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Monday, April 8, 2024

GRICE E CENTOFANI: L'IMPLICATURA CONVERSAZIONALE DELLA FILOSOFIA ITALICA, NO ROMANA -- APPIO -- FILOSOFIA ITALIANA -- LUIGI SPERANZA


 

Grice e Centofanti: l’implicatura conversazionale della filosofia italica, no romana – Appio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Calci). Filosofo italiano. Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany – dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa. Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”; “La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana, Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa); “Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri” (Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia – noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia” (Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano” (Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli; “Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degl’italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a CROTONE che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa pubblica. I crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde. A Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma I ROMANI (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re NUMA escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica. Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora, come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali, ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale dolcezza, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il corpo e lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi reprimessero dalla futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia. La domande cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto l’ingegno prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il disprezzo giusto e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti doma la compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento del mito é opera di Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di una cosa esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant” (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” – “proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato. “Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma – “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di ‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza dell’espressione spesso argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera l’espressione sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richiede non dirado questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova fino al termine stabilito. E allora passa alla classe superiore e divene de’ genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno alla diversa natura del candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento siccome a uomo morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure Meiners. All’abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo della setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma il degno di rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e segue una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina, il discepoli divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare sulla parola del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia; gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’ pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc. Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico, probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane, miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str., 1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina. Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora (o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale. Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio, pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana (“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis” -- zúov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica) tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato. L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici: l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna.  Alcuni videro in questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.) e da Porfirio ai quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis naturae radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio sull’autorità di Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima. Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia trovato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinari divisamenti, e costante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect., XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm. XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str., IV, 23.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII, 4); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII, 15, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse. Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto. Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda, e il re Numa escono legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica. L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi veli alla posterità che fosse curiosa d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce, nè delle cautele per non cadere in errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano solamente i maschi. La speculazione scientifica non impediva l'azione, e la moralità conduceva alla scienza;  e ragione ed autorità erano cosi bene contemperate negli ordini della disciplina, che avesse a derivarne il più felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa, principio organico di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la conformazione ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso quali cose avessero propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti, cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà, superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non dure, freddo ai sacrifici generosi, chiuso alle morali dolcezze, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose, questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti vani. Questo accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril. phil. Par, II, lib. II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso delle cose esteriori immoderatamente desiderate. La qual cupidità, molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l'umana socievolezza, vincevasi con la comunione dei beni ordinata a felicità più certa dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico era a disposizione de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio fondamentale dell'Instituto pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea; cosa molto notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai", "proprium nihil arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των φίλων". Anche le domande cavillose, le vesti squallide, i corporali gastighi abbiansi pure, se cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti cardinali della vera e primitiva disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di considerazioni opportune. Cosi i punti centrali, donde si diramano le molteplici correlazioni tra l'ordine morale e l'intellettuale, erano stati con profondo senno determinati e valutati, sicchè l'educazione e formazione di tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina era l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignorano da non pochi le arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono di essere uomini, ed uomini che si lasciano dominare a fanciulli. Nell'Italia pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la presunzione non occupava il luogo della scienza, e la solidità della cognizione radicavasi nella temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha nozioni sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne abbia compreso l'ordine necessario ed intero: e le nozioni imparate non bastano, chi non v'aggiunga l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e sapientissime testimonie della verità infinita. Poi non tutte le verità possono essere intese pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde l'autorità di coloro che le insegnano o che presiedono alla loro debita esecuzione. Gli alunni, non per anche iniziati al gran mistero della sapienza, ricevevano le dottrine dalla voce del maestro senza discuterle. I precetti erano giusti, semplici, brevi; la forma del linguaggio, simbolica; e la ragione assoluta di tutti questi documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e insegnato ("dutòs ipa", "ipse dixit". Di questo famoso ipse dixit credo di aver determinato il vero valore. Alcuni, secondo chè scrive Diogene Laerzio, lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone, Quintiliano, Clemente Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai discepoli del nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza: "tantum opinio praejudicata poterat, ut eliam sine ralione valeret auctoritas!" (De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida, l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse ricevuto i suoi dommi -- "ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come, secondo altri (Clem. Aless., St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di *sapiente*, perché la sapienza vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Il Meiners erra incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e dai buoni effetti ne argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che potesse venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea conferire il silenzio. Però la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du, tre o cinque anni era proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la baldanza delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo. Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners. All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro, potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo intelligibile. Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari attributi dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle cose cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio, che meglio fosse inclinato: i più alti intelletti alle teorie scientifiche; gli altri, a governar le città e a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc.; intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e quanto ai gradi dell' in segnamento, notisi una certa confusione d'idee neoplatoniche con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici. Vedi Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII, etc.). Vivevasi a social vita, e la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp axóïov). Prima che sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse nel giorno o ne' due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano e salutavano la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando. La qual musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica, e fosse eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella mente le cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi nei templi. I maestri insegnavano, gli alunni imparavano, tutti pigliavano argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al corso, alla lotta, ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con pane, miele ed acqua si ristoravano: e preso il parco e salubre cibo, davano opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti, ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita interiore. Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole ferme dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso dell'acqui stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella certezza di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormentava. Questa parte del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all'Uditorio comune piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν, την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos? ov diVÍTTETA!: et eam, quae nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud ipsum (Pythagoram) est 'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini, questo il vivere della società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate ad operare nobili effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella dello spirito: e lo spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione delle sue potenze, concordavasi di atti e di letizia col mondo, e trovava in Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così il pitagorico era modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la sua veste di lino bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare dagli altri. La breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era necessaria a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa, e quindi una sua propria nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare e determinare un criterio, onde la verità possa essere separata dalle favole quanto lo comportino l'antichità e la qualità degli oggetti, che son materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito, popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano possa parere in alcune sue parti, pur dee avere una certa attinenza o necessaria conformità col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alle varie opi. nioni che altri ne abbia; e quando le tradizioni rimango no, hanno un fondamento nel vero primitivo dal quale derivano, o nella costituzione morale e nella civiltà del popolo a cui quel vero storicamente appartenga. Che se nella molta diversità delle loro apparenze mostrino certi punti fissi e costanti a che riducasi quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente riscon trasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di Pitagora, vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in due idee principali: 1a in quella di un essere che sovrasta alla comune condizione degli uomini per singolarissima partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di que st'uomo straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta, Pitagora essere o poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer tissimamente un'idea storica e scientifica. L'Italia poi  senz'ombra pure di dubbio, è il paese dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce. Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del mito, e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembrano essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora sia insieme un personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia quel forte e temperato senno, che, non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla patria, alla nascita, ai viaggi, alla sapienza, alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un uomo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per' rispetto all'idea. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione della persona vera fosse assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e alla ricupera della storia, sarebbe timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale: potendosi conservare Pi tagora alla storia, e separar questa dalle favole, pecche rebbe di scetticismo vano chi non sapesse contenersi den tro questi termini razionali. Vediamo ora se a queste nostre deduzioni logiche aggiungessero forza istorica le au torità positive di autori rispettabili, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro filosofo. Erodoto, il quale congiunge le orgie e le instituzioni pitagoriche, con quelle orfiche, dionisiache, egizie e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce implicitamente al fi gliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alle cose greche ed alle barbariche (Erodoto, II, 81.; IV, 95. — Isocrate reca a Pitagora la prima intro duzione nella Grecia della filosofia degli Egiziani: φιλοσοφίας (εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (in Busir., 11 ). E Cicerone lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella Persia. De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laer zio, parla di lui come di uomo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente le umane cognizioni e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica disciplina (Laerzio, VIII, 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito è con fermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala arte (xaxoteXvinv) la molteplice erudizione di Pitagora; perché, a suo parere, tutte le verità sono nella mente, la quale dee saper trovare la scienza dentro di sè, e bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam praestantia doctus Plurima, mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque vestigans sapientum docta reperta. Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit facile is cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla. Empedocle presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con quello scientifico dell'uomo, ma per mostrare che prima degli Alessandrini il nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo. Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva, o molto antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità volentieri s'inchinano i moderni critici, ci fa sapere che principalissimo fra gli arcani della setta pitagorica era que sto: tre essere le forme o specie della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana (èv toiS TAVT atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus, aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov; che è notabile differenza: perchè, laddove le tre vite razionali nella traduzione latina sono obiettiva mente divise, nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune prin cipio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste parole, né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit., 19) ci lasciò scritto, che fra le cose pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche questa: και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire, che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima, come quella che risguardava oggetti sensati; e la seconda appartenere alla dottrina segre. ta, per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali. Non ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico; ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse velo alle idee, e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta per tre condizioni di vita, e Pitagora essere il segno di quella che media tra la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra, e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura possa esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società religiosa e filosofica, e coordinata col magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo, e attribuendo al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore, e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de' Pitagorici: l'uomo esser bi pede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o quell'istes so che dice la verità: ei suoi detti esser voci di Dio che da tutte parti risuonano: e lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio; altri, a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti, e che sono la formola del giuramento pitagorico: Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui animae nostrae tradidit Tetractym, Fontem perennis naturae radicemque habentem. (Porph., V. P., 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico (in Theol. Arith. ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco felicemente ! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, $ 20, p. 581. ) Noi dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo, ma a Pitagora, idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora, nel duplice aspetto in che l'abbiamo considerato, è sempre uomo ed idea: un pe lasgo - tirreno, che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare le sorti degli uomini, capace di straordinarj divisamenti, e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi, fa cendo raccolta di dottrine, apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera; e il tipo mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo, che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione della sua scuola. Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona, questo lume ideale, si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza di lui, non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto: ma insieme quello che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica, o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi, non si muove mai da. un concetto pienamente sintetico, il quale abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare; non si ha un criterio, che ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie, più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci. Il mito, non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato, che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino, pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo non confrontare, come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle cose vere, o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso, che dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e riferite ai loro diversi autori, non era cosa che potesse eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal nostro racconto, l'idea divina, im personata in Pitagora, era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano, e in diversa forma attestano una verità identica: e qui è il criterio giusto ai ragionamenti, che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una setta, e il principio organico della sua istituzione, e tutta la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati, è cosa naturalissima a intervenire, e della quale ci offre l'antichità molti esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero con giuramento l'orsa daunia, né indusse il bove tarentino, di che parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini, a non più devastare le campagne: ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli, tutte le cose apparentemente incre dibili, che furono di lui raccontate, all'idea, e ne avremo quasi sempre la necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a Zamolcsi, nume e legislatore dei Geti, ci ha dato anche un gran lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora: poi acquista libertà e sostanze, e ritorna in pa tria, e vede i costumi rozzi, il mal governo, la vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde, valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri, alla tolleranza delle fatiche, alla costanza della virtù, Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo, ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce, è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo - tirreno; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle pitagoriche: e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti, e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti, incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima; conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici, e della medicina pitagorica; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini antichissime, ma anche qual si fosse la sua forma primitiva: e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa critica, accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito, ma con legittimo criterio, a ' spie. garlo, discorriamo rapidamente la storia, secondo la parti. zione che ne abbiamo fatto. Preliminari storici della scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica, e un più chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in Samo, città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse: questo è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero, e che noi ancora, senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso; i quali per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e le feni cie, le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione della sua vecchia scuola; cosi Caronda, Zaleuco, Numa ed altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in computi cronologici. Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di Polibio, di Cicerone, di Varrone, di Dionigi di Alicarnasso,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon, contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven., I, pag. 53; Niebuhr, Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima. mente introdusse fra i Greci e pesi e misure (μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal), congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure, e quello della confinazione agra ria, e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi Giamblico, V. P., VII, XXX; Porfirio, id., 21, dov'è allegato Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane. Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse Pitagora? Creta non solamente è dorica, ma antichissimo e ve nerando esempio di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci: e Creta, come fu osservato dall' Heeren, è il primo anello alla catena delle colonie fenicie che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti all ' incivilimento. In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà sua propria, tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv. fédér, et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li curgo dubita assai il Grote, History, ec., tomo II, p. 530 e segg. -- del comune, i possedimenti: le mense, pubbliche: punita l'avarizia, e forse l'ingratitudine; -- Seneca, De benef., III, 6; excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi Tacito, XIII; Valerio Massimo, I, 7; Plutarco nella Vita di Solone -- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico: e tutte le leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos, de. gnato alla familiarità di Giove, vede questa eterna ragione dell ' ordine, e pone in essa il fondamento a tutta la civiltà cretese, come i familiari di Pitagora intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX, 179. Aiós meráhou bapuotis. Plat. in Min. ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta: dorica anch' ella, an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città: tutta la vita, una disciplina; la quale prende forma tra la musica e la ginnastica: e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono. Pre domina l'aristocrazia, ma fondata anche sul valor personale e sui meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore: le nature de' giovanetti, studiate: proporzionati i premi e i gastighi, e in certi tempi pubblico il sindacato; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero, e son comuni i banchetti: e la donna (cosa notabilissima), non casereccia schiava, ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane. A chi attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi? Ad Apollo Pitio. Come appunto Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo, era figliuolo di questo medesimo Apollo. Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche. Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici: onde in queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica. Che diremo delle instituzioni jeratiche? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia sarebbe importantissi mo lavoro, ma non richiesto al nostro bisogno. Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri, il teologo per eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni. Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra, simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea; finalmente, dopo molte lotte, la concordia loro: ed altre cose che possono leggersi nella sua Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una comune dottrina jera tica, che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando questo, certa cosa è nella storia, e Platone ce lo attesta, che gli antichi Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora, nel Carmide, nel Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi fatto un cenno alla metem psicosi. Il Lobeck scrive così di Platone.... ejusque (Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem dictorum, sed orationis illustran. dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph.,  Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte belve, gli ascoltanti alberi, i fiumi fermati, e le città edificate, che ci circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse, la sapienza sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica, e i legislatori divini ai legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia, eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue contrade, recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel pensiero letterario della sua storia. Quindi nei miti e nelle tradizioni nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica. Veniamo ora all' Italia; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine, per arti, per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca. Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo: ed Aristo tele, che testimonia questi fatti, ci fa sapere che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti pitagorici. Polit., V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche, forse avrebbe potuto avvi. sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura, e con le stabili dimore e coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile, le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P.. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit: quantumque illa urbs viguit, et dea in hominis me moria, et homo in deae religione cultus fuit. VIII, 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi, Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare (Plut., in Num.) anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater; isque parentem Te, Saturne, refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per mezzo d'Ippolito, disciplinato, secondo chè ce lo rappresenta Euripide, alla vita orfica. At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII, 774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato, e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma Virgilio, giudicando romanamente il mito, lo altera dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche, operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei, il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone, la congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia, il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica, di cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze, e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica. Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva, dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo, e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata. Dodici erano gl'Id dii consenti, e dodici i popoli dell'Etruria. Pei quali con giungimenti della terra col cielo, la civiltà divenne una religione; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante, e la matematica una scienza principalissima e un linguaggio simbolico. Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che, l'etrusco Lucio, introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci, diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C., VIII, 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica. Antichità Ilal., vol. III, pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica, e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici, scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane, e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri, più di me amico delle congetture, potrebbe, se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe: la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La tradizione, che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa, sembra essere cosi confermata dalle cose, ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti, il tempio rotondo di Vesta, ia sapienza arcana, le leggi, i precetti, i libri sepolti, i pro verbi stessi del popolo. Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita, e la dignità fastosa di Numa; il Flamine Diale, a cui è vietato cibarsi di fave; il vino proibito alle donne, ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana, ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della romana civiltà, dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo, come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela, dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale, dalla suprema indipendenza del ponti ficato, simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta, dagli ordini conducenti a comune concordia, dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale, da un concetto di generalità politica che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni, ec. potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio, e ne argomenta nazionalità necessaria. E il Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico, e congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento, col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa, e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi (il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse, ec. Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male, è piena di congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse; ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè, senza più oltre distenderci in questi cenni istorici, concluderemo, che nelle terre greche e nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni, e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze; indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria, per la cui virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero, e divenissero altra cosa in quella sua instituzione? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche, abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni, o le sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le pitagoriche è chiarissima: e questo è il valore istorico del mito che fa viaggiare Pitagora nelle Gallie. Vedi Cesare, De Bell. Gall., VI, 5; Diodoro Siculo, VIII, 29; Valerio Massimo, II, 10; Ammiano Marcellino, XV, 10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi: Hi terrae, mundique magnitudinem et formam, molus coeli et siderum, ac quid Dii velint, scire profilentur. Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu, aut in abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt, in vulgus effluit, videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram ad Manes, III, 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita. Dicerem stullos, scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato, nisi idem bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit. Il Röth fa derivare la Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson, la teoria dei numeri e della musica. Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1, pag. 296. Ma il grand' uomo, del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella civiltà, nelle scuole jeratiche, nelle consuetudini volgari della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è quella di un sapiente, che di tutte le parti buone che può vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia; ma anche generalmente alle terre greche e italiane, e congiungere la sua idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana; che era l ' idea scientifica. Procedimento pieno di sapienza, e che già ci an nunzia negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza.  Questa è la con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c. V. 33. Ma l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore, chi volesse eseguire un disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca. E forse anco l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse. Trovò genti calcidiche, dori che, achee, e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza, e nelle terre opiche i tirreni. Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute, repubbliche in guerra, go verni abusati; ma e necessità di rimedi, e ingegni pronti, e volontà non ritrose, e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione di alti divisamenti, quante fatiche tollerate, pensata preparazione di mezzi, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre fuori tutto se stesso dalla profonda anima, e dar forma a'suoi pensieri in una instituzione degna del rispetto dei secoli.... Mal giudicherebbe la sua grand' opera chi guardasse alle parti, e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea orfica primitiva, indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a viver civile, è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed età, e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee, ma tutte, e secondo i gradi della loro dignità nativa: non esaurisce la sua idea filosofica nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione: con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più degni, e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli interessi nazionali, e il co stante scopo al quale debbano intendere è il miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo pelierunt, ut Senatum ipsorum, qui mille hominum numero constabat, consiliis suis uti paterelur. Valerio Mas simo, VII, 15. Non ferma le sue instituzioni a Cro tone, a Metaponto, nella Magna Grecia e nella Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno, e fa invito a tutti i magnanimi, e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente greco, nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta all'Italia, destinata ad esser la patria della civiltà universale. Non vorrei che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva, i cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e processo erano già contenuti in lei, quasi in fecondo seme: tanto è profonda, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la costituiscono ! Cominciate, osservando, dall'educazione fisica delle indi vidue persone; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche. La sana e forte disposizione di tutto il corpo non è fine, ma è mezzo, e dee preparare, secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali. E la musica, onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale, e compie i suoi effetti nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi cosi nell'uomo come nella donna individui; forma primitiva dell'umanità tutta quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel l'esplicarle, e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata conformazione dell'umana persona. La quale, inte ramente abituata a virtù ed a scienza, era una unità par ziale, che rendeva immagine dell'Unità assoluta, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo, che nel cosmico sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a Pitagora anche questa idea, non per la sola autorità di Cicerone (Vetat Pythagoras, ec., De Senect., XX; Tuscul., 1, 30), ma e per le necessarie ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo, i provvidi ordinamenti cominciavano dalla generazione, siccome a Sparta, e continuavano con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda vecchiezza. Aristosseno ap. Stobeo, Serm. XCIX. – Dicearco, ap. Giamblico, V. P., XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila: ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere: ai giovani, che si formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani, gli uomini giovenilmente vivere, e i vecchi non aver senno, repuluvano cosa da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di bellezza, e di utilità; di vanità e di bruttezza, la dismisura e il disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo, di ciò che a tutti comunemente fosse con venevole: e però restringendo la letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e difficili nelle altre età, anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto, che, per nativa attitudine, potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura. Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica, e conti nua; e tutte le potenze, secondochè comportasse la natura di ciascuno, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino: Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov deiv,.... oportere hominem quoque fieri unum (Str.). Imperocchè fin dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante armonia, a questa bella unità, cioè perfezione dell'uomo intero, più che ad altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė: l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon damento in una dottrina di civiltà, al cui esemplare voglia con arti poderose conformare la vita di un popolo; ma deve anche storicamente accettare questo popolo com' egli: 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare l'uo mo Spartano, dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo accettare quelle genti com'elle erano, mise in guerra le sue idee con le cose, e preparò la futura ipocrisia di Sparta, e le degenerazioni e le impo tenti ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo, venia facendo una società potenzialmente cosmo politica ed universale. Questa società sparsa e da stendersi per tutte le parti del mondo civile, o di quello almeno italo-greco, era, non può negarsi, una specie di stato nello Stato; ma essendo composta di elettissimi uomini, e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose umane, esercitava in ogni terra, o avrebbe dovuto esercitare, con la presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice, e avviava a poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune. Im perocchè Pitagora, infondendovi il fuoco divino dell'amore, onde meritossi il nome di legislatore dell'amicizia, applicava alla vita del corpo sociale il principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini, e quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà personali, desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene; e direbbe fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari. Ma queste due universalità ne presuppongono sempre un'altra, nella quale sia anche il fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora, racco glitore storico della sapienza altrui: ora lo consideriamo per rispetto alla sua propria filosofia. E diciamo, che se nella sua scuola tutte le scienze allora note si professava no, e la speculazione era libera, tutte queste dottrine do. veano dipendere da un supremo principio, che fosse quello proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella geometria, nell'aritmetica, nella musica, nell'astronomia, nella fisica, nella psicologia, nella morale, nella politica, ec., non si potrebbe se non a frammenti, e per supposizioni e argomentazioni storiche; nè ciò è richiesto al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi suc cessori. Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col pensiero alla fonte dell ' or dine universale, alla Monade teocosmica, come a suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile, non potea non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év. De Ei apud Delphos.  Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice, v'la una prima unità da cui tutte le altre pro cedono: e se questa prima e sempiterna unità è insie me l' ente assoluto, indi conseguita che il numero e il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale, non solamente fa si che le cose abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche, ma che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose; e il libero arbitrio dell'uomo, anziché esser di strutto, ha preparazione, e coordinazione, e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del numero dovendo scorrere nella materia, nelle cui con figurazioni si determina, e si divide, e si somma, e si moltiplica, e si congiunge con quella geometrica, e misura tutte le cose tra loro e con sè, e sè con se stessa, questa eterna ragione ci fa comprendere, che se i principii aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo, sono ancora que’ medesimi, onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della natura. Però il numero vale nella musica, nella ginnastica, nella medi cina, nella morale, nella politica, in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile; un'apparenza simbolica ai profani, e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per eccellenza agl' iniziati. Questo io credo essere il sostanziale e necessario valore del principio, nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua filosofia: nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia, fino dalla sua origine, fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne del numero. E perocchè questo emanatismo è vita, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1, 5) sulla filosofia pitagorica, comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico (Pyrrh. Hyp., III, 18), se mai potessero essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono (των όντων... οι αριθμοί φύσει πρώτοι). Lo che non para si vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche, ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni cosa, se non fosse una, sarebbe nulla, indi concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione, ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta, senza la quale niuna cosa può essere, notavano che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra, ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero, che si deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti, si risolve da ultimo in una unità sintetica, che è l'ordine (xóquos) costante del mondo; nome che dicesi primamente usato da Pitagora. Il quale se avesse detto (Stobeo, p. 48), che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo, ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine, ci avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee: γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea, e appartiene alla fisica generale dei pitagorici. Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque, inteso a combatterli, non valutò bene questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti intellettuali, che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna, anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui, e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle, o raggi di una co mune sostanza eterea, debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela, e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica, che ordina tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà, la quale è l'ordinatrice di tutte le cose. Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo, ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui. Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne, non ci renderemmo difficili a dire: che amasse le grandi imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione; e si può facilmente credere. Veggasi anche Plutarco, in Numa, ec. – Ma il Meiners, che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica, molto volentieri concesse, che a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali, gl' in cantamenti mistici, la religione, e tutte le arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura, o non facendone conto. Parlando poi dell'arcano di questa società, ne restrinse a certo suo arbi. trio la ragione, per non cangiare Pitagora in un impostore l... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in stitutrici; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni, anziché pro muovere la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare, del quale facea sentire la stoltezza; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice, dovea rispettare le religioni popolari, e disporle a opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito, e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine, cioè una perfetta forma di vita, alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia. E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento continuo, un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie universali, un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte della vita, filosofia, religione suonavano a lui quasi una medesima cosa. I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole, il maestoso silenzio delle notti stellate, il giro delle stagioni, la prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della virtù, e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito di divinità presente, un concento dina mico, un consentimento di simpatie, un desiderio, un do cumento, una commemorazione di vita, una religione d'amo re. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali, e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na, come già notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico, insegna, doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro dignità; ovvero astenersene, quando cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura: έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta. (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi (doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno, dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato, e anche ripeteremo, che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza, che recava tutto all ' Unità, alla Monade teocosmica, non poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare. Imperocchè gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi. Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre luxuriam, a civitate seditionem, a fumilia discordiam dixooposúvnu), a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice Aristosseno, allegato da Porfirio (V. P., 22 ), suo. navano spesso in bocca a Pitagora; cioè, questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed egli, come ci attesta forse lo stesso Aristosseno, tirannie distrusse, riordinò repubbliche sconrolle, rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle illegalità pose fine, le soverchianze e i prepotenti spense, e fucile e beni gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P., XXXII). Or chi dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug. gitrice delle tirannidi. Ma questa dottrina sacra, chi l'avesse così rivelata al popolo com'ella era in se stessa, sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico. Il perchè non mi maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo, furono trovati libri pitagorici di questo genere, fossero creduti più presto efficaci a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in iscienza della natura --... quibus explicatis ad rationemque revocalis, rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1, 42. La teologia fisica era altra cosa da quella politica; di che non occorre qui ragionare. Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa, la cosa con alcuna varietà è concordemente attestata da Cassio Emina, da Pisone, da Valerio Anziate, da Sempronio Tuditano, da Varrone, da Tito Livio, da Valerio Massimo, (L. 1, c. 1, 4, 12) e da Plinio il vecchio; al quale rimando i miei leggito ri; XIII, 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare l'esistenza del fatto. Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la filosofia di Pitagora: e la necessa ria e indissolubile connessione che indi viene a tutte que ste cose, che sostanzialmente abbiamo considerato, è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società privata: e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella comunità; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose, mostrando, quanto fosse possibile, la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica, e la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del mistero. Insomma, guarda sparsamente le cose, che cosi disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema, le avrebbe trovate più grandi, e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale, ma dal concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per opra sua cominciasse, si vide posto, per la natura de' suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed esoterici, pitagorici e pitagorèi, son diversi nomi che potevano non essere adoperati in principio, ma che accennano sempre a due ordini di per sone, nei quali, per costante necessità di cause, dovesse esser partita la Società, e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause intrinseche, e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle menti; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni, fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le volontà: e mentre durava la disciplina inferiore, che introducesse i migliori nel santuario delle recondite dottrine, quell'autorità imperiosa alla quale tutti obbedivano, quel silenzio, quelle pratiche religiose, tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà, che, se non è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il prezzo, e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico, potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi, e di tutto il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque, che questa dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone, di discipline, di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico, le une colle altre sapientemente contemperate: e l'ar cano, che mantenevasi con le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare, ma in tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a perfezionamento dell' uomo; e la perfezione dell'uomo individuo, indirizzata a miglioramento ge nerale della vita; vale a dire, tutte le parti ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo. Con questa idea sintetica parmi che molte difficoltà si vincano, e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di uffici politici? No, per fermo ! ma era una società - modello, la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo morale e religioso, promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga, quanta è la virtualità della umana natura. Or tutti questi elementi erano in essa, come già mostrammo, ordinati sistema: erano lei medesima formatasi organicamente a corpo mo rale. E quantunque a ciascuno si possa e si debba attri buire un valore distinto e suo proprio, pur tutti insieme vo gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in questa superiorità di cognizioni, di capacità, di bontà morale e politica, che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e popoli, fra i quali ebbe esistenza, non sentiamo noi che le prudenti arti, e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità, doveano avere una conformità opportuna, non con una parte sola de' suoi ordini organici, ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano, a che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi, e gli altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità, senza la quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica, alla loro consociazione? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a purificare anche le idee volgari, quando aprivano le porte della loro scuola a tutti che fossero degni di entrarle? Indi la necessità di estendere convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita, e perd. anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche, e religiose. S'inganna il Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners che a questa lo credette inutile affatto, e necessarissimo alla politica, di cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi dell'Istituto. Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà allora concessa intorno alle opinioni religiose, ha valore. Imperocchè troppo è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria di un uomo? da pochi motti satirici? da una poesia filosofica? L'idea semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata, rigettata, internamente usata, e ciascuno l'intende a suo grado, e presto passa dimenticata dal maggior numero. Ma Pitagora aveva ordinato una società ad effettuare le idee, ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale. Quindi, ancorchè non potessero tornargli cagione di danno, non si sarebbe licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia filosofica; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla: aspettare i tempi opportuni, e prepararli: parteciparla ed usarla con discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea; ma divenire un fatto. L'arcano adunque, gioya ripeterlo, dovea coprire delle sue ombre tutti i più vitali procedimenti, tutto il patrimonio migliore, tutto l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi forte, che se ne volesse far materia di severa disciplina. Non dico l'esilio assoluto della voce, come chiamollo Apuleio, per cinque anni; esagerazione favolosa: parlo di quel silenzio, che secondo le varie occorrenze individuali, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P., 19. E dopo averlo conceduto a questa necessità poli tica, non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più alte. Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici, forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore? E se al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso, quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici, e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in vicinanza de'templi, che pur somigliano tanto a vita contemplativa, come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del pensiero? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola, e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse. Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni, le quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera. I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto solo, che ne scopre la falsità nascosta. Ma tutte le autorità del mondo non hanno forza, quando non si convengono con le leggi della ragione: e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro necessità razionali, ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali. Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico: infaticabili nello stu dio, non sempre buoni giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà, e massimamente i collegi jeratici, fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi, e i grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze, con lu strazioni sacre, con la giurata religione del segreto, ec., celebravansi di primavera, quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della natura. I secondi, d'autunno; quando la natura, mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza, e l'arte dell'agricoltore, confidando i semi alla terra, ti fa pensare le origini della provvidenza civile. E il sesto giorno era il più solenne. Non più silenzio come nel precedente; ma le festose e ri. petute grida ad Jacco, figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa, la notte misteriosa ed augusta, quello era il tempo della grande e seconda iniziazione, il tempo dell'eеро ptea. Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine, e veramente compartita la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo. Abbiam toccato di queste cose, acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit pitagorico, e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora. Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte, nè partecipante al sacramento della Società; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella parte del mito, secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto dell' Istituto: e determinando l'indole della sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del. l'umana eccellenza, che fu in lui simboleggiata. Che era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino, indi non venisse lume logicamente necessario, non potrebbe in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo essere separabili, ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione, e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica, ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta. Già vedemmo, la dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi, chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica, e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia, dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni, quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza. E forse in questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche, che comprovassero o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide, stimato figlio di Mercurio, e nei corpi di Euforbo, di Ermotimo e di Pirro pescatore delio, ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito, che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio); il che, secondo la storia positiva, è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata; perchè qui Pitagora non è l'uomo, ma l'idea, cioè la sua stessa filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo: TepūTOV TË QATL, scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι, την ψυχήν, κύκλον ανάγκης αμείβου. oav, äraore än2015 évseifar C60! 5, VIJI. 12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis immutantem, aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero determinate bene, non si vuol credere; ma che realmente se ne fosse cercato e in alcun modo spie. gato il sistema, non vuol dubitarsene. E con questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao, quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima, fossero appunto quelle di Pitagora: ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb' essere criterio grande la dottrina della metempsicosi, non considerata da sè, ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo tellurico, come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita cosmica, dovea mostrarsi a coloro, che le professassero come una forza maravigliosa che tutto avesse in sè, che tutto potesse per se medesima, ma che molto perdesse della sua purezza, libertà, e vigore primigenio nelle sue congiunzioni corporee, etc. Queste idee son tanto connesse, che ricusare questa inevitabile connessione loro per fon. dare la storia sopra autorità difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità soverchia. Finalmente, a meglio intendere l'esistenza di queste adunate dottrine, giovi il considerare, che se nell'uomo sono i germinativi della civiltà, essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti opportuni. Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi: e molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche; o quelli che separavansi dal centro nativo, non ne perde vano al tutto le memorie tradizionali. Questo deposito poi si accresceva con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario, e pei lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri. La gloria privata di ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto se stesso, esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e mostrando in esso la sua dignità. Anco per queste cagioni nella So. cietà pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla sua istituzione, cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie: e fino all'età di Filolao, quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non iniziati, tutto fu recato sempre al fondatore di essa, e nel nome di Pitagora conservato, aumentato, e legittimamente comunicato. Essendomi allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi sono aderito neppure facendo questa, che è molto probabile congettura, fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, confermato da Giamblico, V. P., XXXI, 199, da Porfirio, da Plutarco, e da altri, il domma pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao, μέχρι δε Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine storico, che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle posteriori intorno alle cose pitagoriche, e a farne sapientemente uso. - Nė da cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in tutto questo corso di tempi, o che tutti coloro che la professavano si dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza delle dottrine, i principali intendimenti, il principio fondamentale certamente doveano conservarsi: le altre parti erano lasciate al giudizio e all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo, che il deposito delle dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria di questi uomini pi tagorici, indi cresceva la necessità di formarli e avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare insieme quelle simboliche. Le quali se da una parte erano richieste dalla politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere, una intera storia di Pitagora, ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero, quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato, e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri; or dine di lavori da potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno, nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo, quantunque volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine. In tutti questi lavori è da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica, e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col Micali, scrittore di una storia generale dell'Italia antica, le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners, ma con servilità o con poca originalità di ricerche. Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo, e che, se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose. Discorre con criterio suo proprio le antichità della sapienza italica: combatte il classico pregiudizio di quelle greche: non accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi, o con quanta preparazione di studj, ma certo con divisamento generoso, e con dimo strazione di napoletani spiriti. Finirò lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico, che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto menzionare; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al termine, dal quale ho incominciato questa menzione, noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi, già professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca. Fra tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi Introd. allo studio della Relig. lib. II, SS 1 e seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono storie generali, nè speciali, nè dotte monografie: ma per la maestà superstite del mondo antico, per la conservatrice virtù della religione, per la mirabile diversità degl' ingegni, per la spezzatura degli stati, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora, non ha avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale, nè pienezza di liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito: e fra i viventi coltivatori di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV, pag. 147 e seg.  Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia, nè io voleva sterilmente ripetere le cose scritte da altri, nè poteva esporre in pochi tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei soli sa pienti, ma per ogni qualità di leggitori, i quali non hanno tutti il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi, e troppo spesso, quanto meno lo posseggono, tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi. Pensai di scriver cosa, che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere; che fosse una presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o doversi fare tra noi. E peroc chè tutti, che mi avevano preceduto nella nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo, e poste alcune fondamenta salde, di qui mossi a rifare la storia. Per quanto io naturalmente rifugga dalla distruzione di nessuna, e però degnamente ami la creazione delle nuove cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito e conservare Pitagora - uomo alla storia, riman sempre alcun dubbio, via via rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche. Ma laddove non è dato vedere, senz'ombra nè lacune, la verità, ivi la moderazione è sapienza necessa ria, e la probabilità dee potere stare in luogo della certezza. Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione. È desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa, intorno a questo argo mento. Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie: forse nei primordi di Roma, anche pelasgica, quegli elementi sono più numerosi e meno in frequenti, che altri non creda: forse alla storia di Pitagora potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo; quella cioè della consan. guinità semitica dei pelasgbi. Poi con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono nella nostra civiltà antica. Il corso trionfale dell ' Ercole greco, che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta, e poi dalla Spagna e dalle Gallie pas. sando in Italia; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l. Hist., IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo, e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca, è da restituirsi all'Ercole Tiri, come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren (De la politique, e du commerce, etc. II, sect. I, ch. 2). E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni, volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo, e insegna le arti della vita; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci, alle colonie, alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito, poi divenuto romano, intorno a Caco, e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra, e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri. E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio, e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani. Quanto a Pitagora, non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà primitiva; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi pretermettere, che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre italiane, che non si contenta alle speculazioni sole, ma quasi inspi rata dal clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle civiltà furono anch'essi sapienti: furono sapienti i fondatori delle ari stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento d'impero. L'idea, di qualunque natura ella siasi, tende sempre per impeto suo proprio a estrin secarsi in un fatto; la quale non solo è figlia divina della Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose, che la fanno nascere, e alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali, non basta più ai bisogni del secolo, e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che debbano darle gagliardo moto ed accresci mento, allora questi nuovi pensatori la fanno unico scopo a tutti i loro studi, e cosi compiono il grande ufficio a che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano, da questi ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda, l' immensità luni nosa, la libertà, la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria, là eseguisce i suoi civili uffici; e a riformare il mondo, dal quale sembra aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola jonica, e alle condizioni generali della vita, onde questa scuola non fu rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato, dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse, dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni, nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà, potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente piccoli, i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora possiede, nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che umanità verace e grande non vi era, o non sapeva di essere, e bisognava formarla. Il perchè una società, che introducesse fratellanza fra greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra genti lontane, grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo  A superare tutti questi limiti bisognava, lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di tutti i paesi, e consociarli a consorterie, che avessero la loro esistenza propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità per impeto necessario, doveano passare molti secoli, e molte arti essere variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando l'umanità si muove a scienza, a educazione, a generale congiunzione di forze e d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi. L'indole e gli spiriti aristocratici, che per le condi zioni di quella età dove assumere e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali, e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune: quella, disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno; questa, intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue, il vantaggio pubblico, gli effetti della buona educazione, la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi: frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro depravazioni o interessi. E principalmente il furore de mocratico e quello tirannico stoltamente irruppero a di struggerli.  Pitagora, come Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono; concordanza notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali, e da altri; ond'io, non potendo qui entrare in discussioni critiche, mi rimango dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op. portuna sopra un luogo che leggesi in Diogene Laerzio, e che fin qui passo trascurato perchè mancava il criterio a fare uso storicamente del mito: αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous; ipse quoque (Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda? lo non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso, e miticamente, cið le più volte è argomento, non dell'uomo, ma dell'idea. Or chi cercasse in queste parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza, che poneva nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita, che poi ne uscissero in luce, in luminis auras, qui troverebbe indicato il nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole. Ma ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo, quella espressione tę didew, ex inferis, non vale una provenienza, che, recata ad effetto una volta, indi sia asso. lutamente consumata; ma una provenienza, che si continua finchè duri la presenza della mitica persona, di che si parla, fra gli uomini. Onde, finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente, lo è in forma acco. modata alle sue condizioni aidiche, cioè recondite e misteriose: ex inferis o più conformemente al greco, è tenebris inferorum adest. Le quali condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria, che la discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi, come in quello di Pita gora, che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero, ovvero, come nel caso nostro, quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella sensibilità del simbolo, dal quale si offre poi anche ai profani in forma proporzionata alla loro capacità, o passa invisibile fra loro come Minerva, che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto possa esser presente, è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia simbolica, ég aidéw. Adunque, se queste nostre dichiarazioni non fossero senza alcun fondamento nel vero, noi avremmo ricuperato alla storia un documento cronologico, da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè, secondo questa testimonianza mitica, dalla fondazione di esso alla età di Filolao, e degli altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia, correrebbe lo spazio poco più di due secoli. E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato presente agli uomini dall' inferno, d'infra le ombre di Ai de; cioè la sapienza da lui, e nel suo nome insegnata, avrebbe sempre parlato, come realmente fece, con un arcano linguaggio. – A rimover poi altre difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet. tuale, chi ne facesse riferimento ai molti, talvolta è fatto istorico che vuolsi attribuire ai pochi, cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della scienza della natura esterna; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco; ma ancora perchè la società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla, e depravati gli disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina, professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano per le vie nelle feste Sabazie, gridando come uomini inspirati, e danzando: chi divoto fosse purificavano: inse gnavano ogni spirituale rimedio, e preparavano a felicità sicura. E intanto seducevano le mogli altrui, e con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici; testimoni sto rici, Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai, nè potevano, i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido, la religione in supersti zione, la virtù in apparenze vane; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi, e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II, ec. – Poi vennero le contraffazioni affettate; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie, e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito, e nel culto esterno del corpo. Timaeus.... scriptum reliquit.... Diodoro...diversum introducente or natum, Pythagoricisque rebus adhaerere simulante.. Sosicrales.... magnam barbam habuisse Diodorum narrat, palliumque gestasse, et tulisse comam, alque studium ipsorum Pythagoricorum, qui eum antecesserunt, for ma quadam revocasse, qui vestibus splendidis, lavacris, unguentis, lonsura que solita utebantur. Ateneo, Dipnos. IV, 19, ove si posson leggere anche i motti de' comici — Diog., Laert., VIII, 20.  Al capo di questa nobile istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci indegni, o per infelicità di tempi. Fu illustre il pitagorismo per eccellenza di virtù rare, per altezza e copia di dottrine, per moltiplicità di beni operati all'umana ge nerazione, per grandezza di sventure, per lunga e varia esistenza. Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna Grecia, già sparsamente stava, come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia, e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica. Intimamente unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i procedimenti della loro sapienza: fu ispiratore e maestro di Socrate e di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco: e se stava nelle prime istituzioni di Roma, poi ritornovvi coi trionfi del popolo conquistatore, e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore. Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi, come da fonte inesausta, quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della nostra vita. Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna Europa, tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana, poco più altro veggo restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie. Le basi di tutto il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine, perchè in Roma si conchiuse tutto l'antico; e il pitagorismo, che noi con tutta la classica sapienza ridonammo ai moderni, lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie della nostra scienza comune, e quasi preludere, vaticinando, alle dottrine di Copernico, di Galileo, di Keplero, del Leibnitz e del Newton. Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi. glio di Niccolò Puccini, il quale, tra le pitture, le statue ed altri ornamenti, che della sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero, volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia italica. Chè dove i nomi di Dante, di Michelan giolo, del Macchiavelli, di Galileo, del Vico, del Ferruccio, di Napoleone concordano con diversa nota nel concento delle nazionali glorie, e insegnano riverenza e grandezza alle menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima di chi vi ri. sguardi. E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda istituzione comprese il passato e l'avvenire, la ci viltà e la scienza, l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò principalmente, come la più degna di tutti i paesi, l ' Italia; qui l'Italia comparisce creatrice e maestra di arti, di dottrine, di popoli; e dopo avere dall'incivilimento antico tratto il moderno, con Napoleone Bonaparte grida a tutte le na zioni, grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e della virtù, mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero pitagorico, e i nostri: mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita dalle fondamenta, e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a privilegiare l'infeconda inerzia, ma sorgente da natura ed estimata secondo i meriti dell'attività perso nale: e accenna alla forma nuova degli ordini pubblici, destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca e armoniosa esplicazione di umanità. — Quando l'ora vespertina vien serena e silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni, e tu movi verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago. L'architettura è dorica antica, come domandava la ragione delle cose: le esterne parti, superiore e inferiore, sono coperte: quella che guarda a mezzogiorno, distrutta: e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre, e varie e frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell ' eternità consumati, i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la storia; e in quella ruina, in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali, e che della spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e vastità deserta. Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice dei corsi e de' naufragi umani, e conserva anco in brevi indizi lunghe memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio, leggerai in due sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica: Αληθευειν και ευεργετείν: dir sempre il vero, e operar ciò che è bene. Hai mente che in questo silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci? Congiungi questo docu mento con gli altri, che altamente suonano dalle statue, dalle pitture, dalle scuole, da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa, sacra ai fasti e alle speranze della patria, e renditi degno di avverarle e di accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750 avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade, 3235 del mondo, 38 di Roma, 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39 di Roma. I. Intorno al gran nome di Roma, la gloria del quale è già distesa per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni, alle quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana, deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli, nel quale fu rono distrutti monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che mai, s'è disputato, se l'origini di Roma, quali le narrano Livio e Dionigi, sieno verità storica o favola poetica. Quello che può dirsi in generale si è, nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche memorie e le antiche imprese. Un carme epico, però, su questo argomento prima di quel d'Ennio non si conosce; e che un solo carme sia stato fonte di tutte le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi. Plutarco stesso ci mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero intorno ad esse. Vi banno certo, e ognun se n'avvede, nelle lor narrazioni delle cose poetiche, ma ve d’ha di semplicissime e schiette, come quelle che riguardano l'antica forma di governo, la religione, i sacerdozj; tratle, non possiam dire, se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali, i quali, al dir di Cicerone, risalivano almeno al tempo de' re. Uoa delle guide scelte da Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia, ma le origini solo, ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo, indi con allri ch'ei nomina in diversi luoghi. Il primo tra essi è il re Giubba, che avea [ Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini, si misero poi ad abitare ivi, e che dal lor valore nell'armi diedero il nome alla città.? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia, alcuni, che sen fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed approdassero alle foci del Tevere, dove, es sendo le donne loro già costernate e perplesse, e mal tolle rar potendo più il mare, una di esse, che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su perar tutte le altre, abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi. Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero: ma poi, essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio, e riuscendo loro in breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato, esperimentata avendo la fertilità del luogo, e bene accolti ritrovandosi dai vicini, oltre gli altri onori che fecero a Roma, denominarono la citlå pure da lei, ch' era stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi conservato il costu me che hanno le donne, di baciar nella bocca i loro con sanguinei ed attenenti; poichè anche quelle, quand' ebbero abbruciate le navi, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano, Roma, figliuola d'Italo e di scritta la storia di Roma dalla sua origine, e ch'egli chiama diligentissimo. Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne; ma in troppi luoghi, ove bol no mina, s'accorda con lui. Costoro invasero la Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia. a Poichè fafen significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo, contemporaneo di Polibio. 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone, presso il fiume Neeto (1. VI ). Ma il fatto che alla fondazione di Roma appartiene, e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso (St., l. I ). Sennonchè egli dice che le navi erano greche, e le donne che le abbruciarono, prigioniere troiane. Specie di fortezza sul monte Palatino fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese.? Nondimeno Antioco siracusano, vissuto un secolo prima d’Aristotele, af. ferma che lungo tempo prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma.  Leucaria, ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole, ad Enea spo sata, ed altri quella di Ascanio, figliuolo di Enea, aver po sto il nome alla città; altri aver la città fondata Romano, figliuolo di Ulisse e di Circe; altri Romo di Ematione, da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei Latini, il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia, da Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu alla città questa denomina zione data da Romolo, concordi sono intorno alla di lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di Dessitea di Forbante, ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo fratello suo, e che, periti essendo. gli altri schifi per l'escrescenza del fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello, in cui erano i fanciulli, essi, fuor di speranza, restaron salvi, e da essi fu poi la città appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma, figliuola di quella Troiana sposata a Latino di Telemaco, partorito abbia Romolo; ed alcuni che ne sia stata madre Emilia, fi gliuola di Enea e di Lavinia, congiuntasi con Marte; " e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui generazione, dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani, uomo scelleratissimo e crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè narrano che, sollevandosi un membro genitale dal focolare, continuasse a farsi vedere per molti giorni, e, ch'essendovi in Etruria l'oracolo di Tetidė, fosse da questo recata risposta a Tarchezio, che una vergine si dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per virtù chiarissimo, ed insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue figliuole, e comandatole di usar Seguendo l'ottima lezione, meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio figliuolo d'Enea. 3 Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso, nel primo delle sue Storie, reca i nomi de' greci e de' romani autori, i quali tennero queste sentenze diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste, Aristotele, Calia, Senagora, Dionisio calcidese, Antioco siracusano, ed altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri. 6 Forse di Temide, chiamata da' Romani Carmente, a cagione appunto de ' suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare.con quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una fante; che Tarchezio, come seppe la cosa, gravemente crucciatosi, le fece prender ambedue per farle morire; ma che poi egli, avendo in sogno veduta Vesta, 4 che gliene vietò l'uccisione, diede a tessere alle fanciulle imprigionate una certa tela, con questa condizione di dar loro marito, quando avesser finito di tesserla; che quelle però andavano tessendo di giorno, ma che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte; che, avendo la fante partoriti due gemelli, Tarchezio li diede ad un certo Terazio, comandandogli di toglier loro la vita; che co stui, avendogli deposti vicino al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe, ed augelli d'ogni sorta, portando minuti cibi, ne imboccayano i bambini, fin tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di avvicinarsi, e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi, in tal maniera salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state scritte da un certo Promatione, che compild la Storia Italiana. Ma il racconto, che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj, è quello, le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate fra'Greci da Dio cle Peparetio, seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri; ma, per ispe dir la cosa in poche parole, il racconto è in questa maniera.“ De’re, che nacquero in Alba discendenti da Epea, il regno " Vesta, perchè il portento erasi fallo vedere nel focolare.? Storico sconosciuto. 3 Storico anteriore alla guerra di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali di Roma, e, come già si accenno, ed è pur detto qui appresso, in moltissimi luoghi lo prese a guida. Fabio, che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore, aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis; pulso fralre, Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da Plutarco adottata, cioè la testimonianza contraria degli altri storici, e il diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi furono tredici re d'Alba. Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio, sono 311, seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso Roma.pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio. Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti, e contrapposto al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno. Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva Numitore, usurpó facilmente il regno; e, temendo che nascessero figliuoli dalla figliuola di questo, la creò sacerdotessa di Vesta, onde viver dovesse mai sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia, altri Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la legge alle Vestali costituita; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo suppli zio, Anto, figliuola del re, intercedette per lei, pregando il padre. Fu però chiusa in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra persona, acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori poi due bambini grandi e belli oltre misura; onde, anche per questo vie più intimo ritosi Amulio, comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via. Alcuni dicono che questo servo nominavasi Fau stolo, ed alcuni, che non già costui, ma quegli, che da poi li raccolse, avea questo nome. Posti adunque i bambini in una culla, discese egli al fiume per gettarveli dentro, ma, veggendolo venir giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e depostili presso la riva, andò via. Quindi, crescendo il fiume, sollevossi dolcemente dall'inondazione la culla, e fu giù portata in un luogo assai molle, il quale ora chiaman Cermano, ma una volta, com'è probabile, chiamavan Germano, poichè chiamavan Germani i fratelli. III. Era quivi poco discosto un fico selvatico, il quale appellavano Ruminale, o dal nome di Romolo, come pensa la maggior parte, o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore scrive sempre Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il figlio di Numitore per nome Egesto (Dione ). Trent'anni a quelle fanciulle sacre conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus il luogo, e Cermalus il dice Festo. Da Var rone prese Plutarco ciò che leggiamo in questa vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di Romolo, il quale calcolò l'uno e l'altro (anzi calcolo fino il giorno e l'ora in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente. ] zogiorno bestiami che ruminano, o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea, che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano senza vino, º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano, scrivon gli storici, che stava a canto una lupa che gli allattava, ed un picchio, che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande onore e ve nerazione il picchio; onde a colei, che quei bambini avea parto riti, fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da Marte: quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole, stata essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che vogliono che il nome della nutrice, per essere un vocabolo ambiguo, abbia dato motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie, ma le femmine ancora che si prostituiscono: e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie di quel Faustolo, che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale. Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina nelle sue Quistioni Roma пе. n. 57.? Ciò viene attestato anche da Varrone. Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina, cosi di Cuna si era fatta Cunina, divinità che proteggeva i fan ciulli in culla. 13 La conservazione prodigiosa e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un altro impero. E non è questa la sola favola straniera, con cui i Romani tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie. 4 Sono molti gli esempj di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo della religione i loro errori. 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a Roma: l'una nell'ultimo d’apri le, l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco, nelle sue Quest. Rom., pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario, e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un greco.zia, e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole, es sendo, com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con patto di ottenere, se egli vincesse, qualche buon presente dal Nume; e, se per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa, e di condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò, geltati i dadi prima pel Nume, indi per se medesimo, vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti, e pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione, allesti al Nume una cena, e tolta a prezzo Larenzia, ch'era giovane e bella, ma non per anche pubblica, l'accolse a convilo nel tempio, ove disteso avea il letto: e dopo cena ve la rinserrò, come se il Nume fosse per aversela. Dicesi per verità che il Nume fu insieme colla donna, e che le impose di andarsene sull'alba alla piaz za, e, abbracciando il primo che ella avesse incontrato, sel facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte ricchezze, che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene, e morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà, la maggior parte delle quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già molto celebre, e tenuta come persona cara ad un Nume, disparve in quel medesimo luogo, dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si chiama ora Ve labro, perché, traboccando spesse volte il fiume, traghetta vano co' barchetti per quel sito alla piazza; e questa maniera di trasporto chiamano velalura.?. Alcuni vogliono che sia detto cosi, perchè coloro che davano qualche spettacolo, coprir facevano con tele quella strada che porta dalla piazza al cir co, incominciando di là; 3 e la tela distesa a questa foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo: velaturam facere etiam nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella dedicazione del Campidoglio. Plin., 1. XIX, c. 1. Faustolo pertanto, il quale era custode de'porci di Amulio, raccolse i bambini, senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne dicono alcuni, ciò si fece con saputa di Numitore, ' il quale di nascosto som ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi fanciulli, condotti a Gabio, apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose che convengonsi alle persone ben nate: e scrivesi che furono chiamati Romolo e Remo 3 dalla poppa, poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi, fin dall'infanzia diede subito a divedere nella grandezza e nell'aria, qual fosse la di loro indole. Crescendo poscia in età divenivano amendue animosi e virili, ed aveano un coraggio e un ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi. Romolo però mostrava d'essere più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini, facendo nascere in altrui una grande estima zione di se, che già manifestavasi nato per comandare, assai più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami, considerandoli come uomini, che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro curavano, nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti liberali, non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce, i corsi, lo scacciar gli assassini, l'ucci dere i ladri, il diſendere dalla violenza coloro che ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V. Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere, nella musica, e nelle belle arti. Furono poi spediti a Gabio, città dei Latini e colonia d’Alba, distante circa dodici miglia da Roma, siccome a luogo di maggior sicurezza. 3 Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più a quello di Romolo. Amulio e que’di Numitore, e questi conducendo via de’be stiami agli altri rapiti, ciò non comportando i due garzoni, diedero loro delle percosse, li volsero in fuga e li privarono di una gran parte della preda, curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di sediziosa arditez za. Ora, essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ), i pastori di Numitore, incontratisi con Remo, che se n'an dava accompagnato da pochi, attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e dall'altra, restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore, e Remo presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore: ma questi non lo puni per tema del fratello, ch'era uómo severo; al quale però, andatosene egli stesso, chiedeva di ottenere soddisfazione, essendo stato ingiuriato da’servi di lui che regnava, egli che pur gli era fratello; e sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse ingiustamente oltraggiato, Amulio s’indusse a rilasciargli Remo, perchè ad arbitrio suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto, se ne tornò a casa, e guardando con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura, che di grandezza e di ga gliardia superava tutti, e veggendo nel di lui aspetto il co raggio e la franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere, e si mostrava in sensibile nelle presenti sciagure; in oltre sentendo che i fatti e le imprese di lui ben corrispondevano a quanto egli mirava, e soprattutto, com'è probabile, coope- · randogli un qualche Nume, e dando unitamente direzione a principj di cose grandi, egli, locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la verità, interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita, aggiungendogli fiducia e speranza, con voce mansueta e con amorevoli sguardi e benigni; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire: « Io » non ti nasconderò cosa alcuna; imperciocchè mi sembri più » re tu, che Amulio; mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire, e quegli rilascia al supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia, servi del re; e siamo due fratelli nati ROMOLO. » ad un parto; ma da che ci troviamo accusati e calunniati » appresso di te, ed in repentaglio della vita, gran cose dir » sentiamo di noi medesimi, le quali, se sien degne di ſede » sembra che abbia da farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento, per quel che si dice, è un » arcano: il nostro nutrimento poi e la maniera onde fummo » allattati, sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere, alle » quali fummo gittati, siamo noi stati nudriti, da una lupa » col latte, e da un picchio con altri cibi minuti, mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume. Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame, dove sono » incisi caratteri che appena più si rilevano, i quali un giorno » forse potrebbono essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento, quando noi morti fossimo. » Numi tore, udilo questo discorso, e veggendo che bene corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane, non iscacciò più da se quella speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola, che leneasi ancora strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto, avendo sentito ch'era preso Re mo e consegnato a Numitore, esortava Romolo ad arrecargli soccorso, e gli diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita, della quale per lo addietro favellato non avea che in enigma, e fattone intender loro sol quanto basta va, perchè, badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero bassamente. Quindi egli, portando la culla, incamminavasi a Numitore, di sollecitudine pieno e di tema, per quella pres sante circostanza. Dando però sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte, ed osservato essendo da loro, e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si, che quelle non si accorgessero della culla, che al d'intorno ei cuopria colla clamide. Erayi fra di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i bambini da gittar via, e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener guardie alle porte della città; però Dionisio di Alicarnasso nota, che, temendosi allora in Alba qualche sorpresa, facevansi dal re custodire le porte. presenti quando vennero esposti. Costui, veduta allora la culla, e ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re, gli presentò Faustolo perchè fosse esaminato, il quale, essendo costretto in molte e valide maniere a ren der conto dell'affare, nè si tenne affatto saldo e costante, nė affatto si lasciò vincere: e confessò bensi ch'erano salvi i fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti; e che egli portava quella culla ad Ilia, che desiderato avea spesse volte di vederla e di toccarla, per aver più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio: conciossiachè egli mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di Numitore, con commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza, ed esortò a dar subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e unitamente cooperava. Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità di poter indugiare neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai presso, e non pochi cittadini correvano a lui fuori della città, per odio che portavano ad Amulio, e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur seco una quantità grande di armati distribuiti in centu rie, ad ognuna delle quali precedeva un uomo, che portava legata d' intorno alla cima di un'asta una brancata di erba é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette manipuli; donde avvenne che anche presentemente dura negli eserciti loro il nome di questi manipularj. Ma Remo avendo solle vati già que' di dentro, e Romolo avanzandosi al di fuori, 3 * Plutarco oblia d'aver detto poco avanti, che ad un solo era stato com messo l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti. È egli verosimile (chi qualche critico non contento della spiegazion di Plutarco ) che un tiranno si accorto come Amulio dia una tal commissione ad un uomo dabbene é amico di Numitore? Non è almeno più verosimile quel che narra Dionigi, che Amulio cioè spedisse a tutt'altr' uopo a Numitore un messo, e questi mosso da pietà gli scoprisse ciò che sapeva aver Amulio deliberato? ROMOLO. sorpreso il tiranno, che scarso di partiti e confuso, non s'ap pigliava nè ad operazione, nè a cosiglio veruno per sua sal vezza, perdè la vita. La maggior parte delle quali cose, quan tunque asserite e da Fabio e da Diocle Peparetio (che, per quello che appare, fu il primo che scrisse della fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di favolosa e finta per rappresentazioni drammatiche: ma in ciò non debbon esser punto increduli " coloro, che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e che considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di possanza arrivato, se avuto non avesse un qualche principio divino, e da non essere riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio, e tranquillate le cose, non vollero i due fratelli nè abitare in Alba, senza aver essi il regno, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go verno, e renduti i convenienti onori alla madre, delibera rono di abitare da se medesimi, edificando una città in quei luoghi, dove da prima furon essi nudriti, essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi;? e, poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur forse di necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere, sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi. Imperciocchè, che quelli che abitavano in Alba, non degnassero di ricevere in loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini, manife stamente si mostra, principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi le donne, prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado, mentre non potean far mari taggi in altra maniera, e non già per intenzione di recar onta, poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In appresso, gettati i primi fondamenti della città, avendo essi instituito a' fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata, poichè fra ogni persona, ' senza restituire né il servo a' padroni, né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati, affermando che quel luogo, per oracolo d'Apollo, esser doveva inviola bile e di sicurezza ad ognuno, sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di uomini: imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più di mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo, che chiamavasi Roma quadrata per esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città: e Remo voleva che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino, il qual sito per cagion di lui fu chiamato Remonio, e Rignario presente mente si chiama. Quindi commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli uccelli, e po stisi a sedere separatamente, dicesi che mostraronsi a Remo sei avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia mentito, e compariti non gli sien questi dodici, se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico, che anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio, quando mettevasi a qualche impresa, conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli altri animali, non guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i pascoli che sono ad uso degli uomini; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto, nè uccide od offende animale alcuno che viva; e si astiene da'volatili anche morti per l'attenenza ch'egli ha con loro, quando le aquile e le civette e gli spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie; e però, secondo Eschilo, Come fia mondo augel che mangia augello? gli antichi il solo che ne parli è Plutarco: sembra però potersi congetturare che fosse Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini li beri; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima. Plutarco, usando il presente, ne induce a credere che questa a'suoi tempi ancor sussistesse.Di più gli altri ci si volgono, per cosi dire, negli occhi, e continuamente si fanno sentire; ma l'avoltoio veder si lascia di rado, e difficilmente ritrovar ne sappiamo i pulcini: ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto rari ed insoliti; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce, non secondo l'ordine della natura e da se, ma per ispedizione divina. Accortosi Remo della frode, n'era molto crucciato; e mentre Romolo sca vava la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne frastornava i progressi: finalmente, saltandola per dispregio, º restò ivi ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso, 3 come dicono alcuni, o, come altri vogliono, sotto quelli di un certo Celere, ch'era un de' compagni di Ro molo. In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello, il quale raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in Etruria; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e veloci: e Celere chiamarono Quinto Metello, perchè dopo la morte del padre in pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi la prestezza in far quell'apparato. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo co' suoi balj in Remonia, si diede a fabbricar la città, avendo fatti chiamar dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed insegnavano ogni cosa, come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata una foss cir colare intorno a quel luogo, che ora si appella Comizio, e riposte vi furono le primizie? di tutte quelle cose, le quali per legge erano usale come buone, e per natura come ne cessarie; e alla fine, portando ognuno una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti. L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. Vocabolo greco che significa cavallo veloce. Sul monte Aventino. Gli Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose, state loro insegnate, dicevasi, da Targete discepolo di Mercurio. Come presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà. di terra dal paese d'ond' era venuto, ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni cosa? (chiamano questa fossa col nome stesso, col quale chiaman anche l’ Olimpo, cioè mondo): indi al dintorno di questo centro disegnarono la città in guisa di cerchio. Il fondatore, inserito avendo nel l'aratro un vomero di rame ed aggiogati un bue ed una vacca, tira egli stesso, facendoli andar in giro, un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che gli vanno dietro, s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva l'aratro, non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto il muro con una linea, chiamata per sincope pomerio, quasi volendo dire: dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta, estraendo il vomero e alzando l'aratro, vi lasciano un intervallo non tocco: onde re putano sacro tutto il muro, eccetto le porte; poichè se credes sero sacre anche queste, non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa fondazione sia stata ai ventuno d'aprile:: e i Romani festeg giano questo giorno, chiamandolo il natal della patria. Da principio (per quel che se ne dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata: ma pensavano che d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano nel medesimo giorno una certa festa pastorale, che chiamavan Palilia: ma ora i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza co’greci. Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno, in cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino (et de vicino terra pelita solo ), a significare che Roma soggiogando i paesi vicini, diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe: mescolarono le va rie quantità di terra. 3 Il testo dice: l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto, dopo Dionigi d'Alicarnasso, Euse bio e Solino, i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie agli Dei per la figliazione dei quadrupedi (Dion. I. 1. ) città, fu appresso i Greci il trentesimo del mese, e che fuvvi una congiunzione di luna, che ecclissò il sole, la quale cre dono essere stata veduta anche da Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade.? Ne' tempi di Varrone filosofo, uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella storia, eravi Tarruzio? suo compagno, filo sofo anch'egli e matematico, il quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta alla tavola astronomica, nella quale riputato era eccellente. A costui fu proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno e l'ora, facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle costellazioni, il suo ra ziocinio, siccome dichiarano le risoluzioni de' problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo della nascita, quanto l'indagar questo tempo, datane la maniera della vita. Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato: e avendo considerate le inclinazioni e le opere di quel personaggio, e lo spazio della vita e la qualità della morte, e tutte conferite insieme si fatte cose, tutto pieno di sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo anno della seconda olimpia de, nel mese dagli Egizi chiamato Cheac, il giorno vigesimo terzo, nell'ora terza, nella quale il sole restò intieramente ecclissato, e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo primo, circa il levar del sole, e che da lui gittate furono le fondamenta di Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora: imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città, come quella degli uomini, abbia il suo proprio tempo che la prescriva, il qual si considera dalla prima origine, relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e curiosità, di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere veramente, com' egli afferma, svollo con molto studio i volumi de' Greci e de' Romani. • Era egli pure amico di Cicerone, che parlandone nel II de Divinat. si esprime così: Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster, in primis chaldaicis rationibus eruditus elc.possano riuscir loro moleste per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città, prima divise tutta la gioventù in ordini militari: ed ogni ordine era di tremila fanti e di trecento cavalli, ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi trascelti fra tutti gli altri. In altri officj poi distribui il restante della gente, e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj, e senato chiamando la di loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi. Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè, come vogliono alcuni, padri erano di figliuoli legittimi, o piuttosto, secondo altri, per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri, la qual cosa non poteva già farsi da molti di quei primi, che concorsi erano alla città; o, secondo altri ancora, cosi chiamati fu rono dal patrocinio, col qual nome chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl' inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro, vi fosse un certo Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva, e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare. Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse, che Romolo cosi gli abbia appellati, pensando esser cosa ben giusta e conveniente, che i principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed amorevolezza paterna, ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i più grandi, e a non comportarne mal volentieri gli onori, ma anzi a portar loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato, chiamati son principi dagli stranieri, e padri coscritti dagli stessi Romani, usando questo nome di somma dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai, e lontanissimo dal poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri, ma poi, essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più, detti furono padri coscritti: e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla moltitudine de' plebei gli altri uomini, che poderosi erano, chiamando questi patroni, cioè protettori, quelli clienti, cioè persone aderenti; e insieme nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza, che per produr fosse grandi e scambievoli obbligazioni: perocché gli uni impiegavano se medesimi in favor de' suoi clienti, esponendone i diritti e pa trocinandoli ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose: gli altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli, ma aiutandoli altresi, quando fos sero in povertà, a maritar le figliuole ed a pagare i loro debiti; nė eravi legge o magistrato alcuno, che costringer potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti, o i clienti contro i patroni. In progresso poi di tempo, durando tuttavia gli altri obblighi, fu riputata cosa vituperevole e vile, che i magnati ricevessero danari da uomini di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il quar to mese dopo l'edificazione, come scrive Fabio, fu fatta l'animosa impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso, essendo per natura bellicoso, ed inoltre per suaso da certi oracoli, esser determinato da’ fati, che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre, divenir dovesse grandis sima, siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già egli rapite loro molte fanciulle, ma trenta sole, siccome quegli, cui era d'uopo incontrar piuttosto guerra, che ma ritaggi. Questa però non è cosa probabile: ma il fatto si è, che veggendo la città piena in brevissimo tempo di forestieri, pochi dei quali avean mogli, ed i più, essendo un mescuglio di persone povere ed oscure, venivano spregiati, nè sembra va che dovesse esser ferma la di loro unione, e sperando egli che l'ingiuria, ch'era per fare, fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne, diede mano all'opera in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui, che ritrovato avesse nascosto sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso, o si fosse il Nume del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza, essere ciò accaduto nel quarto anno. In fatti, come mai una città, per così dire, nascente, avrebbe fatta im. presa cotanto ardita, che doveva eccitarle contro un si pericoloso nemico? chè i Romani anche presentemente chiamano consiglio il luogo dove si consulta, e consoli quelli che hanno la maggior dignità, quasi dir vogliano consultori ), o si fosse Nettuno equestre: conciossiachè questo altare, ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta, è ben ragionevole che l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora, poichè fu scoperto, fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio, un giuoco di combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta gente: ed egli sedevasi innanzi agli altri, insieme cogli ottimati, in toga purpurea. Il segno, che indicato avrebbe il tempo del l'assalto, si era, quand'egli levatosi ripiegasse la toga, e poi se la gittasse novamente d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui; e subito che fu dato il segno, sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole, lasciando andar liberi i Sabini stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state rapite, dalle quali state sieno denominate le tribù; ma Valerio Anziate dice, che furono cinquecento ventisette, e Giubba seicento ottantatrė vergini, la qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non essere stata presa altra donna maritata, che Ersilia sola, la quale servi poi loro per mediatrice di pace, si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina per far ingiuria o villania, ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol corpo le genti, ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio, uomo fra’ Romani sommamente cospicuo, ed altri con Romolo stesso, e ch'egli n'ebbe anche prole, una figliuola chiamata Prima, dall'essere stata appunto la prima per ordine di nascita, ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, ' alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni, e i posteri lo nominarono Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta, ha molti contradditori. XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire aggregamento, dal verbo 6027.i6w, che significa raunare. alcuni di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una, che per beltà e grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano, ma che quelli che la conducevano, gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò, prorompessero in fauste acclamazioni, in applausi ed in lodi, e taluni ritornando addietro andassero ad accompa gnarla, per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio, di cui ad alta voce ripetevano il nome; onde venne che da'Romani fino al di d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio, come da'Greci Imeneo: conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese, uomo alle Muse accetto e alle Grazie, diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento; e che quindi tutti, portando via le fanciulle, gridavan Talasio, e per questo mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono, fra ' quali è anche Giubba, che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al lavoro ed al lanificio, detto da'Greci talasia, non essendo per anche in allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani. Intorno alla qual cosa, quando falsa non sia, ma veramente si servissero allora i Romani del nome di la lasia, come i Greci, potrebbesi addurre qualche altra cagion più probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi Romani, si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini in nessun altro lavoro, che nel lanificio. Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito, quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze, gridassero per ischerzo Tulasio, testificando con ciò, che la moglie non era condotta ad altro lavoro, che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di non lasciar che la sposa, passando da se medesima sopra la soglia, vadasi nella casa dov'è condotta, ma ve la portano sollevandola, poichè anche quelle vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono alcuni, che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e bellicosamente, delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi. Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo, all'incirca, del mese detto allora Sestilio, e presentemente Agosto, nel qual giorno celebrano la festa de' Consuali. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in luoghi senza mura, siccome persone, alle quali con veniva essere di gran coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non pertanto, veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi, e temendo per le loro figliuole, inviarono ambasciadori, che facessero a Romolo mansuete istanze e moderate, esortandolo a restituir loro le fanciulle, e ritrattarsi da quell'atto di violenza, ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre Romolo però non rilasciava le fanciulle, e confortava pur i Sabini ad approvar quella società, andavano gli altri procrastinando nel consultare e nell'allestirsi. Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle cose della guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di Romolo, e pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che fu da lui fatto intorno alle donne, e che non si potrebbe più tollerarlo, se non ne venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra, e mosse con un poderoso eser cito contro di Romolo, e Romolo contro di lui. Come giunti furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un l'altro a combattere, stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo Romolo fatto voto, se vin cesse ed uccidesse il nemico, di appendere l'armi a Giove egli stesso, il vince in effetto e l'uccide, e, attaccata la bat taglia, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio veruno a quelli che vi sorprese; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a seguirlo in Roma, dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini; nè vi fu altra maniera, che più di questa facesse poi crescer Roma, la quale, a misura che andava soggiogando, aggiungeva sempre a se stessa, e divenir faceva del suo corpo medesimo i soggiogati. Romolo intanto, per rendere il voto somma mente gradevole a Giove, e per farne pure un giocondo spet tacolo a'cittadini, veduta nel campo una quercia grande oltre modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste, e inghirlandatosi lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto fermo e di ritto, camminava cantando un inno di vittoria, seguendolo tutto l'esercito in arme, ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini. Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso. E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal verbo ferire usato da'Romani: imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di ferire e di atterrare quell'uomo: e quelle spoglie chiamate sono opime da Varrone, siccome chiamano essi opem le sostanze: ma sarebbe più probabile il dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi; perché appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime non permettesi che al capitan dell'esercito, quando valoro samente di sua propria mano abbia ucciso il capitan de' ne mici; la qual sorte è occata a tre soli condottieri romani, il primo dei quali ſu Romolo, che uccise Acrone il Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco; e dopo questi Claudio Marcello, che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello però, portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga; ma Dionisio va errato in dir che Romolo si servisse di cocchio: imperciocchè si racconta che Tarqui nio, figliuolo di Demarato, fu il primo fra i re ad innalzare in questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo, che trionfasse in cocchio, fosse Pu blicola: e si possono già vedere in Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo tutte a piedi. " Plutarco s'inganna, poichè anche un semplice soldato poteva guadagnare queste spoglie. Marcus Varro ait, dice Festo, opima spolia esse, etiamsi manipularis miles delraxerit, dummodo duci hostium. E l'esempio stesso di Cosso, recato qui appresso, è a Plutarco patentemente contrario, essendo pro vato che Cosso, quando uccise Tolunnio, era appena tribuno militare, ed Emi. lio il generale. Dopoche furono soggiogati i Ceninesi, stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti, quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i Romani; e restando similmente superati in battaglia, furono costretli a lasciar depredare le città loro da Romolo, a tra sportarsi eglino ad abitare in Roma, ed a vedere diviso il loro paese, del quale distribui Romolo a'cittadini tutto il re sto, eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri delle fan ciulle rapite, lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi mal sopportando la cosa gli altri Sabini, creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito contro Roma; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte, ch'era in quel luogo, dov'è ora il Campidoglio, ed eravicollocata una guar nigione, di cui era capo Tarpeio, non la vergine Tarpeia, come dicono alcuni, mostrando cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia, figliuola di questo comandante, che in vaghitasi dell'auree smaniglie, di cui vedeva ornati i Sabini, propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo, chie dendo in ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani sinistre. Il che da Tazio accordatosi, aprendo ella di notte una porta, li accolse dentro. Non fu pertanto Antigono solo (come si può quindi vedere ) che disse di amar que' che tradivano, ma di odiarli dopo che avesser tradito; nè il solo Cesare, che disse pure, sopra Rimitalca Trace, di amare il tradimento e di odiare il traditore: ma questo ė verso gli scellerati un, sentimento comune a tutti quelli che abbisognan dell'opera loro, come bisogno avessero e del veleno e del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro l'uso nel mentre che se ne servono, n'abbomi nano poi la malvagità, quando ottenuto abbian l'intento. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia, co mando che i Sabini, ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei nulla di ciò, ch'aveano alle mani sinistre, e trattasi egli il primo la smaniglia, l'avventò ad essa, e le av ventò pur anche lo scudo, e, facendo tutti lo stesso, ella per cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi, dalla quantità op pressa e dal peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da Romolo, fu preso e condannato di tradimento, siccome afferma Giubba raccontarsi da Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia, men degni d'esser creduti sono certamente coloro, i quali scrivono, ch' essendo ella figliuola di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo, operò quelle cose, e n'ebbe quel gastigo dal pa dre; ed è pur Antigono uno di questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto, pensando che Tarpeia abbia dato per tradi mento il Campidoglio a' Galli, e non a'Sabini, innamoratasi del re loro; e ne parla in questa maniera: Tarpeia è quella da vicin che in velta Stava del Campidoglio, e già di Roma Fea le mura crollar: poichè bramando Co' Galli aver letto nuzial, de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E poco dopo sopra la sua morte: Non però ad essa i Boj, non le cotante Genti de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po; ma da le mani, avvezze A infuriar ne le battaglie, l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane, E poser sovra lei fregi di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei, finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove, ne furono trasportate le reliquie, e manco ad un tempo il nome di Tarpeia; se non che appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio, giù dalla quale preci pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento, veggendo che, se anche venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura. Imperciocchè sembrava che il luogo tramezzo, nel quale doveasi venire alle mani, essendo circondato da molti colli, avrebbe ren duto per la cattiva situazione il combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma cieca e profonda ne'siti piani, verso là, doye ora è la piazza; la qual cosa ne si manifestava allo sguardo, nè poteva essere facilmente schivata, affatto peri colosa e ingannevole, verso la quale, portandosi inavveduta mente i Sabini, accadde loro una buona avventura. Concios siachè Curzio, uomo illustre, e tutto pieno di coraggio e di brio, cavalcando veniva innanzi agli altri di molto, ed, en tratogli in quel profondo il cavallo, sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo fuori, colle percosse incitandolo e colla voce; ma, come vide che ciò non era possibile, abbandono il cavallo, e salvò se medesimo: e per cagione sua chiamasi ancora quel luogo il Lago Curzio. Allora i Sabini, schivato il pericolo, combatterono validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo, quantunque molti restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che fu marito di Ersi lia, ed avo di quell'Ostilio, che regnò dopo Numa. XV. Attaccatesi poi di bel nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie, com'è probabile, fanno principalmente menzione di una, che fu l'ultima, nella quale, essendo Ro molo percosso da un sasso nel capo, e poco men che ucciso, ritiratosi dal resistere a'Sabini, i Romani volsero il tergo, e via cacciati dalle pianure se n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però, riavutosi alquanto dalla percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e, ad alta voce gridando che si fermassero, li confortava a combattere: ma, veggendosi tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa, e non essendovi persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico, alzando egli le mani al cielo, prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle. Com'ebbe fatta la preghiera, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re, e il timore di quelli che fuggi vano, cangiossi in coraggio. Primieramente durique ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore, che potrebbe interpretarsi di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo, e risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia, rattenuti furono da uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto. Concios siachè le figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri, con alte voci e con urli, come fanatiche, a'loro padri e a'mariti; altre con in braccio i piccioli infanti, altre colla chioma disciolta, e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno gli uni che gli altri, e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi. Già i loro singulti venivano uditi da tutti, e molta com passione destavasi alla vista e alle parole di esse, e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch' esposte aveano liberamen te, passarono in fine alle preghiere e alle suppliche. « Qual » mai cosa, diceano, fu da noi fatta di vostro danno o di vo » stra molestia, per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e ne soffriam tuttavia? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto, da quelli che presentemente ci ten » gono; e, dopo di essere state rapite, trascurate fummo dai » fratelli, da’ genitori e da'parenti per tanto tempo, quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a persone che ci erano affatto nemiche, ci fa ora timorose » sopra que' medesimi rapitori e trasgressori delle leggi, i » quali combattono, e ci fa sparger lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia; ma » ora voi strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In tal maniera » amate fummo da questi: in tal maniera compassionate siamo » da voi. Che se poi guerreggiaste per altra cagione, dovre » ste pure in grazia nostra acchetarvi, renduti essendo per » noi suoceri ed avoli, ed avendo contratta già parentela; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra, menateci pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i parenti, nè vogliate rapirci la prole e i mariti, ve ne » preghiamo, acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo Ersilia dette molte di si fatte cose, e mettendo suppliche pur anche l'altre, fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro. In que sto mentre le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da mangiare e da bere arrecavano a chi ne abbisognava, e medicavano i feriti, portandoli a casa, e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa il governo, come attenti erano ad esse i mariti, e come trattavanle con amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che ciò voleano, se ne stessero pure co'loro mariti, da ogni altra servitů libere e da ogni altro lavoro, (siccome si è detto) fuorchè del lanificio: che la città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini: ch'essa fosse bensi appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di Tazio, e che regnassero amendue e go. vernasser la milizia unitamente. Il luogo, dove si fecero que ste convenzioni, si chiama sino al di d'oggi Comizio, poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. Raddoppiatasi la città, furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini; e le legioni fatte furono di seimila fanti: e di seicento cavalli. Avendo poi divisa la gente in tre tribù, altri furono chiamati della tribů Ramnense da Romolo; altri della Taziense da Tazio; e quelli ch'erano nella terza, chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che vi si ricovrarono, i quali furono poi a parte della cittadinanza, chiamando eglino lucos i boschi. Che poi tre appunto fossero quelle divisioni, il nome stesso lo prova, dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie, le quali dicono alcuni che aveano il medesimo nome di quelle donne; il che però sembra esser falso, imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono a queste donne conceduti, fra'quali sono anche que sti: il dar loro la strada, quando camminavano, il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse, il non mostrar * Dionigi dice: « ciascun cittadino dovea chiamarsi in particolare Romano, » e tutti insieme Quirili. » Ma la formola Ollus Quiris lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti. Intorno all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu data molto tempo dopo Romolo. 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco: a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli, come potrebbesi agevolmente dimo. strare. , sele ignudo, il non poter essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali, e l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla, ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo, cosi detto dalla figura simile a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi cen to, e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il tempio di Moneta, 3 e Romolo presso il luogo, dove sono que' che si chiamano Gradi di bella riviera, e sono là, dove si discende dal Pallanzio al Circo Massimo; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro, favoleggiandosi che Romolo, per far prova di se, gittata avesse dall' Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo, la punta della quale si profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla, quantunque molti il tentassero; e quella terra ben acconcia a produr piante, coprendo quel legno, pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono, come la cosa più sacrosanta che avessero, e lo cinser di muro: e se ad alcuno che vi si ap pressasse, paruto fosse non esser morbido e verde, ma in. tristire, quasi mancassegli il nutrimento, e venir meno, co stui con gran clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che se arrecar soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua; e insiemecorrevano da ogni parte, portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre che Caio Cesare (per quello che se ne dice ) faceva fare scalee, gli artefici, scavando al d’intorno e da presso, ne maltratta rono senz' avvedersene le radici, e la pianta secco. I Sabini accettarono i mesi de'Romani; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse bene, l'abbiamo noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi de’Sabini e mutò l'ar. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser giudicata dai soliti ma gistrati, ma si unicamente da' commissarj del senato. · Teneva Tazio i monti Capitolino e Quirinale; Romolo il Palatino ed il Celio. Cioè Giunone Moneta. matura sua propria e quella de' Romani, che portavano prima scudi all'argolica. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste, non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra nazione, ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo, siccome quelle delle Matronali, 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra, e quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a presiedere alla generazione degli uomini, e perciò onorata ella sia dalle madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia, indovina ed inspirata da Febo, la quale sia stata denominata Carmenta, perchè dava gli oracoli in versi, mentre i versi da loro chiamati vengono carmina; ma il suo vero nome era Nicostrata: e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno di quelli che più probabil mente interpretano Carmenta, quasi priva di senno, per mo strarsi fuori di se negli entusiasmi; poich'essi appellano carere l'esser privo, e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato di sopra. E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in cui si celebra, che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa ne' di nefasti del mese di febbraio, il qual mese potrebbesi interpretar purgativo; e quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi de'Lupercali significa lo stesso che nell'idioma greco Licei: e quindi appare esser quella solennità molto antica, portata dagli Arcadi, che vennero con Evandro. Ma, comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina, potrebb’essere che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa; poichè noi veggiamo che i Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso, dove si dice che fu Romolo esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In tali feste, che si celebravano il primo giorno d'aprile, le matrone sa grificavano a Marte ed a Giunone, e riceveano doni dai loro amici. * Feste solennissime, cha celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del Campidoglio vicino alla porta Carmentale. Carmenta, madre e non moglie di Evandro, come osserva Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom., veniva adorata auche sotto il nome di Temi. Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio Pane delto Lupercus, per che teneva lontani i lupi. che in quest'occasione si fanno; conciossiache essi scannano delle capre; poi, condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono subitamente con lana bagnata nel latte: ed i giovanetti dopo che forbiti sono, convien che ridano. Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie, discorrono ignudi, se non in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le percosse, credendo che conferiscano ad ingravidare, e a partorire felicemente; ed è proprio di quella festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo Buta, che espone nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate da'Romani, dice che avendo quelli, ch'erano con Romolo, superato Amulio, corsero con allegrezza a quel luogo, dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è un'imitazione di quel corso, e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi s'incontra in loro, Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan Romolo e Remo: e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora, e che il terger poi col latte si fa in memoria del loro nutricamento. Ma Caio Acilio2 scrive,. che prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo, e che, avendo egli fatte suppliche a Fauno, ne corse in traccia ignudo per non venir molestato dal sudore, e che per questo corrono d'intorno ignudi i Luperci. In quanto al carie, se quel sa crifizio fosse una purificazione, potrebbesi dire che lo sacri ficassero, servendosi di un tal animale come atto ad uso di purificare; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si servono de'cagnuoli, e sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione, tribuno del popolo nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da Cicerone e da Livio, il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata in latino da Claudio. 3 Vedi Plutarco, Quest. Rom., n. zia della lupa e in ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo, non fuor di ragione si sacrifica il cane, perchè egli è nemico dei lupi, quando per verità quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci nel mentre che vanno scorrendo. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad instituire la consacrazione del fuoco,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate Vestali; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei, e raccontan di più, ch' egli fosse anche indovino, e che per cagion del vaticinare por tasse il lituo, ch'è una verga incurvata, ad uso di disegnarsi gli spazj del cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed asseriscono che questa verga, la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri quando la città presa da’Galli; e che poscia, dopochè i Barbari furon discacciati, trovata fu illesa dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di cenere, dove ogni altra cosa perita era e distrutta. Stabili pure al cune leggi, fra le quali ben rigida è quella che non permette alla moglie di poter mai lasciare il marito, ma permette bensi che sia scacciata la moglie in caso di avere avvelenati i figliuoli, o in caso di parto supposto, e di aver commesso adulterio: e se taluno per qualche altro motivo ripudiata l'avesse, ordinava quella legge che parte delle di lui so stanze fosse data alla donna e parte consecrata a Cerere; e che quegli medesimo che ripudiata l'avea, sacrificasse agli Dei sotterranei, Cosa è poi particolare, ch'egli, il qual non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero ucciso il padre, desse il nome di parricidio a qualunque omicidio, ' come fosse questo cosa veramente esecranda, e quello impossibile. E ben per molte età parve ch'egli a ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità, " S'intende in Roma, poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le Vestali, da una delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu trovata in un tempietto de' Salii, sul monte Palatino, 3 Plutarco ha qui probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo sciens morti ducil, parricida esto; la qual legge però viene da alcuni attribuita a Numa. ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com messo in Roma verun delitto si fatto; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale, Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però basti quanto si è detto sin qui. L'anno quinto del regno di Tazio, incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari; e, poichè essi resistenza faceano e difesa, gli uccisero, Fatta un'azione cosi temeraria, Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori; ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò, e sorpassava la cosa; e questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione, portati essendosi con bella maniera in tutt' altre cose, affatto operando, per quanto mai è possibile, di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi, non potendo per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma delle leggi, assalitolo in Lavinio, dov'egli sacrificava insieme con Romolo, gli tolser la vita, e si diedero ad ac compågnar Romolo, siccome uomo giusto, con fauste accla mazioni. Egli, trasportato il corpo di Tazio, onorevolmente lo seppelli nell'Aventino, presso al luogo chiamato Armilu strio: nė punto si curò poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici, che la città di Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio, e che Romolo gli lasciò an dare, dicendo che stata era scontata uccisione con uccisione: il che diede qualche ragione di sospettare, ch'egli volentieri si vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse quindi sconvolgimento veruno, nè si mos sero punto i Sabini a sedizione: ma altri per la benivoglienza che gli portavano, altri per la tema che aveano del di lui potere, ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno a Lavinio per sagrificare agli Dei della patria; cioè ai Penati di Troia che v'erano rimasti. • Luogo dell'Aventino, dove le milizie andavano a purificarsi nel giorno 19 di ottobre. anche molt'altre genti straniere; e gli antichi Latini, man datigli ambasciadori, fecero amicizia e lega con esso lui. Prese poi Fidena, città vicina a Roma, avendovi, come vogliono alcuni, repentinamente mandata la cavalleria, con ordine di recidere i cardini delle porte, ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso all'improvviso: ma altri dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio romano ed i borghi mede simi; e che. Romolo, avendo loro teso un agguato, e uccisi avendone assai, s' impadroni della città. Non volle demolirla però, nè spianarla, ma la rendette colonia de' Romani, man dati avendovi duemila cinquecento abitatori, il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una pestilenza, che perir facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia, e rendeva anche sterile la terra, ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da pioggia di sangue;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una grande superstizione. Ma, da che le medesime cose avvenivano aạche a que' di Lau rento, già pareva ad ognuno, che, per essere stata violata la giustizia, tanto sopra la morte di Tazio, quanto sopra quella degli ambasciadori, l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e dall'altra però dati reciprocamente e puniti gli uccisori, si videro manifestamente cessar quei malanni: e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata fosse la pestilenza, vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro, e, superalili in battaglia, ne uccise seimila. Presane poi la città, trasporto ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio; ma Dionigi d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da Crustomerio. dice soltanto 300; da quel che segue in Plutarco apparisce che questo numero è minore del vero. Queste pioggie di sangue, tanto terribili agli anticbi, compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte in rosso; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. ch'erano restati vivi; e da Roma passar fece un numero di gente, il doppio maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto, coll'altra metà che vi aveva lasciata. Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini, sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da Cameria anche una quadriga di rame: questa fu appesa da lui al tempio di Vulcano col simulacro di se medesimo, che veniva incoronato dalla Vittoria. Rinfrancalesi in questo modo le cose, i vicini più deboli si sottomisero alla di lui si gnoria, e, trovandosi in sicurezza, se ne stavano paghi e contenti. Ma quelli che aveano possanza, da timore presi ad un tempo e da invidia, non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati; ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo, e cercar di reprimerlo. I Vei ^ pertanto, i quali possedevano un vasto paese, ed abitavano in una grande città, furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena, siccome cosa di loro ragione: il che però non pure era ingiusto, ma ben anche ridicolo; perocchè, non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati, mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra, ma aven doli lasciati perire, ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno, mentr' era già in mano d' altri. Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e sprezzanti, si divisero in due parti: coll’una assalirono l'esercito dei Fide nati, coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena, rimasti superiori, uccisero duemila Romani, ma dall'altro canto superati da Romolo, vi perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a Fidena: e si confessa da tutti, che la massima parte di quell'impresa fu opera di Romolo stesso, avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita all'ardire, e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni, è del tutto favoloso e interamen te incredibile, che di quattordicimila che morirono in quella battaglia, più della metà ne fosse morta per man di Romodo; + Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da qualche inno di vittoria. Cosi anche come sembra che per fastosa millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene, che tre volte sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi, e avean già date le spalle, s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro, per una tale calamità, non fecero più resistenza, anzi divenuti supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento, rilasciata a Ro molo molta quantità del loro paese, da essi chiamato Sette magio, cioè la settima parte; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il capitano stesso de' Vei, uomo vecchio, ma che sembrava che in quelle faccende portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all' età sua. Per la qual cosa anche al presente, quando sacrificano per avere otte nuta vittoria, conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando: Sardi messi all' incanto;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia de' Sardi, e la città de' Vei è in Toscana. Questa fu l'ultima guerra fatta da Romolo. In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti, o piuttosto quasi a tutti, suole avvenire, quando dal favore di grandi e straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però di baldanza per le cose da lui operate, e portandosi con più grave fasto, già si toglieva da quella sua affabilità popolare, e la cangiava in un molesto contegno di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col quale si vestiva; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele, precedendo a Davide, che ritornava dalla vittoria dei Fili stei, cantavano: Saulle uccise mille, e Davidde diecimila. Settemagio o Seltempagio spiegasi comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai Lidii, cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata; la quale, per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. dosso tonaca di porpora, e portava toga pretesta, e teneva ra gione standosi agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne' ministerj. Ed avea altri che, quando andava in pubblico, lo precedevano risospingendo con verghe la calca, e portavan cinture di cuoio, onde legar prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare, che ora da’ Latini dicesi alli gare, anticamente era detto ligare, Liclores sono da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son baculi, dal servirsene che facevano allora, come di bastoncelli. Pure è probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c, fossero nominati prima Lito res, essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2 im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo, e lady la plebe. Morto che fu in Alba l'avolo suo Numitore, quan tunque a lui toccasse regnare, ciò nullostante, per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica; i quali, raunandosi in consi glio, piuttosto per costume che per esporvi il loro parere, stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare, che d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto. Ogni altra cosa però era di mi nor importanza, rispetto all'aver egli da per se stesso divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi, e restituiti gli ostaggi a' Vei, senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo leggesi ai Sabini, e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo; uno che si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. suasi ne fossero: nel che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato, il quale per questo fu poi tenuto in sospetto, e diede luogo alle calunnie, quando poco tempo dopo fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini; la qual cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio, ed allora Quintile, non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile, fnorchè il tempo già detto: imperciocchè anche presentemente si fanno in quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza, quando, morto essendo Scipione Affricano? dopo cena, in casa propria, non v'ha modo onde poter credere o provare qual fosse la maniera della sua morte: 3 ma alcuni dicono che, essendo egli per natura cagionevole, si morisse da per se stesso; altri ch'egli medesimo si avvelenasse; ed altri che i suoi nemici, avendolo assalito di notte, lo soffocassero: eppure Scipione, quando fu morto, giaceva esposto alla vista di tutti, ed il suo corpo, da tutti essendo osservato, potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno alla sua morte. Ma, essendo Romolo mancato in un subito, non fu vista più parte alcuna del di lui corpo, nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni s'immaginavano che i senatori, assalito e trucidato avendolo nel tempio di Vulca no, smembrato n'avessero il corpo, e ripostasene ognuno una parte in seno, portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano, nè dove fossero i soli sena tori, foss' egli svanito, ma ch' essendo per avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra, o sia di Cavriola, si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole, e venendo una notte non già placida e quieta, * Il Calendario romano segna in questo Populifugium, None Caprolineæ, e Festum ancillarum, cose tutte, che possono aver relazione al fatto, come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il vero, onde Valerio Massimo disse: Raptorem spiritus domi invenit, mortis punitorem in foro non reperit. ma con tuoni spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta; onde la turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme. Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo, dicono che fu allora cercato e desiderato il re; e che i primati non permisero che se ne facesse più esatta ricerca, nè che venisse presa gran cura; ma che esor tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei, e come, da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno. Affermano però che la mol titudine, udendo questo, se n'andava allegra, è lo adorava piena di buone speranze: ma che vi furono pur anche laluni, i quali, aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne' patrizj, e li calunniavano, come cercassero di dar ad intendere al popolo cose vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. Essendo adunque essi cosi costernati, si racconta che Giulio Procolo (uomo fra' patrizj principale per nobiltà, e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni costumi, fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba ) andatosi nella piazza, e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più sacrosanto, disse alla presenza di tutti, che, camminando egli per via, apparso eragli Romolo, che gli si era fatto incontro in sembianza bella e grande assai più che per lo addietro, adornato d'armi lucide e sfavillanti; e ch'ei però sorpreso ad una tal vista: « O re gli aveva » detto, per qual mai offesa da noi riportata, o per qual tuo » pensamento, hai tu lasciati noi esposti ad ingiuste accuse » e malvagie, e la città tutta orfana, e in preda ad un im » menso dolore? » E che quegli risposto aveagli: « È piaciuto, o » Procolo, agli Dei, che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli uomini, e fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada novamente ad abitare su in cielo, » donde io era venuto. Tu pertanto sta di buon animo, e » fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza * Per opera, dicevasi, del Dio Marte padre dello stesso Romolo. » arriveranno eglino al sommo dell'umano polere: ed io » sarò il Nume Quirino a voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe' buoni costumi di chi le narrava, come pel giuramento che fatto egli aveva: ed in oltre cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia, si diedero a far voti a Quirino e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio, ' e Cleomede d’Aslipalea. Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina da tintore, e che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui cor po, fosse svanito; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio, dicessero di averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a Crotone. Di Cleomede poi dicono, che essendo grande e gagliardo di corpo oltre misura, ma stolido in quanto alle sue maniere e furioso, facesse molte violenze, e che finalmente in una certa scuola di fanciulli, percossa colla mano una colonna che sosteneva la volta, la rompesse nel mezzo, precipitar facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che, venendo egli inse guito, se ne fuggisse in una grand’arca, e, avendola chiusa, ne tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo, quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che, spezzata poscia quell' arca, non ve lo ritrovassero nè vivo, nè morto; onde stupefatti mandassero a consultar l'oracolo a Dello, e risposto fosse dalla Pitia: L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito il corpo di Alcmena, mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano * Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide, storico, poeta e grau ciarlatano, visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta. 3 Nel tempio di Minerva ove Cleomede si riparó. 4 Plutarco cita una sola parte della risposta, la quale cosi Gniva: Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non appartiene ai mortali. d' di tali favole lontane dal verisimile, divinizzando le persone che son di natura mortali, e mettendolé insieme co' Numi. XXIV. E per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di divinità, ell ' è cosa empia e villana; ma ell'è altresi cosa stolta il voler mescolare la terra col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando, secondo Pin daro, si ha già sicurezza, Ch'è della morte al gran poter soggetto Bensi il corpo ognun, ma resta salvo Lo spirto ancor, d'eternitade immago. Conciossiaché questo solo è quello che abbiam dagli Dei, e che di lassú viene e lassù pur sen ritorna, non già in com pagnia del corpo, ma quando sia più che mai dal corpo al lontanato e diviso, sgombralo della carne, e mondo e puro del tutto. Imperciocchè l'anima, quando è secca ed inaridita, secondo il parere di Eraclito, ” è allora nella sua maggiore eccellenza, volando fuori del corpo, come baleno fuor di una nuvola; dove quella, ch'è mista col corpo e dal corpo cir condata, è come un vapore grave ed oscuro, che difficilmente si accende e s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al cielo contro natura i corpi degli uomini dabbene insieme cogli spiriti, ma tener per fermo che le virtù e l'anime per loro natura e per giusto decreto divino sieno sollevate a can giarsi di uomini in eroi, di eroi in Genj, e se perfettamente, come nelle sacre espiazioni, purificate e santificate sieno, schive da quanto v ' ha di mortale e soggetto alle passioni, tener si vuole non per legge di città, ma per verità e secondo una ben conveniente ragione, che cangiate vengano di Genj in Numi, ottenendo cosi un bellissimo e beatissimo fine.? In quanto poi al soprannome di Quirino dato a Romolo, altri vogliono che significhi Marte; altri dicono che cosi fu egli chiamato, perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti; ed altri pretendono che ciò sia, perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l ' asta; e il simulacro di * Eraclito d'Efeso, vissuto poco dopo Pittagora, riguardava il fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il primo che distinse quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi, i genj, e gli Dei. Giunone, messo in cima d'una punta, detto era di Giunone Quirilide; e Marte chiamavano l'asta collocata nella reggia: ed onorayan quelli che valorosamente portati si fossero in guerra, col donar loro un'asta: onde affermano essere stato Romolo appellato Quirino, per dinotarlo un certo Nume bel licoso e marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto Quirino dal nome di lui. Il giorno, in cui egli svani, si chiama fuga di volgo, e None capraline: perché in quel giorno, discesi dalla città, sacrificano alla palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio, imitando la fuga ed il chiamarsi vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che questa non è già imitazione di fuga, ma bensi di fretta e di sollecitudine, riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo, e la città, spossata ed indebolita, mal potea per anche riaversi, mossero l'arme contro di essa molti de' La tini, avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco lontano da Roma, inviò un araldo, il quale dicesse ai Romani che i Latini suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela, coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che però, se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne senza marito, pace n'avrebbero ed amicizia, siccome da prima per un egual modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani, temeano in parte la guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne era lo stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi, una serva nomi nata Filotide, oppur Tutola, come altri vogliono, li consi gliava di non fare nè l'una cosa nè l'altra, ma di schivare per via di frode tanto l'incontrar guerra, quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che Filotide medesima, e con lei altre serve avvenenti e ben adornate, fossero, come persone li bere, mandate a' nemici; e ch'ella alzerebbe di notte tempo una fiaccola, ed allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già sepolti nel sonno, e li trucidassero, Cosi 8* per appunto addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó Filotide la fiaccola da un certo fico salvatico, tenendola al di dietro ben riparata e coperta con tappeti e cortine, acciocchè lo splendore non fosse da' nemici veduto, e chiaro si mostrasse a' Romani, i quali, come il videro, subitamente uscirono fuori affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi spesse volte l'un l'altro nel sortir dalle porte; ed essendosi avven tati allora improvvisamente sopra i nemici, e superati aven doli, celebrano una tal festa in grazia di quella vittoria; ed un tal giorno è chiamato le None capraline, per cagion del fico salvatico, detto da’ Romani caprificus. Fanno poi un convito alle donne fuori della citta all'ombra de' rami di fico; e si portano quivi le serve con ostentazione, raggiran dosi intorno, e facendo giuochi; e poscia reciprocamente si battono e si percuotono con pietre, come allora che diedero soccorso a’ Romani, e combatterono insieme con essi in quel conflitto. Queste cose sono ammesse da pochi storici: ma intorno all'uso di chiamarsi a nome in quel giorno, e intorno all'andare alla palude della Capra, come ad un sa crifizio, sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima ragione, se per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel giorno medesimo, l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato dalla vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo, e ne aggiugne uno al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37. Silvestro Centofanti. Keywords: filosofia della storia, platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di Plutarco, la prova della relita steriore e la oggettivita della cognizione, storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia della storia, formola logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta, vide Ennio.  Refs.: “Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library. Centofani.

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