Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale
della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Calci).
Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in
the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani –
notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the
Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” –
how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most
importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration
on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee
for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner,
Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the
nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si
laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore
secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana,
Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e
le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia
della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa);
“Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri”
(Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia
– noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia”
(Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della
nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano”
(Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo
in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso
storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo
diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di
Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La
letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli;
“Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e
sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE
che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa
pubblica. I crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti
dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle
ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a
grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A
Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine
liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo
d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I crotoniati lo riveggono stupefatti e
lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e
malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte.
Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico
linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture,
alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi
politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli
storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e
specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai
separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture
delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di
quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto,
e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di
densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti
usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore.
Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello
di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non
impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono
cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il
più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea
religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella
setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione
dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto
fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione
del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo
interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto.
Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se
veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna
imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer
sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al
sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a
goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile
schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il
riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio
esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura
trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che
procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri
ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa,
la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno
prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto
e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare
sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza
nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero
(Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra
ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo
è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente
desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata
a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a
disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione
favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico,
perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”,
dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut
cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón
te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII,
21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito
a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των
φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo
abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della
vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo
fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si
dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato
con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di
ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo
magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità.
Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero
dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa
o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si
lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma
all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della
cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi
per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara,
finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata
non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo
e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere
intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di
quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per
anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro
senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso
e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che
così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse
dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè
nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo
attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di
grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione
valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe
detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal
quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come,
secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e
adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella
assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture,
accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel
precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con
più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo
dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per
due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella
vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la
baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non
diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione
sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il
giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado
questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E
allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante,
discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla,
ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento
quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso
ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto,
non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte
uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma
qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere
religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla
classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più
simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata
la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco,
condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente
ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la
geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo
intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario
attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero
l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione
filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di
perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per
eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno
seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando
quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia;
gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’
pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi
il venerabile, etc. Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo
doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa
confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico,
probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII,
etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio
comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser
desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa
parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente
decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una
all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa
come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della
natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al
concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto
a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il
con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia
argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al
corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane,
miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile
negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa
imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al
quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo
imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo
chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi
canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e
diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua
vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola
ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso
dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza
di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte
del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune
piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν,
την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc
vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.,
1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica
secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo
vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo
conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella
esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di
atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e
contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale
anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e
singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria
a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una
sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo
ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata
dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e
materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito,
popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo
parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità
col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla
varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento
nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella
civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta
diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi
quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente
riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di
Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in
due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune
condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina.
Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a
rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda
alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con
la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale
conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente
un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il
paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha
incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua
vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla
general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa
unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità
logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi
la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni
possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una
filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno
che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario
valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è
solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose
favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora
non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire
di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per
rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la
esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e
alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia
irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita
longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi
non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa
nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un
autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con
quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce
implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa
greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate
reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων
TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per
la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di
Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare
storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la
sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle
parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21).
Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a
suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di
sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla
concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a
quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e
maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in
senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis
opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam
quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula
rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico
nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento
istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il
quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità
non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui
alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore
etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma
per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio,
pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una
più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria
partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di
lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II )
conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo
iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri
filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o
molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie
della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella
Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam
Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής
φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana
(“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus,
aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis”
-- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella
traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono
obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune
principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea
filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano
(Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe
far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit.,
19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα
παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei
vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana
di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica)
tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento
organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato.
L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e
la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto
intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in
Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno
nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa
velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta
occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra.
Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico
testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica
dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta
per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca
che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione
puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più
alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia
anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e
di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e
l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società
religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato.
Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata
con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che
scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi
non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente
confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici:
l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser
simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice
la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e
lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o
quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Alcuni videro in
questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri,
a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà
allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e da Porfirio ai quali riguardavamo
toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου
μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν”
– “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae
radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio sull’autorità di
Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico
ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima.
Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo
governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali
cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora
qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue
instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea
primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito,
e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e
determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è
sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno
altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini,
capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le
greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa
cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand'
opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le
acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio
suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e
instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il
tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella
costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee
correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui
esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane
nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora
ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana
eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella
sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per
rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella
vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime
congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà
furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più
addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario
fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo
con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il
quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio,
che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e
considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma
sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è
fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in
alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse
vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose.
Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo,
per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il
mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino
alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale;
fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e
riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo
lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e
diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva
formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si
vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli
uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni
intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal
nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in
quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la
storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma
attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che
sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e
il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano
ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a
intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo
facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più
devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono
di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se
altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico.
Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna
in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in
balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà
opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una
scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi
accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS
ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù,
Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες
το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è
creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è
ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue
istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora?
Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις
Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo
pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni
getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e
connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la
testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e
generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti,
incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e
la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima;
conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre
attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina
pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso
narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno
(Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico
ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con
criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che
si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa
legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners,
che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle
cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro
critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i
principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con
legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo
la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola
pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci
generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro
lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in
Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a
maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che
i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora,
senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne
tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno
accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e
le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già
opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d'
Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di
Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini
legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento
a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide
istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro
il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche
anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con
giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio
che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io
veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e
quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente
introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal),
congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole
di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il
sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo
un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V.
P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare
anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra
occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti
nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi
questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non
solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui
perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall'
Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono
esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al
curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all '
incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà
sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa
-- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea
non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé
gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li
curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del
comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse
l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum
gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII;
Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale
saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio
eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede
questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la
civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica
di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra
filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min.
ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella
studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte
le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo
presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una
disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo
le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia,
ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda
vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi
e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più
razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il
Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa
notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la
formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini
legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva
la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non
osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e
ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi
nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo
gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea
pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole
sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al
nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine
jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo
nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo
per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni.
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea,
fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo
della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e
di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la
concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste
sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina
jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità
cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle
misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare
un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi,
fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni
non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di
Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza
ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella
storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita
pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime
sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi
di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto
disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione
della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità
suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel
sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem
psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam
sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis
illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi
effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i
fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora.
Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella
filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e
degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si
diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa
antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei
miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione
con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare
questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar
feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi
l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma
attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e
nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della
scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali
carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di
un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli
gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre
meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali
cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le
leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa
sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte
le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora
in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V.
P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas...
venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs
viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII,
16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con
altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati
nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere
affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E
anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia
pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna
Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri
antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più
copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra
le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che
possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture,
potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una
radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la
bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e
di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La
tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere
cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la
nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta,
ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi
del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la
pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità
fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino
proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei
primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu
pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna
cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi
poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della
romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi
all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella
cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici
secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato,
simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini
conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal
gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da
principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi
lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo
Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta
nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno
specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di
riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi
esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni
tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta
caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili
congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che
non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando
della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è
scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano
di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in
colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il
perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che
nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano
alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere
più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche
religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari
costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che
fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella
costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua
pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi
ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione?
Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario
all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro
i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le
possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e
religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e
molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni
druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il
valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare,
De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10;
Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae,
mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint,
scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis
in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus
effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque
ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα
αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita.
Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem
bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la
Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della
musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il
grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non
contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione
pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a
trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam
trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della
Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico
ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere
nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e
future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia;
ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea
istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea
scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli
ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la con
clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale
abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima
parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la
sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma
l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un
disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute,
repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni
pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e
lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori
tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione:
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia,
ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e
ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell '
Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del
mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata
ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche
verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti
e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per
fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo
come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La
disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e
procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e
secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana
persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità
par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la
fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con
pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le
fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai
abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa
idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.,
XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi
glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla
generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e
governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.
XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice
Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a
tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere:
ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini
maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero
mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver
senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza.
L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la
dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di
tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però
restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio
delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in
quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero
consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di
una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè
comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a
bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste
parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον
ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri
unum (Str., IV, 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i
pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè
perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di
credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che
ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte
principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della
istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse
essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di
educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla
società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un
legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al
cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve
anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città
alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile
partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della
natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore.
Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non
conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise
in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e
le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede
leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo,
venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa
società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello
almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma
essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a
generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe
dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione
miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma
di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino
dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla
vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de'
singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia
tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella
società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime
intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui
disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe
spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la
pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne
risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli
necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella
quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico.
Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo
consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella
sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era
libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che
fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che
egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia,
nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si
potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè
ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o
genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da
quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do
mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi
col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come
a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non
potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro
di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e
costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che
ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una
necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio
dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e
convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del
numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina,
e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica,
e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna
ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano
tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della
scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale
nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica,
in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica
universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime
cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io
credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale
Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone
della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi
nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico
che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo
è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente
profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da
Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con
quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero
essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin
cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a
principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le
cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si
vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano
la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E
cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna
cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una
perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se
stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente
e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose
essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce
ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da
ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome
che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p.
48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per
rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a
penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου
κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del
punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica
generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella
metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò
bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono
l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di
atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo
seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del
numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le
anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono
nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare
delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto
l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi
ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore
principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione
dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam
detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di
Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente
attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità
straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio
arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le
maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne,
non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare.
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L.
1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri;
XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se
poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a
tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque
informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e
la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose,
che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità
istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero
mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta.
Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee
confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia.
Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue
per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la
proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa
vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non
sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e
solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma,
guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo,
rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate
più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente
comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica
il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter
massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria
è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del
pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli
studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini
e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena
educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua
cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali
condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei
quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che
ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti;
alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre
si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura
delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo
sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre
durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle
recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano,
quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato
ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al
degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini
della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai
quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica,
aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa
propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale
che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al
segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti
della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente
risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della
quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e
in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente
contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti
i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in
alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la
religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo;
e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale
della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e
costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si
vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto
pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per
fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le
condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e
meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva
uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del
vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura.
Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema:
erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a
ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur
tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è
poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi
membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale
consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà
morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo
alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le
prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e
prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de'
suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le
operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici
avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a
che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli
altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la
quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica,
alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro
religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le
loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee
religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a
purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a
tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere
convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd.
anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il
Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners
che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di
cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi
dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà
allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è
lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E
che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di
un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea
semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata,
rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa
dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad
effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone
eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi,
ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a
divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la
quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi
opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza.
Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano
adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali
procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della
società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica
pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne
volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce,
come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel
silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper
mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή,
Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P.,
19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò
prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe
gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento
dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica
quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che
ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi
solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a
vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato
a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la
filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da
quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua
regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le
quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento
di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta
cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte
le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi
della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non
sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe
vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci
di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli
scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte
di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle
cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per
la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma
a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche
dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò
quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi
avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con
severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto,
ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti
i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di
melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte
dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della
provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come
nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di
Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il
tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti
vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti
fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la
felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di
queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il
valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor
tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale
verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè
partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione
all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda
considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del
mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto:
e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia
abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in
lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il
Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del
Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma
presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra
parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione
enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente
necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro
intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò
che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or
tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione,
e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza
storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non
basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o
anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender
bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le
sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi
trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di
cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un
corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra
ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le
cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di
tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito
umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi
dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di
Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma
nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è
l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La
psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta
deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle
anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive
Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav,
äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora)
sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari
animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma
che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non
vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da
principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che
le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima,
fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di
queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi,
non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone
ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo
l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in
nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici
della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una
forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima,
ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, VIII, 15, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199,
da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo
ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον
δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin
guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a
farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica
non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti
coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni
loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il
principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano
lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il
deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato
alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di
formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di
usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica,
quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda:
forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi
recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a
Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi
viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha
gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti
elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può
argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto
imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la
filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta
alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla
natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non
sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi
sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono
il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque
natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un
fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di
tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente
ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o
professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il
secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed
accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i
loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose
pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali
che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui
mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed
imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle
cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo
amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente
profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là
egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare
il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras)
scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse
(VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo.
Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento,
non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore
fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei
seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce,
in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose
mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e
scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta
cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o
rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano
solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo
volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano
per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi
divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano
a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi
insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e
Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici
antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di
Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e
vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle
ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a
grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a
Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine
liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d'
Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti
e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e
malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte.
Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga
materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le
passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni.
Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle
anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi
oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le
imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore
di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu
fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta
di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle
arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in
errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui
accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria
caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a
perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La
speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla
scienza; e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini
della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli
ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico
di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione
prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora,
come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes
Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da
ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali
argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti
presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se
veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove;
vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia
bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il
piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai
sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle.
Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè.
Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo:
semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar
l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le
anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede
dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne
restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose,
questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni
giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il
disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i
ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti
vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril.
phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato,
accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è
alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente
desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole
espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni
ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un
pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il
resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio
fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità
dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis
sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc.
(Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv
fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio
(VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il
detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose,
"κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide,
i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre
punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia.
E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti
centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e
l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè
l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con
leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa
fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola,
s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè
spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che
presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a
fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la
presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione
radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le
vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne
abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non
bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e
sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono
essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde
l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita
esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza,
ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti
erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione
assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e
insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso
ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive
Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone,
Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai
discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave
disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione
valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto
Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse
ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" --
come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di
*sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche
alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e
dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza
il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea
conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du,
tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità
del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la
baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa
nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si
ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo
proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto
ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado
questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del
senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine
stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini
discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi
impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi
i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei
candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini
morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners.
All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon
governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma
i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e
seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio
austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa
cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro,
potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche
apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo
intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari
attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle
cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica
otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto
e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza
uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel
genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i
più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e
a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo
quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi
la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai
gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con
gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V.
P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la
casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che
sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere
nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne'
due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine
con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a
metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce
animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li
disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse eccitamento
all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da
fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I
maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a
divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso, alla
lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed
acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili
negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose
im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun
pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii
lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali:
e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E
prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante
fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali
alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri
i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio,
rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero
le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente
si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche
storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente
Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos?
ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud
ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini,
questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via
formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate
ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella
dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella
feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col
mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così
il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la
sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare
dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era
necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e
quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa
bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa
essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità
degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si
consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto,
quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una
certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima
cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia;
e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal
quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui
quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro
apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia
moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi
con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora,
vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee
principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli
uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una
sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel
nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica,
ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che
sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta,
Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer
tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi senz'ombra pure
di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica
instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi
risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni
risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità
molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto
della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia
contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un
ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un
personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato
senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il
contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che
Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte
le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla
sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare
anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che
venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse
assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia,
sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi
conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe
di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini
razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza
istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo
della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le
orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e
con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di
Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle
barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima
intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων
) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa
viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed
Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più
che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e
scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la
cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino
(Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice
erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente,
la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa.
Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di
Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra
conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una
filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam
praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque
vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes
Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia
secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio,
id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci
dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo
nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo
Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non
per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con
quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il
nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di
una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla
divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda
eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma
Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo.
Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno
antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto
antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie
della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di
Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in
libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod
huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT
atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo,
aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che
è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione
latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad
un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta,
non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione
del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice
Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da
Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche
conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι
παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature
animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele,
è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella
divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e
fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente
animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta.
Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che
risguardava oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta,
per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse
esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non
sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto
riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e
con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate
quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque
non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre
dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si
ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità
recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora
essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e
l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e
perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia
anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di
perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e
l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua
società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome
vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del
fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione
da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni
storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e
storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci
sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e mirabilmente confermano
il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici: l'uomo esser
bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai
Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità: ei suoi
detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto
tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e
radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa
sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico, il
nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due
versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit..
XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della
Tetratti, e che sono la formola del giuramento pitagorico: Ου μα τον αμετέρα
ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum,
qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem perennis naturae radicemque
habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico (in Theol.
Arith. ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo
spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco
felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, $ 20, p. 581. ) Noi dovevamo
governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le
quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea
o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non
importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi
mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a
potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia
parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che
l'abbiamo considerato, è sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato
di un animo e di un ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di
migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co
stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche
studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine,
apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una
sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo
ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi
intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società
religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità
e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua
scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile
reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a
guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la
stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende
testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non
solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice
del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini
storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per
meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la
civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e
le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia
di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee
storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi,
non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se
tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al
di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si
va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive,
e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato,
che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano
conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur
danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole
primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti
con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste,
indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità
comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e
significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un
fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza
importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si
debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia
che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le
sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non
era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente
proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le
cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare
che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle
supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società
pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo.
Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im
personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella
ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si
riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il
criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si
facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua
istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa
imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre
l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e
alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni.
Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il
bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila
Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più
offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero
mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina
psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli,
tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate,
all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il
mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha
conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore
dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire
le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di
Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i
costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti
ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a
civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una
specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i
principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea
aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime
col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei
piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da'
loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον
δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto
morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual
nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel
popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa
anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις
άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo -
tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle
pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino
dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il
quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza
medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché
la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen
dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale
e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando
degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di
Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa
sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. )
Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini
antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio
sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol
recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare
uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa
critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in
questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che
vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che
valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio,
a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che
ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora
comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia
l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri
schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già
occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide,
visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici
più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi,
reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi
mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze
o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le
ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o
viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una
certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di
Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola;
cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici
prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza
cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa
sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone,
di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di
alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon,
contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53;
Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire
tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni
pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti
frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero
l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti.
Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente
all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la
vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse
leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale
ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno
(allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e
pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con
l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci
italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e
quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica
confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21,
dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare
Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di
queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche
e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor
gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando
esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta,
come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie
fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di
molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee
appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun
popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una
società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima
della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv.
fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre
che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e
segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita
l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6;
excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma
vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone
-- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le
leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla
familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa
il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora
intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e
della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou
bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch'
ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione
vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio
sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città:
tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la
ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre
domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti
civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate:
proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato;
esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir
riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i
banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca
cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva
Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora,
l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo
medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già
provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero
preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste
società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el
lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni
jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe
importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci
alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono
nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era
il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume
della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio
un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non
seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica
di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della
pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia
delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica
dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose
che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero
essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo
onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle
perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani
ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di
necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e
alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende
opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma
alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose
più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce
lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo
degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli
Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue
riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano
l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della
verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone
nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle
Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck
scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in
transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et
nonnunquam irridens. Aglaoph., Prodigiosi effetti della lira orfica
furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città
edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la
sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori
divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri
sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva
per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e
rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle
tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove
idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito
di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io
non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei
misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una
rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo
troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica.
Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere
l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà,
fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre
opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano
anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono
nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi
dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere
che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le
altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse
avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita
gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15;
Giamblico, V. P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas...
venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs
viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII,
16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con
altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis
ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole
antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito,
disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At
Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique
relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi
nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col
nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel
misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando
romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e
contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del
mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti
magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che
si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un
popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo
Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l '
orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema
arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non
le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa
teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse
con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave
vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella
costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva,
dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero
nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla
formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe
continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria.
Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una
religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo
ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio
simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le
pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi
Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati
nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere
affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E
anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia
pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna
Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri
antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più
copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra
le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che
possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture,
potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una
radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la
bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e
di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La
tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere
cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la
nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta,
ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi
del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la
pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità
fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino
proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei
primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu
pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna
cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi
poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della
romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi
all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella
cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici
secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato,
simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini
conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal
gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da
principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi
lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo
Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta
nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno
specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di
riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi
esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni
tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta
caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili
congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che
non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando
della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è
scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano
di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in
colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il
perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che
nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano
alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere
più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche
religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari
costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che
fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella
costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua
pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi
ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione?
Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario
all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro
i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le
possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e
religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e
molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni
druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il
valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare,
De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10;
Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae,
mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint,
scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis
in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus
effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque
ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα
αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita.
Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem
bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la
Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della
musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il
grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non
contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione
pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne
vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati
nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia
e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore
è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato
vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora
dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche
generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica
con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea
scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli
ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la con
clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale
abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima
parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la
sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma
l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un
disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che,
achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle
terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute,
repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni
pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e
lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori
tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi
della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione:
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia,
ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e
ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell '
Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del
mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata
ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche
verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti
e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto
pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero
iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già
contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e
continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono !
Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle
prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di
tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all
' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le
parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo
d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per
fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo
come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La
disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e
procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e
secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana
persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità
par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la
fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con
pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le
fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai
abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa
idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect.,
XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi
glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla
generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e
governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm.
XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice
Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a
tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere:
ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini
maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero
mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli,
funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver
senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza.
L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la
dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di
tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però
restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio
delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in
quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero
consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di
una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè
comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a
bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste
parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον
ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri
unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici
aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione
dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde
si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa
piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina
dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e
scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di
Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale
collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero
appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente
far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti
poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare
questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi
privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed
ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali
dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per
meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo
vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue
idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e
le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo
di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una
società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da
stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco,
era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di
elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento
di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la
presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a
poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im
perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il
nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il
principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e
quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà
personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere
umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe
di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe
implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe
fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione
individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa
trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due
universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il
fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora,
racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto
alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze
allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste
dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio
veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella
geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella
psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a
frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al
presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse
fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc
cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio
da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla
fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e
necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere
la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ'
εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos. Che se l'
uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le
altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente
assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio
e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente
si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo
svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e
possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per
tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema
mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo
e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un
numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale
della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova
tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha
preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso
dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle
cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e
si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e
sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii
aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’
medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli
della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi
cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica
pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza
simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per
eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario
valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua
filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno
contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua
origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne
del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole
della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti
leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla
filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh.
Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia
esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele
veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici
antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι
αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che
questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo
concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se
non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di
quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la
condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano
che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a
un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che
eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti
nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai
vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar
loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica,
che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da
Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o
generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire
quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee:
γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica
delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione
corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che
qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque,
inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci
di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo
scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co
smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee
esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi
all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di
una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli
di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose.
Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a
una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere
consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina
tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le
cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la
dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli
furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro
nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e
linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse
le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio
ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere.
Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo
scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a
questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in
cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto.
Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio
la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui
osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte
bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la
stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea
rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui
l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af
fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della
scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli
facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla
quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera
e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un
sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali,
un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita,
filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i
languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle
notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e
le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della
sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un
concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento,
una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo
affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in
loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e
coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o
potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una
purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico,
insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero
astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ '
ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis
honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων
τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem
appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum
hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva
anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero
ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer.,
VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee
religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una
necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla
Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo
volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e
di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui
buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima
ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia
discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste
parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano
spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua
istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie
distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi,
alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e
beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or
chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per
rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi
propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice
delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al
popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a
sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non
mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono
trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare.
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L.
1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri;
XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se
poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a
tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque
informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e
la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose,
che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità
istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero
mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta.
Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee
confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia.
Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la
segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la
proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa
vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non
sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e
solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma,
guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo,
rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate
più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente
comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica
il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter
massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria
è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del
pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli
studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini
e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena
educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua
cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali
condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei
quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che
ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti;
alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre
si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura
delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo
sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre
durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle
recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano,
quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere
ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli
formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro
i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi
coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza
pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e
come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella
virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere
am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e
procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere,
inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di
uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine
scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre
sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi
inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza
nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in
questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a
perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a
miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente
unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che
molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi
manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di
uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica,
coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni
buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è
la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come
già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a
corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un
valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in
quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle
dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella
potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità
di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse.
Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe
esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse
adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità
opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità
del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini
della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti
della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria?
qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero
conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento
ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un
ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da
quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra
tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione
necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando
aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi
la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della
loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche,
e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma
ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e
necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non
comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane
ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni
religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo
filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per
le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici?
da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl '
intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a
suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva
ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in
istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società
ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si
sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua
famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla:
aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire
un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre
tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior
sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate
alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi
forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio
assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione
favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali,
fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα
την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur
silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità
poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se
Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il
perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima
arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le
passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero
que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur
somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio
che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora
avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che
dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse.
Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false
opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato
stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all '
apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità
nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si
convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno
ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne
frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali.
Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle
idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni
tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non
sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu
opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che
domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le
altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici,
fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai
grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione
suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata
religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura
avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno;
quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa
pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più
solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida
ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte
misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione,
il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora.
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società;
questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della
scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito,
la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una
debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i
cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà
cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi
che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina
psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con
l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante
per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori
della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava
testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi
psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di
Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella
storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è
l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La
psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta
deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle
anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive
Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav,
äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora)
sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari
animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma
che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non
vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da
principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che
le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima,
fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di
queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi,
non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone
ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo
l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in
nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici
della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una
forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima,
ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa
inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o
criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a
meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare,
che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze
propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per
propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è
grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono
principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete
dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli
che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie
tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare
dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più
cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello
splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella
compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando
col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua
dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il
deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato
con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando
il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato
sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e
legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del
Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo
questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao
e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla
loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma
pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da
Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto
fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα.
Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere
le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne
sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non
avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro
che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro
opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio
fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al
giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito
delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla
memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di
Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien
servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da
considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica,
e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò
il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine
non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria,
e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di
ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico
pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con
divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza,
che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato
questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil
occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine,
quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo
studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla
illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie
generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del
mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile
diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il
pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia,
e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento,
nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo
abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo
Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose
pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg. Invitato
dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana
filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose
scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie
investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni
qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi
oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son
pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse
quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima
che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un
comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti,
che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla
storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo,
e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io
naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la
creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato
potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman
sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda
considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra
nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la
probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio
ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore
delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli
elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro
viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno,
quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi
divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica,
quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda:
forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di
ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti
mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità
semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e
l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso
trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le
sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia;
corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle
tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica
epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato
dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il
luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe
che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni
del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso
rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà
primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra
civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane,
che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par
conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla
pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà
furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie
jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero.
L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a
estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è
piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali
spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle
città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del
secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle
gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico
scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero
destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è
nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e
i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si
compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente
copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al
magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della
mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e
là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a
riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda
l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù
dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della
filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto
speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde
questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si
scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una
semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel
passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel
principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto
bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e
bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni,
e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi limiti
bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i
paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e
formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere
nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre
sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i
Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e
gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e
mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli
effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da
altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal
ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che
leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il
criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι'
επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non
lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è
argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un
valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide)
nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in
luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo
vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea
impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una
provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente
consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della
mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per
dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue
condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente
al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente
s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno,
l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito
di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra
loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per
sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione
dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si
offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa
invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di
Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri
sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste
nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo
ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con
gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè,
secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di
Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro
filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo
tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le
ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe
sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover
poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi
la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente
posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet.
tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che
vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo
della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte
le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a
degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la
società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli
disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina,
professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo
il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano
corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e
danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio,
e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con
pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide,
Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i
pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in
apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus....
scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque
rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum
narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum
Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus
splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos.
IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII,
20. Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo
diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per
infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare,
per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge
nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un
pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente
stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della
civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò
per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della
loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi
diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni
di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana
consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a
che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e
legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili
mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a
tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero
questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi
pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la
notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e
rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il
pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo
troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra
scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di
Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di
sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra
le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno
un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio
al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di
Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio,
di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e
insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie
monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il
nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora
nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e
l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad
esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna
di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di
arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il
moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi
magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella
massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste
celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento
italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione
nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù,
mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri:
mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l '
aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda
inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso
nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a
rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa
esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a
invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a
Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come
domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono
coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera
abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra
misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque
avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee
ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in
quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e
distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi
investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle
età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e
conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel
frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia
pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è
bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle
voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle
statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte
in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno
di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini
alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno
della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII
Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al
primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C.
Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal
l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma,
la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli
scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città.
" * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori
l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de'
Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il
Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma,
quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello
che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser
favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era
uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su
questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia
stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi.
Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti
che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor
narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come
quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj;
tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i
quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide
scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore
anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la
storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso
più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri
ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma
altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte
del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad
abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri
vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso
delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del
Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle
rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e
di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito
alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da
prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno
al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non
avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti
ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono
la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che
fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar
nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand'
ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli
uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano,
Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e
ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne;
ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la
Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era
nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen
significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo,
contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e
Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone,
presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma
appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ).
Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono,
prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli
Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un
secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana
eravi in Italia una città nomi nata Roma.
Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed
altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città;
altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo
di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini,
il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in
Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città
questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori
gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di
Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo,
e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi
placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor
di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni
pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco,
partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di
Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente
raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in
casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si
mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un
membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e,
ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a
Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale
nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per
gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue
figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania.
Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in
Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel
primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali
tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi
Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco
siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de'
secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione
appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con
quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una
fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece
prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta,
4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una
certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di
tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine
di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti
due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier
loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava
poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando
minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e
meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che
finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo
vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la
Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha
moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la
prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi
luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per
ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che
nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento
erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla
guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli
Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in
moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi
luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito
Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut
reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque
l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri
storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani
alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353
anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio,
sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio
presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio.
Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto
al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno.
Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva
Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla
figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai
sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri
Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge
alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio,
Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa
in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona,
acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due
bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo
ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni
dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma
quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in
una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir
giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la
riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione
la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale ora chiaman
Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè chiamavan
Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico, il quale
appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte, o
perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva
prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome
Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser caste e
senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice Festo. Da
Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla
fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale calcolò l'uno e l'altro (anzi
calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo
Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno
bestiami che ruminano, o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli,
perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una
certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale
sacrificano senza vino, º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi
giacevano, scrivon gli storici, che stava a canto una lupa che gli allattava,
ed un picchio, che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi
che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in
grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei, che quei bambini avea
parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti
da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole, stata
essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che
vogliono che il nome della nutrice, per essere un vocabolo ambiguo, abbia dato
motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini
ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie, ma le femmine ancora che
si prostituiscono: e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di quel
Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia. A
costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di Marte
le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur anche
un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni
Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi
fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si era fatta Cunina, divinità che proteggeva
i fan ciulli in culla. 13 La conservazione prodigiosa e l'agnizione del
fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E
non è questa la sola favola straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare
i primordi delle loro istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando
la credulità di que' primi tempi copersero col velo della religione i loro
errori. 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò
intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili
errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo
d’apri le, l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende
che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita
di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad
uno scrittor romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il
custode del tempio di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al
Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon
presente dal Nume; e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume
stesso una lauta mensa, e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo
ciò, geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora
volendo mantenere i patti, e pensando cosa ben giusta lo starsene alla
convenzione, allesti al Nume una cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era
giovane e bella, ma non per anche pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove
disteso avea il letto: e dopo cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per
aversela. Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna, e che le impose
di andarsene sull'alba alla piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse
incontrato, sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in
età e di molte ricchezze, che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli,
siccome quegli, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le
volle bene, e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior
parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che,
essendo ella già molto celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve
in quel medesimo luogo, dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo
si chiama ora Ve labro, perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta
vano co' barchetti per quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto
chiamano velalura.?. Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che
davano qualche spettacolo, coprir facevano con tele quella strada che porta
dalla piazza al cir co, incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa
foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la
seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son
descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in
derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam
nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il
nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui
qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione
del Campidoglio. Plin., 1. XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode
de'porci di Amulio, raccolse i bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma
per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di
Numitore, ' il quale di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli
allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes
sero le lettere e tutte l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate: e
scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti
poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin
dall'infanzia diede subito a divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse
la di loro indole. Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili,
ed aveano un coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi.
Romolo però mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico
nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini,
facendo nascere in altrui una grande estima zione di se, che già manifestavasi
nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano
essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano
de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami,
considerandoli come uomini, che punto in virtù non erano più di loro
eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del loro sdegno. Frequentavano
gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non pensando già cosa degna di un
uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce,
i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i ladri, il diſendere dalla
violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati
in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli
fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che
diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso
dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere, nella musica,
e nelle belle arti. Furono poi spediti a Gabio, città dei Latini e colonia
d’Alba, distante circa dodici miglia da Roma, siccome a luogo di maggior
sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s '
appressa più a quello di Romolo. Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo
via de’be stiami agli altri rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero
loro delle percosse, li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della
preda, curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano
molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez
za. Ora, essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era
dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi
con Remo, che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta
tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente
vittoriosi quelli di Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed
accusato da loro innanzi a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del
fratello, ch'era uómo severo; al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva
di ottenere soddisfazione, essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava,
egli che pur gli era fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani,
persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a
rilasciargli Remo, perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore
ottenuto, se ne tornò a casa, e guardando con istupore il gio vanetto per la di
lui corporatura, che di grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo
nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi
vincere, e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo
che i fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e
soprattutto, com'è probabile, coope- · randogli un qualche Nume, e dando
unitamente direzione a principj di cose grandi, egli, locco per ispirazione od
a caso da desiderio di sapere la verità, interrogollo chi fosse, e in torno
alle condizioni della sua nascita, aggiungendogli fiducia e speranza, con voce
mansueta e con amorevoli sguardi e benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi
prese a dire: « Io » non ti nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più
» re tu, che Amulio; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli
rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da
prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due
fratelli nati ROMOLO. » ad un parto; ma da che ci troviamo accusati e
calunniati » appresso di te, ed in repentaglio della vita, gran cose dir »
sentiamo di noi medesimi, le quali, se sien degne di ſede » sembra che abbia da
farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento, per
quel che si dice, è un » arcano: il nostro nutrimento poi e la maniera onde
fummo » allattati, sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti
a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere, alle » quali fummo gittati,
siamo noi stati nudriti, da una lupa » col latte, e da un picchio con altri
cibi minuti, mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume.
Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame, dove sono » incisi
caratteri che appena più si rilevano, i quali un giorno » forse potrebbono
essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento, quando noi
morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso, e veggendo che bene
corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non iscacciò più da se quella
speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente
abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che leneasi ancora
strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era preso Re mo
e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e gli diede
allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale per lo
addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol quanto
basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente.
Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di sollecitudine
pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle
guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro, e confon
dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si
accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra
di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar
via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte
della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba
qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero
esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da'
caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito,
fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale,
essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si
tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi
ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar
menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse
volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi
figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che
con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio:
conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di
Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era
pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque
costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma
sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già
egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di
quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto:
im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui
fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne
aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati
distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava
legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le
quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche
presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo
avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 *
Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo
l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche
critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto
come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non
è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a
tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò
che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di
partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per
sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque
asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il
primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di
favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser
punto increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la
fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal
grado di possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e
da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e
tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver
essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go
verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se
medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti,
essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita
erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di
necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi
questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che
quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia
que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra,
principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo
cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far
mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta,
poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i
primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo
sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano *
Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo.
Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco
rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi.
3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni
persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a'
creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo
d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo
modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi
dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose
addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero
subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un
luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur
quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai
forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e
Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de
cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere
separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo:
alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia
mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne
Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj
specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea
rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa,
conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non
guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso
degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende
animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza
ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono
pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo,
Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è
Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi
d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò
può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte
Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il
presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più
gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno
sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne
sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua
discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto
rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce,
non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi
Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per
alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi:
finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di
Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un
certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur
morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo
ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua
chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto
Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un
combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far
quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia,
si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che
con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa,
come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare
intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le
primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e
per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità
i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto
il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia
contro l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo
veloce. Sul monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli
augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete
discepolo di Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà.
di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono
insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman
anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la
città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero
di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in
giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli
vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva
l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il
muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o
dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando
l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il
muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non
potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie
e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia
stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo
il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non
sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse
conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor
patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo
giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei
mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono
ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le
fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra
pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe
all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole.
Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice:
l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di
numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i
moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di
G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione
dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese,
e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono
essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno
terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i
Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo
anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a
quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era
eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e
de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si
dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le
risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della
speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona,
da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la
maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo
considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della
vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto
pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre
il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il
giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente
ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo,
circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il
nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè
stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il
suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine,
relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più
altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle
varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale
merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con
molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone,
che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius
Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano
riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la
città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di
tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi
bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il
restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri
cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato
chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un
collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj,
perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto,
secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa
non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o,
secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome
chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl'
inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo
Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva,
e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare.
Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo
cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i
principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed
amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i
più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro
affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi
ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli
stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma
dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter
muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi,
essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti:
e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine
senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri
uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli
clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro
una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli
obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi
clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro
consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei
loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero
in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o
magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i
clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando
tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i
magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste
cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come
scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni
che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi
oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le
guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i
Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole,
siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi.
Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena
in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più,
essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra
va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria,
ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza
e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano
all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato
avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si
fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza,
essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così
dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle
contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano
consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior
dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre:
conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo
tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono
che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che
l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto,
fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di
combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta
gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga
purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era,
quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente
d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu
dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso
a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi
che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite,
dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che
furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual
cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere
stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per
mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far
ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le
genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria
corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’
Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche
prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per
ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo
alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma
Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori.
XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire
aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa
condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di
persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de'
maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la
conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e
dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste
acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad
accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di
cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi
nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo:
conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua
moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie,
diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e
che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo
mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali
è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al
lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora
confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa
non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come
i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè,
quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le
donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro,
che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi
novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che
accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo
Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro,
che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa,
passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma
ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per
forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la
consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere
state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose
abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno
decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente
Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e
numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle
quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi
colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si
grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che
facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le
fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer
amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e
legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava
pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel
consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di
valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite
imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per
quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più
tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra,
e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui.
Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si
sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli
eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di
appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e,
attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non
fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad
atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime
condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi
crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se
stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto,
per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo
spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la
recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi
sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo
zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto
fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto
l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una
tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E
questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo
ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di
atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome
chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno
appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione.
L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan
dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il
capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il
primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio
Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé
Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei,
entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si
servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di
Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i
trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio,
fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il
rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco
s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie.
Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles
delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui
appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso,
quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale.
Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati
in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero
unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono
costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino
ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui
Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta
da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi.
Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio,
mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a
motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed
eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine
Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi
Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie,
di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel
luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano
alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una
porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi
vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser
tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il
tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un,
sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno
avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro
l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando
ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia,
co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei
nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la
smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo
tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla
quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da
Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi
da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser
creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di
Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò
quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi.
Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi
mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne
parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del
Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver
letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo
sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli
diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le
battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di
morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei,
finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono
trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che
appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci
pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li
provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche
venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura.
Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani,
essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione
il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto
breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume
non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma
cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne
si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri
colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini,
accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto
pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed,
en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di
cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che
ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione
sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il
pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo,
quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che
fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV.
Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è
probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale,
essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso,
ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati
dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi
alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e,
ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma,
veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non
essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le
mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose
dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la
preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e
il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente
durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe
interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo,
e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio
di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono
da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le
figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e
fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e
a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta,
e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e
quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e
diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi
da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e
vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te,
passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano,
fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si
infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a
viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono;
e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e
da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con
saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose
» sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono,
e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi
già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma
» ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi
misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel
tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera
compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre
» ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed
avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa
questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e
rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve
ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di
guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur
anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In
que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a'
fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano
i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della
casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con
amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che
ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e
da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città
fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata
Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e
che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si
fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire
chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti
cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di
seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù,
altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da
Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per
cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono
poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre
appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche
presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci
compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne;
il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi.
Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono
anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di
turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun
cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. »
Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si
chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre
questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una
tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati
due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti,
nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il
non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti
capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la
bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura
simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito
unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima
separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava
Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono
que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal
Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo
sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall'
Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si
profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque
molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel
legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di
corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come
la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi
si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi
mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea
subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar
soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano
da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per
quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno
e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco.
I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che
tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli
scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser
giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. ·
Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè
Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima
scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non
avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra
nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle
Matronali, 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e
quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a
presiedere alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle
madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed
inspirata da Febo, la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli
oracoli in versi, mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo
vero nome era Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di
quelli che più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per
mo strarsi fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser
privo, e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra.
E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si
celebra, che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di
nefasti del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e
quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali
significa lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella
solennità molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma,
comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere
che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i
Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo
esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che
si celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a
Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha
celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla
porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva
Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di
Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per
che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi
scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni
toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono
subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono,
convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie,
discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando
scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le
percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente;
ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo
Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate
da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio,
corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a'
bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i
nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade
in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello
insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora,
e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio
Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami
guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in
traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono
d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una
purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal
animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle
purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che
chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che
scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del
popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da
Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in
latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in
ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si
sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità
quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel
mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la
consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate
Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli
storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan
di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por
tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del
cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa
verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa
da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa
dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita
era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella
che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi
che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso
di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro
motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so
stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo
che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare,
ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero
ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse
questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età
parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità,
" S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le
Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che
questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3
Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo
sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni
attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com
messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale,
Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però
basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi
alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano
a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi
resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria,
Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si
andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi
il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in
tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con
senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in
alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo
in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si
diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni.
Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino,
presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell'
uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita
gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo
che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di
sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel
regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero
punto i Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano,
altri per la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come
un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur
* Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi
ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di
Troia che v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a
purificarsi nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli
antichi Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui.
Prese poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni,
repentinamente mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle
porte, ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri
dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in
molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo
loro teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non
volle demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati
avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX.
Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine
senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i
bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè
s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che
le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno,
che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio,
quanto sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l '
altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli
uccisori, si videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi
la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla
porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad
assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come
impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse
tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila.
Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi
anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie
che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in
Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di
sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti
o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj.
ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio
maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che
vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini,
sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da
Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di
Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria.
Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla
di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti.
Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non
pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi
a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali
possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi
fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di
loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo;
perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo
ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano
poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque
aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in
due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se
n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila
Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila
dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da
tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo
ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo
gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per
altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te
incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della
metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della
Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi
anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad
Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti
Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re
stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma
quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza,
anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento,
rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette
magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre
datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria
avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri
prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in
quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si
convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando
sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta
per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il
banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i
Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu
l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a
molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e
straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però
di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già
si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto
contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia
dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne
d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei,
cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio
spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non
procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della
costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone,
s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la
Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione
standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli
poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano
ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano
risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar
prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora
da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da
essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi,
dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che
questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima
Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i
Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba
l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per
far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno
in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche
quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed
arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati.
Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte
alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi
in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano
tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non
aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i
primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor
importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte
di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que'
patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria
persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier
non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli
considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani,
l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con
tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo
alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista
degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed
allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e
d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente
si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento
di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto
essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde
poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni
dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso;
altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo
assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva
esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea
dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte.
Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di
lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i
senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato
n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser
via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli
sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in
un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero
subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni
incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida
e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ,
e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si
vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione
Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece
per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse:
Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con
tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta;
onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero
insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la
luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo,
dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero
che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che
esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli
Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno.
Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo
adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali,
aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne'
patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose
vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo
adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj
principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi,
fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi
nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse
alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo,
che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo
addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una
tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o
per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e
malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che
quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io
per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di
gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, »
donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che
colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre
dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io »
sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani
degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che
fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto
divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi
alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si
diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha
della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo
Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto
sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per
dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano
da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella
strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e
gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e
furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di
fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse
nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli,
raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e,
avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu
possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che,
spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde
stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla
Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche
svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in
iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma
raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta
e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel
tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della
risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non
appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando
le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E
per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è
cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra
col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro,
si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo
ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché
questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen
ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo
al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto.
Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di
Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo,
come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo
cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s
' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli
uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime
per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di
uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre
espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale
e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità
e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi,
ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di
Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che
cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri
pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l '
asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora,
riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il
primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli
Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e
Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che
valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde
affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume
bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto
Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo,
e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla
palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti
nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi
vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che
questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine,
riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano
occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed
indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti
de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco
lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini
suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela,
coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che
però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne
senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo
l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la
guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo
stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una
serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di
non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto
l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide
medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone
li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed
allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno,
e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini.
Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro
ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse
da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro,
subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi
spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati
allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal
festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None
capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno
poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si
portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo
giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come
allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel
conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di
chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra,
come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima
ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel
giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato
dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di
regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al
suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia
della storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco,
la prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della
filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia,
formola logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio. Refs.: “Grice e Centofanti” – The
Swimming-Pool Library. Centofani.
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