  è incapace di produrre ulteriormente) è il male.  Ovvero: se qualche cosa è dopo il Primo, dev’ es-  serci anche un Ultimo, che del Primo non ha più  nulla in sè, e questo è la materia e la necessità  del male.   Dopo tali considerazioni, non sembra giusto  rovesciare tutto il peso di questa difficoltà su di  un solo sistema, specialmente se ciò che di più  alto si pretende di opporgli, è così poco soddi-    1 Ennead. I. L. Vili, c. 8.    sfacente. Anche le generalità dell’ idealismo non  ci possono dare qui alcun aiuto. Con dei concetti  lambiccati di Dio, come /’ actus purissimùs, del  genere di quelli che stabiliva la filosofia antica, o  di quelli, che la moderna cava fuori pur sempre,  con la preoccupazione di tenere Dio a gran di-  stanza dall’ intiera natura, non si riesce a nulla  di nulla. Dio è qualcosa di più reale che un sem-  plice ordinamento morale del cosmo, ed ha in sè  ben altre e ben più vive forze motrici di quelle  che P arida sottigliezza degl’ idealisti astratti gli  attribuisce. L’orrore per ogni realtà, quasi che lo  spirituale possa contaminarsi in ogni contatto con  essa, deve naturalmente produrre anche la cecità  per l’origine del male. L’idealismo, se non ha per  base un realismo vivente, diviene un sistema altret-  tanto vuoto e lambiccato, quanto il leibniziano, lo  spinoziano, o qualunque altro sistema dogmatico.  Tutta la nuova filosofia europea dal suo principio  (con Descartes) ha questo comune difetto, che la  natura non esiste per essa, e che le manca un  vivo fondamento. Il realismo dello Spinoza è per-  tanto così astratto, come l’idealismo del Leibniz.  L’idealismo è l’anima della filosofia; il realismo  n’ è il corpo; solo tutti e due insieme fanno un  tutto vivente. Il secondo non può mai offrire il  principio, ma bisogna che sia la base ed il mezzo,  in cui quello si realizza, prendendo carne esangue.  Se ad una filosofia manca questo fondamento vivo,  il che d’ ordinario è segno che anche il principio  idea'e aveva originariamente in essa una debole  efficacia: essa verrà a perdersi in quei sistemi, i  cui distillati concetti di aseità, modificazioni ecc.  stanno nel più acuto contrasto con la forza vitale  e la pienezza della realtà. Dove poi il principio  ideale è fornito davvero e in alta misura di forza  operativa, ma non può trovare una base di conci-  liazione e di mediazione, produrrà un torbido e selvaggio entusiasmo, che finirà nella macerazione  di se stessi, o, come accadeva ai sacerdoti della  dea Frigia, nell’ evirazione, la quale in filosofia si  compie abbandonando la ragione e la scienza.   È parso necessario incominciare questo trattato  con la giustificazione di concetti essenziali, che  da lungo tempo, ma in particolare ultimamente,  sono stati ingarbugliati. Le osservazioni fatte si-  nora debbono perciò considerarsi come semplice  introduzione alla nostra indagine vera e propria.  Noi l’abbiamo già dichiarato: solo con i prin-  cipii d: una vera filosofia della natura si può  svolgere quella veduta, che dà completa soddisfa  zione al tema che ci proponiamo. Noi non ne-  ghiamo perciò che una tale esatta veduta sia stata  già da lungo tempo anticipata da alcuni intelletti.  Ma erano anch’ essi appunto quelli, che senza te-  mere gli epiteti ingiuriosi di materialismo, pantei-  smo ecc., usuali da un pezzo contro ogni filosofia  realistica, cercavano il principio vivente della na-  tura, e, in contrapposto ai dogmatici ed agl’idea-  listi astratti, che li respingevano come mistici,  erano filosofi naturali (nell’ uno e nell’altro senso).   La filosofia naturale dei nostri tempi ha per la pri-  ma volta introdotta nella scienza la distinzione tra  l’essere, in quanto esiste, e l’essere, in quanto  è semplice fondamento di esistenza. Tale distin-  zione è vecchia quanto la prima esposizione scien-  tifica di essa. 1 Nonostante che proprio in questo  punto essa diverga nel modo più reciso dalla via  di Spinoza, pure in Oermania si è poiuto fin adesso  affermare che i suoi principii metafisici siano tut-  t’uno con quelli di Spinoza; e sebbene quella distin-  zione appunto porti nello stesso tempo la più recisa    1 Si veda nella Zeitschrift tur spekul. Physik Bd. II,  Heft 2, § 54 nota, [IV, S. 146], inoltre nota 1 al § 93 e la  spiegaz. a p. 114 [S. 203).  distinzione della natura da Dio, ciò non ha im-  pedito che la si accusasse di confondere Dio con  la natura. Poiché sulla medesima distinzione si  fonda la presente ricerca, sia detto quanto segue  a fine d’ illustrarla.   Non esistendo nulla prima o fuori di Dio, con-  viene che egli abbia in se stesso il fondamento della  sua esistenza. Cosi dicono tutti i filosofi; ma  essi parlano di questo fondamento come di un  puro concetto, senza farne alcunché di reale e di  effettivo. Questo fondamento della sua esistenza,  che Dio ha in sé, non è Dio assolutamente con-  siderato, cioè in quanto esiste; poiché esso non  è se non il fondamento della sua esistenza, esso  è la natura in Dio; un essere inseparabile, è  vero, ma pur distinto da lui. Questo rapporto si  può chiarire analogicamente con quello tra la  forza di gravità e la luce nella natura. La forza  di gravità precede la luce, come suo eternamente  oscuro fondamento, il quale per se stesso non è  actu e si dilegua nella notte, mentre la luce  (l’esistente) sorge. 11 suggello, sotto cui essa è  chiusa, non è sciolto interamente neppur dalla  luce. ' Appunto perciò essa non è nè l’ essenza  pura nè l’essere attuale dell’ assoluta identità, ma  non fa se non seguire dalla sua natura;* * o essa  è, considerata in altri termini nella potenza deter-  minata: poiché del resto, anche ciò, che relati-  vamente alla forza di gravità appare come esistente,  in se stesso poi appartiene al fondamento, e la  natura in genere è pertanto ciò che rimane di là  dall’essere assoluto dall’identità assoluta. 3 Per  quanto del resto concerne quella precedenza, essa  non è a concepirsi nè come precedenza di tempo,  nè come priorità di essenza. Nel circolo, da cui  ogni cosa deriva, non v’ è alcuna contradizione  ad ammettere che ciò, da cui 1’ Uno è prodotto,  sia alla sua volta prodotto da esso. Non v'è qui  un primo ed un ultimo, perchè tutto si presuppone  a vicenda, nessuna cosa è 1’ altra e tuttavia non è  senza l’altra. Dio ha in sè un intimo fondamento  della sua esistenza, che in questo senso precede  lui come esistente; ma Dio a sua volta è del pari il  Prius del fondamento, giacché questo, anche come  tale, non potrebbe essere, se Dio non esistesse actu.   Alla medesima distinzione porta la riflessione  scaturiente dalle cose. Primieramente è da lasciare  affatto in disparte il concetto dell’ immanenza, in  quanto esprima per avventura una morta compren-  sione delle cose in Dio. Noi riconosciamo piut-  tosto, che il concetto del divenire sia l’unico ap-  propriato alla natura delle cose. Ma queste non  possono divenire in Dio, assolutamente conside-  rato, mentre sono tato genere , o per parlare più  giusto, infinitamente diverse da lui. Per essere  staccate da Dio, occorre che divengano in una  base differente da lui. Ma nulla potendo essere  fuori di Dio, la contradizione si scioglie solo am-  mettendo, che le cose abbiano la loro base in ciò  che in Dio non è Egli stesso ', ovvero in ciò che  è base della sua esistenza.   Se vogliamo accostare maggiormente quest’ es-  sere all’ intelletto umano, possiamo dire : che egli  sia il desiderio, che sente l’Eterno Uno, di generare    1 È questo l’unico vero dualismo, cioè quello che nello  stesso tempo concede un’unità. Più su era in questione il  dualismo modificato, secondo cui il principio malvagio è, non  coordinato, ma subordinato al buono. C’e appena datemere  che qualcuno confonda il rapporto stabilito qui con quel  dualismo, in cui il subordinato è sempre un principio es-  senzialmente cattivo, e appunto perciò rimane totalmente  incomprensibile nella sua origine da Dio.  se stesso. Non è l’Uno stesso, ma pure è coeterno  con lui. Vuol generare Dio, cioè l’impenetrabile  unità, ma in questo senso non è in se stess’o an  cora V unità. È dunque, considerato per sè, anche  volere; ma volere in cui non c’è intelligenza, e però  anche, non autonomo e perfetto volere, perchè l’in-  telletto propriamente è il volere nel volere. Tuttavia  esso è un volere che si dirige all’ intelletto, cioè  desiderio e brama di esso; non un conscio, ma  un presago volere, il cui presagio è l’intelletto.  Noi parliamo dell’essenza del desiderio in sè e  per sè considerata, che dev’essere ben tenuta  d’occhio quantunque sia stata da gran tempo sop-  piantata dal principio superiore, che si è elevato  da essa, e quantunque non possiamo afferrarla  sensibilmente, ma solo con lo spirito e col pen-  siero. Secondo l’eterno atto dell' auto- rivelazione,  tutto invero nel mondo, come lo scorgiamo adesso,  è regola, ordine e forma; ma nel fondo c’è pur  sempre l’irregolare, come se una volta dovesse  ricomparire alla luce, e non sembra mai che l’ or-  dine e la forma siano l’originario, ma che qual-  cosa di originariamente irregolare sia stata solle-  vata ad ordine. Questo è nelle cose l’inafferrabile  base della realtà, il residuo non mai appariscente,  ciò, che, per quanti sforzi si facciano, non si può  risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel  fondo eternamente. Da questo Irrazionale è,- nel  senso proprio, nato l’ intelletto. Senza il precedere  di questa oscurità, non v’è alcuna realtà della  creatura; la tenebra è il suo retaggio necessario.  Dio solo — egli medesimo l’Esistente — abita  nella pura luce, poiché egli solo è da se stesso.  La presunzione dell’ uomo si ribella assolutamente  a quest’origine, e anzi va in cerca di principi!  morali. Tuttavia non sapremmo che cos'altro po-  tesse maggiormente spinger l’ uomo a tendere con  tutte le sue forze verso la luce, che la coscienza  della profonda notte, da cui egli è stato tratto al-  l’esistenza. I lamenti feminei, che in tal modo si  ponga F inintelligente come radice dell’intelletto, la  notte come principio della luce, si fondano in  parte su di un’equivoca interpretazione della cosa  (in quanto non si capisce, come con questa ve-  duta la priorità dell’intelletto e dell’essenza secon-  do il concetto possa tuttavia sussistere); ma essi  esprimono il vero sistema degli odierni filosofi,  che volentieri produrrebbero fumum ex fulgore, al  che non basta la potentissima precipitazione fich-  tiana. Ogni nascita è nascita dall’ oscurità alla  luce; il seme dev’essere profondato nella terra e  morire nelle tenebre, affinchè la bella e luminosa  forma vegetale si aderga e si spieghi ai raggi del  sole. L’uomo vien formato nel corpo della madre;  e dal buio dell’irrazionale (dal sentimento, dalla  brama , 1 splendida madre della conoscenza) germo-  gliano i luminosi pensieri. Noi pertanto dobbia-  mo rappresentarci la brama originaria, come diri-  gentesi verso l’intelletto, che essa non ancora  conosce, così come noi nell’aspirazione aneliamo  ad un bene ignoto e senza nome, e agitantesi pre-  saga, come un mare che ondeggia e ribolle, simile  alla materia di Platone, secondo una legge oscura  ed incerta, senza la capacità di formare qualcosa  che duri. Ma, rispondendo alla brama, che, quale  fondamento ancora oscuro, è il primo segno di  vita dell’essere divino, si genera in Dio stesso  un’ intima riflessiva rappresentazione, mercè la  quale, poiché non può avere altro oggetto che  Dio, Dio contempla in una immagine se stesso.  Tale rappresentazione è la prima forma in cui si  realizza Dio, assolutamente considerato, benché  solo in lui stesso ; è in Dio inizialmente, ed è Dio    1 Nel testo: « Sehnsucht ». stesso generato in Dio. Tale rappresentazione è  ad un tempo l’ intelletto — il verbo di quell’ aspi-,  razione,* e l’eterno spirito, che sente in ih il  verbo e insieme l’infinita aspirazione, mosso dal-  l’amore, che è egli medesimo, esprime il verbo,  che oramai, accoppiandosi l’intelletto all’aspira-  zione, diviene volontà liberamente creativa e onni-  potente, e nella natura, dapprincipio sregolata, pro-  duce come in un suo elemento o strumento. 11  primo effetto dell’ intelligenza in essa è la separa-  zione delle forze, potendo egli solo così dispie-  gare l’unità che vi è contenuta inconsciamente,  quasi in un seme, eppur necessariamente, a quel  modo stesso che nell’ uomo la luce s’ insinua nel-  l’oscuro desiderio di cercare qualcosa, per il fatto,  che nel caotico tumulto dei pensieri, che tutti  s’intrecciano, ma ognuno impedisce all’altro di sor-  gere, i pensieri si scindono e sorge l’unità, che è  nascosta nel fondo e che tutti li comprende sotto di  sè; o come nella pianta, solo nel rapporto del di-  spiegarsi e propagarsi delle forze, si scioglie l’o-  scuro vincolo della gravità e viene a svilupparsi  l’unità nascosta nella materia distinta. Poiché in-  vero quest’essere (della natura primordiale) non  è altro che l’eterno fondamento dell’esistenza di  Dio, perciò deve contenere in se stesso, benché  chiara, l’essenza di Dio, quasi un lume di vita  risplendente nell’oscurità. II desiderio poi, eccitato  dall’ intelligenza, tende ormai a conservare quel  lume di vita che ha accolto in sè, e a rinchiudersi  in se stesso, per rimanere pur sempre come fon-  damento. Quando perciò l’intelletto, o il lume  posto nella natura primordiale, spinge alla sepa-  razione delle forze (all’abbandono dell’oscurità) il  desiderio che si ritira in se stesso, facendo sor-    1 Nel senso in cui si dice: la parola dell’enigma.    gere, appunto in questa separazione, l’unità in-  clusa nel distinto, il nascosto lume di vita, nasce  in tal modo per la prima volta alcunché di com-  prensibile o di singolo, e in verità, non per via  di rappresentazione esterna, bensì di vera imma-  ginazione , ' poiché quel che sorge nella natura è  figurato di dentro; o, più esattamente ancora, per  via di un risveglio, in quanto che l’intelletto fa  sorgere l’unità o l’idea occultata nel fondamen-  tale distinto . 1 2 Le forze separate (ma non comple-  tamente staccate) in tale distinzione son la materia,  onde poi è configurato il corpo; invece il legame  vivente che nasce nella distinzione, e però dall’imo  fondo naturale, come centro delle forze, è l’ani-  ma. Siccome l’intelletto originario trae l’anima,  come elemento interiore, da un fondo indipen-  den e da esso, rimane perciò anch’essa indipen-  dente, come un’essenza speciale e sussistente di  per sé.   È facile vedere, che nella resistenza del desi-  derio, necessaria alla perfetta nascita, il legame  strettissimo delle forze si scioglie in uno svolgi-  mento che avviene per gradi e, ad ogni grado  della separazione delle forze, sorge dalla natura un  nuovo essere, la cui anima sarà tanto più perfet-  ta, quanto più contiene distinto ciò, che negli  altri è ancora indistinto. Mostrare come ogni suc-  cessivo processo venga ad avvicinarsi sempre  più all’essenza della natura, finché nella massima  separazione delle forze si schiude il più intimo  centro, è ufficio di una perfetta filosofia della  natura. Per lo scopo presente è essenziale quanto  segue. Ognuno degli esseri, sorti nella natura    1 Nel testo ; Ein-Bildilng, onde un gioco di parole intra-  ducibile nella nostra lingua. Alla lettera; « nel fondamento distinto »; in dcm geschie-  denen Grande. (N. d. T).  secondo la maniera indicata, ha in sè un doppio  principio, che è uno e identico in fondo, ma si-  può considerare sotto due aspetti. Il primo prin-  cipio è quello, per cui essi son distinti da Dio,  o per cui sono nel solo fondamento; ma, siccome  tra ciò, che è esemplato nel fondamento, e ciò,  che è esemplato nell’intelletto, ha pur luogo una  originaria unità, e il processo della creazione tende  solo a trasmutare internamente o a rischiarare  nella luce il principio originariamente oscuro  (perchè l’intelletto, o la luce introdotta nella na-  tura, cerca in fondo propriamente la luce affine,  rivolta a loro): così il principio tenebroso per sua  natura è appunto quello, che è insieme rischia-  rato nella luce, ed entrambi, sebbene in determi-  nato grado, son uno in ogni essere naturale. Il  principio, in quanto nasce dal fondo ed è oscuro,  è il volere individuale della creatura, il quale però,  in quanto non è ancora assurto (non comprende)  a perfetta unità con la luce (come principio del-  l’intelletto), è mera passione o brama, ossia vo-  lere cieco. A questo volere individuale della crea-  tura si contrappone l’intelletto come volere univer-  sale, che si serve del primo, subordinandolo a  sè come semplice strumento. Se infine, proce-  dendo la trasformazione e separazione di tutte le  forze, è messo in piena luce il punto più interno  e profondo della primordiale oscurità in un es-  sere, allora il volere di quest’essere è bensì, in  quanto esso è un individuo, egualmente un vo-  lere particolare, ma in sè, o come centro di tutti  gli altri voleri particolari, è uno col volere origi-  nario o coll’intelletto, cosicché di entrambi si fa  ora un unico insieme. Quest’elevazione del più  profondo centro alla luce non accade in nes-  suna delle creature a noi visibili fuorché nel-  l’uomo. Nell’uomo è tutta la potenza del principio  tenebroso e ad un tempo tutta la potenza della luce. In lui è il più profondo abisso e il più alto  cielo, o entrambi i centri. Il volere dell’uomo è  il germe occultato nell’ eterna brama di un Dio  esistente ancora nel fondamento; il divino lume  di vita chiuso nel profondo e che Dio vide, quando  concepì il volere di crear la natura. In lui soltanto  (nell’ uomo) Dio ha amato il mondo; e la brama  accolse nel suo centro appunto quest’immagine  di Dio, quando entrò in conflitto con la luce.  L’uomo per ciò, che egli scaturisce dall’ imo fondo  (è una creatura), ha in sè un principio indipen-  dente per rapporto a Dio; ma per ciò, che sif-  fatto principio — senza cessare tuttavia di essere  tenebroso nel suo fondo — è chiarificato nella  luce, si schiude insieme in lui qualcosa di più  alto, lo spirito. Infatti l’eterno spirito esprime  l’unità o il verbo nella natura. 11 verbo espresso  (reale) poi è solo nell’unità di luce e tenebre  (vocale e consonante). Ora in tutte le cose vi  sono bensì i due principii, ma senza piena conso-  nanza, a causa della manchevolezza di ciò che è  elevato dal fondo. Solo nell’uomo dunque è piena-  mente espresso il verbo, che in tutte le altre cose  è ancora arrestato e incompiuto. Ma nel verbo  espresso viene a rivelarsi lo spirito, cioè Dio, esi-  stente come actu. Essendo poi l’ anima identità  vivente dei due principii, essa è spirito; e lo spi-  rito è in Dio. Ora, se nello spirito dell’ uomo  l’identità dei due principii fosse altrettanto indis-  solubile che in Dio, non vi sarebbe alcuna diffe-  renza, cioè Dio, come spirito, non si rivelerebbe.  Quella medesima unità, che in Dio è inseparabile,  deve essere adunque separabile nell’ uomo, — ed  ecco la possibilità del bene e del male.  libertà Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza costrizioni o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli. La l. può essere definita in riferimento a tre elementi: il soggetto o i soggetti di l. (chi è libero), i campi entro cui essi sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di fare). Come vi sono vari tipi di agenti che possono essere liberi (persone, associazioni, Stati), così vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose che essi sono liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte l. diverse (morale, giuridica, politica, religiosa, economica, ecc.). Di conseguenza, quando cerchiamo di definire stati di l., abbiamo a che fare con questioni relative all’identificazione di chi, sotto quale descrizione pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa, rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato sociale. La riflessione sul tema della l. accompagna tutta lo storia del pensiero filosofico, dall’antichità all’epoca contemporanea, con accenti e approcci diversi.   Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel pensiero di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi tra loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui, implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica,X), il guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la decisione, non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1), involontarie sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»; la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza»; è necessar io, insomma, che «la ragione e la conoscenza si rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi, invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza». Cristianesimo e Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese, ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà. Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor- matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l. cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato politico-giuridico.   Il dibattito su libertà e necessità. Nel Seicento, Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e nell’accettazione della necessità universale stessa. Nel secolo seguente abbiamo la concezione di Kant, con la sua distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni dell’Universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per «l. morale» si deve intendere, secondo Kant, la facoltà di adeguarsi alle leggi che la nostra ragione dà a noi stessi. Noi possiamo dunque scegliere tra il seguire la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla legge morale che, esprimendo l’essenza più profonda del nostro Io, rende il nostro volere autonomo e, così, libero. E come l’essenza profonda del nostro essere è la l., così all’origine dell’intero Universo che alla scienza si presenta determinato, è il libero volere di un Essere intelligente, che ordina teleologicamente ciò che alla conoscenza scientifica appare invece meccanicamente causato. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da alcuni scolastici, di «l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere, immotivatamente o indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria indifferenza, resta in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto della l., quello della l. come autodeterminazione e intima spirituale necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale. E, nel quadro del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni dell’Ottocento, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto della concezione hegeliana della l. come processo speculativo della ragione universale distingue invece il pensiero di Marx, che identifica la l. con un processo di liberazione economica, politica e sociale volto ad affrancare l’uomo dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le condizioni per una concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Per tutt’altra via passa l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo, per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia dello «slancio vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza inautentica», come in Heidegger. In L’essere e il nulla Sartre sostiene che l’uomo è «essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la «mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta di possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le scelte viene tuttavia eliminata nelle opere successive.   Il dibattito contemporaneo. Il significato politico-giuridico del concetto di l. è al centro del dibattito contemporaneo. Particolarmente influente è stata a questo riguardo la distinzione espressa da Berlin fra l. negativa e l. positiva, fra l. da e l. di: la prima concerne l’area entro la quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze da parte di altre persone. La seconda riguarda l’area in cui si situa la fonte del controllo e dell’interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che un’altra. La l. negativa corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la l. degli ‘antichi’; essa è l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il soggetto della l. negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato, separa la sfera ‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la sfera individuale da quella collettiva. L’assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata principalmente come assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità legittima, che è tale se e solo se non viola o viola il meno possibile l’autonomia individuale. Contro la distinzione analitica dei due concetti di l. si è espresso Rawls nella sua teoria della giustizia come equità. La l. o, meglio, il sistema delle l. è oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive che il sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile, compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle l. individuali è prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto principio di differenza, che deve modellare le istituzioni responsabili della distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità dell’eguale sistema delle l. implica accettare un principio di equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di l. non ha, di regola, eguale valore per individui diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra l. ed equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul principio di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la l. e un altro valore sociale quale l’uguaglianza. A questa prospettiva, e ai suoi importanti sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin, si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi propria della teoria libertaria. In partic., Nozick ha confutato la pretesa di teorie della giustizia distributiva di proporre criteri o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa sull’assegnazione di valore intrinseco alla l. individuale, qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile perché non può che violare la l. individuale stessa. Nella più recente controversia nell’ambito della teoria normativa, il conflitto distributivo ha finito per lasciare spazio ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all’assegnazione di valore alle l. si sono così connesse a questioni di riconoscimento di nuove identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione da comunità di ‘pari’ dai differenti confini.Elzeviro Catalfamo. Il personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: metafisica della libertà, il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool Library.

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